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Ben tornati,
a chi mi conosce. Benvenuti, a chi
capita in una mia storia per la prima volta.
L’idea per questo racconto è arrivata per
caso, e devo ringraziare fin da ora Lele Cullen per avermi aiutata a non
cestinare tutto.
Buona lettura.
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Ti ricordi di me?
Capitolo 1
1993
Camila se ne sta
acquattata dietro un cassonetto, contando i bambini che escono uno alla volta
dagli spogliatoi. Ha quattordici anni, gli occhi azzurri come quelli di sua
madre e i capelli castani di suo padre. E’ alta quanto il cassonetto a cui è
appoggiata, e pesa meno di cinquanta kg.
Camila odia il
venerdì. Lo odia più degli altri giorni. Lo odia fin da quando apre gli occhi
al mattino.
Il venerdì è
l’ultimo giorno della settimana in cui le è possibile lavarsi.
Ai suoi genitori
sembra importare poco. A dire il vero, Camila è l’unica a lavarsi quotidianamente.
Lo fa perché vuole sentirsi pulita, perché le piace il profumo del
docciaschiuma che usa velocemente sul suo corpo. Lo fa perché, durante il
tragitto dalla campagna al campo di calcio, può starsene per conto proprio:
lontana dai genitori e dai loro amici.
Quando l’ultimo
bambino è uscito dagli spogliatoi, la ragazza sa che è arrivato il suo momento.
Può entrare. Striscia lungo il muro del campo di calcio per evitare che
qualcuno si accorga di lei. Un gesto inutile, visto che finora mai nessuno si è
accorto della sua presenza. Camila è un fantasma, e non solo a causa della sua
figura malnutrita ed esile. La persone la evitano, a
causa dei suoi capelli arruffati e delle grandi labbra che si notano di più sul
suo viso incavato.
La sua andatura è
dinoccolata, debole a causa del poco cibo che entra nel suo corpo. La gente di
solito la guarda, mormora qualcosa e non fa altro. A
volta si scostano quando lei passa. Questo accade spesso d’estate, quando
Camila non riesce a lavarsi tutti i giorni come vorrebbe.
Lo spogliatoio è
uno stanzone lungo e stretto, con una serie di armadietti e una linea di panche
di legno inchiodate alla parete. C’è poi una porta che conduce alle docce,
ovvero il bagno di Camila.
Con sé, la ragazza
ha un vecchio asciugamano che una volta è stato bianco. Adesso è grigio.
Camila si guarda
intorno, alla ricerca di una confezione di docciaschiuma dimenticata da uno dei
bambini. Di solito è fortunata: i piccoli allievi della scuola calcio non
custodiscono bene i propri averi. Nel corso dei mesi, Camila ha raccolto un
piccolo tesoro in questi spogliatoi: magliette, ciabatte, accappatoi. E tanti
flaconi di docciaschiuma. I bambini li lasciano nelle docce e Camila riesce sempre
a ricavare da essi un po’ di sapone per lavarsi.
Oggi però sembra i
bambini siano stati responsabili. Sul pavimento vi sono soltanto un paio di
piccole ciabatte blu. Nessun flacone mezzo vuoto, nessun tubetto di dentifricio
fatto cadere per distrazione. Una volta Camila ha usato quello per lavarsi. Aveva
i piedi molto sporchi, e non sapeva come altro fare.
“Va bene, mi laverò
soltanto con l’acqua,” dice a sé stessa, camminando
fino all’ultimo ugello della doccia. Appoggia l’asciugamano grigio ad una staffa
di metallo ed inizia a spogliarsi.
Camila sa che deve
essere rapida, perché fra meno di cinque minuti il magazziniere della scuola
calcio verrà a chiudere lo spogliatoio.
Toglie le scarpe,
più grandi di almeno due numeri. Le appoggia sulla finestra chiusa, per evitare
che si bagnino. Toglie i calzini, neri a causa della terra che entra dalle
scarpe, e si ripromette che proverà a sciacquarli dopo aver fatto la doccia. Si
libera dei pantaloni troppo grandi per lei e li sistema accanto alle scarpe
assieme alla cintura che suo padre le ha dato.
Una volta rimasta
nuda, chiude gli occhi con forza, strizzandoli, e apre il rubinetto.
A quest’ora l’acqua
è sempre fredda. Gelida. I bambini hanno consumato quella calda dopo gli
allenamenti, rimanendo sotto la doccia più del necessario. Camila spesso li
sente ridere e giocare mentre aspetta che vadano via.
Si lava usando
entrambe le mani, cercando di far sparire il nero dai piedi e dalle mani.
Immagina che l’acqua sia calda e che sui suoi capelli vi sia dello shampoo
profumato, oppure del balsamo. Ora come ora si accontenterebbe anche di un
tubetto di dentifricio.
Quando le mani e i
piedi sono puliti, Camila decide di terminare la doccia. Chiude l’acqua ed
afferra l’asciugamano, che è piccolo ma perfetto per il suo minuscolo corpo.
Trema, mentre cerca
di asciugarsi.
Forse è per questo
che i suoi genitori evitano di lavarsi tutti i giorni.
Camila pensa a
questo e al fatto che non riuscirà mai a pulire i calzini senza un po’ di
sapone, quando sente una voce provenire dallo spogliatoio.
“Le ho lasciate qui, arrivo subito!”
La voce è quella di
un bambino, e la terrorizza.
Camila sa che non
può essere scoperta. Sa che non può farsi vedere da nessuno.
Non venire qui, non
venire qui. Non entrare nelle docce, resta negli spogliatoi.
La ragazza prega in
silenzio che il bambino trovi in fretta quello che ha lasciato e che vada via
senza accorgersi della sua presenza. Si avvicina all’angolo, continuando a
tremare, sperando che questo momento passi in fretta.
Il bambino è paffuto
e sorridente. Il suo nome è Davide, ed ha sette anni. Il calcio non è il suo
sport preferito, ma lo pratica perché così può frequentare i suoi compagni di
classe anche di pomeriggio, durante gli allenamenti. Davide ha gli occhi
marroni e i capelli biondi.
E ha dimenticato le
sue ciabattine blu.
Quando entra nelle
docce, la prima cosa che vede è Camila. La ragazza è stretta nell’angolo,
spaventata almeno quanto lui. Grida, Davide, spaventato dalla presenza che non
si aspettava di trovare.
“No,
no, no. Non gridare, non
gridare! Non gridare, ti prego.”
Il cuore di Davide
batte forte. Ha paura che la ragazza possa fargli del male, ma non riesce a
spostarsi, ad andare via. E’ fermo lì a causa della paura e dello shock.
“Io-io-io-io devo prendere le mie ciabatte.”
“Prendile, e non
dire a nessuno che mi hai vista qui. Ti prego, non dirlo a
nessuno.”
Davide, gli occhi
allargati per lo stupore, annuisce velocemente e si piega per raccogliere le
ciabatte blu. Le stringe al petto, sentendosi in parte più sicuro.
“Che cosa fai qui?”
chiede avvicinandosi alla porta, pronto a scappare se la ragazza dovesse
cercare di fargli del male. “Frequenti la scuola calcio?”
“No,” risponde Camila. “Vai via, adesso. Hai preso le ciabatte,
vai via. E non dire al magazziniere che mi hai visto, è chiaro?”
“E’ tua quella?” Il
bambino indica la cintura, scivolata a terra.
“Devi andare via,
ti prego!” Camila non sa più come dirglielo. Deve rivestirsi, deve ritornare a
casa.
“Ok,” risponde Davide, annuendo.
“E non dire al
magazziniere che mi hai vista qui!”
Lui annuisce
lentamente, continuando a sgranare gli occhi. “Ciao,”
dice prima di sparire nello spogliatoio.
Camila si riveste
in fretta, con il cuore in gola.
Il magazziniere mi scoverà. Non saprò cosa
dirgli. Chiamerà la polizia, troveranno i miei genitori.
Indossa le stesse
mutandine, gli stessi calzini sporchi, gli stessi pantaloni troppo grandi. Li
lega con la cintura ed infila il maglioncino troppo corto di colore marrone. I
capelli restano bagnati, come sempre.
Corre fuori dallo
spogliatoio dopo essersi accertata dell’assenza del magazziniere. Quando lo
vede in mezzo al campo, impegnato a recuperare palloni e birilli, scappa verso
il cassonetto e prende fiato.
“Per un pelo…”
sospira, stringendo l’asciugamano fra le mani.
Camila torna a casa un’ora dopo, a piedi. Casa è un campo abbandonato in cui lei e
la sua famiglia vivono a bordo della vecchia auto di suo padre. Non sono soli.
Nel campo vivono altre due famiglie, entrambe a bordo di una vecchia auto.
Sua madre, Sofia,
la vede arrivare e la chiama a gran voce. “Camila!
Dove sei stata? Hai comprato il tonno?”
Oh, no.
A causa del
trambusto nelle docce e della paura di essere scoperta, Camila ha dimenticato
di fare l’unica cosa che sua madre le aveva chiesto, ovvero comprare il tonno
per la cena. Il campo di calcio si trova proprio accanto ad un supermercato:
Camila avrebbe dovuto fare l’acquisto dopo l’ultima doccia della settimana, ma
se ne è dimenticata.
Camila sa quale
sarà la sua punizione. L’ha provata spesso, fin da quando era una bambina.
Nella stessa notte
in cui Davide, il bambino paffuto e sorridente, dorme beato nel suo lettino,
con le ciabatte blu chiuse nella scarpiera, Camila resta sveglia fuori
dall’auto, tremando a causa del freddo e maledicendosi per non aver ricordato
di comprare la cena.
I suoi genitori
dormono all’interno della vecchia Golf color amaranto, mentre lei sconta la sua
punizione.
***
E’ lunedì.
Camila è nascosta
dietro il cassonetto, pronta a scattare.
Il campo resta
chiuso durante il fine settimana, e ciò vuol dire che per due giorni non è
riuscita a lavarsi.
Quando anche
l’ultimo bambino ha lasciato gli spogliatoi con addosso il
borsone sportivo, la ragazza entra e va dritta alle docce. Pur sapendo che
l’acqua fredda è tutto ciò che l’attende, non vede l’ora di sentirla scorrere
sul suo corpo. Per qualche minuto desidera sentirsi normale, pulita, libera.
Come immaginava, l’acqua è gelida. La fortuna però ha voluto che
sul pavimento ci fosse un flacone di docciaschiuma.
Camila lo usa sorridendo,
felice come non mai di potersi profumare con del buon sapone. Spreme la
confezione su una mano fino a svuotarla e cerca di insaponarsi ovunque: sul
collo, fra le dita dei piedi, sui capelli. La schiuma è inesistente, ma a lei
sembra di trovarsi in una di quelle grandi vasche in cui le persone ricche
fanno il bagno e si rilassano. Una di quelle vasche in cui la schiuma è simile
alla panna montata.
Il suo stomaco
brontola, al pensiero della panna montata. L’ha assaggiata una sola volta,
quattro anni fa, e se ne è innamorata.
Quando va al
supermercato per conto di sua madre, che non lascia mai la loro casa per paura che possano portargliela
via, Camila si diverte a tenere fra le mani tutte le cose che non potrà mai
comprare. Pacchi di biscotti al cioccolato, vasetti di Nutella, bombolette di
panna montata. Annusa le confezioni, cercando di inebriarsi del profumo dolce,
ed immagina quanto sarebbe bella la sua vita se potesse fare colazione con del
latte e una brioche. A volte osserva le figure sulle confezioni, e sogna ad
occhi aperti. Se avessi un tavolo su cui
appoggiare una tazza. Se avessi una tazza bianca e candida. Se potessi spalmare
la marmellata di castagne su una fetta di pane.
Spesso i commessi
del supermercato la guardano senza dire niente. Sanno che la sua famiglia è
povera, e sanno che quello di Camila è solo un sogno ad occhi aperti. Si fidano
di lei, sanno che non ruberebbe mai nulla, per cui le permettono di gironzolare
nelle corsie, anche se tutto ciò che le occorre è una scatoletta di tonno, o
una di lenticchie, o una birra scadente per suo padre.
Camila sogna ad
occhi aperti anche adesso, e non si rende conto della voce di Davide che
proviene dagli spogliatoi.
Il bambino, che
stavolta ha dimenticato i pantaloncini della divisa, sente scorrere l’acqua
della doccia. “C’è ancora qualcuno?” chiede guardando verso la porta.
“Giuliano, sei tu?”
Camila riconosce
immediatamente la sua voce. Chiude l’acqua e trova riparo nell’asciugamano
grigia, pregando in silenzio che il bambino vada via.
“Giuliano?” Con i
pantaloncini fra le mani, Davide va alle docce e grida di nuovo quando si
accorge di Camila.
“Vai via,” gli dice lei. “E non dire a nessuno che mi hai vista.”
Davide è
spaventato, ma solo perché non si aspettava di ritrovare la ragazza. Non ha paura
come l’altra volta. Non teme che lei possa fargli del male.
“Come ti chiami?”
le chiede.
“Vai via,” risponde lei. “E non dire a nessuno che mi hai vista.”
Davide non riesce a
capire perché lei non voglia far sapere che è qui.
“Come ti chiami? Io
sono Davide.”
“Davide, vai via.”
Camila ha freddo.
Vuole rivestirsi ed tornare a casa. E magari trovare un altro posto in cui
potersi lavare senza interruzioni.
“Perché ti lavi
qui?” chiede Davide. “Se non ti alleni e non fai parte della scuola calcio non
puoi usare gli spogliatoi…”
Il bambino è
incuriosito. Vuole capire.
“Non
ce l’hai una casa?
Perché vieni a lavarti qui? L’acqua è fredda.”
La guarda dalla
testa ai piedi, con gli occhi grandi. “I tuoi piedi sono neri.
Che cosa hai fatto?”
Camila non sa come
rispondere. Non vuole gridare, perché sa che attirerebbe l’attenzione del
magazziniere.
“Io sono povera,” dice senza pensarci. “Non ce l’ho una casa. Adesso vai
via.”
“Sei povera?”
chiede Davide. “E la tua mamma? Non ce l’hai una
mamma? E dove vivi?”
“Vai via,” lo implora Camila. “Ti prego.”
Davide infila una
mano nella tasca dei jeans puliti, e da essa tira fuori una barretta al
cioccolato. L’ha appena comprata, allo stesso supermercato in cui Camila sogna
di poter fare colazione con latte e biscotti.
“La
vuoi? E’ una barretta. E’ buona.”
Camila ha
assaggiato quel dolcetto una sola volta, quando una delle cassiere gliel’ha
regalata. Era Natale.
“Tieni,
mangiala. E’ buona.”
Davide percorre la distanza che li separa senza paura.
Quella ad avere
paura è Camila, che si chiude nell’angolo e guarda Davide come se fosse un
mostro in procinto di aggredirla. E’ più basso di lei, ma ciò nonostante
rappresenta un pericolo ai suoi occhi.
Davide appoggia la
barretta sulla finestra, accanto alle scarpe. Le osserva per un attimo, il
tempo di accorgersi che sono rotte in corrispondenza dei talloni.
“Queste sono le tue
scarpe?”
Camila gli fa segno
di sì con la testa. “Devo rivestirmi,” gli dice. “Devi
andare via. Per favore.”
Davide continua a
fissare le scarpe. “Come ti chiami?”
“Camila,” risponde lei esasperata. “Adesso vai.”
“Camilla?”
“No, Camila. Con
una L.”
“Camila,” ripete lui, sorridendo per quello che pensa sia un
errore. “Verrai anche domani? Io verrò anche domani. Se vuoi… se vuoi posso
portarti un’altra barretta. Sono buone, sono le mie preferite.”
“Ok,” dice lei per liberarsene. “Adesso vattene.”
“Ok,” risponde lui, dispiaciuto per i modi un po’ bruschi di
lei. “Ciao, Camila.”
Il giorno dopo,
martedì, Davide aspetta che suo padre vada a prenderlo e si accorge di Camila,
nascosta dietro il cassonetto. Corre verso di lei e le lascia tre barrette al
cioccolato. La ragazza le mangia mentre torna a casa, felice per essere
riuscita a mettere qualcosa sotto i denti.
Mercoledì, Camila
trova una confezione di docciaschiuma sulla finestra, nel posto in cui appoggia
sempre i vestiti prima di fare la doccia. Dietro il docciaschiuma c’è una
barretta al cioccolato. La mangia mentre fa la spesa nel supermercato, felice
per avere – una volta tanto – la pancia piena.
Camila sa che è stato
Davide a lasciarle il sapone e la cioccolata.
Vorrebbe dirgli
grazie, ma anche di smetterla. Ha paura, Camila, che
il bambino possa metterla in un guaio. Che il magazziniere possa rendersi conto
di ciò che succede nelle docce quando gli allenamenti sono finiti. Che i suoi
genitori possano per questo punirla di nuovo, facendole trascorrere la notte
all’aperto, seduta sul terreno scuro del campo in cui vivono, mentre loro
dormono nella vecchia Golf.
Giovedì, Camila
vede Davide, ma lui non riesce a vedere lei. Il bambino ha una busta di
plastica fra le mani e Camila vorrebbe tanto sapere cosa nasconde, ma non può.
Non può approfittare del bambino e non può rischiare di essere scoperta dagli
altri.
Entra nelle docce
con l’asciugamano e il flacone di docciaschiuma fra le mani, felice all’idea di
potersi lavare come si deve.
Il giorno dopo, venerdì,
Davide aspetta Camila nelle docce. E’ lei ad urlare, stavolta, quando lo vede.
“Ti ho portato
queste,” dice lui porgendole la busta di plastica che
aveva in mano giovedì. “Sono di mia sorella. Le ho prese in soffitta, sono
vecchie, ma non sono rotte come le tue.”
Un paio di scarpe. Davide
le ha portato un paio di scarpe.
“Sono da femmina,” le spiega lui. “Sono di mia sorella. Ti vanno? Provale.”
“No,” risponde lei. “Non posso accettarle.”
“Perché? Priscilla
non le usa, e le tue sono rotte. Prendile. Vuoi una
barretta?” Dalla tasca dei jeans tira fuori tre barrette e gliele mette in mano.
“Sono buone, non è vero?”
“No,” dice Camila con un nodo alla gola. “Non posso accettare
tutto questo… no.”
I suoi genitori
accetterebbero tutto, e probabilmente chiederebbero qualcosa in più. Ma Camila
prova vergogna, e si sente in colpa. Un bambino di sette anni non dovrebbe
occuparsi di lei in questo modo.
“Se non le prendi
lo dirò al magazziniere,” dice Davide sollevando la
testa. “E chiamerò anche mio padre. Prendile, Camila.
Sono soltanto delle scarpe. Sono rosa. Sono da femmina. Ti piacciono? Provale.”
Camila le prova.
Sono grandi, ma non troppo grandi. Sono calde.
“Ti piacciono?”
chiede lui sorridendo.
“Sì,” risponde lei commuovendosi. “Grazie.”
“Prego,” dice Davide. “Adesso prendi anche le barrette. Mangiale.”
Lo stomaco brontola
di nuovo quando morde la prima. Davide se ne accorge.
“Aspettami qui, ok? Torno subito, Camila. Non
ti muovere.” Fa per allontanarsi, ma lei lo trattiene per un braccio.
“Stai andando a
chiamare qualcuno?” chiede terrorizzata.
“No,” dice lui. “Aspettami, torno
subito.”
Camila potrebbe
fuggire, portando con sé le barrette e le scarpe, ma non lo fa. Davide è stato
talmente gentile e generoso che lei non riesce a muoversi dalle docce.
Quando il bambino
rientra, ha un involucro giallo fra le mani.
Camila capisce
subito di cosa si tratta. Il suo olfatto elabora il profumo velocemente.
“Tieni,” le dice Davide. “Ti piace il prosciutto cotto?”
Scarta il panino e
glielo porge. “Vuoi anche una Coca Cola? Posso andare a prendertene una se vuoi.”
“No,” dice lei a bassa voce. “No. Grazie,”
aggiunge guardando i suoi occhi marroni. “Grazie, Davide.”
“Prego,” risponde lui.
La osserva mentre
mangia fino all’ultima briciola, soddisfatto e contento.
“Domani il campo è chiuso, dove andrai a lavarti?” le chiede ad un tratto.
Lei scuote il capo.
“Non mi laverò fino a lunedì,” risponde.
“Vuoi venire a casa
mia? Potresti conoscere Priscilla. Potresti usare il nostro bagno.”
“No,” risponde subito lei. “Non posso.”
“Perché? Possono
venire anche i tuoi genitori, se vogliono.”
“No,” ribatte Camila. “Meglio di no.
Adesso devo andare,” dice raccogliendo le vecchie
scarpe.
“Aspetta,” dice lui. “Come farai… come farai a mangiare fino a
lunedì? Ci sarà qualcun altro che… come farai?”
Camila scrolla le
spalle. “In un modo o nell’altro riuscirò a mangiare. Non preoccuparti,” dice arruffandogli i capelli biondi. “Grazie per le
scarpe e per il cibo. E per il sapone.”
“Verrai lunedì?
Vuoi che ti porti qualcosa di speciale? In soffitta ho trovato anche un
giubbotto, lo vuoi? Posso nasconderlo nel borsone. Il prosciutto cotto ti è
piaciuto? Posso portare un panino da casa, come quello che mia madre prepara
per me.”
“No,” dice lei con veemenza. “Non voglio niente,
Davide. Non devi metterti nei guai per me.”
“Ma tu… tu sei
povera,” risponde lui sottovoce, vergognandosi quasi.
“Lo so, ma questo
non è un tuo problema. Hai già fatto molto per me. Non devi preoccuparti,
chiaro?”
Davide non è
convinto delle sue parole, ma abbassa gli occhi ed annuisce. “Verrai comunque
lunedì?”
“Sì,” risponde la ragazza. “Ciao, Davide.”
“Ciao, Camila. Ci vediamo lunedì.”
Davide la guarda
andare via, con ai piedi le scarpe di sua sorella e
nello stomaco il panino che lui le ha comprato con i soldi della paghetta.
E’ contento di
averle dato una mano, anche se ci sono molte cose che ancora non sa.
Non sa, Davide, che
Camila passerà la notte all’aperto, in punizione, perché non dirà ai genitori
da dove arrivano le nuove calzature.
Non sa, Davide, che da lì a quarantotto ore la ragazza partirà
con i suoi genitori per la Germania.
Non sa, Davide, che
dovranno passare diciassette anni prima di rivedere Camila.
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E’ la seconda volta che scrivo qualcosa in
terza persona. Fatemi sapere se è il caso che continui o che lasci perdere XD
Wow. Devo ammetterlo, non mi aspettavo una
risposta così numerosa e positiva per il primo capitolo. Grazie per ogni commento
ricevuto, grazie infinite ad ognuno di voi.
Prima di lasciarvi all’aggiornamento, ci
tengo a dirvi che ho sollevato il rating a giallo. Avrei dovuto farlo fin
dall’inizio, ma me ne sono dimenticata. Sorry.
Buona lettura.
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Capitolo 2
2010
Davide ha ora
ventiquattro anni. Studia ingegneria in un’università molto prestigiosa, e
pensa che riuscirà a laurearsi entro il 2011.
Ha perso la
pancetta che aveva da bambino ed è diventato molto alto. Adesso è poco meno di
un metro e ottanta. I capelli sono rimasti biondi e gli occhi sono sempre
marroni.
Quindici anni fa,
due anni dopo l’incontro con Camila, suo padre è morto. Il suo nome era Cosimo;
faceva un lavoro difficile e pericoloso, il poliziotto. Durante un posto di
blocco, dei malviventi gli hanno sparato, ferendolo a morte.
La madre di Davide,
la signora Simona, si è risposata cinque anni dopo, con un produttore di olio
extra vergine. Davide si è trasferito nella città in cui studia adesso, ha
cambiato scuola ed amici, ha abbandonato la scuola calcio.
E’ cresciuto in
maniera serena, grazie anche alla vicinanza di sua sorella Priscilla. Lei e sua
madre hanno saputo dargli l’affetto di cui aveva bisogno dopo la morte di
Cosimo. Anche Giancarlo, il suo patrigno, ha contribuito alla sua crescita. Con
lui, Davide ha parlato di sport, di politica, di scuola. Grazie a lui, ha
imparato a fare il nodo alla cravatta e ad essere educato e galante con le
donne.
Ciò nonostante, a
Davide è sempre mancato suo padre. Il suo vero padre. Con Cosimo, ogni
conversazione era spontanea, naturale. Con lui si sentiva a casa. Guardava a suo
padre, Davide, sapendo che egli rappresentava ciò che di giusto e rispettabile
esisteva nella sua vita. Lo amava e lo temeva. Lo venerava e gli ubbidiva.
Questa mancanza ha
inciso su alcuni aspetti della sua vita. Negli anni travagliati del liceo,
quando scopriva l’altro sesso ed i rapporti d’amicizia erano diversi rispetto
alle elementari, Davide desiderava più di ogni altra cosa la presenza di suo
padre. Dopo la maturità, quando ha dovuto scegliere la facoltà più adatta alle
sue inclinazioni, avrebbe voluto ascoltare il parere di suo padre. E
quotidianamente, quando si trova di fronte ad una scelta o ad un problema,
Davide si chiede sempre “Cosa farebbe papà?” oppure “Papà sarebbe orgoglioso di
ciò che ho fatto?”
Simona, Priscilla e
Giancarlo rappresentano per lui una famiglia solida e presente, ma l’assenza di
Cosimo l’ha condizionato e lo condiziona.
Capitano volte in
cui Davide non riesce a ricordare la voce di suo padre, oppure non riesce ad
immaginare un suo consiglio, un suo parere. In quei momenti, quando si sente
smarrito, la rabbia lo assale. In quei momenti, invidia Priscilla e sua madre
che conservano una quantità maggiore di ricordi di Cosimo. In quei momenti,
odia Giancarlo. Lo fa sapendo che lui non è stato la causa della morte di suo
padre. Lo fa sperando quasi di poter dimenticare tutto e vivere bene come fa
sua sorella.
Ma la vita di
Davide non è solo questo.
E’ uno studente
brillante, orgoglio di sua madre e dei suoi vecchi insegnanti. E’ un amico
simpatico ed affidabile. E’ un ragazzo attraente e desiderato, non solo per il
suo aspetto.
Dal terzo anno di
liceo, Davide è stato conteso da molte ragazze. All’inizio non faceva nulla per
attirare la loro attenzione. All’inizio non pensava di poter essere bravo nelle
vesti del fidanzato. Col passare del tempo, storia dopo storia, ha cambiato
idea.
Adesso, a
ventiquattro anni, Davide può dire di avere una discreta esperienza con il
gentil sesso. Non ha mai avuto una relazione stabile, nel senso stretto del
termine. Si è innamorato due volte: la prima al liceo, ma egli non crede che i
sentimenti per Antonella fossero vero amore, e la seconda volta al primo anno
di università. Carla, questo era il nome della studentessa di economia, era –
purtroppo per Davide – già fidanzata.
Le sue relazioni
sono sempre temporanee, precarie. Lui non cerca l’amore, e l’amore non cerca
lui.
Il ragazzo non se
ne cruccia: è giovane, è bello, le ragazze non sono un problema.
Come Alessia, ad
esempio, la ventunenne con cui ha appena finito di mangiare una pizza.
Si sono conosciuti
ad una partita di hockey su prato, lo sport praticato da Priscilla.
Hanno visto insieme
qualche match, Davide e Alessia, fino a che lui le ha chiesto di uscire.
Lei ha accettato
immediatamente, ed ora sono al terzo appuntamento.
E’ una ragazza
carina, molto carina. Più bassa di Davide, ha i capelli biondi ed il viso
tondo. Il seno è prosperoso e delizioso, e lui l’ha notato subito, perché il
seno è una delle prime cose che osserva in una ragazza. Quello, e le orecchie.
Non sa perché gli piacciano tanto le orecchie, in una ragazza, mentre è
facilmente immaginabile perché preferisca il seno.
Alessia studia
scienze politiche alla sua stessa università. Non è originaria di Roma, e i
suoi genitori sono entrambi avvocati.
“Oh, grazie,” dice lei quando Davide apre lo sportello della sua auto
per farla salire. Le prende perfino la mano per aiutarla.
Davide sa che alle
donne piacciono certe accortezze. Sa che, di fronte ad un certo tipo di
trattamento, anche la ragazza più tesa si addolcisce.
Non che Alessia sia
tesa. Lei è perfettamente a suo agio: si gode il trattamento da principessa e
non vede l’ora che Davide si spinga più
in là.
“La pizza era molto
buona,” gli dice mentre lui mette in moto la vettura.
“Però avresti dovuto lasciarmi pagare la mia parte.” Lo dice, ma in realtà non
lo pensa: è contenta che Davide le abbia fatto riporre il portafoglio nella sua
borsa di Louis Vuitton.
“Smettila,” ribatte lui con un sorriso. Guida con sicurezza, ma senza
una meta precisa.
Non se la sente di
accompagnare la ragazza a casa, ma non vuole neppure andare a finire in un club
o in un cinema. E’ venerdì, e le probabilità che accada l’una o l’altra cosa
sono piuttosto elevate.
“Permettimi allora
di offrirti una birra,” dice Alessia. “Ti va?”
Prima di
rispondere, Davide lancia uno sguardo al suo enorme seno, di cui può ammirare
il sodo incavo attraverso lo scollo della maglia che lei indossa.
“Certo che mi va,” risponde sollevando gli occhi sul suo viso. “Andiamo al
Robin Hood?”
“A
dire il vero… potremmo andare da me.
E’ venerdì, l’appartamento è vuoto.” Nel dirlo, si bagna le labbra, lanciando
con il corpo un segnale che Davide ha imparato a conoscere molto bene.
Alessia non vuole
soltanto bere una birra.
“Ok,” risponde con voce più bassa. “Andiamo da te.”
Il viaggio è
pressoché silenzioso. Davide ed Alessia si scambiano poche parole, forse a
causa della tensione sessuale creatasi in una manciata di secondi. Commentano
un pezzo passato in radio, lui le chiede come va lo studio per il suo prossimo
esame. Gli sguardi che si scambiano, però, sono sguardi di chi pensa a tutto
tranne che alla musica o all’università.
Arrivati nel
parcheggio del palazzo in cui vive la ragazza, Davide parcheggia e spegne il
motore.
“Oh, no…”
Alessia si sporge
in avanti, guardando in alto, in corrispondenza del suo piano.
“Che c’è?” chiede
lui, sporgendosi come lei ma affondando gli occhi nella scollatura.
“Una
delle mie coinquiline è in casa.
Ma non importa,” spiega. “Possiamo starcene nella mia
stanza,” dice con un sorriso che infiamma il suo volto
e quello di Davide.
“Avrei dovuto
immaginare che non sarebbe uscita,” dice Alessia
quando sono nel portone. “Non esce mai.”
“E’ una studentessa
come te?” chiede lui per fare un po’ di conversazione.
“No,” risponde la ragazza. “E’ più grande di noi. Lavora, ma
non ho idea di cosa faccia. Non parliamo molto. A dire il vero non parla
neppure con l’altra coinquilina.”
“Perché fai quella
faccia?” chiede Davide, notando la bocca di lei arricciata in una espressione di disgusto.
“Perché
secondo me è matta. Io e
Ida, l’altra coinquilina, l’abbiamo soprannominata La Pazza. Se ne sta sempre
chiusa in camera, esce solo per prepararsi la cena o per prendere qualcosa
dalla dispensa. A stento sappiamo che faccia abbia.” Alessia
ride ed aggiunge qualcos’altro, ma Davide non l’ascolta. Vorrebbe
chiederle perché, secondo lei, una persona riservata debba essere automaticamente
matta, ma la risata di lei si riflette sul suo corpo, in particolare sul
decolleté, che rimbalza vistosamente.
Davide non riesce a
prestarle attenzione, concentrato com’è su una cosa specifica.
Al diavolo la birra, al diavolo La Pazza. Voglio solo spogliarla
ed affondare dentro di lei.
L’appartamento di
Alessia è al terzo piano. Una volta raggiunto, grazie all’ascensore, la ragazza
apre la porta e si guarda in giro, alla ricerca della coinquilina.
“Non c’è,” dice facendo entrare Davide. “Deve essere andata a
dormire.” Indica la porta che si trova in fondo al corridoio. “Quella è la sua stanza. Quella accanto è la mia. Vieni,” dice prendendolo per mano. “Andiamo.”
In cucina, Alessia
appoggia la borsa sul tavolo ed apre il frigorifero. “L’apribottiglie è nel
primo cassetto,” dice passandogli una birra ed
indicando un mobile.
“E’ un posto
tranquillo,” dice lui.
La cucina è
piccola, con le mattonelle bianche e blu e le sedie di legno. Una tipica cucina
in una tipica casa di studenti. Lui ne ha viste molte, avendo parecchi amici
che non sono di Roma, ed avendo frequentato diverse studentesse.
Bevono la birra in
silenzio, lo stesso silenzio carico di tensione di poco prima.
Lui è appoggiato
alla cucina; lei gli va incontro, ondeggiando i fianchi.
“Non ti ho fatto i
complimenti per questo completo,” gli dice dopo aver
bevuto un sorso. “Il nero ti sta da Dio…”
“Da quando in qua
sono le donne a complimentarsi per l’abbigliamento?”
“Ti spiace che
abbia fatto un apprezzamento?” chiede ammiccando.
“Affatto,” risponde Davide, ingoiando il liquido fresco. “Anzi, mi
sento piuttosto lusingato,” aggiunge, allargando le
gambe per fare spazio a lei.
Alessia sorride e
beve un altro po’ di birra. Lui ne approfitta per catturare una ciocca di
capelli sfuggiti alla coda alta.
“Ti va di mostrarmi
la tua camera?” chiede a bassa voce. Appoggia la bottiglia di birra su un
ripiano, sapendo che di lì a due minuti non ne avrà più bisogno.
“Volentieri,” risponde Alessia, compiendo un altro passo nella sua
direzione. Lo prende per mano e lo attira a sé per baciarlo. Davide non si tira
indietro: ha sempre apprezzato le ragazze propositive, attive.
E Alessia è molto
attiva. Lo conduce nella sua stanza, chiude la porta a chiave e gli salta
letteralmente addosso, dando vita ad una spettacolare notte di passione,
esaudendo il desiderio che Davide ha avuto fin dal giorno in cui l’ha vista per
la prima volta alla partita di hockey di Priscilla.
Il mattino dopo, lui
è il primo a svegliarsi. Il lettino di Alessia è comodo per il sesso, ma non
per il riposo. La schiena gli fa male, e inoltre ha bisogno di andare al bagno.
Scende dal letto
liberandosi dalle braccia della ragazza, e in punta di piedi esce dalla stanza.
In casa non vola una mosca, tutto tace.
Si chiude in bagno
per un attimo e poi decide di fare una capatina in cucina per bere un sorso
d’acqua. Nel breve tragitto bagno-cucina ripensa alla notte trascorsa, e non
può fare a meno di sentirsi orgoglioso di se stesso. Ha ventiquattro anni: la
vita per lui è una tela bianca da riempire di sogni e di notti passate con una
prosperosa bionda a cavalcioni sui suoi fianchi.
Dal frigorifero
afferra una bottiglia d’acqua e poi va alla ricerca di due bicchieri, uno per
sé e uno per Alessia.
Apre uno degli
sportelli dei mobili appesi al muro, e rimane a bocca aperta.
L’intero pensile è
stipato di barrette di cioccolato di ogni tipo, di ogni gusto.
“Wow…”
Gli sembra di
trovarsi dinanzi allo scaffale di un supermercato, o in una pasticceria ben
fornita.
“Chi sei?”
Davide salta in
aria, spaventato a causa della voce appena sentita.
Si volta verso
sinistra e nota una ragazza che non è chiaramente Alessia.
Pensa che sia La Pazza.
Non sa che il suo
nome è Camila.
---
Ad Alessia ho scelto di dare il mio nome per
non far impazzire il neurone. A differenza della ventunenne, non sono bionda e
non ho una quinta di reggiseno. Meh.
Camila non ha mai
dimenticato il volto di Davide. Ha dimenticato parecchie cose, nel corso degli
anni, ma quel ricordo non ha mai lasciato la sua mente.
Ha pensato a lui
quando ha passato la notte fuori casa, dopo che lui le aveva regalato le scarpe
rosa di Priscilla. Ha pensato a lui quando è partita, lasciando la Puglia per attraversare lo
stivale e arrivare in Germania. Ha pensato a lui quando si è ritrovata in una
vera casa, con pareti e finestre, con un tavolo per fare colazione ed un letto
su cui dormire.
Ha tenuto le scarpe
di Priscilla ai piedi fino a quando suo padre non ha portato a casa un paio di
ciabatte vecchie e i soldi per comprare nuove calzature. Le ha tenute con sé
fino a quando ha lasciato la
Germania, a diciassette anni.
Subito dopo
l’arrivo in Germania, lei e la sua famiglia hanno vissuto un periodo di
rinascita. Nessuno di loro conosceva il tedesco, ma nel palazzo di periferia in
cui vivevano hanno conosciuto due famiglie di italiani, residenti in quel posto
da più di vent’anni. Chiacchierare con loro li faceva sentire a casa, in un
certo senso.
Camila era felice
di potersi lavare in un bagno tutto suo e di mangiare qualcosa di diverso dal
tonno stoppaccioso o dai legumi in scatola. Sua madre poteva uscire
liberamente, senza temere che qualcuno le portasse via la vecchia Golf.
I suoi genitori
lavoravano in una fabbrica che produceva cerniere lampo. Sofia lavorava dalle
otto del mattino alle otto di sera, e Mario dalle otto di sera alle otto di
mattina.
Lo stipendio di entrambi
permetteva loro di pagare l’affitto dell’appartamento con due camere da letto,
mantenere la Golf,
comprare il cibo e pagare le bollette.
Camila si occupava
della casa, ed era felice di farlo. Le piaceva cucinare, rassettare, andare a
fare la spesa. Suo padre passava le ore diurne a letto, a dormire, e la ragazza
non andava a scuola: non aveva altro da fare se non la casalinga. Inoltre,
sapeva bene che sua madre sarebbe stata stanca, una volta uscita dalla
fabbrica. Voleva, Camila, evitare che si stancasse ulteriormente per preparare
la cena ed il pranzo per il giorno dopo.
I figli dei vicini
di casa italiani avevano pochi anni in più rispetto alla ragazza. Due di loro
studiavano, mentre un altro (il più grande dei tre ragazzi) lavorava in una
fabbrica che produceva telefoni.
Camila avrebbe
voluto trascorrere il tempo con loro; cercare di fare amicizia, imparare il
tedesco per poter guardare la tv e per leggere i giornali, ma i ragazzi erano
impegnati nelle loro cose, spesso assenti, e comunque non hanno mai espresso
una viva curiosità nei suoi confronti.
Lei e i suoi
genitori erano i più poveri, gli ultimi arrivati, quelli che dovevano
necessariamente arrangiarsi da soli.
Camila l’ha fatto,
si è arrangiata da sola.
Ha imparato a
leggere il tedesco andando al supermercato, facendo la spesa. Ha passato ore ed
ore nelle corsie, cercando di memorizzare le parole e ascoltando gli altri
parlare.
Non ha mai imparato
la lingua fluentemente, ma nei tre anni trascorsi lì è riuscita a farsi
comprendere dagli abitanti del luogo, dalle cassiere, dai fruttivendoli e dai
giornalai.
Ha letto e riletto
centinaia di volte gli stessi giornali, fino a memorizzare le parole. Ha visto
decine di film e decine di soap opera.
E ha mangiato tante
barrette al cioccolato. Quando le ha viste al supermercato, ha ricordato per
l’ennesima volta il viso di Davide, paffuto e sorridente. Ne ha comprato un
pacco, è tornata a casa e le ha mangiate una alla volta. Quando sono finite, è
ritornata al supermercato ed ha acquistato altri due pacchi di barrette.
Continuava ad
essere povera, ma adesso poteva permettersi i dolcetti, il docciaschiuma al
profumo di miele e dei pantaloni della sua taglia, puliti e privi di buchi. Lavava
il bucato per lei e per i suoi genitori, felice di stendere ad asciugare
calzini bianchi e asciugamani privi di sporcizia grigiastra.
Due anni dopo il
loro arrivo in Germania, quando Camila aveva sedici anni, accaddero due cose.
Nel mese di Marzo,
la madre della ragazza venne licenziata, a seguito di un alleggerimento del
personale. Arrabbiato e furioso, Mario picchiò malamente il direttore della
fabbrica, reo - secondo lui - di aver licenziato ingiustamente sua moglie. Inutile
dirlo, venne anch’egli licenziato.
Da un giorno
all’altro Camila si ritrovò di nuovo senza docciaschiuma, senza barrette, senza
detersivo per fare il bucato.
I pochi soldi messi
da parte servivano per pagare l’affitto e le bollette.
Il periodo di
rinascita era vicino alla conclusione. I genitori di Camila litigavano spesso.
Non cercavano un nuovo lavoro perché non sapevano fare altro che piegare
plastica e produrre cerniere, ed erano entrambi troppo arrabbiati per riuscire
a ragionare con chiarezza. Sono sempre stati poco inclini al lavoro, e
probabilmente è stato solo grazie ad un miracolo che abbiano resistito in
fabbrica per due anni.
Camila decise di
cercarsi un’occupazione. Non aveva un titolo di studio, non conosceva bene la
lingua. Non sapeva fare molto, tranne che cucinare e pulire. Andò a finire a
casa di una signora che aveva conosciuto al supermercato. Lei aveva bisogno di
qualcuno che pulisse e facesse da mangiare, Camila aveva bisogno di un lavoro.
Il marito della
donna era un medico, e lo studio si trovava all’interno della casa.
Camila non
guadagnava molto, ma i coniugi Bauer – due persone di
mezza età molto gentili - si affezionarono particolarmente a lei. Le donavano
grandi cesti di frutta e verdura, le regalavano vestiti e borse. Il signor Bauer, colpito dall’andatura dinoccolata della ragazza, le
fece fare gratuitamente degli esami del sangue e le prescrisse una cura a base
di calcio ed altre vitamine.
Camila era felice
di lavorare per loro. Li considerava come dei vecchi zii, invece che datori di
lavoro.
I suoi genitori
rimanevano a casa, prevalentemente ad oziare. Quando non oziavano, litigavano.
I soldi guadagnati
da Camila erano sufficienti per le spese più importanti, per cui i due si
lasciarono andare definitivamente, contenti per il fatto che il frigorifero e
la dispensa fossero sempre pieni.
Quando Camila
rientrava a casa, nel pomeriggio, doveva occuparsi della cena, e del pranzo per
il giorno successivo.
Sei mesi dopo aver
trovato lavoro presso i Bauer, accadde un’altra cosa:
Umberto, il figlio dei vicini che lavorava nella fabbrica di telefoni, iniziò
ad interessarsi a lei.
Camila non aveva
mai provato attrazione per un ragazzo. Non aveva mai dato un bacio, non aveva
mai pensato di poterlo fare.
Grazie alla corte
di Umberto, un ragazzo basso ma ben piazzato, Camila scoprì tutte quelle cose.
Si innamorò per la prima volta, diede il suo primo bacio, perse la verginità.
Aveva diciassette
anni quando Umberto le chiese di diventare sua moglie. Lui ne aveva ventidue,
ed era deciso a ritornare in Italia, il paese in cui era nato e in cui voleva
costruire una famiglia.
I genitori di Camila
non volevano che sua figlia si allontanasse; sapevano che il suo ritorno in
Italia avrebbe significato la perdita dei sussidi tedeschi di cui lei
beneficiava in quanto lavoratrice a basso reddito. Sapevano che il suo
matrimonio avrebbe significato, per loro, la necessità di cercarsi un lavoro.
Ciò nonostante,
acconsentirono alle nozze e vi parteciparono. La cerimonia si tenne in
Basilicata, nel paesino da cui erano partiti i genitori di Umberto. Il vestito
di Camila era arrivato in regalo dai Bauer, che le
promisero di assumere sua madre e le augurarono una vita felice e tanti bei
bambini. Il matrimonio fu molto semplice. Di ogni spesa si occupò la famiglia
dello sposo - felice di Camila, ma meno dei suoi genitori.
La ragazza era
entusiasta della sua nuova vita. Voleva una bella casa, una bella famiglia.
Voleva dei figli con l’uomo che amava.
I suoi tornarono in
Germania e lei li lasciò andare, sapendo che non avrebbe potuto sostenerli a
causa delle tante spese successive al matrimonio. Aveva diciassette anni. Riusciva
a camminare meglio, grazie alle vitamine del dottor Bauer,
e si sentiva felice accanto ad Umberto.
Ricordava il volto
di Davide nonostante avesse lasciato le scarpe di sua sorella in Germania. Lo
ricordava quando andava a fare la spesa, mentre Umberto era al lavoro, in una
fabbrica che produceva piatti e bicchieri di plastica. Lo ricordava quando
vedeva un bambino con in mano un pallone da calcio.
Lo ricorda adesso,
mentre Davide gli è davanti, nella cucina della casa in cui vive da tre anni.
Non crede ai suoi
occhi, Camila. Vorrebbe poter dire che sta sognando, che si sta sbagliando, ma
sa di essere sveglia e sa con certezza che il ragazzo di fronte a lei è Davide.
Il bambino con le
ciabattine blu, il bambino che le regalò un panino al prosciutto.
Camila non l’ha mai
dimenticato.
E adesso è lì,
davanti al suo pensile, quello colmo di barrette al cioccolato.
Che strano scherzo
del destino, pensa Camila. Sono passati quasi vent’anni, e ci ritroviamo
dinanzi alla cioccolata.
Davide è cambiato.
E’ cresciuto, ma gli occhi sono grandi e marroni come diciassette anni fa. I
capelli sono dello stesso colore, e anche il naso è lo stesso.
Tuttavia potrebbe
sbagliare. Potrebbe confondersi. Potrebbe semplicemente essere suggestionata
dai ricordi.
“Chi sei?” gli
chiede ad alta voce.
“Um… ciao,” dice lui, con una voce chiaramente diversa da quella di
un bambino. “Mi chiamo Davide, sono un amico di Alessia. Sto cercando i
bicchieri, sai dove posso trovarli?”
E’ lui, pensa. E’
Davide.
“Nell’ultimo sportello
a destra,” dice. La voce trema a causa dell’emozione.
Mi ha riconosciuta?
Si ricorda di me?
“Grazie,” risponde lui. Chiude gli sportelli del pensile e
trova i bicchieri in quello nell’angolo.
Camila nota che è
molto alto, e magro. Chissà cos’ha fatto in tutti questi anni. Chissà perché si
trova qui a Roma. Pensa a tante domande, e si dà tante risposte. Forse è uno
studente. Ha detto di essere amico di Alessia, forse frequenta la sua stessa
università.
Dopo aver trovato i
bicchieri, Davide si ferma a fissare Camila. Lo fa con curiosità, e la ragazza
(ormai donna) non sa se lui stia ricordando, stia capendo.
“Come hai detto di
chiamarti?” chiede avvicinandosi.
“Non l’ho detto,” risponde lei con un sorriso.
Si chiede come
reagirà quando sentirà il suo nome. Si chiede se resterà per raccontarle cos’ha
fatto in tutto questo tempo.
“Come ti chiami?”
chiede lui sorridendo.
“Mi chiamo-”
“Ehi, Cami! Vedo che hai conosciuto Davide!”
Alessia spunta dal
corridoio, indossando soltanto una t-shirt bianca. Scalza, si avvicina a Davide
dando le spalle a Camila e mimando con la bocca la parola ‘pazza’.
“Camila, lui è
Davide… un mio caro amico.” Nel dirlo, Alessia solleva le punte e gli dà un
bacio sulle labbra, trovando immediatamente quelle di lui. “Davide, lei è Camila,
una delle ragazze con cui divido l’appartamento.”
“Camila?” chiede
lui facendo un passo in avanti. Osserva gli occhi azzurri della donna che ha di
fronte. “Con una sola L?”
“Sì,” risponde Alessia, prima che Camila possa aprire bocca.
“Sì,” le fa eco quest’ultima. Resta a guardare il ragazzo senza
aggiungere altro, sperando che lui ricordi. Sperando che capisca.
Davide inclina il
capo sulla spalla e continua a scrutarla.
Camila sa di essere
cambiata, di essere invecchiata, ma spera che in lui scatti qualcosa: una voce,
un’immagine. Non vuole parlargli in presenza di Alessia. Non vuole dirgli ‘Ehi,
ti ricordi di me? Sono la ragazza che si lavava negli spogliatoi della scuola calcio’.
Camila sa che
Alessia e Ida non sono le sue più grandi fan. Sa che la considerano una
reclusa, una persona con dei problemi mentali. Le ha sentite sghignazzare, una
sera, mentre commentavano la sua dispensa, ricca di cose dolci, ed il suo
armadietto nel bagno, ben fornito di sapone.
Camila è ancora la
ragazza forte e coraggiosa di un tempo, ma non vuole subire un’umiliazione
proprio adesso, in presenza di Davide.
“Con una sola L,” ripete lui, stavolta a voce più bassa. Non è una domanda,
bensì un’affermazione. “Tanto tempo fa ho conosciuto una
ragazza con questo nome. A Carovigno, vicino Brindisi.
Ci sei mai stata? La conosci?”
Camila è nata a
Carovigno. Ha frequentato lì le scuole elementari e le medie. E’ lì che ha
conosciuto Davide. E’ da lì che è partita per la Germania.
“No,” dice abbassando gli occhi. “Non la conosco,” aggiunge. “Adesso devo andare.”
Esce di casa senza
salutare. Dopo aver chiuso la porta, sente la fragorosa risata di Alessia e le
sue parole ovattate. “Te l’ho detto, è pazza.”
---
Avete letto solo una parte della storia di
Camila.
Cosa le è successo dal giorno delle nozze?
Che fine hanno fatto i suoi genitori? Dov’è Umberto? Questo e molto altro nei
prossimi aggiornamenti ù.ù
Dallo scorso capitolo ho iniziato a
rispondere alle vostre recensioni singolarmente. Per leggere la mia replica al
vostro commento non dovete fare altro che curiosare nelle recensioni del
capitolo :)
Grazie ancora una volta per la risposta a
questa storia. A presto.
Grazie a tutti per ogni singolo commento, pubblico o privato
Grazie a tutti per ogni commento, pubblico o
privato. Sono davvero contenta che questa storia vi stia piacendo.
Capitolo 4
2010
Camila non si è mai
persa d’animo nella sua vita. Si è sempre data da fare, soprattutto nelle
situazioni più svantaggiate. Per questo, dopo aver ascoltato, attraverso la
porta, le parole di Alessia decide di alzare la testa e di proseguire per la
sua strada.
Ciò nonostante,
mentre esce dal palazzo e si avvia alla fermata della metropolitana, non può
fare a meno di ripensare a ciò che è accaduto nella sua abitazione.
Avrebbe voluto
rispondere in maniera diversa a Davide. Quando lui ha collegato il suo nome a
quello della ragazza di Carovigno, Camila avrebbe voluto gridare “Sì, sono io”,
ma non l’ha fatto.
Non ha potuto
farlo.
Non in presenza di
Alessia. Non dopo averli visti in atteggiamenti così intimi.
Camila non conosce
bene la sua coinquilina, ma sa che è capace di essere pungente, cinica e crudele.
Sa che molto spesso la deride a causa delle sue abitudini alimentari. Sa che
lei e Ida la considerano una svitata.
Se Davide esce con
lei, pensa Camila, è probabile che anche lui sia così. E’ probabile che anche
lui partecipi alle conversazioni in cui prendono di mira i miei vestiti modesti,
il modo in cui preparo da mangiare, le scarpe che indosso. Magari, pensa mentre
scende nella stazione di Numidio Quadrato per aspettare una corsa, Davide è
come lei: pungente, cinico e crudele.
Continua a pensare
a loro fino a che non arriva un treno.
Oggi è sabato, e
questo significa che non dovrà faticare molto per trovare un posto a sedere. Lo
trova immediatamente, infatti, accanto ad un uomo dai tratti asiatici che
indossa un giubbotto di jeans e ha l’aria stanca.
A Camila piace
viaggiare in metropolitana. Non può permettersi un’automobile, ma anche in
circostanze diverse si sarebbe servita dei mezzi pubblici. A differenza della
maggior parte delle persone, le piace l’odore consumato e rugginoso dei treni.
Le piace la voce metallica che elenca le fermate in due lingue. Le piace
osservare gli altri passeggeri.
Lo fa sempre,
soprattutto durante il viaggio dell’andata, per ingannare il tempo fra una
fermata e l’altra.
A volte legge,
anche se il movimento del treno le procura il mal di testa.
A volte non fa altro
che osservare la plastica giallognola che fa da pavimento.
Questo è uno di
quei giorni. Perché, a dispetto della sua buona volontà, Camila non riesce a
liberare la mente dal volto e dalle parole di Davide.
***
“Perché la chiami pazza?” chiede Davide, fissando la porta chiusa
invece che Alessia.
“Perché lo è!”
esclama lei, avvicinandosi al frigorifero per prendere il latte. “Apri quel
pensile, guarda quanta roba,” gli dice. “Solo una
malata potrebbe conservare tutte quelle schifezze.”
Davide non ha
bisogno di fare come le ha detto Alessia, in quanto conosce già il contenuto
del pensile. Tante barrette al cioccolato. Tanti dolcetti farciti. Perfino un
pacco da un kg di biscotti al cocco. Non pensa che siano schifezze. A lui
piacciono quelle cose, è sempre stato goloso di dolciumi.
“Magari ha soltanto
fame,” dice, facendosi da parte per consentire ad Alessia
di versare il latte in un pentolino, per riscaldarlo.
“Magari è pazza,” ripete lei. “Nessuno ha bisogno di una scorta simile. Non
appena mangia un paio di barrette, corre al supermercato per comprarne altre.”
“Le avete mai
chiesto perché fa così?” chiede incrociando le braccia sul petto.
“Sì. Ci ha guardate come un’ebete per due
minuti e poi ha detto ‘Perché sì’.” L’occhiata che
lancia a Davide è particolarmente eloquente: Alessia è convinta di vivere con
una persona a cui manca qualche rotella.
Il ragazzo, però,
non riesce a lavare via di dosso la strana sensazione che ha provato quando ha
saputo il nome della donna. Camila. In diciassette anni, Davide non ha mai più
sentito quel nome. Non ricorda quasi nulla della ragazza delle docce, e questo
gli dispiace. Ha sempre cercato di ricordare il colore dei suoi capelli, quello
degli occhi, ma allora era un bambino e si sa, i bambini dimenticano in fretta.
Davide ricorda di
essere ritornato al campo di calcio sperando di rivederla, ma Camila non è più
andata a lavarsi in quel posto. Davide ricorda di esserci rimasto male, quando
non ha più saputo niente di lei. Per qualche giorno è stato persino arrabbiato.
Ma poi ha
continuato la sua vita, lasciando Carovigno dopo la morte di suo padre e
seppellendo i ricordi della lontana infanzia.
Adesso, però,
diciassette anni dopo, non riesce a liberarsi della strana sensazione che ha
provato quando ha visto le barrette e quando ha saputo il vero nome della pazza.
“Non dovreste
prenderla in giro,” dice ad Alessia, prendendo due
cucchiai da uno dei cassetti. Lei versa il latte in due tazze, aggiunge alla
sua del caffè freddo preso dal frigorifero e apre un pensile per prendere un
pacco aperto di Tarallucci.
“Non la prendiamo
in giro,” ribatte lei sedendosi al tavolo. “Non è mica
colpa nostra se è così strana…”
“Quanti anni ha?”
chiede lui, più interessato alla donna che non alla colazione.
“Trenta? Trentacinque? Boh, chi lo sa,” risponde Alessia scrollando le spalle. “Lavora
come donna delle pulizie. Pulisce anche qui; io e Ida le abbiamo chiesto
di farlo al posto nostro, in cambio di una piccola sommetta.”
Scrolla le spalle di nuovo, come se avesse detto la cosa più normale del mondo.
“Cioè… le fate
pulire le vostre camere?” chiede Davide sbigottito.
“Sì,” dice lei masticando. “Gliel’abbiamo
chiesto, lei ha accettato… perché? Perché mi guardi in quel modo? E perché stiamo parlando della pazza invece che di noi!” esclama,
annoiata.
Allunga una mano
verso il viso di Davide per accarezzargli la barba cortissima, bionda come i suoi
capelli.
“Quando mi sono
svegliata e non ti ho trovato nel letto ho pensato che fossi andato via, lo
sai?”
“Il tuo letto è un
po’ scomodo,” risponde lui senza sottrarsi al suo
tocco. “Ho pensato di lasciarti dormire….”
“E’ scomodo per
dormire, ma per altre cose è perfetto… no?” Nel dirlo, la mano di lei scende
sul suo collo.
Davide chiude gli
occhi e si lascia andare alla piacevole sensazione.
“Ho passato una
serata bellissima,” gli dice scostando la mano e
sorridendogli. “E tu… tu sei stato bene?”
“Ovviamente,” risponde Davide.
“Potremmo rifarlo,” dice lei, arrossendo. Per un attimo, la ragazza perde
l’atteggiamento di femme fatale e mostra un lato diverso, quasi dolce. “Se sei
stato bene, se vuoi…”
“Mi sembra
un’ottima idea,” risponde Davide, prendendo un
biscotto dalla confezione e gettandolo nella tazza. “D’accordo.”
Alessia si alza per
dargli una bacio sulla guancia, e non sa che uno dei
motivi per cui Davide ha accettato è il desiderio di poter rivedere la sua
coinquilina.
***
La prima tappa di Camila
è a San Giovanni, presso una famiglia che vive in un antico palazzo con le
finestre alte e strette. In questo quartiere la maggior parte degli edifici è
di questo tipo, e a Camila piace guardarli mentre cammina.
Arriva a piedi,
percorrendo otto marciapiedi e attraversando a due incroci.
Fa visita a questa
famiglia due volte alla settimana, il martedì ed il sabato. Si tratta della
casa più faticosa da gestire, ma anche di quella più divertente. I Patriarca
hanno due bambini piccoli, di tre e cinque anni; per questo motivo le stanze
sono sempre in disordine, il bucato da stirare è tanto e i piatti nel lavandino
si accumulano con facilità. I coniugi Patriarca insegnano al liceo, e non hanno
molto tempo da dedicare alla cura della casa.
Trattano Camila con
rispetto, pagandola puntualmente.
A Camila piace la
loro casa. E’ luminosa e moderna, a dispetto dell’antichità del palazzo. I
bambini sono sempre felici, e questo la mette di buonumore. Le piacciono i
bambini; avrebbe tanto voluto dei figli, ma il destino non ne ha fatti arrivare
e per questo gioisce quando passa del tempo con Matteo e Leonardo.
Camila trascorre tre
ore a casa Patriarca, dalle 9 alle 12. Pulisce i due bagni, si occupa della
cucina e stira numerose gonne e camicie. Cambia le lenzuola al letto
matrimoniale ed aiuta la signora a scrivere la lista per la spesa che lei e suo
marito andranno a fare nel pomeriggio.
Dopo aver salutato
adulti e piccini, esce dal palazzo e si ferma ad uno dei tanti bar che la
separano dalla fermata della metropolitana. Compra un tramezzino al tonno ed
una bottiglietta d’acqua.
Avrebbe voluto fare
colazione e prepararsi un panino prima di uscire di casa, ma non ha potuto. Non
era in grado di rimanere con Davide ed Alessia un minuto di più.
Chissà se hanno
continuato a parlare di me, pensa. Chissà se lui ha ricordato.
La seconda tappa
della sua giornata lavorativa è più a nord, nel quartiere Flaminio. Camila
raggiunge l’abitazione della famiglia Ballotta attraverso la metropolitana,
fino alla fermata Flaminio, e con un autobus, salendo sul numero 491.
I Ballotta non
hanno bambini piccoli, ma un solo figlio di ventotto anni.
Da loro, Camila si
occupa di pulire con cura i pavimenti di parquet e di passare l’aspirapolvere
sul grande terrazzo. Sì, l’aspirapolvere. La famiglia Ballotta non possiede una
comunissima scopa.
Tutte le famiglie
presso cui lavora sono molto ricche. Professori
universitari, avvocati, costruttori di case (come nel caso del signor
Ballotta). Camila è contenta del suo giro lavorativo, e loro lo sono di lei.
E’ sempre puntuale,
educata, competente. Non manca mai di dare buoni consigli domestici, quando
richiesti, e all’occorrenza sa cavarsela anche ai fornelli. Il figlio dei
Ballotta, Simone, impazzisce per la sua Bolo Nega Maluca, la torta brasiliana
che sua madre (originaria del Pernambuco) le ha
insegnato a fare in Germania. Camila l’ha preparata in occasione del compleanno
di Simone che l’ha divorata. Da quella volta, meno di un anno fa, Camila ha
preparato quindici Bolo Nega Maluca per il ragazzo, ed ogni volta ha pensato ai
suoi genitori.
Trascorre due ore a
casa dei Ballotta, guadagnando trenta euro. Quando va via, ringrazia la signora
e le chiede conferma per l’appuntamento della settimana successiva. A
differenza dei Patriarca, questa famiglia ha bisogno delle sue prestazioni una
sola volta alla settimana.
“No, cara,” risponde la donna dai capelli biondi. “La prossima
settimana saremo in Umbria, al matrimonio di mia nipote Giulia. Te ne ho parlato, ricordi?”
“Oh, già… è vero.”
Camila cerca di
ricordare tutte le cose che le vengono dette mentre pulisce, lava, stira, ma
non è facile. A volte sembra quasi che le padrone di casa approfittino di lei
per sfogare i propri problemi, le proprie vicissitudini familiari, e Camila non
è molto brava a tenere a mente tutto.
“Ci vediamo fra due
settimane, d’accordo?” chiede la donna accompagnandola all’ingresso.
“Va bene,” risponde lei. “Buona domenica.”
“Anche a te, cara.”
La signora sta per chiudere la porta, quando ricorda qualcosa d’importante.
“Oh, Camila, aspetta!”
“Sì?” chiede lei,
intenta a scendere le scale.
“Una delle mie
amiche avrebbe bisogno di un aiuto; la ragazza che andava da lei ha avuto
qualche problema… sai com’è, non era in regola,” dice
sottovoce. “Posso darle il tuo numero? Saresti interessata a
darle una mano?”
Camila non ha
ancora capito perché le chiedano sempre di dare
una mano, quando invece si tratta di lavorare e basta.
“Sì, certo,” risponde con educazione. “Può darle il mio numero, così
possiamo metterci d’accordo per un appuntamento.”
“Perfetto!” dice la
signora. “Simona Falco, questo è il suo nome. Aspettati una chiamata da lei,
d’accordo?”
“D’accordo,” ripete Camila. “Buona domenica, signora. A presto.”
“Ciao, cara.”
In questi anni,
Camila ha imparato a non rifiutare mai un’offerta di lavoro. Non può
permettersi di dire no ai pochi soldi che guadagna, e non vuole neppure rifiutare
le opportunità che le vengono date dalle ricche persone che conosce.
Il suo giro di
pulizie le permette a malapena di mantenersi: dire no ad una nuova serie di
appuntamenti sarebbe come darsi la zappa sui piedi.
Il viaggio di
ritorno, da Roma Nord al Quadraro, dura sempre troppo.
Camila è stanca, dopo
le ore passate a pulire e dopo quelle passate a camminare, ed oggi ha su di sé
anche il peso dello stress causato dall’incontro con Davide ed Alessia.
Per fortuna è
sabato, pensa. Per fortuna riesco a trovare un posto a sedere sulla metro.
Osserva di nuovo il
pavimento giallognolo, riempiendosi i polmoni dell’aria viziata e dei respiri
caldi della gente.
Uomini e donne che
tornano a casa, ragazzi e ragazze che si preparano al sabato sera fuori.
Ognuno di loro ha
una storia, ognuno di loro pensa a qualcosa.
Camila pensa a
Davide, anche se non vorrebbe.
***
Davide continua a
pensare a Camila, anche dopo aver fatto sesso con Alessia per la quarta volta.
“Pensi che Ida ci
avrà sentiti?” chiede la ragazza, appoggiandosi, ansimante, su di lui.
“Forse avrà sentito
te,” scherza lui. “Sei tu quella più chiassosa.”
“Scemo.
Probabilmente non avrà sentito nulla. Probabilmente sarà andata a letto dopo
essere rientrata. Hai visto che occhiaie profonde? Secondo te
cos’ha fatto?”
“Non ne ho idea,” risponde lui, meravigliandosi di come Alessia riesca ad
essere ancora piena di energia.
La verità è che
quando Ida è tornata, prima di pranzo, lui è uscito dalla camera di Alessia
solo perché pensava che si trattasse di Camila. Non ha prestato molta attenzione
all’altra inquilina, tantomeno alle sue occhiaie.
I due restano in
silenzio per qualche minuto, avvolti dalla penombra della camera da letto.
Alessia pensa a
quanto sia bello stare con Davide.
Davide pensa a come
fare per rivedere Camila.
“Potremmo rimanere
qui, stasera,” dice lui ad un certo punto. “Anche se è
sabato. Potremmo ordinare qualcosa per cena… che ne pensi?”
“Davvero?!” chiede lei alzandosi a guardarlo. “Vuoi rimanere qui?”
“Perché no? Potremmo
cenare tutti insieme, anche con Ida e Camila.”
“Vuoi
cenare con la pazza? Non
se ne parla,” dice Alessia, gesticolando.
“Perché? Camila non mangia come tutti gli altri?”
Si rifiuta di
chiamarla pazza. Vorrebbe che neanche Alessia osasse tanto.
“Camila mangia in
camera sua,” replica lei, imitando il tono di Davide.
“Sempre.”
“Beh, magari
stasera farà un’eccezione,” dice quasi a se stesso.
“Proverò a chiederglielo io.”
---
Accetterà? Non accetterà? Mah.
La Bolo
Nega Maluca è uno dei miei dolci preferiti. Qui
trovate la ricetta, se volete cimentarvi.
Sono felice per la risposta che questa
storia sta avendo.
Buona lettura.
---
Capitolo 5
2010
Camila torna a casa
con un solo pensiero nella testa: infilarsi sotto la doccia e rimanerci per
almeno mezzora.
La metropolitana le
piace, ma addosso lascia inevitabilmente quell’odore metallico e poco gradevole
del vecchio, della sporcizia di un’intera città, della vita degli altri, delle
storie che scorrono veloci fermandosi ogni minuto, tappa dopo tappa.
Come se non
bastasse, poi, c’è anche la giornata lavorativa a pesare su di lei: la schiena
e le braccia le fanno male, e non vede l’ora di potersi rilassare.
Quando apre la
porta di casa, è certa di non incontrare nessuna delle sue coinquiline. E’
sabato e ciò vuol dire che le ragazze sono in giro per la città, pronte per la
serata di divertimenti e follie tipica degli studenti,
o di chi, più semplicemente, ha una vita da vivere.
Questo è il giorno
preferito da Camila: è libera di andare dal bagno alla sua stanza alla cucina
senza timore che Ida o Alessia le lancino occhiate di scherno; può rimanere nel
bagno per tutto il tempo che vuole, ed occuparsi di sé in santa pace. Può
cucinare con tranquillità e può cenare al tavolo come una persona qualunque,
senza essere costretta a fare tutto di fretta e a portarsi piatto e posate in
camera.
Oggi, però, quando
apre la porta, si rende subito conto che qualcosa non quadra. La tv del
soggiorno è accesa, ed è strano visto che né Ida né Alessia ne fanno un grande
uso.
“Ale, sei tu? Siete già tornate?”
Camila si ferma sui
suoi passi quando capisce che la voce è quella di Davide.
Che cosa ci fa qui?
Dove sono le altre?
Cammina fino a
raggiungere il soggiorno, spaventata quasi. Davide si sta alzando dal divano, ma
si blocca come una statua quando la vede.
“Ehi, ciao.” Le
sorride.
“Ciao,” risponde lei, abbassando gli occhi.
“Alessia e Ida sono
uscite due minuti fa,” dice Davide, avvicinandosi.
“Pensavo che fossero già rientrate, ecco perché…” Indica l’ingresso, per farle
capire il motivo delle sue parole.
“Capito,” ribatte Camila.
“Abbiamo deciso di
ordinare la pizza per cena,” continua lui. “Ci farai
compagnia, vero? Alessia e Ida sono andate ad avvisare un compagno di corso… un
amico di Ida. Ci farebbe piacere se partecipassi anche tu.”
Piacere? Ne dubito.
“No,” risponde immediatamente. “Meglio di no, grazie.”
“Perché? Hai qualche impegno?”
domanda il ragazzo, piazzandosi davanti a lei ed impedendole di prendere la via
del corridoio.
A Camila le sue
domande non piacciono. E’ curioso, nello stesso modo in cui lo
era diciassette anni fa, in quegli spogliatoi, e sembra quasi che voglia
prenderla in giro. ‘Hai qualche impegno?’, come a dire ‘Non puoi avere un
impegno, non fai altro che lavorare e startene in camera tua’.
“No,” dice lei, leggermente alterata. “Non ho impegni. Però-”
“Perfetto,” la interrompe Davide. “Allora potrai cenare con noi. Qual
è la tua pizza preferita? Coca o birra?”
“Davide.” Pronuncia
il suo nome per fermare il suo treno di domande, ma sillaba dopo sillaba si
rende conto di aver osato troppo.
Non dovrebbe essere
cosi familiare, per lei.
Non dovrebbe in
alcun modo chiamare per nome il ragazzo della sua coinquilina. Non dovrebbe
chiamarlo affatto.
“Camila.”
Lui la guarda senza
aggiungere altro, con un sorriso leggero sulle labbra chiuse. Un sorriso che potrebbe
anche essere di sfida.
Ricorda il mio nome, pensa Camila. In fondo è passata mezza giornata… perché non dovrebbe?
“Devo andare,” dice in fretta, guardando dappertutto tranne che verso di
lui. “Buona serata.”
Inizia a camminare
per andare nella sua camera, ma Davide l’afferra per
un braccio. Con delicatezza, senza forza.
“Aspetta,” sussurra. “Camila, aspetta.”
“Cosa c’è?” chiede a
bassa voce, senza alzare lo sguardo.
“E’ tutto il giorno
che ci penso,” dice lui, lasciandole il braccio. “Sei…
sei tu quella ragazza? A Carovigno, in Puglia. Ero un bambino, ma-”
“No,
non sono io. Te l’ho già detto.”
“Dove sei nata?”
A Carovigno, in Puglia.
“Sei di Roma?”
continua.
“Smettila,” dice Camila, tremando. “Tu fai troppe domande.”
“E tu dai poche risposte.”
Non si arrende, Davide.
Più alto di lei,
più muscoloso di lei, la sovrasta fino a farla sentire ancora più piccola di
quel che è.
“Voglio soltanto
capire,” le dice. “Perché Alessia e Ida ce l’hanno con
te?”
“Loro non ce
l’hanno con me,” risponde Camila.
“Loro ti
considerano pazza,” incalza lui.
Camila non si
scompone. Sa che le sue coinquiline la deridono spesso, ma non le importa.
O almeno cerca di
non curarsi dei commenti al vetriolo che lanciano alle sue spalle. A Camila
interessa soltanto di vivere in una casa tranquilla e sicura, e le studentesse –
per quanto pettegole e gratuitamente crudeli – le danno entrambe le cose.
“Senti,” dice stringendo la borsa fra le dita. “Che cosa vuoi da
me? Perché non mi lasci in pace?”
“Perché per me sei
tu,” risponde Davide. “Sei tu la ragazza di Carovigno.
E’ vero? Ti ho regalato le scarpe di mia sorella, ricordi? E
le barrette… sono tue quelle nel pensile, no?” Indica la cucina, sorridendo
come se avesse appena fatto bingo. “Sono io, Davide. Ti ricordi di me?
Non puoi non ricordarti… ero più basso, ovviamente, ma i capelli e gli occhi-”
“Smettila!” esclama
lei. “Smettila, ti prego!”
Camila teme che
Davide ne abbia già parlato o che voglia parlarne con Alessia. Le ragazze non
conoscono il suo passato, e Camila non può rischiare che vengano a saperlo.
Si allontana da
Davide, mettendo un metro di distanza fra di loro.
“Smettila,” ripete. “Io non sono quella persona,”
mente. “Non so di cosa parli.”
Lo guarda negli occhi
per meno di cinque secondi, il tempo necessario per rendersi conto di averlo
sorpreso, addirittura ferito.
E’ solo un ragazzo, pensa. Lui
e Alessia sono intimi, quindi non può essere molto diverso da lei. Non posso
ammettere di essere la Camila
che ha conosciuto diciassette anni fa.
“Scusa,” risponde Davide. “Non c’è bisogno che ti arrabbi così.”
Adesso penserà
anche lui che io sia una pazza asociale, con cui è impossibile perfino avere
una normale conversazione.
“Non sono
arrabbiata,” mormora. Sono solo spaventata.
“Posso farti una
domanda?”
Camila annuisce, ma
solo dopo aver ritrovato la calma necessaria.
“Perché non vuoi
cenare con noi? Non ti piace la pizza?”
Il modo in cui lo
chiede, l’innocenza dei suoi occhi e della sua voce, generano nella donna una
sensazione di dolcezza, di commozione.
Davide è
genuinamente interessato ai suoi gusti, e per lei è doveroso rispondergli con
altrettanta sincerità.
“Davide… a me piace
la pizza, ma… non conosco nessuno,” dice, sentendosi
un po’ stupida. “Non farei altro che darvi fastidio, e poi… di chi è stata
l’idea di invitarmi?”
“Mia,” dice subito Davide, allargando le spalle.
“E Alessia e Ida
cosa ne pensano?” chiede inarcando un sopracciglio.
Camila sa che le
ragazze hanno cenato da sole (o con ospiti) senza curarsi di invitare anche
lei. Camila sa bene che la sua compagnia non è gradita.
“Perché non vuoi
cenare con noi?” chiede di nuovo Davide, evitando di rispondere alla sua
domanda. “Alessia e Ida le conosci, e-”
“Davide, basta. Ti prego.”
Non vuole
continuare con questo tira e molla. Non vuole partecipare alla cena. Non vuole
correre il rischio che lui possa convincerla.
Fa per voltare le
spalle ed andarsene, ma lui la raggiunge con pochi passi, mettendosi di
traverso per non farla passare. “Quella ragazza,” dice
a bassa voce, “la ragazza di Carovigno. Ero un bambino, e certi ricordi sono
svaniti, ma ciò che mi è rimasto impresso… veniva a lavarsi dove io mi allenavo,” continua, guardando negli occhi di Camila. “Mi disse che
era povera e io… io le portai da mangiare, e le regalai le scarpe di mia
sorella. Nessuno lo sa… neanche mia madre. Non ne parlai con nessuno. Lei non…
non tornò più agli spogliatoi. Non la vidi più. Ricordo che ci rimasi male
quando non la vidi tornare. Ero un bambino… pensai che avesse trovato un altro
bagno in cui farsi la doccia… o che… o che avesse semplicemente mentito.” Davide si passa un dito sotto il naso per due volte, come
per scacciare qualcosa di invisibile. “Quella Camila aveva i
tuoi stessi occhi e le tue stesse labbra. Ricordo che allora pensai
‘come fa ad avere le labbra così grandi se è così magra ed ha così tanta fame?’.
Ero un bambino… mi facevo delle domande stupide. Anche i capelli,” dice, guardando quelli lunghi di Camila, “anche i capelli
erano dello stesso colore dei tuoi. Quando ti ho vista, stamattina, e Alessia ci
ha presentati… e tutte quelle barrette… ho pensato a lei, alla ragazza di
Carovigno. Ho pensato ‘forse è lei, forse l’ho ritrovata’. Mi piacerebbe sapere
che fine ha fatto, sai? Mi piacerebbe sapere che sta bene e che… e che non l’è
successo nulla di brutto in questi anni. Forse è per questo che mi sono
intestardito con te… perché tu mi ricordi lei. E quando mi sono reso conto del
modo in cui Alessia e Ida ti considerano… ho pensato di… ho pensato che avrei
potuto… come allora… Però a quanto pare ho sbagliato tutto,”
dice, allungando le labbra in un sorriso imbarazzato. “Tu non sei quella Camila,” aggiunge, sollevando le spalle. “Scusa se ho alzato la
voce o se… se ti ho dato fastidio. Non volevo. Ti sarò sembrato uno squilibrato,
e non era mia intenzione.”
Camila ha ascoltato
ogni parola in silenzio.
Non sa cosa dire e
cosa pensare. Non sa come rispondere al monologo di Davide.
E’ forse per questo
che, quando apre la bocca, non riesce ad articolare una replica.
E’ forse per questo
che, nel guardare i suoi occhi marroni, si sente più emozionata di quanto
dovrebbe e vorrebbe essere.
Si guardano per
dieci secondi senza parlare, fino a quando la porta di casa si apre, lasciando
entrare Alessia e Ida.
“Siamo tornate!”
esclama quest’ultima senza accorgersi dei due nel corridoio. “Saverio non sarà
dei nostri, però-” Ida si blocca quando alza gli occhi su Camila e Davide.
“Ehi, siete qui. Camila, ci sei anche tu.”
Le ragazze si
scambiano un’occhiata complice ed è Alessia a prendere la parola.
“Camila, Davide ti
ha detto della pizza? Ci farai compagnia?”
“Sì,” risponde lei.
Lo fa guardando gli
occhi di Davide. Lo fa per dirgli ‘Sì, mangerò la pizza con voi. Sì, sono io la
ragazza di Carovigno. Sì, sto bene’.
“Sì, vi farò
compagnia.”
---
Il capitolo sarebbe dovuto andare in un
altro modo, ma poi il neurone ha preso il sopravvento.
Grazie a tutti per i commenti lasciati allo scorso capitolo
Grazie a tutti per i commenti lasciati allo
scorso capitolo. Grazie anche a chi ha segnalato questa storia
all’amministrazione di EFP: è stata inserita fra le Storie Scelte, e questo è
un bel traguardo per me.
Buona lettura.
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Capitolo 6
2010
Davide non crede
ancora alle sue orecchie.
Camila ha accettato
di mangiare la pizza con lui e le sue coinquiline; si sente felice, si sente
sollevato.
Era così decisa a
cenare da sola. Era così decisa a chiudersi nella sua camera.
E’ stato Davide a
farle cambiare idea? E’ davvero lei la ragazza che faceva la doccia con l’acqua
fredda? Non sa cosa pensare. Le ha parlato di quella Camila, dei ricordi che
per tutta la giornata sono affiorati nella sua mente: gli spogliatoi, i capelli
arruffati e castani, la bocca grande e bella.
Davide non pensò che
era bella 17 anni fa. Allora era semplicemente
curioso, ingenuo.
Adesso però nota
altri dettagli in lei e, che si tratti o meno della
stessa persona, non manca di notare la bellezza di Camila.
E’ diversa da
Alessia. Meno curata, meno truccata. Meno chiassosa.
Tuttavia le sue
labbra attirano l’attenzione del ragazzo, che resta imbambolato dopo aver
sentito la sua voce di conferma.
Sono tante le
domande che si accavallano nella testa di lui. Una ha più voce delle altre: sei
davvero tu?
Le pizze arrivano
mentre Camila è nella sua camera. Vi si è chiusa dopo aver accettato l’invito,
e lì è rimasta per le successive due ore, uscendo solo una volta per andare al
bagno.
Davide ha trascorso
il tempo con Ida e Alessia a parlare di esami universitari, ma ha tenuto
l’orecchio perennemente teso verso il corridoio, in attesa di un qualsiasi
rumore proveniente dalla stanza di Camila.
Quasi come se
avesse aspettato il momento perfetto per apparire, lei apre la porta del suo
nascondiglio proprio quando il fattorino delle pizze suona il citofono.
Si ritrovano nel
corridoio; Davide, lei e Alessia.
“Ehi. Le pizze sono qui,”
lei dice il primo, mentre Alessia va ad aprire.
Camila annuisce e
gli passa accanto per raggiungere la coinquilina alla porta. A Davide non
sfugge che ha un borsellino fra le mani.
“No,” dice, “faccio io. Pago io.” Afferra il portafoglio mentre
il fattorino sale al piano. Alessia si fa da parte, sorridendo, mentre Camila
resta al suo posto.
“No, grazie,” dice senza guardarlo.
“Insisto,” ribatte lui, afferrando una banconota da 50.
“No.” Camila scosta
la mano di Davide con gentilezza. Un gesto che non sfugge ad Alessia.
“Cami, smettila.
Non vedi che Davide vuole offrirci la pizza?”
Il tono con cui le
si rivolge dà fastidio a lui, ma ancora di più a lei.
“Voglio pagare la
mia,” dice senza guardarla in faccia. “Quanto le
devo?” chiede poi al fattorino, finalmente giunto al loro piano con i cartoni
caldi fra le mani.
Alessia li afferra,
assieme alle lattine di Coca Cola, e lascia i due alla porta.
“Camila, lascia
pagare me,” dice Davide.
“Puoi offrire la
pizza a Ida e Alessia, ma-”
“Ti prego,” le dice lui, ignorando il ragazzo che li osserva come se
fosse ad una partita di tennis. Appoggia una mano su quella di Camila, intenta
ad aprire il borsellino, e la stringe. “Lascia che sia io ad
offrire, stavolta. Alla prima occasione lo farai tu,
ok?”
Le sorride,
pregando che tanto basti ad addolcire il suo orgoglio.
La guarda, notando
come l’azzurro dei suoi occhi sia uguale a quello della ragazza povera e sporca
di Carovigno. In verità ricorda appena quegli occhi, ma non importa.
Davide vuole che sia lei.
Distratta dal
contatto fisico e dai suoi occhi marroni, Camila non si accorge del movimento
della mano libera di Davide, che allunga i soldi al fattorino e accetta il
resto senza neppure controllare che l’ammontare sia giusto.
Non avrebbe mai
potuto permetterle di pagare la sua parte. Avrebbe insistito fino al mattino
dopo, se necessario.
“Davide, la tua è
quella con i funghi, giusto?”
“Sì, Ida. Grazie.”
Davide e Camila
fanno ritorno in cucina in silenzio, senza neppure guardarsi in faccia. Lui è
soddisfatto per essersi comportato da gentiluomo, ma vorrebbe che lei gli
rivolgesse almeno una semplice parola. Non necessariamente un
‘Grazie’. A Davide basterebbe qualsiasi cosa.
Alessia elimina la
parte superiore dei quattro cartoni, in modo da occupare poco spazio sul
tavolo, e appoggia la pizza con i funghi e il cotto a capotavola.
Davide fa il giro
per sedersi fra lei e Ida, ritrovandosi di fronte a Camila.
“Buon appetito,” dice Ida.
Camila risponde a
bassa voce.
E’ a disagio, e
Davide sembra essere il solo a notarlo.
Alessia e la sua
amica parlano del ragazzo che avrebbe dovuto unirsi a loro e che alla fine non
ha potuto.
Lo fanno masticando
e ridendo, pulendosi la bocca con i tovaglioli di carta prima di bere.
Lo fanno senza mai
chiamare in ballo Camila. Come se fosse invisibile.
A lei sembra non
interessare più di tanto. Mangia con la testa inclinata verso la pizza,
mordendo ogni fetta con piccoli morsi e versando la bibita nel bicchiere. E’
l’unica ad utilizzarlo, mentre gli altri bevono direttamente dalla lattina.
Ad un certo punto,
proprio quando si sta chiedendo se riuscirà – prima di andare via – a rivedere
il viso di Camila, il telefono di Davide prende a suonare.
“E’ mia sorella,” dice subito, riconoscendo la suoneria personalizzata di
Priscilla.
Ida e Alessia
abbassano il volume della voce. Camila, senza che nessuno gliel’abbia chiesto
(e, soprattutto, senza alcun motivo fondato) smette di masticare.
“Ciao, Pri.” La
voce di Davide è spensierata. “Sì, sono vivo…” dice alzando gli occhi al cielo.
Nel farlo nota che Camila lo sta guardando. “No, no.
Sono a casa di amici. Si, stiamo cenando proprio
adesso. Ok… ok. Divertiti, ciao.”
Chiude la
comunicazione con il sorriso sulle labbra. “Scusate.
Mia sorella aveva iniziato a darmi per disperso.”
Camila riprende a
masticare quando Davide afferra una nuova fetta di pizza.
“Certo che tua
sorella ha un nome stupido,” dice Alessia. “Priscilla. Chi ha deciso di chiamarla
così?”
“E’ stata mia madre,” risponde lui, ignorando l’aggettivo usato. “Priscilla era
il nome della protagonista di un romanzo che ha letto da ragazza.”
“Fortuna che a te
hanno dato un nome normale,” dice Ida. “Non oso
immaginare gli sfottò a scuola. Priscilla, Priscilla. Priscilla
come la fidanzata di Calimero.”
“Priscilla come
Priscilla Corvonero,” le fa
eco Alessia.
Ridono entrambe; ride
a mezza bocca anche Davide, abituato da parecchio tempo a sentirne di tutti i
colori sul nome della sorella maggiore.
“E’ soltanto un
nome.” Camila è l’unica a non trovare divertente la presa in giro. “E non è
stupido.”
Per la prima volta
dall’inizio della cena, alza la testa per guardare gli altri, in particolare le
sue coinquiline. “Ida è un nome corto,” continua. “Ma
non per questo è stupido. E Alessia ha troppe S per-”
“Alessia è un nome
perfetto,” la interrompe la ragazza.
E’ Davide, adesso,
a muovere la testa come ad un incontro di tennis.
“Se Alessia è un nome perfetto, allora lo è
anche Priscilla,” risponde Camila senza battere
ciglio.
Lo dice lentamente,
con calma, ma i suoi occhi sono duri. Lo nota Davide, e lo notano anche le due
ragazze, che smettono di ridere. Ida solleva le sopracciglia e lancia
un’occhiata complice ad Alessia, la quale non è per niente contenta di essere
stata messa a tacere.
“Che ti prende?” le
chiede. “Non c’è bisogno di alterarsi per una cosa così futile. Scommetto che
neppure Davide se l’è presa così tanto, vero?”
Quando si volta
verso di lui, Alessia vede che egli non è per nulla interessato alle sue
parole.
Sta guardando
Camila, e lo fa con una strana luce negli occhi. Una luce che Alessia non ha
mai visto prima.
“Davide? Hai sentito cosa ho
detto?”
“Sì,” risponde il ragazzo, senza però staccare lo sguardo da
Camila. “Priscilla è un nome sciocco, forse, e probabilmente mia madre avrebbe
dovuto pensarci di più prima di sceglierlo.” Sposta gli occhi su Alessia,
diventando serio. “Però è il nome di mia sorella.”
Lo dice con
fierezza, senza lasciare alle altre lo spazio per replicare.
“Sarà meglio che
vada,” dice un’ora dopo.
La cena si è
conclusa bene, nonostante il momento di tensione, e lui non ha potuto fare a
meno di notare che Camila non ha più parlato. Le ragazze non l’hanno
interpellata neppure una volta e quando ha provato a farlo lui, Camila ha
risposto con un monosillabo, prima che Alessia interferisse per continuare al
suo posto.
Quando le pizze
sono finite e tutti si sono alzati da tavola, Ida e Alessia sono andate in
salotto senza guardarsi indietro, parlando di un dvd da vedere con Davide;
Camila è rimasta in cucina a riordinare.
Quando lui si è
offerto di darle una mano per sparecchiare e lavare le posate sporche, Camila
lo ha liquidato con un gesto della mano – gli occhi sempre bassi – e si è rifugiata
accanto al lavandino.
“Di già?” chiede
Alessia, pronta ad inserire il dvd nel lettore. “Non sono neppure le 11.”
“Lo so,” risponde lui. “Ma è da ieri pomeriggio che manco da casa.”
“Ma è sabato,” lamenta Ida.
“Lo so, però…”
Davide è in imbarazzo.
“Va bene,” dice Alessia. “Non preoccuparti.” Appoggia il dvd sul
divano e lo trascina in camera sua, per salutarlo lontano da occhi indiscreti.
“Ti senti sommerso, vero?” gli chiede dopo aver chiuso la porta. “E’ troppo
presto per passare tutto questo tempo assieme…”
Davide si sente
sollevato. “Ho passato una bella giornata, credimi, ma-”
“Non devo spiegarmi
nulla, ho capito.” Si avvicina e appoggia le mani sul suo petto. Lui
l’abbraccia. “Sono stata bene con te,” sussurra.
“Anch’io,” risponde Davide, sfiorando le labbra con le sue.
“Voglio vederti
ancora. Tu?”
Davide si limita ad
annuire. Alessia risponde con un sorriso, prima di dargli un bacio.
Lui si lascia
accarezzare e l’accarezza a sua volta, in particolare in corrispondenza del
seno.
“Sarà meglio che
vada,” le dice con il fiato corto, “prima che combini
qualche sciocchezza.”
“Non sarebbe una
sciocchezza,” ridacchia lei.
“Forse no, ma è
meglio non correre,” dice. “Ci vediamo presto.”
“Non volevo
offendere tua sorella,” sussurra Alessia prima di
riaprire la porta. “Spero che non te la sia presa.”
“No, tranquilla,” risponde scuotendo il capo.
Quando escono nel
corridoio, sbattono su Camila senza rendersene conto.
Lei ha due sacchi
neri fra le mani, e con essi cammina verso l’ingresso.
Arriva
all’ingresso, appoggia un sacco a terra e apre la porta per uscire, mentre
Davide saluta Ida e dà un ultimo bacio ad Alessia. “Grazie per questa serata,” le dice.
“Grazie a te.”
Camila e Davide
s’incontrano di nuovo nelle scale.
Davide le percorre
di corsa, pensando di poterla raggiungere in strada, ma si ferma di scatto
quando la sorprende, immobile, sui gradini del piano di sotto.
Nota i due sacchi
neri, gonfi e sicuramente pesanti, e si offre di portarli al suo posto.
“No,” risponde Camila, avvampando. “Faccio da sola.”
“Sì,
invece. Dalli a me, sono troppo…” Vorrebbe dire ‘pesanti’, ma quando li
prende fra le mani si rende conto che il loro contenuto è leggero come una
piuma.
La guarda con
un’espressione di meraviglia nello sguardo, sorridendo quando la vede arrossire
con maggiore intensità.
“Li ho riempiti di
fogli di giornale mentre eri in con Alessia,” dice Camila,
guardandolo negli occhi. “Volevo una scusa per parlarti. Possiamo parlare?
Possiamo andare in un altro posto? A parlare in un altro
posto?”
Camila pensa di
aver fatto tre grandi sciocchezze nella sua vita.
La prima, quando
alle scuole elementari rubò un rotolo di carta igienica e due merendine dagli
zaini dei suoi compagni di classe. Aveva fame, e sua madre non comprava carta
igienica da settimane, ormai. Quel colpo di testa costò caro alla sua famiglia.
La scuola si rese finalmente conto delle loro condizioni disagiate, e anche se
allora avevano ancora un tetto sulla testa, gli assistenti sociali li tennero
d’occhio per un anno; ciò che Camila ottenne, invece delle merendine e della
carta per soffiarsi il naso perennemente gocciolante, furono una serie di
rimproveri da parte di sua madre (non per aver rubato, ma per essersi fatta
beccare) e uno schiaffo da parte del padre. Aver portato a galla la loro
povertà significava, per lui, l’obbligo di cercarsi un lavoro, e l’uomo non
voleva saperne. Finse di provarci per qualche mese, ma poi mollò. Lui e la sua
famiglia si trasferirono nella vecchia Golf, e da quel giorno Camila non toccò
più una merendina all’albicocca. Anche adesso, quando usa la carta igienica,
ripensa a quell’episodio e a ciò che ha determinato.
La seconda
sciocchezza Camila la fece quando sposò Umberto. Rimpiange spesso quel giorno,
anche quando cerca di pensare alle cose positive che da esso sono derivate. Il pensare dura poco, però, per cui il suo matrimonio resta
una sciocchezza.
La terza
sciocchezza ha avuto luogo dieci minuti fa, quando si è chiusa nella sua camera
e ha deciso di riempire due sacchi neri di vecchi giornali e di volantini
trovati nella metropolitana. La terza sciocchezza, secondo Camila, comprende
anche il momento successivo, quando ha ammesso il suo maldestro giochetto a
Davide e gli ha chiesto di andare in un posto appartato per parlare.
Cosa mi è passato per la testa? E’ un
ragazzo. E’ il ragazzo di Alessia. Cosa ho nel cervello, segatura?
Davide ha accettato
subito di parlarle, e Camila sa perché l’ha fatto: l’ha riconosciuta; sa che è
lei la ragazzina di 17 anni fa, e vuole una conferma.
“Il palazzo ha un
parco sul retro,” gli dice Camila. “Puoi
aspettarmi lì? Io devo buttare questi,”
aggiunge, prendendo i sacchi leggeri dalle sue mani.
“D’accordo,” risponde lui, annuendo senza smettere di guardarla.
“Posso prima spostare la mia macchina? E’ nel parcheggio… se la lasciò lì
Alessia capirà che non sono andato via.”
Camila non aveva
pensato a questa eventualità, e il fatto che ci abbia pensato lui le procura
una strana sensazione dentro. Come se il ragazzo sapesse che parlare con Camila
può essere pericoloso, soprattutto per la sua storia con Alessia.
Da un lato, si
sente sollevata al pensiero che lui cerchi di salvaguardare la convivenza con le
coinquiline. Dall’altro, Camila teme che Davide sia semplicemente mosso dal
bisogno di curare i propri interessi e arginare l’eventuale gelosia di Alessia.
In un modo o
nell’altro, pensa alla fine, è meglio che lui sposti l’auto dal parcheggio.
Il parco del
condominio è unico nella sua specie. Camila lo adora, e se avesse più tempo a
disposizione si occuperebbe di coltivare le aiuole piene di erbacce. Il palazzo
non ha un portinaio, e gli appartamenti sono popolati da studenti, per cui a
nessuno interessano piante e fiori.
Camila getta i
sacchi nel contenitore enorme della raccolta differenziata e, stretta in un
cardigan color lavanda, accede al parco tramite un cancelletto nero. Prima di
entrare si guarda attorno, cercando l’auto di Davide, ma non la vede.
Cammina sul sentiero
di cemento largo tre metri, approfittando della luce proveniente dalle finestre
che affacciano sul parco. Quelle del suo appartamento, per fortuna, guardano
sul parcheggio, dal lato opposto. I lampioni della strada l’aiutano a scoprire
la figura di Davide, in piedi accanto ad una magnolia.
“Ciao,” gli dice, sentendosi una stupida per il tipo di saluto
scelto.
“Ciao. Ho
parcheggiato lì,” ribatte lui con un sorriso. Indica
il muro che separa il parco dalla strada. “L’auto è in strada.
Ho scavalcato il muro,” spiega. “Non ho una macchina
invisibile.”
Lei ride
nervosamente, stringendosi ancora di più nella lana calda.
“Prima di iniziare
a parlare, posso dirti una cosa?” chiede lui.
“Sì.”
“Vorrei dirti
‘Grazie’ per aver… difeso… credo che sia la parola giusta… per aver difeso il
nome di mia sorella a tavola.”
Camila abbassa gli
occhi, ripensando per un attimo a come si è lasciata andare dopo la telefonata
di Davide. E’ in quel momento che ha deciso di parlargli in privato.
“Tu non sei come
Alessia,” gli dice. “O almeno così sembra.”
“Cosa vuoi dire?”
“Alessia è molto
superficiale. Tu non lo sei.” Gli parla senza guardarlo in faccia. “Alessia è
crudele, a volte.”
“Con te?” ribatte
lui. Il tono della sua voce costringe Camila ad alzare gli occhi. “Con te? E’ stata
crudele con te?”
“Pensa che sia
pazza,” dice scrollando le spalle. “Non è crudeltà?”
“Quella è ignoranza,” risponde Davide. “Tu non sei pazza.”
“Sì. Ma se dopo un
anno continui a farlo, pur sapendo che non lo sono…”
“Allora
è stupidità. E forse
anche crudeltà,” conclude lui.
Eppure state
assieme, vorrebbe dirgli. Hai appena detto che è ignorante, stupida e forse crudele.
“Di cosa vuoi
parlarmi?”
All’improvviso
Camila non si sente così tanto sicura come prima. A
tavola, quando Davide ha messo la parola fine alla presa in giro su Priscilla,
Camila ha visto qualcosa. Un segno, un piccolissimo segno, che le ha fatto
pensare ‘Non è come lei. Posso fidarmi. Posso dirgli la verità’.
Ma ora, ora non è
più sicura. Sembra che Davide non abbia problemi a frequentare una ragazza
superficiale, stupida e (forse) crudele.
“Niente,” gli dice con un filo di voce. “Ho sbagliato a… lascia
perdere, me ne torno dentro.”
Fa per voltarsi, ma
lui l’afferra per l’avambraccio prima e per la mano
poi.
“No!” esclama
Davide. “Non andartene!”
L’attira a sé per
costringerla a rimanere, e quando Camila si ferma lascia la sua mano.
“Non puoi fare così,” le dice. “Non puoi prendermi in giro.”
“Non ti sto
prendendo in giro.”
“Allora
parliamo. Cosa vuoi
dirmi? Siamo soli, adesso.” Si guarda attorno. Il buio
li circonda, ad eccezione di un piccolo lampioncino rotto, sommerso da un
cespuglio giallastro.
“Non so se posso
fidarmi di te.” Lo dice a voce bassa, sperando quasi che lui non l’abbia
sentita.
Quando lo guarda
negli occhi, vede un leggero sorriso sulle labbra di Davide. I capelli biondi
sono più lunghi sulla fronte. Un ciuffo solitario riposa su un sopracciglio.
“Non ho mai
raccontato a nessuno di te.” La voce del ragazzo è bassa quanto la sua, ma gli
dà i brividi. Le parla sapendo chi è. Sapendo che non ha fatto che mentire, per
tutto il giorno.
“All’inizio perché
non volevo cacciarmi in un guaio,” continua. “E poi
perché mi piaceva… mi piaceva avere un qualcosa di mio. Un
segreto importante.”
Si guardano senza
fiatare per un minuto. Forse un’ora.
“Mi dispiace di non
essere più tornata al campo.” Le prime parole ad uscire dalle sue labbra sono le
ultime che Camila avrebbe voluto dire. Aveva anche pensato ad un discorso,
mentre riempiva i sacchi di cartacce, ma ora ciò che
pensa è ciò che più l’ha segnata 17 anni prima. Il dispiacere per non essere
ritornata a dire ancora grazie. Il senso di colpa per aver preso così tanto da
quel bambino senza aver potuto dare nulla in cambio.
Ma Davide ora
sorride, e Camila non se ne spiega il motivo.
“Sei tu,” dice, senza che il sorriso lo abbandoni.
E’ proprio felice.
“Sei tu. Se la
stessa Camila. Ti ho riconosciuta subito,” dice con
una punta di orgoglio. “Camila, con una L.”
Lei si sente in
imbarazzo.
“Sono io.”
Davide sta per
aprire di nuovo la bocca, ma si blocca quando sia lui che lei sentono della
musica. Si guardano attorno, in particolar modo Davide.
Camila guarda in
alto, sapendo cosa cercare.
“Arriva da lì,” gli dice, indicando la finestra aperta di un palazzo
confinante. “Chi vive in quella casa ascolta sempre qualcosa. Quando il vento è
a favore sembra che ci sia uno stereo qui sotto.”
Si volta verso
Davide, il quale non ha smesso di guardarla. Forse non ha neppure sentito ciò
che ha detto sulla musica.
“Perché hai negato
di essere tu?” le chiede. “E’ per Alessia? Pensi che io possa dirglielo?”
“Sì.”
“Non preoccuparti,” risponde immediatamente. “Non le dirò niente. Non c’è problema.”
“Grazie,” gli dice, un peso in meno sul petto.
“Mi fa piacere
rivederti.” Il sorriso di Davide è incollato al suo viso. “Perché
non sei più tornata al campo? Che cosa hai fatto in
questi anni?”
Camila riflette per
un minuto sulla possibilità di raccontargli tutto. Gli anni in Germania, il
ritorno in Italia, gli anni con Umberto, la nuova vita a Roma.
“Siamo partiti per la Germania,” è tutto ciò che riesce a dire. “Io e la
mia famiglia. Ecco perché non sono più tornata. Mi dispiace,” ripete.
“Non dispiacerti,” dice lui, allungando una mano per toccarle il braccio. “Ci
siamo rivisti, no?”
“Già…”
“Ed è di questo che
volevi parlarmi? E’ per questo che mi hai chiesto di venire qui?”
Camila annuisce. “Ida
e Alessia non sanno nulla di me, e voglio che le cose rimangano in questo
modo.”
“Anche se ti
considerano una pazza?” chiede. “Ho visto le barrette… sono
tue, vero? Erano… sono… sono come quelle che ti ho portato io al campo.”
“Mi piacciono,” sussurra Camila, vergognandosi delle sue parole.
“Piacciono anche a
me.”
La musica che
proviene dall’alto fa loro compagnia nel lungo momento di silenzio che segue.
“Ciò che loro pensano
di me…” dice ad un tratto lei. “Non importa. Non mi
conoscono, non sanno nulla di me, per cui… non sono importanti. Ciò che dicono
e che pensano non è importante.”
Ci sono altre cose
che contano, però.
“Promettimi che non
parlerai loro del mio passato.” Camila vorrebbe essere più tranquilla, ma si
rende conto che la frase suona come una minaccia più che come una richiesta.
Davide la guarda
con curiosità. “Non so niente del tuo passato,”
risponde. “Come potrei raccontarlo ad Alessia e alla sua amica? E poi ti ho già
detto che non dirò a nessuno di come ci siamo conosciuti.”
“Grazie.”
Il prego di lui è
un altro sorriso. “Perché ti sei decisa ad ammetterlo?” chiede. “Perché hai
cambiato idea?”
Camila non sa come
rispondere a questa domanda. Vorrebbe farlo con sincerità, ma ha paura di
offenderlo. Ci pensa per qualche secondo, e alla fine cede.
“Perché
quando stavamo mangiando… ho capito che non sei come lei. Che posso fidarmi di te. So che tu ed
Alessia… non voglio parlar male di lei, ma…”
“Io e Alessia ci
vediamo da poche settimane,” risponde Davide. “Siamo
amici, nulla di più.”
Sanno entrambi che
sta mentendo. Davide sa che Alessia ha smesso di considerarsi sua amica la
notte scorsa, e Camila sa che due amici non passano la notte assieme facendo
determinate cose, tantomeno ad un volume così alto.
“Adesso devo andare,” dice Camila ad un certo punto.
“Adesso? No! Perché?!Non puoi restare un altro po’?”
Davide cerca di
afferrarla ancor prima che lei si allontani, ma Camila è pronta, stavolta.
Infila le mani nel jeans e fa un passo indietro.
Vorrebbe rimanere
con lui. Parlargli ancora. Rispondere alle sue domande, genuine e curiose,
tanto simili a quelle del bambino paffutello con in
mano le ciabattine blu.
Vorrebbe, ma non
può.
“Devo andare,” ripete, senza guardarlo in faccia. “Grazie per la pizza,” sussurra. “E per le scarpe di tua
sorella. E per quel panino al prosciutto.” Ha un nodo in gola quando
finisce di parlare.
Ripensa all’acqua
fredda delle docce del campetto. Ripensa all’asciugamano grigio e alle scarpe
più grandi che indossava prima dell’arrivo di Davide.
“Non devi
ringraziarmi,” risponde lui. “L’ho fatto con piacere,
sia allora che stasera. Immagino che adesso dovremo fingere di non conoscerci.”
“Sì,” annuisce Camila. “E’ meglio in questo modo.”
“E se io volessi
parlarti di nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera. Come
possiamo fare?”
I pensieri di
Camila vengono scanditi dal suono del pianoforte che arriva dal palazzo accanto
al parco.
Probabilmente le
sciocchezze fatte non sono tre, ma quattro. La quarta
esce dalle sue labbra poco dopo.
“Possiamo rivederci
qui, domani sera. E parlare ancora.”
---
La canzone che proviene dalla finestra
aperta è No Cars Go, degli Arcade Fire.
La versione è quella di MaxenceCyrin.
So che i capitoli di questa storia sono
brevi, ma non ho in mente una storia lunga, per cui preferisco somministrarla a piccole dosi.
Grazie ancora una volta, e tanti auguri di
buone feste a tutti.
Spero che le feste siano andate bene per
tutti, e che siate pronti a ritornare a lavoro/sui libri. Io so per certo di
non esserlo… purtroppo.
Beh, nell’attesa che l’ispirazione per le
cose importanti arrivi, ecco un nuovo capitolo di questa storia.
Buona lettura.
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Capitolo 8
La domenica è speciale
per Davide. E’ il giorno in cui si ricarica in visione del lunedì.
Dopo aver fatto
colazione, di solito verso le 11, si sdraia sul divano per controllare i
risultati del campionato di hockey su prato. Il sabato è il giorno in cui le
squadre giocano, e a lui questo sport piace. L’ha conosciuto tramite Priscilla,
quando questa ha iniziato a praticarlo da bambina.
Dopo aver appreso
chi ha vinto e chi ha perso, ed aver aggiornato la sua personale classifica sul
computer, Davide si dedica a Bilbo, lo Scottish Terrier nero che la sua
famiglia possiede da tre anni. E’ un cane vivace, e Davide lo adora. E’ lui ad
occuparsene durante la settimana, mentre nel fine settimana
(quando il ragazzo passa molto tempo fuori casa per divertirsi con gli amici) è
Priscilla a portarlo fuori e a dargli da mangiare.
La domenica, però,
prima di pranzare, Davide e Bilbo escono sull’ampio terrazzo a giocare. Il cane
ha tanti giochi di gomma, ma il suo preferito consiste in una vecchia corda che
Davide gli ha regalato quando era ancora un cucciolo. Il ragazzo si diverte a
lanciargliela, e il cane lascia passare almeno un minuto prima di raccoglierla
e restituirla al suo padrone.
Dopo pranzo, la
domenica di Davide prosegue allo stadio, se la sua squadra gioca in casa, o sul
divano in compagnia di Giancarlo, se si tratta di una trasferta. Dopo aver
gioito o sofferto, verso le 5, il ragazzo esce per passare qualche ora con i
suoi amici, a commentare i risultati del campionato italiano, oppure a rivivere
i bei momenti passati assieme la sera prima. Di solito la cena consiste in una
pizza mangiata proprio con gli amici. Il lunedì è un giorno impegnativo, per
cui è a letto al massimo entro la mezzanotte.
Vive una vita
relativamente abitudinaria, Davide. Le sue domeniche passano sempre così.
Tranne questa.
Tranne la domenica
in cui incontrerà di nuovo Camila.
Quando è tornato a
casa e si è messo a letto (dopo una lunga doccia rilassante), Davide ha
impiegato un’ora per addormentarsi. Per tutto il tempo non ha fatto che pensare
alle parole di Camila e al suo viso. Gli occhi celesti, le labbra grandi. La
pelle naturalmente ambrata e i capelli castani, chiari in corrispondenza della
fronte e delle tempie.
Davide l’ha
osservata bene, nonostante la poca luce. Ha cercato di imprimere nella mente
ogni dettaglio, per poterlo rivivere. E l’ha fatto, prima di addormentarsi. E
lo fa, ora che è sveglio.
Controlla
l’orologio, e come ogni settimana pensa ai risultati delle partite di hockey.
Resta a letto, però, e si copre la testa con il piumone. E’ felice all’idea di
incontrarla di nuovo.
Per Davide il
desiderio di riservatezza di Camila non è un problema. Capisce che il rapporto
fra lei e Alessia potrebbe rovinarsi di più se la ragazza conoscesse la verità,
non solo su Camila, ma anche (e soprattutto) su Davide e Camila.
Non gli sembra
ancora vero: ha ammesso di essere la stessa ragazza di Carovigno. E’ cresciuta,
è cambiata, ma ai suoi occhi è la stessa persona dura e decisa che gli chiedeva
di andarsene e di lasciarla in pace.
Al buio della sua
camera, Davide sorride.
Ora Camila ha un
posto normale in cui vivere. Ora ha un posto sicuro in cui fare la doccia.
La generosità di
Davide gli è stata tramandata fin da piccolo dalla sua famiglia. Simona, sua
madre, è sempre stata disponibile ad aiutare gli altri, e suo padre (il padre
che ora non c’è più) gli ha sempre detto che il bene chiama altro bene. Fare
del bene verso gli altri rende l’uomo nobile, e Davide l’ha capito presto.
Quando ha portato
le barrette a Camila, diciassette anni prima, l’ha fatto sapendo che lei ne
aveva bisogno. L’ha fatto pensando di fare una cosa giusta. Quando è salito in
soffitta - nonostante la sua paura per quel luogo pieno di ragnatele - per
rovistare fra le vecchie cose di Priscilla, l’ha fatto sapendo che a Camila
avrebbero fatto comodo un paio di scarpe nuove. Le sue erano grandi e rovinate.
Essere generoso
l’ha sempre reso uno dei preferiti.
A scuola, quando si
offriva per aiutare un compagno in difficoltà in una materia, gli insegnanti
non avevano che parole di elogio per lui. In famiglia, quando ancora oggi si
offre per fare commissioni o aiutare in casa, sua madre non fa che dargli baci
sulla fronte e dirgli ‘Come farei senza di te’.
Con le ragazze,
poi, la sua generosità è un biglietto da visita di tutto rispetto. E’ ciò che
gli ha permesso e gli permette di avere molti appuntamenti.
Alle donne piace
essere corteggiate con gentilezza, con galanteria. Davide ha imparato molti
trucchetti, grazie ai suoi amici e ai consigli di Giancarlo, ma sa che la
generosità aiuta sempre.
Come ieri, quando ha
aiutato Alessia e Ida a riordinare il salotto, mentre Camila era fuori casa.
“Davide? Davide, sei sveglio?”
La voce di sua
madre è bassa. Lo colpisce alle spalle, senza che lui si sia accorto della
porta che veniva aperta.
“Sì,” risponde, emergendo dalle coperte. “Buongiorno,” aggiunge, stropicciandosi gli occhi.
“Buongiorno,” dice lei, accarezzandogli i capelli. “Volevo solo
chiederti se vuoi che ti prepari un panino per lo stadio, o se pensi di
prendere qualcosa lì. E’ quasi l’una.”
L’una? Per quanto
tempo è rimasto a fantasticare su Camila?
E cosa vuol dire
‘panino per lo stadio’? Si gioca in casa?
“No,” risponde, incrociando le dita sotto la testa per
sollevarsi. “Oggi non vado allo stadio. La guardo qui,
la partita.”
“Oh. Va bene,
allora. Perfetto.” Gli sorride, e poi getta
un’occhiata distratta al letto. “Beh, è comunque ora che ti
alzi, o vuoi rimanere lì per tutto il giorno? Forza, Bilbo è fermo
davanti alla tua porta da un’ora.”
Davide si alza sui
gomiti e scopre che Bilbo è proprio lì, scodinzolante, ad attenderlo. Le camere
da letto sono off limits per il cane, per questo esprime la sua incontenibile
gioia battendo le zampe sul pavimento, in attesa di uscire a giocare.
“Ciao,
Bilbo. Arrivo subito,” dice Davide.
Sua madre lo saluta
ed esce dalla stanza per dargli modo di vestirsi.
Mentre lo fa, Davide controlla il telefono. Nessuna chiamata da parte
di Alessia. Nessuna chiamata da parte delle ragazze con cui è uscito prima di iniziare
ad uscire con Alessia. Nessuna chiamata da parte di Camila, ma di questo non si
meraviglia: non si sono scambiati i numeri.
Una volta pronto,
si occupa di rifare il letto e di aprire la finestra per far cambiare l’aria.
Si chiude la porta
alle spalle e fa una carezza a Bilbo. Il cane scodinzola e lo precede al piano
di sotto, pronto a giocare.
Quando arriva stasera?
Stasera arriva diverse ore dopo. Ore passate a giocare con Bilbo, a
tifare la sua squadra (che fortunatamente ha vinto) e a controllare l’orologio.
“Ehi, dove vai?”
gli chiede sua madre quando lo vede prendere le chiavi dell’auto. E’ seduta sul
divano accanto a Giancarlo, intenta a guardare una commedia alla tv.
“Esco,” risponde Davide, come se uscire alle 10 di domenica sera
fosse la cosa più naturale della terra. “Con i miei amici.”
“Certo, con gli
amici…” ribatte Priscilla, dalla cucina.
“Sshhh!” interviene
lui.
Non intende dare
spiegazioni alla sua famiglia, tantomeno sul luogo in cui si sta recando.
“Non
fare troppo tardi.
Domani devi riprendere a studiare,” dice con severità
Simona.
“D’accordo,
d’accordo.”
Saluta tutti con un
bacio volante, dà un’altra carezza a Bilbo e parte.
Impiega quaranta
minuti per raggiungere il retro del palazzo in cui vivono Alessia e Camila.
Parcheggia l’auto nello stesso punto del giorno prima, rallegrandosi per aver
trovato un posto facilmente, e controlla l’orologio. Non si sono dati un
appuntamento preciso, per questo ha deciso di presentarsi più o meno alla
stessa ora in cui sono scesi ieri sera.
Scavalca il muretto
di cinta del giardino, cercando di non sporcarsi i pantaloni scuri e la giacca
(ha pensato di osare, come se si trattasse di un appuntamento vero e proprio),
e vede che Camila è già lì, accanto allo stesso lampione.
Indossa perfino lo
stesso cardigan, ma i pantaloni sono di un colore diverso.
E’ felice di non
dover aspettare il suo arrivo, e lo dimostra andandole incontro a passo
spedito, sorridendo.
“Ciao,” dice.
“Ciao,” risponde lei.
“Sei qui da molto? Non sapevo a che ora…”
“Sono appena
arrivata,” lo interrompe.
Camila non riesce a
guardarlo negli occhi per più di due secondi; muove lo sguardo dal viso di
Davide agli alberi, ai cespugli secchi, alla panchina rovinata.
Davide vorrebbe che
lei si fermasse. Sembra nervosa, e non vuole che lo sia.
“Perfetto,” dice. “Hai… hai passato una bella giornata?”
Camila annuisce. “Ho riposato. E ho fatto il bucato,”
aggiunge, scrollando le spalle.
“Non sei uscita?”
Camila scuote il
capo. “Non fino a poco fa, per venire qui.”
Davide è sorpreso.
Non tanto dalle timide risposte di Camila, quanto dalle domande che le sta
facendo. Gli sembrano stupide, insignificanti.
E’ abituato a
frequentare persone più grandi di lui, ma non è mai uscito con una ragazza più
grande. Camila lo è, e anche se non si tratta di un vero appuntamento, Davide
non può fare a meno di sentirsi in difficoltà.
“Ti va se ci
sediamo un po’?” chiede lei. Si volta verso la panchina rovinata.
“Sì,” risponde Davide. “Va bene.”
Si accomodano e
restano in silenzio per qualche momento.
“Oggi non sei
uscito con Alessia?”
“Come? Oh, no. Oggi no,”
dice lui.
Dopo pranzo, la
ragazza le ha inviato un messaggio, chiedendogli se avesse programmi per la
serata. Lui si è inventato una cena di famiglia a cui non poteva mancare, e le
ha augurato una buona giornata e un buon inizio di settimana.
“Davvero le hai
mentito?” chiede Camila, dopo che le ha raccontato tutto.
“Sì. Non potevo dirle che sarei venuto qui, no? A proposito,” dice,
guardandosi attorno. “Non è che ci sta spiando?”
“No,” risponde lei senza indugio. “Le finestre del nostro
appartamento non affacciano su questo lato, e poi è rimasta per tutto il giorno
in camera sua. Credo che stia studiando per un esame.”
Davide si sente
sollevato. Essere scoperti da Alessia sarebbe un’esperienza poco piacevole.
Non saprebbe come
giustificare la sua presenza, tranne che con un’altra bugia, e di sicuro Camila
reagirebbe male.
Un altro momento di
silenzio, in cui Davide pensa a cosa dire. Nelfarlo osserva le gambe sottili di Camila
e le sue scarpe. Sono scure, pulite, dignitose.
Tutti, in lei, grida
dignità. Anche il modo in cui mangiava, ieri sera. Composta, educata.
“E così hai vissuto
in Germania,” dice dopo aver riflettuto. “A diciotto
anni sono andato a Berlino,” dice. “In vacanza con i
miei amici.”
“Non sono mai stata
a Berlino,” mormora Camila, alzando gli occhi sul suo
viso. “E’ bella?”
“Molto. Come
souvenir ho portato un pezzo del muro… sai che li vendono?”
Camila sembra
smarrita per un secondo, ma poi annuisce.
“Dove vivevi? Eri molto lontana da Berlino?”
“Bad Saulgau,” risponde lei. “La città in cui vivevo è Bad Saulgau.” Si
strofina il naso prima di continuare. “Ero molto lontana da Berlino.” E non
dice altro.
“Anch’io mi sono
spostato da Carovigno,” dice Davide. “Ovviamente…
visto che siamo qui,” aggiunge poi, dandosi dello
stupido. “Mia madre si è risposata quando mio padre è morto, e siamo venuti qui a Roma.”
Camila allarga gli
occhi alla notizia. “Mi dispiace.” Non dice altro.
“Ehi,
che c’è? Tutto bene?”
“Una volta hai
nominato tuo padre,” sussurra lei. “Negli spogliatoi.”
“Quando?”
“Quando non volevo
accettare le scarpe di tua sorella. Dicesti che se non l’avessi fatto avresti
chiamato prima il magazziniere e poi tuo padre.”
Davide è
meravigliato. “L’ho detto davvero? Te
ne ricordi ancora?”
Camila lo guarda,
come se volesse aggiungere qualcos’altro, ma si limita ad annuire.
“Da piccolo ero una
peste,” dice sorridendo. “Priscilla mi faceva i
dispetti, e i miei compagni di classe mi prendevano in giro per le orecchie a sventola.
Ero un bambino allegro, ma spesso avevo bisogno di farmi valere, di non farmi
calpestare.” Guarda Camila, le punta un dito contro. “Ricordo che eri piuttosto agguerrita, sai? Volevi a tutti i
costi che ti lasciassi sola, eri così… testarda.”
Testarda come ieri, quando non volevi che ti
offrissi la pizza. Eppure ce l’ho fatta, sia diciassette anni fa che ieri.
“Non avevi le
orecchie a sventola,” dice lei, sorridendo. “Non le
hai neppure adesso.”
“Infatti!” esclama
il ragazzo. “Eppure tutti si divertivano a chiamarmi Dumbo.
Incredibile. I bambini sono crudeli.”
“Tu non eri crudele,” dice Camila, facendo dondolare un piede. “Ficcanaso,
forse, ma non crudele.”
A Davide piace
sentirla parlare. Non solo per la sua voce, un po’ roca, ma anche perché adora
osservare le sue labbra che si muovono. Ne è ipnotizzato, sempre.
“Non ero ficcanaso,” risponde, senza staccare gli occhi dal sorriso di lei. “Ero
buono.” Pronuncia l’ultima frase inclinando la testa sulla spalla, con lo
sguardo di un cagnolino in attesa dell’osso.
Camila ride di
gusto all’espressione buffa di lui. “Ok, ok. Eri buono.” Lascia passare cinque
secondi. “E anche un po’ ficcanaso.”
“Se
io ero ficcanaso, allora tu eri testarda. Ammettilo.”
“Lo ammetto,” ribatte, senza problemi. “Dovevo esserlo. Non potevo
farmi scoprire dal magazziniere.”
“Quanti anni
avevi?” chiede lui, pentendosene all’istante. “Come non detto, scusa. Non si
chiede l’età ad una signora.”
“Avevo 14 anni,” risponde. “Ora ne ho 31.”
E’ tanto più grande,
pensa lui. “Io ho solo 24 anni,” dice, traducendo in
parole il pensiero amareggiato. “Avevo 7 anni allora.”
“Eri molto
coraggioso.” Le parole di Camila arrivano quando Davide guarda a terra. La voce
è bassa, ma comprensibile. Il
silenzio e la semi oscurità li circondano. “La maggior parte dei bambini
sarebbe scappata via di fronte ad una come me, invece
tu-”
“Una
come te?”
“Una persona povera,” chiarisce lei. “Hai gridato solo una volta, o forse due.
E solo perché ti aspettavi di trovare un tuo amichetto sotto la doccia.”
Davide non sa come
ribattere. Non pensa che il suo comportamento possa definirsi coraggioso, ma su
una cosa non c’è dubbio: non ha mai avuto paura di Camila.
“C’era qualcuno che
scappava da te?” chiede. “I bambini della scuola calcio ti hanno trattata
male?”
“No, non mi hanno
trattata male” risponde lei. “E comunque è passato tanto tempo… quel che
accadeva allora non importa più.”
Importa per me.
Davide è curioso, e
se ne vergogna. Sa che chiedere a Camila della sua vita è sconsigliabile e
irrispettoso, ma non riesce a trattenersi. Gli piace ricordare di quei giorni,
quando dopo ogni allenamento passava la serata a descrivere a suo padre ogni
passaggio, ogni gol, ogni esercizio che il mister gli aveva fatto fare. Ricordare
Carovigno lo mette di buonumore, ma forse per Camila non è così. In fondo lei a
Carovigno era la ragazza che non aveva docciaschiuma e scarpe decenti.
“Non c’è bisogno di
scusarsi,” ribatte prontamente lei. “Non
preoccuparti.”
E proprio in quel
momento sentono di nuovo la musica. Proviene dalla stessa finestra, ed entrambi
si voltano in quella direzione.
La melodia è
diversa da quella della sera prima, e Camila la riconosce subito.
“Adoro questa
canzone,” dice con entusiasmo.
Davide riconosce
subito l’arpa e la voce sottile della cantante.
“La conosci?”
chiede lei, muovendo il piede a tempo con la musica.
“Sì.”
“E’ bellissima,” sussurra. Il vento è a favore anche stasera, per cui
restano in silenzio ad ascoltare.
Il ragazzo guarda
Camila, che a sua volta guarda lui. Strofa dopo strofa, si osservano, si
guardano.
Davide ammira le
sue labbra e si ubriaca delle parole della canzone. Il ritmo sostenuto e le
percussioni iniziano a guidare i suoi pensieri
E’ così bella.
Vorrebbe conoscere
le sue idee, i suoi pensieri. Vorrebbe sapere perché continua a guardarlo e a
mordersi l’interno della guancia. Vorrebbe accarezzarle la pelle ambrata.
Lo vuole anche lei? Perché mi attrae così
tanto? Se la toccassi cosa farebbe? E Alessia?
C’è un pizzico di
magia, fra di loro, e non si tratta di una sensazione
bugiarda.
Davide la scorge
negli occhi celesti di Camila, nel sorriso appena accennato.
La magia svanisce,
però, quando la canzone giunge al termine. Camila si alza in piedi, e nel farlo
sfiora la mano di Davide. Un gesto volontario? Un puro caso?
“Sì è fatto tardi,” dice, infilando le mani nelle tasche del cardigan. “Devo
andare.”
“Di
già? Sono
passati solo pochi… No, sono passate quasi due ore…” dice con sorpresa, quando
guarda l’orologio.
“Già. Ho bisogno di
riposare, domani lavoro.”
Davide non è pronto
a separarsi da lei. Gli sembra che non abbiano parlato di nulla di importante. E’
come quando da piccolo andava alle giostre, e i suoi gli dicevano che era il
momento di andare via proprio quando stava cominciando a divertirsi.
Si alza anche lui. “Posso
chiamarti?” chiede, anche se non dovrebbe.
Camila allarga gli
occhi ancora una volta. “Vuoi il mio numero?”
“Lo vorrei,” risponde. “Ma so che non… Voglio vederti ancora,” sbotta. “Oppure sentirti. O vederti e sentirti. Anche qui,” dice, indicando la panchina. “Anche la prossima
settimana, se da domani devi lavorare e non puoi.”
Sebbene Camila
resti muta, Davide può leggere sul suo viso le emozioni che sta provando:
sorpresa, meraviglia, timore, e infine durezza.
“Tu e Alessia
uscite assieme,” dice, ammettendo l’ovvio. “Perché
vuoi vedere me? O sentire me? Tu e lei siete…”
Non termina la frase. Estrae le mani dalle tasche e si abbraccia la
vita, guardando in basso. “No,” sussurra. “Non posso.”
“Se è per Alessia
non c’è problema,” dice lui. E’ pronto a non cercarla
più. E’ pronto a mettere fine al loro rapporto appena iniziato.
Tutto, pur di
rivedere Camila. Pur di guadagnarsi l’opportunità di darle un bacio. Lo farebbe
anche adesso, se non avesse paura di una brutta reazione.
“Fra me e Alessia
non c’è nulla di serio,” riprende. “Voglio rivederti, Camila. Voglio chiamarti. Voglio-”
“Io sono sposata,” dice in un respiro. “Sono sposata,”
ripete.
Raddrizza le
spalle, abbassa le braccia lungo i fianchi e lo dice di nuovo. “Sono sposata.”
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La canzone era Cosmic
Love, di Florence + The Machine.
E Davide è laziale, non c’è bisogno che lo precisi XD
Grazie per tutti i commenti allo scorso
capitolo. Grazie anche ai lettori silenziosi.
In molti mi avete chiesto di dare un volto a
Davide e Camila: qualche settimana fa l’ho fatto, e ne è venuto fuori un post
sul mio blog. Dategli un’occhiata e fatemi sapere cosa pensate delle mie
scelte.
Buona lettura.
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Capitolo 9
“Sei… sposata?”
Camila legge lo stupore sul volto di Davide, mentre il ragazzo ripete le sue
parole. “Io… Io non lo sapevo. Tu non…” Lo vede abbassare gli occhi sulle sue
mani. “Non hai l’anello. Non porti
la fede.”
“Sono sposata,” ripete lei. “Te l’assicuro.”
Rimangono a
guardarsi senza dire niente. Lui è davvero meravigliato, e Camila non sa in che
modo interpretare tale sentimento. Si tratta di mera sorpresa o di delusione?
“Tuo marito dov’è?”
le chiede, tornando ad essere il ragazzo curioso di sempre. “E’ di Roma?”
“No. Non è di Roma.” Camila desidera sganciarsi, prima che le domande
possano diventare più insidiose.
“Dov’è? Da quanto tempo siete sposati?”
“Quattordici anni,” dice, meccanicamente.
“Quattordici?!” esclama Davide. “Avevi… avevi 17 anni quando ti sei
sposata?”
Lei annuisce.
“Wow. Beh, io… io
non avevo idea, Camila. Non volevo…
Scusami.”
La donna scuote il
capo per fargli capire che non deve preoccuparsi. Abbassa gli occhi. “Non c’è problema. Non potevi sapere.”
Lui tace per
qualche secondo, e alla fine riprende. “Ma allora perché… Perché
non sei con lui, adesso? E perché ti preoccupi che
Alessia e Ida non vengano a sapere che… E perché mi hai detto che potevamo… che
potevamo parlare…” Se l’inizio del suo piccolo interrogatorio è pieno di
veemenza, l’ultima domanda esce dalle labbra di Davide con poca forza.
Quasi come se, di domanda in domanda, le risposte siano arrivate da sole.
“Volevi solo
assicurarmi che non dicessi niente alle ragazze.”
C’è delusione nei
suoi occhi, e Camila non fatica a vederla.
“Tutto qui? Volevi soltanto… soltanto questo?”
Lei non sa come
rispondere. Cosa dirgli per fare in modo che non arrivi alla conclusione
sbagliata.
“Va bene,” sussurra lui. “Non preoccuparti,
Camila. Non dirò nulla ad Alessia e Ida. E non ti importunerò
più.”
Infila una mano nei
pantaloni, tira fuori le chiavi della sua auto.
Sta per andarsene. Lo rivedrò ancora?
Probabilmente no.
“Scusami se ti ho
portato via del tempo,” le dice. “Se avessi saputo che
eri sposata non avrei mai… Fai finta che non sia neppure venuto qui, ok? Buonanotte. Ciao.”
Si volta e fa per
andarsene, ma lei compie due passi e lo raggiunge. “No, aspetta.” Ha quasi
paura di toccargli la giacca. Di sgualcirla. Di scoprire che il contatto può
piacerle.
Davide si gira.
Sembra annoiato. Di sicuro non è interessato a ciò che lei sembra volergli
dire. “Cosa?”
A Camila il cuore
batte forte. Vorrebbe parlare a voce normale, ma tutto ciò che esce è un
sussurro lieve. “Mi dispiace.”
“Come? Non ho sentito, puoi ripetere?”
“Io… ho detto che
mi dispiace.” Si abbraccia la vita sottile e continua a guardare il cemento del
giardino.
“Non preoccuparti,” ribatte lui, senza alcuna espressione. “Dispiace di più a
me.” E se ne va.
Senza darle modo di
dire altro. Senza guardarla per l’ultima volta. Di questo Camila è contenta: è
meglio che lui non abbia visto i suoi occhi pieni di lacrime.
Torna al suo
appartamento lentamente, stretta nel cardigan viola. Quando entra in casa tira
un sospiro di sollievo. Ida e Alessia sono nelle loro rispettive camere, per
cui può evitare di salutarle, o di passare loro accanto.
Si chiude anche lei
nella sua stanza e cerca di non pensare al modo in cui l’incontro con Davide è
precipitato rovinosamente. Ha aspettato per tutto il giorno il momento in cui
l’avrebbe rivisto, ma non pensava che il ragazzo potesse essere così
intraprendente.
Mi ha perfino fatto capire che avrebbe
mandato all’aria la storia con Alessia.
Camila si impone di
vedere le cose per quello che sono. Davide è un ragazzo ricco, giovane,
impegnato a studiare e a divertirsi. Lei ha sette anni in più di lui, e per
vivere pulisce le case altrui. I suoi impegni principali sono due: lavorare e
mettere i soldi da parte per poter finalmente lasciare Roma e l’Italia.
E’ stato bello
ritrovarlo, rivederlo. E’ stato bello averlo potuto ringraziare, finalmente,
per le scarpe di Priscilla e per il grande aiuto che lui le ha dato tanti anni
prima.
Ma fra di loro non potrà mai esserci nulla. Neanche una
semplice amicizia. Li dividono un mucchio di cose. Insormontabili. Impossibili
da cancellare.
Prima di infilarsi
sotto le coperte e cercare di riposare a sufficienza, in visione
dell’impegnativo lunedì che l’attende, Camila cerca nella borsa il suo
portafogli. Lo apre e lo capovolge su una mano, facendo attenzione a non far
cadere i pochi spiccioli.
L’unico oggetto a
cadere è la sua fede, la stessa fede che Davide ha subito cercato per
accertarsi che non stesse mentendo. Un cerchio sottile in oro giallo, che
Camila ha tenuto al dito per undici anni.
Fino alla notte, di
anni ne sono trascorsi tre, in cui ha fatto la valigia ed è scappata dalla
Basilicata. E da Umberto.
***
Davide si maledice
fino ad addormentarsi, nel letto della sua cameretta.
Per un momento ho
pensato che fra me e lei potesse esserci qualcosa, invece… invece è una donna sposata.
Nel bouquet di
successi con le donne, Davide custodisce anche qualche delusione. Rapporti
andati male, illusioni infrante al primo appuntamento, conquiste troppo
difficili perfino per lui, che di solito si diverte con un certo tipo di prede.
Adesso, però, gli
sembra che questa delusione sia più cocente delle altre, e il motivo è
semplice: è stato sorpreso. Non si aspettava una simile notizia da Camila. Non
aveva lontanamente previsto che potesse stare con qualcuno, tantomeno essere
sposata.
Invece lo è, da
tantissimo tempo. E lui non può farci niente.
***
Per Camila, il
lunedì è il giorno più impegnativo di tutti. Per questo motivo, non appena si sveglia,
prepara il caffè e lo versa in un thermos azzurro che porterà con sé in giro
per la città. Ogni tanto ne beve un goccio, fra una casa e l’altra, o mentre è
sull’autobus o in metropolitana.
Oggi pare che ne
abbia più bisogno del solito. La notte è stata agitata, e più volte interrotta
da risvegli improvvisi e in apparenza immotivati.
Esce di casa poco
dopo le 7, ancora una volta felice che le coinquiline
siano nelle loro camere. Nella borsa che contiene il thermos c’è anche una
bottiglietta d’acqua, un panino (simile a quello che avrebbe voluto preprare la
mattina in cui ha sorpreso Davide nella sua cucina) e un frutto.
La metropolitana è
gremita di gente: lavoratori e studenti pronti (o forse no) a cominciare una
nuova settimana. Il lunedì le conversazioni sono sempre le stesse: cos’hai
fatto nel fine settimana, com’è andata la partita, non
vedo l’ora che arrivi venerdì.
Camila osserva
gambe e piedi dei passeggeri seduta al suo posto, accanto ad una donna dai
capelli rossi. Evita di leggere, si sente troppo stanca, e pensa alle famiglie
che dovrà visitare.
In certe case,
sembra che nel weekend succeda di tutto: cesti infiniti di bucato sporco o da
stirare; piatti accumulati per due giorni che non aspettano altro che lei per
essere lavati; pavimenti incrostati di liquidi sospetti e polvere che sembra
piovuta sui mobili in meno di 48 ore.
Camila sa che tutto
questo significa avere un lavoro assicurato: in un certo senso è grata al
disordine e alla scarsa pulizia dei suoi clienti, ma non riesce comunque a
capire come possano essere così sporcaccioni in un così breve lasso di tempo.
Nella mattinata
visita tre case, tutte nello stesso quartiere: si occupa delle stoviglie, del
bucato e anche di un cane, quello della signora Mastrangeli. La donna possiede
un Pinscher nano, ingestibile nonostante la piccola taglia. Camila è l’unica a
riuscire a domarlo ed è convinta che
la signora sia ancora sua cliente solo per lasciarle in custodia il cane.
L’appartamento, infatti, è sempre pulito e ordinato.
Nel pomeriggio si
dirige nella zona a nord della Capitale. In metropolitana consuma il suo panino
e sull’autobus dà qualche morso alla mela rossa.
Certe case,
soprattutto quelle in cui vivono i bambini, sono un vero e proprio inferno di
lunedì pomeriggio: i piccoli di casa sono frenetici, molto vispi, e le madri
cercano di metterli a sedere per studiare oppure di farli preparare per andare
in piscina, o in palestra, o al campetto.
Camila deve
ritagliarsi uno spazio in cui poter lavorare, cercando allo stesso tempo di essere
discreta ed efficiente. Alle padrone di casa non piace avere una donna delle
pulizie che si lamenta perché il figlio ha calpestato i pavimenti appena
lavati. Alle padrone di casa non piace essere disturbate durante la visione
della propria telenovela preferita.
In tre anni Camila
è riuscita a rendersi invisibile, e questa è una delle doti che i suoi clienti
apprezzano particolarmente in lei. In genere funziona così: arriva, saluta i
proprietari della casa, resta con loro per qualche minuto a fare conversazione,
e poi chiede con garbo ‘Da quale stanza posso cominciare?’. I clienti le
rispondono, lei si ritira e comincia a lavorare.
Viene pagata per
ogni ora di lavoro compiuto, ma non per questo si diverte ad essere lenta: i
clienti se ne accorgerebbero subito, se cercasse di fare la furba. E’ rapida, ma scrupolosa. Impiega il tempo necessario, sempre.
Né più né meno.
La sua giornata
lavorativa si conclude alle sei e un quarto di sera, a casa dei Marciano, una
famiglia composta da genitori (entrambi commercianti) e tre figlie adolescenti.
Normalmente, Camila
camminerebbe fino alla fermata più vicina della metro e tornerebbe a casa. Arriverebbe
poco prima delle 8, in
tempo per fare una doccia, mangiare qualcosa e infilarsi sotto le coperte.
Questo lunedì è diverso,
però. Ieri pomeriggio, mentre puliva la sua camera e pensava all’incontro che
avrebbe avuto con Davide, ha ricevuto la telefonata di Simona Falco, l’amica
della signora Ballotta.
Simona si è scusata
per la telefonata domenicale, e le ha parlato del suo problema, ovvero il
bisogno di qualcuno che l’aiuti nelle faccende domestiche. Camila si è resa
subito disponibile per un incontro preliminare, in cui conoscersi e concordare
orari e tariffe. E’ stata lei a scegliere ora e luogo dell’appuntamento, per
due ragioni: la prima, puramente logistica. L’abitazione dei Falco si trova nel
quartiere dei Marciano, e in questo modo Camila non deve fare molta strada. La
seconda, invece, è una ragione di carattere strettamente lavorativo: Camila non
accetta mai un lavoro senza prima aver visto la casa che dovrà pulire ed aver
conosciuto la padrona di casa. Sa di non essere una professionista, e non
vorrebbe mai accettare lavori che potrebbero in qualche modo necessitare di una
qualifica che non possiede.
Una volta un uomo
pretese da lei che oltre alle faccende di casa si occupasse anche di assistere
la madre moribonda.
Oltre a questo,
poi, c’è anche un fattore di contatto. Discutere di lavoro a voce è sempre
meglio che farlo attraverso una cornetta.
Così, venti minuti
dopo aver detto ‘Arrivederci’ all’ultima figlia dei Marciano, Camila si trova
davanti al portone di un nuovo condominio. E’ aperto, ma preferisce suonare il
citofono.
Risponde una donna.
“Chi è?”
“Buonasera, mi
chiamo Camila. Ho parlato con la signora Falco ieri pomeriggio, al telefono.”
“Oh, sì. E’ mia
madre. Salga all’ultimo piano, le apro.”
I piani solo
soltanto tre, per cui l’ascensore non c’è. Di solito a Camila piace fare le
scale a piedi, ma alle 7 del lunedì sera la cosa è più difficile. Ciò nonostante
mantiene un’andatura normale: non vuole arrivare col fiatone, e non vuole che
la figlia di Simona aspetti per un’eternità con la porta aperta.
Quando mette piede
sul pianerottolo la vede, ferma sul tappetino verde. Dietro di lei, un
cagnolino nero che abbaia. “Bilbo, smettila! Torna dentro!”
La ragazza è bionda,
con tanti capelli mossi che arrivano quasi sul seno. E’ alta come Camila, ma le
spalle sono più robuste. Indossa un paio di jeans e una camicia.
Le tende subito la
mano.
“Ciao,” dice. “Io sono Priscilla.”
“Ciao. Buonasera.
Piacere di conoscerla. Mi chiamo Camila.”
“Camilla?”
“Camila, con una L,” ripete lei, per l’ennesima volta da quando è nata.
“Camila, che nome
particolare. Puoi chiamarmi Priscilla, comunque. Non sono
così vecchia.”
“Oh, grazie.” Cerca
di ignorare il nome della ragazza che si trova di fronte; cerca di ignorare il
fatto che le ricordi Davide. “Tu puoi chiamarmi
Camila.”
Priscilla si sposta
di lato per farla entrare. Camila è immediatamente colpita dal profumo di buon cibo
che si avverte nella casa.
“Mamma,
vieni. C’è la ragazza
che hai chiamato ieri.” Poi si rivolge a Camila e le fa segno di seguirla lungo
il corridoio. “Vieni, andiamo in salone. Mamma! Mi
senti?!”
“Eccomi, eccomi.”
Un veloce rumore di ciabatte sbatte sul parquet, seguito da quello delle zampe
di Bilbo, il cane di casa.
E nel momento in
cui la signora Simona emerge dalla cucina, il grembiule in vita e i capelli
biondi come quelli di sua figlia, Camila nota una grande fotografia appesa alla
parete orientale del salone. Raffigura un uomo di circa quarant’anni, in
ginocchio accanto ad un bambino in divisa da calciatore. Il bambino è paffuto e
sorridente, biondo come un angioletto.
La foto è stata
scattata al centro di un campo da calcio, e Camila lo riconosce subito, così
come riconosce quel bambino.
“Quello è mio
fratello,” dice Priscilla con un sorriso. “Davide.”
Grazie per tutti i commenti che lasciate a questa storia
Grazie per tutti i commenti che lasciate a
questa storia. Grazie anche a chi commenta in privato, e a chi resta nelle
retrovie e si limita a leggere.
So che molti di voi si chiedono cosa sia
successo al matrimonio di Camila e che fine abbia fatto Umberto. Queste
informazioni arriveranno al momento opportuno. Non posso anticiparvi nulla, ma
come al solito tutto avrà una spiegazione.
Buona lettura.
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Capitolo 10
Il lunedì di Davide
è simile a quelli delle settimane precedenti. Sveglia alle sette e mezza,
colazione in cucina con latte e biscotti (i suoi preferiti sono gli Abbracci
del Mulino Bianco, in particolare la metà al cioccolato), coccole a Bilbo prima
di uscire di casa, biblioteca dell’Università per studiare con i suoi amici.
Lo fa anche oggi,
nonostante svegliarsi sia più difficile del solito. Ha dormito poco e male,
Davide, e l’idea di mettere il naso fuori dalle coperte lo allieta ben poco.
Tuttavia non è
intenzionato a rimanere indietro con lo studio né, tantomeno, a farsi
condizionare da ciò che è accaduto la sera prima con Camila.
E’ una donna
sposata, più grande di lui, che gli ha chiaramente fatto capire che non è
interessata ad approfondire la sua conoscenza. Ha voluto ringraziarlo per la
gentilezza che Davide ha mostrato nei suoi confronti a Carovigno ed è per
questo che lo ha incontrato, punto.
E’ sposata.
Ha un marito.
Davide si ripete le
due frasi mentre inzuppa lentamente i biscotti nel latte caldo, mentre gioca
con Bilbo fino a farlo abbaiare per la contentezza, mentre si lava i denti e si
prepara ad uscire.
La temperatura è
bassa, ma per fortuna il sole riesce a riscaldarlo mentre sfreccia per le vie
della capitale sul suo scooter, l’unico mezzo di trasporto che utilizza durante
la settimana.
Una volta arrivato
di fronte all’edificio della biblioteca, è sorpreso di trovare (proprio nel
posto che sceglie ogni giorno per parcheggiare) Alessia ad aspettarlo.
“Ehi,” è tutto ciò che le dice, dopo aver tolto il casco ed
essere sceso dallo scooter.
“Ciao,” risponde lei. “Buon lunedì.” Gli si avvicina e gli dà un
bacio sulla guancia.
Lui pensa per un
attimo di scostarsi, ma alla fine cede e ricambia il gesto.
“Buon lunedì anche
a te,” dice Davide. “Come mai sei qui? Pensavo che studiassi a casa.”
“Che c’è, non posso
farti compagnia?” domanda la ragazza, sistemando una ciocca di capelli biondi
dietro l’orecchio.
“Certo che puoi
farmi compagnia.”
In realtà vorrebbe
evitare di cominciare la settimana in questo modo – con Alessia attaccata alla
giacca – ma non vuole dirle di andarsene. Non vuole essere brusco con lei, in
fondo Alessia non ha colpe. Ha solo pensato di fargli compagnia.
Dopo aver preso lo
zaino contenente i suoi libri dal vano sottosella, Davide si affianca ad
Alessia. Lei pensa che lui voglia prenderle la mano, per cui allunga la sua in
anticipo.
Davide, ancora una
volta, non intende essere brusco, per cui intreccia le dita ancora coperte da
un guanto a quelle della sua amica.
“Che hai fatto
ieri?” chiede lei, facendo dondolare le mani unite. “Non ti sei fatto sentire
per niente…” aggiunge, rattristata.
“Sono stato a casa,” dice lui, scrollando le spalle. “Ho dormito, ho passato
un po’ di tempo con mia sorella. Il solito.”
Non vuole inventare
bugie, ma sa che non può dirle la verità. Non può raccontarle di essersi visto
con Camila nel giardino del loro palazzo.
“Tu cos’hai fatto?”
chiede.
Alessia non
aspettava altro che lui si interessasse alla sua domenica. Gli racconta degli
appunti ricopiati e studiati, del pranzo preparato con Ida (“Abbiamo fatto la
pasta al pomodoro e poi l’abbiamo passata nel forno dopo aver aggiunto le
sottilette: era buonissima!”), del pisolino pomeridiano, e degli altri appunti
studiati e ricopiati.
“Pensavo che non
volessi sentirmi,” dice alla fine, prima di entrare in
biblioteca. “Per questo non ti ho chiamato.”
Indossa un paio di
jeans scuri e un paio di scarpe con tacco alto, che le consentono di arrivare
quasi a Davide. Indossa anche un giubbotto bianco perlato, con una cintura
stretta in vita. La zip del giubbotto è aperta a metà,
così come i bottoni della camicia rosa che spunta appena.
Ad Alessia piace
mettere in mostra il proprio seno, e a Davide piace il seno di lei.
“Perché non dovrei
volerti sentire?” chiede lui, osservando la piega dello scollo muoversi grazie
al respiro della ragazza.
“Non lo so…” dice
lei a bassa voce. Compie un passo nella sua direzione, arrivando a sfiorare il suo
naso con quello di lui. “Mi sei mancato,” dice.
Il profumo che
indossa è dolce, molto dolce. Sa di biscotto, di cioccolato, di vaniglia. Davide
ne viene attratto immediatamente, come se fosse una calamita.
E un po’ perché
Alessia sa come stuzzicarlo, un po’ perché gli sembra un bel modo per iniziare
la giornata, un po’ per evitare di pensare ancora a Camila, le cinge la vita
con un braccio e la bacia.
Con passione, senza
freno. Lo fa nonostante Alessia abbia sulle labbra uno strato di lucidalabbra
(Davide non è un fan delle labbra truccate). Alessia si scalda subito. Si
avvicina ancora di più, gli accarezza i capelli biondi. E’ appassionata come
lui, se non di più.
Molti studenti
passano loro accanto, ma a nessuno dei due importa.
Continuano a
baciarsi fino a che Davide non sente il tonfo del suo zaino caduto a terra e si
stacca dalle labbra di lei.
“Andiamo a
studiare?” le chiede, dopo averlo raccolto dal marciapiede.
“Ok,” risponde Alessia, prendendo di nuovo la sua mano.
Davide non è uno
stupido. Sa che Alessia ha una visione del loro rapporto molto diversa rispetto
a quella che ha lui.
Lei pensa di aver
trovato un fidanzato. Lui non è intenzionato ad essere il suo fidanzato.
Lei spera che dal
sesso possa nascere altro. Lui non sente per Alessia alcun sentimento profondo.
Davide è anche un
ragazzo, però. Un ragazzo che ama divertirsi, che non riesce a dire no ad un
bel corpo, a due belle gambe che sanno avvinghiarsi al momento giusto attorno
ai suoi fianchi, ad una bella bocca, ad un meraviglioso e rigoglioso decolleté.
Per questo (anche
per questo) non gli importa che Alessia si consideri la sua quasi-ragazza.
Per questo non si
oppone quando lei gli chiede di studiare insieme.
Lo fanno fino
all’ora di pranzo, quando vengono raggiunti da Ida e da alcuni amici di Davide;
decidono insieme di mangiare un panino al bar della biblioteca. Alessia siede
accanto a Ida, e Davide ne è contento: dopo tutte le ore passate con lei ha
bisogno di una pausa
Ripensa a Camila
mentre addenta il suo panino con pomodori e cotoletta.
Sta lavorando, adesso? Sta pranzando? Ha da
mangiare?
L’ultima domanda è la più stupida, si dice. Certo che ha da mangiare, non è più la ragazzina di diciassette anni
fa.
E’ adulta, adesso, e sa badare a se stessa.
E’ perfino sposata. E quindi inarrivabile. Impossibile. Off limits.
Tale consapevolezza
suscita in lui un’ondata di fastidio, di nervosismo.
A fine pasto, è Davide
ad avvicinarsi ad Alessia e a baciarla. Lei risponde subito, ovviamente, e non
dice di no quando Davide le chiede di appartarsi in una delle aule studio
vuote.
***
Davide, Alessia e i
rispettivi amici restano in biblioteca fino alle quattro del pomeriggio. Piace
a tutti divertirsi, ma quando si tratta di studiare Davide diventa un vero e
proprio secchione. Non vede l’ora di laurearsi e per questo lavora sodo sui
libri, in visione della preparazione della tesi.
Quando offre ad
Alessia un passaggio a casa, la ragazza non rifiuta. Davide ha sempre un casco
in più nel vano sottosella, e lei lo indossa immediatamente.
Si aggrappa a lui
più del necessario, sentendosi felice al pensiero di rimanere con Davide ancora
per un po’.
Il ragazzo frena
sotto casa di Alessia mezzora dopo. Il sole è ormai tramontato, e il freddo è
pungente.
“Ti va di salire?”
chiede lei, passandogli il casco. “Puoi cenare qui, se vuoi.”
“No, Ale. Meglio di
no. Devo tornare a casa, ho un impegno con i miei.”
Non ha nessun
impegno. La verità è che non vuole rischiare di ritrovarsi nella stessa casa
con Camila. Non è ancora pronto a rivederla.
“Va bene,” risponde Alessia, imbronciata. Si avvicina per dargli un
bacio sulla guancia, un bacio che lui trasforma subito in un bacio sulle
labbra. Il lucidalabbra è completamente andato via, fortunatamente per lui. “Ci
vediamo domani?”
“D’accordo,” risponde Davide. “Alla biblioteca alle 10?”
“Perfetto. A
domani, allora.”
Davide mette piede
in casa alle cinque e mezzo, stanco e infreddolito.
Bilbo gli fa le
feste e saltella fra i suoi piedi mentre cerca di attraversare il corridoio.
“Sono tornato!
Mamma? Priscilla?”
“Siamo qui!”
risponde sua sorella.
Le raggiunge in
cucina, dove le due donne sono intente a decorare una torta.
“Non toccare,” dice Priscilla. “E’ per questa sera, abbiamo ospiti.”
“Ugh,” mugugna lui, notando tutti i fornelli occupati da pentole
e padelle. “Chi sono?”
“Giancarlo ha
invitato un vecchio amico e sua moglie,” risponde
Simona, sua madre. “E me l’ha detto solo oggi a pranzo! Ho dovuto preparare
tutto in fretta e furia, e tua sorella è tornata solo poco fa dall’ospedale per
darmi una mano.”
Priscilla svolge il
tirocinio come chirurgo pediatrico presso il San Camillo, un importante
ospedale di Roma.
“Non possiamo
andare al ristorante?” chiede Davide, prendendo una manciata di scaglie di
mandorle prima che Priscilla riesca ad impedirglielo.
“No,” risponde sua madre. “Non possiamo. Qualche anno fa siamo
andati a cena da loro, e la signora Giovanna,” dice,
sottolineando il nome con sarcasmo, “ha preparato un menu degno del Re Sole.
Non voglio che pensino che non sono in grado di stare
ai fornelli.”
“Ma è vero,” ribatte il ragazzo. “Tu non sei in grado di stare ai
fornelli.”
Priscilla e Simona
si voltano verso di lui nello stesso momento. Sua sorella sussurra un ‘Smettila, idiota’, mentre Simona gli lancia un’occhiata di
fuoco.
“Non voglio
offenderti, mamma,” rimedia lui, “ma quando si tratta
di cucinare per tante persone vai sempre in crisi.” Ignora le mandorle e le va
accanto. Le dà un bacio e l’abbraccia. “Posso aiutarti in qualche modo, mammina?”
“Sparisci,” dice lei, dandogli una leggera sculacciata. “E tieni
l’orecchio teso per il campanello. Sto aspettando una persona.”
“Chi?”
“La nuova donna
delle pulizie,” dice, sollevando un coperchio per
girare il sugo di pesce.
“Mamma pensa che si
chiami Camila, con una L,” interviene Priscilla.
“Dille anche tu che sbaglia.”
“Come? Camila?” Davide saltella
con lo sguardo fra le due donne.
“Sì,” risponde Simona. “E non ho capito male,”
dice a Priscilla. “Si chiama davvero così.”
Quante donne delle pulizie esistono a Roma
con il nome Camila? si chiede Davide. Poche,
pochissime.
Può essere davvero lei? C’è solo un modo per
scoprirlo.
“Beh, se non avete
bisogno di me vado in camera mia,” dice,
indietreggiando verso la porta.
“Va bene, va bene,” risponde sua madre. “Cerca di tenere a bada Bilbo, però:
oggi è più agitato del solito.”
“Sei agitato, eh?”
chiede al cane mentre salgono le scale. “Siamo in due.”
Dal momento che
Bilbo non può entrare in camera da letto e Davide non intende farsi vedere in
casa se la Camila
in questione dovesse rivelarsi la sua
Camila, il ragazzo si sistema con il portatile sulle ginocchia proprio sull’ultimo
gradino delle scale a chiocciola. In questo modo può giocare con Bilbo,
navigare in internet e tenere d’occhio la situazione al piano inferiore.
Il citofono suona
poco prima delle sette, quando Davide ha perso ormai la sensibilità delle gambe
e delle natiche.
Bilbo scappa di
sotto, come al solito quando sente il citofono, e sua sorella va a rispondere. La sente dire: “Oh, sì. E’ mia madre. Salga all’ultimo piano, le apro,” e il cuore inizia a battergli in maniera strana, veloce.
Vorrebbe che si trattasse della sua Camila, della ragazza di Carovigno, ma allo stesso tempo sa che
se così fosse, sarebbe letteralmente spacciato.
Davide sente sua sorella richiamare Bilbo all’ordine e poi
presentarsi. “Ciao, io sono Priscilla.”
Tende l’orecchio e la sente. La sua voce. La voce di Camila.
Si presenta anche lei. Priscilla le chiede il solito chiarimento
sul nome, e Camila le dà la solita risposta. La stessa risposta che diede anche
a lui quando era solo un bambino che giocava a pallone in un campetto di
calcio.
Chissà se Camila ha capito. Chissà se ha
collegato il nome di mia sorella a me.
Priscilla invita
Camila a seguirla verso il salone e chiama sua madre, che sfreccia dalla cucina
per accogliere l’ospite.
Per una decina di
secondi Davide non sente alcuna voce, ma poi quella di Priscilla lo fa piombare
nella semi-disperazione. “Quello è mio fratello, Davide.”
Deve aver visto la foto che la mamma ha
scattato quel giorno, dopo la partita in cui ho segnato il mio primo gol. Ha capito.
Ha capito che sono io.
“Adesso però è
cresciuto,” dice Simona. “Vieni, Camila. Accomodati.”
Alcune sedie
vengono spostate, Bilbo continua ad abbaiare.
“Bilbo, calmati,” dice Priscilla. “Scusalo, Camila; fa sempre così quando
abbiamo ospiti.”
“Non c’è problema,” risponde Camila. “A me piacciono i cani. Posso
accarezzarlo?”
“Certo.”
Lo sta accarezzando, pensa lui. Sta accarezzando il mio cane.
“E’ molto carino,” dice Camila.
Davide non può
vederla e può a malapena sentirla, ma sa che sta sorridendo. Immagina le sue
labbra piene curvarsi verso l’alto, e all’improvviso il nervosismo che l’ha
accompagnato per tutto il giorno svanisce.
Perché sei sposata? Perché te ne sei andata
da Carovigno? Perché non posso frequentarti come vorrei?
“Bilbo è un gran
furfante,” dice Simona. “E un gran giocherellone. Proprio
per questo sarebbe il caso che ci lasciasse da sole per un attimo, in modo da
farci fare quattro chiacchiere. Davide, scendi?!Perché non vieni a prendere Bilbo?”
Grazie, come sempre. Anche a chi legge e non
commenta.
Capitolo 11
“Davide, scendi?!Perché non vieni a prendere Bilbo?”
Il tempo si ferma
quando Camila capisce che Davide è in casa. Priscilla e Simona guardano verso
il corridoio, in attesa che il ragazzo scenda, e dopo un po’ li sente anche
lei: i passi di qualcuno che arriva dalle scale, dal piano di sopra.
A Camila sembra di
trovarsi in un’altra dimensione, in un film, in un contesto irreale.
Quando Davide mette
piede nel salotto, cerca di rimanere composta e sorridente, anche se l’istinto
le chiede di inventare una scusa ed andare via.
“Eccoti,” dice Simona. “Bilbo è molto agitato, perché non lo porti
un po’ fuori?”
Invece di
rispondere a sua madre, Davide guarda Camila.
Dirà che mi conosce? Mi saluterà come se
niente fosse?
“Buonasera,” dice lui. Allunga la mano verso Camila, che l’accetta
subito ma senza guardarlo negli occhi. “Sono Davide.”
“Io Camila,” dice lei velocemente. Ritira la mano e si volta nella
direzione di Simona.
“Camila lavorerà
qui,” dice la donna a suo figlio. “Almeno lo spero,” aggiunge ridendo.
“In casa siamo in
quattro,” interviene Priscilla. “Noi tre ed il nostro
patrigno, Giancarlo.”
Istintivamente,
Camila si volta a guardare la foto raffigurante Davide
da bambino. “Quello è mio padre,” dice lui,
appoggiando i gomiti sulla spalliera della sedia di sua sorella.
Camila annuisce,
sperando che il ragazzo si decida a portar fuori il cane come sua madre gli ha
chiesto.
Perché è proprio questa, la casa? Perché?
Posso rifiutare? No, ho bisogno di soldi. Posso accettare? No, non posso
lavorare per la famiglia di Davide.
“In linea di
massima siamo ordinati e puliti,” riprende Simona,
“tranne quando qualcuno trasforma il pavimento del bagno in una piscina dopo
aver fatto la doccia,” dice, lanciando un’occhiataccia a Davide.
Lui avvampa. “E’
accaduto solo quella volta,” dice fra i denti.
“E io stavo per
rimanerci secca,” gli fa eco Priscilla.
“Senti chi parla,
tu sei quella che lascia in giro palline da hockey.”
“E tu non guardi
mai dove metti i piedi.”
“E tu-”
“Ok, ok, basta!”
esclama Simona. “Siete impazziti? Abbiamo un’ospite, non fatemi fare brutte
figure.”Poi, rivolgendosi a Camila,
dice: “Sono adulti, ma si comportano come bambini. Scusali.”
“Non c’è problema,” risponde lei, guardando ovunque tranne che nella
direzione di Davide. “La casa è su due piani?” Da un lato vorrebbe rimanere in
silenzio per non esporsi, ma è pur sempre ad un colloquio di lavoro, e il suo
obiettivo è quello di ottenere informazioni sulla famiglia e sulla casa.
“Sì,” dice Priscilla. “Qui sotto abbiamo il salotto, la cucina, un bagno e lo studio. Di sopra,
invece, le tre camere da letto e un altro bagno.”
Camila annuisce,
guardandosi attorno.
“Ciò di cui ho
bisogno,” dice Simona, “è un aiuto per mandare avanti
la baracca. Qualcuno che mi aiuti a pulire le camere, che mi aiuti con il
bucato. Pensi di potercela fare? La mia amica mi ha parlato benissimo di te. Dice che sei un angelo.” Le sorride, e per un attimo Camila rivede
in lei lo stesso sorriso di suo figlio. Buono e generoso.
“Posso farcela,” dice Camila guardandosi le mani, “ma la mia settimana di
lavoro è molto piena. Ogni quanto avrebbe bisogno di me?”
“Tutti i giorni!”
esclamano le due donne insieme.
“Tutti i giorni?!”
“Sì, Camila. Vedi,
la casa non è molto grande, ma c’è sempre qualcosa da fare. Mio marito invita
sempre i suoi amici all’ultimo momento; i due campioni, qui, sono sempre in
giro e io-”
“E lei va in crisi,” conclude Davide. Lo dice senza guardare Camila.
“Io non vado in
crisi,” ribatte Simona, “ho semplicemente bisogno di
una mano. Tutto qui.”
“Lei lavora?”
chiede Camila.
“No,” risponde la donna. “Non più.”
“Io sono impegnata
in ospedale,” dice Priscilla. “Due volte alla
settimana ho gli allenamenti con la squadra di hockey, e ogni quindici giorni
parto per le trasferte.”
Camila fa il suo
lavoro da poco, ma ha imparato bene a conoscere i suoi clienti.
Esistono le donne
impegnate sul lavoro, che non hanno tempo da dedicare alla casa e per questo si
affidano a lei. Esistono le persone anziane, che non hanno più la forza
necessaria per pulire i vetri o per stendere il bucato. Esistono le famiglie
ricche, per le quali la donna delle pulizie è un must, come la pelliccia
nell’armadio o l’auto di lusso in garage.
Esistono poi le
donne come Simona, che non hanno un buon rapporto con la casa e che
preferiscono affidare le faccende domestiche ad un estraneo. Camila le
preferisce alle altre, per il semplice fatto che non fanno parecchie storie e
non la trattano mai con sufficienza. La considerano un’amica, più che una
dipendente, e non le stanno col fiato sul collo.
“Pensi di riuscire
a venire tutti i giorni?” chiede Priscilla.
Camila ritorna al
presente, e alla domanda che la signora Falco le ha appena fatto.
“Le mie giornate
sono davvero molto occupate,” dice. “Non so se
riuscirei a venire tutti i-”
“Ovviamente saresti
assunta in piena regola,” dice Simona. “Con uno
stipendio, un giorno alla settimana di riposo, un periodo di ferie retribuito;
vogliamo fare le cose perbene, stavolta.”
Camila fatica a
starle dietro. “Un momento. Mi sta proponendo di
lavorare qui… sempre? Cioè, come donna delle pulizie… vera? Come
un vero lavoro?”
Simona solleva le
sopracciglia, sorpresa. “Certo, Camila. Dovremo
parlarne bene con il nostro commercialista, inquadrare una forma contrattuale
che possa stare bene ad entrambe, ma l’idea è questa. Perché,
è un problema?”
Camila non ha mai
avuto un lavoro fisso.
Sarebbe come quando lavoravo per i Bauer, in Germania. Lavorerei solo per questa famiglia, non
sarei costretta ad andare di casa in casa. Magari potrei ritagliare degli spazi
nel giorno libero, per fare degli extra, oppure potrei…
“Camila? A cosa pensi?”
Priscilla la
riporta di nuovo alla realtà.
“Vuoi accettare?”
domanda Simona.
Davide è ancora nel
salotto, con le tre donne. E’ rimasto in silenzio, e Camila si chiede a cosa
sta pensando. Lavorare per i Falco significherebbe un passo in avanti, certo,
ma vorrebbe dire anche vederlo ogni giorno. Pulire la sua camera. Lavare i suoi
vestiti.
Si sente a disagio
al sol pensiero. O forse non è disagio. Forse si tratta di imbarazzo.
Prima di prendere
la parola, Camila guarda lui. Davide si guarda in giro come se niente fosse.
Vorrebbe quasi chiedergli se la sua presenza in casa potrebbe
causargli un problema, e se è rimasto nascosto al piano di sopra per
evitare di vederla.
Ma poi il telefono
di casa suona, e Davide si affretta a rispondere. “Pronto?
Oi, sono io… Sì. Sì. Va bene.” Guarda
l’orologio. “D’accordo. Glielo dico subito. Va bene,
va bene. Ciao.” Riaggancia e si gira verso sua madre. “Era Giancarlo. Ha detto che lui e i suoi amici arriveranno
alle otto, invece che alle nove. Hanno finito prima di visitare non so cosa,
quindi-”
“Alle otto?!” esclama Simona. “Ma è così presto!” Scatta in piedi con
le mani fra i capelli, guardandosi attorno come se fossero entrati i ladri.
“Devo ancora preparare gli antipasti e fare una doccia! Volevo fare la piastra,
volevo anche-”
“Mamma, calmati!”
Priscilla regala uno sguardo imbarazzato a Camila, la quale si alza per
riflesso, sentendosi all’improvviso di troppo. “Non è sempre così,” le dice. “Te lo giuro.”
“Avete molte
persone a cena?”
“Solo due più del
normale,” risponde Priscilla. “Ma lei odia le sorprese
dell’ultimo minuto, e si agita per un nonnulla.” Finisce la frase sussurrando
le ultime parole, ma sapendo che sua madre può sentirla.
“Allora sarà meglio
che vi lasci continuare,” dice Camila, appoggiando la
borsa sulla spalla. “Non voglio rubarvi tempo prez-”
“Oh, no.” La voce
di Davide non le permette di continuare.
Camila e le due
donne si voltano verso il ragazzo, il quale ha gli occhi puntati in basso,
verso Bilbo.
Il muso del cane è
sporco di cioccolato.
“La torta!” esclama
Priscilla, correndo in cucina. “Oh, no! Ha distrutto la torta! Davide, dovevi tenerlo d’occhio!”
Davide si china e solleva
il cane con facilità. Camila nota che anche le zampe anteriori sono sporche.
“Mamma, mi dispiace.”
“Davide, ti avevamo
chiesto una sola cosa: tenere d’occhio Bilbo.” Simona sbuffa, lasciando andare
le braccia lungo i fianchi in segno di resa. “Siamo in madornale ritardo,” dice con voce sfinita. “Devo ancora
finire di preparare la cena, e il dolce è distrutto. Favoloso. Tremendamente favoloso.” Scuote il capo verso suo figlio.
“Mi dispiace,
mamma, davvero.”
“Sì, lo so.” La
donna si volta verso Camila, spettatrice silenziosa del piccolo disastro
familiare. “Scusaci ancora una volta, Camila. Dovremo
sembrarti una banda di pazzi.”
Camila non capisce
il motivo dell’agitazione di Simona. Vorrebbe dirle ‘Si calmi, è solo una cena
fra amici, il dolce si può andare a comprare in pasticceria’, ma è chiaro che
per Simona si tratta di un avvenimento importante.
Per questa ragione,
non esita a dire la sua. “Vuole che l’aiuti, signora? Vuole che le dia una mano con la cena?”
Simona sembra presa
alla sprovvista. “Oh. Io… no, no, Camila. Ti ringrazio, ma non-”
“La torta è
irrecuperabile,” dice Priscilla, arrivando dalla
cucina. “E il corridoio è pieno di zampate di cioccolato,”
continua, guardando a terra. “Che io dovrò pulire in fretta e furia, visto che
mio fratello è un idiota.”
“Ve l’ho detto, mi
dispiace!”
Se la sua voce è
dispiaciuta, i suoi occhi lo sono meno. Gli occhi marroni di Davide sembrano
quasi divertiti o meglio, felici.
“Camila, non posso
chiederti di aiutarmi. Sei venuta solo per un
colloquio, e non abbiamo ancora deciso in che modo organizzarci per il lav-”
“Tu non puoi
chiederglielo, ma io sì,” dice Priscilla. “Ti sei
offerta di darci una mano, ho capito bene?”
“Sì,” risponde Camila. “Se posso darvi una mano lo faccio
volentieri.”
“Magnifico!” esclama
Priscilla. “Vieni con me,” dice, tirandola per un
braccio. “Mamma, tu vai di sopra a prepararti, io e Camila finiremo la cena e
penseremo ad un nuovo dolce. Davide, tu sparisci con Bilbo. Non
voglio vederti fino alle otto!”
Camila non sa di
preciso perché si è offerta di dare una mano ai Falco. In fondo questa per lei
è stata una giornata faticosa, e tutto ciò che desiderava, prima di mettere
piede nella loro casa, era ritornare al suo appartamento, fare una doccia,
mangiare un boccone e infilarsi sotto le coperte.
Quando però è
entrata in casa di Simona, è stata avvolta da un’atmosfera surreale ma
piacevole, e in pochi minuti ha scoperto che queste persone le piacciono. Sono
un po’ sopra le righe e di certo molto diverse da lei, ma Simona e Priscilla
sono due brave donne, e Camila non ha potuto fare a meno di offrire loro un
aiuto.
Poi c’è Davide. Che
ha finto di non conoscerla e che le ha rivolto la parola solo quando si è
presentato formalmente.
E’ arrabbiato con me, dopo la conversazione
di ieri sera? Spera che non accetti il lavoro?
Davide è il motivo
per cui Camila dovrebbe lasciare la casa e tornare al suo appartamento, e lei
lo sa. Al tempo stesso, però, è anche uno dei motivi per cui non riesce a
calmare il suo cuore, e ad inventare una scusa per andare via.
“Mio
fratello è un idiota. Te
ne accorgerai presto.” Priscilla prende la borsa e la giacca di Camila e le
appoggia su un divanetto nel corridoio. “Ammesso che tu decida di accettare il
lavoro,” riprende, guidandola in cucina. “Che dici,
potresti farcela con i tuoi impegni?”
Priscilla è curiosa
come Davide, ma con l’età ha imparato a modulare la voglia di sapere, per cui
annuisce e sorride.
“Questo è ciò che
resta del mio dolce,” dice, indicando il tavolo sul
quale giace la torta al cioccolato dilaniata dalle zampe e dal musetto di
Bilbo. “E lì c’è la cena,” continua, indicando i
fornelli. “Quella per fortuna è salva.”
“Il profumo è molto
buono,” dice Camila. “Si sente dall’ingresso.”
Priscilla
scoperchia le pentole per mostrarle il contenuto. “Mia madre è molto brava,
quando non si fa prendere dal panico.” Si gira verso il tavolo. “Hai qualche
suggerimento per la torta? Per fare quella ho impiegato due ore, e non abbiamo molto
tempo a disposizione.”
Camila cerca di
pensare velocemente, scorrendo nella mente tutte le ricette che ha imparato nel
corso degli anni. Sa di non poter proporre il suo cavallo di battaglia, la
Bolo Nega Maluca, in quanto non sarebbe mai
pronta per la fine della cena, per cui accantona quell’idea e pensa ad altro.
“Nella dispensa
dovrebbe esserci una torta Cameo!” La voce di Davide arriva dal bagno in cui
sta pulendo Bilbo. “L’ho comprata io per prepararla con i miei amici!”
“Non sapevo che
fossi diventato pasticciere!” grida Priscilla di rimando. “Occupati di Bilbo!”
continua, facendo una buffa linguaccia verso la porta.
“Era solo un’idea!”
“Un’idea idiota!”
Si avvicina alla porta, e da essa guarda il fratello intento a pulire nel
corridoio. “Vuoi proporre a quei due snob una torta Cameo? Che diavolo ti salta
in mente?!”
“Allora vai in
pasticceria,” dice lui.
“Non se ne parla.
Dobbiamo inventarci qualcosa.”
Rimanendo accanto
ai fornelli, evitando cioè di avvicinarsi alla porta (e quindi a Davide), Camila
espone la sua idea. “In quel cesto sul ripiano di legno c’è molta frutta,” dice. “Potremmo preparare una crostata di frutta. Sarà
certamente pronta per la fine della cena.”
“Davvero?” domanda
Priscilla.
“Sì. Ho soltanto
bisogno di burro, uova, farina, latte, vaniglia e…
gelatina.”
“Tutto qui? Puoi
davvero preparare una torta di questo tipo in così poco tempo?”
“Sì,” risponde l’altra, sorridendo.
“Oh, Camila. Grazie, grazie, grazie.”
E così, mezzora
dopo, alle sette e trentacinque minuti, Camila infila in forno la teglia
contenente la base della torta, mentre Priscilla termina la cottura della crema
alla vaniglia.
“Mentre si
raffredda inizio ad affettare la frutta,” dice Camila.
“Tu puoi andare a prepararti, se vuoi.”
“Sicura?”
“Sì, certo. Non c’è
altro da fare, vero? Il pesce ha terminato la cottura, e la base per il risotto
è pronta.”
Camila non è mai
stata brava a cucinare il pesce, ma è stata fortunata: la cottura delle
pietanze era già al punto giusto. Lei e Priscilla non hanno dovuto fare altro
che aggiungere un filo d’acqua nelle pentole e terminare la cottura.
“Grazie,
Camila. Sarò di ritorno
in un baleno, promesso.” Si avvia nel corridoio, ma poi torna indietro. “Non ho
idea di dove siano Davide e Bilbo, ma non farli avvicinare a quella torta, intesi?”
“Intesi,” risponde l’altra, con un grande sorriso sulle labbra.
L’atmosfera
surreale continua ad avvolgerla, ma assieme ad essa c’è qualcos’altro. Passare
del tempo con Priscilla non è stato difficile per lei, né imbarazzante.
A Camila la ragazza
è simpatica, e sembra che anche Priscilla veda lei di buon occhio.
E’ strano. Sono qui, in casa di Davide, e ho
appena trascorso mezzora con sua sorella. La stessa sorella che 17 anni fa mi
ha dato un paio di scarpe, pur non sapendolo.
So che dovrei andarmene. So che questo non è
il mio posto, e che è solo per puro miracolo che Davide non è qui in cucina, ma
non posso fare a meno di sentirmi attratta da tutto questo.
E’ vero, sembrano una banda di pazzi, ma mi
piace stare qui, con loro.
Camila affetta
diligentemente i kiwi, le arance, le mele e le fragole. Controlla di tanto in
tanto la cottura della base, e dopo un quarto d’ora decide che è pronta. Nella
casa regna il silenzio, segno che i membri della famiglia sono occupati a
prepararsi per la cena.
Sarà così, se deciderò di lavorare per loro?
Mi lasceranno libera in cucina? Accidenti, l’hanno appena fatto. Ora, al nostro
primo incontro. Potrei essere una delinquente. Potrei rapinarli e andare via.
“Tutto bene?”
La voce di Simona
la sorprende alle spalle. Camila si volta e nota come sia cambiata in poco meno
di un’ora. Indossa un paio di pantaloni di pelle marrone, che potrebbero
risultare volgari alla sua età, ma che a lei donano particolarmente, visto che
è alta e snella. Sui pantaloni, fino a metà coscia, scende una blusa a maniche
lunghe color caramello. Ai piedi ha due ballerine,
dorate come il disegno astratto che si trova sul retro della blusa. Con sé,
Simona porta un buon profumo fruttato. I capelli sono lisci e legati in una
coda bassa, fermata con un fermacapelli gigante.
“Complimenti,
signora,” dice Camila. “Sta molto bene.”
“Grazie,” risponde Simona. “Come procede qui? Priscilla mi ha detto
che sei un lampo nell’impastare.”
Camila le mostra la
base di pasta frolla, che si sta raffreddando assieme alla crema alla vaniglia,
e la frutta tagliata a piccoli pezzi.
“Bene,” dice Simona. “non resta che preparare l’antipasto. Avevo
in mente di fare dei vol-au-vent al salmone, ma il
tempo è poco, quindi opteremo per delle tartine al paté d’oliva. Tu che dici?”
“Può andare,” risponde Camila, meravigliandosi che la donna abbia
chiesto il suo parere. In fondo sono estranee, non dovrebbe essere così… così
cordiale, giusto?
Camila osserva
Simona aggirarsi per la cucina con la sua blusa svolazzante, e all’improvviso
ha un’altra idea. “Potrei prepararle io,” dice. “Se
vuole può andare ad apparecchiare, invece di rimanere qui. E’ così ben vestita,
non vorrei si sporcasse.”
Simona è di nuovo
presa alla sprovvista. “Camila, io… Sei molto gentile, ma non devi trattenerti oltre.”
Alza gli occhi sull’orologio attaccato alla parete. “Dio,
sono quasi le otto! Vorrai tornare a casa, non è così? Oh, Dio, ti
abbiamo trattenuta qui fino a quest’ora!”
“No, no, signora. Non è un problema.”
In teoria è un
problema, ma a Camila non importa.
“Sarebbe un peccato
se si sporcasse proprio adesso,” continua. “Ha detto
tartine con il paté d’olive, giusto? Credo di aver visto il pane in cassetta in
quel mobile lì in basso, quando Priscilla ha preso la farina. Vada pure, ci
penso io.”
Mezzora dopo, la tartine e la crostata alla frutta sono pronte sul tavolo
della cucina dei Falco.
“Wow. Complimenti.”
Davide entra in
cucina lentamente, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni.
Camila aveva quasi
dimenticato che fa anche lui parte della famiglia. O forse voleva semplicemente
illudersi che non fosse a casa.
Indossa un paio di
pantaloni scuri e una camicia grigia con delle righe celesti
molto sottili. Il suo profumo è molto più forte di quello di Simona, e
Camila ne è immediatamente colpita.
Tuttavia,
nonostante desideri alzare gli occhi dalla tartina che ha in mano e osservare
quelli di lui, Camila evita di cedere all’istinto e mormora un ‘Grazie’ prima di appoggiare il triangolo di pane in
cassetta sul vassoio.
Davide fa il giro
del tavolo e arriva al balcone. Si ferma a pochi passi da lei. Osserva la
torta.
“Posso averne una
fetta?”
“Tua sorella ha
detto che non devi avvicinarti alla torta,” risponde
lei.
Silenzio per
qualche secondo.
“Posso ripulire il
pentolino in cui avete preparato la crema?”
Camila sorride, ma
non alza la testa. “Va bene.”
Davide si avvicina
ai fornelli e prende il pentolino. Da un cassetto prende un cucchiaino e inizia
a ripulire il recipiente. Lentamente. Con attenzione. Impiegando più tempo del
necessario.
Camila termina di
stendere il paté sulle tartine, e prende a sistemare le fette di panein modo da ricreare
un motivo geometrico. Anche i suoi movimenti sono lenti e attenti.
“La crema è molto
buona. Complimenti.”
“Grazie. E’ stata Priscilla a prepararla.”
“Scommetto che le
hai detto tu come fare. Quella che fa di solito è piena di grumi.”
Camila sorride di
nuovo, e ripensa a quando Priscilla le ha chiesto di versare il latte sul
composto di uova, farina e zucchero al suo posto, in quanto temeva i grumi.
“Hai
già deciso cosa farai? Lavorerai qui?” incalza Davide.
Camila non riesce
ad alzare lo sguardo, per cui si occupa di allineare le tartine con calma.
“Non ho ancora
deciso,” sussurra dopo un po’.
Si volta per andare
al lavello, per sciacquare le mani che non
sono sporche. Davide la segue come un’ombra, appoggiando in una delle vaschette
il pentolino ormai pulito ed il cucchiaino.
“Mia
madre e mia sorella sono estasiate all’idea di averti qui ogni giorno. Hanno detto che ispiri
fiducia.”
Il suo tono di voce
è basso, gentile.
Camila continua a
tenere la testa chinata, e ringrazia in silenzio i suoi capelli gonfi che le
fanno da scudo.
“Sei
stanca?”
“No,” dice subito. “Perché?”
“Perché hai la
testa a penzoloni come se stessi per addormentarti,”
dice con un sorriso. Camila la alza di scatto, in parte indispettita per le sue
parole, in parte desiderosa di guardarlo mentre ride. “Così va meglio,” riprende Davide.
Sono talmente
vicini che lei può sentire il suo profumo come se si trovasse sulla sua stessa
pelle.
Sono talmente vicini
che gli occhi marroni di Davide hanno l’effetto di un pendolo ipnotizzante.
“Sei
stanca, non è vero?”
“No,” ripete Camila.
“Lo dici con così
tanta veemenza che la bugia è evidente,” sussurra lui.
“Grazie per essere rimasta.”
Lei lo guarda di
sfuggita, ma senza scostarsi. I loro fianchi si sfiorano. “Prego.”
“Accetterai di
lavorare qui? Mia madre è pronta a costruirti un trono, ti avviso.”
Camila sorride.
“Non lo so, Davide. Devo pensarci
bene.”
“E’ per me? Hai dei
dubbi perché questa è casa mia? Sappi che di solito passo poco tempo in casa.
La mia camera è la più pulita di tutte, me ne occupo personalmente, quindi non
dovresti neppure entrarci.”
“No,” dice lei. “Non è per questo.”
Vorrebbe
continuare, e dirgli che si tratta di un problema di organizzazione, anche per
quanto riguarda i suoi altri clienti (lavorare per i Falco a tempo pieno
vorrebbe dire salutare molte delle famiglie per cui lavora adesso), ma Davide
l’anticipa.
“E’ per tuo marito?
Devi parlarne con lui?”
Lo chiede in
maniera fredda. Quasi con strafottenza.
A Camila il suo
tono non piace.
“No,” risponde secca. E non dice altro.
Davide esce dalla
cucina dopo pochi secondi, senza rivolgerle più la parola.
***
“Ti prego, Camila, resta a cena con noi.”
Priscilla cerca di
convincerla da dieci minuti, ma Camila ha già deciso:
non rimarrà con i Falco.
Sarebbe troppo.
Gli ospiti sono
arrivati da dieci minuti e si trovano in salotto con Giancarlo, il quale si è
limitato a salutare Camila con una rapida stretta di mano
Priscilla e Simona
sono in cucina, intente a riempire i piatti di cibo.
“Vi ringrazio,” dice Camila. “Ma non posso, davvero. Devo
tornare a casa.”
Guarda l’orologio.
Sono le otto e mezza. Non arriverà a casa prima delle nove. Dovrà prepararsi da
mangiare, lavarsi. Non può trattenersi oltre.
“Va bene,” si arrende Simona. “Va bene.” Le va accanto, ignorando
per un attimo le tartine. “Grazie per tutto quello che hai fatto per noi questa
sera, Camila. Ci hai salvate, davvero.”
Priscilla annuisce
e sorride.
“Non ho fatto nulla
di speciale, davvero,” dice, indossando la sua giacca.
“Grazie a voi per avermi lasciato la vostra cucina, e per avermi dato fiducia.”
“Fiducia meritata,” dice Priscilla. “Le tartine sono eccezionali, e scommetto
che anche la torta sarà buonissima.”
“Grazie, Priscilla.”
Camila la guarda con un’intensità all’apparenza immotivata, ma dentro di sé il suo grazie è molto profondo.
Grazie per le tue scarpe, vorrebbe dirle. Grazie per aver deciso che non ne avevi più bisogno.
“Quando possiamo
risentirci?” chiede Simona. “Per discutere meglio del lavoro, del contratto.”
“Va bene domani?
Voglio dormirci su e pensare bene a tutto il da farsi,”
dice Camila. “Non so se ne ha già parlato con la signora Ballotta, ma io vivo
dall’altra parte di Roma, quindi fra le altre cose dovrò considerare anche il
trasporto.”
“Hai un’auto?”
chiede Priscilla.
“No. Uso i mezzi
pubblici.”
“Sono sicura che
troveremo il modo di metterci d’accordo,” replica
Simona. “Ci tengo molto, Camila. Davvero.” E nel
dirlo, tira fuori dalla tasca una piccola bustina bianca e gliela porge.
“Questo è un piccolo pensiero per il tempo che ci hai dedicato questa sera.”
“Oh,
no. Non posso, signora. No.”
“Ti prego, Camila. Voglio che ci sia equilibrio nel nostro
rapporto, e se non prendi questa busta mi sentirò per sempre irriconoscente per
quello che hai fatto.”
“E’ vero,” dice Priscilla. “Hai preparato tutto questo in meno di
un’ora. Devi accettare qualcosa. Prendi la busta, Camila. Davvero.”
“In questo modo ci
sarà equilibrio,” riprende Simona. “E potremo parlare
del lavoro come si deve.”
Camila accetta la
busta bianca ringraziando le due donne, la infila in borsa senza aprirla; non
vuole che pensino che sia una persona attaccata al denaro, e non vuole neppure
fare la figura della poveretta che conta immediatamente i soldi guadagnati.
“Grazie,” dice ad entrambe. “Adesso vado. Buona serata. Buona
cena.”
“Come tornerai a
casa?” chiede Priscilla mentre le fa strada nel corridoio. “Prenderai i mezzi?”
“Sì.”
“Oh. Stai attenta,
mi raccomando. Ci sentiamo domani, d’accordo?”
“D’accordo. Grazie
ancora, Priscilla.”
“Grazie a te,
Camila.”
La ragazza le
sorride fino a quando chiude la porta. Il pezzo di legno rossastro che la
separa dai Falco e dalla sensazione di famiglia che le hanno trasmesso per
poche ore diventa rapidamente suo nemico, per cui gira in fretta i tacchi e
scende le scale.
Non posso non accettare. Si tratta di una
buona famiglia. Lavorare in un posto solo, invece che impazzire per la città,
sarebbe fantastico… ma posso davvero farlo? E’ la casa di Davide. Ha detto che
non c’è mai, e che non dovrei pulire la sua camera, è vero..
ma è pur sempre casa sua.
Accidenti. Perché mi faccio tutti questi
problemi? Si tratta di un lavoro, e devo considerarlo come tale. Non posso
farmi condizionare da Carovigno, né dalle due sere nel giardino sotto casa. Né
dal suo approccio nei miei riguardi. Devo pensare a me stessa, alle mie
priorità. Ho bisogno di un lavoro che mi permetta di guadagnare bene, e Simona
Falco ha bisogno di una persona come me.
Davide? Il suo sorriso? Il suo profumo e i
suoi occhi ipnotizzanti? Non mi interessano. Non devono interessarmi.
Camila si ritrova
davanti al portone alla fine del suo monologo interiore. Si chiude nella giacca
e si prepara ad arrivare alla fermata dell’autobus a piedi, ma una voce la ferma.
E’ la voce di
Davide. Fermo accanto ad un’aiuola, ha con sé Bilbo, legato al guinzaglio.
“Bilbo mi ha
chiesto di riaccompagnarti a casa. Andiamo.”
---
Durante la scrittura mi sono resa conto che
questo capitolo stava venendo molto lungo. Ho deciso, quindi, di spezzarlo a
metà. Il seguito arriverà la prossima settimana. Resistete.
Grazie a tutti per i commenti allo scorso capitolo
Grazie a tutti per i commenti allo scorso
capitolo.
Buona lettura.
---
Capitolo 12
Davide è uscito di
casa con Bilbo subito dopo che Giancarlo è arrivato con la coppia di amici. Li
ha salutati con educazione, ha risposto a qualche domanda che i due hanno fatto
(Hai finito l’università? Cosa pensi di fare dopo?) e si è scusato per
accompagnare Bilbo nella passeggiata serale.
La verità è che
Davide, portando di sotto Bilbo, ha messo in moto il piano a cui ha lavorato
mentalmente per tutta la serata.
Sapeva che Camila
non sarebbe rimasta a cena.
Sapeva che non
avrebbe potuto parlarle liberamente in presenza di sua sorella o di sua madre.
Per questo motivo
ha deciso di aspettarla davanti al portone.
Non poteva e non
può pensare di farla tornare a casa con i mezzi pubblici. Non a quest’ora,
almeno.
Quando l’ha vista
uscire dal palazzo, avvolta nella giacca scura, i capelli che le coprivano il
viso, gli occhi infossati e stanchi, ha detto la prima cosa che gli è passata
per la testa.
“Bilbo mi ha
chiesto di riaccompagnarti a casa. Andiamo.”
Ed ora Camila è lì,
ferma sui gradini del condominio, a guardarlo con un’espressione a metà strada fra
lo spavento e la meraviglia.
Davide la conosce.
Conosce già la sua risposta, per questo non le dà modo di replicare.
“Bilbo
è molto dispiaciuto per il pasticcio che ha combinato con la torta. Dice che se non ti riaccompagno farà la
pipì in casa per un anno intero. E’ pronto a farlo,”
dice, muovendo il guinzaglio. “E’ serio. Non sta scherzando.”
Bilbo è sdraiato
accanto all’aiuola. Il muso nascosto fra le zampe anteriori e la coda che si
muove appena. La rappresentazione della calma.
“Dì a Bilbo che lo
ringrazio, ma tornerò a casa per conto mio,” risponde
lei, accennando un sorriso.
Scende i gradini,
inizia a camminare, ma Davide intercetta i suoi passi e le si para davanti.
“Non accetto un no, Camila. Non ti farò salire su un
autobus.” Tira fuori le chiavi dell’auto. “Per favore.”
Sarà la sua voce
impostata, sarà la profonda stanchezza della donna. Davide è stupito quando si
accorge che lei lo sta seguendo verso l’auto.
Pensavo di dover faticare di più.
Camila apre lo
sportello e si accomoda davanti, mentre Davide sistema Bilbo dietro, su una
coperta rossa e blu.
“Pensavo lo
riportassi in casa,” dice lei, notando la calma
dell’animale.
“Nah, meglio che
gli adulti se ne stiano per conto proprio.” Chiude lo sportello posteriore e si
accomoda sul sedile del guidatore.
“Un momento,” dice Camila. “Ma così… la cena… i tuoi sanno che mi stai
accompagnando? Non vorrai far aspettare tua madre!?Io abito lontano!”
“So dove abiti,” risponde lui sorridendo. “Comunque non preoccuparti, ora
li avviso che ritarderò.” Riapre lo sportello e corre al portone. Suona il
citofono e parla con sua sorella Priscilla.
“Accompagno Camila
a casa, iniziate senza di me.”
“Davvero? Sai dove
abita?”
“Non molto lontano.
Tornerò fra un’oretta.”
“Un’ora? Sei
impazzito? A mamma prenderà un infarto.”
“Tu sei un medico,
saprai come curarla. Ora vado. Ah, mi porto Bilbo! Ciao.”
Scappa dal citofono
prima che Priscilla possa dire qualcos’altro, e prima di entrare in macchina
spegne il cellulare.
Ci tiene a questo
piccolo viaggio con Camila. Non vuole subire interruzioni.
“Tutto bene?”
chiede lei. “Davide non devi accompagnarmi per for-”
“Sshhh. E’ deciso. Bilbo ha deciso,” dice, puntando il pollice verso il sedile posteriore.
Bilbo è ancora lì,
disteso sulla coperta.
“E’ molto… è molto
calmo, adesso,” dice lei dopo un istante.
“E’ un cane
abitudinario,” risponde lui, uscendo dal parcheggio. “Per
Bilbo, l’ultima passeggiata della giornata coincide con l’ora della nanna,
quindi tende a perdere le energie verso quest’ora. Lo conosco,”
continua. “Sta per addormentarsi.”
“Qui? In macchina?”
“Perché
no? La coperta è
morbida.”
Davide le sorride
di nuovo, prima di immettersi definitivamente nel traffico della sera.
Non è la prima
volta che accompagna a casa una ragazza, ma è la prima volta che accompagna a
casa Camila. Non sono reduci da un appuntamento romantico, bensì da un incontro
potenzialmente importante.
“Sei
stanca?”
Camila sposta una
ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro e lo guarda. Scrolla le spalle con
un gesto veloce. “Non più degli altri giorni.”
“Anche gli altri
giorni ti ritrovi a preparare una cena a casa di persone che conosci appena?”
Lei sorride. “No,” dice, “ma non ho dovuto preparare una cena intera. Tua madre aveva già fatto tutto.”
“Spero mi lascino
un pezzo di torta,” pensa lui ad alta voce. “La crema
era buonissima.”
Camila sorride di
nuovo.
Davide si immette
sul raccordo, per attraversare la città e andare a sud. “Grazie per averci dato
una mano,” dice dopo un po’. “Cioè… non l’hai data
personalmente a me, ecco. Grazie per aver aiutato la mia
famiglia.”
“Prego,” dice lei. “Tua sorella è molto simpatica. E anche tua
madre. Tu e Priscilla le somigliate molto.”
Davide annuisce.
Non è la prima volta che qualcuno nota la somiglianza, ma adesso quel qualcuno
è Camila, quindi le cose sono diverse.
“Priscilla ha gli
occhi di mia madre,” dice, “io invece ho quelli di
papà. Colore e forma.”
“Tuo padre… l’uomo
nella foto?”
“Lui,” risponde il ragazzo, prima di sorpassare una Ford Focus.
Bilbo è
completamente rilassato. Davide riesce a vederlo dallo specchietto retrovisore,
quando sbircia per accertarsi che il cane non abbia combinato qualche guaio.
Ed è in quel
momento, proprio in quel momento, che un suono simile a quello di un trombone
matto arriva dalla sua destra, dal sedile in cui è seduta Camila.
Davide la guarda
rapidamente, e nota sul suo volto il rossore tipico dell’imbarazzo.
“Scusa,” dice lei, appoggiando una mano sullo stomaco. “Fa sempre
così quando ho fame.”
Il primo istinto di
Davide è quello di scherzare sull’intensità e la stranezza del rumore, ma poi
ci ripensa. Un pensiero più urgente merita di essere esternato.
“Hai
fame? Hai molta fame? Quando hai mangiato l’ultima volta?”
“Oggi a pranzo,” risponde lei. “Come il resto dell’umanità.”
E’ chiaro che non
vuole attirare l’attenzione (come sempre), ma Davide si preoccupa per lei (come
sempre). Controlla l’orologio e contemporaneamente preme sull’acceleratore.
“Manca una mezzoretta… puoi farcela?”
“Certo,” dice lei con enfasi. “Non preoccuparti.”
“Cosa mangerai per
cena?” domanda lui, curioso.
Camila si passa una
mano sulla fronte e scrolla le spalle. Davide la vede occhieggiare l’orologio
del cruscotto. “Probabilmente una tazza di latte e biscotti, vista l’ora.” Le
parole escono lente dalla sua bocca. Stanche.
“Latte e biscotti?!” chiede lui. “A cena? Perché?!”
Lui con il latte e
biscotti ci fa la colazione, non la cena.
“Perché è facile da
preparare,” risponde Camila. “E veloce. Facile e
veloce. Non ho voglia di mettermi ai fornelli. E’ tardi.”
Davide non si
spiega come possa essere sempre così risoluta e determinata. E’ una delle cose
che più ammira in lei, ma allo stesso tempo il suo atteggiamento lo rende
nervoso, impaziente.
“Che cosa hai
mangiato a pranzo?”
“Un panino e una
mela.” Un’altra risposta stanca.
Forse è annoiata dal mio terzo grado, ma non
mi interessa.
“Mia nonna cena con
latte e biscotti,” sbotta ad un certo punto, dopo
l’ennesimo borbottio dello stomaco. “Oppure con il tè e le fette biscottate.
Non dovresti mangiare poco,” dice. “Lavori molto, sei sempre in movimento. Devi… devi nutrirti. Mangiare proteine.”
Il viso di Camila
rimane indecifrabile. I suoi occhi restano fissi sulla strada davanti a sé. Una
mano sulla fronte, una sullo stomaco.
“Non arriverò a
casa prima delle nove e mezza,” dice ad un tratto. La
sua voce è bassa, ma Davide la capisce ugualmente. “Passerò
in bagno almeno trenta minuti, per ripulirmi dalla sporcizia e dallo smog che
ho assorbito da stamattina. Uscirò dal bagno alle dieci, o alle dieci
meno un quarto se vado di corsa sotto la doccia. In quel momento, il mio unico
desiderio… il mio unico pensiero… sarà quello di andare a dormire, non quello
di mangiare. Cenerò con latte e biscotti perché non mi occorreranno più di due
minuti per preparare tutto. Cenerò con latte e biscotti per sostenermi, non per
nutrirmi. Sono in piedi dalle sei, Davide, e domattina la sveglia suonerà alla
stessa ora. Non ho tempo per stare ai fornelli. Non ho tempo
per mangiare proteine.” L’ultima parola è seguita da uno sbuffo stanco,
pesante.
Davide non sopporta
di sentirla parlare così. Di vederla così.
Non vuole che vada
a letto con un po’ di latte nello stomaco.
Per questo motivo
si posiziona sulla corsia di destra, abbandonando quella di sorpasso, e accende
la freccia.
“Se non fossi
rimasta con noi saresti tornata a casa prima,” dice,
usando gli specchietti laterali per controllare il traffico. “E avresti potuto
preparare qualcos’altro.”
“Sì,” ribatte lei. “Forse, ma… ehi, dove stai andando? Questa
non è la mia uscita.”
“Lo so,” risponde lui. Quando la guarda, vede nuova meraviglia e
nuova confusione sul suo viso. “Ti piace il Mc?”
“Davide, no.”
“Non ti piace?”
“No, non è questo.
Non posso… non possiamo fermarci qui,” dice lei,
osservando l’insegna gialla e rossa. “Accompagnami a casa,”
continua. “Non c’è bisogno che tu-”
“Camila. Primo, non lascerò che tu vada a mangiare
latte e biscotti. Forse è più salutare dei panini del McDonald, ma voglio
vederti mangiare… qualcosa di sostanzioso, non una brodaglia calda. Secondo,
devo mangiare anch’io, no? Dubito che quegli avvoltoi mi lasceranno qualcosa,” conclude, prima di frenare proprio davanti alla porta del
fast food.
Camila scuote la
testa. “E’ tardi,” dice, e nello stesso momento il suo
stomaco parla per lei.
“Sei
affamata. Andiamo. Non accetto un no.”
Anche stavolta,
Camila accetta senza fare storie.
A Davide quasi non
sembra vero che per una volta (la seconda nel giro di pochi minuti) abbia messo
da parte il suo orgoglio.
“Bilbo resta qui?”
chiede lei, quando vede Davide trafficare con il guinzaglio del cane.
“Sì,” risponde lui. “I cani non sono ammessi all’interno, e non
mi va di legarlo ad un palo come fanno tutti.” Attorciglia il guinzaglio
attorno alla maniglia interna dell’auto, accertandosi che Bilbo abbia spazio e
modo per muoversi, e apre due finestrini per far circolare l’aria. “Fai il
bravo,” dice, accarezzandogli la testa. Il cagnolino
richiude gli occhi e torna a dormire.
“Ha detto
qualcosa?” chiede Camila.
“Ha detto ‘Buon
appetito’” risponde Davide, stando al gioco.
Il fast food non è
particolarmente affollato, e Davide ne è felice. “Cosa prendi?” chiede ad una
Camila un po’ spaesata.
La donna si guarda
in giro, notando i colori accesi dei tavoli e dei pavimenti, i tabelloni
luminosi che indicano menù e prezzi, e la panchina azzurra su cui è seduta
un’allegra riproduzione di Ronald McDonald.
“Um… per me va bene
un panino,” risponde, stringendosi nella giacca.
“Come lo vuoi? Vuoi
anche le patatine?”
“No,” risponde subito. “Niente patatine.” E poi guardando i
tabelloni: “Um… col pollo,” mormora. “Va bene quello
col pollo.”
Davide sa che
qualcosa non quadra. Camila sembra assente, spaesata. Sotto la luce dei neon, la
sua pelle sembra pallida, quasi trasparente.
“Ehi,” dice lui, allontanandosi dal bancone quel tanto che basta
per sfiorarle un braccio. “Che c’è? Stai bene?”
Camila si passa una
mano fra i capelli e abbassa gli occhi per un paio di secondi. “Non sono mai
venuta qui,” dice tutto d’un fiato. “Non ho mai
mangiato al McDonald.”
“Oh.” Il ragazzo è
sorpreso. Non tanto per il fatto che Camila non abbia mai mangiato al Mc,
quanto per il fatto che sembra vergognarsene. La fragilità della donna che ha
di fronte fa scattare in lui una scintilla. Ancora una volta, dopo diciassette
anni, sente il bisogno di fare qualcosa per lei, di aiutarla, di andare in suo
soccorso. “Non è un problema,” dice, accarezzandole
l’avambraccio attraverso la giacca. Lei non si scosta.
Le sorride,
sperando di far sparire il senso di disagio che legge nei suoi occhi azzurri.
“Se vuoi possiamo prendere un po’ di tutto, così puoi decidere ciò che ti
piace.”
Davide intravede
una fiammella affermativa sui tratti stanchi del volto di Camila. Come se
volesse dire sì, come se volesse accettare. Ma poi scuote il capo, abbassando
di nuovo gli occhi. “No, meglio di no. Il panino al pollo andrà bene.”
Voleva accettare, ma poi ha cambiato idea.
Perché? Pensa che il prezzo sia troppo alto? Vuole andarsene subito? Vuole
evitare di rimanere per troppo tempo con me?
“D’accordo,” dice, sfoggiando il suo sorriso furbo. “Vuoi qualcosa da
bere?”
“Acqua. L’acqua
andrà bene.”
“Perfetto. Se vuoi puoi andare a cercare un tavolo,” dice, indicando la saletta. “Io arrivo fra cinque
secondi. Il tempo di ordinare.”
“Ok,” risponde lei annuendo.
La guarda con
attenzione mentre si allontana verso un tavolino nell’angolo. Nota le sue gambe
sottili. Nota i suoi capelli mossi, chiari alle punte, quasi rossastri. Nota la
forma dei suoi fianchi sottili, messi in evidenza dal taglio della giacca.
Vorrei correrle dietro ed abbracciarla. E
scoprire il profumo dei suoi…
“Ciao, come posso
aiutarti?”
Una delle
dipendenti, una ragazza bionda e bassa, interrompe i suoi pensieri e lo riporta
al presente.
“Um… sì, vorrei
ordinare. Un McChicken Menu medio, con Coca Cola. Un
1955, una confezione di ChickenMcNuggets,
una-”
“Che salsa vuoi con
le crocchette?” domanda la ragazza. Sta per elencarle a memoria, ma lui la
ferma.
“Posso averle
tutte?”
“Certo,” risponde lei, premendo i pulsanti luminosi del suo
monitor. “Che altro?”
“Una porzione di
patatine, con maionese e ketchup. Poi… um… c’è ancora quella specie di taco al pollo?”
“Il
ChicoWrap? Sì, certo.”
“Perfetto. Due ChicoWrap,
e poi…” Osserva con attenzione le tabelle luminose, alla ricerca di qualcosa
che possa piacere a Camila. “Avete qualcosa al cioccolato?”
“Panini… al
cioccolato?”
“No,” ribatte, lanciando un’occhiataccia alla bionda. “Dolci.
Parlo dei dolci. Avete dolci al cioccolato?”
“Abbiamo la mousse
al triplo cioccolato, i brownies e i muffin,” risponde lei. Gli indica una vetrina a destra, dove i
prodotti appena elencati sono esposti.
“Prendo due
porzioni di ogni cosa,” dice Davide. “E anche una
bottiglietta d’acqua. E i gamberetti, i gamberetti fritti!”
La ragazza annuisce
e sorride. “Avete molta fame, eh?”
Si volta verso
Camila, lontana di qualche metro. E’ intenta a guardarsi le mani.
“Già,” risponde. “Abbiamo molta fame.”
***
Davide raggiunge il
tavolo tre minuti dopo, reggendo in bilico due vassoi carichi di cibo. Fra le
labbra ha la bottiglietta d’acqua che Camila gli ha chiesto.
Quando quest’ultima
lo vede arrivare con movimenti parecchio insicuri, si alza di corsa e gli va
incontro, prendendo uno dei vassoi. Arrivano al tavolo insieme. Davide appoggia
l’acqua sul vassoio. “Grazie,” le dice. “Per un attimo
ho pensato che avremmo mangiato sul pavimento.”
Camila sorride e si
lascia inebriare dal profumo che proviene dalle confezioni che vede davanti a
sé. Nota le ciambelle e la mousse al cioccolato. Nota i brownies,
le due porzioni di patatine.
E capisce.
“Perché hai preso
tutta questa roba…” dice, sedendosi.
Davide si siede di
fronte a lei dopo essersi liberato del giubbotto.
“Perché voglio
farti assaggiare tutte le prelibatezze di questo posto,”
risponde con un sorriso. “E perché hai fame, e non puoi arrivare a domattina
con un misero panino.” Individua il McChicken, le patatine e le salse, e gliele sistema
davanti. Fa la stessa cosa con l’acqua e la
Coca Cola. “Avanti, mangia.”
“Tutta questa roba?!” esclama lei, incredula.
“Ho preso anche le
crocchette di pollo e i gamberetti fritti,” dice lui,
aprendo gli altri contenitori. “IlChicoWrap… questo ti piacerà, è buonissimo… e i biscotti,
le ciambelle, e le-”
“Davide, ma perché?
Ti avevo chiesto solo un panino. E poi… ti ho visto pagare, quanto hai speso?
Qual è la mia parte?”
Camila è agitata.
Più del necessario, più di quanto Davide non voglia.
Per questo motivo
si alza e va a sedersi accanto a lei, sulla sedia accanto alla sua.
“Non fare così,” le dice, appoggiando la mano sulla sua spalla. “Non
arrabbiarti, per favore.”
“Non sono
arrabbiata,” replica Camila, guardandolo negli occhi.
“E’ solo che… Guarda, tutta questa roba…” Muove una mano sul tavolo, per
mostrargli panini e patatine. “Non riuscirò mai a mangiarla tutta.”
Perché te la prendi così? Perché sei così
agitata?
“Ci sono anch’io,
se è per questo,” dice Davide, senza ritrarre la mano.
“E anche se non si nota sono una buona forchetta. Comincia a mangiare,” le dice, indicando il panino. “Non dobbiamo consumare per
forza tutto.”
Lascia che ti aiuti anche stavolta. Lasciami
l’opportunità di passare con te un altro po’ di tempo.
Camila gli sorride.
“Va bene,” si arrende. “Grazie.”
“E di cosa. Avanti,
mangia. Voglio sapere cosa ne pensi del tuo primo panino al Mc.”
Camila prende il
panino caldo dalla confezione giallina e dà un morso.
Davide osserva le
sue labbra chiudersi attorno al pane morbido, e non può fare a meno di
ammirarle e adorarle… così, da lontano, per un attimo molto breve.
Camila mastica con
educazione, tenendo la bocca chiusa, e dopo un po’ inizia a sorridere.
“Mi piace,” dice dopo aver mandato giù. “Grazie. Mi piace.”
“Sono contento,” risponde lui, il suo 1955 fra le mani. “Buon appetito.”
Per un po’ di tempo
mangiano in silenzio. Camila è veloce nel mangiare, ma
ordinata. Ha fame e lui non se ne meraviglia: il borbottare dello stomaco era
piuttosto eloquente. Quando finisce il panino al pollo, pulisce la bocca e apre
la bottiglietta d’acqua per berne un sorso.
Di nuovo, Davide
resta ipnotizzato dalle labbra piene che si chiudono attorno al collo della
bottiglia. Gli zigomi di Camila sono pronunciati, in questa posizione; il collo
è esposto.
“Mi piaci.”
Non riesce a
trattenersi dal dirlo. Non vuole trattenersi dal dirlo. Il cuore gli batte in
petto come non mai, soprattutto quando la vede allargare gli occhi a causa
della sorpresa.
Camila abbassa la
bottiglietta e la chiude. Gli occhi azzurri sono ancora allargati. “Come? Che cos’hai detto?”
Vuole che mi ripeta perché non ha capito o
perché desidera una conferma? Si arrabbierà di nuovo? E se dovesse non
accettare il lavoro perché…
“Ho chiesto se ti
piace,” dice rapidamente, indicando il cibo sul
tavolo. “Ti sta piacendo la cena? Ti piace?”
Camila lo guarda
interdetta prima di rispondere. “Sì,” dice. “Te l’ho
già detto poco fa… mi piace.”
“Bene,” ribatte lui, “qui c’è il ChicoWrap. E le patatine. Oppure le crocchette di pollo. Aspetta.” Appoggia il 1955 sul tovagliolo e apre la
confezione di crocchette. Gliela porge, assieme ai piccoli cubetti di salsa. “Quella barbeque è la mia preferita, ma le ho prese tutte.
Puoi provarle fino a trovare quella che ti piace di più.”
Cerca di distrarla.
Cerca di farle dimenticare il suo ‘Mi piaci’.
Camila appoggia le
crocchette e le salse davanti a sé, e guarda Davide con gli occhi pieni di una
riconoscenza a cui non sa dar voce.
“C’è anche la Coca,”
dice lui, indicando il bicchiere alla sua sinistra.
Lei si limita ad
annuire e a sorridere, non riuscendo a fare altro.
Prova tutte le
salse, ma alla fine decide di mangiare le crocchette al naturale. Ne mangia
due, non di più. Chiude la confezione, la passa a Davide, il quale allunga
verso di lei ilChicoWrap.
Il ragazzo termina
il suo panino e la imita, addentando la tortilla contenente la cotoletta di
pollo, l’insalata e la maionese.
“Quando avevo sei o
sette anni,” dice lui ad un certo punto, “mio padre mi
portò al cinema a Brindisi. Di fronte al cinema c’era un McDonald’s, e andammo
lì dopo aver visto il film. Non ricordo neanche il titolo del film, però
ricordo benissimo il ristorante. All’entrata c’era un pupazzo gigante di Ronald
McDonald, con in mano un palloncino rosso. Lo ricordo come se fosse ieri.”
Camila lo guarda
con attenzione, masticando l’ultimo boccone di ChicoWrap.
“Venire qui mi ricorda lui,” dice Davide. “Carovigno è lontana, e in
tutti questi anni siamo tornati pochissime volte, ma ogni volta che mangio al
Mc è come se… è come se tornassi indietro nel tempo.”
Non ne ho mai parlato con nessuno. Neanche
con Priscilla.
“Sei mai tornata a
Carovigno?” domanda. “Dopo essertene andata in Germania… ci sei più tornata?”
“No,” dice lei, scuotendo la testa. “Me ne sono andata a
quattordici anni, e non sono più tornata.”
“Vorresti
tornarci?”
Camila prende a
fissare con intensità la confezione di plastica trasparente che contiene le due
ciambelline fritte. Il sorriso che Davide nota sulle sue labbra è teso, non
spontaneo. “No,” dice dopo qualche istante. “Non c’è
più nulla che mi leghi a quel posto.”
“Ci sono io,” ribatte lui velocemente, sorridendo come farebbe un
bambino.
“Tu sei qui,” risponde lei. Inclina il viso sulla spalla, e lo guarda
con affetto. “Non sei a Carovigno.”
“Hai ragione.”
Vorrebbe chiederle
del suo passato, di suo marito. Vorrebbe sapere che cos’ha fatto in Germania, e
perché non porta la fede. Vorrebbe dirle di nuovo ‘Mi piaci’. Ma invece…
“Hai
provato i gamberi fritti?
Priscilla dice che sono fatti di plastica. Provali, dai…”
***
Un’ora dopo, alle dieci e un quarto, Camila dà l’ultimo morso alla
ciambella fritta.
Davide è contento.
Non solo è riuscito a farle riempire lo stomaco, ma ha trascorso con lei un’ora
stupenda; semplice ma allo stesso tempo intensa. Hanno parlato dei suoi ricordi
legati al campetto in cui giocava a calcio, dei clienti più strani di Camila e
delle avventure di Bilbo nel giardino del condominio, in compagnia dei gatti
dei vicini.
Davide è contento
perché Camila si è lasciata andare. Nonostante la stanchezza, nonostante
l’atteggiamento ancora un po’ chiuso e riservato, ha riso più volte. Ha
scoperto che il suo senso dell’umorismo è pungente, che la pensa come Priscilla
sui gamberi fritti e che adora i brownies.
Davide non è mai
stato così bene in compagnia di una ragazza.
Quando escono dal
ristorante, lui tiene la porta aperta per lei e lei lo ringrazia.
Camminano uno
accanto all’altro verso la macchina. Camila ha fra le mani i due bicchieri di
mousse al cioccolato che devono ancora mangiare. L’idea di consumarli in auto è
stata di Davide.
Quando si
accomodano all’interno, Bilbo si alza sul sedile e inizia a scodinzolare.
Improvvisamente sveglio, si lascia coccolare dal suo padrone, che lo libera dal
guinzaglio e se lo porta davanti, in grembo.
Bilbo è un cane
piccolo, per cui trova facilmente la posizione comoda per riprendere il suo
riposo.
Il ragazzo prende
uno dei due bicchieri dalle mani di Camila e inizia a mangiare l’ultimo
dessert.
“Siamo in ritardo,
vero?” chiede lui controllando l’orologio sul cruscotto.
Lei fa dondolare la
testa. “In teoria sì, ma considerando che devo andare a casa
solo per fare la doccia e andare a letto direi che siamo in tempo.
Questa mousse è molto buona,” dice, sollevando il
bicchiere.
“Ti piace il
cioccolato, eh?”
Annuisce con
entusiasmo. “Da bambina… da bambina non ne ho mangiato molto.
Devo recuperare.”
Davide non può fare
a meno di notare in ogni frase, in ogni gesto di Camila, un rimando al passato
fatto di sofferenza. Non può fare a meno di ricordare la ragazzina mezza nuda
sotto le docce degli spogliatoi.
“Spero davvero che
tu venga a lavorare da noi,” dice ad un certo punto,
appoggiando il bicchiere sul cruscotto, proprio davanti al volante.
Prende ad
accarezzare Bilbo. Lo fa sempre quando è teso, nervoso. “Non lo dico tanto per
il lavoro in sé,” riprende. “Voglio dire… immagino che
possa farti comodo… però… spero che tu dica sì perché voglio continuare a
vederti, Camila. Non è per… non voglio… So che sei sposata. Me l’hai detto
proprio ieri sera,” dice, con un sorriso imbarazzato.
“Spero che tu dica sì, ecco. Per tanti motivi.” Guarda
in basso. Non sa come continuare. “Mi piace passare del tempo
con te, Camila. Mi piace il modo in cui… Mi piace il modo in cui mi sento
quando sono con te.”
Lei arrossisce. Davide
non può vederla, perché ha ancora gli occhi bassi, ma
Camila arrossisce.
Appoggia il
cucchiaino nel bicchiere mezzo vuoto e resta ad osservare il ragazzo che ha di
fronte.
I capelli biondi,
scompigliati e sottili. La linea dolce del viso, diversa da quella paffuta del
bambino di Carovigno. Il giubbotto scuro, le gambe nascoste sotto i jeans blu.
Lo guarda, e si
meraviglia di quanto, a volte, sia imprevedibile la vita.
“Non so come ti
senti,” gli dice a voce bassa. “Non so cosa provi
quando siamo insieme… ma anche a me piace passare del tempo con te.”
Davide smette di
accarezzare Bilbo. Alza la testa lentamente e ritrova gli occhi chiari di lei.
Cosa provi? Perché ti piace passare del
tempo con me? Cosa ti piace, in particolare? Accetterai il lavoro? Dov’è tuo
marito?
“Dov’è tuo marito?”
La domanda è spontanea. Pensa per un secondo di trattenerla, di evitarla, ma
poi non ce la fa.
Mi sono trattenuto anche abbastanza questa
sera.
Camila serra le
labbra in una linea dritta. “Se te lo dico prometti di non chiedermi più di
lui?”
“Sì.”
“Prometti,” insiste. “Prometti che non mi farai più nessuna domanda
che riguarda mio marito.”
“Prometto di non
farti più alcuna domanda su tuo marito.”
“E’ in Basilicata.
L’ho lasciato lì. In Basilicata.”
Davide fatica
immensamente per trattenere il vagone di domande che vorrebbe fare.
Perché si trova lì? Che significa “L’ho
lasciato lì”? Siete separati?
Ha promesso, però.
E sa quanto è importante una promessa fatta a Camila. L’ha imparato quando
aveva sette anni.
“Grazie,” le dice. “Non ti chiederò più nulla di lui.”
La donna annuisce. Allunga
una mano verso Bilbo, per accarezzargli la testa e le orecchie. Il cagnolino si
lascia coccolare volentieri.
“Sta muovendo la
coda,” dice Davide sottovoce. “Gli piaci.”
I due si guardano.
Sono tante le
parole non dette, sia da lui che da lei.
I loro sguardi
provano a parlare per loro.
Piaci al mio cane, e piaci anche a me.
Tutto questo è sbagliato. Però mi piace.
Davide mette in
moto dieci minuti dopo, quando le mousse sono finite e quando Bilbo è tornato a
dormire sul sedile posteriore.
Il raccordo non è
affollato. Sa che entro venti minuti riaccompagnerà a casa Camila.
Decide allora di
farli fruttare.
“Perché
ti chiami Camila? Perché non Camilla, con due L?”
Lei sorride. “Mia madre è brasiliana. Camila era il nome di sua madre, mia
nonna.”
“Brasiliana? Wow.
Sei mai andata lì? In Brasile?”
“No,” risponde. “Non ancora.”
“Speri di andarci
presto? I tuoi parenti vivono ancora lì?”
“Non so nulla dei
miei parenti,” dice Camila. “Però spero di andarci
presto, sì.”
Davide inizia a
fantasticare. Pensa che dopo la laurea potrebbe chiedere ai suoi di regalargli
un viaggio in Brasile. Potrebbe accompagnare Camila. Potrebbe imparare il
portoghese, nel frattempo.
“Conosci il
portoghese? Lo parli bene?”
“Non conosco
neanche una parola di portoghese,” dice lei. “Mia
madre mi ha sempre parlato in italiano o meglio, in dialetto pugliese.”
“Perché?”
Scrolla le spalle. “Non
lo so.” E così dicendo sposta gli occhi dal viso di lui al finestrino alla sua
destra.
“Però conosco molte
ricette brasiliane,” dice ad un certo punto. “Le ho
imparate in Germania. Mia madre me le ha insegnate quando eravamo lì. Ai Bauer
piacevano un sacco…”
“I Bauer?”
“Una coppia per cui
ho lavorato quando vivevamo in Germania. Mi hanno aiutata tanto in quegli anni.”
Parla quasi a se stessa. Davide ha perfino paura di respirare: non vuole che
smetta. “Lui era un medico,” continua. “Mi ha curata,
mi ha dato delle vitamine speciali per… per farmi stare bene.”
“Li hai più visti?
O sentiti?”
“No.”
Quando Davide
accende la freccia per imboccare l’uscita che porta all’abitazione di Camila,
lo fa con un grosso peso sul petto. Non vuole separarsi da lei. Non vuole
ritornare a casa senza averla al suo fianco.
Per questo motivo tace, resta in silenzio.
Rivive mentalmente
la serata trascorsa e mantiene gli occhi sulla strada. Rallentando, fermandosi
agli stop più del dovuto, maledicendo i semafori verdi che incontra agli
incroci.
Non voglio lasciarla. Non voglio separarmi
da lei. Voglio continuare a farle domande su domande, e voglio vederla
sorridere. Oppure, se dovesse tornare ad essere triste e malinconica, voglio
fare qualcosa per regalarle un nuovo sorriso.
Voglio che accetti la proposta di mia madre.
Voglio che si licenzi dalle case degli stupidi per cui lavora adesso, e che
passi tutto il suo tempo con me e con Bilbo.
Voglio che venga allo stadio con me.
I pensieri del ragazzo
frenano nello stesso momento in cui è l’auto a frenare. Proprio davanti al
portone del palazzo in cui vive Camila.
E Alessia. Già. Anche Alessia vive qui. Peccato
che non abbia pensato a lei neppure una volta da quando ho lasciato la
biblioteca.
“Eccoci arrivati,” dice, voltandosi verso Camila per la prima volta da
quando hanno smesso di parlare.
E proprio allora si
accorge che sta dormendo.
Gli occhi sono
chiusi, la testa è inclinata sul poggiatesta in una posizione dolce, angelica.
Davide non riesce a
chiamare il suo nome.
Non voglio svegliarla. E’ così bella. Così
perfetta.
Il viso di Camila è
illuminato dalla luce bianca dei lampioni presenti nel parcheggio. Anche se
chiusi, i suoi occhi sembrano ugualmente stanchi; ora, però, c’è qualcosa di
estremamente meraviglioso in lei, e Davide non riesce a capire cosa. Il fatto
che può finalmente guardarla liberamente senza sentirsi in imbarazzo? Il fatto
che lei è riuscita a rilassarsi così tanto da addormentarsi? Il fatto che può ancora
tenerla con sé prima di restituirla a Roma, alla sua vita, alle sue cose?
Davide resterebbe
ad osservarla in questo modo per sempre, ma Bilbo sceglie proprio quel momento
per sbadigliare, alzarsi sulle zampe e infilare la testa in mezzo ai sedili. Il
ragazzo non riesce a trattenerlo dall’annusare Camila, e lei si sveglia quando
avverte il cane accanto a sé.
“Ehi…” dice lui,
spingendo Bilbo al suo posto. “Siamo arrivati.”
Camila si guarda
attorno e capisce che Davide ha ragione. “Per quanto ho dormito?” domanda.
“Non lo so. Dieci
minuti? Un quarto d’ora?”
Lei prende la borsa
e abbottona la giacca. Si volta verso di lui. “Grazie per
avermi accompagnata. Spero che i tuoi non facciano storie per la cena,
per-”
“Non faranno
storie, tranquilla.”
Camila sorride. “Grazie.”
“Grazie a te.”
Sta per sganciare
la cintura, ma si ferma di scatto. “Oh, un momento! La
cena, i panini! Non mi hai detto qual è la mia parte!” In
preda al panico, inizia ad aprire la borsa e a tirar fuori il borsello in cui
custodisce il denaro.
Davide la ferma al
volo, appoggiando la mano sulla sua. “Non ci provare. Bilbo ha detto che offre lui.”
“No,” ribatte. “Sono seria, dimmi quanto ti devo per-”
“Camila, anch’io
sono serio. Ora puoi decidere di rimanere qui a cercare di convincermi, oppure
accettare che Bilbo abbia offerto la cena e metterti l’anima in pace.”
“Ma non posso
accettare.”
“Puoi. E devi. E
poi so già come potrai ripagarmi, se proprio ci tieni.”
“Come?”
“Se accetterai il
lavoro potrai prepararmi una torta alla frutta come quella di stasera. Sono
seriamente convinto che mia sorella e mia madre l’abbiano già finita.”
Riesce a farla
sorridere di nuovo. Ne è estremamente orgoglioso.
“Va bene,” dice Camila, liberandosi dalla cintura di sicurezza. Apre
lo sportello e si avvia a scendere. “Ti preparerò un’altra torta come quella di
stasera.” Gli sorride.
“Mi
stai dicendo che accetterai?
Accetterai il lavoro?”
“Sì.”
---
Come Davide, sono anch’io convinta che latte
e biscotti sia più salutare dei panini del McDonald. Ma
ogni essere umano deve assaggiare quelle schifezze, prima o poi, e anche Camila
aveva bisogno della sua dose.
Grazie immensamente per i commenti all’ultimo capitolo
Grazie immensamente per i commenti
all’ultimo capitolo.
Sono davvero contenta che questa storia vi stia
piacendo così tanto.
Grazie anche da parte di Bilbo, che mi ha
telefonata e mi ha detto che, se potesse, offrirebbe una ciambellina fritta ad
ognuno di voi.
Buona lettura.
---
Capitolo 13
Il giorno dopo
l’incontro con Simona e la cena con Davide, Camila ha accettato ufficialmente la
proposta di lavoro.
Ha telefonato alla
madre di Davide e con lei si è accordata per incontrare il commercialista. L’appuntamento
con il dottor Manzoni si è tenuto due giorni dopo.
Camila non possiede
un diploma specifico che la qualifichi come professionista nell’assistenza
domestica. A dirla tutta, Camila non possiede alcun tipo di diploma. Ammetterlo
in presenza di Simona e di Giancarlo l’ha fatta sentire in imbarazzo per un
attimo, ma poi si è velocemente ripresa. Ha imparato, nel corso degli anni, a
fare bene il suo lavoro, e per lei è questo ciò che conta. Ne va orgogliosa,
anche se non possiede un titolo di studi che certifichi le sue conoscenze.
L’assenza di un
diploma ha tuttavia pregiudicato l’aspetto economico del contratto. E’ per
questo motivo che Camila non ha detto addio a tutti i suoi vecchi clienti. Nei
giorni successivi ha concordato con Simona gli orari di lavoro, in modo tale da
avere la possibilità di recarsi anche a casa di altre famiglie per guadagnare
di più.
Camila è riuscita
(e ancora non le sembra vero) a conservare tutti i clienti che si trovano nella
parte settentrionale della città, quella più vicina all’abitazione di Davide.
In questo modo non deve viaggiare per lunghi periodi in metropolitana o sugli
autobus, e può gestire il lavoro in maniera ottimale.
Simona è stata
molto accomodante. La donna non vede l’ora di avere Camila in casa, e non ha sollevato
problemi quando lei le ha chiesto di poter continuare a lavorare nelle case
altrui.
Unendo al salario
da colf i compensi orari percepiti dai clienti benestanti di Roma Nord, Camila
riesce a guadagnare mille e duecento euro al mese. La metà va via per pagare
l’affitto della stanza nell’appartamento che divide con Alessia e Ida, le
bollette della luce e del gas, e per l’abbonamento ai mezzi pubblici. Dei
seicento euro rimanenti, Camila conserva per sé (per la spesa, per la ricarica
del telefonino e per gli imprevisti) duecentocinquanta euro. I
trecentocinquanta euro rimanenti finiscono su un libretto postale che Camila ha
aperto poco dopo essere arrivata a Roma.
Il saldo del
libretto è pari a 9.650 euro. Quei soldi rappresentano il suo biglietto per una
nuova vita. Rappresentano, e non solo metaforicamente, la strada verso il
Brasile.
L’ultima tappa
della fuga da Umberto.
***
Il lavoro a casa
dei Falco inizia il lunedì successivo al loro primo incontro.
Camila prende la
metropolitana alle otto meno un quarto invece che alle sette, riuscendo a
dormire di più. Quando arriva davanti al portone del palazzo, alle nove in
punto, si sente agitata come se si trattasse del suo primo giorno di lavoro in
assoluto.
Ad attenderla in
casa, con sua enorme sorpresa, ci sono soltanto Simona e Bilbo.
Giancarlo è uscito
presto: nel corso della giornata andrà e tornerà da Perugia per seguire una
consegna importante. Priscilla è in ospedale e Davide in biblioteca a studiare.
“Voleva rimanere
qui,” dice Simona quando sistema il giaccone di Camila
sulla panca nel corridoio. “Ma ho pensato che per questo
primo giorno non abbiamo bisogno di troppa gente fra i piedi. Inoltre,
quando è a casa non studia mai come si deve, per cui l’ho costretto ad andare in
biblioteca nonostante non volesse,” dice ridendo.
Camila sorride ed
annuisce.
Peccato, mi avrebbe fatto piacere rivederlo.
O forse no, forse è meglio che oggi mi dedichi solo ed esclusivamente al
lavoro. La sua presenza sarebbe stata una distrazione troppo forte.
Camila non ha più
visto Davide dalla sera al McDonald’s. Neanche al suo appartamento, in
compagnia di Alessia.
Probabilmente è stato occupato con lo studio
e con gli esami.
“Da dove comincio?”
chiede Camila, guardandosi attorno. E’ ciò che ha sempre chiesto agli altri
clienti, per ricevere ordini circa le camere da pulire o il bucato da stirare.
“Che ne dici se
andiamo in cucina a fare il caffè?” domanda Simona. “Non dobbiamo andare di
fretta.”
“Ok,” risponde l’altra. “Va bene.”
Camila la segue
lungo il corridoio che porta alla cucina, passando accanto al cesto in cui
Bilbo è impegnato a mordere un pupazzo di gomma. Il cagnolino non ha abbaiato
quando è entrata in casa, ma si è limitato a scodinzolare. Proprio come fa con
gli altri membri della famiglia.
Una volta in
cucina, Simona chiede a Camila di accomodarsi. Quest’ultima, però, si sente
quasi in colpa mentre osserva la signora preparare il caffè.
Dovrei essere io a farlo. E’ il mio lavoro.
E’ lei quella che dovrebbe rimanere seduta.
“Allora,” dice la padrona di casa mentre carica la caffettiera con
moka scura e profumata, “conosci qualche buona ricetta da fare a pranzo? Saremo
in due, io e te, però chi ha detto che non dobbiamo trattarci bene, giusto? Dopo
aver preso il caffè andremo a fare la spesa, quindi se hai voglia di qualcosa
di sfizioso, prendi quel quaderno sulla mensola e segna pure gli ingredienti.”
“Beh, io… io… io ho
portato il pranzo da casa,” dice Camila, osservando la
sua borsa, ferma sulla panca nel corridoio.
Simona la guarda
con stupore. “Ma non devi restare fino alle tre, Camila?”
“Sì,
sì, certo. Rimarrò fino alle tre, però…”
“E allora qual è il
problema? Mangerai qui, non c’è bisogno che porti il pranzo,”
esclama Simona, avvitando la caffettiera. La sistema
sul fornello medio e va a sedersi all’altro capo del tavolo. “Oggi saremo sole,” riprende, “e in genere sarà così, visto che Giancarlo è
sempre in giro e i ragazzi pranzano con gli amici, all’università o in
ospedale. Però a volte Davide resta a casa, e Priscilla torna prima del
previsto. In quei casi cosa vorresti fare, mangiare in un angolo per conto tuo?
Niente più pranzo da casa, Camila. Va bene?”
“Va bene,” risponde arrossendo.
“Se hai voglia di
preparare il tuo piatto preferito puoi farlo qui e farlo assaggiare anche a
noi. Non c’è bisogno che ti porti da mangiare. Chiaro?”
Le sorride, le labbra sottili e belle proprio come quelle di
suo figlio.
***
Camila sbaglia
quando pensa che Davide sia stato occupato con i libri e con gli esami.
Il ragazzo è stato
occupato, in effetti, ma con altre questioni. Una sola, a dire il vero. Una
sola questione.
Alessia. Come
evitare di vederla, come allontanarla, come liberarsi di lei.
La sera in cui ha
accompagnato Camila a casa sono cambiate molte cose. Durante il viaggio di
ritorno con Bilbo addormentato al solito posto, Davide ha pensato e ripensato ai momento trascorsi con la ragazza di Carovigno.
Ha deciso di cogliere
il lato positivo di quel “L’ho lasciato in Basilicata”. Ha deciso di farsi
avanti.
Quando è tornato a
casa e ha scoperto che sua madre gli aveva conservato una fetta di torta alla
frutta, ha quasi toccato il cielo con un dito. Morso dopo morso, assaporando la
dolcezza della crema e il perfetto matrimonio fra frutta e pasta frolla, Davide
si è convinto ancora di più di quanto desideri che
Camila faccia parte in un modo diverso della sua vita. Non come una conoscente,
né tantomeno come una donna delle pulizie.
Davide vuole che
Camila sia la sua ragazza. E’ pronto a convincerla, è pronto a parlarle e
riparlarle più volte. Egli sa che può nascere qualcosa di speciale fra di loro. Sa che non sono semplici amici.
Vuole crederci,
perché vuole Camila per sé.
E’ per questo
motivo che il giorno dopo non è andato in biblioteca e ha spento il telefono.
Avrebbe dovuto incontrarsi con Alessia, ma l’ha evitata. Quel giorno, e il
giorno successivo, quando è andato a studiare a casa di Alfredo, il suo
migliore amico. Quando lei ha provato a chiamarlo, quando non è stato più
possibile tenere il telefono spento, Davide ha finto di stare poco bene.
Alessia lo ha chiamato ‘tesoro’, gli ha detto di rimettersi in fretta perché
‘mi manchi tanto’.
Davide ha
riagganciato in fretta, quasi come se l’apparecchio potesse scoppiargli fra le
dita.
Nel corso della
settimana ha seguito Camila da lontano, facendosi bastare le conversazioni fra
sua madre, Priscilla e Giancarlo in merito alla sua assunzione.
Ad un certo punto,
venerdì sera, il patrigno ha fatto una domanda particolare mentre erano a
tavola, mentre stavano cenando.
“Simona, sono
contento che tu abbia finalmente un nuovo aiuto in casa. Ora, non per fare
l’avvocato del diavolo o il guastafeste, ma a voi questa Camila non sembra un
po’ strana? L’altro giorno, da Manzoni, non ha fatto che guardare a terra per
tutto il tempo. Sembrava terrorizzata. Siamo certi di poterci
fidare al 100%?”
La domanda di
Giancarlo, un gran lavoratore che tiene molto al benessere di sua moglie e a quello
della sua famiglia, non nascondeva nessun intento denigratore nei confronti di
Camila. La sua era semplice curiosità.
Davide, però, non
ha reagito bene. “Camila non è strana,” ha detto, facendo
cadere la forchetta sul piatto e prendendo la parola prima di sua madre. “E’
timida; è una persona timida. Ed è molto affidabile. Non è che sei stato tu a metterla in imbarazzo?”
“Chi,
io? Ma se a stento l’ho
salutata,” ha ribattuto Giancarlo, guardando sua
moglie con meraviglia.
“Ecco, forse
avresti dovuto parlarle per cinque minuti. Ti saresti accorto che non è né
strana né pazza.”
“Ma non ho detto
che è pazza, Davide. Ho solo-”
“Sì,
sì. Certo.” Davide ha
scostato la sedia facendo rumore e se n’è andato, mentre gli altri gli
chiedevano di rimanere e chiarire la questione.
Il conflitto emotivo
con Giancarlo è sempre lì, pronto a riemergere nei momenti meno opportuni.
L’uomo non
intendeva offendere Camila né insinuare che ci sia qualcosa di strano in lei.
Davide, però, non è riuscito e non riesce a tollerare che si parli male di
Camila.
Non l’ha tollerato
quando Ida e Alessia l’hanno fatto, e non l’ha tollerato quando è stato
Giancarlo a parlare di lei in un certo modo.
E’ protettivo nei
confronti di Camila. L’ha protetta diciassette anni fa, quando non ha rivelato
a nessuno la sua presenza nelle docce del campetto, e intende proteggerla anche
ora. Anche nel futuro.
Quando ha avuto la
conferma dell’assunzione, Davide ha gioito immensamente, ma senza darlo a
vedere. Domenica mattina si è svegliato presto e ha pulito la sua camera da
cima a fondo, usando anche l’aspirapolvere. Priscilla gli ha fatto notare che
il giorno dopo ci sarebbe stato qualcuno ad occuparsi di quelle faccende, ma
non è servito a molto: Davide ha continuato a pulire. Ha perfino cambiato le
lenzuola sporche.
Ma nel momento in
cui Simona l’ha obbligato ad uscire di casa, per lasciare a lei e a Camila lo
spazio ed il tempo di organizzare il lavoro della seconda, Davide ci è rimasto
male. Pensava di accoglierla nella sua casa, di darle il benvenuto. Voleva
mostrarle l’assenza di polvere sulla sua libreria.
Voleva passare un
po’ di tempo con lei.
Non importa, pensa. Riuscirò
a vederla prima delle tre. Tornerò a casa per pranzo, anche se a mamma ho detto
il contrario.
E’ in biblioteca, a
studiare. E’ in un’area diversa dal solito, e spera che Alessia non sia nei
paraggi.
Legge e rilegge la
stessa pagina più volte, trascrive gli appunti sul quaderno e controlla
l’esecuzione del progetto tramite il portatile, ma la sua mente è lontana,
molto lontana dall’università.
Chissà cosa stanno facendo, adesso, mia
madre e Camila. Andranno d’accordo? La mamma non ha fatto che parlare della
torta di frutta, in questi giorni, e di quanto Camila è stata gentile nel
rimanere, quella sera. Andranno d’accordo, poco ma sicuro.
Spero che Giancarlo non le dia problemi.
Potrei tirargli un pugno, se la deridesse di nuovo.
***
Camila e Simona
sono al supermercato di un grande centro commerciale che si trova a poche
centinaia di metri dall’abitazione dei Falco. Il carrello, guidato da Camila, è
colmo di cose all’apparenza molto buone, cose che – una volta a casa – andranno
a riempire la dispensa e il frigorifero.
Camila continua a
sentirsi come se stesse in vacanza, invece che a lavoro. Il fatto che Simona la
tratti come un’amica di famiglia invece che come una dipendente le piace, è
vero, ma allo stesso tempo la mette in imbarazzo.
Camila è abituata a
pulire, lavare, stirare. A volte ha fatto la spesa per alcune signore, ma è
stata sempre attiva, non si è mai limitata a spingere il carrello e a leggere
la lista.
Con Simona, invece,
le cose sono molto diverse.
“Camila, ho segnato
le barrette per Davide?” chiede la donna ad un certo punto. “Se non sono sulla
lista dovrai ricordarmi di prenderle quando arriviamo alla cassa,” continua, appoggiando due pacchi di pasta nel carrello.
“Mio figlio ha 24 anni, e impazzisce per quei dolcetti come quando ne aveva
dieci.”
Lo so, vorrebbe dire Camila. Anch’io
impazzisco per le stesse barrette, e di anni ne ho 31. E’ stato proprio Davide
a farmele conoscere. A Carovigno.
“Eccole,” dice Simona quando raggiungono la corsia della cioccolata,
situata proprio di fronte alle casse. Prende quattro confezioni e le appoggia
nel carrello. “Dovrebbero bastargli… spero.”
“Anche a me
piacciono molto,” dice Camila, rompendo il silenzio.
Simona scoppia a
ridere. “Non dirlo a Priscilla, ma anch’io ne vado matta.” Afferra altre due
confezioni velocemente. “Colpa della menopausa. Non
dovrei mangiare tanta cioccolata, ma a questi dolcetti non so dire no.”
Camila le sorride.
Nonostante l’imbarazzo legato al lavoro, è a suo agio con la madre di Davide.
Con lei non si sente una semplice colf.
***
La mattinata di
Davide procede bene. Nessuna visita e nessuna telefonata di Alessia, nessun
problema con il progetto che sta preparando. A mezzogiorno decide di tornare a
casa. Sa che Camila lavorerà fino alle tre, e vuole arrivare in tempo per
pranzare con lei (e con sua madre).
Ma quando lascia
l’edificio della biblioteca si accorge che ad attenderlo sulla sella del suo scooter
c’è un’amara sorpresa: Alessia.
Prima o poi sarebbe dovuto accadere,
suppongo.
Le sorride da
lontano, camminando nella sua direzione, ma la ragazza resta impassibile.
Magnifico. Ce l’ha con me.
Passo dopo passo,
Davide cerca di pensare a cosa le dirà, a come giustificherà il fatto che non
l’ha cercata per un’intera settimana e a come spiegherà che non vuole più
uscire con lei.
“Ciao,” dice, quando raggiunge il motorino.
“Ciao,” risponde lei, fredda. Si alza in piedi. “Come stai? Passato il mal di pancia?”
“Sì,” dice lui, ricordandosi della frottola raccontata al
telefono. “Tu, invece? Come stai? Che hai fatto in questi
giorni?”
“Ho aspettato che
ti facessi sentire,” sbotta lei. “Perché non mi hai
chiamata?”
Perché ho provato a fare il vigliacco, e per
un po’ ci sono riuscito.
“Sono stato
impegnato,” mente. “Questo esame è incasinato, e non
ho avuto altro per la testa.”
“Ora che hai da
fare?” incalza lei. “Vuoi venire a pranzo con me?”
“No,
non posso. Devo tornare
a casa.”
Non riesce neanche
a guardarla negli occhi.
“Vabbè,” dice lei, stringendo i libri al petto. “Ho capito.”
Sospira. “Pensavo fossi diverso,” gli dice. “Pensavo
di interessarti davvero, ma sbagliavo. Avresti potuto dirmelo, però. Avresti
potuto avere le palle per chiamarmi e dirmelo in faccia, che non vuoi più
vedermi. Senza inventarti il mal di pancia o i problemi legati all’esame. Ida
ti ha visto in giro due volte, la scorsa settimana. E stamattina sei venuto a
studiare qui,” continua. “Avresti potuto chiamarmi,
chiedermi di raggiungerti. Oppure semplicemente mandarmi a fanculo al telefono,
invece di trattarmi come un soprammobile.”
Davide sa di
meritare le parole di Alessia. Sa che per la ragazza la loro breve relazione
non è stata un passatempo, come invece è stato per lui. Sa di aver sbagliato. Non
è la prima volta che si comporta in modo simile, fra l’altro.
Proprio per questo
vuole provare a rimediare. Vuole provare a spiegarle perché si è allontanato in
una maniera così vigliacca.
“Posso dire una
cosa?” chiede, guardandola negli occhi.
Alessia annuisce.
“Il motivo per cui
non ti ho cercata è che… è che non posso… non posso stare con te e pensare ad
un’altra persona. Non potrei farlo, non potrei farti questo.”
Alessia allarga gli
occhi. “Quindi c’è un’altra!” esclama. Scuote il capo e ride amaramente,
lasciando andare le braccia lungo i fianchi. “Avrei dovuto immaginarlo,” mormora.
“Il punto è che non
sono il tipo di ragazzo che-”
“Oh, ti prego! Che
vuoi dirmi, eh? Che non sei il tipo di ragazzo che un giorno va a letto con una
e il giorno dopo con un’altra?! Risparmia il fiato,
Davide. E’ quello che hai fatto con me.”
Vorrebbe dirle che
non è così. Vorrebbe spiegarle meglio, ma per farlo dovrebbe arrivare a
parlarle di Camila. Sarebbe completamente inutile, visto il rapporto che c’è
fra le due e visto che è improbabile che Alessia voglia conoscere i dettagli
della vicenda.
Davide vorrebbe
riparare al suo sbaglio, ma non può. Per certi errori non esiste rimedio.
Alessia gli volta
le spalle e va via. Compiuti quattro o cinque passi, si volta e gli punta
contro i libri ancora stretti in una mano. “Mi fai pena,”
gli dice. “Mi fai tanta pena.”
---
Ancora una volta mi sono trovata di fronte
ad un capitolo lungo e ho pensato di dividerlo a metà.
Il prossimo sarà IMPERDIBILE. Se non mi
credete, controllate la piccola anticipazione che posterò fra poco sul mio blog ;)
“Sì, Camila. Domani
è il mio giorno libero, sarò a casa fin dalla mattina.
Aspetta, ti accompagno alla porta.”
“Ciao, Bilbo.”
Camila si china ad accarezzare il cane, sdraiato nel suo cesto come al solito. “Ci
vediamo domani, pelosone.” Bilbo risponde
scodinzolando.
“Camila, vai già
via?” domanda Giancarlo, tornato da due minuti dal suo ufficio.
“Sì,” risponde lei. “Il suo pranzo è in cucina. Simona le ha
preparato i carciofi ripieni.”
L’uomo sorride e
annuisce, andandole incontro per raggiungere la cucina. “
Arrivederci, a
domani,” dice lei velocemente, imboccando il corridoio
dietro Priscilla.
Due settimane di
lavoro a casa dei Falco, e quasi non le sembra vero: sta bene, si trova bene.
Il primo giorno è passato
in maniera surreale e a tratti divertente. La spesa al supermercato, la pulizia
del salone e dei bagni in compagnia di Simona, la passeggiata con Bilbo e
Simona nel parcheggio condominiale. E poi la preparazione del pranzo, con
quella che è a tutti gli effetti una specie di amica, e non un datore di
lavoro. Quel giorno, a sorpresa, Davide le ha raggiunte per mangiare con loro.
Camila si è sentita
emozionata per tutta la durata del pranzo. Davide l’ha guardata più volte da un
lato all’altro del tavolo, e le ha sorriso quando Simona si è alzata per
rispondere al telefono.
Lei gli ha detto:
“Non pensavo che saresti tornato a pranzo.”
Lui ha risposto
con: “Volevo vederti.”
Nei giorni
successivi Camila ha imparato a conoscere l’abitazione del Falco. Simona le ha
mostrato in che modo vuole che vengano puliti i pavimenti, le porte, le
finestre. Le ha mostrato il contenuto del ripostiglio, della dispensa che non
aveva visto il giorno prima e del garage. Le ha perfino fatto vedere come
funziona il forno.
Camila ha
incamerato ogni informazione con la solita cortesia e professionalità, anche se
non si spiega perché Simona le abbia mostrato anche l’attrezzatura da sci di
suo marito.
E’ una persona
speciale, Simona, e lei l’ha capito subito. Non ha un effettivo bisogno di
qualcuno che l’aiuti in casa, ma ha molto bisogno di qualcuno che le faccia
compagnia, che le ricordi che è ora di avviare il
pranzo e che scriva e legga con lei la lista della spesa.
Giancarlo è un uomo
molto impegnato. E’ raro che, quando arriva, alle nove del mattino, Camila lo
trovi in casa, ed è altresì raro che rientri per pranzare con la sua famiglia.
I suoi affari lo portano spesso e volentieri in giro per la regione, e a volte
anche fuori dai confini del Lazio, per cui è normale che Simona si senta sola.
Ha alcune amiche, ma Camila ha avuto il sentore che si
tratti per lo più di donne con gusti molto diversi dai suoi. Simona è
giovanile, spigliata. Si interessa di musica e di sport, in particolare di
hockey su prato, lo sport praticato da Priscilla. E’ una brava madre ed una
brava moglie, ma è una donna molto sola. Camila non sa se possiede fratelli o
sorelle.
E poi c’è il resto
della famiglia. Priscilla, Giancarlo e Davide.
Priscilla è poco
presente in casa. Al mattino è in ospedale, e di pomeriggio è in giro con i
suoi amici, alcuni dei quali stanno preparando la tesi
di laurea. Camila ha ascoltato alcune conversazioni fra madre e figlia, e a
dire il vero non è sicura che si tratti di più amici o di un solo amico, magari
il suo ragazzo. Quando è in casa, Priscilla è sempre allegra e gioviale,
proprio come sua madre. Il sorriso non l’abbandona mai, soprattutto nei
confronti di Camila. Le chiede se ha bisogno di una mano quando la vede pulire
il bagno, e le domanda se Bilbo le ha causato problemi con i suoi giochetti attira-attenzione.
Giancarlo è l’unico
con cui Camila ha un rapporto più freddo, distaccato. Si vedono poco, è vero.
Spesso, il rientro di lui coincide con l’uscita di lei, per cui non hanno
ancora avuto modo di chiacchierare come si deve e di conoscersi, tuttavia
Camila si sente un po’ intimorita dal capofamiglia. Giancarlo è l’unico che non
si lascia andare a battute e sorrisi. E’ molto tranquillo e sereno, ma non è
come le donne di casa. Questo lato del suo carattere la mette in soggezione, ed
è per questo che quando gli parla lo fa rapidamente, cercando di limitare
quelle che potrebbero essere parole superflue o non gradite.
Con Davide, infine,
il rapporto è completamente diverso, sia da quello con Giancarlo sia da quello
con Simona e Priscilla. C’è qualcosa di speciale fra di
loro, e Camila se ne sta pian piano rendendo conto.
Il primo giorno di
lavoro, Davide le ha detto che non c’era bisogno di pulire la sua camera,
perché se n’era occupato lui il giorno prima. Il secondo giorno, non appena è
arrivata, le ha detto la stessa cosa. L’ha fatto anche il terzo giorno, e il
quarto e il quinto.
Davide non consente
a Camila di pulirgli la stanza, di rifargli il letto, di spolverare i suoi
soprammobili. Le ha mostrato la sua camera, ma non le ha permesso di pulirla.
Non vuole che lo faccia. Non vuole che sia, nella sua stanza, la donna delle
pulizie.
In realtà non vuole
che lo sia neanche nel resto della casa. Quando sua madre non lo vede, Davide
aiuta Camila a sistemare le pentole o la spesa. L’aiuta con il bucato, e si
prende cura di Bilbo quando lei deve lavare i pavimenti.
Camila sa che lui
lo fa per lei.
Camila sa che è il
suo modo per dirle ‘Ci sono’.
Camila lo apprezza,
più di quanto dovrebbe e vorrebbe.
In casa nessuno
conosce ancora la sua storia. Sanno che è nata a Carovigno, ma non le hanno
chiesto nulla dei suoi anni nel paesino pugliese. Sanno che ha vissuto in
Germania per qualche anno e che poi si è trasferita in Basilicata. Sanno anche
che è sposata. Hanno appreso queste informazioni durante la firma del
contratto, quando Camila ha fornito al commercialista una fotocopia della carta
d’identità.
Sono molto
discreti. Non sono degli impiccioni. Per loro – in particolare per Simona – è
importante che Camila sia capace ed affidabile. Rispettano i suoi silenzi, il
suo carattere chiuso, il fatto che non ami particolarmente parlare di sé.
Camila pensa e
ripensa ai Falco anche quando raggiunge il suo appartamento. Ha il pomeriggio
libero, oggi, dato che la famiglia Ballotta è partita per qualche settimana. In
queste due settimane ha lavorato anche presso i vecchi clienti, proprio come
aveva programmato all’inizio.
Una volta
all’interno della casa, sente la voce di Alessia provenire dal salotto. Sente
anche quella di Ida, e quella di un’altra ragazza, che però non conosce.
Si ferma per un
attimo davanti alla porta della stanza. Le saluto o non le saluto? Se alzano la
testa per guardarmi, le saluto.
Ida, Alessia e la
ragazza senza nome continuano a parlare, sedute al tavolo, ricoperto di libri e
di quaderni. Nessuna si accorge di lei. O forse notano la sua presenza e
decidono di ignorarla.
Camila si volta e
va in cucina. Dalla sua dispensa afferra un pacco di biscotti al cocco, e dal
frigorifero prende una bottiglia d’acqua. Si chiude in camera e decide di
rilassarsi.
Prima di
addormentarsi, ripensa al sorriso di Davide.
***
“Perché si chiama
Bilbo?” domanda Camila una mattina, mentre lei e Simona passeggiano col cane
nel parco che collega i palazzi del quartiere.
La zona è
tranquilla, poco trafficata. Sembra quasi che si trovi fuori dalla caotica
Roma, e a Camila piace molto. Qui, con i Falco, si sente al sicuro.
Simona sorride alla
sua domanda. “E’ stata Priscilla a scegliere questo nome.
Sai, in onore di Bilbo Baggins.” Camila annuisce. Non
ha mai mangiato al McDonalds, ma ha letto Il Signore
degli Anelli. “Quando lo abbiamo preso c’è stata un po’ di
confusione sul nome da dargli. Come al solito, Davide e Priscilla hanno
cominciato ad azzuffarsi. Lui voleva chiamarlo Azzurro.”
“Azzurro?”
“Biancoazzurro,” si corregge la donna. “In onore della Lazio,” aggiunge, sollevando le sopracciglia.
Camila ha avuto
modo di conoscere la fede calcistica di Davide, attraverso i poster che ha
intravisto nella sua stanza e attraverso le magliette sportive che ha lavato e
steso ad asciugare.
“Ma Priscilla si è
opposta,” riprende Simona. “Il cane è nero, non poteva
chiamarsi Biancoazzurro, o Azzurro. Alla fine ha scelto di chiamarlo come un
hobbit, perché è piccolo e peloso.”
“E’ un nome
originale,” dice Camila. “Gli sta bene. Bilbo era
molto originale.”
“Ti va di portare
il guinzaglio?” chiede l’altra. “Ormai sei con noi da quasi
un mese. Bilbo ti considera di famiglia, e non è il solo,” dice, dandole un colpetto col gomito. “Avanti, guidalo tu
alla ricerca del suo posto preferito. Cambia ogni giorno, lo sai. Chissà oggi dove ci porterà.”
Camila accetta il
guinzaglio provando una strana sensazione nel petto. E’ come se Simona le
avesse affidato un bene prezioso. E’ come se le avesse confermato, ancora una
volta, che si fida di lei. Che le vuole bene.
***
“Camila? Puoi venire un secondo?”
La voce è quella di
Giancarlo. Camila ha camminato sulle uova per tutta la mattinata, sapendolo in
casa, ma si è rallegrata del fatto che l’uomo sia rimasto in un angolo del
salone a leggere il giornale e a navigare su Internet. Ora però l’ha chiamata a
rapporto.
Cosa vuole da me?
Ho fatto qualcosa di sbagliato? Vuole licenziarmi?
Spegne
l’aspirapolvere con cui stava pulendo le scale e scende al piano di sotto.
Dalla cucina arriva il profumo della lasagna al forno che Simona sta
preparando.
“Eccomi,” dice con un sorriso. “Ha bisogno di qualcosa?”
Giancarlo si libera
degli occhiali da vista e alza la testa dal tavolo. “Tieni,”
dice, porgendole una busta bianca. “Il tuo primo assegno.”
Oh. Il mio primo
stipendio.
“Grazie,” dice lei, accettando la busta senza aprirla.
“Grazie a te,” ribatte lui. Le sorride. “Avrei anche bisogno di una tua
firma qui,” dice, indicando il foglio della busta
paga.
“Certo.” Camila si
china sul foglio e lascia il suo nome e cognome.
“Simona è molto
felice di averti in casa,” dice Giancarlo a bassa
voce, per non farsi sentire da sua moglie. “Anche i ragazzi lo sono. Sono
adulti, è vero, quindi forse dovrebbero fare loro quello che fai tu, però sono
contento che qualcuno si occupi di loro così bene. Oltre a Simona, è chiaro.”
E’ la prima volta
che Giancarlo le fa un complimento di questo tipo. E’ la prima volta che
riconosce, in pubblico, di apprezzare il suo operato in casa.
“Grazie,” dice Camila, allargando le spalle, a testa alta. “Anch’io
sono contenta di essere qui, di lavorare per la sua famiglia.”
***
Prima dell’arrivo
di Camila, Davide nasconde in casa una barretta al cioccolato.
Lo fa ogni giorno.
Ogni santissimo giorno.
La nasconde nei
cassetti in cui sa che Camila dovrà sistemare le posate. La nasconde nel
portariviste, sapendo che sua madre chiederà alla ragazza di occuparsi di
quelle da buttare. La nasconde nella tasca del giaccone di Camila, prima di
salutare le donne di casa ed uscire per andare a studiare in biblioteca. E ogni
volta, quando torna a casa e va a controllare, si accorge che la barretta non
c’è più.
Camila è rimasta ad
occhi aperti, quando ha trovato la prima barretta. Era nel
porta spazzolini del bagno del piano di sotto. Non aveva idea di cosa potesse
farci una barretta al cioccolato in quel posto, per cui – senza dire nulla a
Simona – l’ha riposta nella dispensa, al solito posto.
Il giorno dopo ne
ha trovata un’altra, stavolta nel ripostiglio dell’aspirapolvere e dei detersivi.
Il terzo giorno, la
barretta al cioccolato era nella tasca del suo giaccone.
In quel momento ha
capito che non si trattava di una coincidenza, né di una strana abitudine degli
abitanti della casa.
Davide aveva
lasciato le barrette per lei. Come quando erano bambini, come quando erano a
Carovigno.
Dal quarto giorno
in poi, ogni volta che ha trovato una barretta in giro per casa l’ha nascosta
in tasca e l’ha mangiata durante il viaggio di ritorno al suo appartamento.
***
Davide e Camila si
parlano poco in casa. In presenza di Priscilla e Simona, si limitano a
conversare dell’argomento di cui si sta parlando, ma è raro che si guardino
negli occhi.
Lui non vuole
metterla a disagio.
Lei ha paura che
sua madre e sua sorella possano capire che il loro rapporto è diverso da quello
con gli altri.
A volte, però, si
incontrano nel corridoio, o in salotto. A volte, quando Camila scende le scale
per tornare al suo appartamento, lui le sale per rientrare a casa.
In quei momenti,
quando sono da soli, Camila sente il battito del cuore accelerare senza motivo
apparente. Davide, da parte sua, vorrebbe dirle qualcosa, intavolare una
conversazione, ma tutto ciò che riesce a fare è sorridere.
Non è mai stato
insicuro con le donne. Ha sempre saputo come fare colpo, come lasciare il
segno.
Con Camila, invece,
è diverso. Con lei si sente un idiota, incapace di andare oltre i regali
nascosti al sapor di cioccolato e i sorrisi rubati di nascosto.
Una sera, due mesi
dopo l’assunzione di Camila, lui e Giancarlo sono seduti sul divano a guardare
una partita di Champions League. Priscilla e Simona sono ad una cena in
pizzeria con la squadra di hockey.
“Che succede con
Camila?” domanda ad un tratto il patrigno.
“Che succede?” gli
fa eco Davide.
Giancarlo gli
lancia un’occhiata. “Ho visto il modo in cui la guardi quando
gira per casa. Sembri un cagnolino.”
“Ma che dici! Sono
sempre all’università quando lei è qui. Non la vedo mai.”
Giancarlo non dice
nulla, ma continua a guardarlo.
“Che
c’è? Oh, per piacere.
Non la guardo in nessun modo, non sono un cagnolino.”
Si alza dal divano.
“Perché te ne vai,
allora?” domanda l’uomo, sorridendo.
“Ho da fare,” borbotta Davide.
“Oh, andiamo!”
esclama mentre lo vede prendere la via delle scale. “Volevo solo prenderti in
giro. Non le dirò che hai una cotta per lei, promesso!”
“Smettila!” grida
Davide di rimando. “Non c’è nessuna cotta. Finiscila!”
E’ chiaro anche al
ragazzo, però, che scappare dal salotto ha dato a Giancarlo la conferma che
aspettava.
***
“Camila, stai
benissimo!” Priscilla sorride, seduta sulla sua poltrona, mentre un ragazzo dai
tratti asiatici si accinge ad asciugarle i capelli.
Camila osserva la
propria figura allo specchio, notando come i capelli lisci la rendano diversa,
più giovane.
L’idea di andare
dal parrucchiere è stata di Priscilla. La ragazza ha chiesto un parere a Camila
in merito ad un nuovo taglio, e alla fine le ha chiesto di accompagnarla. Una
volta giunte a destinazione, la sorella di Davide le ha proposto di occuparsi
anche dei suoi capelli.
“Perché non ti
affidi anche tu a Sergio?” le ha chiesto. “E’ il migliore.”
Camila ci ha
pensato per un quarto d’ora, e alla fine ha deciso di concedersi un regalo. Ha
chiesto a Sergio, questo è il nome del parrucchiere, di tagliarle i capelli di
qualche centimetro e di renderli lisci durante l’asciugatura.
Era da tre anni che
non si concedeva un momento simile. Da quando vive a Roma, infatti, non è mai
andata dal parrucchiere. Non ha mai voluto sottrarre soldi dal suo fondo per il
Brasile.
Ora, però, qualcosa
è cambiato. Lavorare per i Falco l’ha cambiata. Si sente più sicura, più forte.
Si sente meritevole di un attimo per se stessa, come quello che sta vivendo
ora, dal parrucchiere.
Lavorare per tante
famiglie diverse era un conto. Lavorare principalmente per una sola famiglia le
ricorda i tempi in cui lavorava per i Bauer, o i tempi in cui si occupava della
sua casa, delle sue pentole e del suo bucato.
Non si sente più
una dipendente, una nomade. Si sente un membro della famiglia.
***
Le settimane
passano.
Camila continua a lavorare
per i Falco.
Davide continua a
studiare.
Priscilla lavora in
ospedale e si allena per le partite di hockey.
Giancarlo lavora e
guadagna.
Simona manda avanti
la casa in compagnia di Camila.
Bilbo si diverte a
mordere il suo nuovo gioco di gomma, un regalo che Camila gli ha comprato
quando ha saputo del suo quarto compleanno.
Tutto sembra
normale. Tutto sembra procedere come al solito… ma così non è.
Qualcosa sta
cambiando. Due cuori stanno cambiando.
Quello di Davide, e
quello di Camila.
Comunicano con
parole semplici, quando non sono soli, e con sorrisi luminosi quando invece lo
sono.
Lei pensa a lui
prima di addormentarsi. Lui fa lo stesso.
Vivono entrambi ciò
che non hanno mai vissuto, e questo li spaventa, li mette a disagio.
E’ per questo che Camila
non ha il coraggio di domandare a Davide di Alessia.
E’ per questo che
Davide non ha il coraggio di domandare a Camila di suo marito.
Fino a che, un
giorno, Camila resta dai Falco oltre le tre del pomeriggio. Simona vuole donare
alla Caritas tutti i vecchi vestiti di Giancarlo e per farlo ha bisogno di
radunarli, scegliere quelli che possono essere riutilizzati e chiuderli nei
pacchi appositi. Per questo motivo chiede a Camila di rimanere oltre il solito
orario. Camila accetta volentieri, e tra una camicia e un paio di pantaloni
ascolta le parole di Simona, la quale decide di raccontarle parte della propria
vita.
“Il
mio primo matrimonio è durato diciotto anni. Cosimo, il padre di Priscilla e Davide, è
morto quando loro avevano diciassette e nove anni. Avevo quarant’anni. Non
pensavo che mi sarei potuta rialzare, sai? Ero pronta
a dedicarmi esclusivamente a loro. Ero pronta morire come donna. Poi ho
incontrato Giancarlo, e lui mi ha fatto cambiare idea su parecchie cose,” dice sorridendo.
“Ci
siamo risposati cinque anni dopo, per lui era il suo primo matrimonio. La sua famiglia mi ha sempre rispettata
molto, sai? Ero la vedova di un poliziotto, una madre di due figli. Mi hanno
amata tanto, e hanno amato tanto anche i miei figli.
“L’idea di
andarcene dalla Puglia è stata mia,” dice. “Non volevo
che i ragazzi crescessero lì, dove loro padre era
morto. Volevo ricominciare, volevo che loro ricominciassero un’altra vita.” Resta per un po’ in silenzio, occupandosi di controllare
che le camicie abbiano ancora tutti i bottoni, prima di metterle nella scatola
delle cose da donare. “Giancarlo avrebbe voluto un figlio,”
riprende poi. “Ma io non me la sono sentita. Non tanto per la mia età, quanto per… quanto per… Posso confidarti
una cosa?” domanda, insicura.
“Sì,” risponde Camila. “Certo.”
“I
miei figli non sono particolarmente legati a Giancarlo. Lo rispettano, gli sono affezionati, ma
non… non l’hanno mai considerato come un padre. Priscilla era quasi una donna
quando Cosimo è stato ucciso. Ha accettato il mio nuovo matrimonio, così come
lo ha accettato Davide, ma so che… che non sono felici di lui. Sono felici per
me, ma non amano Giancarlo come hanno amato il loro vero padre. Suppongo sia
normale, no? Non posso pretendere il contrario.
“E’
per questo che ho preferito non avere altri figli. Chissà come l’avrebbero presa, come
avrebbero reagito. Male, sicuramente. Avrebbero sofferto troppo nel vedermi
madre di un fratello o di una sorella a metà. Si sarebbero allontanati ancora
di più da Giancarlo, e lui avrebbe potuto…”
Avrebbe potuto considerarli come figli di
serie B. Camila completa la
frase mentalmente, lasciando a Simona qualche minuto per sé.
Ogni essere umano
nasconde una storia, lei lo sa bene. Anche Simona ne nasconde una, e nonostante
abbia privato suo marito della possibilità di essere padre a tutti gli effetti,
Camila non se la sente di giudicarla male.
Non può immaginare
cosa Simona e i suoi figli abbiano passato quando Cosimo è morto. Non può
immaginare cos’abbiano dentro Priscilla e Davide, in merito a quella grave
perdita.
“Per favore,” dice Simona ad un certo punto, “non parlare di questo con
Priscilla. O con Davide. Preferisco che loro non conoscano questi miei
pensieri. Va bene?”
“Certo, signora.
Non si preoccupi,” risponde immediatamente, per rassicurarla.
“Sarò discreta.”
“Grazie, Camila.”
Le due donne
restano in garage fino alle sei, e dopo aver sistemato i vestiti in apposite
scatole rientrano in casa: Simona per preparare la cena, Camila per prendere le
sue cose andare via.
“Grazie per avermi
aiutata,” dice Simona, accompagnandola alla porta.
“Chiederò al commercialista di conteggiare tre ore di straordinari nella
prossima busta paga.”
“Oh, no, non si
preoccupi,” si affretta a dire Camila. “Non ho fatto
nulla di speciale.”
“Sì, invece,” ribatte la prima. “Mi hai dato tre ore del tuo tempo, e
per questo ti ripagherò.”
Non lo sa, pensa Camila, ma mi
ripaga ogni giorno, accogliendomi nella sua casa. Sorridendomi e ringraziandomi
sempre con tanto calore.
“Va bene,” accetta alla fine. “D’accordo.”
Simona sorride.
“Ehi, ti ho già detto che questo nuovo taglio ti sta d’incanto?” Le accarezza
le punte dei capelli. “Sergio è proprio bravo, e il liscio ti dona tantissimo.”
“Grazie, signora.”
Simona apre la
porta per far uscire Camila, ma si ferma quando si trova davanti suo figlio.
Il ragazzo ignora
sua madre e si concentra su Camila. “Sei qui? Sei ancora qui?” domanda, incurvando le labbra in un sorriso.
“Sì,” rispondono all’unisono lei e Simona. “Camila mi ha
aiutato a fare ordine in garage,” continua quest’ultima.
“Domani andremo alla Caritas a portare un mucchio di vestiti per i bisognosi.”
Davide annuisce, ma
continua a guardare Camila.
Da quando ha tagliato i capelli è ancora più
bella. E le sue labbra, le sue labbra sembrano fatte di panna. Sono anche
soffici come la panna?
“Vuoi che ti
accompagni?” chiede. “Sono tornato a casa per posare i libri e prendere la
macchina. Devo andare da un mio amico che abita nel tuo quartiere. Se vuoi posso darti un passaggio.”
“Vai con lui,
Camila,” interviene Simona. “Arriverai sicuramente
prima.”
“D’accordo,” dice la ragazza, stringendo il pugno nella tasca del
giaccone. “Verrò con te.”
Scendono le scale uno accanto all’altro. I loro giubbotti sono
praticamente attaccati.
“Non devi andare da
un tuo amico,” dice lei quando sono davanti al
portone. “Vero?”
Si guardano. Gli
occhi scuri di Davide brillano come quelli azzurri di Camila. “No,” risponde il ragazzo. “Non devo andare da un mio amico.”
Salgono in macchina
silenziosamente, senza parlare. L’unico rumore nell’aria è quello dei loro
passi sul cemento.
E’ sbagliato, pensa Camila. Non posso sentirmi così su di giri.
“Hai lavorato molto
oggi?” chiede Davide mentre mette in moto.
“No,” risponde lei. “Ho aiutato tua madre a mettere da parte
alcuni vecchi vestiti di Giancarlo,” dice. “E
stamattina abbiamo pulito i vetri.”
“Di nuovo? Ma non
li avete puliti la settimana scorsa? Mi madre è
ossessionata dai vetri,” dice sbuffando. “Pulisce sempre anche quelli della sua
auto.”
Camila sorride,
perché sa che è vero. Una volta, mentre erano in giro a fare la spesa, Simona
si è fermata in una piazzola del raccordo per pulire i finestrini della sua
piccola utilitaria.
“Non ti dà
fastidio?” domanda Davide. “Che ti faccia fare sempre le stesse cose?”
Camila scrolla le
spalle. “No,” risponde. “E’ il mio lavoro.”
Rispetto agli
inizi, rispetto a quando l’ha rivisto per la prima volta nel suo appartamento,
si sente più a suo agio con lui. Gli piace la sua compagnia. La desidera.
“Mica hai pulito la
mia stanza?” domanda lui ad un tratto. “L’ho pulita io due giorni fa.”
Camila sorride.
“No, non l’ho pulita.”
Evita di dirgli che
due giorni fa Simona le ha fatto passare l’aspirapolvere e la cera speciale sul
parquet. Sa che Davide ne risentirebbe, e non vuole dargli un dispiacere. Non
vuole che si mortifichi.
“Hai trovato la
barretta di oggi?”
Camila infila la
mano nel giaccone e gli mostra il pezzo di cioccolato. “Stai diventando sempre
più audace,” dice, scartandola e spezzandola in due.
“E se Giancarlo si fosse accorto della barretta nel suo comodino?” Gliene porge
metà. Lui sorride e l’accetta.
“Per fortuna sei
arrivata prima di lui,” ribatte, facendole
l’occhiolino.
“Come va con gli
esami?” domanda Camila. “Sei a buon punto?”
Lui annuisce. “Sto
studiando come un disperato,” commenta. “Voglio
laurearmi in fretta.”
Davide si volta a
guardarla per un momento lungo. La strada che conduce al raccordo è deserta,
per cui indugia sui suoi occhi per molto.
“Stai bene così,” dice a bassa voce.
A differenza della
sera al McDonald’s non se ne pente, non si corregge.
“Come?”
“I nuovi capelli,” dice. “La nuova acconciatura. Sei più… sei
ancora più bella.”
Da quanto tempo un
uomo non le faceva un complimento? Mesi. Anni.
“Grazie,” risponde lei.
Restano in silenzio, un silenzio carico di emozione.
Vorrei tanto fermarmi e darle un bacio.
Dirle che Alessia ed io non ci vediamo più. Chiederle ancora una volta di suo
marito. Ho promesso, è vero, ma ho bisogno di sapere, voglio sapere.
In questi tre mesi mi ha parlato, ha
accettato le mie barrette, mi ha sorriso sempre. Che significa? Cosa significa
questo per lei? Mi desidera? Mi vuole semplicemente bene?
“Alessia ed io non
stiamo più assieme,” dice, gli occhi nella direzione
di lei.
Camila, nel sentire
le sue parole, avverte uno strano tonfo proprio all’altezza del cuore. Per tre
mesi si è domandata se lui e la sua coinquilina fossero ancora una coppia. Non
ha più visto Davide all’appartamento, e non ha più sentito Alessia parlare di
lui con Ida, ma ciò non vuol dire che potessero vedersi altrove.
Adesso ha finalmente
avuto risposta alla domanda che per tutto questo tempo si è posta.
“Oh. Non lo sapevo.”
“Ora lo sai,” dice lui sorridendo.
Un altro lungo
momento di silenzio. Oltrepassano l’uscita che tre mesi prima li ha condotti al
McDonald’s e sorridono entrambi, guardandosi negli occhi.
La radio accesa fa
da sottofondo ai loro pensieri, alle parole che muoiono nelle loro rispettive
gole.
Una volta raggiunta
casa di Camila, Davide parcheggia e spegne il motore.
Entrambi restano
fermi nei propri sedili.
“Questo
fine settimana Priscilla andrà in Sardegna, te l’ha detto?” chiede
Davide.
“Sì. Per una
partita,” risponde lei. “Giusto?”
“Esatto. Il
campionato è ripreso, la sua squadra andrà in trasferta. Mia madre e Giancarlo
l’accompagneranno.”
“Davvero? Questo
non me l’ha detto,” mormora Camila. “Partiranno
venerdì?”
“Esatto, venerdì
sera. Priscilla giocherà sabato pomeriggio. La squadra rientrerà sabato sera in
aereo, ma loro rimarranno lì fino a domenica.”
“Tu non vai?”
Davide sorride e
scuote il capo. “No. Io resto qui.”
Resta qui per me? Resta qui per rimanere con
me? Dovrò lavorare anche venerdì e sabato? Perché Simona non mi ha detto nulla?
Davide stringe la
cintura di sicurezza con due mani per farsi coraggio, per racimolare il
coraggio di cui ha bisogno per fare il prossimo passo. L’idea gli è venuta
quando ha saputo della partita di Priscilla, quando ha collegato le date. L’ha
elaborata a sufficienza, per tre settimane. Ha perfino immaginato un discorso
da fare a Camila; discorso che, neanche a dirlo, ora ha completamente
dimenticato.
Slaccia la cintura
e si volta verso di lei, inspirando prima di riaprire la bocca.
“Sabato è il tuo
compleanno. Non so se hai impegni, ma se non ne hai… lo passeresti con me?
Verresti a cena con me per festeggiare il tuo compleanno?”
Camila allarga gli
occhi in segno di stupore. “Come fai… come lo sai?
Come fai a sapere che è il mio compleanno?”
“Ho curiosato fra i
documenti di Giancarlo,” risponde subito.
“Perché?”
“Perché sono
curioso,” ribatte pronto. “Allora? Hai qualche impegno
per sabato sera? La domenica è il tuo giorno libero, forse hai-”
“Accetto,” risponde Camila. “Va bene,”
aggiunge. “Verrò a cena con te.”
“Davvero?”
Annuisce e gli
sorride.
“Magnifico,” commenta lui, estasiato. “Perfetto.”
***
I successivi due
giorni passano in un lampo, sia per lui che per lei.
Venerdì mattina,
Davide va a comprare un nuovo vestito per l’appuntamento con Camila. Ne ha
tanti, nell’armadio, ma con lei non vuole usare un completo già indossato con
Alessia, o con altre ragazze.
Lo stesso giorno,
Simona e Giancarlo comunicano a Camila che sabato non dovrà recarsi a lavoro, e
le danno appuntamento a lunedì mattina.
“Priscilla mi ha
detto che domani è il tuo compleanno,” dice Simona.
“E’ un peccato che noi saremo fuori città, ma lunedì
festeggeremo come si deve, ok?”
Camila arrossisce.
“Non ce n’è bisogno, signora, grazie.”
“Non dire così,” interviene Giancarlo. “Possiamo andare a cena fuori se
per te non è un problema. E basta con questo ‘signora’ e ‘signore’. Puoi darci
del tu. Giusto?”
“Giusto,” ribatte Simona. “Glielo dico da un po’ di tempo, ormai,
ma si ostina a usare il lei. Allora, ricapitolando: domani sei in vacanza.
Davide rimarrà qui perché deve studiare, ma saprà badare a se stesso e a Bilbo.
Tutto chiaro?”
Camila è presente
solo fisicamente. La sua mente vola già a sabato sera.
“Tutto chiaro,” risponde alla fine.
Prima di ritornare
al suo appartamento, augura ai Falco un buon fine settimana. Saluta Bilbo
prendendolo in braccio e fa l’in bocca al lupo a Priscilla per la sua partita.
Di ritorno
dall’aeroporto, Davide guida con il sorriso sulle labbra al pensiero della
serata che lo attende il giorno dopo. Il sorriso si allarga ancora di più
quando, una volta a casa, trova un biglietto sulla sua scrivania. Gliel’ha
lasciato Camila. Contiene il suo numero di telefono e un messaggio scritto in
corsivo: Così possiamo rimanere in
contatto.
Il ragazzo vorrebbe
telefonarle, parlarle, ma non vuole fare la figura del ragazzino. Camila è una
donna, e vuole trattarla come tale. Senza essere infantile, o pedante, o
asfissiante.
Per questo si
limita ad inviarle un messaggio. Le dice che ha trovato il biglietto e le
augura una buona serata. Lei risponde con un ‘Grazie.
Buona serata anche a te. A domani.’ che lo manda
(ancora una volta) in estasi.
***
Camila si guarda
allo specchio per l’ennesima volta. Il vestito che indossa è finito in valigia,
quella notte, per puro caso. Non l’ha mai utilizzato in questi tre anni,
proprio perché si tratta di un vestito. Una gonna non è l’indumento più comodo per
pulire i pavimenti.
Si guarda e si
riguarda allo specchio, cercando di capire se la sua scelta è adatta.
Il vestito è di
velluto nero. Arriva alle ginocchia, ed ha una fascia orizzontale di seta
proprio sotto il seno. In questo modo, la gonna cade sui fianchi e sulle gambe
senza risultare aderente, senza rivelare le sue forme. Lo scollo è quadrato, e
il tessuto è arricciato in corrispondenza del seno. Le maniche sono lunghe, a
palloncino.
Camila ricorda
esattamente il giorno in cui ha comprato il vestito. Ricorda di averne comprato
anche un altro dello stesso modello, ma color verde
smeraldo.
Le scarpe che ha ai
piedi sono basse e nere. Le ha comprate ieri pomeriggio, ad un negozio del suo
quartiere. Un’altra eccezione al suo regime economico fatto di ristrettezze e
sacrifici.
Compio 32 anni, si è detta. Mi merito qualcosa di bello, qualcosa di speciale. Mi merito una serata
speciale con Davide.
Fin dal mattino si
è occupata di se stessa.
Ha lavato con cura
i capelli, e li ha pettinati come ha visto fare al parrucchiere di Priscilla e
Simona. Li ha resi lisci grazie al balsamo e ad una maschera al cocco che,
oltre a domare i suoi ricci, li ha anche profumati. Dopodiché ha passato in
rassegna il suo armadio, e ha quasi pianto di gioia quando ha scoperto di avere
un vestito di velluto. Se ne era completamente dimenticata.
Ha scelto un paio
di collant velati, neri come l’abito, e ha fatto una prova generale, indossando
tutto. E ora, come questa mattina, stenta a riconoscersi. Ha perfino osato un
velo di rossetto chiaro sulle labbra, e un accenno di fard rosa sulle guance.
Non possiede
gioielli. Quella notte non ha pensato neanche per un minuto a portare con sé il
suo portagioie.
Si guarda allo
specchio e vede una persona diversa, una nuova Camila.
E proprio quella
Camila, la nuova, fa una domanda alla vecchia Camila. Una domanda importante.
Una domanda scomoda.
Sei ancora decisa a partire? Vuoi ancora
lasciare l’Italia? Vuoi ancora usare i tuoi risparmi per andartene in Brasile?
Sei cambiata, in questi mesi. Sei di nuovo felice. Hai conosciuto persone
magnifiche, persone da cui non devi necessariamente scappare. Davide può
proteggerti. Davide può amarti.
Camila scaccia via
l’ultima domanda rapidamente. La cancella dalla mente, dimenticando di aver
pensato ad una simile possibilità.
Davide è un ragazzo. E’ giovane, è curioso,
è ancora acerbo sotto certi aspetti. Non ha vissuto ciò che ho vissuto io. Non
è mai stato povero, o spaventato. Ha sofferto la morte di suo padre, soffre
ancora per essere lontano da Carovigno, ma io non sono l’altra parte della sua
mela. Io non posso cercare in lui l’amore di cui ho bisogno. Davide non può
salvarmi di nuovo.
***
“Ehi, Camila!”
Ida esce dalla sua
stanza e vede Camila camminare verso l’ingresso. Nota il suo abbigliamento, il
trucco sul viso, i capelli acconciati. “Wow!”
Alessia si affaccia
dalla porta della cucina, colpita dalla voce della sua amica.
“Dove stai
andando?” chiede Ida. “Non dirmi che esci.”
Alessia scoppia a
ridere, come se la cosa fosse impossibile. Camila alza la testa e allarga le
spalle.
“Ho un appuntamento,” dice, continuando verso la porta. “Buona serata.” Apre la
porta e mette un piede fuori, ma poi ci ripensa. Torna indietro e raggiunge le
due ragazze in cucina. “Mi sono stancata di pulire le vostre camere,” dice. “Da oggi in poi dovrete arrangiarvi.” Riesce solo a
vedere l’espressione di sorpresa di Alessia prima di girare i tacchi e
andarsene.
Col sorriso sulle
labbra.
Davide indossa lo
stesso sorriso, e quando arriva sotto casa di Camila riesce a malapena a
trattenersi dall’esultare come dopo un gol della sua squadra del cuore.
Lei sale a bordo
lentamente, facendo attenzione a non sgualcire il velluto e a non far rompere i
collant. Il suo profumo dolce colpisce Davide immediatamente, facendolo sorridere
ancora di più.
“Buon compleanno,” esordisce, avvicinandosi per darle un bacio sulla
guancia.
Lei non si tira
indietro. “Grazie,” risponde, chiudendo gli occhi
quando le labbra di lui si fermano più del dovuto sulla sua pelle.
“Sei bellissima,” sussurra Davide al suo orecchio.
“Grazie,” ripete Camila, prima di osservarlo meglio. I suoi capelli
biondi sono freschi di shampoo, e le guance sono rasate alla perfezione.
Indossa un completo color grigio topo, con una camicia della stessa tonalità.
Non ha la cravatta.
Anche tu sei bellissimo, pensa, ma non lo dice. Se ne vergogna.
“Sei pronta per
andare a festeggiare?” chiede lui.
“Dove andiamo?”
“Ho prenotato in un
ristorante fuori Roma,” risponde Davide. “Si chiama La Ventola, ci sei mai
stata?”
“No.”
“Si trova sulla
Pontina, dovremmo viaggiare per un po’, ma è un gran bel posto. Non ci vado da
tanto tempo, ma la cucina è sempre buona.”
Anche questa non è
stata una scelta affidata al caso, o all’abitudine. Per il compleanno di
Camila, Davide non ha voluto un ristorante qualsiasi, o una delle tante
pizzerie in cui ha sedotto le sue ex. Ha scelto La Ventola perché lì ha
mangiato spesso con la sua famiglia nelle domeniche passate all’aperto, a
contatto con la natura, soprattutto in primavera e in estate. Ha scelto quel
ristorante perché è un luogo tranquillo, e lui desidera proprio un po’ di
tranquillità per sé e per Camila.
“Come sta Bilbo?”
domanda lei. “Ti sei occupato di lui?”
“Sissignora. Questa
mattina si è accorto che non c’eri.”
“Davvero? Non ci
credo.”
“Sì, invece. Ogni
settimana, di domenica, quando passano le nove e capisce che non arriverai, va
alla porta e inizia ad abbaiare. Diventa nervoso.”
“Sul serio!?” esclama lei. “Non lo sapevo!”
“Già,” riflette lui. “Credo che nessuno se ne sia accorto, che
nessuno abbia collegato il suo nervosismo al fatto che tu non ci sei.” Si ferma
per un secondo. “Io l’ho fatto perché divento nervoso come lui quando tu non ci
sei.”
***
Seduti al tavolo
apparecchiato per due, Camila e Davide hanno appena finito di ordinare la cena.
Sono entrambi tesi ed emozionati, ma cercano di non darlo a vedere.
“Com’è andata la
partita di Priscilla?” domanda Camila ad un tratto.
“Hanno perso,” risponde Davide. “Sette a due.”
“Che peccato.
Priscilla ci teneva tanto a vincere.”
“E’ vero,” risponde lui. “E’ la più grande della sua squadra, e non
potrà giocare ancora per molto. Questo è, probabilmente, il suo ultimo
campionato. Sarebbe bello se riuscisse a concluderlo in testa, o almeno nelle
prime posizioni.”
“E’ da tanto che
gioca?”
Davide beve un
sorso di Coca Cola e annuisce. “Ha cominciato a Carovigno.
Io giocavo a calcio, lei a hockey. I nostri genitori l’accompagnavano tre volte
a settimana a Brindisi per farla allenare. Carovigno non aveva una squadra di
hockey all’epoca… e neanche ora, credo. Quando ci siamo trasferiti a Roma è
rimasta un anno ferma. Non riusciva neanche a prendere il bastone in mano.
Lasciare la sua squadra di Brindisi non è stato facile per lei. Poi nostra
madre ha cercato di farla reinserire, e pian piano ha ricominciato.”
Camila pensa alle
parole di Simona, quel giorno nel garage. Immagina quanti sacrifici abbia fatto
per far sì che i suoi figli continuassero ad essere sereni.
“Tu non hai ripreso
a giocare, invece.”
Davide scuote il
capo. “A Carovigno giocavo per due ragioni. La prima: frequentare i miei
compagni di classe anche di pomeriggio. La seconda: accontentare mio padre.”
“Era lui a farti
giocare?”
“No,” dice dopo un attimo di riflessione. “In realtà non mi
sono espresso a dovere. Da bambino adoravo mio padre. Era il mio mito, il mio
eroe. Qualsiasi cosa lui facesse io cercavo di
imitarlo. Pensavo che, così facendo, mi avrebbe voluto ancora più bene. Sarei
stato ancora più bello e più bravo.” Sorride,
vergognandosi della sua ammissione. “A mio padre il calcio
piaceva molto, moltissimo. Ero contento di giocare perché sapevo di
renderlo contento. Quando segnai il primo gol festeggiai per diverse settimane,
ma non per il gol in sé: ero semplicemente felice di aver reso orgoglioso mio padre.”
Camila ha gli occhi
lucidi. “Sono certa che tuo padre ti volesse molto bene.
Indipendentemente dalle tue prodezze calcistiche.”
Davide annuisce.
“L’ho capito col tempo,” dice, “ma alla fine l’ho
capito.”
***
“Qual è il tuo
eroe?” domanda Davide, dopo che il cameriere ha portato via i piatti vuoti
dell’antipasto.
“Il mio eroe?”
“Sì. Il mio era mio
padre, il tuo? Una persona a cui ti sei ispirata da bambina, oppure una persona
che ammiri moltissimo.”
Camila non deve
riflettere molto. La risposta è ben chiara, nella sua mente.
“Se ti dico che il
mio unico eroe sono io, me stessa, faccio la figura della presuntuosa?”
“No,” dice lui. Avvicina la mano alla sua, la sfiora. “No,” ripete.
Camila abbassa lo
sguardo, ma non si sottrae al tocco di Davide.
“I miei genitori
non mi hanno insegnato molto,” continua lei. “O
meglio: ciò che mi hanno insegnato non mi avrebbe mai e poi mai condotta qui,
dove sono adesso. Non sono mai stati dei buoni esempi per me.”
“Come hai fatto,
allora?” chiede lui a bassa voce. “Come hai fatto a non diventare come loro?”
“Non lo so,” risponde, genuinamente sorpresa. “Non ne ho idea. Forse
mi sono aggrappata ad un sogno, alla speranza che le cose potessero andare
meglio. Forse tu mi hai aiutata.”
“Io?!”
Camila annuisce.
“Tu,” dice con un nodo alla gola. “Mai nessuno… mai
nessun estraneo si era occupato di me o preoccupato per me. Diamine, neanche i
miei stessi genitori si preoccupavano per me. Quando camminavamo vicini si
scansavano, mi dicevano che puzzavo. Come se avessi delle colpe per il fatto
che non potevo lavarmi. Tu invece non l’hai fatto. Tu non ti sei mai
allontanato da me. Forse mi hai dato speranza. La speranza che le cose
potessero migliorare, che anche gli altri potessero interessarsi a me. Volermi bene.”
Gli occhi lucidi,
stavolta, sono quelli di Davide.
***
La cena procede
lentamente. Le pietanze arrivano calde e ben cotte al tavolo, e i camerieri
sono precisi e cortesi. Camila e Davide mangiano due porzioni di pasta ai
funghi, due di carne ai ferri e poi decidono di dividere un grande piatto di
patatine.
Mentre mangiano,
continuano a parlare, a conoscersi. Camila è molto più aperta al dialogo
rispetto alla cena al Mc, ma non si lascia mai scappare nulla degli anni in
Basilicata, né di suo marito.
Davide muore dalla
voglia di sapere, ma ha fatto una promessa e desidera mantenerla.
“Tua madre mi ha
detto che volevi chiamare Bilbo ‘Azzurro’,” dice
Camila ad un certo punto.
“E’ vero,” risponde lui sorridendo. “Per qualche giorno sono passato
da Azzurro a Biancazzurro, ma alla fine Priscilla ha vinto.”
“Azzurro è un nome
da principe,” scherza Camila. “Non un nome da cane.”
“Azzurro è un gran
bel nome,” precisa lui, sollevando l’indice come
farebbe un professore. “Potrei chiamarci mio figlio, così. Azzurro, o
Biancazzurro. Quello sarebbe il primo nome. Il secondo sarebbe Lazio.”
Camila ride.
“Smettila!” dice. “Quei bambini ti odierebbero, non appena capirebbero ciò che
gli hai fatto.”
“Hai ragione,” concorda lui. “Sarebbe un gesto crudele.” Beve l’ultimo
sorso di Coca Cola prima di farsi più serio. “Allora, sei pronta per il dolce? E’ il tuo compleanno, del resto.”
“Il dolce? Dobbiamo
ordinare anche il dolce?”
“No,” risponde lui con un sorriso. “Quello l’ho ordinato io
prima di venire qui.”
Davide chiama il
cameriere che si è occupato di loro e gli chiede di portare la torta.
“La torta?” chiede
Camila. “Hai ordinato una torta?”
“E’
il tuo compleanno, no? Una torta mi sembra il minimo.”
Camila non crede ai
suoi occhi quando vede arrivare un piccolo carrello con su
un vassoio rotondo. Sul vassoio è appoggiata una torta ricoperta interamente di
cioccolato. Sulla torta c’è una piccola candela rosa. E’ accesa.
I presenti si
voltano al passaggio del carrello. Alcuni sorridono, quando capiscono che si
tratta di una sorpresa. Tutti immaginano che si tratti della sorpresa di Davide
per la sua fidanzata, Camila.
Il cameriere
appoggia il vassoio al centro del tavolo, mentre un altro arriva con una
bottiglia di spumante, due bicchieri, due piattini e due forchette da dolce.
“Buon compleanno,” dicono i due a Camila.
“Grazie,” dice lei, appoggiando una mano sul petto per illudersi di
poter fermare il cuore.
Tutti gli occhi
sono puntati su di lei, ma quelli che la catturano sono gli occhi di Davide,
quelli più felici. “Grazie,” ripete, quando i
camerieri si allontanano. “E’ meravigliosa. E’
bellissima,” dice, guardando la torta.
“Ed è anche
buonissima,” le fa eco lui. “Proviene
dalla migliore pasticceria di Roma. Mia madre, quella golosona, potrà
confermare.” Impiega qualche secondo per aprire la
bottiglia di spumante, e lo versa nei due bicchieri.
“Allora,” riprende. “Hai pensato al desiderio da esprimere?”
Camila guarda la
piccola fiammella della candela con il cuore palpitante e pieno di gioia, ma
anche di malinconia, di domande e di dubbi.
Qual è il mio desiderio, adesso? Cosa
desidero?
Alza lo sguardo sul
viso di Davide, e nei suoi occhi trova la risposta.
“Sì,” dice. “Ho pensato.”
“Bene, allora
soffia ed esprimi il tuo desiderio.”
E Camila lo fa.
Chiude gli occhi, si avvicina al vassoio, e come una bambina esprime il suo
desiderio nascosto. Il desiderio che non avrà mai il coraggio di rivelare a
nessuno. Il desiderio che non si avvererà mai.
***
Il viaggio di
ritorno a Roma è silenzioso, e non perché i due ragazzi non abbiano nulla da
dirsi. I loro animi sono confusi, tesi. Nello stesso modo, per lo stesso
motivo… anche se non lo sanno.
Camila stringe fra
le mani la scatola contenente la parte di torta al cioccolato e panna che non
sono riusciti a mangiare.
Davide stringe il
volante, fra le mani, cercando di riorganizzare i pensieri. “Hai passato una
bella serata?” domanda quando il silenzio inizia a disturbarlo. La sua voce è
profonda, più profonda del solito.
“Sì,” sussurra Camila. E poi, a voce più
alta: “Sì. Ho passato una serata bellissima.”
Lui la guarda, le sorride.
“Ne sono contento. Buon compleanno,
Camila.”
“E’ stato il mio
compleanno più bello.”
“Il più bello in
assoluto?”
“Sì,” risponde, gli occhi bagnati di lacrime a cui non sa dare
una spiegazione. “Il compleanno più bello. Qui a Roma. Con
te.”
Davide allunga una
mano e le accarezza la guancia. Lei inclina la testa e si lascia toccare,
coccolare. Chiude gli occhi. Sospira.
“Sono più grande di
te,” dice ad un tratto, senza rendersene conto, senza
volerlo effettivamente dire. Apre gli occhi e vede che Davide la sta guardando.
“Sono più grande di te,” ripete.
Davide non sa cosa
dire. Vorrebbe ribattere con un sarcastico ‘E allora?’, ma non se la sente di
rovinare l’atmosfera. “Perché ci pensi?” chiede invece. “Perché pensi alla
nostra età?” La sua mano, dal viso si abbassa sul grembo di lei. Camila la
chiude nella sua.
“Perché è la cosa
più semplice,” risponde Camila. “E’ la cosa più facile
a cui pensare adesso.”
“Che vuoi dire?”
Si ritrova a
frenare sotto casa di Camila senza rendersene conto. Sono arrivati.
Slaccia la cintura
e prende la scatola con la torta per appoggiarla sul cruscotto.
“Che vuoi dire?”
ripete. “Perché parli della nostra età? E’ un problema per te?”
Si volta verso di
lei, e si avvicina di qualche centimetro. Con la mano le sfiora i capelli, il
viso.
“Che
c’è, Camila? A che pensi?”
Quante cose vorrei dirti, Davide. Vorrei
raccontarti tutto, ma se lo facessi cosa accadrebbe? Mi faresti licenziare? Mi
faresti scoprire? Mi allontaneresti? Smetteresti di essere così dolce con me?
Non posso, Davide.
Non posso seguire ciò che mi dice il cuore. E’ impazzito, negli ultimi mesi. Tu
l’hai fatto impazzire, tu l’hai reso pazzo.
Davide si avvicina
ancora di più, fino a prendere il viso di lei fra le mani.
Non riesco a rifiutarti, a scostarmi da te.
Le tue mani sono così morbide, così soffici.
“Penso
di essermi innamorato di te quando ti ho vista nelle docce di Carovigno. Lo sai?”
“No,” dice lei, trattenendo le lacrime. “No.” Scuote il capo
velocemente, stringe gli occhi.
Non dirlo, ti prego. Non dirmelo.
“Invece sì,” ribatte Davide. “Ero solo un bambino, e per me non eri
altro che una curiosità, una specie di fiaba. Ma forse mi
sono innamorato già allora, chi lo sa?” Non smette di accarezzarle le guance
con i pollici. Non smette di cercare i suoi occhi. “Ho
sempre avuto voglia di proteggerti, Camila. Sia allora che adesso. Non
so perché, ma è così. E non mi importa se sei più grande di me. L’età non
conta. Tu sei meravigliosa. Non piangere, per favore. Perché piangi? E’ per tuo marito?”
Promessa rotta. Non mi importa neanche di
questo, adesso.
“Perché piangi?”
“Io non posso,” dice lei asciugandosi gli occhi, allontanandosi da lui.
“Per me non è come… io non provo quello che…”
“Allora
dimmelo,” sussurra lui. “Dimmi che non provi niente
per me. Dimmi che in queste settimane, ogni volta che siamo rimasti soli, non
hai provato niente qui.” Davide prende la mano di
Camila e se la porta al petto, sul cuore. “Dimmi che non
provi niente... e ti lascerò stare. Non ti disturberò
più, te lo prometto.”
Camila risponde
stringendo le dita attorno alla sua mano. Non gli è mai stata così vicina. Non
ha mai desiderato così tanto essere vicina a qualcuno.
“E’ sbagliato...” prova a dire, ma la voce muore in gola.
“Perché? Perché sei
più grande di me? Perché lavori in casa mia? Adesso ti bacio,
Camila. Adesso ti do un bacio. Poi mi dirai se quello che proviamo è davvero
così sbagliato.”
Camila non lo
ferma, quando lo vede avvicinarsi. Non si tira indietro, non lo blocca.
Non blocca neanche
se stessa. Non riesce a farlo. Non vuole farlo. Nonostante sia sbagliato,
nonostante una parte di lei le stia gridando di
fermarsi.
Lo bacia.
La bacia.
Si baciano. Per la
prima volta.
Davide trema.
Camila ha paura.
I loro cuori
battono all’impazzata mentre le labbra si incontrano con dolcezza, con candore.
Quel candore che
Camila non ha mai provato. Quel candore che Davide non conosceva prima di
incontrare Camila.
Si abbracciano, si
stringono. Lui le accarezza i capelli, il viso.
Si lasciano andare
entrambi: a ciò che sentono dentro, alla passione che li guida, all’istinto.
“Ciò che provo per
te non è sbagliato.” E’ Camila a parlare. La voce le trema, così come le mani.
Davide le stringe nelle sue, mentre respira il suo profumo, la sua pelle. “Non
è sbagliato,” ripete lei. “Ma mi fa così tanta paura
che non so… che non so fare altro che scacciarlo, che scacciarti.”
Davide sorride. “Lo
hai sempre fatto,” dice. “Lo hai sempre fatto, fin da
quando eravamo bambini. Mi scacciavi dalle docce, volevi che ti lasciassi in
pace. Ricordi?”
Lei annuisce,
mordendosi l’interno della guancia.
“Ma sono tornato, o
sbaglio? Mi hai scacciato, ma sono tornato. Puoi farlo anche adesso, Camila.
Puoi scacciarmi. Ma anche stavolta mi vedrai tornare. Tornerò
sempre per te, perché ti amo.”
Il cuore di Camila
si stringe fino a scoppiare.
“Davide.” Gli getta
le braccia al collo, lo stringe. Lo bacia di nuovo, e di nuovo si lascia
baciare.
“Vieni con me,” le dice Davide ad un tratto. Le sue labbra sono rosse,
così come quelle di Camila. “Non sono pronto a lasciarti andare.
Non stasera. Non dopo questa sera. Vieni a casa mia.”
Camila dovrebbe
rifiutare.
Ma non lo fa. Tutto
ciò che riesce a fare è ascoltare il suo cuore, seguirlo, rispondere al suo
disperato appello.
E’ in nome del suo
cuore che accetta la proposta di Davide.
Rieccomi. Aggiornamenti veloci, spero ne
siate contenti. Prima di lasciarvi alla lettura ho alcune cose da dire.
1. Grazie per tutto l’affetto che state
dimostrando a me e a questa storia. Leggo come sempre ogni commento, e gongolo
nel sapervi così appassionati. Grazie anche a chi consiglia questa storia in
giro per il web. Grazie davvero.
2. Ho elevato il rating da giallo ad
arancione. Non credo che ce ne sarà effettivo bisogno, però nel dubbio ho
preferito fare in questo modo.
3. Sia per questo capitolo che per lo
scorso, un GRAZIE grande quanto tutto il Raccordo Anulare a Lele Cullen, che ha
letto in anteprima e mi è stata di grande aiuto e conforto.
4. Il ristorante La Ventola esiste sul serio,
ed è un gran bel posto.
5. Il capitolo 16 non arriverà prima di
domenica prossima.
Ok, credo di aver detto tutto. Buona
lettura.
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Capitolo 15
Umberto e Camila
sono stati sposati per undici anni. Per la legge italiana, a dire il vero,
continuano ad esserlo, anche se non vivono più nella stessa casa da tre anni.
Da quando, cioè, Camila è scappata.
Si sono sposati
giovanissimi. Lei aveva appena diciassette anni, lui ventidue. Al loro
matrimonio hanno partecipato la numerosa famiglia di lui, con tanto di cugini e
zii fino al quarto grado, e la famiglia di lei, composta solo dai suoi
genitori. Al ricevimento erano presenti anche gli amici più stretti di Umberto,
venuti appositamente dalla Germania. Nei tre anni trascorsi in quel paese,
Camila non ha avuto modo di farsi delle amiche, e per questo motivo al suo
matrimonio gli unici suoiamici erano quelli di Umberto.
Una volta
conclusasi la cerimonia, una volta augurato buon
viaggio ai rispettivi genitori, Camila e Umberto hanno iniziato un nuovo
capitolo della propria vita.
Lui è stato assunto
da una fabbrica produttrice di stoviglie in plastica: posate, piatti di ogni
forma e dimensione, bicchieri più o meno grandi. Camila, invece, ha imparato a
tutti gli effetti ad essere una casalinga. In un’abitazione in cui lei e suo
marito avevano scelto i mobili (modesti, ma dignitosi),
le mattonelle, i sanitari, Camila ha imparato ad occuparsi del suo uomo, a fare
la moglie, a guidare la casa nella maniera giusta.
Alla fine del mese,
quando Umberto portava a casa i soldi guadagnati, Camila si occupava di
dividerli in base alle spese da sostenere (rate per la macchina, per i mobili).
Umberto le lasciava carta bianca. Si fidava della sua esperienza, della sua
maturità. L’ha sempre considerata, a ragione, una donna responsabile.
E Camila lo era. Si
svegliava sempre prima di Umberto, al mattino, per preparargli il caffè e il
pranzo da portare al lavoro. Lo accompagnava alla porta dandogli un bacio prima
di salutarlo e augurandogli buona giornata. Si occupava della casa e del
giardino, coltivandolo con amore e devozione. Pagava le bollette, faceva la
spesa, chiacchierava con le vicine di casa, donne più grandi di lei che l’hanno
sempre trattata con simpatia, considerandola una mini-sposa, a causa della sua
giovane età.
Ogni giorno, Camila
aspettava in giardino che Umberto tornasse. Lo accoglieva in casa chiedendogli
come avesse passato la giornata, e promettendogli una cena buona e saporita.
Camila ha sempre
mantenuto la sua promessa, infatti in un anno Umberto
è ingrassato di ben dieci kg grazie (o a causa) alla sua buona cucina. Sola per
gran parte della giornata, in un piccolo paese di montagna in cui gli svaghi
erano inesistenti, Camila non faceva altro che testare le sue capacità ai
fornelli. Primi, secondi, ma in particolare i dolci: le sue pietanze erano
leggendarie, e più di una volta le vicine hanno chiesto a lei (la mini-sposa)
consigli su come arricchire le proprie tavole.
Camila e Umberto
conducevano una vita tranquilla, fatta di pochi lussi ma di molte risate. Di
sacrifici e di amore. Di conoscenza e di complicità.
Un mese dopo il
loro primo anniversario di nozze, i due hanno iniziato a pensare di avere un
bambino. Camila aveva diciotto anni, e Umberto era pronto a diventare padre.
Hanno provato
ininterrottamente per due anni, ma senza alcun risultato, ad eccezione di
dolore, frustrazione e conseguente rifiuto.
Il dolore era di
entrambi, soprattutto all’inizio.
La frustrazione era
di Camila, soprattutto quando sua madre, dalla Germania, iniziò ad insinuare
che il suo corpo potesse avere dei problemi gravi e che l’assenza di un figlio
potesse pregiudicare negativamente il matrimonio di sua figlia. Camila
desiderava un po’ di calore materno, un po’ di affetto, di incoraggiamento.
Voleva che Sofia le dicesse: Tranquilla,
amore. Prima o poi ce la farete. Non preoccuparti.
Invece ottenne
derisione all’inizio e raccomandazioni sbagliate poi.
Cerca di fare un figlio, Camila. Che razza
di donna sei, senza un figlio? Umberto andrà a cercarlo altrove, se non glielo
darai tu. Muoviti.
Umberto cercava di
tranquillizzarla come meglio poteva, ma anche lui, dopo che i suoi genitori
iniziarono a fare commenti sbagliati, smise di crederci, di credere nella
possibilità di fare un figlio con Camila. E la incolpò di tale mancanza. Le
disse, in maniera neanche troppo velata, che avrebbe dovuto farsi controllare,
per risolvere i problemi che gli impedivano di diventare padre. Tutti quelli
che lavoravano con lui in fabbrica avevano uno o più figli, e lui era stanco di
essere l’unico incapace di averne.
E io non sono stanca secondo te?chiedeva Camila. Che colpa ne ho se non riusciamo ad avere
bambini? Perché deve essere per forza colpa mia?
Fu in quel periodo,
al terzo anno di matrimonio, che Umberto iniziò a frequentare due suoi colleghi
che a Camila non piacevano per nulla. Entrambi sposati, entrambi più grandi di suo marito, vivevano e si comportavano non come due umili
operai, ma come i proprietari della fabbrica. Avevano macchine grandi e
potenti, e vestivano meglio degli altri colleghi di Umberto. Il loro
atteggiamento era sicuro e spavaldo, e a Camila non piaceva. Non le piaceva neppure
che Umberto li frequentasse, che parlasse sempre di Carmelo e Federico, che
cercasse di imitarli nelle piccole e nelle grandi cose. Erano sposati, i due, e
a Camila non piacevano neanche le loro mogli. Avevano più o meno quarant’anni,
ed erano sempre o troppo truccate o troppo arrabbiate. Con loro, Camila si
sentiva a disagio, imbarazzata.
Non voleva passare
il suo tempo con quelle persone, e non voleva che lo facesse Umberto, ma a lui
non interessava molto il parere sospettoso di Camila circa i suoi nuovi amici.
Così iniziarono i
litigi. Diversi da quelli degli inizi, dispettosi e infantili, quasi. I nuovi
litigi erano intensi, crudeli, e si concludevano sempre con Umberto che
rinfacciava a Camila la sua incapacità di procreare.
Che vuoi da me. Lasciami perdere. Carmelo e
Federico sono brave persone, mi vogliono bene! Andremo a cena a casa loro,
basta!
Camila accettava
sempre le decisioni di suo marito. Per quieto vivere, perché non pensava di
poter fare altro, perché sua madre aveva sempre accettato le decisioni di suo
padre.
Nessuno le aveva
spiegato cosa vuol dire essere una moglie. Non aveva nessuno con cui
confidarsi, e non voleva farlo con Sofia, sua madre. Sapeva che da lei non
avrebbe mai potuto trovare i consigli e la comprensione di cui aveva bisogno. Per
queste ragioni, chinava la testa ed ubbidiva, taceva, diceva sì.
Tacque e ubbidì
anche al quinto anno di matrimonio, quando Umberto decise di licenziarsi dalla
fabbrica di plastica. Inutile dirlo, dietro la sua scelta c’erano Carmelo e
Federico.
Gestiremo un deposito, guadagneremo
parecchio.
Un deposito di cosa?domandava
legittimamente sua moglie.
Un deposito per gente che carica e scarica
roba.
Che roba?
Cristo, quante domande che fai! Non sei
contenta? Avrai più soldi! Potrai anche mandare qualcosa ai tuoi in Germania.
Umberto non le
disse cosa nascondeva il deposito. Non le disse che si era licenziato come
operaio per iniziare a fare il ricettatore. Non le disse che il deposito era un
porto di carico e scarico di merce rubata.
Guadagnava di più,
è vero. Guadagnava molto di più.
Pagarono tutte le
rate ancora in sospeso, comprarono una nuova automobile, molto simile a quelle
di Carmelo e Federico. Camila inviava mensilmente una somma di denaro per
aiutare sua madre e suo padre, e ad ogni domanda che avrebbe voluto fare si
mordeva la lingua.
Credeva alle
rassicurazioni di suo marito, nonostante arrivassero in maniera brusca. Credeva
al fatto che non avrebbe mai potuto fare un lavoro disonesto.
E poi, per la prima
volta da quando era nata, Camila non doveva preoccuparsi dei soldi. Vivevano
bene, non facevano più sacrifici. Andavano al ristorante una volta alla
settimana. O al cinema, a Potenza. Umberto le regalò un bracciale d’oro in
occasione del settimo anniversario di nozze, e un nuovo set di pentole,
migliore del primo e molto più costoso. Avevano un computer, avevano la tv
satellitare nelle tre stanze in cui possedevano un televisore.
Camila domandava di
rado degli affari al deposito. Non è mai stata una stupida, ma è stata
un’ingenua.
Nel deposito,
Umberto, Carmelo e Federico si occupavano di smerciare, rincarando il prezzo,
merce rubata da supermercati, gioiellerie, negozi di abbigliamento, librerie.
Vendevano ai commercianti in regola che non volevano pagare tasse o ad altri
delinquenti, e compravano dai ladri della zona o da gente di malaffare
proveniente dalle regioni confinanti. Avevano parecchie conoscenze nel settore.
Facevano parte di una rete ben radicata nel territorio, e non solo quello
lucano.
Una volta sola,
Camila chiese ad Umberto perché spesso usciva a mezzanotte per rientrare
all’alba. Lui le rispose: Queste cose non
ti riguardano. Hai i soldi, non fare domande.
Fu la prima volta
che lei ebbe paura. Della sua voce, del tono con cui le parlò. Minaccioso,
quasi.
Decise di trovarsi
un passatempo, allora. Uno svago che potesse allontanarla dalle brutte
sensazioni che nutriva verso Umberto e verso il suo lavoro. Comprò una macchina fotografica, un modello relativamente
costoso e moderno, e iniziò a scattare foto. Passeggiava sui monti vicini alla
sua casa e fotografava le rocce, i fiori, gli arbusti secchi come lei.
Fotografava gli animali al pascolo, i cani randagi, le piante rigogliose del
suo giardino. Comprò libri sulla fotografia, imparò ad usare un programma per
modificare gli scatti e renderli più belli.
Dimenticò, grazie
alla fotografia, di non avere un figlio, di non essere
in grado di farne. Dimenticò i litigi con Umberto, la sua assenza, in casa e
nel suo cuore. Dimenticò la
Germania, i Bauer, la Puglia, Carovigno.
Umberto, invece, stava
bene. Gioiva della sua attività, pur sapendo che in ogni momento rischiava la
galera. Era tranquillo, credeva di essere invincibile.
Ed effettivamente
lo era. Il capannone gestito da lui e dai suoi amici, sepolto nelle campagne
disabitate e mai frequentate, gli permetteva di avere una vita agiata, priva di
problemi. Non doveva più alzarsi all’alba per andare a lavorare in fabbrica.
Non doveva più sottostare al volere del capo turno. Era padrone di se stesso.
Avrebbe voluto che
Camila avesse gioito con lui, e invece no. Lei faceva domande, cercava di
interessarsi troppo, di sapere. Lo guardava sempre come se sapesse che stava
nascondendo qualcosa di losco, e lui non poteva sopportarlo. Per questo, anche
quando non c’era motivo, l’aggrediva con veemenza, umiliandola e offendendola. Non
mancava di ricordarle che non avevano figli, e che la colpa era solo ed
esclusivamente sua.
A dire il vero ad
Umberto non interessava più avere un bambino. Era talmente preso dagli affari
che l’idea era completamente passata in secondo piano. Umiliare Camila, però,
lo faceva sentire meglio. Addolciva, in questo modo, il senso di colpa sepolto
dentro di sé.
Tutto cambiò al
nono anno di matrimonio, nel 2005, quando Camila trovò una pistola sotto il
sedile dell’auto di Umberto. Aveva perso gli occhiali da sole, e provò a
cercarli usando la mano, chinandosi in avanti mentre erano in viaggio verso il
loro ristorante preferito. Al posto degli occhiali afferrò il metallo freddo
della canna della pistola.
Umberto frenò di
colpo quando si rese conto di ciò che stava accadendo. Camila gridò per lo
spavento.
Lei chiese
spiegazioni. Tremando.
Lui mentì, dicendo
che l’arma era di un suo amico che gli aveva chiesto di nasconderla per un
breve periodo di tempo.
Lei mise in dubbio
la sua parola, e gli domandò delle sue frequentazioni, dei suoi discutibili
soci.
Gridarono entrambi,
fermi in macchina sul ciglio della strada.
Lui era arrabbiato
con se stesso, per non essere stato più furbo e per non aver nascosto meglio la
pistola. Lei era spaventata, disgustata, distrutta.
La pistola cambiò
tutto. Il loro matrimonio cessò di essere un matrimonio, e divenne qualcosa di incomprensibile, di indefinibile.
Camila aprì gli
occhi e vide ciò che aveva mancato di vedere per tutti quegli anni.
Suo marito, assieme
a Carmelo e Federico, era un delinquente. I soldi con cui vivevano erano soldi
sporchi, macchiati di chissà quale crimine. Non aveva prove, ma la sua anima
parlava più di qualsiasi indizio.
Iniziò a dormire
sul divano, ad uscire quando lui rientrava, a chiudersi a chiave in camera
quando lui tornava a casa prima del previsto.
Lui le parlava a
stento, limitandosi a tenerla d’occhio, sperando che non facesse qualcosa per
metterlo nei guai. I suoi amici gli consigliarono di mettere le cose a posto
con sua moglie, di regalarle una crociera o un altro bracciale, per farla
tacere e per calmarla, ma Umberto sapeva che quelle cose non avrebbero
funzionato con Camila.
Sapeva che sua
moglie era incorruttibile. Sapeva di averla passata liscia nel corso degli anni
per puro miracolo.
Camila continuava a
fotografare ciò che la circondava. La macchina fotografica era tutto ciò che
riusciva a regalarle un sorriso, e una parvenza di normalità.
Smise di inviare
soldi ai suoi genitori, e questi non tardarono con le lamentele. Provò a spiegare
loro che si trovava in una situazione delicata, che il suo matrimonio era in crisi, ma sua madre non volle sentire ragioni.
Mandaci qualcosa e sistema il matrimonio! E
fai un figlio! Quello ti aiuterà a sistemare tutto!
Ad un certo punto
Camila smise di chiamarli e di rispondere alle loro telefonate. Erano talmente
egoisti, crudeli e privi d’amore, che sotto certi aspetti erano perfino comici,
grotteschi.
Passava le giornate
all’aperto, a fotografare e a pensare. Pensava alla sua vita, a ciò che aveva raggiunto
e a ciò che desiderava raggiungere. Aveva 27 anni, era sposata da dieci anni,
non aveva un figlio, non aveva un lavoro, non aveva niente.
Aveva tanta paura,
questo sì. Paura di vivere con suo marito, di parlargli, di farlo infuriare.
Umberto non era
stato mai un violento, eppure aveva una pistola. Come poteva essere certa che
non l’avrebbe mai usata? Come poteva dormire tranquilla, sapendo che suo marito
aveva affidato ad un’arma la sua sicurezza personale? In che guai era? Come
poteva fare per riportarlo sulla retta via?
Ci aveva già
provato, inutilmente. Aveva provato a parlargli, a convincerlo ad allontanarsi
dai suoi amici, da quel maledetto deposito. Voleva che tornasse ad essere la
persona degli inizi. Era disposta a rinunciare ai piccoli lussi conquistati
negli anni pur di riavere l’Umberto che aveva sposato quando aveva diciassette
anni. L’Umberto che le diceva ‘Ti amo, farfallina’ ogni mattina, prima di
andare in fabbrica. L’Umberto che non era un delinquente.
Le parole di Camila
erano finite nel vento. Ogni suo tentativo scatenava l’ira di Umberto, ira che
a sua volta determinava la paura della ragazza.
Spaventata,
terrorizzata, decise di rivolgersi a coloro che secondo lei potevano aiutarla.
Coloro che avevano i mezzi e l’autorità per riportare all’ordine suo marito.
Andò alla caserma
dei Carabinieri del paese in cui vivevano, e parlò per due ore con il
maresciallo di turno, un uomo alto e magro. Gli raccontò del deposito, del
fatto che Umberto non le aveva mai permesso di avvicinarsi alla costruzione
abbandonata. Gli disse del quantitativo ingente di soldi che da un giorno
all’altro avevano iniziato ad entrare in casa, gli disse del comportamento
sospettoso di Carmelo e Federico. Gli disse dei suoi brutti presentimenti.
Il maresciallo
l’ascoltò annuendo, chiedendole qualche dettaglio in merito alla zona in cui
era ubicato il deposito e in merito agli amici di suo marito. Le chiese da
quanti anni fossero sposati, e si mostrò meravigliato quando capì che si era
sposata a diciassette anni.
Alla fine si alzo e
la invitò a fare altrettanto. Le disse: Signora,
in base a ciò che mi ha detto non posso fare nulla. Se ha dei problemi con suo
marito è con lui che deve risolverli. Pensa che l’Arma non saprebbe nulla, se
suo marito portasse avanti qualche attività illecita? Torni a casa e parli con
lui, cerchi di risolvere la situazione con calma. Questa è una caserma, non
un’agenzia matrimoniale.
Camila allora gli
disse della pistola nascosta sotto il sedile dell’auto, e il maresciallo si
sedette di nuovo. Ascoltò con maggiore attenzione l’ultima parte del racconto,
prendendo perfino appunti, e alla fine della conversazione le consigliò di
rivolgersi ad un avvocato, per tutelare i suoi interessi personali. Noi andremo a fondo con questi elementi,
disse l’uomo in divisa. Cercheremo di
vederci chiaro, non si preoccupi. Nel frattempo, però, si rivolga ad un
avvocato, e cerchi di allontanarsi da suo marito, se proprio non si sente al
sicuro. Noi non possiamo fare più di questo.
Quella sera, quando
tornò a casa, trovò Umberto ad attenderla.
Non appena mise
piede in casa, proprio dopo aver chiuso la porta, le diede uno schiaffo. La sua
forza la costrinse al muro e le fece appannare per un attimo la vista.
Carmelo e Federico
erano stati avvertiti da qualcuno all’interno della caserma, forse proprio dal
maresciallo con cui Camila aveva appena parlato. Sapevano che lei stava facendo
ciò che non avrebbe mai dovuto fare. Sapevano che rappresentava un pericolo per
le loro attività illegali.
Umberto, in qualità
di marito del problema, fu incaricato
di risolvere la faccenda, con le buone o con le cattive. Egli scelse le
cattive, colpendo ripetutamente sua moglie in pieno viso.
Pensi che non sapessi nulla, eh? Pensi che
io non sappia niente di quello che fai? Che pensi di fare, eh? Mi vuoi
denunciare? Vuoi denunciare tuo marito? Perché non ti impicci dei fatti tuoi?
Perché devi sempre fare danni? Perché non la smetti di causarmi soltanto
problemi? Problemi su problemi, ecco cosa sai fare. Sei sempre stata un
problema, sempre!
Camila pianse,
inginocchiata sul pavimento freddo del corridoio. Sentiva la guancia scottare a
causa degli schiaffi, e il cuore batterle all’impazzata nel petto.
Me ne vado!, gridò. Me ne vado, ti
lascio! Disse la prima cosa che le passò per la mente. La sua mente si
stava ribellando. L’istinto le stava dicendo cosa fare.
No!,
ribatté lui, piegandosi sulle ginocchia per tirarle i capelli. No! Tu non te ne andrai, cara
mia. Tu rimarrai qui. Dove pensi di andare, eh? Pensi di farmi paura, Camila? Pensi di potermi distruggere? Tu non sai con
chi hai a che fare, bella mia. Non sai chi sono io,
non sai di cosa sono capace.
Era vero. Umberto
diceva il vero. Camila era all’oscuro di molte cose, in quel momento. Non
sapeva, ad esempio, che la pistola non era l’unica arma in possesso di suo
marito, e che proprio una settimana prima aveva puntato un coltello alla gola
di un uomo in debito con lui e con gli altri due soci. Non sapeva, ad esempio,
che la ricettazione non era l’unica attività praticata nel deposito. Nel corso
degli anni si erano ingranditi, avevano diversificato le loro attività. Erano
anche usurai, adesso, e volevano a tutti i costi diventare sempre più potenti,
sempre più influenti nella zona. Da qualche mese, infatti, avevano abbracciato
l’idea di gestire anche un piccolo traffico di droga.
Non potevano
permettersi un errore proprio in quel momento. Non potevano permettere che
Camila portasse alla luce ciò che per tanti anni avevano occultato così bene.
Non sai di cosa sono capace, ripeté l’uomo. E non vuoi neanche scoprirlo. Ascoltami bene,
Camila: non provarci mai più, d’accordo? Non ficcare mai più il naso in ciò che
non ti riguarda, va bene?! La prossima volta non sarò
così gentile, ti avviso.
La lasciò sul
pavimento, scavalcando il suo corpo esile per aprire la porta e tornare al
deposito, a rassicurare i suoi soci.
Camila se ne andò
quella notte stessa. Infilò in una valigia i suoi averi più importanti, compresa la sua amata macchina fotografica. Non si voltò
quando uscì di casa per scappare verso la stazione. Salutò mentalmente i suoi
mobili, i vestiti ancora appesi nell’armadio, le pentole in cui aveva cucinato
pranzetti da gourmet e i libri letti durante gli anni. Ripensò alle vicine che
all’inizio la chiamavano mini-sposa, pensò alla Germania e ai suoi genitori,
pensò alla vecchia Golf color amaranto di Carovigno.
Scappava senza
sapere dove, senza un piano, senza risorse, ad eccezione delle poche centinaia
di euro che aveva nel portafoglio. Salì sul primo treno in arrivo nella
stazione deserta, un treno di quelli che si fermano a tutte le stazioni. Si
guardò indietro prima di vedere la porta chiudersi. Nessuno sapeva dove fosse,
o almeno così sperava.
Pensò ad Umberto, ai
pochi anni in cui erano stati felici.
A bordo del treno
seppe che l’ultima fermata era a Roma. Decise che sarebbe scesa lì, e che nella
capitale avrebbe deciso cosa fare della sua vita. Sapeva di non poter tornare
in Germania: Umberto l’avrebbe sicuramente cercata lì, una volta resosi conto
della sua fuga. Non poteva tornare a Carovigno: lui avrebbe cercato anche in
quel posto.
Roma era l’unica
alternativa, l’unica tappa possibile. A Roma avrebbe ricominciato a vivere. Non
sapeva ancora come, ma di una cosa era certa: non sarebbe più tornata indietro.
Non avrebbe messo di nuovo a repentaglio la propria vita.
Umberto vagò per
tutta la notte alla ricerca di Camila. Andò a svegliare perfino le vicine di
casa, chiedendo loro se l’avessero vista o sentita. Il giorno dopo prese un
aereo e andò in Germania per riportare a casa sua moglie. Era convinto che si
fosse rifugiata lì, ma sbagliava. L’aveva sottovalutata.
Anche Carmelo e
Federico iniziarono a cercarla, silenziosamente – per non dare nell’occhio e
far sospettare chissà cosa. La cercarono per settimane, mesi. Chiesero aiuto a
vecchi amici, delinquenti come loro, e agli amici degli amici.
Niente. Camila era
svanita nel nulla.
A Umberto premeva
fare in modo che sua moglie tenesse la bocca chiusa, che non parlasse con la Polizia. Non sapeva
molto, ma lui e gli altri non potevano correre alcun rischio.
Non era interessato
ad altro. Non era dispiaciuto né addolorato per il modo in cui il loro
matrimonio si era disintegrato. Non voleva una moglie al suo fianco. Voleva soltanto
che sua moglie non parlasse.
Umberto e i suoi
soci l’hanno cercata per un anno intero, continuando con gli affari illegali.
Alla fine si sono arresi.
Forse è morta. Forse si è tolta la vita.
Forse è scappata in Francia, ha sempre detto
che voleva andare in Francia.
Francia o non Francia, se avesse voluto
farci del male l’avrebbe già fatto, no? Non credo ci darà problemi.
Non lo so, io non mi fiderei se fossi in te.
Tua moglie è una mina vagante. Può esplodere da un momento all’altro.
Non mi è mai piaciuta, devo dirtelo. Ho
sempre avuto il sentore che potesse creare problemi.
Dopo un anno hanno
smesso di cercare.
Camila ha trovato
un lavoro e una casa nella capitale.
Umberto ha
continuato a guadagnare soldi sporchi in Basilicata.
Camila ha cercato
con ogni mezzo di mimetizzarsi, di dimenticare e di rifarsi una vita. Ha
iniziato a risparmiare per poter partire di nuovo, per potersi allontanare
ancora di più dall’uomo che ha sposato. Ha scelto come destinazione il Brasile,
il paese in cui – così dicono – è sempre estate. Ha continuato a scattare foto
e a cucinare piatti nuovi. Non ha mai contattato un avvocato per proteggersi da
Umberto o per chiedere la separazione. Ha avuto paura di farlo, di
riavvicinarsi a suo marito anche in questo modo.
E poi ha incontrato
Davide. E ha accettato il lavoro a casa della sua famiglia. E si è innamorata.
Già, si è innamorata.
Del ragazzo che l’ha riconosciuta dopo diciassette anni, che l’ha protetta dalla coinquiline superficiali e le ha offerto la cena più
buona che lei abbia mai mangiato. Il ragazzo che è sì più piccolo di lei, ma che
è anche dolce e generoso come mai nessun altro è stato. Lo era quando aveva
sette anni, quando ha rubato le scarpe di sua sorella per regalarle a lei, e lo
è ora, ora che a dividerli non c’è solo l’età.
Camila ci pensa,
adesso che porta a spasso il piccolo Bilbo,
scodinzolante e desideroso di trovare al più presto il posto adatto per fare i
propri bisogni. Lei gli sta dietro, reggendo il guinzaglio, e pensa.
Pensa alla notte
trascorsa con Davide. Pensa alle conseguenze dell’aver fatto l’amore con lui. Vorrebbe
possedere in sé la forza di riconoscere l’oggettivo errore compiuto, ma pur
sforzandosi non riesce a sentirsi in colpa.
Con Davide ha
provato un attimo di amore sincero che non provava da molto tempo. E’ stata
coccolata, trattata come una principessa. Si è sentita protetta anche fra le
lenzuola, grazie a lui.
Cosa succederà adesso? Quanto cambierà il
nostro rapporto?
Non avrei dovuto, non avrei dovuto aprirmi
fino a questo punto. Me ne andrò,
pensa. Me ne andrò in Brasile, non appena
avrò messo assieme i soldi necessari. Camila ha deciso, e non intende
cambiare idea. Davide non lo sa ancora,
ma dovrò dirglielo. Non può esserci nulla fra di noi.
Sarebbe bello, però. Sarebbe bello se potessimo stare insieme.
I pensieri, i sogni
e i sensi di colpa si accavallano nel cuore e nella mente. Secondo dopo
secondo, passo dopo passo. Bilbo si ferma accanto ad un’aiuola del parcheggio
condominiale e poi riprende a trotterellare sull’asfalto della strada deserta.
Proprio lì,
nascosti in una berlina nera, Umberto, Carmelo e Federico stanno osservando la
passeggiata di Camila.
Due settimane fa
Umberto ha ricevuto la telefonata da un suo amico di Roma, Massimo, il quale si
è trovato ad elaborare, per conto del commercialista per cui lavora, una delle
buste paga di Camila. Massimo ha riconosciuto il nome e l’indirizzo della
donna. Ella, infatti, risiede ancora in Basilicata.
Non appena si è
accorto della coincidenza, ha telefonato ad Umberto e lo ha avvertito. Per
anni, Massimo ha acquistato merce rubata dai tre soci. Cinque anni fa si è
ritirato dagli affari per iniziare una famiglia, e grazie a sua moglie ha
trovato lavoro come ragioniere presso il dottor Manzoni. Nonostante sia uscito
materialmente dal giro, ha mantenuto vivi i rapporti con Umberto e i suoi
amici. I tre si sono rivolti anche a lui quando Camila è scomparsa, ma in
quell’occasione Massimo non è riuscito ad aiutarli.
Due settimane fa,
invece, ce l’ha fatta.
Immaginate lo
stupore di Umberto quando, tre anni dopo, ha saputo dove si trovasse sua
moglie.
Immaginate il suo
stupore quando Federico e Carmelo hanno deciso di partire per Roma per andare a
cercare Camila.
Ed eccoli, adesso.
Tutti e tre nella stessa auto. Hanno viaggiato di notte, proprio come ha fatto
Camila. Sono stati discreti ed accorti, proprio come ha fatto lei per tutto
questo tempo.
L’amico di Roma è
stato utilissimo. Ha fornito loro due indirizzi, quello dell’appartamento di
Camila e quello dell’appartamento delle persone per cui lavora. Per due giorni,
due giorni interi, hanno seguito in silenzio i suoi movimenti.
L’hanno vista
uscire di casa, l’hanno vista infilarsi nella metropolitana. L’hanno vista quando
ha comprato le scarpe per la cena con Davide, l’hanno vista mentre lo baciava
sotto casa, nell’auto di lui.
Sono lì, adesso.
Lì, sotto casa di Davide. E la guardano mentre cammina lenta con lo sguardo
basso, mentre porta a spasso il cane nero.
Il sole sta
spuntando. La strada è deserta, il quartiere è ancora addormentato.
“Prendila” dice
Carmelo a Umberto, prima di accelerare nella direzione di Camila.
Lei si accorge in
ritardo della frenata alle sue spalle. Non capisce cosa sta succedendo. Non riesce
a vedere le facce delle persone all’interno dell’auto. Riesce solo a lasciare andare
il guinzaglio di Bilbo e a lanciare un grido che nessuno sentirà, prima di
essere strattonata all’interno della vettura.
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I carabinieri corrotti sono una minuscola
minoranza rispetto ai carabinieri che fanno il proprio lavoro con onore e che
rispettano la divisa, la legge e lo Stato.
La
Basilicata non è l’unica regione d’Italia ad ospitare
delinquenti. Ho preferito non dare un nome al paese in cui Camila ha vissuto
per non offendere nessuno, o creare riferimenti inopportuni.
Grazie per ogni commento. Grazie
moltiplicato per mille.
Buona lettura.
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Capitolo 16
Quando Davide
avverte il lamento di Bilbo provenire dall’ingresso, sorride e si reca di corsa
alla porta. Addosso non ha altro che i boxer, indumento che ha indossato quando
Camila è uscita con Bilbo e lui si è offerto di preparare la colazione.
Quando apre la
porta, però, ad attenderlo c’è solo il suo cane.
Bilbo entra di
corsa, trascinandosi dietro il guinzaglio che ha ancora legato al collo.
“Ehi,” dice Davide, a nessuno in particolare. “Dov’è Camila?”
Il cane non può
rispondere, ovviamente, per cui tutto ciò che il ragazzo può fare è uscire sul
pianerottolo e affacciarsi nella tromba delle scale. “Camila?
Camila?”
Ma Camila non c’è.
Ma Camila non risponde.
Davide rientra in
casa, senza preoccuparsi di chiudere la porta. Attraversa il corridoio, il salone,
ed esce sul terrazzo che affaccia sul parcheggio in cui Camila e Bilbo sono
scesi a passeggiare. “Camila?” La cerca fra le auto, si sporge sulla ringhiera
fino a vedere il citofono… ma Camila non c’è.
Dov’è andata? Mi sta facendo uno scherzo?
“Bilbo?” chiede al
cane, raccolto nel suo cesto. “Dov’è Camila?” Va di nuovo all’ingresso, e di
nuovo sbircia nelle scale. Nulla.
Rientra – stavolta
chiude la porta – e va ad affacciarsi ad ogni finestra che copre i quattro lati
della casa.
Camila non c’è.
“Dove sei, Camila? Ti sei nascosta?”
Davide pensa di
chiamarla, ma l’idea va in fumo quando ricorda che il cellulare della ragazza è
ancora nella sua borsa. E’ uscita con addosso il suo
cappotto, un paio di pantaloni sportivi e un paio di ciabatte che Davide le ha
prestato.
Non può essere andata chissà dove.E’
scesa per accompagnare Bilbo, ha detto che sarebbe ritornata presto. Mi ha dato
un bacio prima di uscire di casa.
Davide passa i
successivi dieci minuti all’aperto. Affacciato ai balconi, alle finestre. Grida
il nome di Camila, la cerca con gli occhi fra le poche auto presenti nel
parcheggio, ma lei continua a non esserci.
Bilbo se ne sta nel
suo cesto, con la testa appoggiata sulle zampe e il guinzaglio attorcigliato
attorno al corpo. Di solito Davide si occupa di sganciarlo immediatamente dal
collare, ma adesso non ci pensa.
Tutto ciò a cui
pensa è Camila, e al fatto che sembra essere scomparsa nel nulla.
I minuti passano, e
in Davide si fa strada la preoccupazione. Infila una vecchia tuta, un paio di
scarpe, e scende in strada. Chiama il suo nome, ma lei non risponde. Raggiunge
l’estremità ovest del parcheggio e poi il marciapiede al lato della stradina
che Camila può aver percorso con Bilbo.
E lì la vede, capovolta
sul cemento: una delle sue ciabatte. Cammina svelto, fino a chinarsi e a
prenderla.
“Che diavolo…”
Si guarda attorno,
chiama il nome di Camila, ma la strada è deserta, così come il campo abbandonato
che si trova di fronte a lui.
“Camila? Camila?”
Che cosa è successo? Dov’è andata?
Davide non sa cosa
fare. Non ha idea di cosa può essere successo nei dieci minuti in cui Camila è
scesa per portare a passeggio Bilbo, ma la preoccupazione è tanta, è forte.
Torna al palazzo correndo, e arriva in casa salendo i gradini velocemente.
Nelle mani, la sua ciabatta scura.
Va nella sua camera
da letto, e fra i vestiti accumulati sul pavimento riesce a trovare la borsa di
Camila.
Forse mi ha fatto uno scherzo. Forse ha
portato con sé il cellulare.
Ma invece no, il
telefono di Camila è lì, in una delle tasche laterali.
Il tempo passa. Il
sole spunta definitivamente su Roma e illumina a dovere l’abitazione dei Falco,
ma a Davide non importa del sole. A Davide importa di Camila. Vuole sapere
dov’è, cosa le è successo.
“Dove sei?” chiede,
spostandosi da una stanza all’altra senza una meta precisa. “Dove cazzo sei?”
E poi gli viene
un’idea. Un’idea in parte triste, ma pur sempre un’idea.
Se n’è andata. Si è pentita di ciò che
abbiamo fatto, si è pentita di ieri sera, e se n’è andata. Ha lasciato Bilbo
nel palazzo e se n’è andata. Avrà camminato fino alla fermata dell’autobus, e
con quello ha raggiunto la metro.
Con quali soldi?gli chiede
un’altra voce. Con quale abbonamento? La
borsa è qui, ricordi? Il suo borsello è qui. E perché ha perso la ciabatta?
Perché non è tornata indietro per prendersela?
Davide ignora le
ultime domande che la sua mente gli ha proposto e prende le chiavi dell’auto.
Stacca il guinzaglio dal collare di Bilbo e gli raccomanda di non combinare
guai. Lo fa mentalmente, frettolosamente. Esce di corsa, e di corsa parte verso
la fermata dell’autobus. La trova vuota, ad eccezione di un uomo che legge il
giornale e fuma una sigaretta. Procede allora verso la fermata della
metropolitana, ma senza schiacciare sull’acceleratore. Camila potrebbe essere
su uno dei marciapiedi, e lui non vuole perdersela.
Non so perché è scappata, ma non può essere
già tornata a casa. O forse… forse sì, forse è già a casa.
Davide entra sul
raccordo violando due o tre norme sulla precedenza, e guida a passo spedito
fino all’abitazione di Camila. Frena malamente nel parcheggio del palazzo, lo
stesso parcheggio in cui meno di dodici ore prima le ha dichiarato il suo
amore.
Ha avuto paura?si domanda. Le mie parole l’hanno spaventata fino a
farle desiderare di scappare?
Davide evita
l’ascensore, fermo all’ultimo piano, e prende le scale. Deve suonare il
campanello cinque volte prima di ricevere risposta. Ad aprirgli la porta è un’Alessia
parecchio assonnata. I suoi occhi sono in parte chiusi, ma si aprono di scatto
quando si accorge di Davide.
“Davide? Che vuoi?” chiede.
Alle sue spalle, la casa è avvolta dal buio.
Davide ha
l’affanno. “Devo parlare con Camila,” dice senza
pensarci due volte. “Puoi chiamarla, per cortesia? Oppure… puoi farmi entrare?”
“Camila? Camila non
c’è,” risponde la ragazza. “Che cosa vuoi da lei?”
“Devo parlarle,” incalza lui. “E’ già tornata?”
“Tornata? Da dove? Senti, Davide, qui non c’è nessuno. Ci siamo solo io e Ida,
posso assicurarti che Camila non c’è. Perché vuoi parlarle?”
Alessia non sembra
arrabbiata, né in procinto di diventarlo. Forse l’agitazione che legge sul viso
di Davide l’aiuta a capire che non è il caso di essere acida.
Davide d’altra parte,
si sente completamente smarrito. Forse
deve ancora rientrare. Forse ha deciso di fermarsi altrove, in un parco. Forse
è tornata a casa, e io sono qui!
“Maledizione!”
esclama, gridando come Alessia non l’ha mai visto fare.
Ciò nonostante si
fa da parte e apre completamente la porta. “Entra,” gli
dice. “Non rimanere lì.”
Una volta in casa,
gli occhi di Davide vanno immediatamente alla porta della camera di Camila. Senza
chiedere il permesso, attraversa il corridoio e prova ad aprirla, ma senza
successo: la porta è chiusa.
“Perché è chiusa?”
chiede, guardando Alessia, ancora ferma all’ingresso. “C’è qualcuno dentro?”
“No,” dice lei sottovoce, per non svegliare Ida. “Lei chiude
sempre la sua porta quando esce… lo facciamo tutte. Ma si può sapere qual è il
problema? Perché la stai cercando?” Gli si avvicina, scalza e con addosso il pigiama. “Perché la cerchi? Si può sapere cos’è
successo?”
“Sei sicura che non
sia venuta qui?” chiede lui, evitando di rispondere.
“Magari dormivi, magari…”
Una porta alle loro
spalle si apre. E’ Ida. “Ehi. Si può sapere che
succede? Perché state gridando?” Anche i suoi occhi sono mezzichiusi. Anche lei è
in pigiama.
“Hai visto Camila?”
chiede Davide. “E’ tornata a casa?”
“Camila?” gli fa
eco lei. “No,” risponde. “E’ uscita ieri sera, ed è
rimasta fuori tutta la notte. Perché? A te che importa?” Ida lancia uno sguardo
alla sua amica. “L’hai chiamato tu? Avete fatto pace?”
“No,” risponde in un soffio Alessia. “No.” Guarda Davide, la
cui mano è ancora ferma sulla maniglia della porta. “Sei uscito con lei, vero? E’ per lei che hai-”
“Non ci credo,” interviene Ida, ora più sveglia che mai. “E’ la pazza? La
persona per cui hai… con Alessia… è la pazza?”
“Non chiamarla così,” sibila Davide. Lo fa puntando un dito sul suo viso. “Non
ti azzardare mai più a chiamarla in quel modo, mi hai capito?” Si volta poi
verso Alessia. “Dov’è la chiave di questa stanza? Avete un doppione?”
Tutto ciò che lei
riesce a fare è scuotere il capo.
“Maledizione.”
“Si può sapere che
cosa è successo?” domanda Alessia. “Perché la stai cercando qui?”
“Perché è sparita!”
esclama lui in preda alla disperazione. “Perché è sparita e non so dov’è!”
Alessia non ha mai
visto Davide in condizioni simili. L’ha visto sereno, divertito, eccitato. L’ha
visto mortificato, quando gli ha sputato contro il veleno e la delusione nei
suoi confronti, ma non l’ha mai visto così… spaventato.
“Perché non la
chiami?” domanda. “Io ho il suo numero, possiamo-”
“No,
no! Ha lasciato il
telefono da me ed è scomparsa, ed è passata più di un’ora ormai.”
Alessia ritira
velocemente la mano che stava per appoggiare sulla spalla di Davide. Hanno passato la notte insieme, pensa. Sono andati a cena fuori e hanno passato la
notte assieme.
Nei mesi passati
dalla sfuriata alla biblioteca, Alessia ha avuto modo di dimenticare Davide e
la cocente delusione a seguito del modo in cui lui l’ha trattata. Adesso, però,
adesso che lo vede così preoccupato per Camila… per la pazza… non può fare a
meno di sentirsi nuovamente ferita.
Era lei la ragazza per cui mi ha lasciata. E’
sempre stata lei. Ecco perché non voleva che la prendessimo in giro: era
attratto da Camila fin da allora, fin da subito.
Alessia vede Davide
combattere con la porta. Cerca di aprirla, anche con una spallata.
“Sei impazzito?”
chiede Ida. “Non puoi buttarla giù, o la padrona di casa ci
farà pagare i danni! Perché la cerchi qui?” continua.
“E’ uscita con te, è stata con te… ora che vuoi da noi?”
Davide si ferma,
rendendosi conto (forse per la prima volta da quando Bilbo è tornato a casa da
solo) che si sta comportando come un matto. Le due ragazze lo guardano con
sorpresa, ma anche con disagio.
“Non so dov’è,” mormora, lasciando la maniglia. “Non è da lei… Non se ne
sarebbe mai andata senza dire niente. Devo trovarla.”
“Quanto tempo fa ti
sei accorto che è sparita?” chiede Alessia.
“Allora forse sta
venendo qui. Forse sta per arrivare.” Si passa una
mano fra i capelli biondi e sospira. “Vado a fare il caffè,”
dice, voltandosi per andare in cucina.
“Io me ne torno a
letto,” dice Ida. “Non voglio saperne niente delle
vostre cose. Spero di riuscire a prendere di nuovo sonno.”
Davide la vede
chiudersi la porta della sua camera alle spalle, bofonchiando qualcosa che somiglia
molto a ‘Stronzo’, ma non ha il tempo di preoccuparsene. Segue Alessia in
cucina, osservandola mentre solleva la persiana per far entrare la luce.
“Sei
sicura di non avere un doppione della chiave? Io devo aprire quella
porta.”
“Perché?” sbotta Alessia.
“Pensi che io e Ida teniamo Camila nascosta lì dentro? Imprigionata?”
“No,” dice lui, andandole accanto, “ma devo capire, devo capire
cosa è successo.”
Alessia apre un
pensile e prende la caffettiera. Ne apre un altro per prendere il barattolo del
caffè.
Riflette per un
lungo minuto prima di parlare di nuovo. “Io non so cosa c’è fra te e Camila,” dice, “e forse non mi interessa neppure. Ma se avete
passato la serata assieme allora forse devi pensare a quello invece che alla
sua stanza.”
“Sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che
forse hai fatto o detto qualcosa che l’ha portata a scappare da casa tua!”
esclama Alessia, leggermente esasperata. Sistema la caffettiera sul fornello e
si gira verso di lui. Si stringe la vita con le mani. “L’hai trattata male? Hai
fatto il cretino in qualche modo?”
“No,” risponde lui. “No, assolutamente no.”
Alessia non riesce
a guardarlo negli occhi, ma può sentire l’agitazione della sua voce.
“Allora vedrai che
non le sarà successo nulla. Camila è sempre stata strana,”
dice guardando il pavimento. “Forse starà facendo semplicemente una
passeggiata.”
Davide non dice
nulla, ma sa che la scomparsa di Camila non riguarda una semplice passeggiata.
E’ il suo cuore a dirglielo, è il suo istinto a parlargli.
“Devo aprire quella
porta,” dice, tornando nel corridoio.
Alessia non prova
neppure a trattenerlo. Ha capito che è inutile.
Resta in cucina, a
guardare il caffè gorgogliare dal beccuccio verticale, e quando sente la porta
di legno cedere sotto la spallata di Davide sente anche una piccola parte del
suo cuore sbriciolarsi.
Non sono mai stata importante per lui.
Camila invece… Camila è importante.
***
Davide si ritrova
in camera di Camila e per un attimo resta impietrito.
La stanza è una
stanza normale, molto semplice. Le pareti sono bianche e spoglie. Al soffitto è
appeso un filo elettrico lungo più o meno mezzo metro dal quale pende una
lampadina. Non c’è un lampadario. Il letto è posizionato a ridosso di una
parete, ed è immacolato. Il piumone che lo ricopre è di un colore più vicino al
giallo che al bianco. Tutto, nella stanza di Camila, è immacolato, ordinato. L’armadio
è accanto alla finestra, e vicino ad esso c’è un piccolo baule di legno, i cui
disegni richiamano quelli del letto, dell’armadio e
del comodino.
Davide si guarda
attorno, ma nulla colpisce la sua attenzione. Sul comodino c’è una lampada rosa
a forma di maialino.
Dove sei, si chiede. Cosa ti è
successo?
Il comodino ha un
cassetto, e Davide decide di aprirlo. Contiene vecchi volantini, vecchi
biglietti obliterati, vecchi fogli di giornale. Si avvicina all’armadio e fa la
stessa cosa, lo apre. Il profumo di Camila gli invade immediatamente le narici.
E’ il profumo di pulito, il profumo dolce e allo stesso tempo forte della donna
che ama.
Osserva i jeans
appesi, i cardigan ripiegati. Ha quasi paura di toccare le sue cose, ma ha
bisogno di sapere. Non può avermi
lasciato così. Non è da lei. Camila non è così.
Sposta le maglie e
i pantaloni con delicatezza, sfiorandoli appena.
Vorrebbe che la
sensazione di pericolo che sente dentro svanisse, ma minuto dopo minuto non fa
che crescere.
“Il caffè è
pronto.” Alessia lo sorprende alle spalle. E’ ferma sulla soglia della porta, con in mano due tazzine fumanti.
Davide scuote il
capo lentamente. “Non mi va, grazie.”
Alessia si guarda
attorno, proprio come ha fatto lui. Non è mai entrata in camera di Camila, e
farlo adesso le sembra quasi un sacrilegio.
“Cosa stai
cercando?”
“Tutto e niente,” risponde Davide, chiudendo l’armadio. Si china sul baule
e prova ad aprirlo, inutilmente. E’ chiuso, probabilmente a chiave vista la
serratura presente sul lato. Prova a spostarlo, ma non ci riesce: è pesante.
“Che c’è qui dentro?”
“Non ne ho idea,” risponde Alessia. “Non sono mai entrata nella sua stanza
prima d’ora.”
Davide si ferma al
centro della stanza. Controlla l’orologio e si rende conto che sono quasi le
nove.
Dove sei, Camila? Che cosa ti è successo?
“Forse ha
incontrato degli amici,” dice Alessia, pensandoci bene
prima di aprire bocca. “Forse si è soltanto allontanata dal tuo palazzo, e
magari adesso è fuori alla porta che si chiede perché non le apri.”
“E la ciabatta?”
chiede lui. “Che ci faceva la ciabatta in mezzo alla strada?”
“Quale ciabatta?”
“Aveva le ciabatte
ai piedi quando è scesa per accompagnare Bilbo. Ne ho trovata una prima di
venire qui.”
“Sei sicura che
fosse sua?”
“Sì!” grida. “Sì!
Era mia, gliel’ho prestata io!”
“Ok,” dice lei, oltrepassando la soglia per andargli accanto.
Appoggia le tazzine sul comodino. “Facciamo così. Tu
ora torni a casa, io rimango qui. Se Camila dovesse tornare le dirò che sei
venuto a cercarla, che non sapevi che fine avesse fatto. Non appena la vedo
entrare ti do un colpo di telefono, ok? Torna a casa, Davide. Sicuramente Camila è lì.”
“Camila non ha
amici,” sussurra Davide. “Non può essere andata con
degli amici. Gli unici amici che ha siamo noi… io e la mia famiglia?”
“Tu e la tua
famiglia?”
“Camila lavora per
noi,” dice, avvertendo un nodo alla gola. “Non fa
altro, Ale. Lavora, lavora, lavora. Non può aver incontrato nessuno, non può
aver incontrato i suoi amici.”
“Allora è a casa
tua, adesso. Allora si è semplicemente allontanata. Forse il tuo cane l’ha
strattonata ed è caduta.”
Bilbo è minuscolo, non avrebbe mai potuto
fare una cosa del genere. O forse sì? Forse è caduta, e qualcuno l’ha soccorsa,
portandola all’ospedale. Ecco perché ha perso la ciabatta.
Davide estrae dalla
tasca della tuta il suo cellulare e lo controlla. Nessuna chiamata, nessun
messaggio.
“Adesso torno a
casa,” dice dopo aver pensato al da farsi. “L’aspetto
lì. Torno ad aspettarla lì.”
“Va
bene. Io ti chiamerò non
appena la vedo tornare,” dice Alessia.
Insieme escono
dalla camera di Camila e si avviano nel corridoio, all’ingresso.
Davide si sente
come se stesse vivendo un’esperienza surreale, incredibile. Non gli è mai
successa una cosa del genere, e per la prima volta in tutta la sua vita si
sente impotente, debole.
“Mi stai aiutando,” dice ad Alessia, senza neanche pensarci. “Grazie.” Prova
a sorriderle, ma non ci riesce. E’ più pallido di un lenzuolo.
“Stai tranquillo,” dice lei. “Non può esserle successo nulla. Torna a casa e
se la trovi fammi sapere.”
“Grazie,” ripete Davide. “E scusa se ti ho svegliata… se…”
“Non fa niente,” lo interrompe lei. “Guida piano. Ci sentiamo più tardi.”
Lo guarda scendere
prima di chiudere la porta e di tornare in cucina. Ida la raggiunge dopo pochi
secondi. “Se n’è andato? Si può sapere che voleva? E perché non gli hai
sbattuto la porta in faccia dopo quello che ti ha
fatto?” Si versa il caffè in una tazzina prima di continuare. “Non ci posso credere, lui e Camila escono assieme? Fossi in te le farei
una scenata quando torna.”
“Smettila,” dice Alessia, sedendosi al tavolo. “Pensavo che stessi
dormendo.”
“Ci ho provato, ma
ormai ero troppo sveglia per riaddormentarmi. Allora, Davide che ti ha detto?” Beve un sorso di caffè, ma non le
dà l’opportunità di rispondere. “E con che coraggio esce con quella? Hai
visto come si è arrabbiato quando l’ho chiamata pazza? Dio,
hai fatto benissimo a mandarlo a-”
“Ida, smettila!”
Alle parole, Alessia accompagna uno schiaffo al tavolo che fra trasalire
l’altra. “Non hai capito cosa ho detto? Smettila! Smettila di parlare!” Si alza ed esce dalla cucina, lasciando
l’amica e coinquilina al tavolo da sola.
***
Davide fa ritorno a
casa premendo sull’acceleratore come se fuggisse da un pericolo. Quando scende
dall’auto lo fa con addosso due precise sensazioni: il desiderio che Camila sia
davanti l’uscio di casa, e la paura che non ci sia.
Per questo motivo
sale le scale del palazzo con rapidità, ma anche con un peso immenso nel cuore.
Un peso che cresce, gradino dopo gradino, e che si trasforma nella più pesante
delle ancore quando raggiunge il suo piano e si rende conto che Camila non c’è.
Entra in casa
imprecando sottovoce, recandosi immediatamente sul terrazzo per osservare il
vicinato dall’alto. Di Camila non c’è traccia. Controlla il suo telefono e poi,
dopo essere tornato in camera, quello di lei.
Infila le mani
nella sua borsa e afferra il borsello.
Si siede sul letto
e lo apre, e da esso escono fuori poche banconote, molti spiccioli… e una fede.
La sua fede. Suo marito.
L’ho lasciato in Basilicata.
Davide si alza dal
letto e va in corridoio, dove c’è più luce. Fa girare la fede fra le dita e
scopre ciò che cercava, una scritta. Umberto
e Camila 24-05-1996
Umberto. Suo marito si chiama Umberto.
Torna in camera,
accende la lampada del comodino e rovescia il contenuto della borsa sul letto,
lo stesso letto in cui lui e Camila hanno fatto l’amore per tutta la notte.
Stringe i denti per non pensarci, per non pensare a lei come ad un ricordo
vecchio, irrecuperabile, perduto.
La borsa di Camila
contiene pochi oggetti: il borsello, uno specchietto rotondo, un pacchetto di
fazzolettini, la carta d’identità. Davide l’ha già vista sottoforma di
fotocopia, ma la apre ugualmente. La foto a colori mostra una Camila diversa,
sorridente ma allo stesso tempo triste, sofferente.
E’ solo una piccola foto per la carta
d’identità, si dice il
ragazzo. Non devo leggervi cose assurde.
E in quel momento sente
il suo telefono squillare. Davide si precipita di sotto per recuperarlo dal
tavolo su cui l’ha appoggiato, rischiando anche di cadere sulle scale.
Il cuore batte forte
quando risponde. “Pronto? Camila? Camila, sei tu?”
“Davide, sono tua
madre. Perché dovrei essere Camila?”
Oh, no. Maledizione, maledizione.
“Davide,
sei ancora in linea?
Tesoro, noi siamo appena atterrati. Perché non sei qui? Non dirmi che ti sei
appena svegliato, sono le dieci passate. Hai promesso di-”
“Mamma, prendete un
taxi,” taglia corto il ragazzo. “Io non posso lasciare
casa. Tornate con un taxi, per favore.”
Simona avverte che
c’è qualcosa di strano nella voce di suo figlio. “Davide, che succede? Stai
bene? Dove sei?”
“Sto bene, mamma.
Io sto bene, ma non posso venire all’aeroporto adesso. Per favore, prendete un
taxi.”
“Davide, spiegami
cosa è successo,” insiste la donna. E poi aggiunge, rivolta a suo marito e a Priscilla. “Dobbiamo
prendere un taxi. Muoviamoci. Davide, sei ancora lì? Tesoro, che cosa è
successo? Sei sicuro di stare bene?”
“Sì,” dice lui, sprofondando sul divano. “Ma dobbiamo parlare.
Devi aiutarmi, mamma. Dovete
aiutarmi.”
Due ore dopo -
quando Camila non è ancora rientrata e Alessia non ha ancora chiamato -
Priscilla, Simona e Giancarlo guardano Davide con un misto di sorpresa e
preoccupazione. Quando sono rientrati il ragazzo ha raccontato loro tutto: Carovigno,
le docce del campetto, le scarpe rubate in soffitta, il nuovo incontro a casa
di Alessia, la sera al Mc, il marito lasciato in Basilicata, la cena al
ristorante fuori Roma, la ciabatta trovata in strada.
Lo ha fatto per
liberarsi di un peso più grande di lui, e perché è cosciente del fatto che può
essere aiutato soltanto se è onesto fino in fondo.
Priscilla sembra
essere quella più shockata dalla notizia della scomparsa di Camila. Giancarlo e
Simona non fanno altro che guardarsi negli occhi e comunicare in silenzio.
“Dobbiamo andare
alla Polizia,” dice Davide. “Sono passate cinque ore,
e tutte le sue cose sono qui. Sarebbe dovuta tornare, no? Avrebbe dovuto almeno
chiamare.” Si alza dal divano. “Io devo trovarla. Pri,”
dice, rivolgendosi alla sorella, “io devo trovarla.”
Priscilla sta per
parlare, ma Simona la anticipa. “Perché non ci hai mai detto
nulla? Perché non ti sei mai confidato con me?”
“Perché non ci hai
detto che la conoscevi?” aggiunge Giancarlo. “Avresti dovuto parlarcene,
Davide, prima che l’assumessimo, perché-”
“Perché cosa?”
chiede il ragazzo. “Perché così avreste potuto farvi l’idea sbagliata sul suo
conto? E’ stata con noi per tre mesi,” grida, “e l’avete
adorata tutti, tutti. Non vi ha mai dato alcun problema, e ora che conoscete la
sua storia venite a farmi la morale? No,” dice,
guardando in particolar modo il suo patrigno. “No. Non ne avete il diritto.”
“Davide, noi avevamo
il diritto di capire,” dice Simona, facendosi avanti.
“Io sono tua madre, ho il diritto di sapere cosa succede in casa mia.”
Davide abbassa le
spalle. “Avrei dovuto parlarne, è vero.”
“Almeno con me,” dice Priscilla. “Sono tua sorella. Pensavo mi raccontassi
tutto.”
Davide, esasperato,
si passa le mani nei capelli. “Vi prego,” dice con un
filo di voce. “Io devo trovarla, devo sapere dov’è. Quando l’avrò ritrovata
potremo parlare per ore, per giorni interi. Potrete anche licenziarla, se
pensate che non meriti più la vostra fiducia, ma vi prego, vi prego: aiutatemi
a trovarla.” Si volta verso Simona. “Mamma, ti prego.”
Mezzora dopo sono
al commissariato di Polizia del loro quartiere a denunciare la scomparsa di
Camila. Davide ha con sé il documento di lei, il cellulare (rimasto muto per
tutta la mattinata), l’intera borsa. Un ispettore accoglie la denuncia, e gli
fa numerose domande.
Perché Camila si trovava fuori casa? Non ha
sentito nessun rumore sospetto? Ha detto qualcosa prima di uscire con il cane? Cosa
indossava? Sapete qualcosa della sua famiglia? Dove vive? Dove lavora? E’
sposata? Avete provato a comporre qualche numero presente sul cellulare e a
chiedere di lei?
Davide risponde ad
ogni domanda dettagliatamente, fornendo tutte le informazioni di cui è al
corrente.
Non ha mai parlato volentieri di suo marito.
Mi ha detto che l’ha lasciato in Basilicata, quindi forse è scappata da lui.
Forse lui le faceva del male. E’ raro che parli del suo passato. E’ sempre
stata molto riservata.
Tre ore dopo, alle
quattro del pomeriggio, Davide e la sua famiglia si preparano a lasciare il
commissariato.
“Roma è una città
immensa,” dice l’ispettore. “E non possiamo escludere
nulla… neanche che abbia deciso di andarsene liberamente, di sua spontanea
volontà.”
“Ma è impossibile,” dice Davide. “Camila non se ne sarebbe mai andata, mai!”
L’ispettore sospira
e si accarezza la barba. “Mi avete lasciato i vostri recapiti,”
dice, “farò circolare la descrizione della donna e nel frattempo cercherò di
contattare la famiglia, il marito. Una cosa è certa: non può essere svanita nel
nulla.”
Durante il viaggio
di ritorno a casa, Davide chiama Alessia, la quale gli dice che Camila non è
rientrata.
Lui e sua sorella
occupano i sedili posteriori della berlina di Giancarlo, il quale è concentrato
sulla strada e se ne sta in silenzio, imitando Simona.
“La troveremo,” dice Priscilla, allungando una mano per coprire quella di
Davide. “L’ispettore ha detto bene: non può essere svanita nel nulla.”
Davide si lascia
andare sul poggiatesta, stringendo le dita di sua sorella e cercando di trovare
nelle sue parole la speranza di cui ha bisogno. Ciò nonostante non riesce a
cancellare dal suo cuore la sensazione di paura e di angoscia.
Mai come per questo capitolo, un
ringraziamento speciale va a Lele Cullen.
Capitolo 17 – Penultimo Capitolo
L’ispettore che ha
raccolto la denuncia dei Falco ha ragione: Camila non è svanita nel nulla.
Si trova, assieme
ai suoi tre rapitori, in una casa nascosta dai boschi di Sabaudia, a pochi di
metri dal lago. L’hanno portata lì dopo averla trascinata nell’auto sotto casa
di Davide.
Ha gridato, Camila,
si è dimenata, ma non è servito a nulla.
Umberto ha
trascinato il suo corpo snello al centro dei sedili posteriori, incastrandolo
alla perfezione fra il suo e quello di Federico. Quest’ultimo le ha sistemato
velocemente un sacco di stoffa nera sul capo, mentre suo marito le teneva ferme
le mani.
Quando Camila ha
provato a liberarsi, muovendo la testa per impedire che la rendessero cieca, è
stato Umberto a darle uno schiaffo. Forte, ma attutito
dal tessuto nero.
“Piantala,” le ha detto fra i denti. “Non farmi arrabbiare. Non
gridare.”
“Non c’è bisogno di
legarglielo attorno al collo,” ha detto Federico.
“L’importante è che non veda dove stiamo andando. Continua a tenerle le mani,
così non potrà liberarsi.”
Camila ha gridato,
ha scalciato (o almeno ci ha provato), ha cercato di liberarsi dalla presa dei
due uomini. I suoi sforzi, però, sono serviti a poco. Umberto e Federico si
sono trasformati in due pareti di acciaio, ai suoi fianchi.
Sfrecciando lungo
le strade di una Roma avvolta dalla tenue luce del primo mattino, Carmelo,
Federico e Umberto non hanno avuto difficoltà ad uscire dalla
città indisturbati. I vetri oscurati dell’auto li hanno aiutati: nessuno
ha visto Camila, né quando l’hanno presa né durante l’intero tragitto dalla
capitale al bosco di Sabaudia.
Lei ha pianto.
Quando si è resa conto di ciò che le stava succedendo, quando ha capito che non
sarebbe riuscita a liberarsi… ha pianto. Un pianto muto, quasi. Un pianto che
Federico e Umberto hanno scambiato per un respiro affannato. Un lamento interno
e profondo, una disperazione triste e sola.
Dove stiamo andando?, si è chiesta. Dove mi
porteranno? Stiamo tornando in Basilicata? Davide si è accorto che sono
sparita? Come farà a trovarmi? Dove siamo?
Si è posta tante
domande durante il viaggio. I tre hanno aperto bocca solo due volte. La prima subito dopo essere ripartiti, e la seconda durante
il viaggio verso sud. Camila ha colto poche parole, qualcosa di simile a
‘Chiama… Digli che deve andare lì e guardare…’.
Quando hanno
raggiunto la casa e hanno fatto scendere Camila, i tre (in particolare Umberto)
si aspettavano che lei gridasse, riprendesse a scalciare, cercasse di
liberarsi. Lei non l’ha fatto, però. Camila è rimasta in silenzio, si è fatta
trascinare fuori dalla vettura e dentro casa.
Non ha parlato, non
ha gridato. Ha smesso perfino di piangere.
Nessuno sa dove mi trovo. Nessuno può
salvarmi.
La casa, una
villetta di 400mq spalmati su un solo piano è di proprietà di un loro amico che
vive a Latina. E’ una costruzione abusiva, ma l’amico in questione è una di
quelle persone temute anche dalle autorità. Nessuno si sognerebbe mai di
demolirgli la villetta comprensiva di piscina, di un giardino immenso e anche
di piccolo pezzo di terra. L’uomo la usa d’estate, quando lui e la sua famiglia
si trasferiscono al lago nei mesi che vanno da Giugno ad Agosto.
Al momento, quindi,
è vuota.
Quando i tre hanno
organizzato il rapimento di Camila, Umberto ha subito pensato alla casa
nascosta dai boschi. Isolata, a prova di poliziotti e curiosi.
Il posto perfetto
in cui convincere Camila a tornare in Basilicata con loro. Con le buone o con
le cattive.
***
La casa è molto grande, ma Camila non riesce a vederla tutta. Le finestre
sono grandi, e protette con delle spesse inferriate. I
pavimenti sono in cotto, e il soffitto mostra delle splendenti travi a vista,
di legno lucido e scuro.
Non appena varca
l’ingresso, Camila viene liberata dal sacco nero; Federico la conduce in una
camera da letto, continuando a tenerla per i polsi. “Puoi anche gridare,” le dice, guardandola negli occhi. “Qui non c’è nessuno.
Nessuno ti sentirà. Qui attorno ci sono solo terre e alberi. Puoi anche gridare,” ripete, “ma servirà solo a farmi arrabbiare.”
Federico, il più
alto e il più robusto dei tre, è stato quello che Camila ha sempre tollerato
meno. E’ lui il capo, è lui che detta le regole. Con sé, nei suoi gesti e nel
suo viso, porta un messaggio chiaro: Qui comando io. Carmelo e Umberto sono i
suoi soci e probabilmente i tre sono coinvolti in parti uguali nei loro loschi
affari, ma per Camila non è mai stato difficile (e non lo è neppure ora) notare
come sia Federico quello a cui spetta l’ultima parola, quello che prende le
decisioni importanti, quello a cui gli altri devono ubbidire.
Ora è di fronte a
lei, con il sacco nero in mano e l’espressione dura e sprezzante negli occhi.
Camila lo guarda
senza rispondere, senza quasi respirare. I polsi le fanno male, a causa della
presa di Federico, ma non si azzarda a dirglielo, a chiedergli di essere
liberata completamente.
Davide non sa di Umberto. Come faranno a
ritrovarmi?
“La finestra ha le
inferriate,” dice Federico. “Non puoi scappare.” Le
lascia i polsi, ed è come se il sangue riprendesse a circolare non solo verso
le mani, ma anche nel resto del corpo.
Camila arretra
istintivamente fino al letto, spoglio di coperte e lenzuola, massaggiandosi i
polsi per trovare un po’ di sollievo.
Federico si guarda
attorno per accertarsi che nella camera non vi sia nulla che Camila può usare
come arma. Nessuna lampada, nessuna sedia. L’armadio è vuoto (lui e Umberto lo
hanno controllato ieri notte) e il materasso è innocuo. Se anche Camila volesse
sistemarlo davanti alla porta, i tre potrebbero comunque entrare facilmente.
Federico esce dalla stanza senza aggiungere altro, chiudendo la porta a chiave.
Camila, il cuore in
gola, non può fare altro che sedersi sul materasso. Controlla l’orologio che ha
al polso, vede che sono le nove.
Sono passate due ore… cosa sta facendo
Davide? Bilbo è riuscito a tornare a casa?
Osserva
l’inferriata blu alla finestra, osserva i fitti cespugli che si trovano
all’esterno.
Non è una stupida.
Sa che gridare non le servirà a nulla.
Non sa dove si
trova, ma di una cosa è certa: Non mi
avrebbero mai portata in un luogo facile da scoprire, facile da abbandonare.
Sono in trappola.
***
Umberto entra in
camera un’ora dopo, alle dieci.
Camila è distesa
sul materasso, con il viso rivolto alla parete e le ginocchia strette al petto.
Ai piedi ha solo una ciabatta, addosso ha ancora il suo cappotto scuro.
“Alzati,” dice suo marito. “Dobbiamo parlare.”
L’ultima volta in
cui i due si sono visti è stata la sera in cui Camila decise di scappare.
Umberto la picchiò quando ella ritornò a casa, dopo essere andata alla caserma.
La minacciò, in quell’occasione. Le disse, con le mani e con le parole, che non
avrebbe più dovuto aprire la bocca. Le disse, a colpi di schiaffi, che non
avrebbe tollerato un’altra mossa di quel tipo.
Quella sera Camila
non restò a guardare. Quella sera non abbassò la testa, non ubbidì.
Quella sera scappò,
salendo sul primo treno disponibile, guardandosi alle spalle e tirando un
sospiro di sollievo quando capì che nessuno la seguiva. Lo stesso sospiro di
sollievo lo ha tirato ogni giorno in questi tre anni, quando, rientrando a casa
dopo il lavoro, si accorgeva che dietro di lei non c’era nessuno.
Ma tutto ha una
fine, e Camila lo sa bene. Si mette a sedere come Umberto le ha ordinato, ma
non riesce a guardarlo negli occhi.
Non lo teme, non ne
è spaventata, anche se forse dovrebbe. Non ha difficoltà a guardarlo per via
della paura, no. Camila è disgustata. E’ profondamente disgustata dall’uomo che
ha sposato, dall’uomo che in Germania le ha fatto conoscere la parola ‘Amore’,
dall’uomo a cui ha cercato per anni di dare un figlio.
“Che c’è, non mi
guardi?” dice lui, leggendole nel pensiero. “Guardami,
Camila. Forza.” Si siede ai piedi del letto, mantenendo la distanza.
Camila alza il capo
lentamente, fino ad incontrare i suoi occhi. In essi non c’è più nulla del
ragazzo che lavorava in una fabbrica di telefoni in Germania. In essi non c’è
più quell’armonia, quella gentilezza di cui si è innamorata.
Sono occhi amari,
occhi spenti. Occhi avvelenati.
“Ascoltami bene,” riprende Umberto. “Le possibilità per te sono due, e due
soltanto. Puoi tornare in Basilicata con noi oppure rimanere qui.”
Camila non manca di
notare che la sua voce è nervosa, non tranquilla e ferma come quella di
Federico.
Forse si è offerto lui di parlarmi perché
siamo sposati, pensa lei. Forse lo hanno obbligato.
“Se torni con noi,” continua, “tornerai come mia moglie. Sarai di nuovo mia
moglie. La casa è ancora lì,” dice. “E’ ancora
arredata, c’è ancora tutto quello che hai lasciato. Se torni con noi, tornerai
per fare la moglie, la moglie tranquilla, la moglie che non si impiccia dei
fatti che non le riguardano. Andrà diversamente, stavolta,”
dice, e sembra quasi che lo dica per convincere se stesso ancor prima che lei.
“Farai la brava, e noi ti terremo d’occhio. Proveremo di nuovo a fare un
bambino, magari. Farai la brava moglie,” ripete. “La
brava moglie.”
Sebbene
l’espressione di Camila sia posata, dentro di lei si agita il fuoco di mille
inferni.
Come può chiedermi una cosa simile? E’
impazzito? La brava moglie?
“E’ per questo che
mi avete rapito, per trasformarmi in una schiava?” Lo dice guardandolo negli
occhi, desiderando ardentemente di poterli trafiggere.
“Non sei obbligata
a tornare,” dice lui, stavolta più duro. “Ma se decidi
di rimanere qui ci saranno delle conseguenze… e non solo per te.”
Il sottinteso
trasforma il sangue nelle vene di Camila in ghiaccio puro. “Che cosa vuoi
dire?”
“Voglio dire che se
ci tieni a quei morti di fame per cui lavori verrai con noi.”
I Falco. Davide. No.
“Tu non…” Cerca di
parlare, ma non ci riesce. Il pensiero di Davide in pericolo, il pensiero che
loro possano fargli del male la paralizza, la immobilizza. “Tu non puoi,” riesce a dire al terzo tentativo.
“Io posso,” ribatte Umberto. “Io posso fare quel che mi pare, Camila.
Non l’hai ancora capito?”
Il sorriso di beffa
che ha sulle labbra è come un nuovo schiaffo, per lei.
“Perché?” chiede
Camila. “Che cosa volete da me, perché volete riportarmi
laggiù? Io non voglio vivere lì, io non voglio avere
più niente a che fare con te e con voi!” Il suo tono di voce è a metà fra la
supplica e il grido disperato.
Umberto reagisce
alzandosi dal letto e indietreggiando verso l’armadio. A Camila sembra quasi
che voglia fuggire dalla disperazione di lei
“Se avessi voluto
darvi dei problemi lo avrei già fatto,” continua. “Vi avrei denunciato in questi tre anni, vi avrei messo in pericolo!
A me non importa… Io voglio solo…” Io voglio solo vivere la mia vita, cercare di essere felice,
dimenticare il passato. Io
voglio solo tornare a casa di Davide.
“Tu sei un problema,” replica Umberto, puntandole un dito contro. “Sei talmente
stupida che non te ne rendi conto, ma tu sei un problema. Ogni
giorno di questi tre anni ci siamo dovuti guardare alle spalle, e abbiamo
dovuto fare sempre…” Si ferma di scatto, come se si fosse appena reso conto di
aver detto più del necessario. Quando torna a parlare, la sua voce è
decisa e impostata, ferma e priva di alcuna emozione. “Tu
rappresenti un problema. Nessuno di noi può permettersi che tu sia
libera. Devi tornare in Basilicata, Camila. Punto.”
Come una schiava. Come una prigioniera. Come
un animale in gabbia.
“Io non voglio
avere a che fare con voi, e-”
“Non mi interessa!”
grida lui. Le si avvicina, e inizia a scuoterla, usando due mani sulle spalle.
“Tu sei mia moglie. Per la legge italiana sei ancora mia
moglie!” Il suo respiro è affannato, le sue parole confuse e incomprensibili.
Camila ha paura, ma
riesce a liberarsi della sua presa. Rotola al lato opposto del letto, perde la
ciabatta, e si alza in piedi.
“Sei pazzo!” grida.
“Tu e quei due… siete pazzi! Come potete pensare di
farmi ritornare in quella casa, in quel posto… come?!
Me ne andrò di nuovo,” dice con rabbia, stringendo i
pugni. “Alla prima occasione me andrò di nuovo! La
legge italiana è dalla mia parte, non dalla tua!”
Umberto è veloce
nel fare il giro del letto. Chiude una mano attorno al sottile collo di Camila,
bloccandole temporaneamente il respiro. “Tu non farai niente,”
sibila. “Tu non farai niente. Ti terrò al guinzaglio,
se necessario, come un cane.” Camila cerca di
liberarsi dalla presa, ma stavolta non ci riesce. Gli graffia la mano,
l’avambraccio, ma è inutile. Annaspa, la sua pelle
diventa pallida.
E in quel momento,
quando il viso di Camila si colora di bianco, Carmelo e Federico irrompono
nella stanza.
Umberto lascia
andare la presa e si gira verso di loro. “Che c’è?”
Camila tossisce e
si chiude in un angolo, le mani attorno alla gola e gli occhi pieni di lacrime.
“Allora, l’hai
convinta?” chiede Carmelo.
“Le hai detto cosa
succede se non viene con noi?” domanda Federico. Senza attendere risposta, si
avvicina al letto e a Camila. “Forse non l’hai capito,”
dice, “ma a noi non interessa nulla di te. Per noi sei un peso, e l’unico
problema, al momento, è quello di decidere in che modo liberarci di questo
peso. O ti portiamo con noi, o ti lasciamo qui. Qui, però… qui ci resti morta.
Non sei obbligata a venire in Basilicata,” dice
sollevando le mani. “Ti stiamo lasciando libertà di scelta. Vieni con noi,
segui le nostre regole, oppure resti qui e ci resti morta.”
“Assieme al tuo
ragazzo,” gli fa eco Carmelo.
Federico si gira
per guardarlo, sorride, e torna a guardare Camila, ancora stretta nell’angolo
con le mani attorno al collo. “Umberto ti ha detto che
abbiamo una persona che lo sta tenendo d’occhio? Gliel’hai
detto?” chiede ad Umberto. Quando quest’ultimo scuote il capo, Federico
incalza. “Sappiamo tutto di lui,” dice, con quella
sicurezza mista a strafottenza che Camila odia e teme. “Sappiamo il suo nome,
sappiamo quando è nato, sappiamo cosa studia. Sappiamo che poco fa è andato a cercarti
al tuo appartamento, e che è appena ritornato a casa sua. Sappiamo tutto di
Davide, così come sappiamo tutto di sua sorella, di
sua madre. Vieni con noi,” continua, con un sorriso
viscido e crudele, “e li lasceremo in pace. Resta qui, e
morirai assieme a loro.”
Passa accanto a
Umberto, la raggiunge fino a trovarsi ad un passo da lei. “Pensaci,” dice, dandole un buffetto sul mento. “Pensaci.” Poi
guarda i suoi amici. “Andiamo. Dobbiamo
parlare.”
I due lo seguono
senza fiatare. Umberto guarda Camila per un’ultima volta prima di uscire dalla
stanza. Gli occhi di lei, però, sono persi nel vuoto. “Pensaci,” ripete Federico.
***
Il tempo passa
lento. Camila trova la forza di abbandonare l’angolo freddo della camera da
letto e di sedersi sul materasso.
Tutto questo non ha senso, si dice. Portarmi qui, offrirmi due possibilità come se si trattasse di uno
scambio equo, di una scelta facile. Non ha senso.
Perché non mi uccidono? Perché non mi
imbavagliano e mi portano in Basilicata con loro? Perché mi tengono qui, invece
di liberarsi di me?
Umberto stava per strozzarmi, pensa. Non
ha avuto alcun problema a stringere le dita attorno al mio collo. Non ha
provato pena, dispiacere. Per lui non sono niente, ad eccezione di un problema,
un problema che deve essere eliminato. Un peso, così
ha detto Federico.
Forse fa tutto parte
del loro piano. Forse vogliono solo spaventarmi, terrorizzarmi. Forse il piano
consiste nel farmi temere per la mia vita e per quella dei Falco, in modo da
costringermi a lasciare Roma.
Mi stanno minacciando, e lo stanno
facendo nel modo più crudele di tutti. Vieni con noi, comportati bene, e a loro
non accadrà nulla. Torna nella gabbia da cui sei scappata, e al tuo ragazzo non
accadrà nulla.
Il mio ragazzo, così lo hanno chiamato.
Davide. Il mio Davide.
Dov’è adesso? Si è accorto di essere
seguito? E’ vero che è andato a cercarmi al mio appartamento? Perché dovrebbe
averlo fatto? Cos’ha pensato quando non mi ha vista tornare? Ha parlato con
Alessia? Si è rivolto alla Polizia? Come farà a trovarmi… non sa nulla di me.
Non gli ho detto nulla di me.
I pensieri si
accavallano come onde impazzite nella mente di Camila. Da un lato è
terrorizzata, sconvolta. Dall’altro è quasi rassegnata. Rassegnata all’idea di
non poter aprire la finestra e scappare. Rassegnata al fatto che non riuscirà
in alcun modo a far ragionare Umberto e i suoi amici.
Mi hanno cercata per tre anni. Mi
considerano una minaccia. Gli faccio paura, ma anche loro ne fanno a me. Loro
però sono in tre, e io non ho nulla su cui fare leva. Io non ho niente. Io sono
un topo in trappola, e loro sono tre gatti pronti a banchettare.
Ad un certo punto,
Camila si alza dal letto e va alla porta. E’ chiusa a chiave – ha sentito
Federico chiuderla – per cui non si azzarda neppure ad aprirla. Ciò nonostante
appoggia l’orecchio ad essa, e cerca di ascoltare le voci degli altri. Resta
immobile, con l’orecchio che sfiora il legno scuro, per una fetta indefinita di
tempo, ma non sente alcuna voce.
Forse sono in un’altra stanza. Forse
bisbigliano, invece di parlare.
Camila ignora che i
tre sono in realtà fuori, all’aperto.
“Angelo ha detto
che il ragazzo è ancora in casa,” dice Carmelo,
chiudendo la comunicazione telefonica. “Ha chiamato per dirmi che due minuti fa
sono arrivati anche i genitori e la sorella. Sono arrivati con un taxi, avevano
dei bagagli. Forse hanno passato il fine settimana
fuori città.”
“E’ strano che non
sia andato ancora alla Polizia,” dice Federico,
facendo cadere la cenere della sua sigaretta in un’aiuola. “Molto strano.”
“Proprio per questo
dovremmo andarcene,” sbotta Umberto. “Che vogliamo
fare, rimanere qui fino a che non sentiamo le sirene? Dobbiamo andarcene,” ripete. “Subito.”
Federico getta la
sigaretta nonostante sia solo a metà e lancia un’occhiata torva al suo amico.
“Guarda che è per te che siamo ancora qui,” dice. “E’
solo per fare un favore a te che ci stiamo trattenendo. Per come la vedo io avremmo dovuto portarla qui e gettarla nel lago. Fine
della storia. Ti sto facendo un piacere,” dice
puntandogli un dito nel petto. “E tu non ne stai approfittando.”
“Umberto ha
ragione, però,” interviene Carmelo. “Ogni minuto che
passa è un minuto a favore del ragazzo e della Polizia. O ce ne liberiamo,
oppure…”
“Non possiamo
liberarci di lui,” taglia corto Federico. “Non abbiamo
bisogno di altri casini in questo momento. A lui penseremo se e quando si
rivolgerà alla Polizia. Il punto è un altro,”
continua, voltandosi verso Umberto. “Sei stato tu a volere del tempo per
parlare con lei, per convincerla a seguirti di sua spontanea volontà. Il tuo
approccio sta fallendo, te ne rendi conto? Pensi davvero che voglia tornare a
fare la mogliettina felice dopo quello che ha fatto
tre anni fa?”
A Umberto non piace
il tono di scherno di Federico. “Non mi interessa di lei,”
dice Umberto. “Tutto ciò che voglio è assicurarmi che capisca che non ha
alternativa. Deve capire che non può più scherzare con noi.”
“Io dico che
abbiamo già perso troppo tempo. Ammazziamola e andiamocene.”
Umberto si avventa
al collo di Carmelo con molta più forza di quando ha compiuto lo stesso gesto
con Camila. Riversa su di lui la rabbia e la frustrazione, l’agitazione che ha
addosso da quando hanno scoperto che Camila era a Roma.
Federico resta a
guardare, come un padre che osserva divertito un litigio di poco conto fra i
figli più piccoli.
“Smettila di dire
quella parola,” sussurra Umberto. “O andrai a finirci
tu, nel lago.”
“Tu non sei lucido,” ribatte l’altro. “Tu non sei lucido
perché quella lì dentro è tua moglie. Tu non sei lucido, e non sei
riuscito neanche a farle paura.” Carmelo alza la voce.
“Federico, diglielo anche tu che ho ragione.” A differenza di Camila, Carmelo
riesce a liberarsi dalla presa di Umberto. Gli dà una spinta che lo fa
arretrare di qualche passo, riportandolo accanto a Federico.
“Avete ragione entrambi,” dice quest’ultimo. “Umberto ha ragione
a volerla convincere, a volerle fare paura. Se dobbiamo riportarla
indietro dobbiamo essere certi che una volta lì non parlerà, non farà cazzate,
non sarà di nuovo un problema. Ma hai ragione anche tu,”
dice a Carmelo, “non possiamo perdere altro tempo.” Il modo in cui guarda
Umberto è glaciale e categorico.
Umberto conosce
bene quello sguardo. E’ lo sguardo del ‘Sto per
pronunciare l’ultima parola’. E’ lo sguardo che non ammette repliche. “O Camila
viene con noi, accettando di lasciarsi Roma alle spalle e promettendo di
comportarsi come una vera moglie, oppure…” Federico non finisce la frase. Si
limita a pestare un ciuffo d’erba con la scarpa nera e a far ruotare il piede
verso destra e verso sinistra, come si farebbe per un insetto. Né Umberto né
Carmelo proferiscono parola. Il capo ha parlato.
“Noi andiamo a
comprare qualcosa da mangiare,” dice poi, tirando
fuori le chiavi dell’auto. “Parlale di nuovo,” dice ad
Umberto, “e fai in modo che stavolta capisca.” Dal retro dei jeans tira fuori
la sua pistola, l’unica arma che hanno portato dalla Basilicata. La porge ad
Umberto, che la accetta senza guardarlo negli occhi. “Tienila,”
gli dice. “Usala per spaventarla.”
Umberto resta a
guardare l’arma per un quarto d’ora, dopo la partenza dei due amici, prima di
decidere di lasciarla sul tavolo della cucina e andare nella camera in cui è
rinchiusa Camila.
***
Lei non si muove,
quando sente la porta riaprirsi. E’ seduta ai piedi del letto, accanto alla
finestra.
Ha ancora il
cappotto addosso, ma è scalza. I piedi sono graffiati, le mani continuano a
tremare.
“Sono andati a
prendere da mangiare,” dice Umberto, chiudendo la
porta e infilando la chiave in tasca. “Quindi voglio dirti una cosa.”
Camila alza la
testa nella direzione di suo marito. Cerca di capire dal suo sguardo se ciò che
sta per dirle può migliorare o meno la sua situazione,
ma non riesce a decifrare i suoi occhi.
“Di noi tre,
l’unico che non vuole vederti morta sono io. Ti abbiamo portata qui perché sono
stato io a volerlo, ad impormi. Per loro, ucciderti non è un problema. Non
hanno scrupoli, Camila. Non si faranno scrupoli, se non ti deciderai a tornare
a casa.”
Camila si aggrappa
al materasso per evitare di lanciarsi contro di lui. “Io ho già una casa,” dice a denti stretti. “A Roma. Quella è
la mia casa.”
“No,” dice lui, sibilando come il più velenoso dei serpenti.
Non grida, ma scatta verso di lei rapidamente, facendola sussultare.
Camila porta le
mani al viso, temendo di essere colpita.
“Quella non è casa
tua,” dice Umberto. “La tua casa è quella in cui hai
vissuto con me, con tuo marito.” Si batte la mano sul petto due volte: una
quando dice ‘tuo’ e l’altra quando dice ‘marito’. “Forse non hai capito cosa
stai rischiando,” continua. “Forse pensi davvero che i
tuoi pianti possano intenerirci, ma non è così.”
Camila osserva i
suoi occhi, alla ricerca del passato, di ciò che Umberto era tanto tempo fa. Li
guarda, ma non trova nulla che possa dimostrarle che
la sua è una farsa, una scena, un modo per costringerla ad accettare, per
spaventarla.
“Perché mi stai
facendo questo?” chiede, iniziando a piangere. “Perché mi odi?
Io ho paura di te, io provo… io provo sdegno
per ciò che sei diventato, ma non ti odio… Dopo tutto
quello che… Perché mi stai facendo questo, Umberto?” Si alza, raccogliendo le
forze per rimanere dritta sulle gambe deboli. “E’ perché non sono riuscita a
darti un figlio? E’ perché sono andata dai Carabinieri tre anni fa? Avevo
paura, lo capisci? Ero terrorizzata, e tu non hai mai fatto nulla per
tranquillizzarmi, o per dimostrarmi che le mie paure erano infondate, anzi. Tu
mi hai picchiata,” dice, arrivando a singhiozzare. “Tu
mi hai picchiata.”
Ricorda le mani di
lui sul viso, nei capelli. Ricorda le notti passate a guardare il soffitto, ad
occhi aperti, spaventata dai continui spostamenti di suo marito e dei suoi
soci.
“Cosa vuoi che
faccia, adesso?” riprende. “Come puoi pensare che io
possa ritornare lì con tutti voi? Cosa sei diventato in questi anni… cosa sei
diventato… Non eri così. Non eri così… senza cuore. C’era un cuore dentro di te,” dice, inclinando la testa sulla spalla, “quando eravamo
in Germania… te lo ricordi? Ti ricordi quando andavamo al parco dietro casa dei
Bauer e mi guidavi sulle altalene? Te lo ricordi,
Umberto? E’ di quell’uomo che mi sono innamorata. Mi sono innamorata dell’uomo
che si spaccava la schiena mattina e sera per lavorare, e che aveva sempre un
sorriso per me… un gesto d’amore. Questo,” dice
indicandolo con la mano tremante, “tu… tu non sei quell’uomo. Tu hai smesso di
esserlo tanto tempo fa. Io non ti riconosco più. Io non posso più… Io non ho
nulla a che vedere con questo
Umberto.” Si asciuga gli occhi, battendo i denti a
causa della pausa e della tensione. “Se è vero che non vuoi vedermi morta, tipr-”
“Un figlio non
avrebbe cambiato niente,” dice lui, interrompendola.
Osserva il pavimento, e sembra quasi che tutto ciò che le sia rimasto dentro
delle parole di Camila sia il riferimento alla gravidanza mai arrivata. “Forse
è un bene che non ce ne siano stati…” aggiunge, con una punta di rammarico.
“Perché?”domanda
Camila, con rabbia, stringendosi nel cappotto. “Perché così
hai potuto fare tutto ciò che volevi con Federico e Carmelo, vero?
Perché con un figlio avresti avuto una grande responsabilità, vero? Un figlio ti avrebbe costretto a ripensare alla vita
che facevi.” Lui tace, confermando, di fatto, tutte le
sue insinuazioni. “Tu non sei come loro, Umberto. Tu…
Tu non sei come quei due.” Gli si avvicina di qualche passo. “Tu
non sei come loro. Ti hanno trascinato, ti hanno mostrato un mondo fatto
di soldi, di potere e bella vita… ma cosa hai avuto, in cambio? Rischi di
andare in galera per quello che fai. Rischi-”
“Tu non sai quello
che facciamo. Tu non hai mai saputo niente di quello che facevamo.”
“So che volete
uccidermi,” dice lei, fredda. “Quindi vuol dire che
rappresento una minaccia troppo grande, un rischio che non siete disposti a
correre. Mi volete chiudere la bocca, nonostante in tre anni non l’abbia mai
aperta con nessuno, e volete tenermi in gabbia come una bestia. Forse non
conosco le vostre attività nel dettaglio, ma so che siete disposti ad andare
lontano pur di proteggerle.”
Umberto impreca,
coprendosi il viso con una mano. Impreca di nuovo, in un modo violento e
volgare.
“Avrai tutto quello
che vuoi,” le dice poi. “Più
vestiti, una macchina tutta tua, una casa più grande. Dopo un po’ di
tempo… Dopo un po’ di tempo potrai viaggiare, potrai andare in Francia come hai
sempre voluto fare.” Non la sta minacciando, le sta
semplicemente dicendo la verità. Le sta dicendo che è disposto a comprare il
suo ‘Sì, tornerò in Basilicata con voi’.
“Lasciatemi in pace,” rilancia lei. “Tornatevene a casa, e fingete che io sia
morta. Io farò lo stesso con voi. Farò lo stesso con te,”
dice. “Fingerò di essere vedova.”
“Così potrai vivere
felice e contenta col tuo fidanzato?!” sbotta lui,
gesticolando con vigore. “Chi è? Che fa? Non è più
giovane di te? Mi è sembrato più giovane.” Le sue non
sono domande da marito geloso e tradito. Non c’è neppure un grammo di sentimento
in ciò che dice. E’ come se Camila fosse una lontana cugina, non sua moglie.
Camila capisce,
ancora una volta, che Umberto è mosso solo ed esclusivamente da un desiderio di
possesso, e non da un sentimento puro. Non vuole riavere sua moglie, non rivuole
una famiglia. Vuole semplicemente riavere l’oggetto che ha perduto, l’oggetto
che ha finalmente ritrovato.
Lo guarda
impassibile, cercando di ignorare la fitta allo stomaco al pensiero di Davide e
di ciò che Umberto, Carmelo e Federico hanno potuto vedere e sapere di loro
due.
“Lui non c’entra
niente,” dice, tremando. “Lui non sa niente di me, di
te. La sua famiglia non sa nulla del mio passato.”
Umberto scuote il
capo. “Eppure la loro vita dipende da te.”
“Lasciami libera,” incalza lei. “Lasciami tornare alla mia vita.” Le lacrime
rigano il suo volto scavato e pallido. “Non vi darò problemi, te lo giuro.”
Unisce le mani in un gesto di supplica, di preghiera. “Ti prego,
Umberto. Io non merito questo. Io non merito di…”
Di morire.
Io non merito di fare questa fine. Io non
merito di morire in questo modo. Perché in un modo o nell’altro morirò…
succederà.
Se verrò con voi morirò dentro, per sempre.
Se rimarrò qui… forse non sarà Umberto ad uccidermi, ma so che accadrà. A me, e
anche a loro… alla mia prima e unica famiglia. Davide, Priscilla, Giancarlo e
Simona.
Non si tratta solo di me. Non sono io la
sola a rischiare. Ci sono anche loro. C’è anche lui.
Le spalle sono
pesanti, il senso di impotenza le mangia anima come un tarlo velenoso: Camila
si lascia andare ad un pianto violento, doloroso. Si siede sul letto, le gambe
inesistenti, chiude le mani attorno alla testa e piange.
Piange perché non
ha scelta. Piange perché non vuole morire. Piange perché sente dentro di sé che
non riuscirà a convincere Umberto. Il suo cuore è marcio, ormai. Il suo cuore è
corrotto e avvelenato dai dieci anni trascorsi con Federico e Carmelo. Per un
attimo le è sembrato di rivedere in lui il ragazzo che ha sposato quando aveva
solo 17 anni, ma si è trattato di un solo attimo, di una diapositiva rovinata e
irrecuperabile.
Posto di fronte ad
un bivio, Umberto ha sempre scelto Carmelo e Federico… sempre.
Quando ha lasciato
la fabbrica di plastica, quando Camila ha trovato la pistola, quando lui ha
saputo della denuncia ai Carabinieri. Ha sempre avuto la possibilità di
scegliere, proprio come ha fatto lei quando ha fatto la valigia e se n’è
andata. Umberto ha scelto fin dal principio, e la sua decisione è irremovibile,
definitiva, incisa a fuoco nella roccia.
Le lacrime di
Camila non gli faranno cambiare idea. Le parole di sua moglie, per quanto
giuste siano, non lo convinceranno mai dei suoi sbagli.
“Cosa faresti se
fossi in me?” riesce a chiedergli dopo aver pianto tutte le sue lacrime.
Umberto è ancora
fermo accanto all’armadio, le braccia lungo i fianchi, gli occhi neri spenti e
vuoti.
Camila alza il capo
per guardarlo meglio. “Cosa faresti al mio posto?”
“Tornerei in
Basilicata,” risponde lui, pronto. “Non capisci che è
la cosa migliore per tutti? Non capisci che è l’unica cosa da
fare?”
La cosa migliore per tutti. Per Davide e per
la sua famiglia, forse, ma non per me.
Eppure devo andarmene. Devo andarmene, se
voglio proteggerli. Devo tornare in quell’inferno e arrendermi ad una morte
lenta, quotidiana, inesorabile. Mi spegnerò giorno dopo giorno, ma così facendo
salverò Davide e la sua famiglia.
Camila si asciuga
le guance con i palmi delle mani, e trova la forza per alzarsi in piedi.
“Devi promettermi
che a loro non accadrà niente,” dice tremando. “Devi
promettermi che li lascerete in pace, sempre. I Falco non sanno niente di me,
niente. In questi tre anni non ho mai parlato con nessuno, proprio per non… per
non attirare l’attenzione. Io verrò con voi, tornerò in Basilicata, e voi li
lascerete in pace. Promettimelo. Giuralo.”
Umberto annuisce. “Te lo prometto. Neanche noi vogliamo attirare l’attenzione.
I Falco non saranno toccati.”
“Giuralo,” dice lei, il mento che trema per via di un nuovo pianto
in arrivo. “Giurami che non gli farete nulla.”
“Te lo giuro,” ribatte lui. “Te lo giuro.”
Camila annuisce,
abbassando le spalle. Arrendendosi definitivamente.
Non lo vedrò mai più. Non avrò mai più la
possibilità di raccontargli chi sono, di dirgli cosa provo, di illudermi di
poter essere felice con lui. E’ stata solo un’illusione: questi tre anni, i
Falco, i soldi messi da parte per scappare in Brasile. Potrò utilizzarli, prima
o poi? Avrò mai l’opportunità di scappare di nuovo, o avrò davvero un
guinzaglio al collo? Quanto tempo passerà prima che mi trasformi in una schiava
a tutti gli effetti?
“Che c’è?” chiede
Umberto. “A che pensi?”
La guarda con le
sopracciglia corrucciate, come se potesse in qualche modo avvertire il suo
tormento interiore.
Camila ricambia lo
sguardo, rimanendo in silenzio per qualche istante. “Ho sempre pensato di
meritare di più,” dice ad un certo punto. “Fin da
quando ero bambina, fin da allora. Pensavo che… Pensavo che a me sarebbe andata
meglio di come è andata per mia madre e mio padre.” Le
lacrime le bagnano i capelli, le labbra, il colletto del cappotto. “Sposare te
è stato lo sbaglio più grande della mia vita,” dice.
“Tornerò con te, sarò la tua schiava, ma ricordati questo: sposare te è stato
il mio più grande sbaglio.”
In qualche modo, le
parole di Camila arrivano dritte all’animo di Umberto. Lo turbano, lo fanno
sentire sporco. Camila se ne accorge, e sta per parlare di nuovo, ma il rumore
di un’auto li allontana dal luogo in cui stavano andando entrambi. Un luogo
che, forse, avrebbe potuto cambiare le cose.
“Sono tornati,” dice lui, lievemente allarmato. “Resta qui.”
La lascia nella
stanza, chiudendo la porta a chiave e raggiungendo gli altri. Camila si
avvicina di nuovo al legno, cerca di origliare. Per un lungo minuto non sente
nulla, ma poi le grida arrivano anche a lei.
Carmelo impreca,
qualcuno sbatte violentemente qualcosa. “Lo sapevo, lo sapevo!”
“Ce ne dobbiamo
andare… subito…” Federico. “Adesso… Polizia… merda, merda!”
C’è la Polizia? La Polizia mi ha trovata? Davide ha contattato la Polizia?
Altre voci, Camila
cerca di ascoltare ma non capisce tutto.
“…convinta, l’ho
convinta.” E’ Umberto. “Tornerà con noi, ora dobbiamo solo andarcene… a posto…
promesso…”
“…cambia tutto, non
hai capito? Se c’è una denuncia… rapimento… un rischio…”
“E’ troppo, è
troppo.” Carmelo. “Non doveva… così… Dovevamo sistemarla subito… Così è troppo…”
Che cosa è successo? Perché dicono che è
troppo? Di cosa parlano?
“Andiamocene…” Di
nuovo Umberto. “Portiamola con noi… convinta… non ci sarà bisogno di…”
Di cosa? Di cosa? Non ci sarà bisogno di
cosa?
Le voci si
allontanano, ma anche se Camila non può capire ciò che i tre dicono, sa che
sono agitati, sa che qualcosa è cambiato. La Polizia ha scoperto dove l’hanno portata?
Qualcuno li ha denunciati? Qualcuno li ha visti rapirla dalla strada in cui
passeggiava con Bilbo?
Camila si allontana
dalla porta e inizia a camminare nervosamente avanti e indietro.
Ho accettato di andarmene. Ho accettato di
tornare in quel posto. Non possono farmi nulla, giusto? Se avessero voluto
farmi del male l’avrebbero fatto immediatamente.
Ma allora perché non si decidono? Perché
sono insicuri, perché litigano?
Ad un tratto le
grida sono di nuovo vicine, per cui Camila torna alla porta.
“Tu non sei
lucido!” grida Carmelo. “E’ tutta colpa tua se siamo arrivati a questo!”
“No,
no! Voi
non potete, no!” Umberto grida qualcos’altro, ma Camila non riesce a sentirlo.
Sente però un rumore, come di un mobile spostato con violenza. Qualcuno
impreca, forse lo stesso Umberto. “Non possiamo, no!” grida ancora.
“Lo
faccio io. Ci penso io.”
Federico. Le sue parole viaggiano nell’aria e oltrepassano il legno della
porta, fino al cuore di Camila.
Ci penso io.
I passi degli
uomini che si avvicinano alla sua porta sono solo un sottofondo al battito
forsennato del suo cuore. Il rumore della chiave nella toppa è lontano e perduto.
La porta si apre
con un movimento rapido, sbattendo con violenza sul muro.
La prima cosa che
Camila vede è Federico. La seconda è la pistola che l’uomo ha in mano.
Dietro di lui,
Carmelo trattiene Umberto, il quale grida il nome di Federico, del capo,
intervallato da imprecazioni e oscenità.
“Mi dispiace,” dice Federico, unendo alle parole un sorriso macabro.
E’ in quel momento
che Camila avverte una sensazione mai provata prima, una sensazione mai provata
in tutta la sua vita. E’ una sensazione di pura disperazione, di puro panico.
E’ la sensazione
provata da coloro che si trovano su un lago ghiacciato nel punto in cui la
lastra gelida si sta rompendo. E’ la sensazione che provano i condannati a
morte che si stendono sul lettino e si preparano all’iniezione letale.
E’ la sensazione
che provano tutti coloro che sono ad un passo alla morte.
Non esiste un nome
specifico per ciò che lei sta provando. Potrebbe chiamarsi panico, terrore,
disperazione, ma questi sarebbero termini insufficienti, deboli.
Ciò che Camila
prova adesso è qualcosa che la scuote e la paralizza al tempo stesso. E’ la
consapevolezza mista alla voglia di lottare per l’ultima volta; è il rifiuto,
da parte del corpo e della mente, di ciò che sta per accadere.
Si dice che quando
si sfiora la morte, quando si è ad un passo dall’ultimo respiro, tutta la vita
appaia davanti agli occhi come un rapido film fatto di immagini, suoni, voci.
La mente cerca di abbracciare il passato in quei pochi secondi che restano per
elaborare sensazioni, momenti felici, ricordi positivi.
Poi c’è chi si
ribella alla fine imminente, chi vuole lottare.
Come il condannato
a morte che cerca, fra i presenti, il volto di un parente o di un amico.
Come coloro che
sono ad un passo dal congelamento e cercano comunque di aggrapparsi al ghiaccio
o di nuotare verso l’alto. La realtà è lì, ad un passo, eppure l’istinto cerca
di andarle contro, di ribellarsi fino all’ultimo.
Camila però è
sempre stata diversa dagli altri. Sempre, fin da quando era una bambina.
I suoi genitori vivevano
come barboni, mentre lei era l’unica a cui interessava la pulizia, il decoro.
Lei era l’unica a cercare sempre il sapone e l’acqua corrente per lavarsi. In
Germania, quando le adolescenti che vivevano nel suo palazzo uscivano per
godersi la loro età, lei rimaneva in casa a pulire, preparare la cena, rifare i
letti e lavare il bucato. Anche allora era diversa. Si occupava della sua
famiglia, dei suoi genitori. Lo ha fatto quando ha iniziato a lavorare dai
Bauer, lo ha fatto quando loro pensavano ad oziare e a litigare.
Camila è stata una
bambina diversa, un’adolescente diversa, una figlia diversa, una moglie
diversa.
Diversa dalle mogli
di Carmelo e Federico, ad esempio, le quali hanno
sempre taciuto, ubbidito, abbassato la testa.
La sua diversità l’ha
resa orfana, vedova. Sola, priva di amici, priva di aiuto.
E’ diversa anche
ora, Camila, ora che sa che è ad un passo dal sipario nero.
Lei non rivede la
sua vita, no. Lei non rivede tutti i ricordi, tutte le voci, tutti
i volti di coloro che hanno fatto parte della sua vita. Lei vede solo
ciò che ha amato. Lei vede solo ciò che ama.
Lei vede solo le
persone che le hanno dato amore, le persone con cui ha sorriso, le persone che
– anche se per poco tempo – hanno reso la sua vita
migliore.
Camila rivede il
signore e la signora Bauer. Rivede se stessa, nello studio del dottore tedesco,
durante una delle ultime visite dopo la terapia a base di vitamine. Si vede
sorridente, accanto alla signora Bauer, che le fa i complimenti perché la
ragazza dinoccolata può finalmente camminare dritta.
Camila rivede, ed è
strano perché fino a questo momento non ricordava neppure dell’esistenza di
quelle persone, le commesse del supermercato di Carovigno, che la lasciavano
girovagare nelle corsie senza temere che potesse rubare dolciumi e biscotti.
Camila rivede
Davide. Lo vede bambino, con i capelli biondi e il viso paffuto. Vede le sue
orecchie a sventola, vede le scarpe di Priscilla e le barrette al cioccolato
nascoste sulla finestra delle docce, dietro il flacone di docciaschiuma. Vede e
ricorda la prima sera a casa dei Falco, quando Simona le ha affidato la sua
cucina. Vede il sorriso caloroso di Giancarlo quando le ha dato il primo
assegno. Vede le barrette nascoste in casa, vede se stessa e Davide a cena
fuori.
“Non lo vedrò mai
più,” dice, piangendo. Lo dice come se tradurre il
pensiero in parole potesse affievolire il dolore. “Non gli
dirò mai che lo amo. Non glielo dirò mai.”
Pensa a Bilbo.
Pensa ai capelli biondi di Priscilla, e alle risate con Simona. Pensa all’amore
che ha ricevuto e a quello che non ha fatto in tempo a dare. Pensa al desiderio
espresso sulla torta al cioccolato, un desiderio che non realizzerà mai.
Non voglio morire così. Non voglio morire.
Voglio vivere.
“Non lo fate,” dice, gli occhi appannati a causa delle lacrime, il corpo
una foglia al vento. “Vi prego, vi prego. Ti prego,
Umberto. Ti prego. Verrò con voi, farò tutto quello che volete.”
“Vai tu,” dice Federico.
Camila non capisce
cosa succede, a causa della vista compromessa dalle lacrime, ma ad un tratto
senta due mani sulle braccia, due mani che la bloccano. “Ferma.” La voce è
quella di Carmelo. “La tengo io,” dice a Federico.
A nulla valgono le
sue grida. A nulla vale il suo tentativo di liberarsi da Carmelo. Tutto accade
in un attimo.
Questo è l’ultimo capitolo di ‘Ti Ricordi Di Me?’. Fra domani e dopodomani posterò anche
l’epilogo. No, non ci saranno extra. No, non ci sarà un seguito.
L'ultimissima parte di questo capitolo è
scritta in prima persona.
Davide viene a
sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua
famiglia sono seduti a tavola, a cena.
Per tre giorni di
fila, il ragazzo ha telefonato all’ispettore a cui ha denunciato la sparizione
di Camila, chiedendo informazioni. Tutto ciò che ha sempre ricevuto in risposta
è stato un: Al momento non abbiamo novità. La stiamo cercando. Non appena
sapremo qualcosa vi contatteremo.
Per tre giorni, i
Falco si sono chiusi in un’atmosfera cupa, muta, nera.
Davide è tornato
due volte a casa di Camila, solo per sapere da Alessia che Camila non è mai
rientrata, e che né lei né Ida l’hanno più rivista. Priscilla ha cercato di
essere ottimista, parlandogli di come la gran parte della gente scomparsa viene
subito ritrovata.
Simona e Giancarlo
si sono comportati da adulti. Hanno pregato Davide di avere fiducia nella
Polizia, lo hanno obbligato a mangiare anche quando lui non aveva fame, gli
hanno consigliato di uscire a distrarsi con i suoi amici. Ma ad eccezione delle
due volte in cui ha attraversato la città per andare a casa di Camila, Alessia
e Ida, Davide non ha mai lasciato il suo appartamento.
E’ rimasto in casa,
spostandosi dalla sua camera al salotto, alla cucina, al terrazzo. Rimanendo
accanto al telefono, pronto a rispondere ad ogni primo
squillo. Si è occupato di Bilbo, portandolo a spasso più volte nell’arco
della giornata, ma per periodi brevi, in modo da non rimanere troppo lontano
dal telefono. Ha abbandonato i libri, ha ignorato le chiamate e i messaggi gli
amici.
Ha raccolto i
vestiti di Camila dal pavimento della sua stanza e li ha piegati ordinatamente,
solo per poi afferrarli e stringerli a sé due minuti dopo.
Lunedì mattina,
Simona gli ha parlato. “La troveranno,” gli ha detto.
“Vedrai, Davide. Andrà tutto bene.”
“E se non dovesse
andare bene?” ha risposto lui. “Se non dovessero trovarla mai?”
Simona ha letto lo
smarrimento e la disperazione sul viso di suo figlio, per cui ha appoggiato sul
tavolo i piatti che aveva in mano e gli è andata accanto, accarezzandogli i
capelli. “La troveranno,” ha ripetuto. “Me lo sento.
Camila è una ragazza splendida,” ha detto, “non può
esserle successo nulla di grave. Devi rimanere tranquillo, Davide. Devi cercare di rimanere calmo.”
Davide si è
lasciato accarezzare e coccolare dalla madre, bisognoso di rassicurazioni e di
affetto. “Posso raccontarti come ci siamo conosciuti?” ha detto poi.
“Pensavo che ce lo
avessi raccontato ieri, quando siamo rientrati dalla Sardegna.”
“Sì,
ma voglio rifarlo.
Voglio raccontarlo a te… senza… senza Giancarlo.”
“Va bene,” ha risposto la madre. Si è seduta al suo fianco e gli ha
preso la mano. “Raccontami tutto.”
Trenta minuti dopo,
Simona si è alzata per prendere un fazzoletto e asciugarsi gli occhi. “Perché
non me ne hai mai parlato?” ha chiesto a suo figlio, con un tono più materno di
quello usato il giorno prima. “Perché ti sei tenuto tutto
dentro? Io e tuo padre saremmo intervenuti, a Carovigno,” ha detto. “Ci saremmo informati,
avremmo contattato i servizi sociali. Era solo una bambina,” ha detto asciugandosi gli occhi. “E tu l’hai aiutata, tu
le hai portato le scarpe di tua sorella.” Lo ha abbracciato, continuando a
commuoversi.
“Ho sempre pensato
che la vita non debba essere stata facile per lei,” ha
detto Simona dopo un po’. “Avrei voluto sapere prima queste cose, Davide,
perché come quando eravate bambini… avrei potuto aiutarla. Perché ha lasciato
suo marito, te l’ha mai detto?”
“No. Non ne ha mai voluto parlare.”
Simona ha
riflettuto sulle infinite possibilità: un marito violento, una separazione
dolorosa, un grave lutto che li ha portati a dividersi.
“Hai raccontato
tutto alla Polizia, vero? Non hai nascosto niente.”
“Certo,” ha risposto il ragazzo. “Papà diceva sempre che se vuoi
aiuto dalle forze dell’ordine devi dire la verità.”
“E’ vero,” ha detto Simona. “E’ così. La troveranno,” ha ripetuto poi la donna, cercando di sorridere a suo
figlio. “Ne sono certa. Andrà tutto bene.”
Davide viene a
sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua
famiglia sono seduti a tavola, a cena. La tv è sintonizzata sul telegiornale,
ma nessuno sta ascoltando con attenzione. Gli unici rumori presenti nell’aria
sono quelli delle forchette nei piatti.
“…ed ora passiamo
alla cronaca e al tragico ritrovamento del cadavere di una donna di origini
brasiliane, Camila Romano, nel lago di Sabaudia. La donna sembra essere stata
uccisa da un colpo al cuore. Gli inquirenti setacciano la zona alla ricerca di
indizi. Vediamo il servizio.”
La prima forchetta
a cadere nel piatto è quella di Giancarlo. Priscilla si alza di scatto per
prendere il telecomando ed alzare il volume. Davide resta immobile.
“E’ proprio qui,
sulla riva del Lago di Sabaudia, all’interno del Parco Nazionale del Circeo,
che il corpo di Camila Romano, 32 anni, è stato ritrovato all’alba di questa
mattina.” Le immagini mostrano il lago, quattro o cinque
uomini fermi in un punto, attorno ad un sacco nero adagiato sull’erba.
“Camila Romano era scomparsa da Roma tre giorni fa, in circostanze ancora da
chiarire. Il corpo della donna era riverso nel lago, ed è stato ritrovato da…”
La voce del
giornalista diventa immediatamente un sottofondo, per Davide. La sua mente
prende a lavorare velocemente.
E’ morta. Camila è morta.
Trentadue anni. Hanno detto che ha trentadue
anni. Aveva. Aveva trentadue anni.
Li ha festeggiati con me. Le ho detto Ti Amo.
E’ morta. Non la vedrò più. Mai più.
“Davide…” La voce
di Simona è un soffio, eppure riesce a coprire quella del giornalista. La donna
gli è accanto, abbracciandolo senza che lui se ne renda immediatamente conto. “Giancarlo, spegni tutto. Subito. Davide, tesoro.”
Lo abbraccia, gli accarezza i capelli biondi.
Davide sente
spostarsi la sedia su cui è seduto, ma non si rende conto che a spostarla è
lui, per consentire a Simona di avvicinarsi.
“E’ impossibile…”
“Forse non è lei,
forse c’è stato uno sbaglio…”
“Non è possibile…”
continua a ripetere Priscilla.
“La Polizia ci chiamerà,” dice Giancarlo. “Ci spiegheranno tutto.”
“Hanno detto che
l’hanno uccisa. Hanno detto che è morta per un colpo…”
“Smettetela, maledizione,” sibila Simona, mentre abbraccia Davide. “Smettetela.”
Davide si copre le
orecchie con entrambe le mani e continua a fissare le verdure arancioni nel suo
piatto. Si concentra sui cerchi semi-perfetti dell’olio, sugli schizzi verdi
del prezzemolo.
Lo fa sperando di
arginare la realtà, di allontanare il dolore.
“Davide, tesoro…”
Sua madre cerca di dargli conforto, ma sa (come lo sanno Priscilla e Giancarlo)
che è inutile.
“Davide…” Priscilla
gli si avvicina, facendosi spazio fra il tavolo, le sedie e sua madre. “Davide,
vieni con me,” dice. “Andiamo… Andiamo… Andiamo a
portare Bilbo, andiamo con…”
Non sa neanche lei
come parlargli. Non sa neppure lei cosa dirgli.
Gli anni sono
passati, ma il ricordo di un’altra tragica notizia è ancora fresco in loro, e
Priscilla lo ricorda bene.
Il giorno in cui
seppero della morte del padre, Davide e Priscilla reagirono diversamente.
Priscilla pianse, Davide no. Quando Simona comunicò
loro la notizia, tutto ciò che Davide disse fu ‘Come?!’.
Non pianse, il bambino. Non lasciò cadere neppure una
lacrima.
Sebbene il dolore
per la perdita di suo padre sia rimasto lì per 15 anni, Davide non è mai stato
aperto e pronto a mostrare la sua sofferenza. Ogni volta che Priscilla cercava
di portare a galla qualche ricordo, qualche aneddoto divertente, Davide fingeva
sempre di non ricordare, o di avere di meglio da fare. Per anni, Simona e
Priscilla hanno commentato con preoccupazione il suo chiudersi totalmente al
dolore, e adesso che Camila è morta… adesso temono che lui possa fare la stessa
cosa.
“Vieni con me,” gli dice sua sorella. “Andiamo, vieni.”
“No,” dice lui, la prima parola da quando ha ascoltato le
parole del giornalista. “No.”
Si libera
dell’abbraccio della madre e sposta la sedia indietro per potersi alzare. “No,” ripete.
Solleva lo sguardo
sulla sua famiglia. “Vado in camera mia,” dice.
“Davide, tesoro…”
“No, mamma.” Si
allontana dalla sua presa con uno scatto, violento a dispetto della
tranquillità che c’è nella sua voce. “Vado in camera mia,”
ripete.
Ciò che Davide
prova mentre lascia il salone e si avvia alle scale non è traducibile in
parole. Una parte della sua mente gli chiede di lasciarsi andare al dolore che
lo sta mangiando dall’interno. Una parte di sé lo supplica di rompere qualcosa,
di gridare, di piangere e di reagire.
L’altra parte,
invece, gli dice che è tutto un sogno, che quelle ascoltate al telegiornale
sono parole di fantasia, parole inventate.
Non può essere morta. Sì, è morta.
Non la rivedrò mai più. Non è vero, la
rivedrai ancora.
Non sono stato capace di proteggerla. E’
colpa mia. Non è colpa tua. Camila sta bene.
Quando si chiude la
porta della sua camera alle spalle, Davide nota immediatamente i vestiti di lei
appoggiati su una sedia, piegati e ordinati. Si siede sul letto e li prende per
accarezzarli, per stringerli.
Li indosserai di nuovo. Non li indosserai
più.
E’ tutta colpa mia. Sarei dovuto andare io
con Bilbo.
Sei morta. No, non sei morta.
Le due parti di lui
gli fanno compagnia per qualche minuto, cullandolo in uno stato di pura e finta
tranquillità. Non appena pensa alla morte di Camila, la mente di Davide elabora
qualcosa per convincerlo del contrario, per convincerlo che non è morta, che
tornerà presto, che la Polizia
la ritroverà.
Ma poi, ad un certo
punto, Davide si rende conto di una cosa. Una cosa semplice e allo stesso tempo
terrificante. Non sentirò mai più la sua
voce. Non vedrò più il suo sorriso.
In quel momento, la
mente non riesce a contrapporre nulla. In quel momento, Davide capisce che Camila
è morta davvero. Che non la vedrà più. Che niente e nessuno potrà cambiare le
cose.
Si stende sul
letto, i vestiti di lei ancora fra le mani, e comincia a piangere.
Piange fino a
tremare, fino a singhiozzare, fino a farsi sentire al piano di sotto.
Piange fra le
braccia di sua sorella prima e di sua madre poi.
Piange e non
ascolta ciò che loro gli dicono. Non riesce a farlo, non può farlo.
Continua a tenere i
vestiti con sé per tutta la sera, per tutta la notte. Li tiene a sé anche
quando Simona e Giancarlo vanno a portargli un tranquillante, ed è Giancarlo
che lo aiuta a sollevarsi per bere.
Sua madre gli
chiede di calmarsi, ma lui non può sentirla. Giancarlo piange con lui, per
pochi istanti, ma Davide non può vederlo. Priscilla lo
copre con un plaid e resta a guardarlo per due ore, in attesa che la medicina
faccia effetto, ma Davide non se ne rende conto.
E’ tutta colpa mia. E’ morta per colpa mia.
Avrei dovuto proteggerla. Avrei dovuto portare io Bilbo. Sono rimasto qui, e
lei è morta. La mia Camila. L’ho persa per sempre. L’ho persa per sempre.
Perché? Perché proprio lei? Perché proprio a me? Non la vedrò mai più. Mai più.
Che succederà adesso? Che ne sarà adesso di me?
Ad un certo punto
si addormenta, sfinito dal pianto e aiutato dal tranquillante.
Priscilla non se la
sente di portargli via i vestiti di Camila, l’unica cosa che gli resta di lei.
Si limita ad
accarezzargli i capelli, bagnandoli con le sue stesse lacrime mentre gli lascia
un bacio sulla fronte. Vorrebbe dirgli qualcosa, vorrebbe confortarlo, ma sa
bene, Priscilla, che la pace ed il conforto arriveranno solo dopo le lacrime.
Sa bene, Priscilla, che il momento delle lacrime è appena
iniziato.
***
Il giorno
successivo, giovedì, i Falco vengono interrogati dalla Polizia.
Davide non è presente.
I tranquillanti lo hanno messo fuori uso, facendolo dormire profondamente per
tutta la notte e per tutta la mattinata.
L’ispettore che ha
raccolto la denuncia di scomparsa si reca all’appartamento nel primo pomeriggio
e fa loro diverse domande circa il passato di Camila e la sua sparizione. Simona
e Giancarlo ripetono all’ispettore ciò che sanno e chiedono informazioni sul
ritrovamento e sulle cause della morte. Apprendono che è stato un colpo al
cuore ad ucciderla. Apprendono che sembra si sia trattato di una
esecuzione. Apprendono che la
Polizia sta seguendo delle piste, ma che al momento non
possono parlarne con nessuno.
Apprendono che i
funerali potranno essere celebrati solo dopo l’autopsia, e che saranno i
genitori di Camila, contattati durante la notte, ad occuparsene. A dispetto del
rapporto con i Falco, dice l’ispettore, e a dispetto dell’intenzione di
Giancarlo e Simona di finanziare tutte le spese, la vera famiglia di Camila è composta dai genitori e dal marito.
Quando Priscilla
chiede del marito di Camila, l’ispettore cambia discorso.
L’uomo chiede di
parlare con Davide, ma Simona si rifiuta di andarlo a
svegliare. Non vuole che suo figlio sia sottoposto ad un nuovo stress, per cui
chiede all’ispettore di rimandare il colloquio col ragazzo. L’ispettore
accetta.
I Falco fanno nuove
domande, in particolare Giancarlo. Qualcuno
l’ha portata via da qui domenica mattina, vero? Come ci è arrivata a Sabaudia?
Quanto tempo occorrerà per l’autopsia? Vorremmo metterci in contatto con la
famiglia, come possiamo fare?
L’ispettore consiglia
a tutti di aspettare qualche giorno, prima di mettersi in contatto con i Romano. Questo è un momento terribile e delicato per loro,
ed egli crede che per il momento i genitori di Camila debbano essere lasciati
soli nel proprio dolore.
“Camila non ne
parlava mai,” dice Priscilla dopo che l’ispettore è
andato via. “Non parlava mai dei suoi genitori.”
“Camila non parlava
quasi di nulla,” mormora Simona, seduta sul divano
accanto a suo marito.
“Avremmo
dovuto capire che qualcosa non andava. Non si può morire in questo modo senza che dietro ci sia
qualcosa di brutto,” aggiunge Giancarlo.
Per qualche minuto
restano tutti in silenzio. Ad un certo punto, quando Bilbo si avvicina ai piedi
di Priscilla – un chiaro segno del suo bisogno di essere portato fuori –
Giancarlo si offre di accompagnarlo al suo posto. “Vado io,”
dice. “Ho bisogno di camminare.” Dà un bacio a Simona e uno, sulla guancia, a
Priscilla. “Restate qui. Davide potrebbe aver bisogno
di voi.”
***
Davide si sveglia
alle cinque del pomeriggio di giovedì. Impiega pochi secondi per capire dove si
trova, perché ha un plaid sulle gambe e perché stringe i vestiti di Camila fra
le mani.
Non è un sogno. Non ho sognato tutto.
E’ morta.
Pensarlo si traduce
in una lastra di ghiaccio che si posa rapidamente sul suo corpo.
Pensarlo è come
rivivere di nuovo il momento in cui ha visto il telegiornale, in cui ha sentito
quelle parole. Camila Romano. Morta.
Colpo al cuore.
“Davide.”
Il ragazzo scatta
come una molla, quando sente la voce di sua madre. Simona è seduta ai piedi del
letto, nella penombra della camera.
“Mamma.”
Davide si mette a
sedere lentamente, strofinandosi gli occhi. Pungono, e lui sa bene perché.
Ricorda le lacrime, ricorda di aver bevuto qualcosa grazie a Giancarlo.
“Mi avete dato un
calmante” è ciò che dice a Simona, la quale lo osserva con un
tazza fumante fra le mani.
La donna annuisce.
“Per farti dormire e per farti… per farti calmare.”
Davide si gira in
modo da mettere i piedi a terra. Indossa ancora le scarpe. Per la prima volta
dalla sera precedente, lascia andare i vestiti di Camila; li sistema accanto al
cuscino.
“Tieni,” dice Simona. “E’ camomilla, ti manterrà caldo e calmo.”
Lui l’accetta, ma
non beve. Non ha sete, non ha voglia di assaporare niente. Chiude le mani
attorno alla tazza, lasciando che il calore lo aiuti a rilassarsi.
Simona si siede
accanto a lui, scostando il plaid per potergli accarezzare la schiena.
“Non sapeva fare le
barchette,” dice Davide ad un tratto. Simona aspetta
che continui. “Le barchette di carta,” aggiunge.
“Nessuno le aveva insegnato a farle quando era piccola. Non sapeva farle.
Dovevo insegnarglielo io,” dice. “Domenica mattina…
Domenica mattina dovevo insegnarle a fare le barchette di carta.”
La tazza trema fra
le sue mani, ma Simona non dice nulla.
Davide osserva il
parquet per qualche istante. Le pieghe precise del legno, i listoni più chiari
e quelli più scuri, il taglio spezzato in corrispondenza della parete e della
porta. E’ chiusa, e da essa filtra la luce arancione del corridoio.
“Non mi resta
niente,” riprende lui dopo un po’. “Non ho niente di
lei. Non so niente di lei.” Gli occhi
marroni sono gonfi e lucidi. Le labbra screpolate e arrossate. “Non saprò mai nulla di Camila. Non le parlerò mai più.” Si
gira verso sua madre. “Che cosa devo fare?” chiede. “Come si
fa… come faccio adesso? Come hai… come hai superato la morte di papà?”
Simona ingoia il
nodo che le chiude la gola e scuote il capo prima di parlare. “Non l’ho
superata,” dice sotto voce. “Certe cose non si possono
superare, Davide. Mai.” Gli accarezza i capelli e il
viso, notando come la sua pelle chiara sia fresca. “Non c’è un modo per
superare la morte della persona che ami,” continua.
“Non c’è. Col tempo il dolore si affievolisce, le cose cambiano, ma non si
dimentica mai.”
Le lacrime scivolano
sulle sue guance, e lei non le ferma. “Io ho avuto voi,”
dice. “Ho avuto te e tua sorella. Tu e Priscilla mi avete aiutata. E’ per voi
che… è per voi che non mi sono lasciata andare. Non potevo, non potevo annegare
nel dolore. Dovevo occuparmi di voi, dovevo essere forte per voi. Avevo i miei
figli ed è stato come continuare ad avere mio marito. Una parte di lui è sempre
rimasta con me, in voi, e questo mi ha aiutata a non impazzire, a trovare la
forza per andare avanti, per ricominciare. Nonostante questo, però, certi
dolori non passano mai del tutto,” dice scuotendo il
capo. “Possiamo solo adattarci, cercare di imboccare la strada meno dolorosa
per andare avanti, cercare di trovare una nuova ragione per andare avanti. Ma
qui, dentro l’anima, qui non passa mai.”
“Io non ho nulla di
lei,” dice Davide, tremando non solo nel corpo, ma
anche nella voce. “Tu avevi noi, mamma. Io non ho… io non ho niente.”
“Tu hai i ricordi,” dice subito Simona. “Tu hai i ricordi, Davide, e quelli
non può portarteli via nessuno. Le persone spariscono e muoiono,” dice con un singhiozzo causato dal pianto, “ma i ricordi…
quelli non spariscono. Quelli restano con te per sempre, anche quando le
persone non ci sono più.”
Si avvicina per
dargli un bacio sui capelli e sulla guancia. “Non passerà,”
sussurra, “non subito, almeno… ma andrà meglio. Non ora, non domani, non fra
una settimana o fra un mese. Ma andrà meglio. Non ti dirò che sei giovane e che
hai tutta la vita davanti per innamorarti e per essere felice. No. Ti dirò che
andrà meglio, tesoro. Ti dirò che ci sarò sempre per te e che in qualsiasi
momento vorrai parlare, o piangere, o gridare, o… o ricordare… io ci sarò
sempre per te. Sempre.”
***
Due giorni dopo,
sabato, Davide riceve una visita inaspettata, quella di Alessia.
La serata di
giovedì e l’intera giornata di venerdì sono passati in una nebbia fatta di
poche parole, molte tazze di camomilla e due dosi di tranquillanti. Priscilla
gli è stata accanto, cercando di distrarlo e di farlo sorridere, ma i tentativi
della ragazza non sono andati a buon fine. Perfino Bilbo, il quale si è
lanciato verso il suo padrone non appena lo ha visto riemergere dal piano
superiore, non è riuscito a far spostare l’attenzione di Davide da Camila e
dalla sua morte.
“Ciao,” gli dice Alessia quando lo vede seduto su una delle
poltrone del salotto. Davide sposta lo sguardo verso di lei e cerca di
sorriderle.
“Ciao.”
Simona, che ha
aperto la porta alla ragazza e l’ha accompagnata in salotto, chiede ai due se
desiderano qualcosa da mangiare o da bere.
“No, grazie,” dice Alessia. “Sto bene così.”
“Tu, Davide? Vuoi qualcosa?”
Lui scuote il capo.
“Va bene. Io torno
in cucina a preparare il pranzo. Se avete bisogno di me sono di là,” dice Simona. E poi aggiunge: “Alessia,
puoi lasciare quella valigia all’ingresso, se vuoi. Bilbo
non la distruggerà, tranquilla.”
“No,” risponde la ragazza. “Meglio di no. Qui… qui c’è… Questa
valigia è per Davide.”
“Oh. D’accordo,
allora. Vi lascio… vi lascio soli.”
Alessia parcheggia
il trolley con cui ha attraversato Roma, in metropolitana prima e sull’autobus
poi, accanto al divano, sedendosi sul cuscino più vicino alla poltrona su cui si
trova Davide.
Lui osserva il
trolley. “E’ per me?” chiede, risvegliandosi magicamente dal torpore che lo
accompagna da giorni. “Che cos’è?”
“Mi dispiace,” dice Alessia, torturandosi le dita.
Indossa un
giubbotto nero e un paio di jeans chiari. I capelli biondi sono sciolti e
disordinati, il viso privo di trucco.
“Mi dispiace per
Camila,” ripete, strofinandosi il naso.
Davide non sa cosa
dire, per cui si limita a spostare lo sguardo verso il tavolino di vetro su cui
di solito sono appoggiate le riviste.
“L’ho saputo giovedì
mattina,” continua Alessia. “Me l’ha detto Ida, a dire
il vero, io non guardo mai il telegiornale e non leggo i giornali. Mi dispiace
tanto, Davide. Mi dispiace ta-”
“Che c’è in quella
valigia?” chiede il ragazzo, improvvisamente infastidito dalle parole di
Alessia.
Non vuole il suo
dispiacere, non vuole che sia dispiaciuta per Camila. Lei e Ida l’hanno sempre
trattata male, e ora è dispiaciuta perché è morta?
Prima di alzarsi
dal divano, Alessia usa un fazzolettino per asciugarsi il naso. Afferra il
trolley con una mano e lo sistema a terra, accanto alla poltrona. Si piega
sulle ginocchia per aprirlo, facendo scorrere la cerniera da un lato all’altro.
Solleva la parte superiore della valigia verso di sé, in modo da permettere a
Davide di osservarne il contenuto.
“Sono fotografie,” dice, le lacrime che grattano la gola inesorabilmente. “Erano
nel baule in camera di Camila, quello che non sei riuscito ad aprire. C’è anche
una macchina fotografica. Sono bellissime, Davide. Credo che… credo che Camila
fosse una fotografa, oppure… oppure le piaceva tanto fotografare. Sono bellissime.”
Davide scivola
dalla seduta della poltrona sul pavimento, per osservare da vicino ciò di cui
parla Alessia. Nel trolley vi sono decine e decine di foto, sistemate in un
sacco di plastica trasparente. Le sue mani tremano quando prova ad aprire
l’involucro.
“Erano… erano nel
baule?” chiede. “Come hai fatto… come lo hai aperto?”
“Mi ha aiutata Ida,” risponde Alessia, un timido sorriso sul suo volto. “Suo
padre ha un negozio di ferramenta a Benevento, ricordi? Ida sa aprire qualsiasi
cosa, ha un kit di cacciaviti e tenaglie con cui potresti anche-”
“Perché le hai
portate a me?” chiede lui. “La
Polizia… la
Polizia non è venuta all’appartamento? Queste potrebbero…
Queste foto potrebbero…”
“Questo
foto sono solo delle foto,” dice Alessia, appoggiando una mano sulla
spalla di Davide. “La Polizia
è venuta giovedì sera. Un ispettore ci ha fatto delle domande su Camila, sulla
gente che frequentava, sulle sue abitudini in casa. Non si sono preoccupati del
baule, Davide. Non hanno neppure curiosato fra le sue cose, nel suo armadio.”
“Perché?”
“Non ne ho idea,” dice Alessia. “Probabilmente torneranno nei prossimi
giorni. Non lo so.”
La ragazza si alza
da terra e si siede sul divano. “Mio padre non vuole che viva più in quel
palazzo,” dice. “Secondo lui non è
un posto sicuro. Dovrò cambiare casa nelle prossime
settimane, e quindi… tutte le cose di Camila… Ho pensato che…” Si ferma, cerca
di deglutire ma non ci riesce.
Abbassa gli occhi
per non mostrarsi debole, per non fargli capire che sta per scoppiare a
piangere.
“Mi dispiace,” ripete. “Mi dispiace tanto.” Usa di nuovo il
fazzolettino, stavolta per asciugarsi gli occhi. “Tu eri il suo ragazzo. Le sue
cose dovresti averle tu, quindi. I suoi vestiti, le sue fotografie… Noi non… Mi
dispiace,” ripete, piangendo ora senza riuscire a trattenersi.
Alza gli occhi per guardarlo. “Mi dispiace, Davide. Io
e Camila… io non l’ho mai… L’ho sempre trattata male,”
dice, la voce distorta dal pianto. “Non ho mai pensato che
lei potesse… Queste foto… Queste foto sono bellissime, Davide. Le ho
viste,” dice, “le ho viste tutte, e Camila… Mi
dispiace di averla trattata in quel modo… La chiamavo pazza…” dice fra i
singhiozzi. “Chi l’ha uccisa? Perché l’ha fatto? Lei non… Nessuno… Nessuno merita…” Non riesce ad andare avanti, non
riesce a continuare.
Davide non l’ha mai
vista piangere. L’ha vista sorridere, sedurre, godere, arrabbiarsi, perfino
preoccuparsi… ma non l’ha mai vista piangere. Il tremore che la scuote, ora, è
profondo e sincero, oltre che doloroso da vedersi.
“Mi dispiace di
averle detto quelle brutte cose,” dice Alessia ad un
certo punto. “E’ sempre stata sola. Non mi sono mai preoccupata di chiederle
come stesse, l’ho sempre presa in giro, e ora… ora non potrò mai chiederle
scusa. Queste foto… Devi tenerle tu,” dice. “E’ giusto
che le abbia tu. Nei prossimi giorni ti porterò anche i vestiti e tutto quello
che i genitori non hanno preso e-”
“I genitori?”
chiede Davide, parlando per la prima volta da diversi minuti. “I genitori di
Camila sono venuti all’appartamento?”
“Sì,” risponde Alessia, asciugandosi gli occhi con le dita. “Ieri
pomeriggio. Sono rimasti per dieci minuti, sono… Si sono comportati in maniera
strana,” continua la ragazza, ritrovando la voce. “Ci
hanno detto che erano la madre e il padre di Camila, sono entrati nella sua
stanza e si sono chiusi lì per un po’. Ida e io pensavamo che… Pensavamo che
volessero portare via i suoi vestiti, le sue cose… ma quando sono usciti…
quando sono usciti erano quasi arrabbiati, nervosi. Non hanno portato via nulla
e questo… e questo mi ha fatto… Perché non hanno portato via nulla? Ida ha
chiesto loro se avessimo potuto fare qualcosa per aiutarli, ma loro ci hanno
mandate a quel paese.”
“Che cosa?”
“Sì,” dice Alessia. “Ci hanno mandate a quel paese e sono
andati via. E’ in quel momento che sono tornata in camera di Camila e ho
cercato di aprire il baule. Volevo… Quando i suoi genitori si sono comportati
così, ho pensato che… Io sono stata…” Riprende a piangere, e stavolta Davide
prova una fitta di dolore nel vederla così distrutta. “Io sono stata cattiva
con Camila,” dice Alessia. “Ho sbagliato nel trattarla
male, ho sbagliato. Ma i suoi genitori… perché non hanno preso le sue cose?
Perché se ne sono andati quasi come se non vedessero l’ora di farlo? E’ come
se… è come se fossero venuti a cercare qualcosa, e quando non l’hanno trovato
se ne sono andati.”
“E hai deciso di
portare le fotografie a me…”
Alessia annuisce
subito. “E’ giusto che le abbia tu. Tu sei stato
l’unico… tu sei stato l’unico ad esserti occupato davvero di lei. Sei stato l’unico
ad averla trattata come si deve, mentre io… mentre io l’ho chiamata pazza. La
prendevo in giro perché mangiava tanto cioccolato e perché aveva l’armadietto
del bagno pieno di sapone. Chissà cosa nascondeva,”
dice fra le lacrime. “Chissà perché… perché è morta… Tu meriti di avere queste
cose,” aggiunge Alessia. “Non io, non i suoi genitori.
Non la
Polizia.”
“Alessia, io…”
Davide osserva le foto. Alcune sono in bianco e nero, ma la maggior parte è a
colori. Raffigurano paesaggi montani, rocce, fiori, piante. Le dita del ragazzo
scivolano sulla carta lucida fino a trovare uno scatto che raffigura Camila. Un
primo piano. Un autoscatto.
“Era così bella,” dice Alessia, notando la foto. “L’ho sempre pensato, ma
non l’ho mai detto perché… perché sono una stupida. Devi tenerle tu,” dice. “Devi tenere tu le sue cose perché…”
Ma Davide non la
sente più. I suoi occhi sono incollati sulla foto che ora ha fra le mani, un
primo piano a colori della sua Camila, della ragazza di Carovigno. I capelli le
coprono parte del viso, a causa del vento che probabilmente soffiava quando la
foto è stata fatta.
Camila sorride, i
suoi occhi azzurri brillano. Sembra più giovane, o forse più rilassata, più
felice.
“Grazie,” dice Davide, la voce roca a causa delle lacrime che si
fanno strada in lui. “Grazie per averle portate qui.” Osserva incantato le labbra
di Camila, le guance chiare, gli zigomi alti. “Grazie,”
ripete.
Davide resta a
guardare le foto di Camila anche dopo che Alessia va via. Le guarda una alla
volta, prima da solo e poi in compagnia della sua famiglia.
Case, oggetti,
paesaggi, ritratti, gruppi di persone. Nelle foto c’è di tutto. Nelle foto c’è
una parte del passato di Camila di cui Davide non ha mai saputo.
Scatto dopo scatto,
in lui nasce la sensazione che grazie a questo regalo inaspettato una parte
della donna che amava continuerà a vivere, con lui e nel mondo. Priscilla gli
chiede cosa farà con tutte le foto. Giancarlo risponde al suo
posto, dicendo: “Dovresti esporle, Davide. Organizzare una mostra in
memoria di Camila. Queste foto sono magnifiche. Magnifiche.”
Davide sente le
voci di tutti, ma non le ascolta sul serio. Guarda ogni foto con curiosità, con
una fame interiore, profonda. La fame di sapere, la fame di conoscere ciò che
non sa e che probabilmente non saprà mai.
Perché Camila scattava foto? Chi sono queste
persone? Perché non me ne ha mai parlato? Perché le teneva nascoste in quel
baule? Perché? Perché? Perché?
Le domande si
alternano alle lacrime e ai sorrisi. I Perché?fanno a gara con i Mi
Manchi e con i Ti Amo detti al
vuoto, detti ad una foto, detti ad un volto sorridente impresso su un foglio
per l’eternità.
I giorni passano, e
Davide impara lentamente che, così come sua madre gli aveva detto, i ricordi
non li cancella nessuno. I ricordi restano con noi anche quando le persone ci
lasciano, scompaiono, muoiono.
Camila è morta, ma
di lei rimarranno molte cose.
I suoi sorrisi,
nascosti, timidi e spaventati nella maggior parte dei casi.
La sua dolcezza,
infinita e smisurata.
La sua gentilezza e
il suo amore per il prossimo, un amore incondizionato e sempre genuino.
La sua voglia di
vivere, di migliorarsi e di rimanere sempre leale a se stessa, nonostante tutto
e tutti.
Le sue parole,
posate e sincere, discrete e gentili.
La sua dignità. Una
dignità che l’ha accompagnata fin da quando era una bambina alla ricerca di un
posto in cui lavarsi.
Di lei rimarranno
molte cose. In Davide e in tutte le persone che Camila ha incontrato nel corso
degli anni. Alessia, Ida, Priscilla, Simona e Giancarlo. Le famiglie per cui ha
lavorato, le vicine di casa della Basilicata, perfino i suoi genitori.
Davide ricorda le
cose più belle. I momenti che porterà con sé per sempre.
Li ricorda e li
ripete nella mente e nel cuore.
“Come ti chiami?”
“Camila.”
“Camilla?”
“No, Camila. Con una L.”
“Camila. Verrai
anche domani? Io verrò anche domani. Se vuoi… se vuoi posso portarti un’altra
barretta. Sono buone, sono le mie preferite.”
“No. Non
posso accettarle.”
“Perché? Priscilla non le usa, e
le tue sono rotte. Prendile.Vuoi una barretta? Sono buone, non è
vero?”
“Sei tu. Se la stessa Camila. Ti
ho riconosciuta subito. Camila, con una L.”
“Sono io.”
“E se io volessi parlarti di
nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera.Come possiamo fare?”
“Possiamo rivederci qui, domani
sera.E parlare
ancora.”
“Mi piace passare del tempo con
te, Camila. Mi piace il modo
in cui… Mi piace il modo in cui mi sento quando sono con te.”
“Non so cosa provi
quando siamo insieme… ma anche a me piace passare del tempo con te.”
“Mi stai dicendo che accetterai?Accetterai
il lavoro?”
“Sì.”
“Sabato è il tuo
compleanno. Non so se hai impegni, ma se non ne hai… lo passeresti con me?
Verresti a cena con me per festeggiare il tuo compleanno?”
“Mai nessuno… mai
nessun estraneo si era occupato di me o preoccupato per me. Diamine, neanche i
miei stessi genitori si preoccupavano per me. Quando camminavamo vicini si
scansavano, mi dicevano che puzzavo. Come se avessi delle colpe per il fatto
che non potevo lavarmi. Tu invece non l’hai fatto. Tu non ti sei mai
allontanato da me. Forse mi hai dato speranza. La speranza che le cose
potessero migliorare, che anche gli altri potessero interessarsi a me.Volermi bene.”
“Puoi farlo anche
adesso, Camila. Puoi scacciarmi. Ma anche stavolta mi vedrai tornare.Tornerò sempre per te, perché ti amo.”
“Non sono pronto a lasciarti
andare. Non stasera. Non
dopo questa sera.Vieni a casa mia.”
Abbiamo fatto
l’amore, quella sera. E’ stata lei a chiedermelo, è stata lei a prendere
l’iniziativa. Si è lasciata andare fra le mie braccia. Si è lasciata baciare e
spogliare. Si è lasciata condurre nel mio letto. L’abbiamo fatto lentamente.
L’abbiamo fatto senza smettere neanche per un secondo di baciarci.
E’ stata la mia
esperienza più bella, più intensa, più viva.
L’ho tenuta stretta
per ore, dopo. Accarezzandole i capelli, le labbra piene, la pelle morbida dei
fianchi. L’ho ascoltata mentre mi parlava. Le ho sussurrato che l’amavo.
“Non so fare le
barchette,” ha detto ad un certo punto.
“Le barchette?”
“Le barchette di
carta. Ho visto che ne hai un paio sulla scrivania.”
“Sì. Le faccio
sempre mentre studio, per distrarmi. Come sarebbe a dire che non sai farle? Non le hai mai fatte da bambina?”
“No,” ha risposto lei. Si è sollevata su un gomito, lasciando
una mano sul mio petto nudo. “Ci sono tante cose che non so
fare, tante cose che non ho mai imparato. Avrei voluto studiare, ad
esempio, ma non ho mai avuto la possibilità di-”
“Ti insegnerò a
farle,” ho detto prima di darle un bacio. “Ti insegnerò a fare le barchette. Farai tutto ciò che non
hai mai fatto, Camila. Te lo prometto.” L’ho attirata
a me, l’ho abbracciata.
Ci siamo amati,
quella notte, anche se lei non me l’ha detto.
L’avrebbe mai
fatto? Non lo saprò mai.
Non ti dimenticherò, Camila. Mai.
---
Scrivere questi ultimi capitoli non è stato
semplice. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.
Un ringraziamento completo arriverà con l’epilogo.
A domani/dopodomani.
Davide ne ha 41, ed
è cambiato molto da quando studiava per laurearsi, da quando viveva con la sua
famiglia.
E’ cambiato
fisicamente, tanto per cominciare. I capelli sono corti rispetto a quando aveva
ventiquattro anni, e scuri. Sono ancora biondi, ma sono pallidi, meno lucenti.
Nel tempo ha messo su qualche kg, è diventato più robusto. E’ diventato, a
tutti gli effetti, un uomo. Se una volta era semplicemente carino, adesso è
attraente, e sono molte le donne che glielo ricordano quotidianamente. Perfino certe
sue alunne hanno una cotta per lui.
Già, alunne.
Dopo essersi
laureato e specializzato in ingegneria, Davide ha intrapreso la strada
dell’insegnamento. Dopo anni di supplenze ed incertezze, di trasferte regionali
ed extra-regionali, è riuscito ad avere un posto sicuro. Da quattro anni
insegna matematica al liceo Esse di Roma, la città in cui vive.
Dopo la morte di
Camila, Davide è cambiato anche da un punto di vista non fisico. E’ diventato
introverso, chiuso. Ha smesso di sorridere, e di cercare qualcosa che lo
facesse sorridere.
Si è chiuso in se
stesso e nel dolore per due anni. La sua famiglia ha provato più volte ad
aiutarlo, a fargli comprendere che annegare nel dolore non avrebbe riportato in
vita la persona che amava. Neanche Priscilla, che sempre ha avuto su di lui un
buon ascendente, è riuscita a liberarlo dal senso di colpa per non essere
riuscito a salvare in tempo la ragazza di Carovigno.
Per due anni interi
Davide si è crogiolato nella sofferenza e nel ricordo. Ha rivissuto l’unica
notte con Camila fino ad odiarla, quasi. Fino a rivedere frammenti del suo
sorriso e dei suoi occhi azzurri ancor prima di pensare a lei, ancor prima di
iniziare a ricordare.
L’ha cercata a
lungo. Nelle donne con cui è andato a letto dopo quei due anni di letargo,
nelle ragazze che ha incontrato alle feste, all’università. L’ha cercata con
disperazione, fino a che si è rassegnato. Fino a che non ha capito che Camila
era scomparsa per davvero, per sempre, e che niente e nessuno avrebbe potuto
riportargliela. I buchi nell’acqua fatti dalle indagini volte a trovare il suo
assassino non lo hanno aiutato. Chiunque abbia ucciso Camila è svanito nel
nulla, impedendo a Davide di avere risposte e giustizia.
Lentamente, con
l’aiuto della sua famiglia e dei suoi più cari amici, l’allora ragazzo ha chiuso
quel libro e ha provato ad aprirne un altro. Ha provato a dimenticare e a
rifarsi una vita, e dopo numerosi tentativi falliti ci è riuscito.
Undici anni fa ha incontrato
Giovanna, una collega che insegna italiano. All’inizio non le piaceva, non la
trovava neppure simpatica. La considerava snob e superficiale, oltre che
brutta. Ma poi, giorno dopo giorno, ha imparato a conoscerla e ad apprezzare le
sue qualità. Nel giro di un anno si sono sposati (una cerimonia semplice, in
municipio) e hanno comprato casa, un appartamento poco lontano dal quartiere in
cui si trova l’abitazione dei suoi genitori. Con Giovanna, grazie a Giovanna,
Davide è tornato a sorridere.
Il matrimonio,
tuttavia, è durato soltanto sette mesi. A differenza di Simona, sua madre,
Davide non è riuscito ad andare avanti, come invece avrebbe dovuto. Non è
riuscito a rifarsi una vita, ad innamorarsi completamente
di un’altra donna.
Giovanna lo ha
lasciato dopo aver capito che in lui c’erano una solitudine ed un vuoto troppo
grandi per essere colmati da una famiglia felice solo in apparenza o da un
figlio che Davide non ha mai voluto mettere al mondo e che quindi non è mai
arrivato. Davide, a sua volta, si è reso conto che la sua amarezza e il senso
di colpa probabilmente non spariranno mai, e che non può essere di compagnia a
nessuna donna, né tantomeno proporsi come candidato per un futuro felice.
Dopo la separazione
e il divorzio da Giovanna ha avuto altre relazioni, più o meno brevi, ma non si
è più fermato. Non ha più fatto progetti di lungo periodo.
Il ricordo di lei non lo abbandona mai. Qualcuno
potrebbe giudicare il suo attaccamento a Camila non-salutare, e forse avrebbe
ragione, ma a Davide non importa.
Ogni anno, in
occasione del compleanno di Camila, Davide va nel luogo in cui una volta c’era
il suo appartamento, l’appartamento che divideva con Alessia e Ida. Al suo
posto, adesso, c’è uno dei pochi parchi verdi di Roma. La metropoli è cambiata,
e trovare uno spazio dedicato alla natura è praticamente impossibile. Questo è
un parco aperto da qualche anno, dopo la demolizione di alcuni palazzi, fra cui
quello in cui viveva Camila e quello da cui proveniva la musica che loro due
ascoltavano nel giardino. E’ molto ampio, include un piccolo laghetto
artificiale, numerosi alberi e piante di ogni tipo. C’è perfino una zona
dedicata agli animali, una specie di zoo in miniatura.
Ogni anno, Davide
va lì da solo e cammina nei prati, in mezzo alle aiuole. Siede sempre sulla stessa
panchina, e quando questa è occupata aspetta che chi vi è seduto vada via.
Non ne è certo, ma
per lui quella panchina si trova nello stesso punto in cui si trovava la
panchina del giardino abbandonato del palazzo in cui Camila viveva.
Ogni volta, si siede
e resta così per un po’ di tempo, a pensare.
Ogni volta, porta
con sé una piccola barretta al cioccolato. La scarta e la mangia, un minuto
prima di andare via.
Pensa alla ragazza
di Carovigno. Pensa a quando era giovane e spensierato, a quando la sua più
grande preoccupazione era quella di aggiornare la classifica di hockey su prato
sul suo computer. Pensa a quando nascondeva le barrette nel ripostiglio di
casa, in attesa che lei le trovasse.
Ha dimenticato
molte cose, ma certe non riesce a cancellarle. Ricorda ancora il colore delle
ciabattine che usava da bambino negli spogliatoi del campetto di Carovigno.
Ricorda la lunghezza della cintura della giovanissima Camila. Ricorda il
profumo della sua pelle, il sapore dei suoi baci. La felicità che, quella sera,
per la prima e per l’ultima volta, lesse nei suoi occhi mentre facevano
l’amore.
E’ lì anche ora,
Davide, al parco, durante una pausa di lavoro. Il cielo di Novembre è grigio e
carico di pioggia, ma nonostante questo il parco è popolato come sempre. La
temperatura non è bassa, a dispetto del maltempo imminente. Vi sono bambini a
spasso con i genitori, o con le baby sitter, o con i nonni. Vi sono donne che
portano a spasso i cani, uomini e donne che si baciano sulle panchine.
Davide osserva ciò
che lo circonda con attenzione, e ad un tratto scorge due dei suoi alunni
intenti a giocare con un frisbee. Sembra che i due avessero già notato il
professore, perché nel momento in cui Davide gli sorride, i ragazzi smettono di
giocare e si avvicinano, camminando svelti.
“Professore,” dice il primo, un ragazzo basso dai capelli lisci e neri,
e i lineamenti asiatici. “E’ venuto a passeggiare qui?” chiede, sorridendo.
“Non l’abbiamo mai vista al parco,” aggiunge.
“Già,” gli fa eco l’altro, più alto del primo. “Vuole giocare un
po’ con noi? Agli altri non piace il frisbee,” dice.
“Abbiamo anche un pallone, potremmo fare qualche tiro.”
Non è raro che gli
alunni di Davide siano spontanei e amichevoli con lui. Il rapporto con i suoi
allievi è sempre stato molto importante per lui, e dal momento che la sua è una
materia ostica, Davide ha ben pensato di renderla più semplice alleggerendo il
clima, in classe e fuori. Molti dei suoi alunni lo trattano come un vero e
proprio amico, gli confidano i loro problemi e accettano volentieri i suoi
consigli.
Insegnare, per
Davide, non è solo far apprendere una materia, e di questo i ragazzi sono
felici.
“Grazie, Liu,
grazie, Teo,” dice Davide, rimanendo seduto. “Ma oggi
non posso accettare. Ci sono anche gli altri?” domanda poi. “State facendo un
pic-nic?”
“Sì,” risponde Liu, il ragazzo basso. “C’è tutta la terza, compresi i nuovi arrivati. Teo vuole fare colpo sulla
ragazza americana,” dice, dando una gomitata al suo
amico, il quale gliene restituisce una velocemente. “Non ha alcuna possibilità,
glielo dica anche lei, prof. Visto che siamo in tema, hai zero possibilità,” dice allo spilungone. “Anzi, meno zero.”
Davide sorride. “Meno zero non esiste,
Liu. Te l’ho detto centinaia di volte. Visto che siamo in tema, fra
qualche ora riferirò questa sciocchezza ai tuoi genitori. Sono certo che tua
madre sarà felice di sapere di ‘meno zero’.”
Liu fa una smorfia.
“Accidenti, l’incontro con le famiglie. Me ne sono
dimenticato. Aspettatemi qui, devo avvisarli.” Tira
fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e si allontana per telefonare.
L’altro ragazzo, Teo,
ne approfitta e si siede sulla panchina con Davide.
“E’ un idiota,” dice Teo. “Però è simpatico.”
Davide annuisce. “Hai avvisato i tuoi genitori? Anche gli altri,” dice indicando il gruppo di ragazze e ragazzi nascosti
dagli alberi, “hanno dato la notizia a casa, vero? Non fatemi sorprese come
l’anno scorso,” continua Davide. “O vi boccio tutti.”
“No,” risponde il ragazzo. “Stia tranquillo. I miei saranno
puntuali come al solito, e così pure i genitori e le famiglie degli altri. A
dire il vero abbiamo approfittato dell’incontro con i professori per passare un
po’ di tempo insieme, per conoscerci.”
“E per fare colpo
sulla ragazza americana,” dice Davide facendogli
l’occhiolino. “Com’è che si chiama, Angela?”
“Penso di sì,” risponde Davide, osservando la ragazza mora di cui stanno
parlando. E’ seduta ai piedi di un albero con la sua compagna di banco,
un’altra nuova arrivata.
Negli ultimi dieci
anni si è avuta una rivoluzione nella scuola italiana. Gli scambi culturali con
le nazioni europee ed extra-europee si sono moltiplicati, e per questo in ogni
classe ci sono almeno sette o otto differenti nazionalità. A volte le
differenze possono causare dei problemi e delle incomprensioni, ma a Davide
piace che le sue classi siano ricche di giovani provenienti da ogni parte del
mondo. Cina, Brasile, Stati Uniti, Zambia, Germania, Russia. Alcuni vivono a
Roma con la loro famiglia d’origine, ma la maggior parte è ospite di famiglie
che, tramite apposite organizzazioni, si offrono di ospitare i ragazzi durante
il periodo del liceo.
“Secondo me è
spettacolare,” dice Teo. “Peccato che se ne stia
sempre con l’altra, Consuelo. Sembra quasi che le faccia da guardia del corpo.” Il ragazzo sbuffa. “Ha qualche consiglio
da darmi, prof? Lei è una bomba con le donne. Mi dia
un po’ di saggezza.”
Davide scuote il
capo e si lascia andare ad una risata. “Teo, Teo, Teo.
Prima o poi dovrete dirmi chi mette in giro certe voci sul mio conto.”
Teo sorride. “Sul
serio, prof. Mi dia qualche consiglio, la prego.”
Davide appoggia le
mani sul legno dipinto della panchina e riflette. Desiderava un momento per sé,
un momento per ricordare Camila, e invece si ritrova a dare consigli d’amore ad
un ragazzo che potrebbe essere suo figlio.
“Non cercare a
tutti i costi di apparire,” gli dice ad un tratto. “Angela
è sveglia e intelligente, e non ha bisogno di un ragazzo che si prostri ai suoi
piedi come fai tu ogni giorno. Ti ho visto,” aggiunge
subito. “Ti offri sempre di aiutarla a fare i compiti, sei sempre disponibile
per farle da guida in città. Rallenta, Teo. Lascia che
lei si accorga di te, non asfissiarla.”
“E’ quello che gli
sto dicendo dall’inizio dell’anno, prof,” interviene
Liu, che ha finito di parlare con sua madre e che ha ascoltato tutta la
conversazione. “Devi mantenere un profilo basso, farti desiderare… un po’ come
faccio io con Consuelo,” aggiunge, facendo
l’occhiolino ad entrambi.
“Perché vi ostinate
a chiamarla Consuelo?!” esclama Davide. “Non è quello il
suo nome.”
“E’ colpa di
Gianmarco,” dicono i due contemporaneamente. “E’ lui
che dà i soprannomi ai nuovi arrivati, e a lei è toccato
Consuelo,” conclude Teo.
“Perché? Perché viene dal Brasile?” Davide osserva il vuoto con perplessità.
“Gianmarco sa che in Brasile si parla portoghese, vero? Sa che Consuelo è un
nome spagnolo, vero?”
“Credo di no,” risponde Liu. “Ma ormai il soprannome ha attecchito, e
poi Consuelo non dice nulla.” Si volta verso la ragazza bionda seduta accanto
all’americana. “E’ un angelo,” sospira.
“Smettete di
chiamarla Consuelo,” dice Davide con un tono di voce
serio, da professore e non più da amico. “Ha un nome, ed è anche un bel nome:
usate quello.”
Teo e Liu si
guardano per un attimo e abbassano la testa.
“Adesso andate a
divertirvi,” dice Davide, tornato ad essere un amico.
“Ci vediamo più tardi a scuola. Liu, i tuoi genitori verranno?”
“Sì,” risponde immediatamente il ragazzo. “Grazie per avermelo ricordato, prof.”
“Di nulla. Fatemi
un favore, ragazzi: ricordatelo agli altri. Magari qualcuno ha dimenticato di
dare la notizia a casa. L’incontro di oggi è il primo dall’inizio dell’anno, e
quindi è importante che i genitori e le famiglie ospitanti partecipino. D’accordo?”
“Tutto chiaro, prof,” dice Teo. “Grazie per la chiacchierata. A più tardi.”
Davide li guarda
mentre tornano dai loro amici e sorride.
Sono un fallimento in tante cose, pensa. Ma
nel mio lavoro me la cavo.
Controlla
l’orologio, e si accorge di essere in ritardo. La chiacchierata con i suoi
alunni gli ha portato via il tempo che avrebbe voluto dedicare a Camila e alla
barretta di cioccolato.
Buon compleanno, Camila, pensa mentre si avvia al parcheggio. Anche se a volte mi piace immaginarti
invecchiata, come me, ai miei occhi resti sempre la ragazza sorridente della
foto che trovai in quella valigia.
Continui a mancarmi.
***
Molte cose sono
cambiate in diciassette anni, ma gli incontri fra genitori e insegnanti avviene
come avveniva una volta.
I registri e le
lavagne sono elettronici, e alcune lezioni possono essere seguite anche da
casa, tramite il computer, ma tre volte all’anno, all’inizio, a metà strada e
alla fine, insegnanti e famiglie si incontrano faccia a faccia per discutere
degli studenti, dei loro progressi e delle loro (eventuali) lacune.
I professori si
dividono in due o tre classi, scelgono un banco che farà loro da ‘studio
privato’ e attendono che i genitori. Questi si avvicinano ai banchi uno alla
volta, proprio come accadeva quando lo stesso Davide frequentava il liceo.
“Grazie a lei,
signora Di Biasi,” dice Davide, stringendo l’ennesima
mano. L’incontro è iniziato da due ore, e lui segue quattro classi: i genitori fanno
il via vai dall’aula in cui Davide ha sistemato il suo banchetto.
La donna gli
sorride, indugiando più del dovuto sull’affascinante professore di matematica. “Grazie a lei, professore. Buona serata.”
“Grazie, buona
serata,” dice Davide, ricambiando il sorriso, ma senza
indugiare. Si concentra sul registro elettronico, invece, per passare
velocemente alla pagina relativa a Teo, il ragazzo invaghito della compagna di
classe americana. Davide ha notato che i suoi genitori sono in attesa che la
signora Di Biasi vada via.
“Teo
è un ragazzo in gamba.
Vorrei averne trenta come lui,” dice dopo aver
salutato con una stretta di mano i coniugi Carraro. “Il programma di quest’anno
prevede alcune…”
I minuti passano; i
genitori si susseguono, accompagnati, a volte, dagli stessi figli, che li
indirizzano ad un professore piuttosto che ad un altro.
Davide parla con la
famiglia ospitante di Angela Ryan, e con la madre di Liu. Consiglia a due
famiglie l’aiuto di insegnanti privati per i rispettivi figli, e impreca
sottovoce quando deve riavviare il registro elettronico a causa di un problema
della rete centrale.
Se ne sta seduto
nel banchetto, basso per le sue lunghe gambe, e tiene gli occhi sulla tastiera
dell’aggeggio, in attesa di poter reinserire il suo codice di sicurezza
personale.
“Professore?
Professore, la disturbo?”
“No,” dice lui, riconoscendo la voce della sua alunna. Digita
rapidamente il PIN e sorride quando il registro prende di nuovo vita. “Ecco
fatto.” Sospira e alza gli occhi, pronto ad accogliere la famiglia della
ragazza. “Ciao, Az…”
La voce gli muore
nella gola quando la vede. Non la ragazza, non la sua alunna. Non Azzurra, dai suo compagni soprannominata Consuelo. No. Non lei.
Ma lei. Lei.
Per anni, Davide ha
creduto di vederla in giro per la città, nei volti delle altre donne, sulle
pagine dei giornali. Per anni si è fermato in mezzo alla strada, convinto di
aver visto un fantasma. Desiderando
di vedere un fantasma.
Ora quel fantasma è
lì, davanti a lui, a pochi passi da lui. E non è un fantasma, no.
E’ lei. E’ vera. E’
reale, non è un sogno.
E’ Camila.
“Professore, lei è
mia madre.” Azzurra gli sorride, e quando lo fa a Davide manca il respiro.
Accade velocemente,
ma ai suoi occhi appare al rallentatore. Osserva i capelli biondi della
ragazza, i suoi grandi occhi azzurri e le labbra piene, proprio come quelle di…
“Professore?
Professore?”
“Azzurra, il professore
ci ha viste.” E’ lei a parlare. E’ lei, Camila. “Perché non
vai a chiedere ad Angela se vuole venire a cena da noi, stasera? Io
resto qui a parlare col tuo insegnante.”
“No!” dice la
ragazza sottovoce. “Ti ho detto che devo rimanere anch’io, altrimenti farai
confusione con gli altri profes-”
“Azzurra, vai!”
esclama Camila, guardando sua figlia negli occhi.
La ragazza abbassa
la testa e sbuffa. “Lui è il mio professore di matematica,”
dice, arrendendosi. “Quella lì è l’insegnante di italiano. Non fare confusione, ok?”
“Ok,” risponde Camila, sorridendo. “Ora vai. Ci vediamo fra
poco.”
“Arrivederci,
professore,” dice Azzurra. “Ci vediamo
domani in classe!”
Davide è ancora
seduto. Non ha avuto la forza di alzarsi. Non ha avuto neanche la forza di parlare,
di salutare Azzurra.
Osserva la donna
che gli è di fronte, e ancora non crede ai suoi occhi.
Forse sto sognando. Forse si tratta davvero
di un fantasma, di una visione.
Non può essere lei. Lei è morta. L’ho visto
con i miei occhi, pensa. Sono stato sulla sua tomba, in Germania. Ho pianto la
sua morte. Non può essere lei, no.
“Sono Elena Ado
Silva. Sono… Sono la madre di Azzurra.”
Camila allunga la
mano verso Davide, e lui si accorge immediatamente che sta tremando.
Lui osserva le dita
sottili, le unghie curate, il tremolio silenzioso di un orologio sottile. Segue
la mano verso l’alto, verso il braccio e verso il volto della donna che gli è
di fronte.
E in quel momento
trova la forza per alzarsi.
“Elena…” dice, a
voce talmente bassa che neppure lui riesce a sentirsi.
“Elena Ado Silva,” ripete lei. Fa un passo verso il banco, la mano ancora
tesa nella direzione di Davide. “Sono lieta di… di conoscerla,
professore. Mia… mia figlia parla spesso di lei.”
Forse sto
sbagliando. Forse non è lei. Forse si tratta di una incredibile
somiglianza. Forse sono semplicemente suggestionato dai ricordi, che mi stanno
consumando sia l’anima che il cervello.
In fondo non si
chiama Camila, ma Elena.
In fondo ha i
capelli corti, molto corti, mentre Camila li aveva lunghi.
“Io… lei…” Davide
si arrende quando capisce che non riuscirà ad emettere alcun suono
comprensibile, e allunga istintivamente la mano verso quella della madre di
Azzurra. Non arriva neanche a sfiorarla, che Camila l’afferra con irruenza,
come se non aspettasse altro.
Ed è così, in
effetti. Non aspettava altro. Da diciassette anni.
Alcuni parlano di
scintille, in situazioni come queste. Alcuni parlano di scosse elettriche che
da una mano passano all’altra.
Camila non avverte
né le scintille né la scossa. Camila avverte una sensazione di calore, di pace.
Si sente, anche se forse è strano ammetterlo, di nuovo a casa.
Ed è per questo
che, stringendo con le dita sottili la mano di Davide, si lascia andare, si
rilassa.
Abbassa la testa
lentamente, e senza rendersene conto inizia a piangere. E’ un pianto
silenzioso, il suo. Invisibile agli occhi dei genitori che passano loro
accanto, ma non a Davide, che si accorge immediatamente delle lacrime sulle sue
guance.
La presa della sua
mano diventa allora più stretta, e nell’improvviso stupore degli occhi di
Camila… capisce.
“Sei tu,” sussurra. “Sei… sei tu.”
Camila può solo
annuire velocemente e abbozzare un sorriso. “Sono io,”
dice sottovoce.
Il cuore di Davide
esplode per la gioia.
E’ viva. Sei viva.
Vorrebbe
abbracciarla, stringerla a sé, gridare. Chiederle cos’ha fatto per diciassette
anni, com’è possibile che sia morta e poi risorta. Vorrebbe chiederle di sua
figlia.
Tutto ciò che
riesce a fare, però, è accarezzarle il dorso della mano con il pollice.
Lentamente. Con dolcezza.
Camila riesce a
calmare le lacrime e a riprendere le redini della sua voce.
“Professore…”
Non sono un professore. Sono Davide.
“Professore, io…”
Lascia andare la mano di Davide rapidamente, ma con garbo. Senza che lui o gli
altri presenti se ne accorgano, Camila afferra dalla giacca un biglietto
ripiegato, e glielo porge.
Davide accetta il
pezzo di carta senza capire.
“Ti prego,” gli dice lei, avvicinandosi fino quasi a sfiorargli il
viso. “Leggilo, e fai come c’è scritto.”
Davide non riesce a
dirle di non andare via. Camila è più veloce nell’allontanarsi e nel
disperdersi nel gruppetto di alunni e genitori. Apre allora il biglietto, il
cuore al limite dell’esplosione.
Vediamoci al parco di via
Giolitti fra un’ora. Ti prego.
***
Il parco di via Giolitti
è quello in cui Davide ha trascorso parte del pomeriggio, quello in cui ha
incontrato i suoi alunni. Quello in cui si reca ogni anno per celebrare il
compleanno di Camila.
La trova lì,
Davide, seduta su una panchina diversa da quella in cui è solito sedersi ogni
volta.
La vede
immediatamente, perché è lei a farsi vedere. Si alza e si sbraccia nella sua
direzione, quando si accorge che lui è arrivato.
Non un’ora dopo,
come c’era scritto nel biglietto. Ventisei minuti dopo. Il tempo necessario a
lui per fingere un’urgenza e per correre in auto fino al parco. Il tempo
necessario a lei per riportare a casa Azzurra e recarsi al parco ad attendere
l’arrivo di Davide.
Ora che le va
incontro, Davide può osservarla meglio, meglio di quanto ha fatto a scuola.
Camila indossa un
paio di pantaloni aderenti, neri, e un paio di scarpe molto basse, verdi e blu.
Verde è anche il dolcevita stretto che indossa sotto
una stola nera dai bordi blu. I capelli sono corti, e le punte sono più chiare
delle radici. Tendono al caramello.
Quando la
raggiunge, si ferma a pochi passi da lei.
Ancora una volta
vorrebbe riuscire a parlare, a farle tutte le domande a cui ha pensato per
quasi vent’anni.
L’abbraccia,
invece. Riempie la distanza che li separa con due passi, e chiude le braccia
dietro il suo corpo esile.
E’ come scontrarsi
con un’onda. E’ come lanciarsi su un letto di piume.
Camila risponde
all’abbraccio gettando a terra la borsa che aveva fra le mani, per stringerlo
come si deve, per accarezzargli la schiena, le spalle.
Piange, Camila. Il solito pianto silenzioso e
invisibile, che negli anni ha collaudato e perfezionato. Un pianto simile ad un
lamento, un pianto che solo Davide riesce ad avvertire.
E proprio quando è
stretto a lei, Davide ritrova la sua voce. “Sei viva,”
sussurra. “Sei viva.”
Si scosta per
guardarla in viso. Gli anni sono passati anche per lei. Piccole rughe di
espressione disegnano il contorno degli occhi e quello delle labbra. Il viso è
ancora rigoglioso, ma nei suoi occhi c’è sempre quel velo di malinconia, di
turbamento, che Davide ha imparato a conoscere e ad amare.
Le sue labbra sono
bagnate dalle lacrime e curvate in un sorriso emozionato, un sorriso pieno di
speranza.
“Non sei morta,” dice Davide. “Non sei morta.”
Camila continua a
sorridere. Gli prende le mani, le stringe. Se le porta al petto, sul viso.
Cerca un contatto
che ha sognato, immaginato e desiderato per diciassette anni. Lo cerca e lo
trova, perché Davide l’accarezza, facendosi sopraffare dall’emozione e dalla
commozione.
“Sei
viva,” ripete lui, come per esorcizzare la triste possibilità che si
tratti di un sogno.
Camila si limita ad
annuire e a sorridere, mentre cerca anch’essa di realizzare
che è tutto vero, che non sta sognando.
***
“E’ stato Umberto a
rapirmi.”
Camila e Davide
sono ora seduti sulla panchina. Si tengono per mano.
Dopo alcuni istanti
di commozione per entrambi, è stata lei a prendere la parola.
“Voglio raccontarti
tutto,” ha detto. “Devo raccontarti tutto, dall’inizio.”
Davide ha annuito,
senza lasciare la sua mano.
“E’
stato Umberto a rapirmi.
Lui e i suoi amici. E’ a causa loro che sono scappata dalla Basilicata,
vent’anni fa. Sono scappata per fuggire da loro. Erano ricettatori.
Trafficavano in armi e droga. Erano strozzini. Scappai dalla Basilicata con il
desiderio di rifarmi una vita, di andarmene dall’Italia. In quei tre anni a
Roma ho lavorato per mettere i soldi da parte e andarmene in Brasile. Non
parlavo a nessuno di me, non dicevo a nessuno che ero sposata… perché ancora lo
ero, all’epoca. Ero davvero sposata con Umberto.
“Furono loro a
rapirmi mentre camminavo con Bilbo.”
Camila parla
lentamente, e Davide ha subito l’impressione che lei abbia provato e riprovato
questo discorso, questa lunga confessione. Non sbaglia,
Davide.
“Mi portarono a
Sabaudia. Mi tennero chiusa a chiave. In una casa sul lago, per mezza giornata,
per cercare di convincermi a seguirli. Volevano che tornassi in Basilicata, che
tornassi a fare la moglie muta e sorda… la moglie che ero stata negli anni in
cui… negli anni in cui fingevo di non vedere ciò che Umberto faceva. Mi dissero
che se non li avessi seguiti mi avrebbero uccisa… e avrebbero..
avrebbero fatto del male anche a te. Mi dissero che ti tenevano d’occhio, che
erano pronti ad ucciderti.”
Camila alza gli
occhi per guardare quelli di Davide. In essi legge dolore e meraviglia.
“Decisi
di andare con loro.
Decisi che avrei lasciato Roma pur di proteggere te e la tua famiglia. Accettai
di tornare con Umberto. Volevo farlo, ero pronta a farlo, a non… a non vederti
mai più. Tutto, pur di assicurarmi che saresti… che non ti avrebbero fatto del
male. Ma poi… poi mi hanno uccisa. O almeno… o almeno hanno creduto di… di
avermi uccisa.”
Si ferma per un
attimo, strofina la punta del dito indice sotto al naso.
“Seppero
che eri andato alla Polizia, e hanno avuto… hanno avuto paura. Si sono sentiti in pericolo. Hanno capito
che ero… ero solo un rischio, per loro. Volevano solo che tenessi la bocca
chiusa, che non raccontassi a nessuno dei loro affari. E allora decisero di
uccidermi. Entrarono nella camera in cui mi tenevano rinchiusa,” dice, le dita che si chiudono con forza attorno a quelle
di Davide. “Carmelo mi tenne ferma. Federico sparò.”
Parole secche, sussurrate, ma allo stesso tempo lame roventi per il cuore di
Davide.
“Non ricordo niente
di ciò che è successo dopo,” continua Camila. “Mi sono
risvegliata in ospedale dopo l’intervento, e accanto a me c’era l’ispettore
Fermi.”
Il nome non è
nuovo, per Davide. “Fermi?”
“Fermi,” gli fa eco lei. “Lo stesso ispettore che si occupò della
tua denuncia.”
“Ma… Ma come…”
“Umberto e i suoi
amici mi portarono al lago. Mi hanno gettata nell’acqua, con l’intento di far
sparire il mio cadavere. Non sapevano, però… Non sapevano che lì vicino,
nascosta dagli alberi, c’era un’auto con dentro un uomo e una donna. Erano
appartati nel bosco per fare l’amore,” dice con un
mezzo sorriso, “e si sono allarmati quando hanno sentito lo sparo e quando
hanno visto il mio corpo nell’acqua. Hanno aspettato che l’auto dei tre
ripartisse, e mi hanno salvata. Ero viva. Ero ancora viva.”
L’ennesima lacrima muta si ferma sulle sue labbra. “Mi hanno portata in
ospedale, hanno chiamato la Polizia. Mi
hanno salvata.”
“Ma Fermi…
l’ispettore…”
Davide è sotto
shock.
“La donna che mi ha
salvata era sua moglie,” dice Camila, alzando gli occhi.
“Quante sono le probabilità che una cosa del genere possa accadere? Quante sono
le probabilità che la donna che ti salva la vita è la moglie dell’uomo che ti
sta cercando?”
Davide è senza
parole.
“Quella donna,
Pamela, telefonò a suo marito nonostante lo stesse
tradendo prima di salvare me. Chiese a lui cosa fare del mio corpo, dove
portarmi. Era agitata, spaventata. Fermi ha collegato i punti solo quando mi ha
vista in ospedale, a Roma.”
“A
Roma? Eri…
Eri a Roma?” chiede Davide, stavolta ad alta voce.
Camila annuisce. “Il proiettile mi ha sfiorato il cuore. Per estrarlo sono servite
cinque ore di intervento. Fermi era lì, al mio risveglio, il giorno dopo. Assieme
ad un medico. Mi dissero che ce l’avevo fatta. Mi dissero che mi sarei rimessa
in sesto. Mi dissero che il mio era un miracolo.
“Fermi
voleva interrogarmi.
Voleva chiedermi i nomi dei miei rapitori, voleva che gli raccontassi tutto, ma
prima… prima di parlare con lui parlai con un medico… una donna. E fu allora che… fu allora che seppi di…” La voce di Camila è rotta
dall’emozione. I suoi occhi sono lucidi. “Mi disse che
ero incinta. Mi disse che avevano fatto gli esami del
sangue, e che…” Si ferma di nuovo, inspirando profondamente prima di andare
avanti. “Mi consigliarono di prendermi del tempo per pensare al da farsi. Mi dissero che… Mi dissero
che avrei dovuto raccontare tutto alla Polizia, per permettergli di… di trovare
ed arrestare colui che…” Camila inizia a piangere, stavolta singhiozzando.
I suoi movimenti, quando cerca il suo fazzoletto in borsa, sono rapidi e
precisi. Si asciuga gli occhi e il naso, inspira profondamente prima di
riprendere a parlare.
“Pensavano
che mi avessero stuprata.
Ne erano convinti, tutti, ma io… io sapevo che… che non era così. E in quel
momento, quando seppi di essere incinta… Ero sopravvissuta, Davide, ed ero… ero
incinta… ero incinta, ed era… era tuo.”
Davide lascia
andare la mano di Camila come se fosse una pietra incandescente.
“Azzurra… Azzurra
è… mia figlia?”
“Sì,” dice lei. Gli sorride. “E’ tua figlia.
La mia prima ed unica figlia.”
Al sorriso di
Camila non corrisponde quello di Davide. Lo shock non gli permette di elaborare
le informazioni. Camila è viva. Ho una
figlia. Abbiamo fatto l’amore due volte. Camila è sopravvissuta. Le hanno
sparato. Fermi sapeva.
Quando le parla, lo
fa per chiederle di lui, dell’ispettore. Non di Azzurra. “Perché…
Perché non me lo hai mai detto? Eri a Roma, e Fermi… lui venne a casa
mia, lui venne a dirci che-”
“Fermi mi ha
aiutata,” interviene Camila. “Dopo aver parlato con i
medici, capii di avere un’unica possibilità.”
“Sparire?”
“Sparire,” gli fa eco lei. “Non potevo rimanere a Roma. Non potevo
rimanere in Italia. Non potevo rischiare di nuovo di… Non potevo rischiare di
nuovo che mi trovassero. Avevo… Ero… Ero incinta.”
“E quindi hai finto
la tua morte.” Le parole di Davide sono spente, vuote. Ritira la mano da quella
di Camila, abbassando gli occhi.
“Fermi mi disse che
non sarebbe stato facile inserirmi in una programma di
protezione. Mi disse che, se anche ci fosse riuscito, non avrei comunque potuto
lasciare l’Italia. Io allora lo supplicai,” dice
Camila, cercando la mano di Davide, ma senza trovarla. “Lo supplicai di farmi
scappare, di lasciarmi libera di andarmene. Gli diedi i nomi dei tre in cambio
della mia morte. E lui… E lui mi fece morire.”
“Ho saputo della
tua morte guardando il telegiornale,” dice Davide,
amaro. “Ero… Io… E tu invece eri viva.”
Camila ignora il
tono ferito della sua voce, e continua a raccontare. “Fermi
organizzò un finto ritrovamento, chiamò un suo amico giornalista per filmare
tutto, per dare a Umberto e ai suoi amici l’impressione che… che fossi morta
davvero. Avvisò i miei genitori, che non hanno mai vista…”
“Sono andato in
Germania,” interviene Davide con durezza. “La mia
famiglia si offrì di pagare per il funerale, e i tuoi genitori accettarono. Tennero
il funerale senza avvisarci, e io andai in Germania tre settimane dopo. Ho
pianto sulla tua tomba,” dice, senza alcuna emozione
nella voce. “Chi c’era in quella bara?”
“Probabilmente
nessuno,” sussurra Camila.
“I tuoi genitori lo
sapevano? Chi lo sapeva?”
“Nessuno,” dice lei. “Soltanto io, Fermi e sua moglie, che ha sempre
mantenuto il segreto.”
Fra i due cala il
silenzio.
Per Davide ci sono
tante informazioni, tante notizie da incamerare, e Camila lo sa. Per questo
motivo gli lascia il tempo per riflettere, prendendosi una pausa di qualche
secondo.
Davide si alza in
piedi e prende a camminare davanti alla panchina.
“Perché non me
l’hai detto?” chiede ad un tratto, quando si rende conto che è questa l’unica
cosa di cui gli importa. “Perché non mi hai detto che eri incinta? Perché hai scelto di morire?”
“Per proteggere il
figlio che avevo dentro,” risponde subito, alzandosi e
raggiungendolo. “Per proteggere te, per proteggere me. Non sarei mai potuta
rimanere a Roma, con l’incubo di essere rintracciata di nuovo. Non avrei
vissuto da persona sicura, non avrei potuto assicurare a nostra figlia la
sicurezza di cui…”
Davide interrompe
le sue parole con un gesto della mano, dandole le spalle.
Camila si ritira,
tornando a sedersi. Sapeva che non sarebbe stato facile spiegargli i motivi che
l’hanno spinta ad andarsene. Sapeva di non potersi aspettare assoluta
comprensione.
“Ho usato i miei
risparmi per andare in Brasile,” dice ad un certo
punto. Ha bisogno di raccontare, e vuole che lui sappia. “Dissi
a Fermi del mio libretto quando lui mi fece capire che la Polizia non avrebbe potuto
aiutarmi economicamente. Andò all’appartamento che era lì,” dice, indicando il punto del parco in cui sorgeva il
palazzo, “e prese il libretto dei risparmi. Con quello, dopo una settimana in
ospedale, partii per il Brasile.
“Ho vissuto in un
ostello per i primi due mesi. Non conoscevo nessuno, non parlavo il portoghese.
Ho fatto la cameriera, ho fatto la lavapiatti.” Davide
si volta, la guarda. “Poi mi sono trasferita a Guaratinga, a sud sulla costa, e
ho iniziato a lavorare in una fabbrica che produceva cacao.” Si ferma,
trattiene il fiato prima di continuare. “Mi sono sposata.”
Davide impallidisce.
“Sei… Sei sposata.”
“No,” sussurra lei. “Non più. Martim era il figlio dei
proprietari della fabbrica di cacao,” riprende. “Aveva
quarant’anni, all’epoca. Si innamorò di me, e continuò ad esserlo quando gli
dissi che ero incinta. Continuò ad esserlo anche quando gli raccontai la mia
storia. Si offrì di aiutarmi, di sposarmi, di darmi una casa, una vita normale.
Si offrì di fare da padre ad Azzurra.”
“E tu hai accettato,” dice Davide in un respiro.
“Ero sola,” risponde Camila. “Ero all’ottavo mese
di gravidanza, e non avevo nulla. Nulla da dare a mia figlia, nulla di
meglio di ciò che i miei genitori avevano dato a me. Dissi a Martim che lo
avrei sposato e che sarei stata sua moglie, ma gli dissi anche che non l’avrei
mai amato. Che non avrei mai potuto amarlo. Lui accettò,”
dice con un sospiro. “E’ stato un uomo magnifico,”
continua. “Un marito unico, un padre… un padre impeccabile.
Dopo la nascita di Azzurra ho iniziato a studiare. Sono diventata fotografa,” dice. “Lavoro per una rivista di moda brasiliana,
adesso.” Prova a sorridere, ma non ci riesce. Guarda gli occhi di Davide, e in
essi non legge più lo stupore, ma la delusione, l’abbattimento. Si sforza, ciò
nonostante, di continuare.
“Martim
è morto due anni fa, a causa di un infarto. E’ stato allora che ho deciso di ritornare in Italia. Ci
avevo già pensato, in passato, ma lui me l’ha sempre impedito. Non voleva che rischiassi di trovarmi in pericolo, non voleva che…”
Si passa una mano sul viso, per catturare le lacrime. Resta seduta,
mentre Davide resta immobile. “Non ti ho mai cercato, in
tutti questi anni. Non sapevo così avrei scoperto sul
tuo conto, non sapevo cosa… Non avevo idea di come avrei fatto a dirti di
nostra…” Si alza, gli va accanto. Non accarezza le mani di Davide come
ha fatto prima, non lo sfiora neppure. Capisce, dai suoi occhi, che lui la sta
rifiutando.
“Ti credevo morta,” dice, le labbra che tremano assieme al resto del corpo.
“Ho pianto per te, mentre tu eri qui, a Roma. Viva. Te ne sei andata, ti sei
rifatta una vita. Hai… Hai avuto una figlia. Non riesco a guardarti,” dice, abbassando gli occhi. “Non posso guardarti.”
Arretra verso
l’erba, sollevando le mani per proteggersi. Non da Camila, ma da ciò che il suo
racconto significa.
“La mia vita si è
fermata in quel momento,” dice Davide. “Quando ho sentito il giornalista dire ‘Il corpo di Camila Romano è
stato ritrovato nel lago di Sabaudia’. In quel momento,”
dice, il sapore della lacrime sulla lingua, “io sono morto con te. Sono
annegato nel senso di colpa, per non averti salvata, e nel dolore per la tua
morte. E tu vieni a dirmi che eri viva? Che hai sposato un produttore di cacao?
Che sei diventata una fotografa? Io ho pianto sulle tue fotografie. Le ho
esposte, le ho mostrate al mondo, e ho pianto su ognuna di esse. Ho pianto perché sapevo che non avrei mai più sentito la tua voce o
visto i tuoi occhi, e tu… e tu eri… Ora vieni a dirmi che hai avuto una vita
piena, che hai avuto un marito magnifico e che Azzurra ha avuto un padre che…”
Si ferma. Si copre il viso con le mani. Impreca. “Non hai mai pensato a me?”
chiede. “Non ti è mai passato per la testa di come… di cosa…” Scuote il capo.
La guarda.
Camila piange in
silenzio e non dice nulla. Sa che non può dire nulla, sa che non c’è nulla da
dire.
“Perché sei
tornata?” chiede Davide, con durezza. “Che cosa pretendi, adesso? Che cosa vuoi
da me, adesso? Vuoi dirmi che ho una figlia? Bene, me l’hai detto. Puoi anche tornartene in Brasile.”
Scosso dallo shock,
dalla rabbia, dalle lacrime, Davide si allontana da lei e prende a camminare
verso l’uscita del parco.
“No!” esclama Camila,
inseguendolo. “Non te ne andare, no! Davide!” Lo raggiunge correndo, afferrandogli la mano ed
abbracciandolo.
E’ un abbraccio
diverso da quello di prima. E’ un abbraccio a senso unico, visto che le mani di
Davide restano ferme. E’ un abbraccio con cui Camila cerca di impedirgli di
lasciarla, di andarsene.
Si aggrappa a lui,
e gli parla. Senza lasciarlo, senza guardarlo negli occhi. Gli parla
all’orecchio, stringendolo a sé.
“Fra
vivere e morire ho scelto di morire, e lo farei di nuovo pur di proteggere te e
Azzurra. Lo farei di
nuovo. Ti ho pensato ogni giorno. Ogni momento. Sempre. Sempre. Ogni volta che
guardo Azzurra… E’ il tuo ritratto. Hai i tuoi capelli, ha il tuo sorriso. E’
curiosa come lo eri tu da bambino.
“Non
pretendo che tu mi ami ancora, o che sia disposto ad accettare me, amare me o…
o nostra figlia. Non ho
mai avuto l’opportunità di dirti che ti amavo … fino ad ora. Ti amavo, Davide. Ti amo. Me ne sono andata per proteggerti e
per proteggere Azzurra. Ma ti amavo. Ti ho sempre amato. Ti amo.” La mano le trema,
quando l’avvicina ai suoi capelli. Li accarezza per un breve momento. Ne sente
il profumo dolce.
Prova ad
allontanarsi, ma lui è più veloce e riesce a trattenerla. Scosta il capo per
guardarla. “Anch’io ti amavo,” dice. “E una parte di
me continua ad amarti. Però… però non sei tu
la donna che amo. Io non provo nulla per Elena
Ado Silva. Non la conosco, non so chi è, non è... Camila Romano, la ragazza
di Carovigno: è quella la persona che amo. E’ lei. Non tu, non
Elena.” Pronuncia il nome con repulsione. “Io non posso… Dopo diciassette anni,
Cami… Elena,” si corregge.
“Hai aspettato diciassette anni per dirmi che ho una figlia. Hai aspettato
diciassette anni per dirmi che non sei morta.”
Davide sposta la
mano con cui tiene ferma Camila. Si allontana, fa un passo indietro.
“Camila Romano è
morta diciassette anni fa,” le dice. “Tu non sei lei.
Io non ti conosco, Elena. Addio.”
***
“Mamma, sei sicura
di stare bene?” Azzurra entra nella mia camera da letto prima di andare a dormire.
Indossa già il pigiama, e il profumo dello shampoo che ha usato dopo cena
riempie l’aria.
“Sì,” dico, fingendo un sorriso. “Sono solo un po’ stanca.”
“Sicura? Non sei
preoccupata per la mia nuova scuola, vero? I professori hanno davvero parlato
bene di me?”
“Certo,” rispondo. “Sono tutti molto contenti del tuo inizio, e di
come ti sei integrata con i compagni di classe. Tranquilla,”
aggiungo. “Ho solo un po’ di mal di testa.”
“Va bene,” dice lei, camminando fino al letto per darmi un bacio.
“Io vado a letto, allora. Notte, mamma.”
“Notte, tesoro.”
L’abbraccio come faccio di solito, stringendola come se il vento stesse per
portarla via. “Ti voglio bene, Azzurra.”
“Ti voglio bene
anch’io. Buonanotte.”
Non mi pento di
essere ritornata in Italia. Ho preso tutte le opportune misure di sicurezza,
prima di trasferirmi a Roma.
Non mi pento di
essere ritornata, e non nascondo il motivo per cui l’ho fatto. Davide.
Sono tornata per
lui. Per lui soltanto.
Ho sbagliato? Sono
stata egoista? Avrei dovuto continuare a fingermi morta?
Probabilmente sì. Probabilmente
avrei dovuto continuare non solo a fingermi morta, ma anche a fare solamente ciò
che ho fatto per tutti questi anni. La madre, la moglie (la vedova, negli
ultimi due anni), la fotografa.
Per diciassette anni
ho ignorato la voce che mi chiamava verso lui, verso Roma. Ho ignorato i miei
bisogni, ho ignorato il mio cuore di donna. L’ho cementificato,
questo cuore. L’ho reso simile ad una pietra. Aperto solo per Azzurra, aperto
solo per il mio lavoro.
Non mi sono più innamorata.
Non ho più amato.
Martim è l’uomo che
mi ha cambiato la vita, ma Davide… Davide è la persona
che mi ha salvata. Davide mi ha donato Azzurra, e senza di lei non sarei mai e
poi mai sopravvissuta.
Avrei voluto
spiegarglielo, questa sera. Avrei voluto raccontargli ogni giorno trascorso in
Brasile e avrei voluto chiedergli dei suoi giorni qui, a Roma.
Non ce l’ho fatta,
e probabilmente non ce la farò mai.
Mi ha detto che è
morto con me. Mi ha detto che è morto quando ha saputo della morte di Camila.
Mi ha detto che per lui Camila è morta. Mi ha detto che non mi riconosce, che
Elena non è Camila.
Penso alla sua voce
per ore. Rivedo i suoi occhi marroni, riesco quasi ad avvertire la morbidezza dei
suoi capelli.
E poi sento il
campanello suonare. Una volta. Due volte. Tre volte.
Guardo la sveglia, è
l’una. Mi alzo dal letto e vado alla porta.
Non abbiamo molti
amici, e nessuno di loro verrebbe a farci visita a quest’ora. Chi è? Perché sto tremando come una foglia?
Azzurra è al sicuro?
Appoggio l’occhio
allo spioncino prima di aprire, e il respiro si ferma.
E’ Davide.
Apro la porta
rapidamente, e la prima cosa che mi colpisce è il fatto che ha l’affanno. I
suoi occhi sono sgranati e la bocca è semi aperta. Respira
come se avesse fatto i quindici piani a piedi, senza usare l’ascensore.
“Non mi hai mai…
detto qual era il tuo… desiderio,” dice, affannato.
Appoggia le mani alla porta per sorreggersi Respira in fretta. “Non mi hai mai
detto qual era il tuo desiderio,” ripete.
“Come?”
“Diciassette anni
fa,” risponde, gesticolando. “Quando hai espresso il
tuo… desiderio sulla torta… al cioccolato. Non hai mai…”
Non lo faccio
finire. Non lo faccio continuare.
Mi lancio verso di
lui, sul pianerottolo, e lo abbraccio. E’ l’istinto a spingermi. E’ il cuore a
guidarmi. Stavolta mi abbraccia anche lui. Mi stringe, mi solleva da terra.
Ed è come esplodere.
E’ come risorgere. E’ come rinascere.
Lo stringo a me
come faccio con Azzurra, come avrei voluto fare al parco, e anche Davide mi
stringe. Lo sento piangere, lo sento mormorare qualcosa, per cui mi allontano e
cerco i suoi occhi.
“Rimanere il più a
lungo con… Rimanere il più a lungo possibile con te,”
dico sorridendo. “Era questo il mio desiderio.” Gli accarezzo il viso, i
capelli. Lui mi bacia le mani.
Le sue parole, così
come le mie, sono incoerenti. Non riesco a capire ciò che dice, ciò che
mormora. “Sei viva,” mormora ad un certo punto.
“Sì,” gli dico. “Sono viva.” Sorrido. “E non ho mai… non ho mai
imparato a fare le barchette di carta.” L’incoerenza continua a governarmi,
perché non pensavo di dire una cosa simile. “Non ho mai imparato,” continuo. “Perché dovevi essere tu a…”
Non mi lascia
finire. Mi spinge sulla parete del pianerottolo. Con irruenza, ma senza rabbia.
Non è arrabbiato, no. Mi sorride. Mi sta sorridendo.
“Non ho mai voluto
imparare,” dico. Gli accarezzo i capelli come ho fatto
al parco, mentre lui mi accarezza le guance, le labbra, il collo. “Voglio
raccontarti tutto,” continuo. “E voglio sapere tutto,
tutto di te.” Mi aggrappo al suo giaccone. C’è un folle senso di disperazione,
in me, e posso leggere la stessa disperazione anche nei suoi occhi.
Siamo due persone
che si fanno forza a vicenda.
Siamo cambiati
eppure siamo ancora noi. Davide e Camila.
“Abbiamo una figlia,” dice lui sottovoce, asciugandomi una lacrima.
“Sì,” dico sorridendo, felice come non lo sono stata mai in
tutta la mia vita. “Si chiama Azzurra Ado Silva,” dico
balbettando. “E’ nata il 5 Agosto del 2011. Pesava tre kg e mezzo, e…” Mi
faccio forza stringendo i pugni, per evitare di singhiozzare. “E’ intelligente,
è forte,” dico. “E’ la ragazza più in gamba del mondo
e in tutti questi anni mi ha aiutata a non-”
“Lo so,” dice lui. “Lo so.”
Mi abbraccia, mi
accarezza i capelli e la schiena. Mi ascolta mentre piango, mi dice che mi ama.
Vorrei dirgli che
lo amo anch’io, vorrei continuare a raccontargli di Azzurra e vorrei smetterla
di piangere… ma non riesco a farlo.
Prima o poi mi
calmerò. Prima o poi passerà.
E lui sarà ancora
qui, con me. Lui continuerà a stringermi, continuerà ad amarmi.
“Sei ancora lei,” sussurra Davide ad un certo punto. “Sei ancora Camila, la
mia Camila. Il tuo nome è morto. Tu no,” dice
stringendomi. “Tu sei viva.”
---
Quando passi due giorni e due notti a
singhiozzare perché hai deciso di uccidere uno dei tuoi personaggi allora è
chiaro che hai un problema.
Non potevo lasciare che Camila morisse. E
non per il lieto fine, non per Davide
& Camila. Non per questo.
Non potevo farlo per lei, per Camila. Ho
adorato questo personaggio fin dall’inizio, e l’ho sentito più vicino di tutti
i personaggi che ho creato in tre anni di scrittura.
Meritava di vivere,
Camila. Merita di vivere. Ne ha viste troppe per smettere di esistere.
Molti di voi storceranno il naso e magari considereranno
chiusa la storia con l’ultimo capitolo. Molti di voi saranno felici di questo epilogo
e fantasticheranno sul futuro di Davide, Camila/Elena e Azzurra.
Io sono soddisfatta di questo finale, e
questo mi basta.
Non sarei mai riuscita a scrivere questa
storia (in particolare i capitoli più difficili) senza il supporto e l’affetto
di tutti i miei lettori. Grazie a tutti voi che ci siete stati fin dall’inizio,
dandomi fiducia in un ‘settore’ che non è propriamente
mio. Grazie a chi ha approfittato della storia di Camila e Davide per
raccontarmi la sua. Grazie a chi ha sempre letto e non ha mai commentato.
Un grazie speciale va a Lele
Cullen. Grazie per avermi minacciata,monamùr. E’
servito.
In tanti mi avete chiesto quanto c’è di vero
e di personale in questo racconto. La risposta è: molto.
In anticipo, grazie per tutti i commenti che
lascerete. Alla prossima.