Ti ricordi di me?

di Stupid Lamb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Penultimo Capitolo ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Ultimo Capitolo ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ben tornati, a chi mi conosce

Ben tornati, a chi mi conosce. Benvenuti, a chi capita in una mia storia per la prima volta.

L’idea per questo racconto è arrivata per caso, e devo ringraziare fin da ora Lele Cullen per avermi aiutata a non cestinare tutto.

 

Buona lettura.

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Ti ricordi di me?

 

Capitolo 1

 

1993

 

Camila se ne sta acquattata dietro un cassonetto, contando i bambini che escono uno alla volta dagli spogliatoi. Ha quattordici anni, gli occhi azzurri come quelli di sua madre e i capelli castani di suo padre. E’ alta quanto il cassonetto a cui è appoggiata, e pesa meno di cinquanta kg.

 

Camila odia il venerdì. Lo odia più degli altri giorni. Lo odia fin da quando apre gli occhi al mattino.

Il venerdì è l’ultimo giorno della settimana in cui le è possibile lavarsi.

Ai suoi genitori sembra importare poco. A dire il vero, Camila è l’unica a lavarsi quotidianamente. Lo fa perché vuole sentirsi pulita, perché le piace il profumo del docciaschiuma che usa velocemente sul suo corpo. Lo fa perché, durante il tragitto dalla campagna al campo di calcio, può starsene per conto proprio: lontana dai genitori e dai loro amici.

 

Quando l’ultimo bambino è uscito dagli spogliatoi, la ragazza sa che è arrivato il suo momento. Può entrare. Striscia lungo il muro del campo di calcio per evitare che qualcuno si accorga di lei. Un gesto inutile, visto che finora mai nessuno si è accorto della sua presenza. Camila è un fantasma, e non solo a causa della sua figura malnutrita ed esile. La persone la evitano, a causa dei suoi capelli arruffati e delle grandi labbra che si notano di più sul suo viso incavato.

La sua andatura è dinoccolata, debole a causa del poco cibo che entra nel suo corpo. La gente di solito la guarda, mormora qualcosa e non fa altro. A volta si scostano quando lei passa. Questo accade spesso d’estate, quando Camila non riesce a lavarsi tutti i giorni come vorrebbe.

 

Lo spogliatoio è uno stanzone lungo e stretto, con una serie di armadietti e una linea di panche di legno inchiodate alla parete. C’è poi una porta che conduce alle docce, ovvero il bagno di Camila.

Con sé, la ragazza ha un vecchio asciugamano che una volta è stato bianco. Adesso è grigio.

Camila si guarda intorno, alla ricerca di una confezione di docciaschiuma dimenticata da uno dei bambini. Di solito è fortunata: i piccoli allievi della scuola calcio non custodiscono bene i propri averi. Nel corso dei mesi, Camila ha raccolto un piccolo tesoro in questi spogliatoi: magliette, ciabatte, accappatoi. E tanti flaconi di docciaschiuma. I bambini li lasciano nelle docce e Camila riesce sempre a ricavare da essi un po’ di sapone per lavarsi.

Oggi però sembra i bambini siano stati responsabili. Sul pavimento vi sono soltanto un paio di piccole ciabatte blu. Nessun flacone mezzo vuoto, nessun tubetto di dentifricio fatto cadere per distrazione. Una volta Camila ha usato quello per lavarsi. Aveva i piedi molto sporchi, e non sapeva come altro fare.

 

“Va bene, mi laverò soltanto con l’acqua,” dice a sé stessa, camminando fino all’ultimo ugello della doccia. Appoggia l’asciugamano grigio ad una staffa di metallo ed inizia a spogliarsi.

Camila sa che deve essere rapida, perché fra meno di cinque minuti il magazziniere della scuola calcio verrà a chiudere lo spogliatoio.

Toglie le scarpe, più grandi di almeno due numeri. Le appoggia sulla finestra chiusa, per evitare che si bagnino. Toglie i calzini, neri a causa della terra che entra dalle scarpe, e si ripromette che proverà a sciacquarli dopo aver fatto la doccia. Si libera dei pantaloni troppo grandi per lei e li sistema accanto alle scarpe assieme alla cintura che suo padre le ha dato.

Una volta rimasta nuda, chiude gli occhi con forza, strizzandoli, e apre il rubinetto.

A quest’ora l’acqua è sempre fredda. Gelida. I bambini hanno consumato quella calda dopo gli allenamenti, rimanendo sotto la doccia più del necessario. Camila spesso li sente ridere e giocare mentre aspetta che vadano via.

 

Si lava usando entrambe le mani, cercando di far sparire il nero dai piedi e dalle mani. Immagina che l’acqua sia calda e che sui suoi capelli vi sia dello shampoo profumato, oppure del balsamo. Ora come ora si accontenterebbe anche di un tubetto di dentifricio.

 

Quando le mani e i piedi sono puliti, Camila decide di terminare la doccia. Chiude l’acqua ed afferra l’asciugamano, che è piccolo ma perfetto per il suo minuscolo corpo.

Trema, mentre cerca di asciugarsi.

Forse è per questo che i suoi genitori evitano di lavarsi tutti i giorni.

Camila pensa a questo e al fatto che non riuscirà mai a pulire i calzini senza un po’ di sapone, quando sente una voce provenire dallo spogliatoio.

“Le ho lasciate qui, arrivo subito!”

La voce è quella di un bambino, e la terrorizza.

Camila sa che non può essere scoperta. Sa che non può farsi vedere da nessuno.

Non venire qui, non venire qui. Non entrare nelle docce, resta negli spogliatoi.

La ragazza prega in silenzio che il bambino trovi in fretta quello che ha lasciato e che vada via senza accorgersi della sua presenza. Si avvicina all’angolo, continuando a tremare, sperando che questo momento passi in fretta.

 

Il bambino è paffuto e sorridente. Il suo nome è Davide, ed ha sette anni. Il calcio non è il suo sport preferito, ma lo pratica perché così può frequentare i suoi compagni di classe anche di pomeriggio, durante gli allenamenti. Davide ha gli occhi marroni e i capelli biondi.

E ha dimenticato le sue ciabattine blu.

Quando entra nelle docce, la prima cosa che vede è Camila. La ragazza è stretta nell’angolo, spaventata almeno quanto lui. Grida, Davide, spaventato dalla presenza che non si aspettava di trovare.

“No, no, no. Non gridare, non gridare! Non gridare, ti prego.”

Il cuore di Davide batte forte. Ha paura che la ragazza possa fargli del male, ma non riesce a spostarsi, ad andare via. E’ fermo lì a causa della paura e dello shock.

Io-io-io-io devo prendere le mie ciabatte.”

“Prendile, e non dire a nessuno che mi hai vista qui. Ti prego, non dirlo a nessuno.”

Davide, gli occhi allargati per lo stupore, annuisce velocemente e si piega per raccogliere le ciabatte blu. Le stringe al petto, sentendosi in parte più sicuro.

“Che cosa fai qui?” chiede avvicinandosi alla porta, pronto a scappare se la ragazza dovesse cercare di fargli del male. “Frequenti la scuola calcio?”

“No,” risponde Camila. “Vai via, adesso. Hai preso le ciabatte, vai via. E non dire al magazziniere che mi hai visto, è chiaro?

“E’ tua quella?” Il bambino indica la cintura, scivolata a terra.

“Devi andare via, ti prego!” Camila non sa più come dirglielo. Deve rivestirsi, deve ritornare a casa.

“Ok,” risponde Davide, annuendo.

“E non dire al magazziniere che mi hai vista qui!”

Lui annuisce lentamente, continuando a sgranare gli occhi. “Ciao,” dice prima di sparire nello spogliatoio.

Camila si riveste in fretta, con il cuore in gola.

Il magazziniere mi scoverà. Non saprò cosa dirgli. Chiamerà la polizia, troveranno i miei genitori.

Indossa le stesse mutandine, gli stessi calzini sporchi, gli stessi pantaloni troppo grandi. Li lega con la cintura ed infila il maglioncino troppo corto di colore marrone. I capelli restano bagnati, come sempre.

Corre fuori dallo spogliatoio dopo essersi accertata dell’assenza del magazziniere. Quando lo vede in mezzo al campo, impegnato a recuperare palloni e birilli, scappa verso il cassonetto e prende fiato.

“Per un pelo…” sospira, stringendo l’asciugamano fra le mani.

 

Camila torna a casa un’ora dopo, a piedi. Casa è un campo abbandonato in cui lei e la sua famiglia vivono a bordo della vecchia auto di suo padre. Non sono soli. Nel campo vivono altre due famiglie, entrambe a bordo di una vecchia auto.

Sua madre, Sofia, la vede arrivare e la chiama a gran voce. “Camila! Dove sei stata? Hai comprato il tonno?”

Oh, no.

A causa del trambusto nelle docce e della paura di essere scoperta, Camila ha dimenticato di fare l’unica cosa che sua madre le aveva chiesto, ovvero comprare il tonno per la cena. Il campo di calcio si trova proprio accanto ad un supermercato: Camila avrebbe dovuto fare l’acquisto dopo l’ultima doccia della settimana, ma se ne è dimenticata.

Camila sa quale sarà la sua punizione. L’ha provata spesso, fin da quando era una bambina.

 

Nella stessa notte in cui Davide, il bambino paffuto e sorridente, dorme beato nel suo lettino, con le ciabatte blu chiuse nella scarpiera, Camila resta sveglia fuori dall’auto, tremando a causa del freddo e maledicendosi per non aver ricordato di comprare la cena.

I suoi genitori dormono all’interno della vecchia Golf color amaranto, mentre lei sconta la sua punizione.

 

***

 

E’ lunedì.

Camila è nascosta dietro il cassonetto, pronta a scattare.

Il campo resta chiuso durante il fine settimana, e ciò vuol dire che per due giorni non è riuscita a lavarsi.

 

Quando anche l’ultimo bambino ha lasciato gli spogliatoi con addosso il borsone sportivo, la ragazza entra e va dritta alle docce. Pur sapendo che l’acqua fredda è tutto ciò che l’attende, non vede l’ora di sentirla scorrere sul suo corpo. Per qualche minuto desidera sentirsi normale, pulita, libera.

Come immaginava, l’acqua è gelida. La fortuna però ha voluto che sul pavimento ci fosse un flacone di docciaschiuma.

Camila lo usa sorridendo, felice come non mai di potersi profumare con del buon sapone. Spreme la confezione su una mano fino a svuotarla e cerca di insaponarsi ovunque: sul collo, fra le dita dei piedi, sui capelli. La schiuma è inesistente, ma a lei sembra di trovarsi in una di quelle grandi vasche in cui le persone ricche fanno il bagno e si rilassano. Una di quelle vasche in cui la schiuma è simile alla panna montata.

 

Il suo stomaco brontola, al pensiero della panna montata. L’ha assaggiata una sola volta, quattro anni fa, e se ne è innamorata.

Quando va al supermercato per conto di sua madre, che non lascia mai la loro casa per paura che possano portargliela via, Camila si diverte a tenere fra le mani tutte le cose che non potrà mai comprare. Pacchi di biscotti al cioccolato, vasetti di Nutella, bombolette di panna montata. Annusa le confezioni, cercando di inebriarsi del profumo dolce, ed immagina quanto sarebbe bella la sua vita se potesse fare colazione con del latte e una brioche. A volte osserva le figure sulle confezioni, e sogna ad occhi aperti. Se avessi un tavolo su cui appoggiare una tazza. Se avessi una tazza bianca e candida. Se potessi spalmare la marmellata di castagne su una fetta di pane.

Spesso i commessi del supermercato la guardano senza dire niente. Sanno che la sua famiglia è povera, e sanno che quello di Camila è solo un sogno ad occhi aperti. Si fidano di lei, sanno che non ruberebbe mai nulla, per cui le permettono di gironzolare nelle corsie, anche se tutto ciò che le occorre è una scatoletta di tonno, o una di lenticchie, o una birra scadente per suo padre.

 

Camila sogna ad occhi aperti anche adesso, e non si rende conto della voce di Davide che proviene dagli spogliatoi.

Il bambino, che stavolta ha dimenticato i pantaloncini della divisa, sente scorrere l’acqua della doccia. “C’è ancora qualcuno?” chiede guardando verso la porta. “Giuliano, sei tu?”

Camila riconosce immediatamente la sua voce. Chiude l’acqua e trova riparo nell’asciugamano grigia, pregando in silenzio che il bambino vada via.

“Giuliano?” Con i pantaloncini fra le mani, Davide va alle docce e grida di nuovo quando si accorge di Camila.

“Vai via,” gli dice lei. “E non dire a nessuno che mi hai vista.”

Davide è spaventato, ma solo perché non si aspettava di ritrovare la ragazza. Non ha paura come l’altra volta. Non teme che lei possa fargli del male.

“Come ti chiami?” le chiede.

“Vai via,” risponde lei. “E non dire a nessuno che mi hai vista.”

Davide non riesce a capire perché lei non voglia far sapere che è qui.

“Come ti chiami? Io sono Davide.”

“Davide, vai via.”

Camila ha freddo. Vuole rivestirsi ed tornare a casa. E magari trovare un altro posto in cui potersi lavare senza interruzioni.

“Perché ti lavi qui?” chiede Davide. “Se non ti alleni e non fai parte della scuola calcio non puoi usare gli spogliatoi…

Il bambino è incuriosito. Vuole capire.

“Non ce l’hai una casa? Perché vieni a lavarti qui? L’acqua è fredda.”

La guarda dalla testa ai piedi, con gli occhi grandi. “I tuoi piedi sono neri. Che cosa hai fatto?”

Camila non sa come rispondere. Non vuole gridare, perché sa che attirerebbe l’attenzione del magazziniere.

“Io sono povera,” dice senza pensarci. “Non ce l’ho una casa. Adesso vai via.”

“Sei povera?” chiede Davide. “E la tua mamma? Non ce l’hai una mamma? E dove vivi?”

“Vai via,” lo implora Camila. “Ti prego.”

Davide infila una mano nella tasca dei jeans puliti, e da essa tira fuori una barretta al cioccolato. L’ha appena comprata, allo stesso supermercato in cui Camila sogna di poter fare colazione con latte e biscotti.

“La vuoi? E’ una barretta. E’ buona.”

Camila ha assaggiato quel dolcetto una sola volta, quando una delle cassiere gliel’ha regalata. Era Natale.

“Tieni, mangiala. E’ buona.” Davide percorre la distanza che li separa senza paura.

Quella ad avere paura è Camila, che si chiude nell’angolo e guarda Davide come se fosse un mostro in procinto di aggredirla. E’ più basso di lei, ma ciò nonostante rappresenta un pericolo ai suoi occhi.

Davide appoggia la barretta sulla finestra, accanto alle scarpe. Le osserva per un attimo, il tempo di accorgersi che sono rotte in corrispondenza dei talloni.

“Queste sono le tue scarpe?”

Camila gli fa segno di sì con la testa. “Devo rivestirmi,” gli dice. “Devi andare via. Per favore.”

Davide continua a fissare le scarpe. “Come ti chiami?”

“Camila,” risponde lei esasperata. “Adesso vai.”

“Camilla?”

“No, Camila. Con una L.”

“Camila,” ripete lui, sorridendo per quello che pensa sia un errore. “Verrai anche domani? Io verrò anche domani. Se vuoi… se vuoi posso portarti un’altra barretta. Sono buone, sono le mie preferite.”

“Ok,” dice lei per liberarsene. “Adesso vattene.”

“Ok,” risponde lui, dispiaciuto per i modi un po’ bruschi di lei. “Ciao, Camila.”

 

Il giorno dopo, martedì, Davide aspetta che suo padre vada a prenderlo e si accorge di Camila, nascosta dietro il cassonetto. Corre verso di lei e le lascia tre barrette al cioccolato. La ragazza le mangia mentre torna a casa, felice per essere riuscita a mettere qualcosa sotto i denti.

Mercoledì, Camila trova una confezione di docciaschiuma sulla finestra, nel posto in cui appoggia sempre i vestiti prima di fare la doccia. Dietro il docciaschiuma c’è una barretta al cioccolato. La mangia mentre fa la spesa nel supermercato, felice per avere – una volta tanto – la pancia piena.

 

Camila sa che è stato Davide a lasciarle il sapone e la cioccolata.

Vorrebbe dirgli grazie, ma anche di smetterla. Ha paura, Camila, che il bambino possa metterla in un guaio. Che il magazziniere possa rendersi conto di ciò che succede nelle docce quando gli allenamenti sono finiti. Che i suoi genitori possano per questo punirla di nuovo, facendole trascorrere la notte all’aperto, seduta sul terreno scuro del campo in cui vivono, mentre loro dormono nella vecchia Golf.

Giovedì, Camila vede Davide, ma lui non riesce a vedere lei. Il bambino ha una busta di plastica fra le mani e Camila vorrebbe tanto sapere cosa nasconde, ma non può. Non può approfittare del bambino e non può rischiare di essere scoperta dagli altri.

Entra nelle docce con l’asciugamano e il flacone di docciaschiuma fra le mani, felice all’idea di potersi lavare come si deve.

Il giorno dopo, venerdì, Davide aspetta Camila nelle docce. E’ lei ad urlare, stavolta, quando lo vede.

“Ti ho portato queste,” dice lui porgendole la busta di plastica che aveva in mano giovedì. “Sono di mia sorella. Le ho prese in soffitta, sono vecchie, ma non sono rotte come le tue.

Un paio di scarpe. Davide le ha portato un paio di scarpe.

“Sono da femmina,” le spiega lui. “Sono di mia sorella. Ti vanno? Provale.”

“No,” risponde lei. “Non posso accettarle.”

“Perché? Priscilla non le usa, e le tue sono rotte. Prendile. Vuoi una barretta?” Dalla tasca dei jeans tira fuori tre barrette e gliele mette in mano. “Sono buone, non è vero?”

“No,” dice Camila con un nodo alla gola. “Non posso accettare tutto questo… no.”

I suoi genitori accetterebbero tutto, e probabilmente chiederebbero qualcosa in più. Ma Camila prova vergogna, e si sente in colpa. Un bambino di sette anni non dovrebbe occuparsi di lei in questo modo.

“Se non le prendi lo dirò al magazziniere,” dice Davide sollevando la testa. “E chiamerò anche mio padre. Prendile, Camila. Sono soltanto delle scarpe. Sono rosa. Sono da femmina. Ti piacciono? Provale.”

Camila le prova. Sono grandi, ma non troppo grandi. Sono calde.

“Ti piacciono?” chiede lui sorridendo.

“Sì,” risponde lei commuovendosi. “Grazie.”

“Prego,” dice Davide. “Adesso prendi anche le barrette. Mangiale.”

Lo stomaco brontola di nuovo quando morde la prima. Davide se ne accorge.

“Aspettami qui, ok? Torno subito, Camila. Non ti muovere.” Fa per allontanarsi, ma lei lo trattiene per un braccio.

“Stai andando a chiamare qualcuno?” chiede terrorizzata.

“No,” dice lui. “Aspettami, torno subito.”

Camila potrebbe fuggire, portando con sé le barrette e le scarpe, ma non lo fa. Davide è stato talmente gentile e generoso che lei non riesce a muoversi dalle docce.

Quando il bambino rientra, ha un involucro giallo fra le mani.

Camila capisce subito di cosa si tratta. Il suo olfatto elabora il profumo velocemente.

“Tieni,” le dice Davide. “Ti piace il prosciutto cotto?”

Scarta il panino e glielo porge. “Vuoi anche una Coca Cola? Posso andare a prendertene una se vuoi.”

“No,” dice lei a bassa voce. “No. Grazie,” aggiunge guardando i suoi occhi marroni. “Grazie, Davide.”

“Prego,” risponde lui.

La osserva mentre mangia fino all’ultima briciola, soddisfatto e contento.

“Domani il campo è chiuso, dove andrai a lavarti?” le chiede ad un tratto.

Lei scuote il capo. “Non mi laverò fino a lunedì,” risponde.

“Vuoi venire a casa mia? Potresti conoscere Priscilla. Potresti usare il nostro bagno.”

“No,” risponde subito lei. “Non posso.”

“Perché? Possono venire anche i tuoi genitori, se vogliono.

“No,” ribatte Camila. “Meglio di no. Adesso devo andare,” dice raccogliendo le vecchie scarpe.

“Aspetta,” dice lui. “Come farai… come farai a mangiare fino a lunedì? Ci sarà qualcun altro che… come farai?”

Camila scrolla le spalle. “In un modo o nell’altro riuscirò a mangiare. Non preoccuparti,” dice arruffandogli i capelli biondi. “Grazie per le scarpe e per il cibo. E per il sapone.”

“Verrai lunedì? Vuoi che ti porti qualcosa di speciale? In soffitta ho trovato anche un giubbotto, lo vuoi? Posso nasconderlo nel borsone. Il prosciutto cotto ti è piaciuto? Posso portare un panino da casa, come quello che mia madre prepara per me.

“No,” dice lei con veemenza. “Non voglio niente, Davide. Non devi metterti nei guai per me.”

“Ma tu… tu sei povera,” risponde lui sottovoce, vergognandosi quasi.

“Lo so, ma questo non è un tuo problema. Hai già fatto molto per me. Non devi preoccuparti, chiaro?”

Davide non è convinto delle sue parole, ma abbassa gli occhi ed annuisce. “Verrai comunque lunedì?”

“Sì,” risponde la ragazza. “Ciao, Davide.”

“Ciao, Camila. Ci vediamo lunedì.”

Davide la guarda andare via, con ai piedi le scarpe di sua sorella e nello stomaco il panino che lui le ha comprato con i soldi della paghetta.

E’ contento di averle dato una mano, anche se ci sono molte cose che ancora non sa.

Non sa, Davide, che Camila passerà la notte all’aperto, in punizione, perché non dirà ai genitori da dove arrivano le nuove calzature.

Non sa, Davide, che da lì a quarantotto ore la ragazza partirà con i suoi genitori per la Germania.

Non sa, Davide, che dovranno passare diciassette anni prima di rivedere Camila.

 

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E’ la seconda volta che scrivo qualcosa in terza persona. Fatemi sapere se è il caso che continui o che lasci perdere XD

Grazie fin da ora.

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Wow

Wow. Devo ammetterlo, non mi aspettavo una risposta così numerosa e positiva per il primo capitolo. Grazie per ogni commento ricevuto, grazie infinite ad ognuno di voi.

Prima di lasciarvi all’aggiornamento, ci tengo a dirvi che ho sollevato il rating a giallo. Avrei dovuto farlo fin dall’inizio, ma me ne sono dimenticata. Sorry.

 

Buona lettura.

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Capitolo 2

 

2010

 

Davide ha ora ventiquattro anni. Studia ingegneria in un’università molto prestigiosa, e pensa che riuscirà a laurearsi entro il 2011.

Ha perso la pancetta che aveva da bambino ed è diventato molto alto. Adesso è poco meno di un metro e ottanta. I capelli sono rimasti biondi e gli occhi sono sempre marroni.

Quindici anni fa, due anni dopo l’incontro con Camila, suo padre è morto. Il suo nome era Cosimo; faceva un lavoro difficile e pericoloso, il poliziotto. Durante un posto di blocco, dei malviventi gli hanno sparato, ferendolo a morte.

La madre di Davide, la signora Simona, si è risposata cinque anni dopo, con un produttore di olio extra vergine. Davide si è trasferito nella città in cui studia adesso, ha cambiato scuola ed amici, ha abbandonato la scuola calcio.

E’ cresciuto in maniera serena, grazie anche alla vicinanza di sua sorella Priscilla. Lei e sua madre hanno saputo dargli l’affetto di cui aveva bisogno dopo la morte di Cosimo. Anche Giancarlo, il suo patrigno, ha contribuito alla sua crescita. Con lui, Davide ha parlato di sport, di politica, di scuola. Grazie a lui, ha imparato a fare il nodo alla cravatta e ad essere educato e galante con le donne.

Ciò nonostante, a Davide è sempre mancato suo padre. Il suo vero padre. Con Cosimo, ogni conversazione era spontanea, naturale. Con lui si sentiva a casa. Guardava a suo padre, Davide, sapendo che egli rappresentava ciò che di giusto e rispettabile esisteva nella sua vita. Lo amava e lo temeva. Lo venerava e gli ubbidiva.

Questa mancanza ha inciso su alcuni aspetti della sua vita. Negli anni travagliati del liceo, quando scopriva l’altro sesso ed i rapporti d’amicizia erano diversi rispetto alle elementari, Davide desiderava più di ogni altra cosa la presenza di suo padre. Dopo la maturità, quando ha dovuto scegliere la facoltà più adatta alle sue inclinazioni, avrebbe voluto ascoltare il parere di suo padre. E quotidianamente, quando si trova di fronte ad una scelta o ad un problema, Davide si chiede sempre “Cosa farebbe papà?” oppure “Papà sarebbe orgoglioso di ciò che ho fatto?”

Simona, Priscilla e Giancarlo rappresentano per lui una famiglia solida e presente, ma l’assenza di Cosimo l’ha condizionato e lo condiziona.

Capitano volte in cui Davide non riesce a ricordare la voce di suo padre, oppure non riesce ad immaginare un suo consiglio, un suo parere. In quei momenti, quando si sente smarrito, la rabbia lo assale. In quei momenti, invidia Priscilla e sua madre che conservano una quantità maggiore di ricordi di Cosimo. In quei momenti, odia Giancarlo. Lo fa sapendo che lui non è stato la causa della morte di suo padre. Lo fa sperando quasi di poter dimenticare tutto e vivere bene come fa sua sorella.

Ma la vita di Davide non è solo questo.

E’ uno studente brillante, orgoglio di sua madre e dei suoi vecchi insegnanti. E’ un amico simpatico ed affidabile. E’ un ragazzo attraente e desiderato, non solo per il suo aspetto.

Dal terzo anno di liceo, Davide è stato conteso da molte ragazze. All’inizio non faceva nulla per attirare la loro attenzione. All’inizio non pensava di poter essere bravo nelle vesti del fidanzato. Col passare del tempo, storia dopo storia, ha cambiato idea.

Adesso, a ventiquattro anni, Davide può dire di avere una discreta esperienza con il gentil sesso. Non ha mai avuto una relazione stabile, nel senso stretto del termine. Si è innamorato due volte: la prima al liceo, ma egli non crede che i sentimenti per Antonella fossero vero amore, e la seconda volta al primo anno di università. Carla, questo era il nome della studentessa di economia, era – purtroppo per Davide – già fidanzata.

Le sue relazioni sono sempre temporanee, precarie. Lui non cerca l’amore, e l’amore non cerca lui.

Il ragazzo non se ne cruccia: è giovane, è bello, le ragazze non sono un problema.

Come Alessia, ad esempio, la ventunenne con cui ha appena finito di mangiare una pizza.

Si sono conosciuti ad una partita di hockey su prato, lo sport praticato da Priscilla.

Hanno visto insieme qualche match, Davide e Alessia, fino a che lui le ha chiesto di uscire.

Lei ha accettato immediatamente, ed ora sono al terzo appuntamento.

E’ una ragazza carina, molto carina. Più bassa di Davide, ha i capelli biondi ed il viso tondo. Il seno è prosperoso e delizioso, e lui l’ha notato subito, perché il seno è una delle prime cose che osserva in una ragazza. Quello, e le orecchie. Non sa perché gli piacciano tanto le orecchie, in una ragazza, mentre è facilmente immaginabile perché preferisca il seno.

Alessia studia scienze politiche alla sua stessa università. Non è originaria di Roma, e i suoi genitori sono entrambi avvocati.

“Oh, grazie,” dice lei quando Davide apre lo sportello della sua auto per farla salire. Le prende perfino la mano per aiutarla.

Davide sa che alle donne piacciono certe accortezze. Sa che, di fronte ad un certo tipo di trattamento, anche la ragazza più tesa si addolcisce.

Non che Alessia sia tesa. Lei è perfettamente a suo agio: si gode il trattamento da principessa e non vede l’ora che Davide si spinga più in là.

“La pizza era molto buona,” gli dice mentre lui mette in moto la vettura. “Però avresti dovuto lasciarmi pagare la mia parte.” Lo dice, ma in realtà non lo pensa: è contenta che Davide le abbia fatto riporre il portafoglio nella sua borsa di Louis Vuitton.

“Smettila,” ribatte lui con un sorriso. Guida con sicurezza, ma senza una meta precisa.

Non se la sente di accompagnare la ragazza a casa, ma non vuole neppure andare a finire in un club o in un cinema. E’ venerdì, e le probabilità che accada l’una o l’altra cosa sono piuttosto elevate.

“Permettimi allora di offrirti una birra,” dice Alessia. “Ti va?”

Prima di rispondere, Davide lancia uno sguardo al suo enorme seno, di cui può ammirare il sodo incavo attraverso lo scollo della maglia che lei indossa.

“Certo che mi va,” risponde sollevando gli occhi sul suo viso. “Andiamo al Robin Hood?”

“A dire il vero… potremmo andare da me. E’ venerdì, l’appartamento è vuoto.” Nel dirlo, si bagna le labbra, lanciando con il corpo un segnale che Davide ha imparato a conoscere molto bene.

Alessia non vuole soltanto bere una birra.

“Ok,” risponde con voce più bassa. “Andiamo da te.”

Il viaggio è pressoché silenzioso. Davide ed Alessia si scambiano poche parole, forse a causa della tensione sessuale creatasi in una manciata di secondi. Commentano un pezzo passato in radio, lui le chiede come va lo studio per il suo prossimo esame. Gli sguardi che si scambiano, però, sono sguardi di chi pensa a tutto tranne che alla musica o all’università.

Arrivati nel parcheggio del palazzo in cui vive la ragazza, Davide parcheggia e spegne il motore.

“Oh, no…”

Alessia si sporge in avanti, guardando in alto, in corrispondenza del suo piano.

“Che c’è?” chiede lui, sporgendosi come lei ma affondando gli occhi nella scollatura.

“Una delle mie coinquiline è in casa. Ma non importa,” spiega. “Possiamo starcene nella mia stanza,” dice con un sorriso che infiamma il suo volto e quello di Davide.

“Avrei dovuto immaginare che non sarebbe uscita,” dice Alessia quando sono nel portone. “Non esce mai.”

“E’ una studentessa come te?” chiede lui per fare un po’ di conversazione.

“No,” risponde la ragazza. “E’ più grande di noi. Lavora, ma non ho idea di cosa faccia. Non parliamo molto. A dire il vero non parla neppure con l’altra coinquilina.

“Perché fai quella faccia?” chiede Davide, notando la bocca di lei arricciata in una espressione di disgusto.

“Perché secondo me è matta. Io e Ida, l’altra coinquilina, l’abbiamo soprannominata La Pazza. Se ne sta sempre chiusa in camera, esce solo per prepararsi la cena o per prendere qualcosa dalla dispensa. A stento sappiamo che faccia abbia.” Alessia ride ed aggiunge qualcos’altro, ma Davide non l’ascolta. Vorrebbe chiederle perché, secondo lei, una persona riservata debba essere automaticamente matta, ma la risata di lei si riflette sul suo corpo, in particolare sul decolleté, che rimbalza vistosamente.

Davide non riesce a prestarle attenzione, concentrato com’è su una cosa specifica.

Al diavolo la birra, al diavolo La Pazza. Voglio solo spogliarla ed affondare dentro di lei.

L’appartamento di Alessia è al terzo piano. Una volta raggiunto, grazie all’ascensore, la ragazza apre la porta e si guarda in giro, alla ricerca della coinquilina.

“Non c’è,” dice facendo entrare Davide. “Deve essere andata a dormire.” Indica la porta che si trova in fondo al corridoio. “Quella è la sua stanza. Quella accanto è la mia. Vieni,” dice prendendolo per mano. “Andiamo.”

In cucina, Alessia appoggia la borsa sul tavolo ed apre il frigorifero. “L’apribottiglie è nel primo cassetto,” dice passandogli una birra ed indicando un mobile.

“E’ un posto tranquillo,” dice lui.

La cucina è piccola, con le mattonelle bianche e blu e le sedie di legno. Una tipica cucina in una tipica casa di studenti. Lui ne ha viste molte, avendo parecchi amici che non sono di Roma, ed avendo frequentato diverse studentesse.

Bevono la birra in silenzio, lo stesso silenzio carico di tensione di poco prima.

Lui è appoggiato alla cucina; lei gli va incontro, ondeggiando i fianchi.

“Non ti ho fatto i complimenti per questo completo,” gli dice dopo aver bevuto un sorso. “Il nero ti sta da Dio…”

“Da quando in qua sono le donne a complimentarsi per l’abbigliamento?”

“Ti spiace che abbia fatto un apprezzamento?” chiede ammiccando.

“Affatto,” risponde Davide, ingoiando il liquido fresco. “Anzi, mi sento piuttosto lusingato,” aggiunge, allargando le gambe per fare spazio a lei.

Alessia sorride e beve un altro po’ di birra. Lui ne approfitta per catturare una ciocca di capelli sfuggiti alla coda alta.

“Ti va di mostrarmi la tua camera?” chiede a bassa voce. Appoggia la bottiglia di birra su un ripiano, sapendo che di lì a due minuti non ne avrà più bisogno.

“Volentieri,” risponde Alessia, compiendo un altro passo nella sua direzione. Lo prende per mano e lo attira a sé per baciarlo. Davide non si tira indietro: ha sempre apprezzato le ragazze propositive, attive.

E Alessia è molto attiva. Lo conduce nella sua stanza, chiude la porta a chiave e gli salta letteralmente addosso, dando vita ad una spettacolare notte di passione, esaudendo il desiderio che Davide ha avuto fin dal giorno in cui l’ha vista per la prima volta alla partita di hockey di Priscilla.

Il mattino dopo, lui è il primo a svegliarsi. Il lettino di Alessia è comodo per il sesso, ma non per il riposo. La schiena gli fa male, e inoltre ha bisogno di andare al bagno.

Scende dal letto liberandosi dalle braccia della ragazza, e in punta di piedi esce dalla stanza. In casa non vola una mosca, tutto tace.

Si chiude in bagno per un attimo e poi decide di fare una capatina in cucina per bere un sorso d’acqua. Nel breve tragitto bagno-cucina ripensa alla notte trascorsa, e non può fare a meno di sentirsi orgoglioso di se stesso. Ha ventiquattro anni: la vita per lui è una tela bianca da riempire di sogni e di notti passate con una prosperosa bionda a cavalcioni sui suoi fianchi.

Dal frigorifero afferra una bottiglia d’acqua e poi va alla ricerca di due bicchieri, uno per sé e uno per Alessia.

Apre uno degli sportelli dei mobili appesi al muro, e rimane a bocca aperta.

L’intero pensile è stipato di barrette di cioccolato di ogni tipo, di ogni gusto.

“Wow…”

Gli sembra di trovarsi dinanzi allo scaffale di un supermercato, o in una pasticceria ben fornita.

“Chi sei?”

Davide salta in aria, spaventato a causa della voce appena sentita.

Si volta verso sinistra e nota una ragazza che non è chiaramente Alessia.

Pensa che sia La Pazza.

Non sa che il suo nome è Camila.

 

---

 

Ad Alessia ho scelto di dare il mio nome per non far impazzire il neurone. A differenza della ventunenne, non sono bionda e non ho una quinta di reggiseno. Meh.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Capitolo 3

 

2010

 

Camila non ha mai dimenticato il volto di Davide. Ha dimenticato parecchie cose, nel corso degli anni, ma quel ricordo non ha mai lasciato la sua mente.

Ha pensato a lui quando ha passato la notte fuori casa, dopo che lui le aveva regalato le scarpe rosa di Priscilla. Ha pensato a lui quando è partita, lasciando la Puglia per attraversare lo stivale e arrivare in Germania. Ha pensato a lui quando si è ritrovata in una vera casa, con pareti e finestre, con un tavolo per fare colazione ed un letto su cui dormire.

Ha tenuto le scarpe di Priscilla ai piedi fino a quando suo padre non ha portato a casa un paio di ciabatte vecchie e i soldi per comprare nuove calzature. Le ha tenute con sé fino a quando ha lasciato la Germania, a diciassette anni.

 

Subito dopo l’arrivo in Germania, lei e la sua famiglia hanno vissuto un periodo di rinascita. Nessuno di loro conosceva il tedesco, ma nel palazzo di periferia in cui vivevano hanno conosciuto due famiglie di italiani, residenti in quel posto da più di vent’anni. Chiacchierare con loro li faceva sentire a casa, in un certo senso.

Camila era felice di potersi lavare in un bagno tutto suo e di mangiare qualcosa di diverso dal tonno stoppaccioso o dai legumi in scatola. Sua madre poteva uscire liberamente, senza temere che qualcuno le portasse via la vecchia Golf.

I suoi genitori lavoravano in una fabbrica che produceva cerniere lampo. Sofia lavorava dalle otto del mattino alle otto di sera, e Mario dalle otto di sera alle otto di mattina.

Lo stipendio di entrambi permetteva loro di pagare l’affitto dell’appartamento con due camere da letto, mantenere la Golf, comprare il cibo e pagare le bollette.

 

Camila si occupava della casa, ed era felice di farlo. Le piaceva cucinare, rassettare, andare a fare la spesa. Suo padre passava le ore diurne a letto, a dormire, e la ragazza non andava a scuola: non aveva altro da fare se non la casalinga. Inoltre, sapeva bene che sua madre sarebbe stata stanca, una volta uscita dalla fabbrica. Voleva, Camila, evitare che si stancasse ulteriormente per preparare la cena ed il pranzo per il giorno dopo.

I figli dei vicini di casa italiani avevano pochi anni in più rispetto alla ragazza. Due di loro studiavano, mentre un altro (il più grande dei tre ragazzi) lavorava in una fabbrica che produceva telefoni.

Camila avrebbe voluto trascorrere il tempo con loro; cercare di fare amicizia, imparare il tedesco per poter guardare la tv e per leggere i giornali, ma i ragazzi erano impegnati nelle loro cose, spesso assenti, e comunque non hanno mai espresso una viva curiosità nei suoi confronti.

Lei e i suoi genitori erano i più poveri, gli ultimi arrivati, quelli che dovevano necessariamente arrangiarsi da soli.

Camila l’ha fatto, si è arrangiata da sola.

Ha imparato a leggere il tedesco andando al supermercato, facendo la spesa. Ha passato ore ed ore nelle corsie, cercando di memorizzare le parole e ascoltando gli altri parlare.

Non ha mai imparato la lingua fluentemente, ma nei tre anni trascorsi lì è riuscita a farsi comprendere dagli abitanti del luogo, dalle cassiere, dai fruttivendoli e dai giornalai.

Ha letto e riletto centinaia di volte gli stessi giornali, fino a memorizzare le parole. Ha visto decine di film e decine di soap opera.

E ha mangiato tante barrette al cioccolato. Quando le ha viste al supermercato, ha ricordato per l’ennesima volta il viso di Davide, paffuto e sorridente. Ne ha comprato un pacco, è tornata a casa e le ha mangiate una alla volta. Quando sono finite, è ritornata al supermercato ed ha acquistato altri due pacchi di barrette.

Continuava ad essere povera, ma adesso poteva permettersi i dolcetti, il docciaschiuma al profumo di miele e dei pantaloni della sua taglia, puliti e privi di buchi. Lavava il bucato per lei e per i suoi genitori, felice di stendere ad asciugare calzini bianchi e asciugamani privi di sporcizia grigiastra.

 

Due anni dopo il loro arrivo in Germania, quando Camila aveva sedici anni, accaddero due cose.

Nel mese di Marzo, la madre della ragazza venne licenziata, a seguito di un alleggerimento del personale. Arrabbiato e furioso, Mario picchiò malamente il direttore della fabbrica, reo - secondo lui - di aver licenziato ingiustamente sua moglie. Inutile dirlo, venne anch’egli licenziato.

Da un giorno all’altro Camila si ritrovò di nuovo senza docciaschiuma, senza barrette, senza detersivo per fare il bucato.

I pochi soldi messi da parte servivano per pagare l’affitto e le bollette.

Il periodo di rinascita era vicino alla conclusione. I genitori di Camila litigavano spesso. Non cercavano un nuovo lavoro perché non sapevano fare altro che piegare plastica e produrre cerniere, ed erano entrambi troppo arrabbiati per riuscire a ragionare con chiarezza. Sono sempre stati poco inclini al lavoro, e probabilmente è stato solo grazie ad un miracolo che abbiano resistito in fabbrica per due anni.

 

Camila decise di cercarsi un’occupazione. Non aveva un titolo di studio, non conosceva bene la lingua. Non sapeva fare molto, tranne che cucinare e pulire. Andò a finire a casa di una signora che aveva conosciuto al supermercato. Lei aveva bisogno di qualcuno che pulisse e facesse da mangiare, Camila aveva bisogno di un lavoro.

Il marito della donna era un medico, e lo studio si trovava all’interno della casa.

Camila non guadagnava molto, ma i coniugi Bauer – due persone di mezza età molto gentili - si affezionarono particolarmente a lei. Le donavano grandi cesti di frutta e verdura, le regalavano vestiti e borse. Il signor Bauer, colpito dall’andatura dinoccolata della ragazza, le fece fare gratuitamente degli esami del sangue e le prescrisse una cura a base di calcio ed altre vitamine.

Camila era felice di lavorare per loro. Li considerava come dei vecchi zii, invece che datori di lavoro.

I suoi genitori rimanevano a casa, prevalentemente ad oziare. Quando non oziavano, litigavano.

I soldi guadagnati da Camila erano sufficienti per le spese più importanti, per cui i due si lasciarono andare definitivamente, contenti per il fatto che il frigorifero e la dispensa fossero sempre pieni.

Quando Camila rientrava a casa, nel pomeriggio, doveva occuparsi della cena, e del pranzo per il giorno successivo.

 

Sei mesi dopo aver trovato lavoro presso i Bauer, accadde un’altra cosa: Umberto, il figlio dei vicini che lavorava nella fabbrica di telefoni, iniziò ad interessarsi a lei.

Camila non aveva mai provato attrazione per un ragazzo. Non aveva mai dato un bacio, non aveva mai pensato di poterlo fare.

Grazie alla corte di Umberto, un ragazzo basso ma ben piazzato, Camila scoprì tutte quelle cose. Si innamorò per la prima volta, diede il suo primo bacio, perse la verginità.

Aveva diciassette anni quando Umberto le chiese di diventare sua moglie. Lui ne aveva ventidue, ed era deciso a ritornare in Italia, il paese in cui era nato e in cui voleva costruire una famiglia.

I genitori di Camila non volevano che sua figlia si allontanasse; sapevano che il suo ritorno in Italia avrebbe significato la perdita dei sussidi tedeschi di cui lei beneficiava in quanto lavoratrice a basso reddito. Sapevano che il suo matrimonio avrebbe significato, per loro, la necessità di cercarsi un lavoro.

Ciò nonostante, acconsentirono alle nozze e vi parteciparono. La cerimonia si tenne in Basilicata, nel paesino da cui erano partiti i genitori di Umberto. Il vestito di Camila era arrivato in regalo dai Bauer, che le promisero di assumere sua madre e le augurarono una vita felice e tanti bei bambini. Il matrimonio fu molto semplice. Di ogni spesa si occupò la famiglia dello sposo - felice di Camila, ma meno dei suoi genitori.

 

La ragazza era entusiasta della sua nuova vita. Voleva una bella casa, una bella famiglia. Voleva dei figli con l’uomo che amava.

I suoi tornarono in Germania e lei li lasciò andare, sapendo che non avrebbe potuto sostenerli a causa delle tante spese successive al matrimonio. Aveva diciassette anni. Riusciva a camminare meglio, grazie alle vitamine del dottor Bauer, e si sentiva felice accanto ad Umberto.

Ricordava il volto di Davide nonostante avesse lasciato le scarpe di sua sorella in Germania. Lo ricordava quando andava a fare la spesa, mentre Umberto era al lavoro, in una fabbrica che produceva piatti e bicchieri di plastica. Lo ricordava quando vedeva un bambino con in mano un pallone da calcio.

 

Lo ricorda adesso, mentre Davide gli è davanti, nella cucina della casa in cui vive da tre anni.

Non crede ai suoi occhi, Camila. Vorrebbe poter dire che sta sognando, che si sta sbagliando, ma sa di essere sveglia e sa con certezza che il ragazzo di fronte a lei è Davide.

Il bambino con le ciabattine blu, il bambino che le regalò un panino al prosciutto.

Camila non l’ha mai dimenticato.

E adesso è lì, davanti al suo pensile, quello colmo di barrette al cioccolato.

Che strano scherzo del destino, pensa Camila. Sono passati quasi vent’anni, e ci ritroviamo dinanzi alla cioccolata.

 

Davide è cambiato. E’ cresciuto, ma gli occhi sono grandi e marroni come diciassette anni fa. I capelli sono dello stesso colore, e anche il naso è lo stesso.

Tuttavia potrebbe sbagliare. Potrebbe confondersi. Potrebbe semplicemente essere suggestionata dai ricordi.

“Chi sei?” gli chiede ad alta voce.

“Um… ciao,” dice lui, con una voce chiaramente diversa da quella di un bambino. “Mi chiamo Davide, sono un amico di Alessia. Sto cercando i bicchieri, sai dove posso trovarli?

E’ lui, pensa. E’ Davide.

“Nell’ultimo sportello a destra,” dice. La voce trema a causa dell’emozione.

Mi ha riconosciuta? Si ricorda di me?

“Grazie,” risponde lui. Chiude gli sportelli del pensile e trova i bicchieri in quello nell’angolo.

Camila nota che è molto alto, e magro. Chissà cos’ha fatto in tutti questi anni. Chissà perché si trova qui a Roma. Pensa a tante domande, e si dà tante risposte. Forse è uno studente. Ha detto di essere amico di Alessia, forse frequenta la sua stessa università.

Dopo aver trovato i bicchieri, Davide si ferma a fissare Camila. Lo fa con curiosità, e la ragazza (ormai donna) non sa se lui stia ricordando, stia capendo.

“Come hai detto di chiamarti?” chiede avvicinandosi.

“Non l’ho detto,” risponde lei con un sorriso.

Si chiede come reagirà quando sentirà il suo nome. Si chiede se resterà per raccontarle cos’ha fatto in tutto questo tempo.

“Come ti chiami?” chiede lui sorridendo.

“Mi chiamo-”

“Ehi, Cami! Vedo che hai conosciuto Davide!”

Alessia spunta dal corridoio, indossando soltanto una t-shirt bianca. Scalza, si avvicina a Davide dando le spalle a Camila e mimando con la bocca la parola ‘pazza’.

“Camila, lui è Davide… un mio caro amico.” Nel dirlo, Alessia solleva le punte e gli dà un bacio sulle labbra, trovando immediatamente quelle di lui. “Davide, lei è Camila, una delle ragazze con cui divido l’appartamento.”

“Camila?” chiede lui facendo un passo in avanti. Osserva gli occhi azzurri della donna che ha di fronte. “Con una sola L?”

“Sì,” risponde Alessia, prima che Camila possa aprire bocca.

“Sì,” le fa eco quest’ultima. Resta a guardare il ragazzo senza aggiungere altro, sperando che lui ricordi. Sperando che capisca.

Davide inclina il capo sulla spalla e continua a scrutarla.

 

Camila sa di essere cambiata, di essere invecchiata, ma spera che in lui scatti qualcosa: una voce, un’immagine. Non vuole parlargli in presenza di Alessia. Non vuole dirgli ‘Ehi, ti ricordi di me? Sono la ragazza che si lavava negli spogliatoi della scuola calcio’.

Camila sa che Alessia e Ida non sono le sue più grandi fan. Sa che la considerano una reclusa, una persona con dei problemi mentali. Le ha sentite sghignazzare, una sera, mentre commentavano la sua dispensa, ricca di cose dolci, ed il suo armadietto nel bagno, ben fornito di sapone.

Camila è ancora la ragazza forte e coraggiosa di un tempo, ma non vuole subire un’umiliazione proprio adesso, in presenza di Davide.

“Con una sola L,” ripete lui, stavolta a voce più bassa. Non è una domanda, bensì un’affermazione. “Tanto tempo fa ho conosciuto una ragazza con questo nome. A Carovigno, vicino Brindisi. Ci sei mai stata? La conosci?”

Camila è nata a Carovigno. Ha frequentato lì le scuole elementari e le medie. E’ lì che ha conosciuto Davide. E’ da lì che è partita per la Germania.

“No,” dice abbassando gli occhi. “Non la conosco,” aggiunge. “Adesso devo andare.”

Esce di casa senza salutare. Dopo aver chiuso la porta, sente la fragorosa risata di Alessia e le sue parole ovattate. “Te l’ho detto, è pazza.”

 

---

 

Avete letto solo una parte della storia di Camila.

Cosa le è successo dal giorno delle nozze? Che fine hanno fatto i suoi genitori? Dov’è Umberto? Questo e molto altro nei prossimi aggiornamenti ù.ù

 

Dallo scorso capitolo ho iniziato a rispondere alle vostre recensioni singolarmente. Per leggere la mia replica al vostro commento non dovete fare altro che curiosare nelle recensioni del capitolo :)

 

Grazie ancora una volta per la risposta a questa storia. A presto.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Grazie a tutti per ogni singolo commento, pubblico o privato

Grazie a tutti per ogni commento, pubblico o privato. Sono davvero contenta che questa storia vi stia piacendo.

 

Capitolo 4

 

2010

 

Camila non si è mai persa d’animo nella sua vita. Si è sempre data da fare, soprattutto nelle situazioni più svantaggiate. Per questo, dopo aver ascoltato, attraverso la porta, le parole di Alessia decide di alzare la testa e di proseguire per la sua strada.

Ciò nonostante, mentre esce dal palazzo e si avvia alla fermata della metropolitana, non può fare a meno di ripensare a ciò che è accaduto nella sua abitazione.

Avrebbe voluto rispondere in maniera diversa a Davide. Quando lui ha collegato il suo nome a quello della ragazza di Carovigno, Camila avrebbe voluto gridare “Sì, sono io”, ma non l’ha fatto.

Non ha potuto farlo.

Non in presenza di Alessia. Non dopo averli visti in atteggiamenti così intimi.

Camila non conosce bene la sua coinquilina, ma sa che è capace di essere pungente, cinica e crudele. Sa che molto spesso la deride a causa delle sue abitudini alimentari. Sa che lei e Ida la considerano una svitata.

Se Davide esce con lei, pensa Camila, è probabile che anche lui sia così. E’ probabile che anche lui partecipi alle conversazioni in cui prendono di mira i miei vestiti modesti, il modo in cui preparo da mangiare, le scarpe che indosso. Magari, pensa mentre scende nella stazione di Numidio Quadrato per aspettare una corsa, Davide è come lei: pungente, cinico e crudele.

Continua a pensare a loro fino a che non arriva un treno.

Oggi è sabato, e questo significa che non dovrà faticare molto per trovare un posto a sedere. Lo trova immediatamente, infatti, accanto ad un uomo dai tratti asiatici che indossa un giubbotto di jeans e ha l’aria stanca.

A Camila piace viaggiare in metropolitana. Non può permettersi un’automobile, ma anche in circostanze diverse si sarebbe servita dei mezzi pubblici. A differenza della maggior parte delle persone, le piace l’odore consumato e rugginoso dei treni. Le piace la voce metallica che elenca le fermate in due lingue. Le piace osservare gli altri passeggeri.

Lo fa sempre, soprattutto durante il viaggio dell’andata, per ingannare il tempo fra una fermata e l’altra.

A volte legge, anche se il movimento del treno le procura il mal di testa.

A volte non fa altro che osservare la plastica giallognola che fa da pavimento.

Questo è uno di quei giorni. Perché, a dispetto della sua buona volontà, Camila non riesce a liberare la mente dal volto e dalle parole di Davide.

 

***

 

“Perché la chiami pazza?” chiede Davide, fissando la porta chiusa invece che Alessia.

“Perché lo è!” esclama lei, avvicinandosi al frigorifero per prendere il latte. “Apri quel pensile, guarda quanta roba,” gli dice. “Solo una malata potrebbe conservare tutte quelle schifezze.”

Davide non ha bisogno di fare come le ha detto Alessia, in quanto conosce già il contenuto del pensile. Tante barrette al cioccolato. Tanti dolcetti farciti. Perfino un pacco da un kg di biscotti al cocco. Non pensa che siano schifezze. A lui piacciono quelle cose, è sempre stato goloso di dolciumi.

“Magari ha soltanto fame,” dice, facendosi da parte per consentire ad Alessia di versare il latte in un pentolino, per riscaldarlo.

“Magari è pazza,” ripete lei. “Nessuno ha bisogno di una scorta simile. Non appena mangia un paio di barrette, corre al supermercato per comprarne altre.

“Le avete mai chiesto perché fa così?” chiede incrociando le braccia sul petto.

“Sì. Ci ha guardate come un’ebete per due minuti e poi ha detto ‘Perché sì’. L’occhiata che lancia a Davide è particolarmente eloquente: Alessia è convinta di vivere con una persona a cui manca qualche rotella.

Il ragazzo, però, non riesce a lavare via di dosso la strana sensazione che ha provato quando ha saputo il nome della donna. Camila. In diciassette anni, Davide non ha mai più sentito quel nome. Non ricorda quasi nulla della ragazza delle docce, e questo gli dispiace. Ha sempre cercato di ricordare il colore dei suoi capelli, quello degli occhi, ma allora era un bambino e si sa, i bambini dimenticano in fretta.

Davide ricorda di essere ritornato al campo di calcio sperando di rivederla, ma Camila non è più andata a lavarsi in quel posto. Davide ricorda di esserci rimasto male, quando non ha più saputo niente di lei. Per qualche giorno è stato persino arrabbiato.

Ma poi ha continuato la sua vita, lasciando Carovigno dopo la morte di suo padre e seppellendo i ricordi della lontana infanzia.

Adesso, però, diciassette anni dopo, non riesce a liberarsi della strana sensazione che ha provato quando ha visto le barrette e quando ha saputo il vero nome della pazza.

“Non dovreste prenderla in giro,” dice ad Alessia, prendendo due cucchiai da uno dei cassetti. Lei versa il latte in due tazze, aggiunge alla sua del caffè freddo preso dal frigorifero e apre un pensile per prendere un pacco aperto di Tarallucci.

“Non la prendiamo in giro,” ribatte lei sedendosi al tavolo. “Non è mica colpa nostra se è così strana…

“Quanti anni ha?” chiede lui, più interessato alla donna che non alla colazione.

“Trenta? Trentacinque? Boh, chi lo sa,” risponde Alessia scrollando le spalle. “Lavora come donna delle pulizie. Pulisce anche qui; io e Ida le abbiamo chiesto di farlo al posto nostro, in cambio di una piccola sommetta. Scrolla le spalle di nuovo, come se avesse detto la cosa più normale del mondo.

“Cioè… le fate pulire le vostre camere?” chiede Davide sbigottito.

“Sì,” dice lei masticando. “Gliel’abbiamo chiesto, lei ha accettato… perché? Perché mi guardi in quel modo? E perché stiamo parlando della pazza invece che di noi!” esclama, annoiata.

Allunga una mano verso il viso di Davide per accarezzargli la barba cortissima, bionda come i suoi capelli.

“Quando mi sono svegliata e non ti ho trovato nel letto ho pensato che fossi andato via, lo sai?”

“Il tuo letto è un po’ scomodo,” risponde lui senza sottrarsi al suo tocco. “Ho pensato di lasciarti dormire….”

“E’ scomodo per dormire, ma per altre cose è perfetto… no?” Nel dirlo, la mano di lei scende sul suo collo.

Davide chiude gli occhi e si lascia andare alla piacevole sensazione.

“Ho passato una serata bellissima,” gli dice scostando la mano e sorridendogli. “E tu… tu sei stato bene?”

“Ovviamente,” risponde Davide.

“Potremmo rifarlo,” dice lei, arrossendo. Per un attimo, la ragazza perde l’atteggiamento di femme fatale e mostra un lato diverso, quasi dolce. “Se sei stato bene, se vuoi…”

“Mi sembra un’ottima idea,” risponde Davide, prendendo un biscotto dalla confezione e gettandolo nella tazza. “D’accordo.”

Alessia si alza per dargli una bacio sulla guancia, e non sa che uno dei motivi per cui Davide ha accettato è il desiderio di poter rivedere la sua coinquilina.

 

***

 

La prima tappa di Camila è a San Giovanni, presso una famiglia che vive in un antico palazzo con le finestre alte e strette. In questo quartiere la maggior parte degli edifici è di questo tipo, e a Camila piace guardarli mentre cammina.

Arriva a piedi, percorrendo otto marciapiedi e attraversando a due incroci.

Fa visita a questa famiglia due volte alla settimana, il martedì ed il sabato. Si tratta della casa più faticosa da gestire, ma anche di quella più divertente. I Patriarca hanno due bambini piccoli, di tre e cinque anni; per questo motivo le stanze sono sempre in disordine, il bucato da stirare è tanto e i piatti nel lavandino si accumulano con facilità. I coniugi Patriarca insegnano al liceo, e non hanno molto tempo da dedicare alla cura della casa.

Trattano Camila con rispetto, pagandola puntualmente.

A Camila piace la loro casa. E’ luminosa e moderna, a dispetto dell’antichità del palazzo. I bambini sono sempre felici, e questo la mette di buonumore. Le piacciono i bambini; avrebbe tanto voluto dei figli, ma il destino non ne ha fatti arrivare e per questo gioisce quando passa del tempo con Matteo e Leonardo.

Camila trascorre tre ore a casa Patriarca, dalle 9 alle 12. Pulisce i due bagni, si occupa della cucina e stira numerose gonne e camicie. Cambia le lenzuola al letto matrimoniale ed aiuta la signora a scrivere la lista per la spesa che lei e suo marito andranno a fare nel pomeriggio.

Dopo aver salutato adulti e piccini, esce dal palazzo e si ferma ad uno dei tanti bar che la separano dalla fermata della metropolitana. Compra un tramezzino al tonno ed una bottiglietta d’acqua.

Avrebbe voluto fare colazione e prepararsi un panino prima di uscire di casa, ma non ha potuto. Non era in grado di rimanere con Davide ed Alessia un minuto di più.

Chissà se hanno continuato a parlare di me, pensa. Chissà se lui ha ricordato.

 

La seconda tappa della sua giornata lavorativa è più a nord, nel quartiere Flaminio. Camila raggiunge l’abitazione della famiglia Ballotta attraverso la metropolitana, fino alla fermata Flaminio, e con un autobus, salendo sul numero 491.

I Ballotta non hanno bambini piccoli, ma un solo figlio di ventotto anni.

Da loro, Camila si occupa di pulire con cura i pavimenti di parquet e di passare l’aspirapolvere sul grande terrazzo. Sì, l’aspirapolvere. La famiglia Ballotta non possiede una comunissima scopa.

Tutte le famiglie presso cui lavora sono molto ricche. Professori universitari, avvocati, costruttori di case (come nel caso del signor Ballotta). Camila è contenta del suo giro lavorativo, e loro lo sono di lei.

E’ sempre puntuale, educata, competente. Non manca mai di dare buoni consigli domestici, quando richiesti, e all’occorrenza sa cavarsela anche ai fornelli. Il figlio dei Ballotta, Simone, impazzisce per la sua Bolo Nega Maluca, la torta brasiliana che sua madre (originaria del Pernambuco) le ha insegnato a fare in Germania. Camila l’ha preparata in occasione del compleanno di Simone che l’ha divorata. Da quella volta, meno di un anno fa, Camila ha preparato quindici Bolo Nega Maluca per il ragazzo, ed ogni volta ha pensato ai suoi genitori.

 

Trascorre due ore a casa dei Ballotta, guadagnando trenta euro. Quando va via, ringrazia la signora e le chiede conferma per l’appuntamento della settimana successiva. A differenza dei Patriarca, questa famiglia ha bisogno delle sue prestazioni una sola volta alla settimana.

“No, cara,” risponde la donna dai capelli biondi. “La prossima settimana saremo in Umbria, al matrimonio di mia nipote Giulia. Te ne ho parlato, ricordi?”

“Oh, già… è vero.”

Camila cerca di ricordare tutte le cose che le vengono dette mentre pulisce, lava, stira, ma non è facile. A volte sembra quasi che le padrone di casa approfittino di lei per sfogare i propri problemi, le proprie vicissitudini familiari, e Camila non è molto brava a tenere a mente tutto.

“Ci vediamo fra due settimane, d’accordo?” chiede la donna accompagnandola all’ingresso.

“Va bene,” risponde lei. “Buona domenica.”

“Anche a te, cara.” La signora sta per chiudere la porta, quando ricorda qualcosa d’importante. “Oh, Camila, aspetta!”

“Sì?” chiede lei, intenta a scendere le scale.

“Una delle mie amiche avrebbe bisogno di un aiuto; la ragazza che andava da lei ha avuto qualche problema… sai com’è, non era in regola,” dice sottovoce. “Posso darle il tuo numero? Saresti interessata a darle una mano?”

Camila non ha ancora capito perché le chiedano sempre di dare una mano, quando invece si tratta di lavorare e basta.

“Sì, certo,” risponde con educazione. “Può darle il mio numero, così possiamo metterci d’accordo per un appuntamento.”

“Perfetto!” dice la signora. “Simona Falco, questo è il suo nome. Aspettati una chiamata da lei, d’accordo?

“D’accordo,” ripete Camila. “Buona domenica, signora. A presto.”

“Ciao, cara.”

In questi anni, Camila ha imparato a non rifiutare mai un’offerta di lavoro. Non può permettersi di dire no ai pochi soldi che guadagna, e non vuole neppure rifiutare le opportunità che le vengono date dalle ricche persone che conosce.

Il suo giro di pulizie le permette a malapena di mantenersi: dire no ad una nuova serie di appuntamenti sarebbe come darsi la zappa sui piedi.

Il viaggio di ritorno, da Roma Nord al Quadraro, dura sempre troppo.

Camila è stanca, dopo le ore passate a pulire e dopo quelle passate a camminare, ed oggi ha su di sé anche il peso dello stress causato dall’incontro con Davide ed Alessia.

Per fortuna è sabato, pensa. Per fortuna riesco a trovare un posto a sedere sulla metro.

Osserva di nuovo il pavimento giallognolo, riempiendosi i polmoni dell’aria viziata e dei respiri caldi della gente.

Uomini e donne che tornano a casa, ragazzi e ragazze che si preparano al sabato sera fuori.

Ognuno di loro ha una storia, ognuno di loro pensa a qualcosa.

Camila pensa a Davide, anche se non vorrebbe.

 

***

 

Davide continua a pensare a Camila, anche dopo aver fatto sesso con Alessia per la quarta volta.

“Pensi che Ida ci avrà sentiti?” chiede la ragazza, appoggiandosi, ansimante, su di lui.

“Forse avrà sentito te,” scherza lui. “Sei tu quella più chiassosa.”

“Scemo. Probabilmente non avrà sentito nulla. Probabilmente sarà andata a letto dopo essere rientrata. Hai visto che occhiaie profonde? Secondo te cos’ha fatto?”

“Non ne ho idea,” risponde lui, meravigliandosi di come Alessia riesca ad essere ancora piena di energia.

La verità è che quando Ida è tornata, prima di pranzo, lui è uscito dalla camera di Alessia solo perché pensava che si trattasse di Camila. Non ha prestato molta attenzione all’altra inquilina, tantomeno alle sue occhiaie.

I due restano in silenzio per qualche minuto, avvolti dalla penombra della camera da letto.

Alessia pensa a quanto sia bello stare con Davide.

Davide pensa a come fare per rivedere Camila.

“Potremmo rimanere qui, stasera,” dice lui ad un certo punto. “Anche se è sabato. Potremmo ordinare qualcosa per cena… che ne pensi?

“Davvero?!” chiede lei alzandosi a guardarlo. “Vuoi rimanere qui?”

“Perché no? Potremmo cenare tutti insieme, anche con Ida e Camila.”

“Vuoi cenare con la pazza? Non se ne parla,” dice Alessia, gesticolando.

“Perché? Camila non mangia come tutti gli altri?”

Si rifiuta di chiamarla pazza. Vorrebbe che neanche Alessia osasse tanto.

“Camila mangia in camera sua,” replica lei, imitando il tono di Davide. “Sempre.”

“Beh, magari stasera farà un’eccezione,” dice quasi a se stesso. “Proverò a chiederglielo io.”

 

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Accetterà? Non accetterà? Mah.

 

La Bolo Nega Maluca è uno dei miei dolci preferiti. Qui trovate la ricetta, se volete cimentarvi.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Grazie per ogni commento

Grazie per ogni commento.

Sono felice per la risposta che questa storia sta avendo.

 

Buona lettura.

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Capitolo 5

 

2010

 

Camila torna a casa con un solo pensiero nella testa: infilarsi sotto la doccia e rimanerci per almeno mezzora.

La metropolitana le piace, ma addosso lascia inevitabilmente quell’odore metallico e poco gradevole del vecchio, della sporcizia di un’intera città, della vita degli altri, delle storie che scorrono veloci fermandosi ogni minuto, tappa dopo tappa.

Come se non bastasse, poi, c’è anche la giornata lavorativa a pesare su di lei: la schiena e le braccia le fanno male, e non vede l’ora di potersi rilassare.

Quando apre la porta di casa, è certa di non incontrare nessuna delle sue coinquiline. E’ sabato e ciò vuol dire che le ragazze sono in giro per la città, pronte per la serata di divertimenti e follie tipica degli studenti, o di chi, più semplicemente, ha una vita da vivere.

Questo è il giorno preferito da Camila: è libera di andare dal bagno alla sua stanza alla cucina senza timore che Ida o Alessia le lancino occhiate di scherno; può rimanere nel bagno per tutto il tempo che vuole, ed occuparsi di sé in santa pace. Può cucinare con tranquillità e può cenare al tavolo come una persona qualunque, senza essere costretta a fare tutto di fretta e a portarsi piatto e posate in camera.

Oggi, però, quando apre la porta, si rende subito conto che qualcosa non quadra. La tv del soggiorno è accesa, ed è strano visto che né Ida né Alessia ne fanno un grande uso.

“Ale, sei tu? Siete già tornate?”

Camila si ferma sui suoi passi quando capisce che la voce è quella di Davide.

Che cosa ci fa qui? Dove sono le altre?

Cammina fino a raggiungere il soggiorno, spaventata quasi. Davide si sta alzando dal divano, ma si blocca come una statua quando la vede.

“Ehi, ciao.” Le sorride.

“Ciao,” risponde lei, abbassando gli occhi.

“Alessia e Ida sono uscite due minuti fa,” dice Davide, avvicinandosi. “Pensavo che fossero già rientrate, ecco perché…” Indica l’ingresso, per farle capire il motivo delle sue parole.

“Capito,” ribatte Camila.

“Abbiamo deciso di ordinare la pizza per cena,” continua lui. “Ci farai compagnia, vero? Alessia e Ida sono andate ad avvisare un compagno di corso… un amico di Ida. Ci farebbe piacere se partecipassi anche tu.

Piacere? Ne dubito.

“No,” risponde immediatamente. “Meglio di no, grazie.”

“Perché? Hai qualche impegno?” domanda il ragazzo, piazzandosi davanti a lei ed impedendole di prendere la via del corridoio.

A Camila le sue domande non piacciono. E’ curioso, nello stesso modo in cui lo era diciassette anni fa, in quegli spogliatoi, e sembra quasi che voglia prenderla in giro. ‘Hai qualche impegno?’, come a dire ‘Non puoi avere un impegno, non fai altro che lavorare e startene in camera tua’.

“No,” dice lei, leggermente alterata. “Non ho impegni. Però-”

“Perfetto,” la interrompe Davide. “Allora potrai cenare con noi. Qual è la tua pizza preferita? Coca o birra?”

“Davide.” Pronuncia il suo nome per fermare il suo treno di domande, ma sillaba dopo sillaba si rende conto di aver osato troppo.

Non dovrebbe essere cosi familiare, per lei.

Non dovrebbe in alcun modo chiamare per nome il ragazzo della sua coinquilina. Non dovrebbe chiamarlo affatto.

“Camila.”

Lui la guarda senza aggiungere altro, con un sorriso leggero sulle labbra chiuse. Un sorriso che potrebbe anche essere di sfida.

Ricorda il mio nome, pensa Camila. In fondo è passata mezza giornata… perché non dovrebbe?

“Devo andare,” dice in fretta, guardando dappertutto tranne che verso di lui. “Buona serata.”

Inizia a camminare per andare nella sua camera, ma Davide l’afferra per un braccio. Con delicatezza, senza forza.

“Aspetta,” sussurra. “Camila, aspetta.”

“Cosa c’è?” chiede a bassa voce, senza alzare lo sguardo.

“E’ tutto il giorno che ci penso,” dice lui, lasciandole il braccio. “Sei… sei tu quella ragazza? A Carovigno, in Puglia. Ero un bambino, ma-”

“No, non sono io. Te l’ho già detto.”

“Dove sei nata?”

A Carovigno, in Puglia.

“Sei di Roma?” continua.

“Smettila,” dice Camila, tremando. “Tu fai troppe domande.”

“E tu dai poche risposte.”

Non si arrende, Davide.

Più alto di lei, più muscoloso di lei, la sovrasta fino a farla sentire ancora più piccola di quel che è.

“Voglio soltanto capire,” le dice. “Perché Alessia e Ida ce l’hanno con te?”

“Loro non ce l’hanno con me,” risponde Camila.

“Loro ti considerano pazza,” incalza lui.

Camila non si scompone. Sa che le sue coinquiline la deridono spesso, ma non le importa.

O almeno cerca di non curarsi dei commenti al vetriolo che lanciano alle sue spalle. A Camila interessa soltanto di vivere in una casa tranquilla e sicura, e le studentesse – per quanto pettegole e gratuitamente crudeli – le danno entrambe le cose.

“Senti,” dice stringendo la borsa fra le dita. “Che cosa vuoi da me? Perché non mi lasci in pace?”

“Perché per me sei tu,” risponde Davide. “Sei tu la ragazza di Carovigno. E’ vero? Ti ho regalato le scarpe di mia sorella, ricordi? E le barrette… sono tue quelle nel pensile, no?” Indica la cucina, sorridendo come se avesse appena fatto bingo. “Sono io, Davide. Ti ricordi di me? Non puoi non ricordarti… ero più basso, ovviamente, ma i capelli e gli occhi-

“Smettila!” esclama lei. “Smettila, ti prego!”

Camila teme che Davide ne abbia già parlato o che voglia parlarne con Alessia. Le ragazze non conoscono il suo passato, e Camila non può rischiare che vengano a saperlo.

Si allontana da Davide, mettendo un metro di distanza fra di loro.

“Smettila,” ripete. “Io non sono quella persona,” mente. “Non so di cosa parli.”

Lo guarda negli occhi per meno di cinque secondi, il tempo necessario per rendersi conto di averlo sorpreso, addirittura ferito.

E’ solo un ragazzo, pensa. Lui e Alessia sono intimi, quindi non può essere molto diverso da lei. Non posso ammettere di essere la Camila che ha conosciuto diciassette anni fa.

“Scusa,” risponde Davide. “Non c’è bisogno che ti arrabbi così.”

Adesso penserà anche lui che io sia una pazza asociale, con cui è impossibile perfino avere una normale conversazione.

“Non sono arrabbiata,” mormora. Sono solo spaventata.

“Posso farti una domanda?”

Camila annuisce, ma solo dopo aver ritrovato la calma necessaria.

“Perché non vuoi cenare con noi? Non ti piace la pizza?”

Il modo in cui lo chiede, l’innocenza dei suoi occhi e della sua voce, generano nella donna una sensazione di dolcezza, di commozione.

Davide è genuinamente interessato ai suoi gusti, e per lei è doveroso rispondergli con altrettanta sincerità.

“Davide… a me piace la pizza, ma… non conosco nessuno,” dice, sentendosi un po’ stupida. “Non farei altro che darvi fastidio, e poi… di chi è stata l’idea di invitarmi?”

“Mia,” dice subito Davide, allargando le spalle.

“E Alessia e Ida cosa ne pensano?” chiede inarcando un sopracciglio.

Camila sa che le ragazze hanno cenato da sole (o con ospiti) senza curarsi di invitare anche lei. Camila sa bene che la sua compagnia non è gradita.

“Perché non vuoi cenare con noi?” chiede di nuovo Davide, evitando di rispondere alla sua domanda. “Alessia e Ida le conosci, e-”

“Davide, basta. Ti prego.”

Non vuole continuare con questo tira e molla. Non vuole partecipare alla cena. Non vuole correre il rischio che lui possa convincerla.

Fa per voltare le spalle ed andarsene, ma lui la raggiunge con pochi passi, mettendosi di traverso per non farla passare. “Quella ragazza,” dice a bassa voce, “la ragazza di Carovigno. Ero un bambino, e certi ricordi sono svaniti, ma ciò che mi è rimasto impresso… veniva a lavarsi dove io mi allenavo,” continua, guardando negli occhi di Camila. “Mi disse che era povera e io… io le portai da mangiare, e le regalai le scarpe di mia sorella. Nessuno lo sa… neanche mia madre. Non ne parlai con nessuno. Lei non… non tornò più agli spogliatoi. Non la vidi più. Ricordo che ci rimasi male quando non la vidi tornare. Ero un bambino… pensai che avesse trovato un altro bagno in cui farsi la doccia… o che… o che avesse semplicemente mentito. Davide si passa un dito sotto il naso per due volte, come per scacciare qualcosa di invisibile. “Quella Camila aveva i tuoi stessi occhi e le tue stesse labbra. Ricordo che allora pensai ‘come fa ad avere le labbra così grandi se è così magra ed ha così tanta fame?’. Ero un bambino… mi facevo delle domande stupide. Anche i capelli,” dice, guardando quelli lunghi di Camila, “anche i capelli erano dello stesso colore dei tuoi. Quando ti ho vista, stamattina, e Alessia ci ha presentati… e tutte quelle barrette… ho pensato a lei, alla ragazza di Carovigno. Ho pensato ‘forse è lei, forse l’ho ritrovata’. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto, sai? Mi piacerebbe sapere che sta bene e che… e che non l’è successo nulla di brutto in questi anni. Forse è per questo che mi sono intestardito con te… perché tu mi ricordi lei. E quando mi sono reso conto del modo in cui Alessia e Ida ti considerano… ho pensato di… ho pensato che avrei potuto… come allora… Però a quanto pare ho sbagliato tutto,” dice, allungando le labbra in un sorriso imbarazzato. “Tu non sei quella Camila,” aggiunge, sollevando le spalle. “Scusa se ho alzato la voce o se… se ti ho dato fastidio. Non volevo. Ti sarò sembrato uno squilibrato, e non era mia intenzione.

Camila ha ascoltato ogni parola in silenzio.

Non sa cosa dire e cosa pensare. Non sa come rispondere al monologo di Davide.

E’ forse per questo che, quando apre la bocca, non riesce ad articolare una replica.

E’ forse per questo che, nel guardare i suoi occhi marroni, si sente più emozionata di quanto dovrebbe e vorrebbe essere.

Si guardano per dieci secondi senza parlare, fino a quando la porta di casa si apre, lasciando entrare Alessia e Ida.

“Siamo tornate!” esclama quest’ultima senza accorgersi dei due nel corridoio. “Saverio non sarà dei nostri, però-” Ida si blocca quando alza gli occhi su Camila e Davide. “Ehi, siete qui. Camila, ci sei anche tu.”

Le ragazze si scambiano un’occhiata complice ed è Alessia a prendere la parola.

“Camila, Davide ti ha detto della pizza? Ci farai compagnia?”

“Sì,” risponde lei.

Lo fa guardando gli occhi di Davide. Lo fa per dirgli ‘Sì, mangerò la pizza con voi. Sì, sono io la ragazza di Carovigno. Sì, sto bene’.

“Sì, vi farò compagnia.”

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Il capitolo sarebbe dovuto andare in un altro modo, ma poi il neurone ha preso il sopravvento.

Bene, Camila ha accettato… e ora?

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Grazie a tutti per i commenti lasciati allo scorso capitolo

Grazie a tutti per i commenti lasciati allo scorso capitolo. Grazie anche a chi ha segnalato questa storia all’amministrazione di EFP: è stata inserita fra le Storie Scelte, e questo è un bel traguardo per me.

 

Buona lettura.

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Capitolo 6

 

2010

 

Davide non crede ancora alle sue orecchie.

Camila ha accettato di mangiare la pizza con lui e le sue coinquiline; si sente felice, si sente sollevato.

Era così decisa a cenare da sola. Era così decisa a chiudersi nella sua camera.

E’ stato Davide a farle cambiare idea? E’ davvero lei la ragazza che faceva la doccia con l’acqua fredda? Non sa cosa pensare. Le ha parlato di quella Camila, dei ricordi che per tutta la giornata sono affiorati nella sua mente: gli spogliatoi, i capelli arruffati e castani, la bocca grande e bella.

Davide non pensò che era bella 17 anni fa. Allora era semplicemente curioso, ingenuo.

Adesso però nota altri dettagli in lei e, che si tratti o meno della stessa persona, non manca di notare la bellezza di Camila.

E’ diversa da Alessia. Meno curata, meno truccata. Meno chiassosa.

Tuttavia le sue labbra attirano l’attenzione del ragazzo, che resta imbambolato dopo aver sentito la sua voce di conferma.

Sono tante le domande che si accavallano nella testa di lui. Una ha più voce delle altre: sei davvero tu?

 

Le pizze arrivano mentre Camila è nella sua camera. Vi si è chiusa dopo aver accettato l’invito, e lì è rimasta per le successive due ore, uscendo solo una volta per andare al bagno.

Davide ha trascorso il tempo con Ida e Alessia a parlare di esami universitari, ma ha tenuto l’orecchio perennemente teso verso il corridoio, in attesa di un qualsiasi rumore proveniente dalla stanza di Camila.

Quasi come se avesse aspettato il momento perfetto per apparire, lei apre la porta del suo nascondiglio proprio quando il fattorino delle pizze suona il citofono.

Si ritrovano nel corridoio; Davide, lei e Alessia.

“Ehi. Le pizze sono qui,” lei dice il primo, mentre Alessia va ad aprire.

Camila annuisce e gli passa accanto per raggiungere la coinquilina alla porta. A Davide non sfugge che ha un borsellino fra le mani.

“No,” dice, “faccio io. Pago io.” Afferra il portafoglio mentre il fattorino sale al piano. Alessia si fa da parte, sorridendo, mentre Camila resta al suo posto.

“No, grazie,” dice senza guardarlo.

“Insisto,” ribatte lui, afferrando una banconota da 50.

“No.” Camila scosta la mano di Davide con gentilezza. Un gesto che non sfugge ad Alessia.

Cami, smettila. Non vedi che Davide vuole offrirci la pizza?

Il tono con cui le si rivolge dà fastidio a lui, ma ancora di più a lei.

“Voglio pagare la mia,” dice senza guardarla in faccia. “Quanto le devo?” chiede poi al fattorino, finalmente giunto al loro piano con i cartoni caldi fra le mani.

Alessia li afferra, assieme alle lattine di Coca Cola, e lascia i due alla porta.

“Camila, lascia pagare me,” dice Davide.

“Puoi offrire la pizza a Ida e Alessia, ma-

“Ti prego,” le dice lui, ignorando il ragazzo che li osserva come se fosse ad una partita di tennis. Appoggia una mano su quella di Camila, intenta ad aprire il borsellino, e la stringe. “Lascia che sia io ad offrire, stavolta. Alla prima occasione lo farai tu, ok?”

Le sorride, pregando che tanto basti ad addolcire il suo orgoglio.

La guarda, notando come l’azzurro dei suoi occhi sia uguale a quello della ragazza povera e sporca di Carovigno. In verità ricorda appena quegli occhi, ma non importa.

Davide vuole che sia lei.

Distratta dal contatto fisico e dai suoi occhi marroni, Camila non si accorge del movimento della mano libera di Davide, che allunga i soldi al fattorino e accetta il resto senza neppure controllare che l’ammontare sia giusto.

Non avrebbe mai potuto permetterle di pagare la sua parte. Avrebbe insistito fino al mattino dopo, se necessario.

 

“Davide, la tua è quella con i funghi, giusto?”

“Sì, Ida. Grazie.”

Davide e Camila fanno ritorno in cucina in silenzio, senza neppure guardarsi in faccia. Lui è soddisfatto per essersi comportato da gentiluomo, ma vorrebbe che lei gli rivolgesse almeno una semplice parola. Non necessariamente unGrazie’. A Davide basterebbe qualsiasi cosa.

Alessia elimina la parte superiore dei quattro cartoni, in modo da occupare poco spazio sul tavolo, e appoggia la pizza con i funghi e il cotto a capotavola.

Davide fa il giro per sedersi fra lei e Ida, ritrovandosi di fronte a Camila.

“Buon appetito,” dice Ida.

Camila risponde a bassa voce.

E’ a disagio, e Davide sembra essere il solo a notarlo.

Alessia e la sua amica parlano del ragazzo che avrebbe dovuto unirsi a loro e che alla fine non ha potuto.

Lo fanno masticando e ridendo, pulendosi la bocca con i tovaglioli di carta prima di bere.

Lo fanno senza mai chiamare in ballo Camila. Come se fosse invisibile.

A lei sembra non interessare più di tanto. Mangia con la testa inclinata verso la pizza, mordendo ogni fetta con piccoli morsi e versando la bibita nel bicchiere. E’ l’unica ad utilizzarlo, mentre gli altri bevono direttamente dalla lattina.

Ad un certo punto, proprio quando si sta chiedendo se riuscirà – prima di andare via – a rivedere il viso di Camila, il telefono di Davide prende a suonare.

“E’ mia sorella,” dice subito, riconoscendo la suoneria personalizzata di Priscilla.

Ida e Alessia abbassano il volume della voce. Camila, senza che nessuno gliel’abbia chiesto (e, soprattutto, senza alcun motivo fondato) smette di masticare.

“Ciao, Pri.” La voce di Davide è spensierata. “Sì, sono vivo…” dice alzando gli occhi al cielo. Nel farlo nota che Camila lo sta guardando. “No, no. Sono a casa di amici. Si, stiamo cenando proprio adesso. Ok… ok. Divertiti, ciao.”

Chiude la comunicazione con il sorriso sulle labbra. “Scusate. Mia sorella aveva iniziato a darmi per disperso.

Camila riprende a masticare quando Davide afferra una nuova fetta di pizza.

“Certo che tua sorella ha un nome stupido,” dice Alessia. “Priscilla. Chi ha deciso di chiamarla così?”

“E’ stata mia madre,” risponde lui, ignorando l’aggettivo usato. “Priscilla era il nome della protagonista di un romanzo che ha letto da ragazza.”

“Fortuna che a te hanno dato un nome normale,” dice Ida. “Non oso immaginare gli sfottò a scuola. Priscilla, Priscilla. Priscilla come la fidanzata di Calimero.”

“Priscilla come Priscilla Corvonero,” le fa eco Alessia.

Ridono entrambe; ride a mezza bocca anche Davide, abituato da parecchio tempo a sentirne di tutti i colori sul nome della sorella maggiore.

“E’ soltanto un nome.” Camila è l’unica a non trovare divertente la presa in giro. “E non è stupido.”

Per la prima volta dall’inizio della cena, alza la testa per guardare gli altri, in particolare le sue coinquiline. “Ida è un nome corto,” continua. “Ma non per questo è stupido. E Alessia ha troppe S per-”

“Alessia è un nome perfetto,” la interrompe la ragazza.

E’ Davide, adesso, a muovere la testa come ad un incontro di tennis.

 “Se Alessia è un nome perfetto, allora lo è anche Priscilla,” risponde Camila senza battere ciglio.

Lo dice lentamente, con calma, ma i suoi occhi sono duri. Lo nota Davide, e lo notano anche le due ragazze, che smettono di ridere. Ida solleva le sopracciglia e lancia un’occhiata complice ad Alessia, la quale non è per niente contenta di essere stata messa a tacere.

“Che ti prende?” le chiede. “Non c’è bisogno di alterarsi per una cosa così futile. Scommetto che neppure Davide se l’è presa così tanto, vero?

Quando si volta verso di lui, Alessia vede che egli non è per nulla interessato alle sue parole.

Sta guardando Camila, e lo fa con una strana luce negli occhi. Una luce che Alessia non ha mai visto prima.

“Davide? Hai sentito cosa ho detto?”

“Sì,” risponde il ragazzo, senza però staccare lo sguardo da Camila. “Priscilla è un nome sciocco, forse, e probabilmente mia madre avrebbe dovuto pensarci di più prima di sceglierlo.” Sposta gli occhi su Alessia, diventando serio. “Però è il nome di mia sorella.”

Lo dice con fierezza, senza lasciare alle altre lo spazio per replicare.

 

“Sarà meglio che vada,” dice un’ora dopo.

La cena si è conclusa bene, nonostante il momento di tensione, e lui non ha potuto fare a meno di notare che Camila non ha più parlato. Le ragazze non l’hanno interpellata neppure una volta e quando ha provato a farlo lui, Camila ha risposto con un monosillabo, prima che Alessia interferisse per continuare al suo posto.

Quando le pizze sono finite e tutti si sono alzati da tavola, Ida e Alessia sono andate in salotto senza guardarsi indietro, parlando di un dvd da vedere con Davide; Camila è rimasta in cucina a riordinare.

Quando lui si è offerto di darle una mano per sparecchiare e lavare le posate sporche, Camila lo ha liquidato con un gesto della mano – gli occhi sempre bassi – e si è rifugiata accanto al lavandino.

“Di già?” chiede Alessia, pronta ad inserire il dvd nel lettore. “Non sono neppure le 11.”

“Lo so,” risponde lui. “Ma è da ieri pomeriggio che manco da casa.”

“Ma è sabato,” lamenta Ida.

“Lo so, però…” Davide è in imbarazzo.

“Va bene,” dice Alessia. “Non preoccuparti.” Appoggia il dvd sul divano e lo trascina in camera sua, per salutarlo lontano da occhi indiscreti. “Ti senti sommerso, vero?” gli chiede dopo aver chiuso la porta. “E’ troppo presto per passare tutto questo tempo assieme…

Davide si sente sollevato. “Ho passato una bella giornata, credimi, ma-

“Non devo spiegarmi nulla, ho capito.” Si avvicina e appoggia le mani sul suo petto. Lui l’abbraccia. “Sono stata bene con te,” sussurra.

“Anch’io,” risponde Davide, sfiorando le labbra con le sue.

“Voglio vederti ancora. Tu?”

Davide si limita ad annuire. Alessia risponde con un sorriso, prima di dargli un bacio.

Lui si lascia accarezzare e l’accarezza a sua volta, in particolare in corrispondenza del seno.

“Sarà meglio che vada,” le dice con il fiato corto, “prima che combini qualche sciocchezza.”

“Non sarebbe una sciocchezza,” ridacchia lei.

“Forse no, ma è meglio non correre,” dice. “Ci vediamo presto.”

“Non volevo offendere tua sorella,” sussurra Alessia prima di riaprire la porta. “Spero che non te la sia presa.”

“No, tranquilla,” risponde scuotendo il capo.

Quando escono nel corridoio, sbattono su Camila senza rendersene conto.

Lei ha due sacchi neri fra le mani, e con essi cammina verso l’ingresso.

“Ehi, attenta!” esclama Alessia. “Che c’è lì dentro?”

“Spazzatura. Scusatemi.”

Arriva all’ingresso, appoggia un sacco a terra e apre la porta per uscire, mentre Davide saluta Ida e dà un ultimo bacio ad Alessia. “Grazie per questa serata,” le dice.

“Grazie a te.”

 

Camila e Davide s’incontrano di nuovo nelle scale.

Davide le percorre di corsa, pensando di poterla raggiungere in strada, ma si ferma di scatto quando la sorprende, immobile, sui gradini del piano di sotto.

Nota i due sacchi neri, gonfi e sicuramente pesanti, e si offre di portarli al suo posto.

“No,” risponde Camila, avvampando. “Faccio da sola.”

“Sì, invece. Dalli a me, sono troppo…” Vorrebbe dire ‘pesanti’, ma quando li prende fra le mani si rende conto che il loro contenuto è leggero come una piuma.

La guarda con un’espressione di meraviglia nello sguardo, sorridendo quando la vede arrossire con maggiore intensità.

“Li ho riempiti di fogli di giornale mentre eri in con Alessia,” dice Camila, guardandolo negli occhi. “Volevo una scusa per parlarti. Possiamo parlare? Possiamo andare in un altro posto? A parlare in un altro posto?”

Davide non ha dubbi. “Sì.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

Capitolo 7

 

2010

 

Camila pensa di aver fatto tre grandi sciocchezze nella sua vita.

La prima, quando alle scuole elementari rubò un rotolo di carta igienica e due merendine dagli zaini dei suoi compagni di classe. Aveva fame, e sua madre non comprava carta igienica da settimane, ormai. Quel colpo di testa costò caro alla sua famiglia. La scuola si rese finalmente conto delle loro condizioni disagiate, e anche se allora avevano ancora un tetto sulla testa, gli assistenti sociali li tennero d’occhio per un anno; ciò che Camila ottenne, invece delle merendine e della carta per soffiarsi il naso perennemente gocciolante, furono una serie di rimproveri da parte di sua madre (non per aver rubato, ma per essersi fatta beccare) e uno schiaffo da parte del padre. Aver portato a galla la loro povertà significava, per lui, l’obbligo di cercarsi un lavoro, e l’uomo non voleva saperne. Finse di provarci per qualche mese, ma poi mollò. Lui e la sua famiglia si trasferirono nella vecchia Golf, e da quel giorno Camila non toccò più una merendina all’albicocca. Anche adesso, quando usa la carta igienica, ripensa a quell’episodio e a ciò che ha determinato.

La seconda sciocchezza Camila la fece quando sposò Umberto. Rimpiange spesso quel giorno, anche quando cerca di pensare alle cose positive che da esso sono derivate. Il pensare dura poco, però, per cui il suo matrimonio resta una sciocchezza.

La terza sciocchezza ha avuto luogo dieci minuti fa, quando si è chiusa nella sua camera e ha deciso di riempire due sacchi neri di vecchi giornali e di volantini trovati nella metropolitana. La terza sciocchezza, secondo Camila, comprende anche il momento successivo, quando ha ammesso il suo maldestro giochetto a Davide e gli ha chiesto di andare in un posto appartato per parlare.

Cosa mi è passato per la testa? E’ un ragazzo. E’ il ragazzo di Alessia. Cosa ho nel cervello, segatura?

Davide ha accettato subito di parlarle, e Camila sa perché l’ha fatto: l’ha riconosciuta; sa che è lei la ragazzina di 17 anni fa, e vuole una conferma.

“Il palazzo ha un parco sul retro,” gli dice Camila. “Puoi aspettarmi lì? Io devo buttare questi,” aggiunge, prendendo i sacchi leggeri dalle sue mani.

“D’accordo,” risponde lui, annuendo senza smettere di guardarla. “Posso prima spostare la mia macchina? E’ nel parcheggio… se la lasciò lì Alessia capirà che non sono andato via.

Camila non aveva pensato a questa eventualità, e il fatto che ci abbia pensato lui le procura una strana sensazione dentro. Come se il ragazzo sapesse che parlare con Camila può essere pericoloso, soprattutto per la sua storia con Alessia.

Da un lato, si sente sollevata al pensiero che lui cerchi di salvaguardare la convivenza con le coinquiline. Dall’altro, Camila teme che Davide sia semplicemente mosso dal bisogno di curare i propri interessi e arginare l’eventuale gelosia di Alessia.

In un modo o nell’altro, pensa alla fine, è meglio che lui sposti l’auto dal parcheggio.

 

Il parco del condominio è unico nella sua specie. Camila lo adora, e se avesse più tempo a disposizione si occuperebbe di coltivare le aiuole piene di erbacce. Il palazzo non ha un portinaio, e gli appartamenti sono popolati da studenti, per cui a nessuno interessano piante e fiori.

Camila getta i sacchi nel contenitore enorme della raccolta differenziata e, stretta in un cardigan color lavanda, accede al parco tramite un cancelletto nero. Prima di entrare si guarda attorno, cercando l’auto di Davide, ma non la vede.

Cammina sul sentiero di cemento largo tre metri, approfittando della luce proveniente dalle finestre che affacciano sul parco. Quelle del suo appartamento, per fortuna, guardano sul parcheggio, dal lato opposto. I lampioni della strada l’aiutano a scoprire la figura di Davide, in piedi accanto ad una magnolia.

“Ciao,” gli dice, sentendosi una stupida per il tipo di saluto scelto.

“Ciao. Ho parcheggiato lì,” ribatte lui con un sorriso. Indica il muro che separa il parco dalla strada. “L’auto è in strada. Ho scavalcato il muro,” spiega. “Non ho una macchina invisibile.”

Lei ride nervosamente, stringendosi ancora di più nella lana calda.

“Prima di iniziare a parlare, posso dirti una cosa?” chiede lui.

“Sì.”

“Vorrei dirti ‘Grazie’ per aver… difeso… credo che sia la parola giusta… per aver difeso il nome di mia sorella a tavola.”

Camila abbassa gli occhi, ripensando per un attimo a come si è lasciata andare dopo la telefonata di Davide. E’ in quel momento che ha deciso di parlargli in privato.

“Tu non sei come Alessia,” gli dice. “O almeno così sembra.”

“Cosa vuoi dire?”

“Alessia è molto superficiale. Tu non lo sei.” Gli parla senza guardarlo in faccia. “Alessia è crudele, a volte.”

“Con te?” ribatte lui. Il tono della sua voce costringe Camila ad alzare gli occhi. “Con te? E’ stata crudele con te?”

“Pensa che sia pazza,” dice scrollando le spalle. “Non è crudeltà?”

“Quella è ignoranza,” risponde Davide. “Tu non sei pazza.”

“Sì. Ma se dopo un anno continui a farlo, pur sapendo che non lo sono…

“Allora è stupidità. E forse anche crudeltà,” conclude lui.

Eppure state assieme, vorrebbe dirgli. Hai appena detto che è ignorante, stupida e forse crudele.

“Di cosa vuoi parlarmi?”

All’improvviso Camila non si sente così tanto sicura come prima. A tavola, quando Davide ha messo la parola fine alla presa in giro su Priscilla, Camila ha visto qualcosa. Un segno, un piccolissimo segno, che le ha fatto pensare ‘Non è come lei. Posso fidarmi. Posso dirgli la verità’.

Ma ora, ora non è più sicura. Sembra che Davide non abbia problemi a frequentare una ragazza superficiale, stupida e (forse) crudele.

“Niente,” gli dice con un filo di voce. “Ho sbagliato a… lascia perdere, me ne torno dentro.”

Fa per voltarsi, ma lui l’afferra per l’avambraccio prima e per la mano poi.

“No!” esclama Davide. “Non andartene!”

L’attira a sé per costringerla a rimanere, e quando Camila si ferma lascia la sua mano.

“Non puoi fare così,” le dice. “Non puoi prendermi in giro.”

“Non ti sto prendendo in giro.”

“Allora parliamo. Cosa vuoi dirmi? Siamo soli, adesso.” Si guarda attorno. Il buio li circonda, ad eccezione di un piccolo lampioncino rotto, sommerso da un cespuglio giallastro.

“Non so se posso fidarmi di te.” Lo dice a voce bassa, sperando quasi che lui non l’abbia sentita.

Quando lo guarda negli occhi, vede un leggero sorriso sulle labbra di Davide. I capelli biondi sono più lunghi sulla fronte. Un ciuffo solitario riposa su un sopracciglio.

“Non ho mai raccontato a nessuno di te.” La voce del ragazzo è bassa quanto la sua, ma gli dà i brividi. Le parla sapendo chi è. Sapendo che non ha fatto che mentire, per tutto il giorno.

“All’inizio perché non volevo cacciarmi in un guaio,” continua. “E poi perché mi piaceva… mi piaceva avere un qualcosa di mio. Un segreto importante.”

Si guardano senza fiatare per un minuto. Forse un’ora.

“Mi dispiace di non essere più tornata al campo.” Le prime parole ad uscire dalle sue labbra sono le ultime che Camila avrebbe voluto dire. Aveva anche pensato ad un discorso, mentre riempiva i sacchi di cartacce, ma ora ciò che pensa è ciò che più l’ha segnata 17 anni prima. Il dispiacere per non essere ritornata a dire ancora grazie. Il senso di colpa per aver preso così tanto da quel bambino senza aver potuto dare nulla in cambio.

Ma Davide ora sorride, e Camila non se ne spiega il motivo.

“Sei tu,” dice, senza che il sorriso lo abbandoni.

E’ proprio felice.

“Sei tu. Se la stessa Camila. Ti ho riconosciuta subito,” dice con una punta di orgoglio. “Camila, con una L.”

Lei si sente in imbarazzo.

“Sono io.”

Davide sta per aprire di nuovo la bocca, ma si blocca quando sia lui che lei sentono della musica. Si guardano attorno, in particolar modo Davide.

Camila guarda in alto, sapendo cosa cercare.

“Arriva da lì,” gli dice, indicando la finestra aperta di un palazzo confinante. “Chi vive in quella casa ascolta sempre qualcosa. Quando il vento è a favore sembra che ci sia uno stereo qui sotto.

Si volta verso Davide, il quale non ha smesso di guardarla. Forse non ha neppure sentito ciò che ha detto sulla musica.

“Perché hai negato di essere tu?” le chiede. “E’ per Alessia? Pensi che io possa dirglielo?”

“Sì.”

“Non preoccuparti,” risponde immediatamente. “Non le dirò niente. Non c’è problema.”

“Grazie,” gli dice, un peso in meno sul petto.

“Mi fa piacere rivederti.” Il sorriso di Davide è incollato al suo viso. “Perché non sei più tornata al campo? Che cosa hai fatto in questi anni?”

Camila riflette per un minuto sulla possibilità di raccontargli tutto. Gli anni in Germania, il ritorno in Italia, gli anni con Umberto, la nuova vita a Roma.

“Siamo partiti per la Germania,” è tutto ciò che riesce a dire. “Io e la mia famiglia. Ecco perché non sono più tornata. Mi dispiace,” ripete.

“Non dispiacerti,” dice lui, allungando una mano per toccarle il braccio. “Ci siamo rivisti, no?”

“Già…”

“Ed è di questo che volevi parlarmi? E’ per questo che mi hai chiesto di venire qui?”

Camila annuisce. “Ida e Alessia non sanno nulla di me, e voglio che le cose rimangano in questo modo.”

“Anche se ti considerano una pazza?” chiede. “Ho visto le barrette… sono tue, vero? Erano… sono… sono come quelle che ti ho portato io al campo.

“Mi piacciono,” sussurra Camila, vergognandosi delle sue parole.

“Piacciono anche a me.”

La musica che proviene dall’alto fa loro compagnia nel lungo momento di silenzio che segue.

“Ciò che loro pensano di me…” dice ad un tratto lei. “Non importa. Non mi conoscono, non sanno nulla di me, per cui… non sono importanti. Ciò che dicono e che pensano non è importante.

Ci sono altre cose che contano, però.

“Promettimi che non parlerai loro del mio passato.” Camila vorrebbe essere più tranquilla, ma si rende conto che la frase suona come una minaccia più che come una richiesta.

Davide la guarda con curiosità. “Non so niente del tuo passato,” risponde. “Come potrei raccontarlo ad Alessia e alla sua amica? E poi ti ho già detto che non dirò a nessuno di come ci siamo conosciuti.

“Grazie.”

Il prego di lui è un altro sorriso. “Perché ti sei decisa ad ammetterlo?” chiede. “Perché hai cambiato idea?”

Camila non sa come rispondere a questa domanda. Vorrebbe farlo con sincerità, ma ha paura di offenderlo. Ci pensa per qualche secondo, e alla fine cede.

“Perché quando stavamo mangiando… ho capito che non sei come lei. Che posso fidarmi di te. So che tu ed Alessia… non voglio parlar male di lei, ma…

“Io e Alessia ci vediamo da poche settimane,” risponde Davide. “Siamo amici, nulla di più.”

Sanno entrambi che sta mentendo. Davide sa che Alessia ha smesso di considerarsi sua amica la notte scorsa, e Camila sa che due amici non passano la notte assieme facendo determinate cose, tantomeno ad un volume così alto.

“Adesso devo andare,” dice Camila ad un certo punto.

“Adesso? No! Perché?! Non puoi restare un altro po’?”

Davide cerca di afferrarla ancor prima che lei si allontani, ma Camila è pronta, stavolta. Infila le mani nel jeans e fa un passo indietro.

Vorrebbe rimanere con lui. Parlargli ancora. Rispondere alle sue domande, genuine e curiose, tanto simili a quelle del bambino paffutello con in mano le ciabattine blu.

Vorrebbe, ma non può.

“Devo andare,” ripete, senza guardarlo in faccia. “Grazie per la pizza,” sussurra. “E per le scarpe di tua sorella. E per quel panino al prosciutto.” Ha un nodo in gola quando finisce di parlare.

Ripensa all’acqua fredda delle docce del campetto. Ripensa all’asciugamano grigio e alle scarpe più grandi che indossava prima dell’arrivo di Davide.

“Non devi ringraziarmi,” risponde lui. “L’ho fatto con piacere, sia allora che stasera. Immagino che adesso dovremo fingere di non conoscerci.

“Sì,” annuisce Camila. “E’ meglio in questo modo.”

“E se io volessi parlarti di nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera. Come possiamo fare?”

I pensieri di Camila vengono scanditi dal suono del pianoforte che arriva dal palazzo accanto al parco.

Probabilmente le sciocchezze fatte non sono tre, ma quattro. La quarta esce dalle sue labbra poco dopo.

“Possiamo rivederci qui, domani sera. E parlare ancora.”

---

 

La canzone che proviene dalla finestra aperta è No Cars Go, degli Arcade Fire. La versione è quella di Maxence Cyrin.

 

So che i capitoli di questa storia sono brevi, ma non ho in mente una storia lunga, per cui preferisco somministrarla a piccole dosi.

 

Grazie ancora una volta, e tanti auguri di buone feste a tutti.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Rieccomi

Rieccomi.

Spero che le feste siano andate bene per tutti, e che siate pronti a ritornare a lavoro/sui libri. Io so per certo di non esserlo… purtroppo.

Beh, nell’attesa che l’ispirazione per le cose importanti arrivi, ecco un nuovo capitolo di questa storia.

 

Buona lettura.

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Capitolo 8

 

La domenica è speciale per Davide. E’ il giorno in cui si ricarica in visione del lunedì.

Dopo aver fatto colazione, di solito verso le 11, si sdraia sul divano per controllare i risultati del campionato di hockey su prato. Il sabato è il giorno in cui le squadre giocano, e a lui questo sport piace. L’ha conosciuto tramite Priscilla, quando questa ha iniziato a praticarlo da bambina.

Dopo aver appreso chi ha vinto e chi ha perso, ed aver aggiornato la sua personale classifica sul computer, Davide si dedica a Bilbo, lo Scottish Terrier nero che la sua famiglia possiede da tre anni. E’ un cane vivace, e Davide lo adora. E’ lui ad occuparsene durante la settimana, mentre nel fine settimana (quando il ragazzo passa molto tempo fuori casa per divertirsi con gli amici) è Priscilla a portarlo fuori e a dargli da mangiare.

La domenica, però, prima di pranzare, Davide e Bilbo escono sull’ampio terrazzo a giocare. Il cane ha tanti giochi di gomma, ma il suo preferito consiste in una vecchia corda che Davide gli ha regalato quando era ancora un cucciolo. Il ragazzo si diverte a lanciargliela, e il cane lascia passare almeno un minuto prima di raccoglierla e restituirla al suo padrone.

Dopo pranzo, la domenica di Davide prosegue allo stadio, se la sua squadra gioca in casa, o sul divano in compagnia di Giancarlo, se si tratta di una trasferta. Dopo aver gioito o sofferto, verso le 5, il ragazzo esce per passare qualche ora con i suoi amici, a commentare i risultati del campionato italiano, oppure a rivivere i bei momenti passati assieme la sera prima. Di solito la cena consiste in una pizza mangiata proprio con gli amici. Il lunedì è un giorno impegnativo, per cui è a letto al massimo entro la mezzanotte.

Vive una vita relativamente abitudinaria, Davide. Le sue domeniche passano sempre così.

Tranne questa.

Tranne la domenica in cui incontrerà di nuovo Camila.

Quando è tornato a casa e si è messo a letto (dopo una lunga doccia rilassante), Davide ha impiegato un’ora per addormentarsi. Per tutto il tempo non ha fatto che pensare alle parole di Camila e al suo viso. Gli occhi celesti, le labbra grandi. La pelle naturalmente ambrata e i capelli castani, chiari in corrispondenza della fronte e delle tempie.

Davide l’ha osservata bene, nonostante la poca luce. Ha cercato di imprimere nella mente ogni dettaglio, per poterlo rivivere. E l’ha fatto, prima di addormentarsi. E lo fa, ora che è sveglio.

Controlla l’orologio, e come ogni settimana pensa ai risultati delle partite di hockey. Resta a letto, però, e si copre la testa con il piumone. E’ felice all’idea di incontrarla di nuovo.

Per Davide il desiderio di riservatezza di Camila non è un problema. Capisce che il rapporto fra lei e Alessia potrebbe rovinarsi di più se la ragazza conoscesse la verità, non solo su Camila, ma anche (e soprattutto) su Davide e Camila.

Non gli sembra ancora vero: ha ammesso di essere la stessa ragazza di Carovigno. E’ cresciuta, è cambiata, ma ai suoi occhi è la stessa persona dura e decisa che gli chiedeva di andarsene e di lasciarla in pace.

Al buio della sua camera, Davide sorride.

Ora Camila ha un posto normale in cui vivere. Ora ha un posto sicuro in cui fare la doccia.

 

La generosità di Davide gli è stata tramandata fin da piccolo dalla sua famiglia. Simona, sua madre, è sempre stata disponibile ad aiutare gli altri, e suo padre (il padre che ora non c’è più) gli ha sempre detto che il bene chiama altro bene. Fare del bene verso gli altri rende l’uomo nobile, e Davide l’ha capito presto.

Quando ha portato le barrette a Camila, diciassette anni prima, l’ha fatto sapendo che lei ne aveva bisogno. L’ha fatto pensando di fare una cosa giusta. Quando è salito in soffitta - nonostante la sua paura per quel luogo pieno di ragnatele - per rovistare fra le vecchie cose di Priscilla, l’ha fatto sapendo che a Camila avrebbero fatto comodo un paio di scarpe nuove. Le sue erano grandi e rovinate.

Essere generoso l’ha sempre reso uno dei preferiti.

A scuola, quando si offriva per aiutare un compagno in difficoltà in una materia, gli insegnanti non avevano che parole di elogio per lui. In famiglia, quando ancora oggi si offre per fare commissioni o aiutare in casa, sua madre non fa che dargli baci sulla fronte e dirgli ‘Come farei senza di te’.

Con le ragazze, poi, la sua generosità è un biglietto da visita di tutto rispetto. E’ ciò che gli ha permesso e gli permette di avere molti appuntamenti.

Alle donne piace essere corteggiate con gentilezza, con galanteria. Davide ha imparato molti trucchetti, grazie ai suoi amici e ai consigli di Giancarlo, ma sa che la generosità aiuta sempre.

Come ieri, quando ha aiutato Alessia e Ida a riordinare il salotto, mentre Camila era fuori casa.

“Davide? Davide, sei sveglio?”

La voce di sua madre è bassa. Lo colpisce alle spalle, senza che lui si sia accorto della porta che veniva aperta.

“Sì,” risponde, emergendo dalle coperte. “Buongiorno,” aggiunge, stropicciandosi gli occhi.

“Buongiorno,” dice lei, accarezzandogli i capelli. “Volevo solo chiederti se vuoi che ti prepari un panino per lo stadio, o se pensi di prendere qualcosa lì. E’ quasi l’una.”

L’una? Per quanto tempo è rimasto a fantasticare su Camila?

E cosa vuol dire ‘panino per lo stadio’? Si gioca in casa?

“No,” risponde, incrociando le dita sotto la testa per sollevarsi. “Oggi non vado allo stadio. La guardo qui, la partita.”

“Oh. Va bene, allora. Perfetto.” Gli sorride, e poi getta un’occhiata distratta al letto. “Beh, è comunque ora che ti alzi, o vuoi rimanere lì per tutto il giorno? Forza, Bilbo è fermo davanti alla tua porta da un’ora.

Davide si alza sui gomiti e scopre che Bilbo è proprio lì, scodinzolante, ad attenderlo. Le camere da letto sono off limits per il cane, per questo esprime la sua incontenibile gioia battendo le zampe sul pavimento, in attesa di uscire a giocare.

“Ciao, Bilbo. Arrivo subito,” dice Davide.

Sua madre lo saluta ed esce dalla stanza per dargli modo di vestirsi.

Mentre lo fa, Davide controlla il telefono. Nessuna chiamata da parte di Alessia. Nessuna chiamata da parte delle ragazze con cui è uscito prima di iniziare ad uscire con Alessia. Nessuna chiamata da parte di Camila, ma di questo non si meraviglia: non si sono scambiati i numeri.

Una volta pronto, si occupa di rifare il letto e di aprire la finestra per far cambiare l’aria.

Si chiude la porta alle spalle e fa una carezza a Bilbo. Il cane scodinzola e lo precede al piano di sotto, pronto a giocare.

Quando arriva stasera?

 

Stasera arriva diverse ore dopo. Ore passate a giocare con Bilbo, a tifare la sua squadra (che fortunatamente ha vinto) e a controllare l’orologio.

“Ehi, dove vai?” gli chiede sua madre quando lo vede prendere le chiavi dell’auto. E’ seduta sul divano accanto a Giancarlo, intenta a guardare una commedia alla tv.

“Esco,” risponde Davide, come se uscire alle 10 di domenica sera fosse la cosa più naturale della terra. “Con i miei amici.”

“Certo, con gli amici…” ribatte Priscilla, dalla cucina.

“Sshhh!” interviene lui.

Non intende dare spiegazioni alla sua famiglia, tantomeno sul luogo in cui si sta recando.

“Non fare troppo tardi. Domani devi riprendere a studiare,” dice con severità Simona.

“D’accordo, d’accordo.”

Saluta tutti con un bacio volante, dà un’altra carezza a Bilbo e parte.

Impiega quaranta minuti per raggiungere il retro del palazzo in cui vivono Alessia e Camila. Parcheggia l’auto nello stesso punto del giorno prima, rallegrandosi per aver trovato un posto facilmente, e controlla l’orologio. Non si sono dati un appuntamento preciso, per questo ha deciso di presentarsi più o meno alla stessa ora in cui sono scesi ieri sera.

Scavalca il muretto di cinta del giardino, cercando di non sporcarsi i pantaloni scuri e la giacca (ha pensato di osare, come se si trattasse di un appuntamento vero e proprio), e vede che Camila è già lì, accanto allo stesso lampione.

Indossa perfino lo stesso cardigan, ma i pantaloni sono di un colore diverso.

E’ felice di non dover aspettare il suo arrivo, e lo dimostra andandole incontro a passo spedito, sorridendo.

“Ciao,” dice.

“Ciao,” risponde lei.

“Sei qui da molto? Non sapevo a che ora…”

“Sono appena arrivata,” lo interrompe.

Camila non riesce a guardarlo negli occhi per più di due secondi; muove lo sguardo dal viso di Davide agli alberi, ai cespugli secchi, alla panchina rovinata.

Davide vorrebbe che lei si fermasse. Sembra nervosa, e non vuole che lo sia.

“Perfetto,” dice. “Hai… hai passato una bella giornata?”

Camila annuisce. “Ho riposato. E ho fatto il bucato,” aggiunge, scrollando le spalle.

“Non sei uscita?”

Camila scuote il capo. “Non fino a poco fa, per venire qui.”

Davide è sorpreso. Non tanto dalle timide risposte di Camila, quanto dalle domande che le sta facendo. Gli sembrano stupide, insignificanti.

E’ abituato a frequentare persone più grandi di lui, ma non è mai uscito con una ragazza più grande. Camila lo è, e anche se non si tratta di un vero appuntamento, Davide non può fare a meno di sentirsi in difficoltà.

“Ti va se ci sediamo un po’?” chiede lei. Si volta verso la panchina rovinata.

“Sì,” risponde Davide. “Va bene.”

Si accomodano e restano in silenzio per qualche momento.

“Oggi non sei uscito con Alessia?”

“Come? Oh, no. Oggi no,” dice lui.

Dopo pranzo, la ragazza le ha inviato un messaggio, chiedendogli se avesse programmi per la serata. Lui si è inventato una cena di famiglia a cui non poteva mancare, e le ha augurato una buona giornata e un buon inizio di settimana.

“Davvero le hai mentito?” chiede Camila, dopo che le ha raccontato tutto.

“Sì. Non potevo dirle che sarei venuto qui, no? A proposito,” dice, guardandosi attorno. “Non è che ci sta spiando?”

“No,” risponde lei senza indugio. “Le finestre del nostro appartamento non affacciano su questo lato, e poi è rimasta per tutto il giorno in camera sua. Credo che stia studiando per un esame.”

Davide si sente sollevato. Essere scoperti da Alessia sarebbe un’esperienza poco piacevole.

Non saprebbe come giustificare la sua presenza, tranne che con un’altra bugia, e di sicuro Camila reagirebbe male.

Un altro momento di silenzio, in cui Davide pensa a cosa dire. Nel  farlo osserva le gambe sottili di Camila e le sue scarpe. Sono scure, pulite, dignitose.

Tutti, in lei, grida dignità. Anche il modo in cui mangiava, ieri sera. Composta, educata.

“E così hai vissuto in Germania,” dice dopo aver riflettuto. “A diciotto anni sono andato a Berlino,” dice. “In vacanza con i miei amici.”

“Non sono mai stata a Berlino,” mormora Camila, alzando gli occhi sul suo viso. “E’ bella?”

“Molto. Come souvenir ho portato un pezzo del muro… sai che li vendono?

Camila sembra smarrita per un secondo, ma poi annuisce.

“Dove vivevi? Eri molto lontana da Berlino?”

“Bad Saulgau,” risponde lei. “La città in cui vivevo è Bad Saulgau.” Si strofina il naso prima di continuare. “Ero molto lontana da Berlino.” E non dice altro.

“Anch’io mi sono spostato da Carovigno,” dice Davide. “Ovviamente… visto che siamo qui,” aggiunge poi, dandosi dello stupido. “Mia madre si è risposata quando mio padre è morto, e siamo venuti qui a Roma.”

Camila allarga gli occhi alla notizia. “Mi dispiace.” Non dice altro.

“Ehi, che c’è? Tutto bene?”

“Una volta hai nominato tuo padre,” sussurra lei. “Negli spogliatoi.”

“Quando?”

“Quando non volevo accettare le scarpe di tua sorella. Dicesti che se non l’avessi fatto avresti chiamato prima il magazziniere e poi tuo padre.

Davide è meravigliato. “L’ho detto davvero? Te ne ricordi ancora?”

Camila lo guarda, come se volesse aggiungere qualcos’altro, ma si limita ad annuire.

“Da piccolo ero una peste,” dice sorridendo. “Priscilla mi faceva i dispetti, e i miei compagni di classe mi prendevano in giro per le orecchie a sventola. Ero un bambino allegro, ma spesso avevo bisogno di farmi valere, di non farmi calpestare. Guarda Camila, le punta un dito contro. “Ricordo che eri piuttosto agguerrita, sai? Volevi a tutti i costi che ti lasciassi sola, eri così… testarda.

Testarda come ieri, quando non volevi che ti offrissi la pizza. Eppure ce l’ho fatta, sia diciassette anni fa che ieri.

“Non avevi le orecchie a sventola,” dice lei, sorridendo. “Non le hai neppure adesso.”

“Infatti!” esclama il ragazzo. “Eppure tutti si divertivano a chiamarmi Dumbo. Incredibile. I bambini sono crudeli.”

“Tu non eri crudele,” dice Camila, facendo dondolare un piede. “Ficcanaso, forse, ma non crudele.”

A Davide piace sentirla parlare. Non solo per la sua voce, un po’ roca, ma anche perché adora osservare le sue labbra che si muovono. Ne è ipnotizzato, sempre.

“Non ero ficcanaso,” risponde, senza staccare gli occhi dal sorriso di lei. “Ero buono.” Pronuncia l’ultima frase inclinando la testa sulla spalla, con lo sguardo di un cagnolino in attesa dell’osso.

Camila ride di gusto all’espressione buffa di lui. “Ok, ok. Eri buono.” Lascia passare cinque secondi. “E anche un po’ ficcanaso.”

“Se io ero ficcanaso, allora tu eri testarda. Ammettilo.”

“Lo ammetto,” ribatte, senza problemi. “Dovevo esserlo. Non potevo farmi scoprire dal magazziniere.

“Quanti anni avevi?” chiede lui, pentendosene all’istante. “Come non detto, scusa. Non si chiede l’età ad una signora.”

“Avevo 14 anni,” risponde. “Ora ne ho 31.”

E’ tanto più grande, pensa lui. “Io ho solo 24 anni,” dice, traducendo in parole il pensiero amareggiato. “Avevo 7 anni allora.”

“Eri molto coraggioso.” Le parole di Camila arrivano quando Davide guarda a terra. La voce è bassa, ma comprensibile. Il silenzio e la semi oscurità li circondano. “La maggior parte dei bambini sarebbe scappata via di fronte ad una come me, invece tu-”

Una come te?”

“Una persona povera,” chiarisce lei. “Hai gridato solo una volta, o forse due. E solo perché ti aspettavi di trovare un tuo amichetto sotto la doccia.

Davide non sa come ribattere. Non pensa che il suo comportamento possa definirsi coraggioso, ma su una cosa non c’è dubbio: non ha mai avuto paura di Camila.

“C’era qualcuno che scappava da te?” chiede. “I bambini della scuola calcio ti hanno trattata male?”

“No, non mi hanno trattata male” risponde lei. “E comunque è passato tanto tempo… quel che accadeva allora non importa più.”

Importa per me.

Davide è curioso, e se ne vergogna. Sa che chiedere a Camila della sua vita è sconsigliabile e irrispettoso, ma non riesce a trattenersi. Gli piace ricordare di quei giorni, quando dopo ogni allenamento passava la serata a descrivere a suo padre ogni passaggio, ogni gol, ogni esercizio che il mister gli aveva fatto fare. Ricordare Carovigno lo mette di buonumore, ma forse per Camila non è così. In fondo lei a Carovigno era la ragazza che non aveva docciaschiuma e scarpe decenti.

“Non volevo farti ricordare cose tristi,” dice. “Scusa.”

“Non c’è bisogno di scusarsi,” ribatte prontamente lei. “Non preoccuparti.”

E proprio in quel momento sentono di nuovo la musica. Proviene dalla stessa finestra, ed entrambi si voltano in quella direzione.

La melodia è diversa da quella della sera prima, e Camila la riconosce subito.

“Adoro questa canzone,” dice con entusiasmo.

Davide riconosce subito l’arpa e la voce sottile della cantante.

“La conosci?” chiede lei, muovendo il piede a tempo con la musica.

“Sì.”

“E’ bellissima,” sussurra. Il vento è a favore anche stasera, per cui restano in silenzio ad ascoltare.

Il ragazzo guarda Camila, che a sua volta guarda lui. Strofa dopo strofa, si osservano, si guardano.

Davide ammira le sue labbra e si ubriaca delle parole della canzone. Il ritmo sostenuto e le percussioni iniziano a guidare i suoi pensieri

E’ così bella.

Vorrebbe conoscere le sue idee, i suoi pensieri. Vorrebbe sapere perché continua a guardarlo e a mordersi l’interno della guancia. Vorrebbe accarezzarle la pelle ambrata.

Lo vuole anche lei? Perché mi attrae così tanto? Se la toccassi cosa farebbe? E Alessia?

C’è un pizzico di magia, fra di loro, e non si tratta di una sensazione bugiarda.

Davide la scorge negli occhi celesti di Camila, nel sorriso appena accennato.

La magia svanisce, però, quando la canzone giunge al termine. Camila si alza in piedi, e nel farlo sfiora la mano di Davide. Un gesto volontario? Un puro caso?

“Sì è fatto tardi,” dice, infilando le mani nelle tasche del cardigan. “Devo andare.”

“Di già? Sono passati solo pochi… No, sono passate quasi due ore…” dice con sorpresa, quando guarda l’orologio.

“Già. Ho bisogno di riposare, domani lavoro.”

Davide non è pronto a separarsi da lei. Gli sembra che non abbiano parlato di nulla di importante. E’ come quando da piccolo andava alle giostre, e i suoi gli dicevano che era il momento di andare via proprio quando stava cominciando a divertirsi.

Si alza anche lui. “Posso chiamarti?” chiede, anche se non dovrebbe.

Camila allarga gli occhi ancora una volta. “Vuoi il mio numero?”

“Lo vorrei,” risponde. “Ma so che non… Voglio vederti ancora,” sbotta. “Oppure sentirti. O vederti e sentirti. Anche qui,” dice, indicando la panchina. “Anche la prossima settimana, se da domani devi lavorare e non puoi.”

Sebbene Camila resti muta, Davide può leggere sul suo viso le emozioni che sta provando: sorpresa, meraviglia, timore, e infine durezza.

“Tu e Alessia uscite assieme,” dice, ammettendo l’ovvio. “Perché vuoi vedere me? O sentire me? Tu e lei siete…” Non termina la frase. Estrae le mani dalle tasche e si abbraccia la vita, guardando in basso. “No,” sussurra. “Non posso.”

“Se è per Alessia non c’è problema,” dice lui. E’ pronto a non cercarla più. E’ pronto a mettere fine al loro rapporto appena iniziato.

Tutto, pur di rivedere Camila. Pur di guadagnarsi l’opportunità di darle un bacio. Lo farebbe anche adesso, se non avesse paura di una brutta reazione.

“Fra me e Alessia non c’è nulla di serio,” riprende. “Voglio rivederti, Camila. Voglio chiamarti. Voglio-”

“Io sono sposata,” dice in un respiro. “Sono sposata,” ripete.

Raddrizza le spalle, abbassa le braccia lungo i fianchi e lo dice di nuovo. “Sono sposata.”

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La canzone era Cosmic Love, di Florence + The Machine. E Davide è laziale, non c’è bisogno che lo precisi XD

 

Alla prossima.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Grazie per tutti i commenti allo scorso capitolo

Grazie per tutti i commenti allo scorso capitolo. Grazie anche ai lettori silenziosi.

In molti mi avete chiesto di dare un volto a Davide e Camila: qualche settimana fa l’ho fatto, e ne è venuto fuori un post sul mio blog. Dategli un’occhiata e fatemi sapere cosa pensate delle mie scelte.

 

Buona lettura.

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Capitolo 9

 

“Sei… sposata?” Camila legge lo stupore sul volto di Davide, mentre il ragazzo ripete le sue parole. “Io… Io non lo sapevo. Tu non…” Lo vede abbassare gli occhi sulle sue mani. “Non hai l’anello. Non porti la fede.”

“Sono sposata,” ripete lei. “Te l’assicuro.”

Rimangono a guardarsi senza dire niente. Lui è davvero meravigliato, e Camila non sa in che modo interpretare tale sentimento. Si tratta di mera sorpresa o di delusione?

“Tuo marito dov’è?” le chiede, tornando ad essere il ragazzo curioso di sempre. “E’ di Roma?”

“No. Non è di Roma.” Camila desidera sganciarsi, prima che le domande possano diventare più insidiose.

“Dov’è? Da quanto tempo siete sposati?”

“Quattordici anni,” dice, meccanicamente.

“Quattordici?!” esclama Davide. “Avevi… avevi 17 anni quando ti sei sposata?”

Lei annuisce.

“Wow. Beh, io… io non avevo idea, Camila. Non volevo… Scusami.”

La donna scuote il capo per fargli capire che non deve preoccuparsi. Abbassa gli occhi. “Non c’è problema. Non potevi sapere.”

Lui tace per qualche secondo, e alla fine riprende. “Ma allora perché… Perché non sei con lui, adesso? E perché ti preoccupi che Alessia e Ida non vengano a sapere che… E perché mi hai detto che potevamo… che potevamo parlare…” Se l’inizio del suo piccolo interrogatorio è pieno di veemenza, l’ultima domanda esce dalle labbra di Davide con poca forza. Quasi come se, di domanda in domanda, le risposte siano arrivate da sole.

“Volevi solo assicurarmi che non dicessi niente alle ragazze.”

C’è delusione nei suoi occhi, e Camila non fatica a vederla.

“Tutto qui? Volevi soltanto… soltanto questo?”

Lei non sa come rispondere. Cosa dirgli per fare in modo che non arrivi alla conclusione sbagliata.

“Va bene,” sussurra lui. “Non preoccuparti, Camila. Non dirò nulla ad Alessia e Ida. E non ti importunerò più.”

Infila una mano nei pantaloni, tira fuori le chiavi della sua auto.

Sta per andarsene. Lo rivedrò ancora? Probabilmente no.

“Scusami se ti ho portato via del tempo,” le dice. “Se avessi saputo che eri sposata non avrei mai… Fai finta che non sia neppure venuto qui, ok? Buonanotte. Ciao.”

Si volta e fa per andarsene, ma lei compie due passi e lo raggiunge. “No, aspetta.” Ha quasi paura di toccargli la giacca. Di sgualcirla. Di scoprire che il contatto può piacerle.

Davide si gira. Sembra annoiato. Di sicuro non è interessato a ciò che lei sembra volergli dire. “Cosa?”

A Camila il cuore batte forte. Vorrebbe parlare a voce normale, ma tutto ciò che esce è un sussurro lieve. “Mi dispiace.”

“Come? Non ho sentito, puoi ripetere?”

“Io… ho detto che mi dispiace.” Si abbraccia la vita sottile e continua a guardare il cemento del giardino.

“Non preoccuparti,” ribatte lui, senza alcuna espressione. “Dispiace di più a me.” E se ne va.

Senza darle modo di dire altro. Senza guardarla per l’ultima volta. Di questo Camila è contenta: è meglio che lui non abbia visto i suoi occhi pieni di lacrime.

Torna al suo appartamento lentamente, stretta nel cardigan viola. Quando entra in casa tira un sospiro di sollievo. Ida e Alessia sono nelle loro rispettive camere, per cui può evitare di salutarle, o di passare loro accanto.

Si chiude anche lei nella sua stanza e cerca di non pensare al modo in cui l’incontro con Davide è precipitato rovinosamente. Ha aspettato per tutto il giorno il momento in cui l’avrebbe rivisto, ma non pensava che il ragazzo potesse essere così intraprendente.

Mi ha perfino fatto capire che avrebbe mandato all’aria la storia con Alessia.

Camila si impone di vedere le cose per quello che sono. Davide è un ragazzo ricco, giovane, impegnato a studiare e a divertirsi. Lei ha sette anni in più di lui, e per vivere pulisce le case altrui. I suoi impegni principali sono due: lavorare e mettere i soldi da parte per poter finalmente lasciare Roma e l’Italia.

E’ stato bello ritrovarlo, rivederlo. E’ stato bello averlo potuto ringraziare, finalmente, per le scarpe di Priscilla e per il grande aiuto che lui le ha dato tanti anni prima.

Ma fra di loro non potrà mai esserci nulla. Neanche una semplice amicizia. Li dividono un mucchio di cose. Insormontabili. Impossibili da cancellare.

Prima di infilarsi sotto le coperte e cercare di riposare a sufficienza, in visione dell’impegnativo lunedì che l’attende, Camila cerca nella borsa il suo portafogli. Lo apre e lo capovolge su una mano, facendo attenzione a non far cadere i pochi spiccioli.

L’unico oggetto a cadere è la sua fede, la stessa fede che Davide ha subito cercato per accertarsi che non stesse mentendo. Un cerchio sottile in oro giallo, che Camila ha tenuto al dito per undici anni.

Fino alla notte, di anni ne sono trascorsi tre, in cui ha fatto la valigia ed è scappata dalla Basilicata. E da Umberto.

 

***

 

Davide si maledice fino ad addormentarsi, nel letto della sua cameretta.

Per un momento ho pensato che fra me e lei potesse esserci qualcosa, invece… invece è una donna sposata.

Nel bouquet di successi con le donne, Davide custodisce anche qualche delusione. Rapporti andati male, illusioni infrante al primo appuntamento, conquiste troppo difficili perfino per lui, che di solito si diverte con un certo tipo di prede.

Adesso, però, gli sembra che questa delusione sia più cocente delle altre, e il motivo è semplice: è stato sorpreso. Non si aspettava una simile notizia da Camila. Non aveva lontanamente previsto che potesse stare con qualcuno, tantomeno essere sposata.

Invece lo è, da tantissimo tempo. E lui non può farci niente.

 

***

 

Per Camila, il lunedì è il giorno più impegnativo di tutti. Per questo motivo, non appena si sveglia, prepara il caffè e lo versa in un thermos azzurro che porterà con sé in giro per la città. Ogni tanto ne beve un goccio, fra una casa e l’altra, o mentre è sull’autobus o in metropolitana.

Oggi pare che ne abbia più bisogno del solito. La notte è stata agitata, e più volte interrotta da risvegli improvvisi e in apparenza immotivati.

Esce di casa poco dopo le 7, ancora una volta felice che le coinquiline siano nelle loro camere. Nella borsa che contiene il thermos c’è anche una bottiglietta d’acqua, un panino (simile a quello che avrebbe voluto preprare la mattina in cui ha sorpreso Davide nella sua cucina) e un frutto.

La metropolitana è gremita di gente: lavoratori e studenti pronti (o forse no) a cominciare una nuova settimana. Il lunedì le conversazioni sono sempre le stesse: cos’hai fatto nel fine settimana, com’è andata la partita, non vedo l’ora che arrivi venerdì.

Camila osserva gambe e piedi dei passeggeri seduta al suo posto, accanto ad una donna dai capelli rossi. Evita di leggere, si sente troppo stanca, e pensa alle famiglie che dovrà visitare.

In certe case, sembra che nel weekend succeda di tutto: cesti infiniti di bucato sporco o da stirare; piatti accumulati per due giorni che non aspettano altro che lei per essere lavati; pavimenti incrostati di liquidi sospetti e polvere che sembra piovuta sui mobili in meno di 48 ore.

Camila sa che tutto questo significa avere un lavoro assicurato: in un certo senso è grata al disordine e alla scarsa pulizia dei suoi clienti, ma non riesce comunque a capire come possano essere così sporcaccioni in un così breve lasso di tempo.

Nella mattinata visita tre case, tutte nello stesso quartiere: si occupa delle stoviglie, del bucato e anche di un cane, quello della signora Mastrangeli. La donna possiede un Pinscher nano, ingestibile nonostante la piccola taglia. Camila è l’unica a riuscire a domarlo ed è convinta che la signora sia ancora sua cliente solo per lasciarle in custodia il cane. L’appartamento, infatti, è sempre pulito e ordinato.

Nel pomeriggio si dirige nella zona a nord della Capitale. In metropolitana consuma il suo panino e sull’autobus dà qualche morso alla mela rossa.

Certe case, soprattutto quelle in cui vivono i bambini, sono un vero e proprio inferno di lunedì pomeriggio: i piccoli di casa sono frenetici, molto vispi, e le madri cercano di metterli a sedere per studiare oppure di farli preparare per andare in piscina, o in palestra, o al campetto.

Camila deve ritagliarsi uno spazio in cui poter lavorare, cercando allo stesso tempo di essere discreta ed efficiente. Alle padrone di casa non piace avere una donna delle pulizie che si lamenta perché il figlio ha calpestato i pavimenti appena lavati. Alle padrone di casa non piace essere disturbate durante la visione della propria telenovela preferita.

In tre anni Camila è riuscita a rendersi invisibile, e questa è una delle doti che i suoi clienti apprezzano particolarmente in lei. In genere funziona così: arriva, saluta i proprietari della casa, resta con loro per qualche minuto a fare conversazione, e poi chiede con garbo ‘Da quale stanza posso cominciare?’. I clienti le rispondono, lei si ritira e comincia a lavorare.

Viene pagata per ogni ora di lavoro compiuto, ma non per questo si diverte ad essere lenta: i clienti se ne accorgerebbero subito, se cercasse di fare la furba. E’ rapida, ma scrupolosa. Impiega il tempo necessario, sempre. Né più né meno.

 

La sua giornata lavorativa si conclude alle sei e un quarto di sera, a casa dei Marciano, una famiglia composta da genitori (entrambi commercianti) e tre figlie adolescenti.

Normalmente, Camila camminerebbe fino alla fermata più vicina della metro e tornerebbe a casa. Arriverebbe poco prima delle 8, in tempo per fare una doccia, mangiare qualcosa e infilarsi sotto le coperte.

Questo lunedì è diverso, però. Ieri pomeriggio, mentre puliva la sua camera e pensava all’incontro che avrebbe avuto con Davide, ha ricevuto la telefonata di Simona Falco, l’amica della signora Ballotta.

Simona si è scusata per la telefonata domenicale, e le ha parlato del suo problema, ovvero il bisogno di qualcuno che l’aiuti nelle faccende domestiche. Camila si è resa subito disponibile per un incontro preliminare, in cui conoscersi e concordare orari e tariffe. E’ stata lei a scegliere ora e luogo dell’appuntamento, per due ragioni: la prima, puramente logistica. L’abitazione dei Falco si trova nel quartiere dei Marciano, e in questo modo Camila non deve fare molta strada. La seconda, invece, è una ragione di carattere strettamente lavorativo: Camila non accetta mai un lavoro senza prima aver visto la casa che dovrà pulire ed aver conosciuto la padrona di casa. Sa di non essere una professionista, e non vorrebbe mai accettare lavori che potrebbero in qualche modo necessitare di una qualifica che non possiede.

Una volta un uomo pretese da lei che oltre alle faccende di casa si occupasse anche di assistere la madre moribonda.

Oltre a questo, poi, c’è anche un fattore di contatto. Discutere di lavoro a voce è sempre meglio che farlo attraverso una cornetta.

Così, venti minuti dopo aver detto ‘Arrivederci’ all’ultima figlia dei Marciano, Camila si trova davanti al portone di un nuovo condominio. E’ aperto, ma preferisce suonare il citofono.

Risponde una donna. “Chi è?”

“Buonasera, mi chiamo Camila. Ho parlato con la signora Falco ieri pomeriggio, al telefono.

“Oh, sì. E’ mia madre. Salga all’ultimo piano, le apro.”

I piani solo soltanto tre, per cui l’ascensore non c’è. Di solito a Camila piace fare le scale a piedi, ma alle 7 del lunedì sera la cosa è più difficile. Ciò nonostante mantiene un’andatura normale: non vuole arrivare col fiatone, e non vuole che la figlia di Simona aspetti per un’eternità con la porta aperta.

Quando mette piede sul pianerottolo la vede, ferma sul tappetino verde. Dietro di lei, un cagnolino nero che abbaia. “Bilbo, smettila! Torna dentro!”

La ragazza è bionda, con tanti capelli mossi che arrivano quasi sul seno. E’ alta come Camila, ma le spalle sono più robuste. Indossa un paio di jeans e una camicia.

Le tende subito la mano.

“Ciao,” dice. “Io sono Priscilla.”

“Ciao. Buonasera. Piacere di conoscerla. Mi chiamo Camila.”

“Camilla?”

“Camila, con una L,” ripete lei, per l’ennesima volta da quando è nata.

“Camila, che nome particolare. Puoi chiamarmi Priscilla, comunque. Non sono così vecchia.”

“Oh, grazie.” Cerca di ignorare il nome della ragazza che si trova di fronte; cerca di ignorare il fatto che le ricordi Davide. “Tu puoi chiamarmi Camila.”

Priscilla si sposta di lato per farla entrare. Camila è immediatamente colpita dal profumo di buon cibo che si avverte nella casa.

“Mamma, vieni. C’è la ragazza che hai chiamato ieri.” Poi si rivolge a Camila e le fa segno di seguirla lungo il corridoio. “Vieni, andiamo in salone. Mamma! Mi senti?!

“Eccomi, eccomi.” Un veloce rumore di ciabatte sbatte sul parquet, seguito da quello delle zampe di Bilbo, il cane di casa.

E nel momento in cui la signora Simona emerge dalla cucina, il grembiule in vita e i capelli biondi come quelli di sua figlia, Camila nota una grande fotografia appesa alla parete orientale del salone. Raffigura un uomo di circa quarant’anni, in ginocchio accanto ad un bambino in divisa da calciatore. Il bambino è paffuto e sorridente, biondo come un angioletto.

La foto è stata scattata al centro di un campo da calcio, e Camila lo riconosce subito, così come riconosce quel bambino.

“Quello è mio fratello,” dice Priscilla con un sorriso. “Davide.”

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Grazie per tutti i commenti che lasciate a questa storia

Grazie per tutti i commenti che lasciate a questa storia. Grazie anche a chi commenta in privato, e a chi resta nelle retrovie e si limita a leggere.

 

So che molti di voi si chiedono cosa sia successo al matrimonio di Camila e che fine abbia fatto Umberto. Queste informazioni arriveranno al momento opportuno. Non posso anticiparvi nulla, ma come al solito tutto avrà una spiegazione.

 

Buona lettura.

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Capitolo 10

 

Il lunedì di Davide è simile a quelli delle settimane precedenti. Sveglia alle sette e mezza, colazione in cucina con latte e biscotti (i suoi preferiti sono gli Abbracci del Mulino Bianco, in particolare la metà al cioccolato), coccole a Bilbo prima di uscire di casa, biblioteca dell’Università per studiare con i suoi amici.

Lo fa anche oggi, nonostante svegliarsi sia più difficile del solito. Ha dormito poco e male, Davide, e l’idea di mettere il naso fuori dalle coperte lo allieta ben poco.

Tuttavia non è intenzionato a rimanere indietro con lo studio né, tantomeno, a farsi condizionare da ciò che è accaduto la sera prima con Camila.

E’ una donna sposata, più grande di lui, che gli ha chiaramente fatto capire che non è interessata ad approfondire la sua conoscenza. Ha voluto ringraziarlo per la gentilezza che Davide ha mostrato nei suoi confronti a Carovigno ed è per questo che lo ha incontrato, punto.

E’ sposata.

Ha un marito.

Davide si ripete le due frasi mentre inzuppa lentamente i biscotti nel latte caldo, mentre gioca con Bilbo fino a farlo abbaiare per la contentezza, mentre si lava i denti e si prepara ad uscire.

La temperatura è bassa, ma per fortuna il sole riesce a riscaldarlo mentre sfreccia per le vie della capitale sul suo scooter, l’unico mezzo di trasporto che utilizza durante la settimana.

 

Una volta arrivato di fronte all’edificio della biblioteca, è sorpreso di trovare (proprio nel posto che sceglie ogni giorno per parcheggiare) Alessia ad aspettarlo.

“Ehi,” è tutto ciò che le dice, dopo aver tolto il casco ed essere sceso dallo scooter.

“Ciao,” risponde lei. “Buon lunedì.” Gli si avvicina e gli dà un bacio sulla guancia.

Lui pensa per un attimo di scostarsi, ma alla fine cede e ricambia il gesto.

“Buon lunedì anche a te,” dice Davide. “Come mai sei qui? Pensavo che studiassi a casa.”

“Che c’è, non posso farti compagnia?” domanda la ragazza, sistemando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.

“Certo che puoi farmi compagnia.”

In realtà vorrebbe evitare di cominciare la settimana in questo modo – con Alessia attaccata alla giacca – ma non vuole dirle di andarsene. Non vuole essere brusco con lei, in fondo Alessia non ha colpe. Ha solo pensato di fargli compagnia.

Dopo aver preso lo zaino contenente i suoi libri dal vano sottosella, Davide si affianca ad Alessia. Lei pensa che lui voglia prenderle la mano, per cui allunga la sua in anticipo.

Davide, ancora una volta, non intende essere brusco, per cui intreccia le dita ancora coperte da un guanto a quelle della sua amica.

“Che hai fatto ieri?” chiede lei, facendo dondolare le mani unite. “Non ti sei fatto sentire per niente…” aggiunge, rattristata.

“Sono stato a casa,” dice lui, scrollando le spalle. “Ho dormito, ho passato un po’ di tempo con mia sorella. Il solito.”

Non vuole inventare bugie, ma sa che non può dirle la verità. Non può raccontarle di essersi visto con Camila nel giardino del loro palazzo.

“Tu cos’hai fatto?” chiede.

Alessia non aspettava altro che lui si interessasse alla sua domenica. Gli racconta degli appunti ricopiati e studiati, del pranzo preparato con Ida (“Abbiamo fatto la pasta al pomodoro e poi l’abbiamo passata nel forno dopo aver aggiunto le sottilette: era buonissima!”), del pisolino pomeridiano, e degli altri appunti studiati e ricopiati.

“Pensavo che non volessi sentirmi,” dice alla fine, prima di entrare in biblioteca. “Per questo non ti ho chiamato.”

Indossa un paio di jeans scuri e un paio di scarpe con tacco alto, che le consentono di arrivare quasi a Davide. Indossa anche un giubbotto bianco perlato, con una cintura stretta in vita. La zip del giubbotto è aperta a metà, così come i bottoni della camicia rosa che spunta appena.

Ad Alessia piace mettere in mostra il proprio seno, e a Davide piace il seno di lei.

“Perché non dovrei volerti sentire?” chiede lui, osservando la piega dello scollo muoversi grazie al respiro della ragazza.

“Non lo so…” dice lei a bassa voce. Compie un passo nella sua direzione, arrivando a sfiorare il suo naso con quello di lui. “Mi sei mancato,” dice.

Il profumo che indossa è dolce, molto dolce. Sa di biscotto, di cioccolato, di vaniglia. Davide ne viene attratto immediatamente, come se fosse una calamita.

E un po’ perché Alessia sa come stuzzicarlo, un po’ perché gli sembra un bel modo per iniziare la giornata, un po’ per evitare di pensare ancora a Camila, le cinge la vita con un braccio e la bacia.

Con passione, senza freno. Lo fa nonostante Alessia abbia sulle labbra uno strato di lucidalabbra (Davide non è un fan delle labbra truccate). Alessia si scalda subito. Si avvicina ancora di più, gli accarezza i capelli biondi. E’ appassionata come lui, se non di più.

Molti studenti passano loro accanto, ma a nessuno dei due importa.

Continuano a baciarsi fino a che Davide non sente il tonfo del suo zaino caduto a terra e si stacca dalle labbra di lei.

“Andiamo a studiare?” le chiede, dopo averlo raccolto dal marciapiede.

“Ok,” risponde Alessia, prendendo di nuovo la sua mano.

 

Davide non è uno stupido. Sa che Alessia ha una visione del loro rapporto molto diversa rispetto a quella che ha lui.

Lei pensa di aver trovato un fidanzato. Lui non è intenzionato ad essere il suo fidanzato.

Lei spera che dal sesso possa nascere altro. Lui non sente per Alessia alcun sentimento profondo.

Davide è anche un ragazzo, però. Un ragazzo che ama divertirsi, che non riesce a dire no ad un bel corpo, a due belle gambe che sanno avvinghiarsi al momento giusto attorno ai suoi fianchi, ad una bella bocca, ad un meraviglioso e rigoglioso decolleté.

Per questo (anche per questo) non gli importa che Alessia si consideri la sua quasi-ragazza.

Per questo non si oppone quando lei gli chiede di studiare insieme.

Lo fanno fino all’ora di pranzo, quando vengono raggiunti da Ida e da alcuni amici di Davide; decidono insieme di mangiare un panino al bar della biblioteca. Alessia siede accanto a Ida, e Davide ne è contento: dopo tutte le ore passate con lei ha bisogno di una pausa

 

Ripensa a Camila mentre addenta il suo panino con pomodori e cotoletta.

Sta lavorando, adesso? Sta pranzando? Ha da mangiare?

L’ultima domanda è la più stupida, si dice. Certo che ha da mangiare, non è più la ragazzina di diciassette anni fa.

E’ adulta, adesso, e sa badare a se stessa. E’ perfino sposata. E quindi inarrivabile. Impossibile. Off limits.

Tale consapevolezza suscita in lui un’ondata di fastidio, di nervosismo.

A fine pasto, è Davide ad avvicinarsi ad Alessia e a baciarla. Lei risponde subito, ovviamente, e non dice di no quando Davide le chiede di appartarsi in una delle aule studio vuote.

 

***

 

Davide, Alessia e i rispettivi amici restano in biblioteca fino alle quattro del pomeriggio. Piace a tutti divertirsi, ma quando si tratta di studiare Davide diventa un vero e proprio secchione. Non vede l’ora di laurearsi e per questo lavora sodo sui libri, in visione della preparazione della tesi.

Quando offre ad Alessia un passaggio a casa, la ragazza non rifiuta. Davide ha sempre un casco in più nel vano sottosella, e lei lo indossa immediatamente.

Si aggrappa a lui più del necessario, sentendosi felice al pensiero di rimanere con Davide ancora per un po’.

Il ragazzo frena sotto casa di Alessia mezzora dopo. Il sole è ormai tramontato, e il freddo è pungente.

“Ti va di salire?” chiede lei, passandogli il casco. “Puoi cenare qui, se vuoi.”

“No, Ale. Meglio di no. Devo tornare a casa, ho un impegno con i miei.

Non ha nessun impegno. La verità è che non vuole rischiare di ritrovarsi nella stessa casa con Camila. Non è ancora pronto a rivederla.

“Va bene,” risponde Alessia, imbronciata. Si avvicina per dargli un bacio sulla guancia, un bacio che lui trasforma subito in un bacio sulle labbra. Il lucidalabbra è completamente andato via, fortunatamente per lui. “Ci vediamo domani?”

“D’accordo,” risponde Davide. “Alla biblioteca alle 10?”

“Perfetto. A domani, allora.”

 

Davide mette piede in casa alle cinque e mezzo, stanco e infreddolito.

Bilbo gli fa le feste e saltella fra i suoi piedi mentre cerca di attraversare il corridoio.

“Sono tornato! Mamma? Priscilla?”

“Siamo qui!” risponde sua sorella.

Le raggiunge in cucina, dove le due donne sono intente a decorare una torta.

“Non toccare,” dice Priscilla. “E’ per questa sera, abbiamo ospiti.”

“Ugh,” mugugna lui, notando tutti i fornelli occupati da pentole e padelle. “Chi sono?”

“Giancarlo ha invitato un vecchio amico e sua moglie,” risponde Simona, sua madre. “E me l’ha detto solo oggi a pranzo! Ho dovuto preparare tutto in fretta e furia, e tua sorella è tornata solo poco fa dall’ospedale per darmi una mano.

Priscilla svolge il tirocinio come chirurgo pediatrico presso il San Camillo, un importante ospedale di Roma.

“Non possiamo andare al ristorante?” chiede Davide, prendendo una manciata di scaglie di mandorle prima che Priscilla riesca ad impedirglielo.

“No,” risponde sua madre. “Non possiamo. Qualche anno fa siamo andati a cena da loro, e la signora Giovanna,” dice, sottolineando il nome con sarcasmo, “ha preparato un menu degno del Re Sole. Non voglio che pensino che non sono in grado di stare ai fornelli.”

“Ma è vero,” ribatte il ragazzo. “Tu non sei in grado di stare ai fornelli.”

Priscilla e Simona si voltano verso di lui nello stesso momento. Sua sorella sussurra unSmettila, idiota’, mentre Simona gli lancia un’occhiata di fuoco.

“Non voglio offenderti, mamma,” rimedia lui, “ma quando si tratta di cucinare per tante persone vai sempre in crisi.” Ignora le mandorle e le va accanto. Le dà un bacio e l’abbraccia. “Posso aiutarti in qualche modo, mammina?”

“Sparisci,” dice lei, dandogli una leggera sculacciata. “E tieni l’orecchio teso per il campanello. Sto aspettando una persona.”

“Chi?”

“La nuova donna delle pulizie,” dice, sollevando un coperchio per girare il sugo di pesce.

“Mamma pensa che si chiami Camila, con una L,” interviene Priscilla. “Dille anche tu che sbaglia.”

“Come? Camila?” Davide saltella con lo sguardo fra le due donne.

“Sì,” risponde Simona. “E non ho capito male,” dice a Priscilla. “Si chiama davvero così.”

Quante donne delle pulizie esistono a Roma con il nome Camila? si chiede Davide. Poche, pochissime.

Può essere davvero lei? C’è solo un modo per scoprirlo.

“Beh, se non avete bisogno di me vado in camera mia,” dice, indietreggiando verso la porta.

“Va bene, va bene,” risponde sua madre. “Cerca di tenere a bada Bilbo, però: oggi è più agitato del solito.”

 

“Sei agitato, eh?” chiede al cane mentre salgono le scale. “Siamo in due.”

Dal momento che Bilbo non può entrare in camera da letto e Davide non intende farsi vedere in casa se la Camila in questione dovesse rivelarsi la sua Camila, il ragazzo si sistema con il portatile sulle ginocchia proprio sull’ultimo gradino delle scale a chiocciola. In questo modo può giocare con Bilbo, navigare in internet e tenere d’occhio la situazione al piano inferiore.

Il citofono suona poco prima delle sette, quando Davide ha perso ormai la sensibilità delle gambe e delle natiche.

Bilbo scappa di sotto, come al solito quando sente il citofono, e sua sorella va a rispondere. La sente dire: “Oh, sì. E’ mia madre. Salga all’ultimo piano, le apro,” e il cuore inizia a battergli in maniera strana, veloce.

Vorrebbe che si trattasse della sua Camila, della ragazza di Carovigno, ma allo stesso tempo sa che se così fosse, sarebbe letteralmente spacciato.

Davide sente sua sorella richiamare Bilbo all’ordine e poi presentarsi. “Ciao, io sono Priscilla.”

Tende l’orecchio e la sente. La sua voce. La voce di Camila.

Si presenta anche lei. Priscilla le chiede il solito chiarimento sul nome, e Camila le dà la solita risposta. La stessa risposta che diede anche a lui quando era solo un bambino che giocava a pallone in un campetto di calcio.

Chissà se Camila ha capito. Chissà se ha collegato il nome di mia sorella a me.

Priscilla invita Camila a seguirla verso il salone e chiama sua madre, che sfreccia dalla cucina per accogliere l’ospite.

Per una decina di secondi Davide non sente alcuna voce, ma poi quella di Priscilla lo fa piombare nella semi-disperazione. “Quello è mio fratello, Davide.”

Deve aver visto la foto che la mamma ha scattato quel giorno, dopo la partita in cui ho segnato il mio primo gol. Ha capito. Ha capito che sono io.

“Adesso però è cresciuto,” dice Simona. “Vieni, Camila. Accomodati.”

Alcune sedie vengono spostate, Bilbo continua ad abbaiare.

“Bilbo, calmati,” dice Priscilla. “Scusalo, Camila; fa sempre così quando abbiamo ospiti.”

“Non c’è problema,” risponde Camila. “A me piacciono i cani. Posso accarezzarlo?”

“Certo.”

Lo sta accarezzando, pensa lui. Sta accarezzando il mio cane.

“E’ molto carino,” dice Camila.

Davide non può vederla e può a malapena sentirla, ma sa che sta sorridendo. Immagina le sue labbra piene curvarsi verso l’alto, e all’improvviso il nervosismo che l’ha accompagnato per tutto il giorno svanisce.

Perché sei sposata? Perché te ne sei andata da Carovigno? Perché non posso frequentarti come vorrei?

“Bilbo è un gran furfante,” dice Simona. “E un gran giocherellone. Proprio per questo sarebbe il caso che ci lasciasse da sole per un attimo, in modo da farci fare quattro chiacchiere. Davide, scendi?! Perché non vieni a prendere Bilbo?”

Oh. Cavolo.

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Il prossimo capitolo sarà molto interessante.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Grazie, come sempre

Grazie, come sempre. Anche a chi legge e non commenta.

 

 

Capitolo 11

 

“Davide, scendi?! Perché non vieni a prendere Bilbo?”

Il tempo si ferma quando Camila capisce che Davide è in casa. Priscilla e Simona guardano verso il corridoio, in attesa che il ragazzo scenda, e dopo un po’ li sente anche lei: i passi di qualcuno che arriva dalle scale, dal piano di sopra.

A Camila sembra di trovarsi in un’altra dimensione, in un film, in un contesto irreale.

Quando Davide mette piede nel salotto, cerca di rimanere composta e sorridente, anche se l’istinto le chiede di inventare una scusa ed andare via.

“Eccoti,” dice Simona. “Bilbo è molto agitato, perché non lo porti un po’ fuori?”

Invece di rispondere a sua madre, Davide guarda Camila.

Dirà che mi conosce? Mi saluterà come se niente fosse?

“Buonasera,” dice lui. Allunga la mano verso Camila, che l’accetta subito ma senza guardarlo negli occhi. “Sono Davide.”

“Io Camila,” dice lei velocemente. Ritira la mano e si volta nella direzione di Simona.

“Camila lavorerà qui,” dice la donna a suo figlio. “Almeno lo spero,” aggiunge ridendo.

“In casa siamo in quattro,” interviene Priscilla. “Noi tre ed il nostro patrigno, Giancarlo.”

Istintivamente, Camila si volta a guardare la foto raffigurante Davide da bambino. “Quello è mio padre,” dice lui, appoggiando i gomiti sulla spalliera della sedia di sua sorella.

Camila annuisce, sperando che il ragazzo si decida a portar fuori il cane come sua madre gli ha chiesto.

Perché è proprio questa, la casa? Perché? Posso rifiutare? No, ho bisogno di soldi. Posso accettare? No, non posso lavorare per la famiglia di Davide.

“In linea di massima siamo ordinati e puliti,” riprende Simona, “tranne quando qualcuno trasforma il pavimento del bagno in una piscina dopo aver fatto la doccia,” dice, lanciando un’occhiataccia a Davide.

Lui avvampa. “E’ accaduto solo quella volta,” dice fra i denti.

“E io stavo per rimanerci secca,” gli fa eco Priscilla.

“Senti chi parla, tu sei quella che lascia in giro palline da hockey.”

“E tu non guardi mai dove metti i piedi.”

“E tu-”

“Ok, ok, basta!” esclama Simona. “Siete impazziti? Abbiamo un’ospite, non fatemi fare brutte figure. Poi, rivolgendosi a Camila, dice: “Sono adulti, ma si comportano come bambini. Scusali.”

“Non c’è problema,” risponde lei, guardando ovunque tranne che nella direzione di Davide. “La casa è su due piani?” Da un lato vorrebbe rimanere in silenzio per non esporsi, ma è pur sempre ad un colloquio di lavoro, e il suo obiettivo è quello di ottenere informazioni sulla famiglia e sulla casa.

“Sì,” dice Priscilla. “Qui sotto abbiamo il salotto, la cucina, un bagno e lo studio. Di sopra, invece, le tre camere da letto e un altro bagno.”

Camila annuisce, guardandosi attorno.

“Ciò di cui ho bisogno,” dice Simona, “è un aiuto per mandare avanti la baracca. Qualcuno che mi aiuti a pulire le camere, che mi aiuti con il bucato. Pensi di potercela fare? La mia amica mi ha parlato benissimo di te. Dice che sei un angelo.” Le sorride, e per un attimo Camila rivede in lei lo stesso sorriso di suo figlio. Buono e generoso.

“Posso farcela,” dice Camila guardandosi le mani, “ma la mia settimana di lavoro è molto piena. Ogni quanto avrebbe bisogno di me?”

“Tutti i giorni!” esclamano le due donne insieme.

“Tutti i giorni?!

“Sì, Camila. Vedi, la casa non è molto grande, ma c’è sempre qualcosa da fare. Mio marito invita sempre i suoi amici all’ultimo momento; i due campioni, qui, sono sempre in giro e io-

“E lei va in crisi,” conclude Davide. Lo dice senza guardare Camila.

“Io non vado in crisi,” ribatte Simona, “ho semplicemente bisogno di una mano. Tutto qui.”

“Lei lavora?” chiede Camila.

“No,” risponde la donna. “Non più.”

“Io sono impegnata in ospedale,” dice Priscilla. “Due volte alla settimana ho gli allenamenti con la squadra di hockey, e ogni quindici giorni parto per le trasferte.”

Camila fa il suo lavoro da poco, ma ha imparato bene a conoscere i suoi clienti.

Esistono le donne impegnate sul lavoro, che non hanno tempo da dedicare alla casa e per questo si affidano a lei. Esistono le persone anziane, che non hanno più la forza necessaria per pulire i vetri o per stendere il bucato. Esistono le famiglie ricche, per le quali la donna delle pulizie è un must, come la pelliccia nell’armadio o l’auto di lusso in garage.

Esistono poi le donne come Simona, che non hanno un buon rapporto con la casa e che preferiscono affidare le faccende domestiche ad un estraneo. Camila le preferisce alle altre, per il semplice fatto che non fanno parecchie storie e non la trattano mai con sufficienza. La considerano un’amica, più che una dipendente, e non le stanno col fiato sul collo.

“Pensi di riuscire a venire tutti i giorni?” chiede Priscilla.

Camila ritorna al presente, e alla domanda che la signora Falco le ha appena fatto.

“Le mie giornate sono davvero molto occupate,” dice. “Non so se riuscirei a venire tutti i-”

“Ovviamente saresti assunta in piena regola,” dice Simona. “Con uno stipendio, un giorno alla settimana di riposo, un periodo di ferie retribuito; vogliamo fare le cose perbene, stavolta.”

Camila fatica a starle dietro. “Un momento. Mi sta proponendo di lavorare qui… sempre? Cioè, come donna delle pulizie… vera? Come un vero lavoro?”

Simona solleva le sopracciglia, sorpresa. “Certo, Camila. Dovremo parlarne bene con il nostro commercialista, inquadrare una forma contrattuale che possa stare bene ad entrambe, ma l’idea è questa. Perché, è un problema?”

Camila non ha mai avuto un lavoro fisso.

Sarebbe come quando lavoravo per i Bauer, in Germania. Lavorerei solo per questa famiglia, non sarei costretta ad andare di casa in casa. Magari potrei ritagliare degli spazi nel giorno libero, per fare degli extra, oppure potrei…

“Camila? A cosa pensi?”

Priscilla la riporta di nuovo alla realtà.

“Vuoi accettare?” domanda Simona.

Davide è ancora nel salotto, con le tre donne. E’ rimasto in silenzio, e Camila si chiede a cosa sta pensando. Lavorare per i Falco significherebbe un passo in avanti, certo, ma vorrebbe dire anche vederlo ogni giorno. Pulire la sua camera. Lavare i suoi vestiti.

Si sente a disagio al sol pensiero. O forse non è disagio. Forse si tratta di imbarazzo.

Prima di prendere la parola, Camila guarda lui. Davide si guarda in giro come se niente fosse. Vorrebbe quasi chiedergli se la sua presenza in casa potrebbe causargli un problema, e se è rimasto nascosto al piano di sopra per evitare di vederla.

Ma poi il telefono di casa suona, e Davide si affretta a rispondere. “Pronto? Oi, sono io… Sì. Sì. Va bene.” Guarda l’orologio. “D’accordo. Glielo dico subito. Va bene, va bene. Ciao.” Riaggancia e si gira verso sua madre. “Era Giancarlo. Ha detto che lui e i suoi amici arriveranno alle otto, invece che alle nove. Hanno finito prima di visitare non so cosa, quindi-

“Alle otto?!” esclama Simona. “Ma è così presto!” Scatta in piedi con le mani fra i capelli, guardandosi attorno come se fossero entrati i ladri. “Devo ancora preparare gli antipasti e fare una doccia! Volevo fare la piastra, volevo anche-”

“Mamma, calmati!” Priscilla regala uno sguardo imbarazzato a Camila, la quale si alza per riflesso, sentendosi all’improvviso di troppo. “Non è sempre così,” le dice. “Te lo giuro.”

“Avete molte persone a cena?”

“Solo due più del normale,” risponde Priscilla. “Ma lei odia le sorprese dell’ultimo minuto, e si agita per un nonnulla.” Finisce la frase sussurrando le ultime parole, ma sapendo che sua madre può sentirla.

“Allora sarà meglio che vi lasci continuare,” dice Camila, appoggiando la borsa sulla spalla. “Non voglio rubarvi tempo prez-

“Oh, no.” La voce di Davide non le permette di continuare.

Camila e le due donne si voltano verso il ragazzo, il quale ha gli occhi puntati in basso, verso Bilbo.

Il muso del cane è sporco di cioccolato.

“La torta!” esclama Priscilla, correndo in cucina. “Oh, no! Ha distrutto la torta! Davide, dovevi tenerlo d’occhio!”

Davide si china e solleva il cane con facilità. Camila nota che anche le zampe anteriori sono sporche. “Mamma, mi dispiace.”

“Davide, ti avevamo chiesto una sola cosa: tenere d’occhio Bilbo.” Simona sbuffa, lasciando andare le braccia lungo i fianchi in segno di resa. “Siamo in madornale ritardo,” dice con voce sfinita. “Devo ancora finire di preparare la cena, e il dolce è distrutto. Favoloso. Tremendamente favoloso.” Scuote il capo verso suo figlio.

“Mi dispiace, mamma, davvero.”

“Sì, lo so.” La donna si volta verso Camila, spettatrice silenziosa del piccolo disastro familiare. “Scusaci ancora una volta, Camila. Dovremo sembrarti una banda di pazzi.”

Camila non capisce il motivo dell’agitazione di Simona. Vorrebbe dirle ‘Si calmi, è solo una cena fra amici, il dolce si può andare a comprare in pasticceria’, ma è chiaro che per Simona si tratta di un avvenimento importante.

Per questa ragione, non esita a dire la sua. “Vuole che l’aiuti, signora? Vuole che le dia una mano con la cena?”

Simona sembra presa alla sprovvista. “Oh. Io… no, no, Camila. Ti ringrazio, ma non-”

“La torta è irrecuperabile,” dice Priscilla, arrivando dalla cucina. “E il corridoio è pieno di zampate di cioccolato,” continua, guardando a terra. “Che io dovrò pulire in fretta e furia, visto che mio fratello è un idiota.”

“Ve l’ho detto, mi dispiace!”

Se la sua voce è dispiaciuta, i suoi occhi lo sono meno. Gli occhi marroni di Davide sembrano quasi divertiti o meglio, felici.

“Camila, non posso chiederti di aiutarmi. Sei venuta solo per un colloquio, e non abbiamo ancora deciso in che modo organizzarci per il lav-

“Tu non puoi chiederglielo, ma io sì,” dice Priscilla. “Ti sei offerta di darci una mano, ho capito bene?”

“Sì,” risponde Camila. “Se posso darvi una mano lo faccio volentieri.”

“Magnifico!” esclama Priscilla. “Vieni con me,” dice, tirandola per un braccio. “Mamma, tu vai di sopra a prepararti, io e Camila finiremo la cena e penseremo ad un nuovo dolce. Davide, tu sparisci con Bilbo. Non voglio vederti fino alle otto!”

 

Camila non sa di preciso perché si è offerta di dare una mano ai Falco. In fondo questa per lei è stata una giornata faticosa, e tutto ciò che desiderava, prima di mettere piede nella loro casa, era ritornare al suo appartamento, fare una doccia, mangiare un boccone e infilarsi sotto le coperte.

Quando però è entrata in casa di Simona, è stata avvolta da un’atmosfera surreale ma piacevole, e in pochi minuti ha scoperto che queste persone le piacciono. Sono un po’ sopra le righe e di certo molto diverse da lei, ma Simona e Priscilla sono due brave donne, e Camila non ha potuto fare a meno di offrire loro un aiuto.

Poi c’è Davide. Che ha finto di non conoscerla e che le ha rivolto la parola solo quando si è presentato formalmente.

E’ arrabbiato con me, dopo la conversazione di ieri sera? Spera che non accetti il lavoro?

Davide è il motivo per cui Camila dovrebbe lasciare la casa e tornare al suo appartamento, e lei lo sa. Al tempo stesso, però, è anche uno dei motivi per cui non riesce a calmare il suo cuore, e ad inventare una scusa per andare via.

“Mio fratello è un idiota. Te ne accorgerai presto.” Priscilla prende la borsa e la giacca di Camila e le appoggia su un divanetto nel corridoio. “Ammesso che tu decida di accettare il lavoro,” riprende, guidandola in cucina. “Che dici, potresti farcela con i tuoi impegni?”

“Potrei, sì,” risponde Camila, “ma devo pensarci bene. Valutare molte cose.”

Priscilla è curiosa come Davide, ma con l’età ha imparato a modulare la voglia di sapere, per cui annuisce e sorride.

“Questo è ciò che resta del mio dolce,” dice, indicando il tavolo sul quale giace la torta al cioccolato dilaniata dalle zampe e dal musetto di Bilbo. “E lì c’è la cena,” continua, indicando i fornelli. “Quella per fortuna è salva.”

“Il profumo è molto buono,” dice Camila. “Si sente dall’ingresso.”

Priscilla scoperchia le pentole per mostrarle il contenuto. “Mia madre è molto brava, quando non si fa prendere dal panico.” Si gira verso il tavolo. “Hai qualche suggerimento per la torta? Per fare quella ho impiegato due ore, e non abbiamo molto tempo a disposizione.

Camila cerca di pensare velocemente, scorrendo nella mente tutte le ricette che ha imparato nel corso degli anni. Sa di non poter proporre il suo cavallo di battaglia, la Bolo Nega Maluca, in quanto non sarebbe mai pronta per la fine della cena, per cui accantona quell’idea e pensa ad altro.

“Nella dispensa dovrebbe esserci una torta Cameo!” La voce di Davide arriva dal bagno in cui sta pulendo Bilbo. “L’ho comprata io per prepararla con i miei amici!”

“Non sapevo che fossi diventato pasticciere!” grida Priscilla di rimando. “Occupati di Bilbo!” continua, facendo una buffa linguaccia verso la porta.

“Era solo un’idea!”

“Un’idea idiota!” Si avvicina alla porta, e da essa guarda il fratello intento a pulire nel corridoio. “Vuoi proporre a quei due snob una torta Cameo? Che diavolo ti salta in mente?!

“Allora vai in pasticceria,” dice lui.

“Non se ne parla. Dobbiamo inventarci qualcosa.”

Rimanendo accanto ai fornelli, evitando cioè di avvicinarsi alla porta (e quindi a Davide), Camila espone la sua idea. “In quel cesto sul ripiano di legno c’è molta frutta,” dice. “Potremmo preparare una crostata di frutta. Sarà certamente pronta per la fine della cena.

“Davvero?” domanda Priscilla.

“Sì. Ho soltanto bisogno di burro, uova, farina, latte, vaniglia e… gelatina.”

“Tutto qui? Puoi davvero preparare una torta di questo tipo in così poco tempo?

“Sì,” risponde l’altra, sorridendo.

“Oh, Camila. Grazie, grazie, grazie.”

E così, mezzora dopo, alle sette e trentacinque minuti, Camila infila in forno la teglia contenente la base della torta, mentre Priscilla termina la cottura della crema alla vaniglia.

“Mentre si raffredda inizio ad affettare la frutta,” dice Camila. “Tu puoi andare a prepararti, se vuoi.”

“Sicura?”

“Sì, certo. Non c’è altro da fare, vero? Il pesce ha terminato la cottura, e la base per il risotto è pronta.

Camila non è mai stata brava a cucinare il pesce, ma è stata fortunata: la cottura delle pietanze era già al punto giusto. Lei e Priscilla non hanno dovuto fare altro che aggiungere un filo d’acqua nelle pentole e terminare la cottura.

“Grazie, Camila. Sarò di ritorno in un baleno, promesso.” Si avvia nel corridoio, ma poi torna indietro. “Non ho idea di dove siano Davide e Bilbo, ma non farli avvicinare a quella torta, intesi?”

“Intesi,” risponde l’altra, con un grande sorriso sulle labbra.

 

L’atmosfera surreale continua ad avvolgerla, ma assieme ad essa c’è qualcos’altro. Passare del tempo con Priscilla non è stato difficile per lei, né imbarazzante.

A Camila la ragazza è simpatica, e sembra che anche Priscilla veda lei di buon occhio.

E’ strano. Sono qui, in casa di Davide, e ho appena trascorso mezzora con sua sorella. La stessa sorella che 17 anni fa mi ha dato un paio di scarpe, pur non sapendolo.

So che dovrei andarmene. So che questo non è il mio posto, e che è solo per puro miracolo che Davide non è qui in cucina, ma non posso fare a meno di sentirmi attratta da tutto questo.

E’ vero, sembrano una banda di pazzi, ma mi piace stare qui, con loro.

Camila affetta diligentemente i kiwi, le arance, le mele e le fragole. Controlla di tanto in tanto la cottura della base, e dopo un quarto d’ora decide che è pronta. Nella casa regna il silenzio, segno che i membri della famiglia sono occupati a prepararsi per la cena.

Sarà così, se deciderò di lavorare per loro? Mi lasceranno libera in cucina? Accidenti, l’hanno appena fatto. Ora, al nostro primo incontro. Potrei essere una delinquente. Potrei rapinarli e andare via.

“Tutto bene?”

La voce di Simona la sorprende alle spalle. Camila si volta e nota come sia cambiata in poco meno di un’ora. Indossa un paio di pantaloni di pelle marrone, che potrebbero risultare volgari alla sua età, ma che a lei donano particolarmente, visto che è alta e snella. Sui pantaloni, fino a metà coscia, scende una blusa a maniche lunghe color caramello. Ai piedi ha due ballerine, dorate come il disegno astratto che si trova sul retro della blusa. Con sé, Simona porta un buon profumo fruttato. I capelli sono lisci e legati in una coda bassa, fermata con un fermacapelli gigante.

Complimenti, signora,” dice Camila. “Sta molto bene.”

“Grazie,” risponde Simona. “Come procede qui? Priscilla mi ha detto che sei un lampo nell’impastare.

Camila le mostra la base di pasta frolla, che si sta raffreddando assieme alla crema alla vaniglia, e la frutta tagliata a piccoli pezzi.

“Bene,” dice Simona. “non resta che preparare l’antipasto. Avevo in mente di fare dei vol-au-vent al salmone, ma il tempo è poco, quindi opteremo per delle tartine al paté d’oliva. Tu che dici?”

“Può andare,” risponde Camila, meravigliandosi che la donna abbia chiesto il suo parere. In fondo sono estranee, non dovrebbe essere così… così cordiale, giusto?

Camila osserva Simona aggirarsi per la cucina con la sua blusa svolazzante, e all’improvviso ha un’altra idea. “Potrei prepararle io,” dice. “Se vuole può andare ad apparecchiare, invece di rimanere qui. E’ così ben vestita, non vorrei si sporcasse.

Simona è di nuovo presa alla sprovvista. “Camila, io… Sei molto gentile, ma non devi trattenerti oltre.” Alza gli occhi sull’orologio attaccato alla parete. “Dio, sono quasi le otto! Vorrai tornare a casa, non è così? Oh, Dio, ti abbiamo trattenuta qui fino a quest’ora!

“No, no, signora. Non è un problema.”

In teoria è un problema, ma a Camila non importa.

“Sarebbe un peccato se si sporcasse proprio adesso,” continua. “Ha detto tartine con il paté d’olive, giusto? Credo di aver visto il pane in cassetta in quel mobile lì in basso, quando Priscilla ha preso la farina. Vada pure, ci penso io.”

Mezzora dopo, la tartine e la crostata alla frutta sono pronte sul tavolo della cucina dei Falco.

“Wow. Complimenti.”

Davide entra in cucina lentamente, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni.

Camila aveva quasi dimenticato che fa anche lui parte della famiglia. O forse voleva semplicemente illudersi che non fosse a casa.

Indossa un paio di pantaloni scuri e una camicia grigia con delle righe celesti molto sottili. Il suo profumo è molto più forte di quello di Simona, e Camila ne è immediatamente colpita.

Tuttavia, nonostante desideri alzare gli occhi dalla tartina che ha in mano e osservare quelli di lui, Camila evita di cedere all’istinto e mormora unGrazie’ prima di appoggiare il triangolo di pane in cassetta sul vassoio.

Davide fa il giro del tavolo e arriva al balcone. Si ferma a pochi passi da lei. Osserva la torta.

“Posso averne una fetta?”

“Tua sorella ha detto che non devi avvicinarti alla torta,” risponde lei.

Silenzio per qualche secondo.

“Posso ripulire il pentolino in cui avete preparato la crema?”

Camila sorride, ma non alza la testa. “Va bene.”

Davide si avvicina ai fornelli e prende il pentolino. Da un cassetto prende un cucchiaino e inizia a ripulire il recipiente. Lentamente. Con attenzione. Impiegando più tempo del necessario.

Camila termina di stendere il paté sulle tartine, e prende a sistemare le fette di pane  in modo da ricreare un motivo geometrico. Anche i suoi movimenti sono lenti e attenti.

“La crema è molto buona. Complimenti.”

“Grazie. E’ stata Priscilla a prepararla.”

“Scommetto che le hai detto tu come fare. Quella che fa di solito è piena di grumi.

Camila sorride di nuovo, e ripensa a quando Priscilla le ha chiesto di versare il latte sul composto di uova, farina e zucchero al suo posto, in quanto temeva i grumi.

“Hai già deciso cosa farai? Lavorerai qui?” incalza Davide.

Camila non riesce ad alzare lo sguardo, per cui si occupa di allineare le tartine con calma.

“Non ho ancora deciso,” sussurra dopo un po’.

Si volta per andare al lavello, per sciacquare le mani che non sono sporche. Davide la segue come un’ombra, appoggiando in una delle vaschette il pentolino ormai pulito ed il cucchiaino.

“Mia madre e mia sorella sono estasiate all’idea di averti qui ogni giorno. Hanno detto che ispiri fiducia.”

Il suo tono di voce è basso, gentile.

Camila continua a tenere la testa chinata, e ringrazia in silenzio i suoi capelli gonfi che le fanno da scudo.

Sei stanca?”

“No,” dice subito. “Perché?”

“Perché hai la testa a penzoloni come se stessi per addormentarti,” dice con un sorriso. Camila la alza di scatto, in parte indispettita per le sue parole, in parte desiderosa di guardarlo mentre ride. “Così va meglio,” riprende Davide.

Sono talmente vicini che lei può sentire il suo profumo come se si trovasse sulla sua stessa pelle.

Sono talmente vicini che gli occhi marroni di Davide hanno l’effetto di un pendolo ipnotizzante.

Sei stanca, non è vero?”

“No,” ripete Camila.

“Lo dici con così tanta veemenza che la bugia è evidente,” sussurra lui. “Grazie per essere rimasta.”

Lei lo guarda di sfuggita, ma senza scostarsi. I loro fianchi si sfiorano. “Prego.”

“Accetterai di lavorare qui? Mia madre è pronta a costruirti un trono, ti avviso.

Camila sorride. “Non lo so, Davide. Devo pensarci bene.”

“E’ per me? Hai dei dubbi perché questa è casa mia? Sappi che di solito passo poco tempo in casa. La mia camera è la più pulita di tutte, me ne occupo personalmente, quindi non dovresti neppure entrarci.

“No,” dice lei. “Non è per questo.”

Vorrebbe continuare, e dirgli che si tratta di un problema di organizzazione, anche per quanto riguarda i suoi altri clienti (lavorare per i Falco a tempo pieno vorrebbe dire salutare molte delle famiglie per cui lavora adesso), ma Davide l’anticipa.

“E’ per tuo marito? Devi parlarne con lui?”

Lo chiede in maniera fredda. Quasi con strafottenza.

A Camila il suo tono non piace.

“No,” risponde secca. E non dice altro.

Davide esce dalla cucina dopo pochi secondi, senza rivolgerle più la parola.

 

***

 

“Ti prego, Camila, resta a cena con noi.”

Priscilla cerca di convincerla da dieci minuti, ma Camila ha già deciso: non rimarrà con i Falco.

Sarebbe troppo.

Gli ospiti sono arrivati da dieci minuti e si trovano in salotto con Giancarlo, il quale si è limitato a salutare Camila con una rapida stretta di mano

Priscilla e Simona sono in cucina, intente a riempire i piatti di cibo.

“Vi ringrazio,” dice Camila. “Ma non posso, davvero. Devo tornare a casa.”

Guarda l’orologio. Sono le otto e mezza. Non arriverà a casa prima delle nove. Dovrà prepararsi da mangiare, lavarsi. Non può trattenersi oltre.

“Va bene,” si arrende Simona. “Va bene.” Le va accanto, ignorando per un attimo le tartine. “Grazie per tutto quello che hai fatto per noi questa sera, Camila. Ci hai salvate, davvero.”

Priscilla annuisce e sorride.

“Non ho fatto nulla di speciale, davvero,” dice, indossando la sua giacca. “Grazie a voi per avermi lasciato la vostra cucina, e per avermi dato fiducia.”

“Fiducia meritata,” dice Priscilla. “Le tartine sono eccezionali, e scommetto che anche la torta sarà buonissima.”

“Grazie, Priscilla.” Camila la guarda con un’intensità all’apparenza immotivata, ma dentro di sé il suo grazie è molto profondo.

Grazie per le tue scarpe, vorrebbe dirle. Grazie per aver deciso che non ne avevi più bisogno.

“Quando possiamo risentirci?” chiede Simona. “Per discutere meglio del lavoro, del contratto.”

“Va bene domani? Voglio dormirci su e pensare bene a tutto il da farsi,” dice Camila. “Non so se ne ha già parlato con la signora Ballotta, ma io vivo dall’altra parte di Roma, quindi fra le altre cose dovrò considerare anche il trasporto.”

“Hai un’auto?” chiede Priscilla.

“No. Uso i mezzi pubblici.”

“Sono sicura che troveremo il modo di metterci d’accordo,” replica Simona. “Ci tengo molto, Camila. Davvero.” E nel dirlo, tira fuori dalla tasca una piccola bustina bianca e gliela porge. “Questo è un piccolo pensiero per il tempo che ci hai dedicato questa sera.”

“Oh, no. Non posso, signora. No.”

“Ti prego, Camila. Voglio che ci sia equilibrio nel nostro rapporto, e se non prendi questa busta mi sentirò per sempre irriconoscente per quello che hai fatto.

“E’ vero,” dice Priscilla. “Hai preparato tutto questo in meno di un’ora. Devi accettare qualcosa. Prendi la busta, Camila. Davvero.”

“In questo modo ci sarà equilibrio,” riprende Simona. “E potremo parlare del lavoro come si deve.”

Camila accetta la busta bianca ringraziando le due donne, la infila in borsa senza aprirla; non vuole che pensino che sia una persona attaccata al denaro, e non vuole neppure fare la figura della poveretta che conta immediatamente i soldi guadagnati.

“Grazie,” dice ad entrambe. “Adesso vado. Buona serata. Buona cena.”

“Come tornerai a casa?” chiede Priscilla mentre le fa strada nel corridoio. “Prenderai i mezzi?”

“Sì.”

“Oh. Stai attenta, mi raccomando. Ci sentiamo domani, d’accordo?”

“D’accordo. Grazie ancora, Priscilla.”

“Grazie a te, Camila.”

La ragazza le sorride fino a quando chiude la porta. Il pezzo di legno rossastro che la separa dai Falco e dalla sensazione di famiglia che le hanno trasmesso per poche ore diventa rapidamente suo nemico, per cui gira in fretta i tacchi e scende le scale.

Non posso non accettare. Si tratta di una buona famiglia. Lavorare in un posto solo, invece che impazzire per la città, sarebbe fantastico… ma posso davvero farlo? E’ la casa di Davide. Ha detto che non c’è mai, e che non dovrei pulire la sua camera, è vero.. ma è pur sempre casa sua.

Accidenti. Perché mi faccio tutti questi problemi? Si tratta di un lavoro, e devo considerarlo come tale. Non posso farmi condizionare da Carovigno, né dalle due sere nel giardino sotto casa. Né dal suo approccio nei miei riguardi. Devo pensare a me stessa, alle mie priorità. Ho bisogno di un lavoro che mi permetta di guadagnare bene, e Simona Falco ha bisogno di una persona come me.

Davide? Il suo sorriso? Il suo profumo e i suoi occhi ipnotizzanti? Non mi interessano. Non devono interessarmi.

Camila si ritrova davanti al portone alla fine del suo monologo interiore. Si chiude nella giacca e si prepara ad arrivare alla fermata dell’autobus a piedi, ma una voce la ferma.

E’ la voce di Davide. Fermo accanto ad un’aiuola, ha con sé Bilbo, legato al guinzaglio.

“Bilbo mi ha chiesto di riaccompagnarti a casa. Andiamo.”

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Durante la scrittura mi sono resa conto che questo capitolo stava venendo molto lungo. Ho deciso, quindi, di spezzarlo a metà. Il seguito arriverà la prossima settimana. Resistete.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Grazie a tutti per i commenti allo scorso capitolo

Grazie a tutti per i commenti allo scorso capitolo.

 

Buona lettura.

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Capitolo 12

 

Davide è uscito di casa con Bilbo subito dopo che Giancarlo è arrivato con la coppia di amici. Li ha salutati con educazione, ha risposto a qualche domanda che i due hanno fatto (Hai finito l’università? Cosa pensi di fare dopo?) e si è scusato per accompagnare Bilbo nella passeggiata serale.

La verità è che Davide, portando di sotto Bilbo, ha messo in moto il piano a cui ha lavorato mentalmente per tutta la serata.

Sapeva che Camila non sarebbe rimasta a cena.

Sapeva che non avrebbe potuto parlarle liberamente in presenza di sua sorella o di sua madre.

Per questo motivo ha deciso di aspettarla davanti al portone.

Non poteva e non può pensare di farla tornare a casa con i mezzi pubblici. Non a quest’ora, almeno.

Quando l’ha vista uscire dal palazzo, avvolta nella giacca scura, i capelli che le coprivano il viso, gli occhi infossati e stanchi, ha detto la prima cosa che gli è passata per la testa.

“Bilbo mi ha chiesto di riaccompagnarti a casa. Andiamo.”

Ed ora Camila è lì, ferma sui gradini del condominio, a guardarlo con un’espressione a metà strada fra lo spavento e la meraviglia.

Davide la conosce. Conosce già la sua risposta, per questo non le dà modo di replicare.

“Bilbo è molto dispiaciuto per il pasticcio che ha combinato con la torta. Dice che se non ti riaccompagno farà la pipì in casa per un anno intero. E’ pronto a farlo,” dice, muovendo il guinzaglio. “E’ serio. Non sta scherzando.”

Bilbo è sdraiato accanto all’aiuola. Il muso nascosto fra le zampe anteriori e la coda che si muove appena. La rappresentazione della calma.

“Dì a Bilbo che lo ringrazio, ma tornerò a casa per conto mio,” risponde lei, accennando un sorriso.

Scende i gradini, inizia a camminare, ma Davide intercetta i suoi passi e le si para davanti. “Non accetto un no, Camila. Non ti farò salire su un autobus.” Tira fuori le chiavi dell’auto. “Per favore.”

Sarà la sua voce impostata, sarà la profonda stanchezza della donna. Davide è stupito quando si accorge che lei lo sta seguendo verso l’auto.

Pensavo di dover faticare di più.

Camila apre lo sportello e si accomoda davanti, mentre Davide sistema Bilbo dietro, su una coperta rossa e blu.

“Pensavo lo riportassi in casa,” dice lei, notando la calma dell’animale.

“Nah, meglio che gli adulti se ne stiano per conto proprio.” Chiude lo sportello posteriore e si accomoda sul sedile del guidatore.

“Un momento,” dice Camila. “Ma così… la cena… i tuoi sanno che mi stai accompagnando? Non vorrai far aspettare tua madre!? Io abito lontano!”

“So dove abiti,” risponde lui sorridendo. “Comunque non preoccuparti, ora li avviso che ritarderò.” Riapre lo sportello e corre al portone. Suona il citofono e parla con sua sorella Priscilla.

“Accompagno Camila a casa, iniziate senza di me.”

“Davvero? Sai dove abita?”

“Non molto lontano. Tornerò fra un’oretta.”

“Un’ora? Sei impazzito? A mamma prenderà un infarto.”

“Tu sei un medico, saprai come curarla. Ora vado. Ah, mi porto Bilbo! Ciao.”

Scappa dal citofono prima che Priscilla possa dire qualcos’altro, e prima di entrare in macchina spegne il cellulare.

Ci tiene a questo piccolo viaggio con Camila. Non vuole subire interruzioni.

“Tutto bene?” chiede lei. “Davide non devi accompagnarmi per for-

“Sshhh. E’ deciso. Bilbo ha deciso,” dice, puntando il pollice verso il sedile posteriore.

Bilbo è ancora lì, disteso sulla coperta.

“E’ molto… è molto calmo, adesso,” dice lei dopo un istante.

“E’ un cane abitudinario,” risponde lui, uscendo dal parcheggio. “Per Bilbo, l’ultima passeggiata della giornata coincide con l’ora della nanna, quindi tende a perdere le energie verso quest’ora. Lo conosco,” continua. “Sta per addormentarsi.”

“Qui? In macchina?”

“Perché no? La coperta è morbida.”

Davide le sorride di nuovo, prima di immettersi definitivamente nel traffico della sera.

 

Non è la prima volta che accompagna a casa una ragazza, ma è la prima volta che accompagna a casa Camila. Non sono reduci da un appuntamento romantico, bensì da un incontro potenzialmente importante.

Sei stanca?”

Camila sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro e lo guarda. Scrolla le spalle con un gesto veloce. “Non più degli altri giorni.”

“Anche gli altri giorni ti ritrovi a preparare una cena a casa di persone che conosci appena?”

Lei sorride. “No,” dice, “ma non ho dovuto preparare una cena intera. Tua madre aveva già fatto tutto.”

“Spero mi lascino un pezzo di torta,” pensa lui ad alta voce. “La crema era buonissima.”

Camila sorride di nuovo.

Davide si immette sul raccordo, per attraversare la città e andare a sud. “Grazie per averci dato una mano,” dice dopo un po’. “Cioè… non l’hai data personalmente a me, ecco. Grazie per aver aiutato la mia famiglia.”

“Prego,” dice lei. “Tua sorella è molto simpatica. E anche tua madre. Tu e Priscilla le somigliate molto.”

Davide annuisce. Non è la prima volta che qualcuno nota la somiglianza, ma adesso quel qualcuno è Camila, quindi le cose sono diverse.

“Priscilla ha gli occhi di mia madre,” dice, “io invece ho quelli di papà. Colore e forma.”

“Tuo padre… l’uomo nella foto?”

“Lui,” risponde il ragazzo, prima di sorpassare una Ford Focus.

Bilbo è completamente rilassato. Davide riesce a vederlo dallo specchietto retrovisore, quando sbircia per accertarsi che il cane non abbia combinato qualche guaio.

Ed è in quel momento, proprio in quel momento, che un suono simile a quello di un trombone matto arriva dalla sua destra, dal sedile in cui è seduta Camila.

Davide la guarda rapidamente, e nota sul suo volto il rossore tipico dell’imbarazzo.

“Scusa,” dice lei, appoggiando una mano sullo stomaco. “Fa sempre così quando ho fame.”

Il primo istinto di Davide è quello di scherzare sull’intensità e la stranezza del rumore, ma poi ci ripensa. Un pensiero più urgente merita di essere esternato.

“Hai fame? Hai molta fame? Quando hai mangiato l’ultima volta?”

“Oggi a pranzo,” risponde lei. “Come il resto dell’umanità.”

E’ chiaro che non vuole attirare l’attenzione (come sempre), ma Davide si preoccupa per lei (come sempre). Controlla l’orologio e contemporaneamente preme sull’acceleratore. “Manca una mezzoretta… puoi farcela?”

“Certo,” dice lei con enfasi. “Non preoccuparti.”

“Cosa mangerai per cena?” domanda lui, curioso.

Camila si passa una mano sulla fronte e scrolla le spalle. Davide la vede occhieggiare l’orologio del cruscotto. “Probabilmente una tazza di latte e biscotti, vista l’ora.” Le parole escono lente dalla sua bocca. Stanche.

“Latte e biscotti?!” chiede lui. “A cena? Perché?!

Lui con il latte e biscotti ci fa la colazione, non la cena.

“Perché è facile da preparare,” risponde Camila. “E veloce. Facile e veloce. Non ho voglia di mettermi ai fornelli. E’ tardi.”

Davide non si spiega come possa essere sempre così risoluta e determinata. E’ una delle cose che più ammira in lei, ma allo stesso tempo il suo atteggiamento lo rende nervoso, impaziente.

“Che cosa hai mangiato a pranzo?”

“Un panino e una mela.” Un’altra risposta stanca.

Forse è annoiata dal mio terzo grado, ma non mi interessa.

“Mia nonna cena con latte e biscotti,” sbotta ad un certo punto, dopo l’ennesimo borbottio dello stomaco. “Oppure con il tè e le fette biscottate. Non dovresti mangiare poco,” dice. “Lavori molto, sei sempre in movimento. Devi… devi nutrirti. Mangiare proteine.”

Il viso di Camila rimane indecifrabile. I suoi occhi restano fissi sulla strada davanti a sé. Una mano sulla fronte, una sullo stomaco.

“Non arriverò a casa prima delle nove e mezza,” dice ad un tratto. La sua voce è bassa, ma Davide la capisce ugualmente. “Passerò in bagno almeno trenta minuti, per ripulirmi dalla sporcizia e dallo smog che ho assorbito da stamattina. Uscirò dal bagno alle dieci, o alle dieci meno un quarto se vado di corsa sotto la doccia. In quel momento, il mio unico desiderio… il mio unico pensiero… sarà quello di andare a dormire, non quello di mangiare. Cenerò con latte e biscotti perché non mi occorreranno più di due minuti per preparare tutto. Cenerò con latte e biscotti per sostenermi, non per nutrirmi. Sono in piedi dalle sei, Davide, e domattina la sveglia suonerà alla stessa ora. Non ho tempo per stare ai fornelli. Non ho tempo per mangiare proteine.” L’ultima parola è seguita da uno sbuffo stanco, pesante.

Davide non sopporta di sentirla parlare così. Di vederla così.

Non vuole che vada a letto con un po’ di latte nello stomaco.

Per questo motivo si posiziona sulla corsia di destra, abbandonando quella di sorpasso, e accende la freccia.

“Se non fossi rimasta con noi saresti tornata a casa prima,” dice, usando gli specchietti laterali per controllare il traffico. “E avresti potuto preparare qualcos’altro.”

“Sì,” ribatte lei. “Forse, ma… ehi, dove stai andando? Questa non è la mia uscita.”

“Lo so,” risponde lui. Quando la guarda, vede nuova meraviglia e nuova confusione sul suo viso. “Ti piace il Mc?”

“Davide, no.”

“Non ti piace?”

“No, non è questo. Non posso… non possiamo fermarci qui,” dice lei, osservando l’insegna gialla e rossa. “Accompagnami a casa,” continua. “Non c’è bisogno che tu-”

“Camila. Primo, non lascerò che tu vada a mangiare latte e biscotti. Forse è più salutare dei panini del McDonald, ma voglio vederti mangiare… qualcosa di sostanzioso, non una brodaglia calda. Secondo, devo mangiare anch’io, no? Dubito che quegli avvoltoi mi lasceranno qualcosa,” conclude, prima di frenare proprio davanti alla porta del fast food.

Camila scuote la testa. “E’ tardi,” dice, e nello stesso momento il suo stomaco parla per lei.

Sei affamata. Andiamo. Non accetto un no.”

Anche stavolta, Camila accetta senza fare storie.

A Davide quasi non sembra vero che per una volta (la seconda nel giro di pochi minuti) abbia messo da parte il suo orgoglio.

“Bilbo resta qui?” chiede lei, quando vede Davide trafficare con il guinzaglio del cane.

“Sì,” risponde lui. “I cani non sono ammessi all’interno, e non mi va di legarlo ad un palo come fanno tutti.” Attorciglia il guinzaglio attorno alla maniglia interna dell’auto, accertandosi che Bilbo abbia spazio e modo per muoversi, e apre due finestrini per far circolare l’aria. “Fai il bravo,” dice, accarezzandogli la testa. Il cagnolino richiude gli occhi e torna a dormire.

“Ha detto qualcosa?” chiede Camila.

“Ha detto ‘Buon appetito’” risponde Davide, stando al gioco.

Il fast food non è particolarmente affollato, e Davide ne è felice. “Cosa prendi?” chiede ad una Camila un po’ spaesata.

La donna si guarda in giro, notando i colori accesi dei tavoli e dei pavimenti, i tabelloni luminosi che indicano menù e prezzi, e la panchina azzurra su cui è seduta un’allegra riproduzione di Ronald McDonald.

“Um… per me va bene un panino,” risponde, stringendosi nella giacca.

“Come lo vuoi? Vuoi anche le patatine?”

“No,” risponde subito. “Niente patatine.” E poi guardando i tabelloni: “Um… col pollo,” mormora. “Va bene quello col pollo.”

Davide sa che qualcosa non quadra. Camila sembra assente, spaesata. Sotto la luce dei neon, la sua pelle sembra pallida, quasi trasparente.

“Ehi,” dice lui, allontanandosi dal bancone quel tanto che basta per sfiorarle un braccio. “Che c’è? Stai bene?”

Camila si passa una mano fra i capelli e abbassa gli occhi per un paio di secondi. “Non sono mai venuta qui,” dice tutto d’un fiato. “Non ho mai mangiato al McDonald.”

“Oh.” Il ragazzo è sorpreso. Non tanto per il fatto che Camila non abbia mai mangiato al Mc, quanto per il fatto che sembra vergognarsene. La fragilità della donna che ha di fronte fa scattare in lui una scintilla. Ancora una volta, dopo diciassette anni, sente il bisogno di fare qualcosa per lei, di aiutarla, di andare in suo soccorso. “Non è un problema,” dice, accarezzandole l’avambraccio attraverso la giacca. Lei non si scosta.

Le sorride, sperando di far sparire il senso di disagio che legge nei suoi occhi azzurri. “Se vuoi possiamo prendere un po’ di tutto, così puoi decidere ciò che ti piace.”

Davide intravede una fiammella affermativa sui tratti stanchi del volto di Camila. Come se volesse dire sì, come se volesse accettare. Ma poi scuote il capo, abbassando di nuovo gli occhi. “No, meglio di no. Il panino al pollo andrà bene.”

Voleva accettare, ma poi ha cambiato idea. Perché? Pensa che il prezzo sia troppo alto? Vuole andarsene subito? Vuole evitare di rimanere per troppo tempo con me?

“D’accordo,” dice, sfoggiando il suo sorriso furbo. “Vuoi qualcosa da bere?”

“Acqua. L’acqua andrà bene.”

“Perfetto. Se vuoi puoi andare a cercare un tavolo,” dice, indicando la saletta. “Io arrivo fra cinque secondi. Il tempo di ordinare.”

“Ok,” risponde lei annuendo.

La guarda con attenzione mentre si allontana verso un tavolino nell’angolo. Nota le sue gambe sottili. Nota i suoi capelli mossi, chiari alle punte, quasi rossastri. Nota la forma dei suoi fianchi sottili, messi in evidenza dal taglio della giacca.

Vorrei correrle dietro ed abbracciarla. E scoprire il profumo dei suoi…

“Ciao, come posso aiutarti?”

Una delle dipendenti, una ragazza bionda e bassa, interrompe i suoi pensieri e lo riporta al presente.

“Um… sì, vorrei ordinare. Un McChicken Menu medio, con Coca Cola. Un 1955, una confezione di Chicken McNuggets, una-”

“Che salsa vuoi con le crocchette?” domanda la ragazza. Sta per elencarle a memoria, ma lui la ferma.

“Posso averle tutte?”

“Certo,” risponde lei, premendo i pulsanti luminosi del suo monitor. “Che altro?”

“Una porzione di patatine, con maionese e ketchup. Poi… um… c’è ancora quella specie di taco al pollo?

Il Chico Wrap? Sì, certo.”

“Perfetto. Due Chico Wrap, e poi…” Osserva con attenzione le tabelle luminose, alla ricerca di qualcosa che possa piacere a Camila. “Avete qualcosa al cioccolato?”

“Panini… al cioccolato?”

“No,” ribatte, lanciando un’occhiataccia alla bionda. “Dolci. Parlo dei dolci. Avete dolci al cioccolato?”

“Abbiamo la mousse al triplo cioccolato, i brownies e i muffin,” risponde lei. Gli indica una vetrina a destra, dove i prodotti appena elencati sono esposti.

“Prendo due porzioni di ogni cosa,” dice Davide. “E anche una bottiglietta d’acqua. E i gamberetti, i gamberetti fritti!”

La ragazza annuisce e sorride. “Avete molta fame, eh?”

Si volta verso Camila, lontana di qualche metro. E’ intenta a guardarsi le mani.

“Già,” risponde. “Abbiamo molta fame.”

 

***

 

Davide raggiunge il tavolo tre minuti dopo, reggendo in bilico due vassoi carichi di cibo. Fra le labbra ha la bottiglietta d’acqua che Camila gli ha chiesto.

Quando quest’ultima lo vede arrivare con movimenti parecchio insicuri, si alza di corsa e gli va incontro, prendendo uno dei vassoi. Arrivano al tavolo insieme. Davide appoggia l’acqua sul vassoio. “Grazie,” le dice. “Per un attimo ho pensato che avremmo mangiato sul pavimento.”

Camila sorride e si lascia inebriare dal profumo che proviene dalle confezioni che vede davanti a sé. Nota le ciambelle e la mousse al cioccolato. Nota i brownies, le due porzioni di patatine.

E capisce.

“Perché hai preso tutta questa roba…” dice, sedendosi.

Davide si siede di fronte a lei dopo essersi liberato del giubbotto.

“Perché voglio farti assaggiare tutte le prelibatezze di questo posto,” risponde con un sorriso. “E perché hai fame, e non puoi arrivare a domattina con un misero panino.” Individua il McChicken, le patatine e le salse, e gliele sistema davanti. Fa la stessa cosa con l’acqua e la Coca Cola. “Avanti, mangia.”

“Tutta questa roba?!” esclama lei, incredula.

“Ho preso anche le crocchette di pollo e i gamberetti fritti,” dice lui, aprendo gli altri contenitori. “Il Chico Wrap… questo ti piacerà, è buonissimo… e i biscotti, le ciambelle, e le-”

“Davide, ma perché? Ti avevo chiesto solo un panino. E poi… ti ho visto pagare, quanto hai speso? Qual è la mia parte?”

Camila è agitata. Più del necessario, più di quanto Davide non voglia.

Per questo motivo si alza e va a sedersi accanto a lei, sulla sedia accanto alla sua.

“Non fare così,” le dice, appoggiando la mano sulla sua spalla. “Non arrabbiarti, per favore.”

“Non sono arrabbiata,” replica Camila, guardandolo negli occhi. “E’ solo che… Guarda, tutta questa roba…” Muove una mano sul tavolo, per mostrargli panini e patatine. “Non riuscirò mai a mangiarla tutta.”

Perché te la prendi così? Perché sei così agitata?

“Ci sono anch’io, se è per questo,” dice Davide, senza ritrarre la mano. “E anche se non si nota sono una buona forchetta. Comincia a mangiare,” le dice, indicando il panino. “Non dobbiamo consumare per forza tutto.”

Lascia che ti aiuti anche stavolta. Lasciami l’opportunità di passare con te un altro po’ di tempo.

Camila gli sorride. “Va bene,” si arrende. “Grazie.”

“E di cosa. Avanti, mangia. Voglio sapere cosa ne pensi del tuo primo panino al Mc.

Camila prende il panino caldo dalla confezione giallina e dà un morso.

Davide osserva le sue labbra chiudersi attorno al pane morbido, e non può fare a meno di ammirarle e adorarle… così, da lontano, per un attimo molto breve.

Camila mastica con educazione, tenendo la bocca chiusa, e dopo un po’ inizia a sorridere.

“Mi piace,” dice dopo aver mandato giù. “Grazie. Mi piace.”

“Sono contento,” risponde lui, il suo 1955 fra le mani. “Buon appetito.”

Per un po’ di tempo mangiano in silenzio. Camila è veloce nel mangiare, ma ordinata. Ha fame e lui non se ne meraviglia: il borbottare dello stomaco era piuttosto eloquente. Quando finisce il panino al pollo, pulisce la bocca e apre la bottiglietta d’acqua per berne un sorso.

Di nuovo, Davide resta ipnotizzato dalle labbra piene che si chiudono attorno al collo della bottiglia. Gli zigomi di Camila sono pronunciati, in questa posizione; il collo è esposto.

“Mi piaci.”

Non riesce a trattenersi dal dirlo. Non vuole trattenersi dal dirlo. Il cuore gli batte in petto come non mai, soprattutto quando la vede allargare gli occhi a causa della sorpresa.

Camila abbassa la bottiglietta e la chiude. Gli occhi azzurri sono ancora allargati. “Come? Che cos’hai detto?”

Vuole che mi ripeta perché non ha capito o perché desidera una conferma? Si arrabbierà di nuovo? E se dovesse non accettare il lavoro perché…

“Ho chiesto se ti piace,” dice rapidamente, indicando il cibo sul tavolo. “Ti sta piacendo la cena? Ti piace?”

Camila lo guarda interdetta prima di rispondere. “Sì,” dice. “Te l’ho già detto poco fa… mi piace.”

“Bene,” ribatte lui, “qui c’è il Chico Wrap. E le patatine. Oppure le crocchette di pollo. Aspetta.” Appoggia il 1955 sul tovagliolo e apre la confezione di crocchette. Gliela porge, assieme ai piccoli cubetti di salsa. “Quella barbeque è la mia preferita, ma le ho prese tutte. Puoi provarle fino a trovare quella che ti piace di più.

Cerca di distrarla. Cerca di farle dimenticare il suo ‘Mi piaci’.

Camila appoggia le crocchette e le salse davanti a sé, e guarda Davide con gli occhi pieni di una riconoscenza a cui non sa dar voce.

“C’è anche la Coca,” dice lui, indicando il bicchiere alla sua sinistra.

Lei si limita ad annuire e a sorridere, non riuscendo a fare altro.

Prova tutte le salse, ma alla fine decide di mangiare le crocchette al naturale. Ne mangia due, non di più. Chiude la confezione, la passa a Davide, il quale allunga verso di lei il Chico Wrap.

Il ragazzo termina il suo panino e la imita, addentando la tortilla contenente la cotoletta di pollo, l’insalata e la maionese.

“Quando avevo sei o sette anni,” dice lui ad un certo punto, “mio padre mi portò al cinema a Brindisi. Di fronte al cinema c’era un McDonald’s, e andammo lì dopo aver visto il film. Non ricordo neanche il titolo del film, però ricordo benissimo il ristorante. All’entrata c’era un pupazzo gigante di Ronald McDonald, con in mano un palloncino rosso. Lo ricordo come se fosse ieri.”

Camila lo guarda con attenzione, masticando l’ultimo boccone di Chico Wrap.

“Venire qui mi ricorda lui,” dice Davide. “Carovigno è lontana, e in tutti questi anni siamo tornati pochissime volte, ma ogni volta che mangio al Mc è come se… è come se tornassi indietro nel tempo.”

Non ne ho mai parlato con nessuno. Neanche con Priscilla.

“Sei mai tornata a Carovigno?” domanda. “Dopo essertene andata in Germania… ci sei più tornata?”

“No,” dice lei, scuotendo la testa. “Me ne sono andata a quattordici anni, e non sono più tornata.”

“Vorresti tornarci?”

Camila prende a fissare con intensità la confezione di plastica trasparente che contiene le due ciambelline fritte. Il sorriso che Davide nota sulle sue labbra è teso, non spontaneo. “No,” dice dopo qualche istante. “Non c’è più nulla che mi leghi a quel posto.”

“Ci sono io,” ribatte lui velocemente, sorridendo come farebbe un bambino.

“Tu sei qui,” risponde lei. Inclina il viso sulla spalla, e lo guarda con affetto. “Non sei a Carovigno.”

“Hai ragione.”

Vorrebbe chiederle del suo passato, di suo marito. Vorrebbe sapere che cos’ha fatto in Germania, e perché non porta la fede. Vorrebbe dirle di nuovo ‘Mi piaci’. Ma invece…

“Hai provato i gamberi fritti? Priscilla dice che sono fatti di plastica. Provali, dai…”

 

***

 

Un’ora dopo, alle dieci e un quarto, Camila dà l’ultimo morso alla ciambella fritta.

Davide è contento. Non solo è riuscito a farle riempire lo stomaco, ma ha trascorso con lei un’ora stupenda; semplice ma allo stesso tempo intensa. Hanno parlato dei suoi ricordi legati al campetto in cui giocava a calcio, dei clienti più strani di Camila e delle avventure di Bilbo nel giardino del condominio, in compagnia dei gatti dei vicini.

Davide è contento perché Camila si è lasciata andare. Nonostante la stanchezza, nonostante l’atteggiamento ancora un po’ chiuso e riservato, ha riso più volte. Ha scoperto che il suo senso dell’umorismo è pungente, che la pensa come Priscilla sui gamberi fritti e che adora i brownies.

Davide non è mai stato così bene in compagnia di una ragazza.

 

Quando escono dal ristorante, lui tiene la porta aperta per lei e lei lo ringrazia.

Camminano uno accanto all’altro verso la macchina. Camila ha fra le mani i due bicchieri di mousse al cioccolato che devono ancora mangiare. L’idea di consumarli in auto è stata di Davide.

Quando si accomodano all’interno, Bilbo si alza sul sedile e inizia a scodinzolare. Improvvisamente sveglio, si lascia coccolare dal suo padrone, che lo libera dal guinzaglio e se lo porta davanti, in grembo.

Bilbo è un cane piccolo, per cui trova facilmente la posizione comoda per riprendere il suo riposo.

Il ragazzo prende uno dei due bicchieri dalle mani di Camila e inizia a mangiare l’ultimo dessert.

“Siamo in ritardo, vero?” chiede lui controllando l’orologio sul cruscotto.

Lei fa dondolare la testa. “In teoria sì, ma considerando che devo andare a casa solo per fare la doccia e andare a letto direi che siamo in tempo. Questa mousse è molto buona,” dice, sollevando il bicchiere.

“Ti piace il cioccolato, eh?”

Annuisce con entusiasmo. “Da bambina… da bambina non ne ho mangiato molto. Devo recuperare.”

Davide non può fare a meno di notare in ogni frase, in ogni gesto di Camila, un rimando al passato fatto di sofferenza. Non può fare a meno di ricordare la ragazzina mezza nuda sotto le docce degli spogliatoi.

“Spero davvero che tu venga a lavorare da noi,” dice ad un certo punto, appoggiando il bicchiere sul cruscotto, proprio davanti al volante.

Prende ad accarezzare Bilbo. Lo fa sempre quando è teso, nervoso. “Non lo dico tanto per il lavoro in sé,” riprende. “Voglio dire… immagino che possa farti comodo… però… spero che tu dica sì perché voglio continuare a vederti, Camila. Non è per… non voglio… So che sei sposata. Me l’hai detto proprio ieri sera,” dice, con un sorriso imbarazzato. “Spero che tu dica sì, ecco. Per tanti motivi.” Guarda in basso. Non sa come continuare. “Mi piace passare del tempo con te, Camila. Mi piace il modo in cui… Mi piace il modo in cui mi sento quando sono con te.

Lei arrossisce. Davide non può vederla, perché ha ancora gli occhi bassi, ma Camila arrossisce.

Appoggia il cucchiaino nel bicchiere mezzo vuoto e resta ad osservare il ragazzo che ha di fronte.

I capelli biondi, scompigliati e sottili. La linea dolce del viso, diversa da quella paffuta del bambino di Carovigno. Il giubbotto scuro, le gambe nascoste sotto i jeans blu.

Lo guarda, e si meraviglia di quanto, a volte, sia imprevedibile la vita.

“Non so come ti senti,” gli dice a voce bassa. “Non so cosa provi quando siamo insieme… ma anche a me piace passare del tempo con te.”

Davide smette di accarezzare Bilbo. Alza la testa lentamente e ritrova gli occhi chiari di lei.

Cosa provi? Perché ti piace passare del tempo con me? Cosa ti piace, in particolare? Accetterai il lavoro? Dov’è tuo marito?

“Dov’è tuo marito?” La domanda è spontanea. Pensa per un secondo di trattenerla, di evitarla, ma poi non ce la fa.

Mi sono trattenuto anche abbastanza questa sera.

Camila serra le labbra in una linea dritta. “Se te lo dico prometti di non chiedermi più di lui?”

“Sì.”

“Prometti,” insiste. “Prometti che non mi farai più nessuna domanda che riguarda mio marito.”

“Prometto di non farti più alcuna domanda su tuo marito.”

“E’ in Basilicata. L’ho lasciato lì. In Basilicata.”

Davide fatica immensamente per trattenere il vagone di domande che vorrebbe fare.

Perché si trova lì? Che significa “L’ho lasciato lì”? Siete separati?

Ha promesso, però. E sa quanto è importante una promessa fatta a Camila. L’ha imparato quando aveva sette anni.

“Grazie,” le dice. “Non ti chiederò più nulla di lui.”

La donna annuisce. Allunga una mano verso Bilbo, per accarezzargli la testa e le orecchie. Il cagnolino si lascia coccolare volentieri.

“Sta muovendo la coda,” dice Davide sottovoce. “Gli piaci.”

I due si guardano.

Sono tante le parole non dette, sia da lui che da lei.

I loro sguardi provano a parlare per loro.

Piaci al mio cane, e piaci anche a me.

Tutto questo è sbagliato. Però mi piace.

 

Davide mette in moto dieci minuti dopo, quando le mousse sono finite e quando Bilbo è tornato a dormire sul sedile posteriore.

Il raccordo non è affollato. Sa che entro venti minuti riaccompagnerà a casa Camila.

Decide allora di farli fruttare.

“Perché ti chiami Camila? Perché non Camilla, con due L?”

Lei sorride. “Mia madre è brasiliana. Camila era il nome di sua madre, mia nonna.

“Brasiliana? Wow. Sei mai andata lì? In Brasile?”

“No,” risponde. “Non ancora.”

“Speri di andarci presto? I tuoi parenti vivono ancora lì?”

“Non so nulla dei miei parenti,” dice Camila. “Però spero di andarci presto, sì.”

Davide inizia a fantasticare. Pensa che dopo la laurea potrebbe chiedere ai suoi di regalargli un viaggio in Brasile. Potrebbe accompagnare Camila. Potrebbe imparare il portoghese, nel frattempo.

“Conosci il portoghese? Lo parli bene?”

“Non conosco neanche una parola di portoghese,” dice lei. “Mia madre mi ha sempre parlato in italiano o meglio, in dialetto pugliese.”

“Perché?”

Scrolla le spalle. “Non lo so.” E così dicendo sposta gli occhi dal viso di lui al finestrino alla sua destra.

“Però conosco molte ricette brasiliane,” dice ad un certo punto. “Le ho imparate in Germania. Mia madre me le ha insegnate quando eravamo lì. Ai Bauer piacevano un sacco…”

“I Bauer?”

“Una coppia per cui ho lavorato quando vivevamo in Germania. Mi hanno aiutata tanto in quegli anni.” Parla quasi a se stessa. Davide ha perfino paura di respirare: non vuole che smetta. “Lui era un medico,” continua. “Mi ha curata, mi ha dato delle vitamine speciali per… per farmi stare bene.”

“Li hai più visti? O sentiti?”

“No.”

Quando Davide accende la freccia per imboccare l’uscita che porta all’abitazione di Camila, lo fa con un grosso peso sul petto. Non vuole separarsi da lei. Non vuole ritornare a casa senza averla al suo fianco.

Per questo motivo tace, resta in silenzio.

Rivive mentalmente la serata trascorsa e mantiene gli occhi sulla strada. Rallentando, fermandosi agli stop più del dovuto, maledicendo i semafori verdi che incontra agli incroci.

Non voglio lasciarla. Non voglio separarmi da lei. Voglio continuare a farle domande su domande, e voglio vederla sorridere. Oppure, se dovesse tornare ad essere triste e malinconica, voglio fare qualcosa per regalarle un nuovo sorriso.

Voglio che accetti la proposta di mia madre. Voglio che si licenzi dalle case degli stupidi per cui lavora adesso, e che passi tutto il suo tempo con me e con Bilbo.

Voglio che venga allo stadio con me.

I pensieri del ragazzo frenano nello stesso momento in cui è l’auto a frenare. Proprio davanti al portone del palazzo in cui vive Camila.

E Alessia. Già. Anche Alessia vive qui. Peccato che non abbia pensato a lei neppure una volta da quando ho lasciato la biblioteca.

“Eccoci arrivati,” dice, voltandosi verso Camila per la prima volta da quando hanno smesso di parlare.

E proprio allora si accorge che sta dormendo.

Gli occhi sono chiusi, la testa è inclinata sul poggiatesta in una posizione dolce, angelica.

Davide non riesce a chiamare il suo nome.

Non voglio svegliarla. E’ così bella. Così perfetta.

Il viso di Camila è illuminato dalla luce bianca dei lampioni presenti nel parcheggio. Anche se chiusi, i suoi occhi sembrano ugualmente stanchi; ora, però, c’è qualcosa di estremamente meraviglioso in lei, e Davide non riesce a capire cosa. Il fatto che può finalmente guardarla liberamente senza sentirsi in imbarazzo? Il fatto che lei è riuscita a rilassarsi così tanto da addormentarsi? Il fatto che può ancora tenerla con sé prima di restituirla a Roma, alla sua vita, alle sue cose?

Davide resterebbe ad osservarla in questo modo per sempre, ma Bilbo sceglie proprio quel momento per sbadigliare, alzarsi sulle zampe e infilare la testa in mezzo ai sedili. Il ragazzo non riesce a trattenerlo dall’annusare Camila, e lei si sveglia quando avverte il cane accanto a sé.

“Ehi…” dice lui, spingendo Bilbo al suo posto. “Siamo arrivati.”

Camila si guarda attorno e capisce che Davide ha ragione. “Per quanto ho dormito?” domanda.

“Non lo so. Dieci minuti? Un quarto d’ora?”

Lei prende la borsa e abbottona la giacca. Si volta verso di lui. “Grazie per avermi accompagnata. Spero che i tuoi non facciano storie per la cena, per-

“Non faranno storie, tranquilla.”

Camila sorride. “Grazie.”

“Grazie a te.”

Sta per sganciare la cintura, ma si ferma di scatto. “Oh, un momento! La cena, i panini! Non mi hai detto qual è la mia parte!” In preda al panico, inizia ad aprire la borsa e a tirar fuori il borsello in cui custodisce il denaro.

Davide la ferma al volo, appoggiando la mano sulla sua. “Non ci provare. Bilbo ha detto che offre lui.”

“No,” ribatte. “Sono seria, dimmi quanto ti devo per-”

“Camila, anch’io sono serio. Ora puoi decidere di rimanere qui a cercare di convincermi, oppure accettare che Bilbo abbia offerto la cena e metterti l’anima in pace.

“Ma non posso accettare.”

“Puoi. E devi. E poi so già come potrai ripagarmi, se proprio ci tieni.

“Come?”

“Se accetterai il lavoro potrai prepararmi una torta alla frutta come quella di stasera. Sono seriamente convinto che mia sorella e mia madre l’abbiano già finita.

Riesce a farla sorridere di nuovo. Ne è estremamente orgoglioso.

“Va bene,” dice Camila, liberandosi dalla cintura di sicurezza. Apre lo sportello e si avvia a scendere. “Ti preparerò un’altra torta come quella di stasera.” Gli sorride.

“Mi stai dicendo che accetterai? Accetterai il lavoro?”

“Sì.”

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Come Davide, sono anch’io convinta che latte e biscotti sia più salutare dei panini del McDonald. Ma ogni essere umano deve assaggiare quelle schifezze, prima o poi, e anche Camila aveva bisogno della sua dose.

Grazie fin da ora.

Alla prossima.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Grazie immensamente per i commenti all’ultimo capitolo

Grazie immensamente per i commenti all’ultimo capitolo.

Sono davvero contenta che questa storia vi stia piacendo così tanto.

Grazie anche da parte di Bilbo, che mi ha telefonata e mi ha detto che, se potesse, offrirebbe una ciambellina fritta ad ognuno di voi.

 

Buona lettura.

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Capitolo 13

 

Il giorno dopo l’incontro con Simona e la cena con Davide, Camila ha accettato ufficialmente la proposta di lavoro.

Ha telefonato alla madre di Davide e con lei si è accordata per incontrare il commercialista. L’appuntamento con il dottor Manzoni si è tenuto due giorni dopo.

Camila non possiede un diploma specifico che la qualifichi come professionista nell’assistenza domestica. A dirla tutta, Camila non possiede alcun tipo di diploma. Ammetterlo in presenza di Simona e di Giancarlo l’ha fatta sentire in imbarazzo per un attimo, ma poi si è velocemente ripresa. Ha imparato, nel corso degli anni, a fare bene il suo lavoro, e per lei è questo ciò che conta. Ne va orgogliosa, anche se non possiede un titolo di studi che certifichi le sue conoscenze.

L’assenza di un diploma ha tuttavia pregiudicato l’aspetto economico del contratto. E’ per questo motivo che Camila non ha detto addio a tutti i suoi vecchi clienti. Nei giorni successivi ha concordato con Simona gli orari di lavoro, in modo tale da avere la possibilità di recarsi anche a casa di altre famiglie per guadagnare di più.

Camila è riuscita (e ancora non le sembra vero) a conservare tutti i clienti che si trovano nella parte settentrionale della città, quella più vicina all’abitazione di Davide. In questo modo non deve viaggiare per lunghi periodi in metropolitana o sugli autobus, e può gestire il lavoro in maniera ottimale.

Simona è stata molto accomodante. La donna non vede l’ora di avere Camila in casa, e non ha sollevato problemi quando lei le ha chiesto di poter continuare a lavorare nelle case altrui.

Unendo al salario da colf i compensi orari percepiti dai clienti benestanti di Roma Nord, Camila riesce a guadagnare mille e duecento euro al mese. La metà va via per pagare l’affitto della stanza nell’appartamento che divide con Alessia e Ida, le bollette della luce e del gas, e per l’abbonamento ai mezzi pubblici. Dei seicento euro rimanenti, Camila conserva per sé (per la spesa, per la ricarica del telefonino e per gli imprevisti) duecentocinquanta euro. I trecentocinquanta euro rimanenti finiscono su un libretto postale che Camila ha aperto poco dopo essere arrivata a Roma.

Il saldo del libretto è pari a 9.650 euro. Quei soldi rappresentano il suo biglietto per una nuova vita. Rappresentano, e non solo metaforicamente, la strada verso il Brasile.

L’ultima tappa della fuga da Umberto.

 

***

 

Il lavoro a casa dei Falco inizia il lunedì successivo al loro primo incontro.

Camila prende la metropolitana alle otto meno un quarto invece che alle sette, riuscendo a dormire di più. Quando arriva davanti al portone del palazzo, alle nove in punto, si sente agitata come se si trattasse del suo primo giorno di lavoro in assoluto.

Ad attenderla in casa, con sua enorme sorpresa, ci sono soltanto Simona e Bilbo.

Giancarlo è uscito presto: nel corso della giornata andrà e tornerà da Perugia per seguire una consegna importante. Priscilla è in ospedale e Davide in biblioteca a studiare.

“Voleva rimanere qui,” dice Simona quando sistema il giaccone di Camila sulla panca nel corridoio. “Ma ho pensato che per questo primo giorno non abbiamo bisogno di troppa gente fra i piedi. Inoltre, quando è a casa non studia mai come si deve, per cui l’ho costretto ad andare in biblioteca nonostante non volesse,” dice ridendo.

Camila sorride ed annuisce.

Peccato, mi avrebbe fatto piacere rivederlo. O forse no, forse è meglio che oggi mi dedichi solo ed esclusivamente al lavoro. La sua presenza sarebbe stata una distrazione troppo forte.

Camila non ha più visto Davide dalla sera al McDonald’s. Neanche al suo appartamento, in compagnia di Alessia.

Probabilmente è stato occupato con lo studio e con gli esami.

“Da dove comincio?” chiede Camila, guardandosi attorno. E’ ciò che ha sempre chiesto agli altri clienti, per ricevere ordini circa le camere da pulire o il bucato da stirare.

“Che ne dici se andiamo in cucina a fare il caffè?” domanda Simona. “Non dobbiamo andare di fretta.”

“Ok,” risponde l’altra. “Va bene.”

Camila la segue lungo il corridoio che porta alla cucina, passando accanto al cesto in cui Bilbo è impegnato a mordere un pupazzo di gomma. Il cagnolino non ha abbaiato quando è entrata in casa, ma si è limitato a scodinzolare. Proprio come fa con gli altri membri della famiglia.

Una volta in cucina, Simona chiede a Camila di accomodarsi. Quest’ultima, però, si sente quasi in colpa mentre osserva la signora preparare il caffè.

Dovrei essere io a farlo. E’ il mio lavoro. E’ lei quella che dovrebbe rimanere seduta.

“Allora,” dice la padrona di casa mentre carica la caffettiera con moka scura e profumata, “conosci qualche buona ricetta da fare a pranzo? Saremo in due, io e te, però chi ha detto che non dobbiamo trattarci bene, giusto? Dopo aver preso il caffè andremo a fare la spesa, quindi se hai voglia di qualcosa di sfizioso, prendi quel quaderno sulla mensola e segna pure gli ingredienti.

“Beh, io… io… io ho portato il pranzo da casa,” dice Camila, osservando la sua borsa, ferma sulla panca nel corridoio.

Simona la guarda con stupore. “Ma non devi restare fino alle tre, Camila?”

“Sì, sì, certo. Rimarrò fino alle tre, però…”

“E allora qual è il problema? Mangerai qui, non c’è bisogno che porti il pranzo,” esclama Simona, avvitando la caffettiera. La sistema sul fornello medio e va a sedersi all’altro capo del tavolo. “Oggi saremo sole,” riprende, “e in genere sarà così, visto che Giancarlo è sempre in giro e i ragazzi pranzano con gli amici, all’università o in ospedale. Però a volte Davide resta a casa, e Priscilla torna prima del previsto. In quei casi cosa vorresti fare, mangiare in un angolo per conto tuo? Niente più pranzo da casa, Camila. Va bene?”

“Va bene,” risponde arrossendo.

“Se hai voglia di preparare il tuo piatto preferito puoi farlo qui e farlo assaggiare anche a noi. Non c’è bisogno che ti porti da mangiare. Chiaro?”

Le sorride, le labbra sottili e belle proprio come quelle di suo figlio.

 

***

 

Camila sbaglia quando pensa che Davide sia stato occupato con i libri e con gli esami.

Il ragazzo è stato occupato, in effetti, ma con altre questioni. Una sola, a dire il vero. Una sola questione.

Alessia. Come evitare di vederla, come allontanarla, come liberarsi di lei.

La sera in cui ha accompagnato Camila a casa sono cambiate molte cose. Durante il viaggio di ritorno con Bilbo addormentato al solito posto, Davide ha pensato e ripensato ai momento trascorsi con la ragazza di Carovigno.

Ha deciso di cogliere il lato positivo di quel “L’ho lasciato in Basilicata”. Ha deciso di farsi avanti.

Quando è tornato a casa e ha scoperto che sua madre gli aveva conservato una fetta di torta alla frutta, ha quasi toccato il cielo con un dito. Morso dopo morso, assaporando la dolcezza della crema e il perfetto matrimonio fra frutta e pasta frolla, Davide si è convinto ancora di più di quanto desideri che Camila faccia parte in un modo diverso della sua vita. Non come una conoscente, né tantomeno come una donna delle pulizie.

Davide vuole che Camila sia la sua ragazza. E’ pronto a convincerla, è pronto a parlarle e riparlarle più volte. Egli sa che può nascere qualcosa di speciale fra di loro. Sa che non sono semplici amici.

Vuole crederci, perché vuole Camila per sé.

E’ per questo motivo che il giorno dopo non è andato in biblioteca e ha spento il telefono. Avrebbe dovuto incontrarsi con Alessia, ma l’ha evitata. Quel giorno, e il giorno successivo, quando è andato a studiare a casa di Alfredo, il suo migliore amico. Quando lei ha provato a chiamarlo, quando non è stato più possibile tenere il telefono spento, Davide ha finto di stare poco bene. Alessia lo ha chiamato ‘tesoro’, gli ha detto di rimettersi in fretta perché ‘mi manchi tanto’.

Davide ha riagganciato in fretta, quasi come se l’apparecchio potesse scoppiargli fra le dita.

Nel corso della settimana ha seguito Camila da lontano, facendosi bastare le conversazioni fra sua madre, Priscilla e Giancarlo in merito alla sua assunzione.

 

Ad un certo punto, venerdì sera, il patrigno ha fatto una domanda particolare mentre erano a tavola, mentre stavano cenando.

“Simona, sono contento che tu abbia finalmente un nuovo aiuto in casa. Ora, non per fare l’avvocato del diavolo o il guastafeste, ma a voi questa Camila non sembra un po’ strana? L’altro giorno, da Manzoni, non ha fatto che guardare a terra per tutto il tempo. Sembrava terrorizzata. Siamo certi di poterci fidare al 100%?”

La domanda di Giancarlo, un gran lavoratore che tiene molto al benessere di sua moglie e a quello della sua famiglia, non nascondeva nessun intento denigratore nei confronti di Camila. La sua era semplice curiosità.

Davide, però, non ha reagito bene. “Camila non è strana,” ha detto, facendo cadere la forchetta sul piatto e prendendo la parola prima di sua madre. “E’ timida; è una persona timida. Ed è molto affidabile. Non è che sei stato tu a metterla in imbarazzo?”

“Chi, io? Ma se a stento l’ho salutata,” ha ribattuto Giancarlo, guardando sua moglie con meraviglia.

“Ecco, forse avresti dovuto parlarle per cinque minuti. Ti saresti accorto che non è né strana né pazza.

“Ma non ho detto che è pazza, Davide. Ho solo-”

“Sì, sì. Certo.” Davide ha scostato la sedia facendo rumore e se n’è andato, mentre gli altri gli chiedevano di rimanere e chiarire la questione.

Il conflitto emotivo con Giancarlo è sempre lì, pronto a riemergere nei momenti meno opportuni.

L’uomo non intendeva offendere Camila né insinuare che ci sia qualcosa di strano in lei. Davide, però, non è riuscito e non riesce a tollerare che si parli male di Camila.

Non l’ha tollerato quando Ida e Alessia l’hanno fatto, e non l’ha tollerato quando è stato Giancarlo a parlare di lei in un certo modo.

E’ protettivo nei confronti di Camila. L’ha protetta diciassette anni fa, quando non ha rivelato a nessuno la sua presenza nelle docce del campetto, e intende proteggerla anche ora. Anche nel futuro.

 

Quando ha avuto la conferma dell’assunzione, Davide ha gioito immensamente, ma senza darlo a vedere. Domenica mattina si è svegliato presto e ha pulito la sua camera da cima a fondo, usando anche l’aspirapolvere. Priscilla gli ha fatto notare che il giorno dopo ci sarebbe stato qualcuno ad occuparsi di quelle faccende, ma non è servito a molto: Davide ha continuato a pulire. Ha perfino cambiato le lenzuola sporche.

Ma nel momento in cui Simona l’ha obbligato ad uscire di casa, per lasciare a lei e a Camila lo spazio ed il tempo di organizzare il lavoro della seconda, Davide ci è rimasto male. Pensava di accoglierla nella sua casa, di darle il benvenuto. Voleva mostrarle l’assenza di polvere sulla sua libreria.

Voleva passare un po’ di tempo con lei.

Non importa, pensa. Riuscirò a vederla prima delle tre. Tornerò a casa per pranzo, anche se a mamma ho detto il contrario.

E’ in biblioteca, a studiare. E’ in un’area diversa dal solito, e spera che Alessia non sia nei paraggi.

Legge e rilegge la stessa pagina più volte, trascrive gli appunti sul quaderno e controlla l’esecuzione del progetto tramite il portatile, ma la sua mente è lontana, molto lontana dall’università.

Chissà cosa stanno facendo, adesso, mia madre e Camila. Andranno d’accordo? La mamma non ha fatto che parlare della torta di frutta, in questi giorni, e di quanto Camila è stata gentile nel rimanere, quella sera. Andranno d’accordo, poco ma sicuro.

Spero che Giancarlo non le dia problemi. Potrei tirargli un pugno, se la deridesse di nuovo.

 

***

 

Camila e Simona sono al supermercato di un grande centro commerciale che si trova a poche centinaia di metri dall’abitazione dei Falco. Il carrello, guidato da Camila, è colmo di cose all’apparenza molto buone, cose che – una volta a casa – andranno a riempire la dispensa e il frigorifero.

Camila continua a sentirsi come se stesse in vacanza, invece che a lavoro. Il fatto che Simona la tratti come un’amica di famiglia invece che come una dipendente le piace, è vero, ma allo stesso tempo la mette in imbarazzo.

Camila è abituata a pulire, lavare, stirare. A volte ha fatto la spesa per alcune signore, ma è stata sempre attiva, non si è mai limitata a spingere il carrello e a leggere la lista.

Con Simona, invece, le cose sono molto diverse.

“Camila, ho segnato le barrette per Davide?” chiede la donna ad un certo punto. “Se non sono sulla lista dovrai ricordarmi di prenderle quando arriviamo alla cassa,” continua, appoggiando due pacchi di pasta nel carrello. “Mio figlio ha 24 anni, e impazzisce per quei dolcetti come quando ne aveva dieci.”

Lo so, vorrebbe dire Camila. Anch’io impazzisco per le stesse barrette, e di anni ne ho 31. E’ stato proprio Davide a farmele conoscere. A Carovigno.

“Eccole,” dice Simona quando raggiungono la corsia della cioccolata, situata proprio di fronte alle casse. Prende quattro confezioni e le appoggia nel carrello. “Dovrebbero bastargli… spero.”

“Anche a me piacciono molto,” dice Camila, rompendo il silenzio.

Simona scoppia a ridere. “Non dirlo a Priscilla, ma anch’io ne vado matta.” Afferra altre due confezioni velocemente. “Colpa della menopausa. Non dovrei mangiare tanta cioccolata, ma a questi dolcetti non so dire no.

Camila le sorride. Nonostante l’imbarazzo legato al lavoro, è a suo agio con la madre di Davide. Con lei non si sente una semplice colf.

 

***

 

La mattinata di Davide procede bene. Nessuna visita e nessuna telefonata di Alessia, nessun problema con il progetto che sta preparando. A mezzogiorno decide di tornare a casa. Sa che Camila lavorerà fino alle tre, e vuole arrivare in tempo per pranzare con lei (e con sua madre).

Ma quando lascia l’edificio della biblioteca si accorge che ad attenderlo sulla sella del suo scooter c’è un’amara sorpresa: Alessia.

Prima o poi sarebbe dovuto accadere, suppongo.

Le sorride da lontano, camminando nella sua direzione, ma la ragazza resta impassibile.

Magnifico. Ce l’ha con me.

Passo dopo passo, Davide cerca di pensare a cosa le dirà, a come giustificherà il fatto che non l’ha cercata per un’intera settimana e a come spiegherà che non vuole più uscire con lei.

“Ciao,” dice, quando raggiunge il motorino.

“Ciao,” risponde lei, fredda. Si alza in piedi. “Come stai? Passato il mal di pancia?”

“Sì,” dice lui, ricordandosi della frottola raccontata al telefono. “Tu, invece? Come stai? Che hai fatto in questi giorni?”

“Ho aspettato che ti facessi sentire,” sbotta lei. “Perché non mi hai chiamata?”

Perché ho provato a fare il vigliacco, e per un po’ ci sono riuscito.

“Sono stato impegnato,” mente. “Questo esame è incasinato, e non ho avuto altro per la testa.”

“Ora che hai da fare?” incalza lei. “Vuoi venire a pranzo con me?”

“No, non posso. Devo tornare a casa.”

Non riesce neanche a guardarla negli occhi.

“Vabbè,” dice lei, stringendo i libri al petto. “Ho capito.” Sospira. “Pensavo fossi diverso,” gli dice. “Pensavo di interessarti davvero, ma sbagliavo. Avresti potuto dirmelo, però. Avresti potuto avere le palle per chiamarmi e dirmelo in faccia, che non vuoi più vedermi. Senza inventarti il mal di pancia o i problemi legati all’esame. Ida ti ha visto in giro due volte, la scorsa settimana. E stamattina sei venuto a studiare qui,” continua. “Avresti potuto chiamarmi, chiedermi di raggiungerti. Oppure semplicemente mandarmi a fanculo al telefono, invece di trattarmi come un soprammobile.

Davide sa di meritare le parole di Alessia. Sa che per la ragazza la loro breve relazione non è stata un passatempo, come invece è stato per lui. Sa di aver sbagliato. Non è la prima volta che si comporta in modo simile, fra l’altro.

Proprio per questo vuole provare a rimediare. Vuole provare a spiegarle perché si è allontanato in una maniera così vigliacca.

“Posso dire una cosa?” chiede, guardandola negli occhi.

Alessia annuisce.

“Il motivo per cui non ti ho cercata è che… è che non posso… non posso stare con te e pensare ad un’altra persona. Non potrei farlo, non potrei farti questo.

Alessia allarga gli occhi. “Quindi c’è un’altra!” esclama. Scuote il capo e ride amaramente, lasciando andare le braccia lungo i fianchi. “Avrei dovuto immaginarlo,” mormora.

“Il punto è che non sono il tipo di ragazzo che-

“Oh, ti prego! Che vuoi dirmi, eh? Che non sei il tipo di ragazzo che un giorno va a letto con una e il giorno dopo con un’altra?! Risparmia il fiato, Davide. E’ quello che hai fatto con me.”

Vorrebbe dirle che non è così. Vorrebbe spiegarle meglio, ma per farlo dovrebbe arrivare a parlarle di Camila. Sarebbe completamente inutile, visto il rapporto che c’è fra le due e visto che è improbabile che Alessia voglia conoscere i dettagli della vicenda.

Davide vorrebbe riparare al suo sbaglio, ma non può. Per certi errori non esiste rimedio.

Alessia gli volta le spalle e va via. Compiuti quattro o cinque passi, si volta e gli punta contro i libri ancora stretti in una mano. “Mi fai pena,” gli dice. “Mi fai tanta pena.”

---

 

Ancora una volta mi sono trovata di fronte ad un capitolo lungo e ho pensato di dividerlo a metà.

Il prossimo sarà IMPERDIBILE. Se non mi credete, controllate la piccola anticipazione che posterò fra poco sul mio blog ;)

Grazie fin da ora, anche da parte di Bilbo XD

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

Capitolo 14

 

“Ciao, Priscilla. Ci vediamo domani?”

“Sì, Camila. Domani è il mio giorno libero, sarò a casa fin dalla mattina. Aspetta, ti accompagno alla porta.”

“Ciao, Bilbo.” Camila si china ad accarezzare il cane, sdraiato nel suo cesto come al solito. “Ci vediamo domani, pelosone.” Bilbo risponde scodinzolando.

“Camila, vai già via?” domanda Giancarlo, tornato da due minuti dal suo ufficio.

“Sì,” risponde lei. “Il suo pranzo è in cucina. Simona le ha preparato i carciofi ripieni.

L’uomo sorride e annuisce, andandole incontro per raggiungere la cucina.

Arrivederci, a domani,” dice lei velocemente, imboccando il corridoio dietro Priscilla.

 

Due settimane di lavoro a casa dei Falco, e quasi non le sembra vero: sta bene, si trova bene.

Il primo giorno è passato in maniera surreale e a tratti divertente. La spesa al supermercato, la pulizia del salone e dei bagni in compagnia di Simona, la passeggiata con Bilbo e Simona nel parcheggio condominiale. E poi la preparazione del pranzo, con quella che è a tutti gli effetti una specie di amica, e non un datore di lavoro. Quel giorno, a sorpresa, Davide le ha raggiunte per mangiare con loro.

Camila si è sentita emozionata per tutta la durata del pranzo. Davide l’ha guardata più volte da un lato all’altro del tavolo, e le ha sorriso quando Simona si è alzata per rispondere al telefono.

Lei gli ha detto: “Non pensavo che saresti tornato a pranzo.”

Lui ha risposto con: “Volevo vederti.”

 

Nei giorni successivi Camila ha imparato a conoscere l’abitazione del Falco. Simona le ha mostrato in che modo vuole che vengano puliti i pavimenti, le porte, le finestre. Le ha mostrato il contenuto del ripostiglio, della dispensa che non aveva visto il giorno prima e del garage. Le ha perfino fatto vedere come funziona il forno.

Camila ha incamerato ogni informazione con la solita cortesia e professionalità, anche se non si spiega perché Simona le abbia mostrato anche l’attrezzatura da sci di suo marito.

E’ una persona speciale, Simona, e lei l’ha capito subito. Non ha un effettivo bisogno di qualcuno che l’aiuti in casa, ma ha molto bisogno di qualcuno che le faccia compagnia, che le ricordi che è ora di avviare il pranzo e che scriva e legga con lei la lista della spesa.

Giancarlo è un uomo molto impegnato. E’ raro che, quando arriva, alle nove del mattino, Camila lo trovi in casa, ed è altresì raro che rientri per pranzare con la sua famiglia. I suoi affari lo portano spesso e volentieri in giro per la regione, e a volte anche fuori dai confini del Lazio, per cui è normale che Simona si senta sola. Ha alcune amiche, ma Camila ha avuto il sentore che si tratti per lo più di donne con gusti molto diversi dai suoi. Simona è giovanile, spigliata. Si interessa di musica e di sport, in particolare di hockey su prato, lo sport praticato da Priscilla. E’ una brava madre ed una brava moglie, ma è una donna molto sola. Camila non sa se possiede fratelli o sorelle.

 

E poi c’è il resto della famiglia. Priscilla, Giancarlo e Davide.

Priscilla è poco presente in casa. Al mattino è in ospedale, e di pomeriggio è in giro con i suoi amici, alcuni dei quali stanno preparando la tesi di laurea. Camila ha ascoltato alcune conversazioni fra madre e figlia, e a dire il vero non è sicura che si tratti di più amici o di un solo amico, magari il suo ragazzo. Quando è in casa, Priscilla è sempre allegra e gioviale, proprio come sua madre. Il sorriso non l’abbandona mai, soprattutto nei confronti di Camila. Le chiede se ha bisogno di una mano quando la vede pulire il bagno, e le domanda se Bilbo le ha causato problemi con i suoi giochetti attira-attenzione.

Giancarlo è l’unico con cui Camila ha un rapporto più freddo, distaccato. Si vedono poco, è vero. Spesso, il rientro di lui coincide con l’uscita di lei, per cui non hanno ancora avuto modo di chiacchierare come si deve e di conoscersi, tuttavia Camila si sente un po’ intimorita dal capofamiglia. Giancarlo è l’unico che non si lascia andare a battute e sorrisi. E’ molto tranquillo e sereno, ma non è come le donne di casa. Questo lato del suo carattere la mette in soggezione, ed è per questo che quando gli parla lo fa rapidamente, cercando di limitare quelle che potrebbero essere parole superflue o non gradite.

Con Davide, infine, il rapporto è completamente diverso, sia da quello con Giancarlo sia da quello con Simona e Priscilla. C’è qualcosa di speciale fra di loro, e Camila se ne sta pian piano rendendo conto.

Il primo giorno di lavoro, Davide le ha detto che non c’era bisogno di pulire la sua camera, perché se n’era occupato lui il giorno prima. Il secondo giorno, non appena è arrivata, le ha detto la stessa cosa. L’ha fatto anche il terzo giorno, e il quarto e il quinto.

Davide non consente a Camila di pulirgli la stanza, di rifargli il letto, di spolverare i suoi soprammobili. Le ha mostrato la sua camera, ma non le ha permesso di pulirla. Non vuole che lo faccia. Non vuole che sia, nella sua stanza, la donna delle pulizie.

In realtà non vuole che lo sia neanche nel resto della casa. Quando sua madre non lo vede, Davide aiuta Camila a sistemare le pentole o la spesa. L’aiuta con il bucato, e si prende cura di Bilbo quando lei deve lavare i pavimenti.

Camila sa che lui lo fa per lei.

Camila sa che è il suo modo per dirle ‘Ci sono’.

Camila lo apprezza, più di quanto dovrebbe e vorrebbe.

In casa nessuno conosce ancora la sua storia. Sanno che è nata a Carovigno, ma non le hanno chiesto nulla dei suoi anni nel paesino pugliese. Sanno che ha vissuto in Germania per qualche anno e che poi si è trasferita in Basilicata. Sanno anche che è sposata. Hanno appreso queste informazioni durante la firma del contratto, quando Camila ha fornito al commercialista una fotocopia della carta d’identità.

Sono molto discreti. Non sono degli impiccioni. Per loro – in particolare per Simona – è importante che Camila sia capace ed affidabile. Rispettano i suoi silenzi, il suo carattere chiuso, il fatto che non ami particolarmente parlare di sé.

 

Camila pensa e ripensa ai Falco anche quando raggiunge il suo appartamento. Ha il pomeriggio libero, oggi, dato che la famiglia Ballotta è partita per qualche settimana. In queste due settimane ha lavorato anche presso i vecchi clienti, proprio come aveva programmato all’inizio.

Una volta all’interno della casa, sente la voce di Alessia provenire dal salotto. Sente anche quella di Ida, e quella di un’altra ragazza, che però non conosce.

Si ferma per un attimo davanti alla porta della stanza. Le saluto o non le saluto? Se alzano la testa per guardarmi, le saluto.

Ida, Alessia e la ragazza senza nome continuano a parlare, sedute al tavolo, ricoperto di libri e di quaderni. Nessuna si accorge di lei. O forse notano la sua presenza e decidono di ignorarla.

Camila si volta e va in cucina. Dalla sua dispensa afferra un pacco di biscotti al cocco, e dal frigorifero prende una bottiglia d’acqua. Si chiude in camera e decide di rilassarsi.

Prima di addormentarsi, ripensa al sorriso di Davide.

 

***

 

“Perché si chiama Bilbo?” domanda Camila una mattina, mentre lei e Simona passeggiano col cane nel parco che collega i palazzi del quartiere.

La zona è tranquilla, poco trafficata. Sembra quasi che si trovi fuori dalla caotica Roma, e a Camila piace molto. Qui, con i Falco, si sente al sicuro.

Simona sorride alla sua domanda. “E’ stata Priscilla a scegliere questo nome. Sai, in onore di Bilbo Baggins.” Camila annuisce. Non ha mai mangiato al McDonalds, ma ha letto Il Signore degli Anelli. “Quando lo abbiamo preso c’è stata un po’ di confusione sul nome da dargli. Come al solito, Davide e Priscilla hanno cominciato ad azzuffarsi. Lui voleva chiamarlo Azzurro.”

“Azzurro?”

“Biancoazzurro,” si corregge la donna. “In onore della Lazio,” aggiunge, sollevando le sopracciglia.

Camila ha avuto modo di conoscere la fede calcistica di Davide, attraverso i poster che ha intravisto nella sua stanza e attraverso le magliette sportive che ha lavato e steso ad asciugare.

“Ma Priscilla si è opposta,” riprende Simona. “Il cane è nero, non poteva chiamarsi Biancoazzurro, o Azzurro. Alla fine ha scelto di chiamarlo come un hobbit, perché è piccolo e peloso.

“E’ un nome originale,” dice Camila. “Gli sta bene. Bilbo era molto originale.”

“Ti va di portare il guinzaglio?” chiede l’altra. “Ormai sei con noi da quasi un mese. Bilbo ti considera di famiglia, e non è il solo,” dice, dandole un colpetto col gomito. “Avanti, guidalo tu alla ricerca del suo posto preferito. Cambia ogni giorno, lo sai. Chissà oggi dove ci porterà.”

Camila accetta il guinzaglio provando una strana sensazione nel petto. E’ come se Simona le avesse affidato un bene prezioso. E’ come se le avesse confermato, ancora una volta, che si fida di lei. Che le vuole bene.

 

***

 

“Camila? Puoi venire un secondo?”

La voce è quella di Giancarlo. Camila ha camminato sulle uova per tutta la mattinata, sapendolo in casa, ma si è rallegrata del fatto che l’uomo sia rimasto in un angolo del salone a leggere il giornale e a navigare su Internet. Ora però l’ha chiamata a rapporto.

Cosa vuole da me? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Vuole licenziarmi?

Spegne l’aspirapolvere con cui stava pulendo le scale e scende al piano di sotto. Dalla cucina arriva il profumo della lasagna al forno che Simona sta preparando.

“Eccomi,” dice con un sorriso. “Ha bisogno di qualcosa?”

Giancarlo si libera degli occhiali da vista e alza la testa dal tavolo. “Tieni,” dice, porgendole una busta bianca. “Il tuo primo assegno.”

Oh. Il mio primo stipendio.

“Grazie,” dice lei, accettando la busta senza aprirla.

“Grazie a te,” ribatte lui. Le sorride. “Avrei anche bisogno di una tua firma qui,” dice, indicando il foglio della busta paga.

“Certo.” Camila si china sul foglio e lascia il suo nome e cognome.

“Simona è molto felice di averti in casa,” dice Giancarlo a bassa voce, per non farsi sentire da sua moglie. “Anche i ragazzi lo sono. Sono adulti, è vero, quindi forse dovrebbero fare loro quello che fai tu, però sono contento che qualcuno si occupi di loro così bene. Oltre a Simona, è chiaro.”

E’ la prima volta che Giancarlo le fa un complimento di questo tipo. E’ la prima volta che riconosce, in pubblico, di apprezzare il suo operato in casa.

“Grazie,” dice Camila, allargando le spalle, a testa alta. “Anch’io sono contenta di essere qui, di lavorare per la sua famiglia.”

 

***

 

Prima dell’arrivo di Camila, Davide nasconde in casa una barretta al cioccolato.

Lo fa ogni giorno. Ogni santissimo giorno.

La nasconde nei cassetti in cui sa che Camila dovrà sistemare le posate. La nasconde nel portariviste, sapendo che sua madre chiederà alla ragazza di occuparsi di quelle da buttare. La nasconde nella tasca del giaccone di Camila, prima di salutare le donne di casa ed uscire per andare a studiare in biblioteca. E ogni volta, quando torna a casa e va a controllare, si accorge che la barretta non c’è più.

 

Camila è rimasta ad occhi aperti, quando ha trovato la prima barretta. Era nel porta spazzolini del bagno del piano di sotto. Non aveva idea di cosa potesse farci una barretta al cioccolato in quel posto, per cui – senza dire nulla a Simona – l’ha riposta nella dispensa, al solito posto.

Il giorno dopo ne ha trovata un’altra, stavolta nel ripostiglio dell’aspirapolvere e dei detersivi.

Il terzo giorno, la barretta al cioccolato era nella tasca del suo giaccone.

In quel momento ha capito che non si trattava di una coincidenza, né di una strana abitudine degli abitanti della casa.

Davide aveva lasciato le barrette per lei. Come quando erano bambini, come quando erano a Carovigno.

Dal quarto giorno in poi, ogni volta che ha trovato una barretta in giro per casa l’ha nascosta in tasca e l’ha mangiata durante il viaggio di ritorno al suo appartamento.

 

***

 

Davide e Camila si parlano poco in casa. In presenza di Priscilla e Simona, si limitano a conversare dell’argomento di cui si sta parlando, ma è raro che si guardino negli occhi.

Lui non vuole metterla a disagio.

Lei ha paura che sua madre e sua sorella possano capire che il loro rapporto è diverso da quello con gli altri.

A volte, però, si incontrano nel corridoio, o in salotto. A volte, quando Camila scende le scale per tornare al suo appartamento, lui le sale per rientrare a casa.

In quei momenti, quando sono da soli, Camila sente il battito del cuore accelerare senza motivo apparente. Davide, da parte sua, vorrebbe dirle qualcosa, intavolare una conversazione, ma tutto ciò che riesce a fare è sorridere.

Non è mai stato insicuro con le donne. Ha sempre saputo come fare colpo, come lasciare il segno.

Con Camila, invece, è diverso. Con lei si sente un idiota, incapace di andare oltre i regali nascosti al sapor di cioccolato e i sorrisi rubati di nascosto.

 

Una sera, due mesi dopo l’assunzione di Camila, lui e Giancarlo sono seduti sul divano a guardare una partita di Champions League. Priscilla e Simona sono ad una cena in pizzeria con la squadra di hockey.

“Che succede con Camila?” domanda ad un tratto il patrigno.

“Che succede?” gli fa eco Davide.

Giancarlo gli lancia un’occhiata. “Ho visto il modo in cui la guardi quando gira per casa. Sembri un cagnolino.”

“Ma che dici! Sono sempre all’università quando lei è qui. Non la vedo mai.”

Giancarlo non dice nulla, ma continua a guardarlo.

“Che c’è? Oh, per piacere. Non la guardo in nessun modo, non sono un cagnolino. Si alza dal divano.

“Perché te ne vai, allora?” domanda l’uomo, sorridendo.

“Ho da fare,” borbotta Davide.

“Oh, andiamo!” esclama mentre lo vede prendere la via delle scale. “Volevo solo prenderti in giro. Non le dirò che hai una cotta per lei, promesso!

“Smettila!” grida Davide di rimando. “Non c’è nessuna cotta. Finiscila!”

E’ chiaro anche al ragazzo, però, che scappare dal salotto ha dato a Giancarlo la conferma che aspettava.

 

***

 

“Camila, stai benissimo!” Priscilla sorride, seduta sulla sua poltrona, mentre un ragazzo dai tratti asiatici si accinge ad asciugarle i capelli.

Camila osserva la propria figura allo specchio, notando come i capelli lisci la rendano diversa, più giovane.

L’idea di andare dal parrucchiere è stata di Priscilla. La ragazza ha chiesto un parere a Camila in merito ad un nuovo taglio, e alla fine le ha chiesto di accompagnarla. Una volta giunte a destinazione, la sorella di Davide le ha proposto di occuparsi anche dei suoi capelli.

“Perché non ti affidi anche tu a Sergio?” le ha chiesto. “E’ il migliore.”

Camila ci ha pensato per un quarto d’ora, e alla fine ha deciso di concedersi un regalo. Ha chiesto a Sergio, questo è il nome del parrucchiere, di tagliarle i capelli di qualche centimetro e di renderli lisci durante l’asciugatura.

Era da tre anni che non si concedeva un momento simile. Da quando vive a Roma, infatti, non è mai andata dal parrucchiere. Non ha mai voluto sottrarre soldi dal suo fondo per il Brasile.

Ora, però, qualcosa è cambiato. Lavorare per i Falco l’ha cambiata. Si sente più sicura, più forte. Si sente meritevole di un attimo per se stessa, come quello che sta vivendo ora, dal parrucchiere.

Lavorare per tante famiglie diverse era un conto. Lavorare principalmente per una sola famiglia le ricorda i tempi in cui lavorava per i Bauer, o i tempi in cui si occupava della sua casa, delle sue pentole e del suo bucato.

Non si sente più una dipendente, una nomade. Si sente un membro della famiglia.

 

***

 

Le settimane passano.

Camila continua a lavorare per i Falco.

Davide continua a studiare.

Priscilla lavora in ospedale e si allena per le partite di hockey.

Giancarlo lavora e guadagna.

Simona manda avanti la casa in compagnia di Camila.

Bilbo si diverte a mordere il suo nuovo gioco di gomma, un regalo che Camila gli ha comprato quando ha saputo del suo quarto compleanno.

Tutto sembra normale. Tutto sembra procedere come al solito… ma così non è.

Qualcosa sta cambiando. Due cuori stanno cambiando.

Quello di Davide, e quello di Camila.

Comunicano con parole semplici, quando non sono soli, e con sorrisi luminosi quando invece lo sono.

Lei pensa a lui prima di addormentarsi. Lui fa lo stesso.

Vivono entrambi ciò che non hanno mai vissuto, e questo li spaventa, li mette a disagio.

E’ per questo che Camila non ha il coraggio di domandare a Davide di Alessia.

E’ per questo che Davide non ha il coraggio di domandare a Camila di suo marito.

 

Fino a che, un giorno, Camila resta dai Falco oltre le tre del pomeriggio. Simona vuole donare alla Caritas tutti i vecchi vestiti di Giancarlo e per farlo ha bisogno di radunarli, scegliere quelli che possono essere riutilizzati e chiuderli nei pacchi appositi. Per questo motivo chiede a Camila di rimanere oltre il solito orario. Camila accetta volentieri, e tra una camicia e un paio di pantaloni ascolta le parole di Simona, la quale decide di raccontarle parte della propria vita.

“Il mio primo matrimonio è durato diciotto anni. Cosimo, il padre di Priscilla e Davide, è morto quando loro avevano diciassette e nove anni. Avevo quarant’anni. Non pensavo che mi sarei potuta rialzare, sai? Ero pronta a dedicarmi esclusivamente a loro. Ero pronta morire come donna. Poi ho incontrato Giancarlo, e lui mi ha fatto cambiare idea su parecchie cose,” dice sorridendo.

“Ci siamo risposati cinque anni dopo, per lui era il suo primo matrimonio. La sua famiglia mi ha sempre rispettata molto, sai? Ero la vedova di un poliziotto, una madre di due figli. Mi hanno amata tanto, e hanno amato tanto anche i miei figli.

“L’idea di andarcene dalla Puglia è stata mia,” dice. “Non volevo che i ragazzi crescessero lì, dove loro padre era morto. Volevo ricominciare, volevo che loro ricominciassero un’altra vita. Resta per un po’ in silenzio, occupandosi di controllare che le camicie abbiano ancora tutti i bottoni, prima di metterle nella scatola delle cose da donare. “Giancarlo avrebbe voluto un figlio,” riprende poi. “Ma io non me la sono sentita. Non tanto per la mia età, quanto per… quanto per… Posso confidarti una cosa?” domanda, insicura.

“Sì,” risponde Camila. “Certo.”

“I miei figli non sono particolarmente legati a Giancarlo. Lo rispettano, gli sono affezionati, ma non… non l’hanno mai considerato come un padre. Priscilla era quasi una donna quando Cosimo è stato ucciso. Ha accettato il mio nuovo matrimonio, così come lo ha accettato Davide, ma so che… che non sono felici di lui. Sono felici per me, ma non amano Giancarlo come hanno amato il loro vero padre. Suppongo sia normale, no? Non posso pretendere il contrario.

“E’ per questo che ho preferito non avere altri figli. Chissà come l’avrebbero presa, come avrebbero reagito. Male, sicuramente. Avrebbero sofferto troppo nel vedermi madre di un fratello o di una sorella a metà. Si sarebbero allontanati ancora di più da Giancarlo, e lui avrebbe potuto…

Avrebbe potuto considerarli come figli di serie B. Camila completa la frase mentalmente, lasciando a Simona qualche minuto per sé.

Ogni essere umano nasconde una storia, lei lo sa bene. Anche Simona ne nasconde una, e nonostante abbia privato suo marito della possibilità di essere padre a tutti gli effetti, Camila non se la sente di giudicarla male.

Non può immaginare cosa Simona e i suoi figli abbiano passato quando Cosimo è morto. Non può immaginare cos’abbiano dentro Priscilla e Davide, in merito a quella grave perdita.

“Per favore,” dice Simona ad un certo punto, “non parlare di questo con Priscilla. O con Davide. Preferisco che loro non conoscano questi miei pensieri. Va bene?”

“Certo, signora. Non si preoccupi,” risponde immediatamente, per rassicurarla. “Sarò discreta.”

“Grazie, Camila.”

 

Le due donne restano in garage fino alle sei, e dopo aver sistemato i vestiti in apposite scatole rientrano in casa: Simona per preparare la cena, Camila per prendere le sue cose andare via.

“Grazie per avermi aiutata,” dice Simona, accompagnandola alla porta. “Chiederò al commercialista di conteggiare tre ore di straordinari nella prossima busta paga.”

“Oh, no, non si preoccupi,” si affretta a dire Camila. “Non ho fatto nulla di speciale.”

“Sì, invece,” ribatte la prima. “Mi hai dato tre ore del tuo tempo, e per questo ti ripagherò.”

Non lo sa, pensa Camila, ma mi ripaga ogni giorno, accogliendomi nella sua casa. Sorridendomi e ringraziandomi sempre con tanto calore.

“Va bene,” accetta alla fine. “D’accordo.”

Simona sorride. “Ehi, ti ho già detto che questo nuovo taglio ti sta d’incanto?” Le accarezza le punte dei capelli. “Sergio è proprio bravo, e il liscio ti dona tantissimo.”

“Grazie, signora.”

Simona apre la porta per far uscire Camila, ma si ferma quando si trova davanti suo figlio.

Il ragazzo ignora sua madre e si concentra su Camila. “Sei qui? Sei ancora qui?” domanda, incurvando le labbra in un sorriso.

“Sì,” rispondono all’unisono lei e Simona. “Camila mi ha aiutato a fare ordine in garage,” continua quest’ultima. “Domani andremo alla Caritas a portare un mucchio di vestiti per i bisognosi.”

Davide annuisce, ma continua a guardare Camila.

Da quando ha tagliato i capelli è ancora più bella. E le sue labbra, le sue labbra sembrano fatte di panna. Sono anche soffici come la panna?

“Vuoi che ti accompagni?” chiede. “Sono tornato a casa per posare i libri e prendere la macchina. Devo andare da un mio amico che abita nel tuo quartiere. Se vuoi posso darti un passaggio.”

“Vai con lui, Camila,” interviene Simona. “Arriverai sicuramente prima.”

“D’accordo,” dice la ragazza, stringendo il pugno nella tasca del giaccone. “Verrò con te.”

 

Scendono le scale uno accanto all’altro. I loro giubbotti sono praticamente attaccati.

“Non devi andare da un tuo amico,” dice lei quando sono davanti al portone. “Vero?”

Si guardano. Gli occhi scuri di Davide brillano come quelli azzurri di Camila. “No,” risponde il ragazzo. “Non devo andare da un mio amico.”

Salgono in macchina silenziosamente, senza parlare. L’unico rumore nell’aria è quello dei loro passi sul cemento.

E’ sbagliato, pensa Camila. Non posso sentirmi così su di giri.

“Hai lavorato molto oggi?” chiede Davide mentre mette in moto.

“No,” risponde lei. “Ho aiutato tua madre a mettere da parte alcuni vecchi vestiti di Giancarlo,” dice. “E stamattina abbiamo pulito i vetri.”

“Di nuovo? Ma non li avete puliti la settimana scorsa? Mi madre è ossessionata dai vetri,” dice sbuffando. “Pulisce sempre anche quelli della sua auto.”

Camila sorride, perché sa che è vero. Una volta, mentre erano in giro a fare la spesa, Simona si è fermata in una piazzola del raccordo per pulire i finestrini della sua piccola utilitaria.

“Non ti dà fastidio?” domanda Davide. “Che ti faccia fare sempre le stesse cose?”

Camila scrolla le spalle. “No,” risponde. “E’ il mio lavoro.”

Rispetto agli inizi, rispetto a quando l’ha rivisto per la prima volta nel suo appartamento, si sente più a suo agio con lui. Gli piace la sua compagnia. La desidera.

“Mica hai pulito la mia stanza?” domanda lui ad un tratto. “L’ho pulita io due giorni fa.”

Camila sorride. “No, non l’ho pulita.”

Evita di dirgli che due giorni fa Simona le ha fatto passare l’aspirapolvere e la cera speciale sul parquet. Sa che Davide ne risentirebbe, e non vuole dargli un dispiacere. Non vuole che si mortifichi.

“Hai trovato la barretta di oggi?”

Camila infila la mano nel giaccone e gli mostra il pezzo di cioccolato. “Stai diventando sempre più audace,” dice, scartandola e spezzandola in due. “E se Giancarlo si fosse accorto della barretta nel suo comodino?” Gliene porge metà. Lui sorride e l’accetta.

“Per fortuna sei arrivata prima di lui,” ribatte, facendole l’occhiolino.

“Come va con gli esami?” domanda Camila. “Sei a buon punto?”

Lui annuisce. “Sto studiando come un disperato,” commenta. “Voglio laurearmi in fretta.”

Davide si volta a guardarla per un momento lungo. La strada che conduce al raccordo è deserta, per cui indugia sui suoi occhi per molto.

“Stai bene così,” dice a bassa voce.

A differenza della sera al McDonald’s non se ne pente, non si corregge.

“Come?”

“I nuovi capelli,” dice. “La nuova acconciatura. Sei più… sei ancora più bella.”

Da quanto tempo un uomo non le faceva un complimento? Mesi. Anni.

“Grazie,” risponde lei.

Restano in silenzio, un silenzio carico di emozione.

Vorrei tanto fermarmi e darle un bacio. Dirle che Alessia ed io non ci vediamo più. Chiederle ancora una volta di suo marito. Ho promesso, è vero, ma ho bisogno di sapere, voglio sapere.

In questi tre mesi mi ha parlato, ha accettato le mie barrette, mi ha sorriso sempre. Che significa? Cosa significa questo per lei? Mi desidera? Mi vuole semplicemente bene?

“Alessia ed io non stiamo più assieme,” dice, gli occhi nella direzione di lei.

Camila, nel sentire le sue parole, avverte uno strano tonfo proprio all’altezza del cuore. Per tre mesi si è domandata se lui e la sua coinquilina fossero ancora una coppia. Non ha più visto Davide all’appartamento, e non ha più sentito Alessia parlare di lui con Ida, ma ciò non vuol dire che potessero vedersi altrove.

Adesso ha finalmente avuto risposta alla domanda che per tutto questo tempo si è posta.

“Oh. Non lo sapevo.”

“Ora lo sai,” dice lui sorridendo.

Un altro lungo momento di silenzio. Oltrepassano l’uscita che tre mesi prima li ha condotti al McDonald’s e sorridono entrambi, guardandosi negli occhi.

La radio accesa fa da sottofondo ai loro pensieri, alle parole che muoiono nelle loro rispettive gole.

Una volta raggiunta casa di Camila, Davide parcheggia e spegne il motore.

Entrambi restano fermi nei propri sedili.

Questo fine settimana Priscilla andrà in Sardegna, te l’ha detto?” chiede Davide.

“Sì. Per una partita,” risponde lei. “Giusto?”

“Esatto. Il campionato è ripreso, la sua squadra andrà in trasferta. Mia madre e Giancarlo l’accompagneranno.”

“Davvero? Questo non me l’ha detto,” mormora Camila. “Partiranno venerdì?”

“Esatto, venerdì sera. Priscilla giocherà sabato pomeriggio. La squadra rientrerà sabato sera in aereo, ma loro rimarranno lì fino a domenica.

“Tu non vai?”

Davide sorride e scuote il capo. “No. Io resto qui.”

Resta qui per me? Resta qui per rimanere con me? Dovrò lavorare anche venerdì e sabato? Perché Simona non mi ha detto nulla?

Davide stringe la cintura di sicurezza con due mani per farsi coraggio, per racimolare il coraggio di cui ha bisogno per fare il prossimo passo. L’idea gli è venuta quando ha saputo della partita di Priscilla, quando ha collegato le date. L’ha elaborata a sufficienza, per tre settimane. Ha perfino immaginato un discorso da fare a Camila; discorso che, neanche a dirlo, ora ha completamente dimenticato.

Slaccia la cintura e si volta verso di lei, inspirando prima di riaprire la bocca.

“Sabato è il tuo compleanno. Non so se hai impegni, ma se non ne hai… lo passeresti con me? Verresti a cena con me per festeggiare il tuo compleanno?

Camila allarga gli occhi in segno di stupore. “Come fai… come lo sai? Come fai a sapere che è il mio compleanno?

“Ho curiosato fra i documenti di Giancarlo,” risponde subito.

“Perché?”

“Perché sono curioso,” ribatte pronto. “Allora? Hai qualche impegno per sabato sera? La domenica è il tuo giorno libero, forse hai-

“Accetto,” risponde Camila. “Va bene,” aggiunge. “Verrò a cena con te.”

“Davvero?”

Annuisce e gli sorride.

“Magnifico,” commenta lui, estasiato. “Perfetto.”

 

***

 

I successivi due giorni passano in un lampo, sia per lui che per lei.

Venerdì mattina, Davide va a comprare un nuovo vestito per l’appuntamento con Camila. Ne ha tanti, nell’armadio, ma con lei non vuole usare un completo già indossato con Alessia, o con altre ragazze.

Lo stesso giorno, Simona e Giancarlo comunicano a Camila che sabato non dovrà recarsi a lavoro, e le danno appuntamento a lunedì mattina.

“Priscilla mi ha detto che domani è il tuo compleanno,” dice Simona. “E’ un peccato che noi saremo fuori città, ma lunedì festeggeremo come si deve, ok?”

Camila arrossisce. “Non ce n’è bisogno, signora, grazie.”

“Non dire così,” interviene Giancarlo. “Possiamo andare a cena fuori se per te non è un problema. E basta con questo ‘signora’ e ‘signore’. Puoi darci del tu. Giusto?”

“Giusto,” ribatte Simona. “Glielo dico da un po’ di tempo, ormai, ma si ostina a usare il lei. Allora, ricapitolando: domani sei in vacanza. Davide rimarrà qui perché deve studiare, ma saprà badare a se stesso e a Bilbo. Tutto chiaro?”

Camila è presente solo fisicamente. La sua mente vola già a sabato sera.

“Tutto chiaro,” risponde alla fine.

Prima di ritornare al suo appartamento, augura ai Falco un buon fine settimana. Saluta Bilbo prendendolo in braccio e fa l’in bocca al lupo a Priscilla per la sua partita.

 

Di ritorno dall’aeroporto, Davide guida con il sorriso sulle labbra al pensiero della serata che lo attende il giorno dopo. Il sorriso si allarga ancora di più quando, una volta a casa, trova un biglietto sulla sua scrivania. Gliel’ha lasciato Camila. Contiene il suo numero di telefono e un messaggio scritto in corsivo: Così possiamo rimanere in contatto.

Il ragazzo vorrebbe telefonarle, parlarle, ma non vuole fare la figura del ragazzino. Camila è una donna, e vuole trattarla come tale. Senza essere infantile, o pedante, o asfissiante.

Per questo si limita ad inviarle un messaggio. Le dice che ha trovato il biglietto e le augura una buona serata. Lei risponde con unGrazie. Buona serata anche a te. A domani. che lo manda (ancora una volta) in estasi.

 

***

 

Camila si guarda allo specchio per l’ennesima volta. Il vestito che indossa è finito in valigia, quella notte, per puro caso. Non l’ha mai utilizzato in questi tre anni, proprio perché si tratta di un vestito. Una gonna non è l’indumento più comodo per pulire i pavimenti.

Si guarda e si riguarda allo specchio, cercando di capire se la sua scelta è adatta.

Il vestito è di velluto nero. Arriva alle ginocchia, ed ha una fascia orizzontale di seta proprio sotto il seno. In questo modo, la gonna cade sui fianchi e sulle gambe senza risultare aderente, senza rivelare le sue forme. Lo scollo è quadrato, e il tessuto è arricciato in corrispondenza del seno. Le maniche sono lunghe, a palloncino.

Camila ricorda esattamente il giorno in cui ha comprato il vestito. Ricorda di averne comprato anche un altro dello stesso modello, ma color verde smeraldo.

Le scarpe che ha ai piedi sono basse e nere. Le ha comprate ieri pomeriggio, ad un negozio del suo quartiere. Un’altra eccezione al suo regime economico fatto di ristrettezze e sacrifici.

Compio 32 anni, si è detta. Mi merito qualcosa di bello, qualcosa di speciale. Mi merito una serata speciale con Davide.

Fin dal mattino si è occupata di se stessa.

Ha lavato con cura i capelli, e li ha pettinati come ha visto fare al parrucchiere di Priscilla e Simona. Li ha resi lisci grazie al balsamo e ad una maschera al cocco che, oltre a domare i suoi ricci, li ha anche profumati. Dopodiché ha passato in rassegna il suo armadio, e ha quasi pianto di gioia quando ha scoperto di avere un vestito di velluto. Se ne era completamente dimenticata.

Ha scelto un paio di collant velati, neri come l’abito, e ha fatto una prova generale, indossando tutto. E ora, come questa mattina, stenta a riconoscersi. Ha perfino osato un velo di rossetto chiaro sulle labbra, e un accenno di fard rosa sulle guance.

Non possiede gioielli. Quella notte non ha pensato neanche per un minuto a portare con sé il suo portagioie.

Si guarda allo specchio e vede una persona diversa, una nuova Camila.

E proprio quella Camila, la nuova, fa una domanda alla vecchia Camila. Una domanda importante. Una domanda scomoda.

Sei ancora decisa a partire? Vuoi ancora lasciare l’Italia? Vuoi ancora usare i tuoi risparmi per andartene in Brasile? Sei cambiata, in questi mesi. Sei di nuovo felice. Hai conosciuto persone magnifiche, persone da cui non devi necessariamente scappare. Davide può proteggerti. Davide può amarti.

Camila scaccia via l’ultima domanda rapidamente. La cancella dalla mente, dimenticando di aver pensato ad una simile possibilità.

Davide è un ragazzo. E’ giovane, è curioso, è ancora acerbo sotto certi aspetti. Non ha vissuto ciò che ho vissuto io. Non è mai stato povero, o spaventato. Ha sofferto la morte di suo padre, soffre ancora per essere lontano da Carovigno, ma io non sono l’altra parte della sua mela. Io non posso cercare in lui l’amore di cui ho bisogno. Davide non può salvarmi di nuovo.

 

***

 

“Ehi, Camila!”

Ida esce dalla sua stanza e vede Camila camminare verso l’ingresso. Nota il suo abbigliamento, il trucco sul viso, i capelli acconciati. “Wow!”

Alessia si affaccia dalla porta della cucina, colpita dalla voce della sua amica.

“Dove stai andando?” chiede Ida. “Non dirmi che esci.”

Alessia scoppia a ridere, come se la cosa fosse impossibile. Camila alza la testa e allarga le spalle.

“Ho un appuntamento,” dice, continuando verso la porta. “Buona serata.” Apre la porta e mette un piede fuori, ma poi ci ripensa. Torna indietro e raggiunge le due ragazze in cucina. “Mi sono stancata di pulire le vostre camere,” dice. “Da oggi in poi dovrete arrangiarvi.” Riesce solo a vedere l’espressione di sorpresa di Alessia prima di girare i tacchi e andarsene.

Col sorriso sulle labbra.

 

Davide indossa lo stesso sorriso, e quando arriva sotto casa di Camila riesce a malapena a trattenersi dall’esultare come dopo un gol della sua squadra del cuore.

Lei sale a bordo lentamente, facendo attenzione a non sgualcire il velluto e a non far rompere i collant. Il suo profumo dolce colpisce Davide immediatamente, facendolo sorridere ancora di più.

“Buon compleanno,” esordisce, avvicinandosi per darle un bacio sulla guancia.

Lei non si tira indietro. “Grazie,” risponde, chiudendo gli occhi quando le labbra di lui si fermano più del dovuto sulla sua pelle.

“Sei bellissima,” sussurra Davide al suo orecchio.

“Grazie,” ripete Camila, prima di osservarlo meglio. I suoi capelli biondi sono freschi di shampoo, e le guance sono rasate alla perfezione. Indossa un completo color grigio topo, con una camicia della stessa tonalità. Non ha la cravatta.

Anche tu sei bellissimo, pensa, ma non lo dice. Se ne vergogna.

“Sei pronta per andare a festeggiare?” chiede lui.

“Dove andiamo?”

“Ho prenotato in un ristorante fuori Roma,” risponde Davide. “Si chiama La Ventola, ci sei mai stata?”

“No.”

“Si trova sulla Pontina, dovremmo viaggiare per un po’, ma è un gran bel posto. Non ci vado da tanto tempo, ma la cucina è sempre buona.

Anche questa non è stata una scelta affidata al caso, o all’abitudine. Per il compleanno di Camila, Davide non ha voluto un ristorante qualsiasi, o una delle tante pizzerie in cui ha sedotto le sue ex. Ha scelto La Ventola perché lì ha mangiato spesso con la sua famiglia nelle domeniche passate all’aperto, a contatto con la natura, soprattutto in primavera e in estate. Ha scelto quel ristorante perché è un luogo tranquillo, e lui desidera proprio un po’ di tranquillità per sé e per Camila.

“Come sta Bilbo?” domanda lei. “Ti sei occupato di lui?”

“Sissignora. Questa mattina si è accorto che non c’eri.

“Davvero? Non ci credo.”

“Sì, invece. Ogni settimana, di domenica, quando passano le nove e capisce che non arriverai, va alla porta e inizia ad abbaiare. Diventa nervoso.”

“Sul serio!?” esclama lei. “Non lo sapevo!”

“Già,” riflette lui. “Credo che nessuno se ne sia accorto, che nessuno abbia collegato il suo nervosismo al fatto che tu non ci sei.” Si ferma per un secondo. “Io l’ho fatto perché divento nervoso come lui quando tu non ci sei.”

 

***

 

Seduti al tavolo apparecchiato per due, Camila e Davide hanno appena finito di ordinare la cena. Sono entrambi tesi ed emozionati, ma cercano di non darlo a vedere.

“Com’è andata la partita di Priscilla?” domanda Camila ad un tratto.

“Hanno perso,” risponde Davide. “Sette a due.”

“Che peccato. Priscilla ci teneva tanto a vincere.”

“E’ vero,” risponde lui. “E’ la più grande della sua squadra, e non potrà giocare ancora per molto. Questo è, probabilmente, il suo ultimo campionato. Sarebbe bello se riuscisse a concluderlo in testa, o almeno nelle prime posizioni.

“E’ da tanto che gioca?”

Davide beve un sorso di Coca Cola e annuisce. “Ha cominciato a Carovigno. Io giocavo a calcio, lei a hockey. I nostri genitori l’accompagnavano tre volte a settimana a Brindisi per farla allenare. Carovigno non aveva una squadra di hockey all’epoca… e neanche ora, credo. Quando ci siamo trasferiti a Roma è rimasta un anno ferma. Non riusciva neanche a prendere il bastone in mano. Lasciare la sua squadra di Brindisi non è stato facile per lei. Poi nostra madre ha cercato di farla reinserire, e pian piano ha ricominciato.

Camila pensa alle parole di Simona, quel giorno nel garage. Immagina quanti sacrifici abbia fatto per far sì che i suoi figli continuassero ad essere sereni.

“Tu non hai ripreso a giocare, invece.”

Davide scuote il capo. “A Carovigno giocavo per due ragioni. La prima: frequentare i miei compagni di classe anche di pomeriggio. La seconda: accontentare mio padre.”

“Era lui a farti giocare?”

“No,” dice dopo un attimo di riflessione. “In realtà non mi sono espresso a dovere. Da bambino adoravo mio padre. Era il mio mito, il mio eroe. Qualsiasi cosa lui facesse io cercavo di imitarlo. Pensavo che, così facendo, mi avrebbe voluto ancora più bene. Sarei stato ancora più bello e più bravo. Sorride, vergognandosi della sua ammissione. “A mio padre il calcio piaceva molto, moltissimo. Ero contento di giocare perché sapevo di renderlo contento. Quando segnai il primo gol festeggiai per diverse settimane, ma non per il gol in sé: ero semplicemente felice di aver reso orgoglioso mio padre.”

Camila ha gli occhi lucidi. “Sono certa che tuo padre ti volesse molto bene. Indipendentemente dalle tue prodezze calcistiche.”

Davide annuisce. “L’ho capito col tempo,” dice, “ma alla fine l’ho capito.”

 

***

 

“Qual è il tuo eroe?” domanda Davide, dopo che il cameriere ha portato via i piatti vuoti dell’antipasto.

“Il mio eroe?”

“Sì. Il mio era mio padre, il tuo? Una persona a cui ti sei ispirata da bambina, oppure una persona che ammiri moltissimo.

Camila non deve riflettere molto. La risposta è ben chiara, nella sua mente.

“Se ti dico che il mio unico eroe sono io, me stessa, faccio la figura della presuntuosa?”

“No,” dice lui. Avvicina la mano alla sua, la sfiora. “No,” ripete.

Camila abbassa lo sguardo, ma non si sottrae al tocco di Davide.

“I miei genitori non mi hanno insegnato molto,” continua lei. “O meglio: ciò che mi hanno insegnato non mi avrebbe mai e poi mai condotta qui, dove sono adesso. Non sono mai stati dei buoni esempi per me.

“Come hai fatto, allora?” chiede lui a bassa voce. “Come hai fatto a non diventare come loro?”

“Non lo so,” risponde, genuinamente sorpresa. “Non ne ho idea. Forse mi sono aggrappata ad un sogno, alla speranza che le cose potessero andare meglio. Forse tu mi hai aiutata.”

“Io?!

Camila annuisce. “Tu,” dice con un nodo alla gola. “Mai nessuno… mai nessun estraneo si era occupato di me o preoccupato per me. Diamine, neanche i miei stessi genitori si preoccupavano per me. Quando camminavamo vicini si scansavano, mi dicevano che puzzavo. Come se avessi delle colpe per il fatto che non potevo lavarmi. Tu invece non l’hai fatto. Tu non ti sei mai allontanato da me. Forse mi hai dato speranza. La speranza che le cose potessero migliorare, che anche gli altri potessero interessarsi a me. Volermi bene.”

Gli occhi lucidi, stavolta, sono quelli di Davide.

 

***

 

La cena procede lentamente. Le pietanze arrivano calde e ben cotte al tavolo, e i camerieri sono precisi e cortesi. Camila e Davide mangiano due porzioni di pasta ai funghi, due di carne ai ferri e poi decidono di dividere un grande piatto di patatine.

Mentre mangiano, continuano a parlare, a conoscersi. Camila è molto più aperta al dialogo rispetto alla cena al Mc, ma non si lascia mai scappare nulla degli anni in Basilicata, né di suo marito.

Davide muore dalla voglia di sapere, ma ha fatto una promessa e desidera mantenerla.

 

“Tua madre mi ha detto che volevi chiamare Bilbo ‘Azzurro’,” dice Camila ad un certo punto.

“E’ vero,” risponde lui sorridendo. “Per qualche giorno sono passato da Azzurro a Biancazzurro, ma alla fine Priscilla ha vinto.”

“Azzurro è un nome da principe,” scherza Camila. “Non un nome da cane.”

“Azzurro è un gran bel nome,” precisa lui, sollevando l’indice come farebbe un professore. “Potrei chiamarci mio figlio, così. Azzurro, o Biancazzurro. Quello sarebbe il primo nome. Il secondo sarebbe Lazio.”

Camila ride. “Smettila!” dice. “Quei bambini ti odierebbero, non appena capirebbero ciò che gli hai fatto.”

“Hai ragione,” concorda lui. “Sarebbe un gesto crudele.” Beve l’ultimo sorso di Coca Cola prima di farsi più serio. “Allora, sei pronta per il dolce? E’ il tuo compleanno, del resto.”

“Il dolce? Dobbiamo ordinare anche il dolce?”

“No,” risponde lui con un sorriso. “Quello l’ho ordinato io prima di venire qui.”

Davide chiama il cameriere che si è occupato di loro e gli chiede di portare la torta.

“La torta?” chiede Camila. “Hai ordinato una torta?”

“E’ il tuo compleanno, no? Una torta mi sembra il minimo.”

Camila non crede ai suoi occhi quando vede arrivare un piccolo carrello con su un vassoio rotondo. Sul vassoio è appoggiata una torta ricoperta interamente di cioccolato. Sulla torta c’è una piccola candela rosa. E’ accesa.

I presenti si voltano al passaggio del carrello. Alcuni sorridono, quando capiscono che si tratta di una sorpresa. Tutti immaginano che si tratti della sorpresa di Davide per la sua fidanzata, Camila.

Il cameriere appoggia il vassoio al centro del tavolo, mentre un altro arriva con una bottiglia di spumante, due bicchieri, due piattini e due forchette da dolce.

“Buon compleanno,” dicono i due a Camila.

“Grazie,” dice lei, appoggiando una mano sul petto per illudersi di poter fermare il cuore.

Tutti gli occhi sono puntati su di lei, ma quelli che la catturano sono gli occhi di Davide, quelli più felici. “Grazie,” ripete, quando i camerieri si allontanano. “E’ meravigliosa. E’ bellissima,” dice, guardando la torta.

“Ed è anche buonissima,” le fa eco lui. “Proviene dalla migliore pasticceria di Roma. Mia madre, quella golosona, potrà confermare. Impiega qualche secondo per aprire la bottiglia di spumante, e lo versa nei due bicchieri.

“Allora,” riprende. “Hai pensato al desiderio da esprimere?”

Camila guarda la piccola fiammella della candela con il cuore palpitante e pieno di gioia, ma anche di malinconia, di domande e di dubbi.

Qual è il mio desiderio, adesso? Cosa desidero?

Alza lo sguardo sul viso di Davide, e nei suoi occhi trova la risposta.

“Sì,” dice. “Ho pensato.”

“Bene, allora soffia ed esprimi il tuo desiderio.”

E Camila lo fa. Chiude gli occhi, si avvicina al vassoio, e come una bambina esprime il suo desiderio nascosto. Il desiderio che non avrà mai il coraggio di rivelare a nessuno. Il desiderio che non si avvererà mai.

 

***

 

Il viaggio di ritorno a Roma è silenzioso, e non perché i due ragazzi non abbiano nulla da dirsi. I loro animi sono confusi, tesi. Nello stesso modo, per lo stesso motivo… anche se non lo sanno.

Camila stringe fra le mani la scatola contenente la parte di torta al cioccolato e panna che non sono riusciti a mangiare.

Davide stringe il volante, fra le mani, cercando di riorganizzare i pensieri. “Hai passato una bella serata?” domanda quando il silenzio inizia a disturbarlo. La sua voce è profonda, più profonda del solito.

“Sì,” sussurra Camila. E poi, a voce più alta: “Sì. Ho passato una serata bellissima.”

Lui la guarda, le sorride. “Ne sono contento. Buon compleanno, Camila.”

“E’ stato il mio compleanno più bello.”

“Il più bello in assoluto?”

“Sì,” risponde, gli occhi bagnati di lacrime a cui non sa dare una spiegazione. “Il compleanno più bello. Qui a Roma. Con te.”

Davide allunga una mano e le accarezza la guancia. Lei inclina la testa e si lascia toccare, coccolare. Chiude gli occhi. Sospira.

“Sono più grande di te,” dice ad un tratto, senza rendersene conto, senza volerlo effettivamente dire. Apre gli occhi e vede che Davide la sta guardando. “Sono più grande di te,” ripete.

Davide non sa cosa dire. Vorrebbe ribattere con un sarcastico ‘E allora?’, ma non se la sente di rovinare l’atmosfera. “Perché ci pensi?” chiede invece. “Perché pensi alla nostra età?” La sua mano, dal viso si abbassa sul grembo di lei. Camila la chiude nella sua.

“Perché è la cosa più semplice,” risponde Camila. “E’ la cosa più facile a cui pensare adesso.”

“Che vuoi dire?”

Si ritrova a frenare sotto casa di Camila senza rendersene conto. Sono arrivati.

Slaccia la cintura e prende la scatola con la torta per appoggiarla sul cruscotto.

“Che vuoi dire?” ripete. “Perché parli della nostra età? E’ un problema per te?”

Si volta verso di lei, e si avvicina di qualche centimetro. Con la mano le sfiora i capelli, il viso.

“Che c’è, Camila? A che pensi?”

Quante cose vorrei dirti, Davide. Vorrei raccontarti tutto, ma se lo facessi cosa accadrebbe? Mi faresti licenziare? Mi faresti scoprire? Mi allontaneresti? Smetteresti di essere così dolce con me?

Non posso, Davide. Non posso seguire ciò che mi dice il cuore. E’ impazzito, negli ultimi mesi. Tu l’hai fatto impazzire, tu l’hai reso pazzo.

Davide si avvicina ancora di più, fino a prendere il viso di lei fra le mani.

Non riesco a rifiutarti, a scostarmi da te. Le tue mani sono così morbide, così soffici.

“Penso di essermi innamorato di te quando ti ho vista nelle docce di Carovigno. Lo sai?”

“No,” dice lei, trattenendo le lacrime. “No.” Scuote il capo velocemente, stringe gli occhi.

Non dirlo, ti prego. Non dirmelo.

“Invece sì,” ribatte Davide. “Ero solo un bambino, e per me non eri altro che una curiosità, una specie di fiaba. Ma forse mi sono innamorato già allora, chi lo sa?” Non smette di accarezzarle le guance con i pollici. Non smette di cercare i suoi occhi. “Ho sempre avuto voglia di proteggerti, Camila. Sia allora che adesso. Non so perché, ma è così. E non mi importa se sei più grande di me. L’età non conta. Tu sei meravigliosa. Non piangere, per favore. Perché piangi? E’ per tuo marito?”

Promessa rotta. Non mi importa neanche di questo, adesso.

“Perché piangi?”

“Io non posso,” dice lei asciugandosi gli occhi, allontanandosi da lui. “Per me non è come… io non provo quello che…

“Allora dimmelo,” sussurra lui. “Dimmi che non provi niente per me. Dimmi che in queste settimane, ogni volta che siamo rimasti soli, non hai provato niente qui. Davide prende la mano di Camila e se la porta al petto, sul cuore. “Dimmi che non provi niente... e ti lascerò stare. Non ti disturberò più, te lo prometto.”

Camila risponde stringendo le dita attorno alla sua mano. Non gli è mai stata così vicina. Non ha mai desiderato così tanto essere vicina a qualcuno.

“E’ sbagliato...” prova a dire, ma la voce muore in gola.

“Perché? Perché sei più grande di me? Perché lavori in casa mia? Adesso ti bacio, Camila. Adesso ti do un bacio. Poi mi dirai se quello che proviamo è davvero così sbagliato.

Camila non lo ferma, quando lo vede avvicinarsi. Non si tira indietro, non lo blocca.

Non blocca neanche se stessa. Non riesce a farlo. Non vuole farlo. Nonostante sia sbagliato, nonostante una parte di lei le stia gridando di fermarsi.

Lo bacia.

La bacia.

Si baciano. Per la prima volta.

Davide trema. Camila ha paura.

I loro cuori battono all’impazzata mentre le labbra si incontrano con dolcezza, con candore.

Quel candore che Camila non ha mai provato. Quel candore che Davide non conosceva prima di incontrare Camila.

Si abbracciano, si stringono. Lui le accarezza i capelli, il viso.

Si lasciano andare entrambi: a ciò che sentono dentro, alla passione che li guida, all’istinto.

“Ciò che provo per te non è sbagliato.” E’ Camila a parlare. La voce le trema, così come le mani. Davide le stringe nelle sue, mentre respira il suo profumo, la sua pelle. “Non è sbagliato,” ripete lei. “Ma mi fa così tanta paura che non so… che non so fare altro che scacciarlo, che scacciarti.”

Davide sorride. “Lo hai sempre fatto,” dice. “Lo hai sempre fatto, fin da quando eravamo bambini. Mi scacciavi dalle docce, volevi che ti lasciassi in pace. Ricordi?”

Lei annuisce, mordendosi l’interno della guancia.

“Ma sono tornato, o sbaglio? Mi hai scacciato, ma sono tornato. Puoi farlo anche adesso, Camila. Puoi scacciarmi. Ma anche stavolta mi vedrai tornare. Tornerò sempre per te, perché ti amo.”

Il cuore di Camila si stringe fino a scoppiare.

“Davide.” Gli getta le braccia al collo, lo stringe. Lo bacia di nuovo, e di nuovo si lascia baciare.

 

“Vieni con me,” le dice Davide ad un tratto. Le sue labbra sono rosse, così come quelle di Camila. “Non sono pronto a lasciarti andare. Non stasera. Non dopo questa sera. Vieni a casa mia.”

Camila dovrebbe rifiutare.

Ma non lo fa. Tutto ciò che riesce a fare è ascoltare il suo cuore, seguirlo, rispondere al suo disperato appello.

E’ in nome del suo cuore che accetta la proposta di Davide.

E’ in nome del suo cuore che fa l’amore con lui.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Rieccomi

Rieccomi. Aggiornamenti veloci, spero ne siate contenti. Prima di lasciarvi alla lettura ho alcune cose da dire.

1. Grazie per tutto l’affetto che state dimostrando a me e a questa storia. Leggo come sempre ogni commento, e gongolo nel sapervi così appassionati. Grazie anche a chi consiglia questa storia in giro per il web. Grazie davvero.

2. Ho elevato il rating da giallo ad arancione. Non credo che ce ne sarà effettivo bisogno, però nel dubbio ho preferito fare in questo modo.

3. Sia per questo capitolo che per lo scorso, un GRAZIE grande quanto tutto il Raccordo Anulare a Lele Cullen, che ha letto in anteprima e mi è stata di grande aiuto e conforto.

4. Il ristorante La Ventola esiste sul serio, ed è un gran bel posto.

5. Il capitolo 16 non arriverà prima di domenica prossima.

 

Ok, credo di aver detto tutto. Buona lettura.

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Capitolo 15

 

Umberto e Camila sono stati sposati per undici anni. Per la legge italiana, a dire il vero, continuano ad esserlo, anche se non vivono più nella stessa casa da tre anni. Da quando, cioè, Camila è scappata.

 

Si sono sposati giovanissimi. Lei aveva appena diciassette anni, lui ventidue. Al loro matrimonio hanno partecipato la numerosa famiglia di lui, con tanto di cugini e zii fino al quarto grado, e la famiglia di lei, composta solo dai suoi genitori. Al ricevimento erano presenti anche gli amici più stretti di Umberto, venuti appositamente dalla Germania. Nei tre anni trascorsi in quel paese, Camila non ha avuto modo di farsi delle amiche, e per questo motivo al suo matrimonio gli unici suoi amici erano quelli di Umberto.

 

Una volta conclusasi la cerimonia, una volta augurato buon viaggio ai rispettivi genitori, Camila e Umberto hanno iniziato un nuovo capitolo della propria vita.

Lui è stato assunto da una fabbrica produttrice di stoviglie in plastica: posate, piatti di ogni forma e dimensione, bicchieri più o meno grandi. Camila, invece, ha imparato a tutti gli effetti ad essere una casalinga. In un’abitazione in cui lei e suo marito avevano scelto i mobili (modesti, ma dignitosi), le mattonelle, i sanitari, Camila ha imparato ad occuparsi del suo uomo, a fare la moglie, a guidare la casa nella maniera giusta.

Alla fine del mese, quando Umberto portava a casa i soldi guadagnati, Camila si occupava di dividerli in base alle spese da sostenere (rate per la macchina, per i mobili). Umberto le lasciava carta bianca. Si fidava della sua esperienza, della sua maturità. L’ha sempre considerata, a ragione, una donna responsabile.

E Camila lo era. Si svegliava sempre prima di Umberto, al mattino, per preparargli il caffè e il pranzo da portare al lavoro. Lo accompagnava alla porta dandogli un bacio prima di salutarlo e augurandogli buona giornata. Si occupava della casa e del giardino, coltivandolo con amore e devozione. Pagava le bollette, faceva la spesa, chiacchierava con le vicine di casa, donne più grandi di lei che l’hanno sempre trattata con simpatia, considerandola una mini-sposa, a causa della sua giovane età.

Ogni giorno, Camila aspettava in giardino che Umberto tornasse. Lo accoglieva in casa chiedendogli come avesse passato la giornata, e promettendogli una cena buona e saporita.

Camila ha sempre mantenuto la sua promessa, infatti in un anno Umberto è ingrassato di ben dieci kg grazie (o a causa) alla sua buona cucina. Sola per gran parte della giornata, in un piccolo paese di montagna in cui gli svaghi erano inesistenti, Camila non faceva altro che testare le sue capacità ai fornelli. Primi, secondi, ma in particolare i dolci: le sue pietanze erano leggendarie, e più di una volta le vicine hanno chiesto a lei (la mini-sposa) consigli su come arricchire le proprie tavole.

Camila e Umberto conducevano una vita tranquilla, fatta di pochi lussi ma di molte risate. Di sacrifici e di amore. Di conoscenza e di complicità.

 

Un mese dopo il loro primo anniversario di nozze, i due hanno iniziato a pensare di avere un bambino. Camila aveva diciotto anni, e Umberto era pronto a diventare padre.

Hanno provato ininterrottamente per due anni, ma senza alcun risultato, ad eccezione di dolore, frustrazione e conseguente rifiuto.

Il dolore era di entrambi, soprattutto all’inizio.

La frustrazione era di Camila, soprattutto quando sua madre, dalla Germania, iniziò ad insinuare che il suo corpo potesse avere dei problemi gravi e che l’assenza di un figlio potesse pregiudicare negativamente il matrimonio di sua figlia. Camila desiderava un po’ di calore materno, un po’ di affetto, di incoraggiamento. Voleva che Sofia le dicesse: Tranquilla, amore. Prima o poi ce la farete. Non preoccuparti.

Invece ottenne derisione all’inizio e raccomandazioni sbagliate poi.

Cerca di fare un figlio, Camila. Che razza di donna sei, senza un figlio? Umberto andrà a cercarlo altrove, se non glielo darai tu. Muoviti.

Umberto cercava di tranquillizzarla come meglio poteva, ma anche lui, dopo che i suoi genitori iniziarono a fare commenti sbagliati, smise di crederci, di credere nella possibilità di fare un figlio con Camila. E la incolpò di tale mancanza. Le disse, in maniera neanche troppo velata, che avrebbe dovuto farsi controllare, per risolvere i problemi che gli impedivano di diventare padre. Tutti quelli che lavoravano con lui in fabbrica avevano uno o più figli, e lui era stanco di essere l’unico incapace di averne.

E io non sono stanca secondo te? chiedeva Camila. Che colpa ne ho se non riusciamo ad avere bambini? Perché deve essere per forza colpa mia?

 

Fu in quel periodo, al terzo anno di matrimonio, che Umberto iniziò a frequentare due suoi colleghi che a Camila non piacevano per nulla. Entrambi sposati, entrambi più grandi di suo marito, vivevano e si comportavano non come due umili operai, ma come i proprietari della fabbrica. Avevano macchine grandi e potenti, e vestivano meglio degli altri colleghi di Umberto. Il loro atteggiamento era sicuro e spavaldo, e a Camila non piaceva. Non le piaceva neppure che Umberto li frequentasse, che parlasse sempre di Carmelo e Federico, che cercasse di imitarli nelle piccole e nelle grandi cose. Erano sposati, i due, e a Camila non piacevano neanche le loro mogli. Avevano più o meno quarant’anni, ed erano sempre o troppo truccate o troppo arrabbiate. Con loro, Camila si sentiva a disagio, imbarazzata.

Non voleva passare il suo tempo con quelle persone, e non voleva che lo facesse Umberto, ma a lui non interessava molto il parere sospettoso di Camila circa i suoi nuovi amici.

Così iniziarono i litigi. Diversi da quelli degli inizi, dispettosi e infantili, quasi. I nuovi litigi erano intensi, crudeli, e si concludevano sempre con Umberto che rinfacciava a Camila la sua incapacità di procreare.

Che vuoi da me. Lasciami perdere. Carmelo e Federico sono brave persone, mi vogliono bene! Andremo a cena a casa loro, basta!

Camila accettava sempre le decisioni di suo marito. Per quieto vivere, perché non pensava di poter fare altro, perché sua madre aveva sempre accettato le decisioni di suo padre.

Nessuno le aveva spiegato cosa vuol dire essere una moglie. Non aveva nessuno con cui confidarsi, e non voleva farlo con Sofia, sua madre. Sapeva che da lei non avrebbe mai potuto trovare i consigli e la comprensione di cui aveva bisogno. Per queste ragioni, chinava la testa ed ubbidiva, taceva, diceva sì.

 

Tacque e ubbidì anche al quinto anno di matrimonio, quando Umberto decise di licenziarsi dalla fabbrica di plastica. Inutile dirlo, dietro la sua scelta c’erano Carmelo e Federico.

Gestiremo un deposito, guadagneremo parecchio.

Un deposito di cosa? domandava legittimamente sua moglie.

Un deposito per gente che carica e scarica roba.

Che roba?

Cristo, quante domande che fai! Non sei contenta? Avrai più soldi! Potrai anche mandare qualcosa ai tuoi in Germania.

Umberto non le disse cosa nascondeva il deposito. Non le disse che si era licenziato come operaio per iniziare a fare il ricettatore. Non le disse che il deposito era un porto di carico e scarico di merce rubata.

Guadagnava di più, è vero. Guadagnava molto di più.

Pagarono tutte le rate ancora in sospeso, comprarono una nuova automobile, molto simile a quelle di Carmelo e Federico. Camila inviava mensilmente una somma di denaro per aiutare sua madre e suo padre, e ad ogni domanda che avrebbe voluto fare si mordeva la lingua.

Credeva alle rassicurazioni di suo marito, nonostante arrivassero in maniera brusca. Credeva al fatto che non avrebbe mai potuto fare un lavoro disonesto.

E poi, per la prima volta da quando era nata, Camila non doveva preoccuparsi dei soldi. Vivevano bene, non facevano più sacrifici. Andavano al ristorante una volta alla settimana. O al cinema, a Potenza. Umberto le regalò un bracciale d’oro in occasione del settimo anniversario di nozze, e un nuovo set di pentole, migliore del primo e molto più costoso. Avevano un computer, avevano la tv satellitare nelle tre stanze in cui possedevano un televisore.

Camila domandava di rado degli affari al deposito. Non è mai stata una stupida, ma è stata un’ingenua.

Nel deposito, Umberto, Carmelo e Federico si occupavano di smerciare, rincarando il prezzo, merce rubata da supermercati, gioiellerie, negozi di abbigliamento, librerie. Vendevano ai commercianti in regola che non volevano pagare tasse o ad altri delinquenti, e compravano dai ladri della zona o da gente di malaffare proveniente dalle regioni confinanti. Avevano parecchie conoscenze nel settore. Facevano parte di una rete ben radicata nel territorio, e non solo quello lucano.

Una volta sola, Camila chiese ad Umberto perché spesso usciva a mezzanotte per rientrare all’alba. Lui le rispose: Queste cose non ti riguardano. Hai i soldi, non fare domande.

Fu la prima volta che lei ebbe paura. Della sua voce, del tono con cui le parlò. Minaccioso, quasi.

Decise di trovarsi un passatempo, allora. Uno svago che potesse allontanarla dalle brutte sensazioni che nutriva verso Umberto e verso il suo lavoro. Comprò una macchina fotografica, un modello relativamente costoso e moderno, e iniziò a scattare foto. Passeggiava sui monti vicini alla sua casa e fotografava le rocce, i fiori, gli arbusti secchi come lei. Fotografava gli animali al pascolo, i cani randagi, le piante rigogliose del suo giardino. Comprò libri sulla fotografia, imparò ad usare un programma per modificare gli scatti e renderli più belli.

Dimenticò, grazie alla fotografia, di non avere un figlio, di non essere in grado di farne. Dimenticò i litigi con Umberto, la sua assenza, in casa e nel suo cuore. Dimenticò la Germania, i Bauer, la Puglia, Carovigno.

 

Umberto, invece, stava bene. Gioiva della sua attività, pur sapendo che in ogni momento rischiava la galera. Era tranquillo, credeva di essere invincibile.

Ed effettivamente lo era. Il capannone gestito da lui e dai suoi amici, sepolto nelle campagne disabitate e mai frequentate, gli permetteva di avere una vita agiata, priva di problemi. Non doveva più alzarsi all’alba per andare a lavorare in fabbrica. Non doveva più sottostare al volere del capo turno. Era padrone di se stesso.

Avrebbe voluto che Camila avesse gioito con lui, e invece no. Lei faceva domande, cercava di interessarsi troppo, di sapere. Lo guardava sempre come se sapesse che stava nascondendo qualcosa di losco, e lui non poteva sopportarlo. Per questo, anche quando non c’era motivo, l’aggrediva con veemenza, umiliandola e offendendola. Non mancava di ricordarle che non avevano figli, e che la colpa era solo ed esclusivamente sua.

A dire il vero ad Umberto non interessava più avere un bambino. Era talmente preso dagli affari che l’idea era completamente passata in secondo piano. Umiliare Camila, però, lo faceva sentire meglio. Addolciva, in questo modo, il senso di colpa sepolto dentro di sé.

 

Tutto cambiò al nono anno di matrimonio, nel 2005, quando Camila trovò una pistola sotto il sedile dell’auto di Umberto. Aveva perso gli occhiali da sole, e provò a cercarli usando la mano, chinandosi in avanti mentre erano in viaggio verso il loro ristorante preferito. Al posto degli occhiali afferrò il metallo freddo della canna della pistola.

Umberto frenò di colpo quando si rese conto di ciò che stava accadendo. Camila gridò per lo spavento.

Lei chiese spiegazioni. Tremando.

Lui mentì, dicendo che l’arma era di un suo amico che gli aveva chiesto di nasconderla per un breve periodo di tempo.

Lei mise in dubbio la sua parola, e gli domandò delle sue frequentazioni, dei suoi discutibili soci.

Gridarono entrambi, fermi in macchina sul ciglio della strada.

Lui era arrabbiato con se stesso, per non essere stato più furbo e per non aver nascosto meglio la pistola. Lei era spaventata, disgustata, distrutta.

La pistola cambiò tutto. Il loro matrimonio cessò di essere un matrimonio, e divenne qualcosa di incomprensibile, di indefinibile.

Camila aprì gli occhi e vide ciò che aveva mancato di vedere per tutti quegli anni.

Suo marito, assieme a Carmelo e Federico, era un delinquente. I soldi con cui vivevano erano soldi sporchi, macchiati di chissà quale crimine. Non aveva prove, ma la sua anima parlava più di qualsiasi indizio.

Iniziò a dormire sul divano, ad uscire quando lui rientrava, a chiudersi a chiave in camera quando lui tornava a casa prima del previsto.

Lui le parlava a stento, limitandosi a tenerla d’occhio, sperando che non facesse qualcosa per metterlo nei guai. I suoi amici gli consigliarono di mettere le cose a posto con sua moglie, di regalarle una crociera o un altro bracciale, per farla tacere e per calmarla, ma Umberto sapeva che quelle cose non avrebbero funzionato con Camila.

Sapeva che sua moglie era incorruttibile. Sapeva di averla passata liscia nel corso degli anni per puro miracolo.

 

Camila continuava a fotografare ciò che la circondava. La macchina fotografica era tutto ciò che riusciva a regalarle un sorriso, e una parvenza di normalità.

Smise di inviare soldi ai suoi genitori, e questi non tardarono con le lamentele. Provò a spiegare loro che si trovava in una situazione delicata, che il suo matrimonio era in crisi, ma sua madre non volle sentire ragioni.

Mandaci qualcosa e sistema il matrimonio! E fai un figlio! Quello ti aiuterà a sistemare tutto!

Ad un certo punto Camila smise di chiamarli e di rispondere alle loro telefonate. Erano talmente egoisti, crudeli e privi d’amore, che sotto certi aspetti erano perfino comici, grotteschi.

Passava le giornate all’aperto, a fotografare e a pensare. Pensava alla sua vita, a ciò che aveva raggiunto e a ciò che desiderava raggiungere. Aveva 27 anni, era sposata da dieci anni, non aveva un figlio, non aveva un lavoro, non aveva niente.

Aveva tanta paura, questo sì. Paura di vivere con suo marito, di parlargli, di farlo infuriare.

Umberto non era stato mai un violento, eppure aveva una pistola. Come poteva essere certa che non l’avrebbe mai usata? Come poteva dormire tranquilla, sapendo che suo marito aveva affidato ad un’arma la sua sicurezza personale? In che guai era? Come poteva fare per riportarlo sulla retta via?

Ci aveva già provato, inutilmente. Aveva provato a parlargli, a convincerlo ad allontanarsi dai suoi amici, da quel maledetto deposito. Voleva che tornasse ad essere la persona degli inizi. Era disposta a rinunciare ai piccoli lussi conquistati negli anni pur di riavere l’Umberto che aveva sposato quando aveva diciassette anni. L’Umberto che le diceva ‘Ti amo, farfallina’ ogni mattina, prima di andare in fabbrica. L’Umberto che non era un delinquente.

Le parole di Camila erano finite nel vento. Ogni suo tentativo scatenava l’ira di Umberto, ira che a sua volta determinava la paura della ragazza.

Spaventata, terrorizzata, decise di rivolgersi a coloro che secondo lei potevano aiutarla. Coloro che avevano i mezzi e l’autorità per riportare all’ordine suo marito.

Andò alla caserma dei Carabinieri del paese in cui vivevano, e parlò per due ore con il maresciallo di turno, un uomo alto e magro. Gli raccontò del deposito, del fatto che Umberto non le aveva mai permesso di avvicinarsi alla costruzione abbandonata. Gli disse del quantitativo ingente di soldi che da un giorno all’altro avevano iniziato ad entrare in casa, gli disse del comportamento sospettoso di Carmelo e Federico. Gli disse dei suoi brutti presentimenti.

Il maresciallo l’ascoltò annuendo, chiedendole qualche dettaglio in merito alla zona in cui era ubicato il deposito e in merito agli amici di suo marito. Le chiese da quanti anni fossero sposati, e si mostrò meravigliato quando capì che si era sposata a diciassette anni.

Alla fine si alzo e la invitò a fare altrettanto. Le disse: Signora, in base a ciò che mi ha detto non posso fare nulla. Se ha dei problemi con suo marito è con lui che deve risolverli. Pensa che l’Arma non saprebbe nulla, se suo marito portasse avanti qualche attività illecita? Torni a casa e parli con lui, cerchi di risolvere la situazione con calma. Questa è una caserma, non un’agenzia matrimoniale.

Camila allora gli disse della pistola nascosta sotto il sedile dell’auto, e il maresciallo si sedette di nuovo. Ascoltò con maggiore attenzione l’ultima parte del racconto, prendendo perfino appunti, e alla fine della conversazione le consigliò di rivolgersi ad un avvocato, per tutelare i suoi interessi personali. Noi andremo a fondo con questi elementi, disse l’uomo in divisa. Cercheremo di vederci chiaro, non si preoccupi. Nel frattempo, però, si rivolga ad un avvocato, e cerchi di allontanarsi da suo marito, se proprio non si sente al sicuro. Noi non possiamo fare più di questo.

Quella sera, quando tornò a casa, trovò Umberto ad attenderla.

Non appena mise piede in casa, proprio dopo aver chiuso la porta, le diede uno schiaffo. La sua forza la costrinse al muro e le fece appannare per un attimo la vista.

Carmelo e Federico erano stati avvertiti da qualcuno all’interno della caserma, forse proprio dal maresciallo con cui Camila aveva appena parlato. Sapevano che lei stava facendo ciò che non avrebbe mai dovuto fare. Sapevano che rappresentava un pericolo per le loro attività illegali.

Umberto, in qualità di marito del problema, fu incaricato di risolvere la faccenda, con le buone o con le cattive. Egli scelse le cattive, colpendo ripetutamente sua moglie in pieno viso.

Pensi che non sapessi nulla, eh? Pensi che io non sappia niente di quello che fai? Che pensi di fare, eh? Mi vuoi denunciare? Vuoi denunciare tuo marito? Perché non ti impicci dei fatti tuoi? Perché devi sempre fare danni? Perché non la smetti di causarmi soltanto problemi? Problemi su problemi, ecco cosa sai fare. Sei sempre stata un problema, sempre!

Camila pianse, inginocchiata sul pavimento freddo del corridoio. Sentiva la guancia scottare a causa degli schiaffi, e il cuore batterle all’impazzata nel petto.

Me ne vado!, gridò. Me ne vado, ti lascio! Disse la prima cosa che le passò per la mente. La sua mente si stava ribellando. L’istinto le stava dicendo cosa fare.

No!, ribatté lui, piegandosi sulle ginocchia per tirarle i capelli. No! Tu non te ne andrai, cara mia. Tu rimarrai qui. Dove pensi di andare, eh? Pensi di farmi paura, Camila? Pensi di potermi distruggere? Tu non sai con chi hai a che fare, bella mia. Non sai chi sono io, non sai di cosa sono capace.

Era vero. Umberto diceva il vero. Camila era all’oscuro di molte cose, in quel momento. Non sapeva, ad esempio, che la pistola non era l’unica arma in possesso di suo marito, e che proprio una settimana prima aveva puntato un coltello alla gola di un uomo in debito con lui e con gli altri due soci. Non sapeva, ad esempio, che la ricettazione non era l’unica attività praticata nel deposito. Nel corso degli anni si erano ingranditi, avevano diversificato le loro attività. Erano anche usurai, adesso, e volevano a tutti i costi diventare sempre più potenti, sempre più influenti nella zona. Da qualche mese, infatti, avevano abbracciato l’idea di gestire anche un piccolo traffico di droga.

Non potevano permettersi un errore proprio in quel momento. Non potevano permettere che Camila portasse alla luce ciò che per tanti anni avevano occultato così bene.

Non sai di cosa sono capace, ripeté l’uomo. E non vuoi neanche scoprirlo. Ascoltami bene, Camila: non provarci mai più, d’accordo? Non ficcare mai più il naso in ciò che non ti riguarda, va bene?! La prossima volta non sarò così gentile, ti avviso.

La lasciò sul pavimento, scavalcando il suo corpo esile per aprire la porta e tornare al deposito, a rassicurare i suoi soci.

 

Camila se ne andò quella notte stessa. Infilò in una valigia i suoi averi più importanti, compresa la sua amata macchina fotografica. Non si voltò quando uscì di casa per scappare verso la stazione. Salutò mentalmente i suoi mobili, i vestiti ancora appesi nell’armadio, le pentole in cui aveva cucinato pranzetti da gourmet e i libri letti durante gli anni. Ripensò alle vicine che all’inizio la chiamavano mini-sposa, pensò alla Germania e ai suoi genitori, pensò alla vecchia Golf color amaranto di Carovigno.

Scappava senza sapere dove, senza un piano, senza risorse, ad eccezione delle poche centinaia di euro che aveva nel portafoglio. Salì sul primo treno in arrivo nella stazione deserta, un treno di quelli che si fermano a tutte le stazioni. Si guardò indietro prima di vedere la porta chiudersi. Nessuno sapeva dove fosse, o almeno così sperava.

Pensò ad Umberto, ai pochi anni in cui erano stati felici.

 

A bordo del treno seppe che l’ultima fermata era a Roma. Decise che sarebbe scesa lì, e che nella capitale avrebbe deciso cosa fare della sua vita. Sapeva di non poter tornare in Germania: Umberto l’avrebbe sicuramente cercata lì, una volta resosi conto della sua fuga. Non poteva tornare a Carovigno: lui avrebbe cercato anche in quel posto.

Roma era l’unica alternativa, l’unica tappa possibile. A Roma avrebbe ricominciato a vivere. Non sapeva ancora come, ma di una cosa era certa: non sarebbe più tornata indietro. Non avrebbe messo di nuovo a repentaglio la propria vita.

Umberto vagò per tutta la notte alla ricerca di Camila. Andò a svegliare perfino le vicine di casa, chiedendo loro se l’avessero vista o sentita. Il giorno dopo prese un aereo e andò in Germania per riportare a casa sua moglie. Era convinto che si fosse rifugiata lì, ma sbagliava. L’aveva sottovalutata.

Anche Carmelo e Federico iniziarono a cercarla, silenziosamente – per non dare nell’occhio e far sospettare chissà cosa. La cercarono per settimane, mesi. Chiesero aiuto a vecchi amici, delinquenti come loro, e agli amici degli amici.

Niente. Camila era svanita nel nulla.

A Umberto premeva fare in modo che sua moglie tenesse la bocca chiusa, che non parlasse con la Polizia. Non sapeva molto, ma lui e gli altri non potevano correre alcun rischio.

Non era interessato ad altro. Non era dispiaciuto né addolorato per il modo in cui il loro matrimonio si era disintegrato. Non voleva una moglie al suo fianco. Voleva soltanto che sua moglie non parlasse.

 

Umberto e i suoi soci l’hanno cercata per un anno intero, continuando con gli affari illegali. Alla fine si sono arresi.

Forse è morta. Forse si è tolta la vita.

Forse è scappata in Francia, ha sempre detto che voleva andare in Francia.

Francia o non Francia, se avesse voluto farci del male l’avrebbe già fatto, no? Non credo ci darà problemi.

Non lo so, io non mi fiderei se fossi in te. Tua moglie è una mina vagante. Può esplodere da un momento all’altro.

Non mi è mai piaciuta, devo dirtelo. Ho sempre avuto il sentore che potesse creare problemi.

Dopo un anno hanno smesso di cercare.

 

Camila ha trovato un lavoro e una casa nella capitale.

Umberto ha continuato a guadagnare soldi sporchi in Basilicata.

Camila ha cercato con ogni mezzo di mimetizzarsi, di dimenticare e di rifarsi una vita. Ha iniziato a risparmiare per poter partire di nuovo, per potersi allontanare ancora di più dall’uomo che ha sposato. Ha scelto come destinazione il Brasile, il paese in cui – così dicono – è sempre estate. Ha continuato a scattare foto e a cucinare piatti nuovi. Non ha mai contattato un avvocato per proteggersi da Umberto o per chiedere la separazione. Ha avuto paura di farlo, di riavvicinarsi a suo marito anche in questo modo.

E poi ha incontrato Davide. E ha accettato il lavoro a casa della sua famiglia. E si è innamorata.

Già, si è innamorata. Del ragazzo che l’ha riconosciuta dopo diciassette anni, che l’ha protetta dalla coinquiline superficiali e le ha offerto la cena più buona che lei abbia mai mangiato. Il ragazzo che è sì più piccolo di lei, ma che è anche dolce e generoso come mai nessun altro è stato. Lo era quando aveva sette anni, quando ha rubato le scarpe di sua sorella per regalarle a lei, e lo è ora, ora che a dividerli non c’è solo l’età.

Camila ci pensa, adesso che porta a spasso il piccolo Bilbo, scodinzolante e desideroso di trovare al più presto il posto adatto per fare i propri bisogni. Lei gli sta dietro, reggendo il guinzaglio, e pensa.

Pensa alla notte trascorsa con Davide. Pensa alle conseguenze dell’aver fatto l’amore con lui. Vorrebbe possedere in sé la forza di riconoscere l’oggettivo errore compiuto, ma pur sforzandosi non riesce a sentirsi in colpa.

Con Davide ha provato un attimo di amore sincero che non provava da molto tempo. E’ stata coccolata, trattata come una principessa. Si è sentita protetta anche fra le lenzuola, grazie a lui.

Cosa succederà adesso? Quanto cambierà il nostro rapporto?

Non avrei dovuto, non avrei dovuto aprirmi fino a questo punto. Me ne andrò, pensa. Me ne andrò in Brasile, non appena avrò messo assieme i soldi necessari. Camila ha deciso, e non intende cambiare idea. Davide non lo sa ancora, ma dovrò dirglielo. Non può esserci nulla fra di noi. Sarebbe bello, però. Sarebbe bello se potessimo stare insieme.

I pensieri, i sogni e i sensi di colpa si accavallano nel cuore e nella mente. Secondo dopo secondo, passo dopo passo. Bilbo si ferma accanto ad un’aiuola del parcheggio condominiale e poi riprende a trotterellare sull’asfalto della strada deserta.

 

Proprio lì, nascosti in una berlina nera, Umberto, Carmelo e Federico stanno osservando la passeggiata di Camila.

 

Due settimane fa Umberto ha ricevuto la telefonata da un suo amico di Roma, Massimo, il quale si è trovato ad elaborare, per conto del commercialista per cui lavora, una delle buste paga di Camila. Massimo ha riconosciuto il nome e l’indirizzo della donna. Ella, infatti, risiede ancora in Basilicata.

Non appena si è accorto della coincidenza, ha telefonato ad Umberto e lo ha avvertito. Per anni, Massimo ha acquistato merce rubata dai tre soci. Cinque anni fa si è ritirato dagli affari per iniziare una famiglia, e grazie a sua moglie ha trovato lavoro come ragioniere presso il dottor Manzoni. Nonostante sia uscito materialmente dal giro, ha mantenuto vivi i rapporti con Umberto e i suoi amici. I tre si sono rivolti anche a lui quando Camila è scomparsa, ma in quell’occasione Massimo non è riuscito ad aiutarli.

Due settimane fa, invece, ce l’ha fatta.

Immaginate lo stupore di Umberto quando, tre anni dopo, ha saputo dove si trovasse sua moglie.

Immaginate il suo stupore quando Federico e Carmelo hanno deciso di partire per Roma per andare a cercare Camila.

 

Ed eccoli, adesso. Tutti e tre nella stessa auto. Hanno viaggiato di notte, proprio come ha fatto Camila. Sono stati discreti ed accorti, proprio come ha fatto lei per tutto questo tempo.

L’amico di Roma è stato utilissimo. Ha fornito loro due indirizzi, quello dell’appartamento di Camila e quello dell’appartamento delle persone per cui lavora. Per due giorni, due giorni interi, hanno seguito in silenzio i suoi movimenti.

L’hanno vista uscire di casa, l’hanno vista infilarsi nella metropolitana. L’hanno vista quando ha comprato le scarpe per la cena con Davide, l’hanno vista mentre lo baciava sotto casa, nell’auto di lui.

Sono lì, adesso. Lì, sotto casa di Davide. E la guardano mentre cammina lenta con lo sguardo basso, mentre porta a spasso il cane nero.

Il sole sta spuntando. La strada è deserta, il quartiere è ancora addormentato.

“Prendila” dice Carmelo a Umberto, prima di accelerare nella direzione di Camila.

Lei si accorge in ritardo della frenata alle sue spalle. Non capisce cosa sta succedendo. Non riesce a vedere le facce delle persone all’interno dell’auto. Riesce solo a lasciare andare il guinzaglio di Bilbo e a lanciare un grido che nessuno sentirà, prima di essere strattonata all’interno della vettura.

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I carabinieri corrotti sono una minuscola minoranza rispetto ai carabinieri che fanno il proprio lavoro con onore e che rispettano la divisa, la legge e lo Stato.

La Basilicata non è l’unica regione d’Italia ad ospitare delinquenti. Ho preferito non dare un nome al paese in cui Camila ha vissuto per non offendere nessuno, o creare riferimenti inopportuni.

 

Grazie fin da ora.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Grazie per ogni commento

Grazie per ogni commento. Grazie moltiplicato per mille.

 

Buona lettura.

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Capitolo 16

 

Quando Davide avverte il lamento di Bilbo provenire dall’ingresso, sorride e si reca di corsa alla porta. Addosso non ha altro che i boxer, indumento che ha indossato quando Camila è uscita con Bilbo e lui si è offerto di preparare la colazione.

Quando apre la porta, però, ad attenderlo c’è solo il suo cane.

Bilbo entra di corsa, trascinandosi dietro il guinzaglio che ha ancora legato al collo.

“Ehi,” dice Davide, a nessuno in particolare. “Dov’è Camila?”

Il cane non può rispondere, ovviamente, per cui tutto ciò che il ragazzo può fare è uscire sul pianerottolo e affacciarsi nella tromba delle scale. “Camila? Camila?”

Ma Camila non c’è. Ma Camila non risponde.

Davide rientra in casa, senza preoccuparsi di chiudere la porta. Attraversa il corridoio, il salone, ed esce sul terrazzo che affaccia sul parcheggio in cui Camila e Bilbo sono scesi a passeggiare. “Camila?” La cerca fra le auto, si sporge sulla ringhiera fino a vedere il citofono… ma Camila non c’è.

Dov’è andata? Mi sta facendo uno scherzo?

“Bilbo?” chiede al cane, raccolto nel suo cesto. “Dov’è Camila?” Va di nuovo all’ingresso, e di nuovo sbircia nelle scale. Nulla.

Rientra – stavolta chiude la porta – e va ad affacciarsi ad ogni finestra che copre i quattro lati della casa.

Camila non c’è.

“Dove sei, Camila? Ti sei nascosta?”

Davide pensa di chiamarla, ma l’idea va in fumo quando ricorda che il cellulare della ragazza è ancora nella sua borsa. E’ uscita con addosso il suo cappotto, un paio di pantaloni sportivi e un paio di ciabatte che Davide le ha prestato.

Non può essere andata chissà dove. E’ scesa per accompagnare Bilbo, ha detto che sarebbe ritornata presto. Mi ha dato un bacio prima di uscire di casa.

Davide passa i successivi dieci minuti all’aperto. Affacciato ai balconi, alle finestre. Grida il nome di Camila, la cerca con gli occhi fra le poche auto presenti nel parcheggio, ma lei continua a non esserci.

Bilbo se ne sta nel suo cesto, con la testa appoggiata sulle zampe e il guinzaglio attorcigliato attorno al corpo. Di solito Davide si occupa di sganciarlo immediatamente dal collare, ma adesso non ci pensa.

Tutto ciò a cui pensa è Camila, e al fatto che sembra essere scomparsa nel nulla.

I minuti passano, e in Davide si fa strada la preoccupazione. Infila una vecchia tuta, un paio di scarpe, e scende in strada. Chiama il suo nome, ma lei non risponde. Raggiunge l’estremità ovest del parcheggio e poi il marciapiede al lato della stradina che Camila può aver percorso con Bilbo.

E lì la vede, capovolta sul cemento: una delle sue ciabatte. Cammina svelto, fino a chinarsi e a prenderla.

“Che diavolo…”

Si guarda attorno, chiama il nome di Camila, ma la strada è deserta, così come il campo abbandonato che si trova di fronte a lui.

“Camila? Camila?”

Che cosa è successo? Dov’è andata?

Davide non sa cosa fare. Non ha idea di cosa può essere successo nei dieci minuti in cui Camila è scesa per portare a passeggio Bilbo, ma la preoccupazione è tanta, è forte. Torna al palazzo correndo, e arriva in casa salendo i gradini velocemente. Nelle mani, la sua ciabatta scura.

Va nella sua camera da letto, e fra i vestiti accumulati sul pavimento riesce a trovare la borsa di Camila.

Forse mi ha fatto uno scherzo. Forse ha portato con sé il cellulare.

Ma invece no, il telefono di Camila è lì, in una delle tasche laterali.

Il tempo passa. Il sole spunta definitivamente su Roma e illumina a dovere l’abitazione dei Falco, ma a Davide non importa del sole. A Davide importa di Camila. Vuole sapere dov’è, cosa le è successo.

“Dove sei?” chiede, spostandosi da una stanza all’altra senza una meta precisa. “Dove cazzo sei?”

E poi gli viene un’idea. Un’idea in parte triste, ma pur sempre un’idea.

Se n’è andata. Si è pentita di ciò che abbiamo fatto, si è pentita di ieri sera, e se n’è andata. Ha lasciato Bilbo nel palazzo e se n’è andata. Avrà camminato fino alla fermata dell’autobus, e con quello ha raggiunto la metro.

Con quali soldi? gli chiede un’altra voce. Con quale abbonamento? La borsa è qui, ricordi? Il suo borsello è qui. E perché ha perso la ciabatta? Perché non è tornata indietro per prendersela?

Davide ignora le ultime domande che la sua mente gli ha proposto e prende le chiavi dell’auto. Stacca il guinzaglio dal collare di Bilbo e gli raccomanda di non combinare guai. Lo fa mentalmente, frettolosamente. Esce di corsa, e di corsa parte verso la fermata dell’autobus. La trova vuota, ad eccezione di un uomo che legge il giornale e fuma una sigaretta. Procede allora verso la fermata della metropolitana, ma senza schiacciare sull’acceleratore. Camila potrebbe essere su uno dei marciapiedi, e lui non vuole perdersela.

Non so perché è scappata, ma non può essere già tornata a casa. O forse… forse sì, forse è già a casa.

Davide entra sul raccordo violando due o tre norme sulla precedenza, e guida a passo spedito fino all’abitazione di Camila. Frena malamente nel parcheggio del palazzo, lo stesso parcheggio in cui meno di dodici ore prima le ha dichiarato il suo amore.

Ha avuto paura? si domanda. Le mie parole l’hanno spaventata fino a farle desiderare di scappare?

Davide evita l’ascensore, fermo all’ultimo piano, e prende le scale. Deve suonare il campanello cinque volte prima di ricevere risposta. Ad aprirgli la porta è un’Alessia parecchio assonnata. I suoi occhi sono in parte chiusi, ma si aprono di scatto quando si accorge di Davide.

“Davide? Che vuoi?” chiede. Alle sue spalle, la casa è avvolta dal buio.

Davide ha l’affanno. “Devo parlare con Camila,” dice senza pensarci due volte. “Puoi chiamarla, per cortesia? Oppure… puoi farmi entrare?”

“Camila? Camila non c’è,” risponde la ragazza. “Che cosa vuoi da lei?”

“Devo parlarle,” incalza lui. “E’ già tornata?”

“Tornata? Da dove? Senti, Davide, qui non c’è nessuno. Ci siamo solo io e Ida, posso assicurarti che Camila non c’è. Perché vuoi parlarle?”

Alessia non sembra arrabbiata, né in procinto di diventarlo. Forse l’agitazione che legge sul viso di Davide l’aiuta a capire che non è il caso di essere acida.

Davide d’altra parte, si sente completamente smarrito. Forse deve ancora rientrare. Forse ha deciso di fermarsi altrove, in un parco. Forse è tornata a casa, e io sono qui!

“Maledizione!” esclama, gridando come Alessia non l’ha mai visto fare.

Ciò nonostante si fa da parte e apre completamente la porta. “Entra,” gli dice. “Non rimanere lì.”

Una volta in casa, gli occhi di Davide vanno immediatamente alla porta della camera di Camila. Senza chiedere il permesso, attraversa il corridoio e prova ad aprirla, ma senza successo: la porta è chiusa.

“Perché è chiusa?” chiede, guardando Alessia, ancora ferma all’ingresso. “C’è qualcuno dentro?”

“No,” dice lei sottovoce, per non svegliare Ida. “Lei chiude sempre la sua porta quando esce… lo facciamo tutte. Ma si può sapere qual è il problema? Perché la stai cercando?” Gli si avvicina, scalza e con addosso il pigiama. “Perché la cerchi? Si può sapere cos’è successo?”

“Sei sicura che non sia venuta qui?” chiede lui, evitando di rispondere. “Magari dormivi, magari…”

Una porta alle loro spalle si apre. E’ Ida. “Ehi. Si può sapere che succede? Perché state gridando?” Anche i suoi occhi sono mezzi  chiusi. Anche lei è in pigiama.

“Hai visto Camila?” chiede Davide. “E’ tornata a casa?”

“Camila?” gli fa eco lei. “No,” risponde. “E’ uscita ieri sera, ed è rimasta fuori tutta la notte. Perché? A te che importa?” Ida lancia uno sguardo alla sua amica. “L’hai chiamato tu? Avete fatto pace?”

“No,” risponde in un soffio Alessia. “No.” Guarda Davide, la cui mano è ancora ferma sulla maniglia della porta. “Sei uscito con lei, vero? E’ per lei che hai-”

“Non ci credo,” interviene Ida, ora più sveglia che mai. “E’ la pazza? La persona per cui hai… con Alessia… è la pazza?

“Non chiamarla così,” sibila Davide. Lo fa puntando un dito sul suo viso. “Non ti azzardare mai più a chiamarla in quel modo, mi hai capito?” Si volta poi verso Alessia. “Dov’è la chiave di questa stanza? Avete un doppione?”

Tutto ciò che lei riesce a fare è scuotere il capo.

“Maledizione.”

“Si può sapere che cosa è successo?” domanda Alessia. “Perché la stai cercando qui?”

“Perché è sparita!” esclama lui in preda alla disperazione. “Perché è sparita e non so dov’è!”

Alessia non ha mai visto Davide in condizioni simili. L’ha visto sereno, divertito, eccitato. L’ha visto mortificato, quando gli ha sputato contro il veleno e la delusione nei suoi confronti, ma non l’ha mai visto così… spaventato.

“Perché non la chiami?” domanda. “Io ho il suo numero, possiamo-”

“No, no! Ha lasciato il telefono da me ed è scomparsa, ed è passata più di un’ora ormai.

Alessia ritira velocemente la mano che stava per appoggiare sulla spalla di Davide. Hanno passato la notte insieme, pensa. Sono andati a cena fuori e hanno passato la notte assieme.

Nei mesi passati dalla sfuriata alla biblioteca, Alessia ha avuto modo di dimenticare Davide e la cocente delusione a seguito del modo in cui lui l’ha trattata. Adesso, però, adesso che lo vede così preoccupato per Camila… per la pazza… non può fare a meno di sentirsi nuovamente ferita.

Era lei la ragazza per cui mi ha lasciata. E’ sempre stata lei. Ecco perché non voleva che la prendessimo in giro: era attratto da Camila fin da allora, fin da subito.

Alessia vede Davide combattere con la porta. Cerca di aprirla, anche con una spallata.

“Sei impazzito?” chiede Ida. “Non puoi buttarla giù, o la padrona di casa ci farà pagare i danni! Perché la cerchi qui?” continua. “E’ uscita con te, è stata con te… ora che vuoi da noi?”

Davide si ferma, rendendosi conto (forse per la prima volta da quando Bilbo è tornato a casa da solo) che si sta comportando come un matto. Le due ragazze lo guardano con sorpresa, ma anche con disagio.

“Non so dov’è,” mormora, lasciando la maniglia. “Non è da lei… Non se ne sarebbe mai andata senza dire niente. Devo trovarla.”

“Quanto tempo fa ti sei accorto che è sparita?” chiede Alessia.

“Non lo so,” risponde Davide, controllando l’orologio. “Trenta minuti, quaranta minuti.”

“Allora forse sta venendo qui. Forse sta per arrivare.” Si passa una mano fra i capelli biondi e sospira. “Vado a fare il caffè,” dice, voltandosi per andare in cucina.

“Io me ne torno a letto,” dice Ida. “Non voglio saperne niente delle vostre cose. Spero di riuscire a prendere di nuovo sonno.

Davide la vede chiudersi la porta della sua camera alle spalle, bofonchiando qualcosa che somiglia molto a ‘Stronzo’, ma non ha il tempo di preoccuparsene. Segue Alessia in cucina, osservandola mentre solleva la persiana per far entrare la luce.

“Sei sicura di non avere un doppione della chiave? Io devo aprire quella porta.”

“Perché?” sbotta Alessia. “Pensi che io e Ida teniamo Camila nascosta lì dentro? Imprigionata?”

“No,” dice lui, andandole accanto, “ma devo capire, devo capire cosa è successo.”

Alessia apre un pensile e prende la caffettiera. Ne apre un altro per prendere il barattolo del caffè.

Riflette per un lungo minuto prima di parlare di nuovo. “Io non so cosa c’è fra te e Camila,” dice, “e forse non mi interessa neppure. Ma se avete passato la serata assieme allora forse devi pensare a quello invece che alla sua stanza.

“Sarebbe a dire?”

“Sarebbe a dire che forse hai fatto o detto qualcosa che l’ha portata a scappare da casa tua!” esclama Alessia, leggermente esasperata. Sistema la caffettiera sul fornello e si gira verso di lui. Si stringe la vita con le mani. “L’hai trattata male? Hai fatto il cretino in qualche modo?”

“No,” risponde lui. “No, assolutamente no.”

Alessia non riesce a guardarlo negli occhi, ma può sentire l’agitazione della sua voce.

“Allora vedrai che non le sarà successo nulla. Camila è sempre stata strana,” dice guardando il pavimento. “Forse starà facendo semplicemente una passeggiata.”

Davide non dice nulla, ma sa che la scomparsa di Camila non riguarda una semplice passeggiata. E’ il suo cuore a dirglielo, è il suo istinto a parlargli.

“Devo aprire quella porta,” dice, tornando nel corridoio.

Alessia non prova neppure a trattenerlo. Ha capito che è inutile.

Resta in cucina, a guardare il caffè gorgogliare dal beccuccio verticale, e quando sente la porta di legno cedere sotto la spallata di Davide sente anche una piccola parte del suo cuore sbriciolarsi.

Non sono mai stata importante per lui. Camila invece… Camila è importante.

 

***

 

Davide si ritrova in camera di Camila e per un attimo resta impietrito.

La stanza è una stanza normale, molto semplice. Le pareti sono bianche e spoglie. Al soffitto è appeso un filo elettrico lungo più o meno mezzo metro dal quale pende una lampadina. Non c’è un lampadario. Il letto è posizionato a ridosso di una parete, ed è immacolato. Il piumone che lo ricopre è di un colore più vicino al giallo che al bianco. Tutto, nella stanza di Camila, è immacolato, ordinato. L’armadio è accanto alla finestra, e vicino ad esso c’è un piccolo baule di legno, i cui disegni richiamano quelli del letto, dell’armadio e del comodino.

Davide si guarda attorno, ma nulla colpisce la sua attenzione. Sul comodino c’è una lampada rosa a forma di maialino.

Dove sei, si chiede. Cosa ti è successo?

Il comodino ha un cassetto, e Davide decide di aprirlo. Contiene vecchi volantini, vecchi biglietti obliterati, vecchi fogli di giornale. Si avvicina all’armadio e fa la stessa cosa, lo apre. Il profumo di Camila gli invade immediatamente le narici. E’ il profumo di pulito, il profumo dolce e allo stesso tempo forte della donna che ama.

Osserva i jeans appesi, i cardigan ripiegati. Ha quasi paura di toccare le sue cose, ma ha bisogno di sapere. Non può avermi lasciato così. Non è da lei. Camila non è così.

Sposta le maglie e i pantaloni con delicatezza, sfiorandoli appena.

Vorrebbe che la sensazione di pericolo che sente dentro svanisse, ma minuto dopo minuto non fa che crescere.

“Il caffè è pronto.” Alessia lo sorprende alle spalle. E’ ferma sulla soglia della porta, con in mano due tazzine fumanti.

Davide scuote il capo lentamente. “Non mi va, grazie.”

Alessia si guarda attorno, proprio come ha fatto lui. Non è mai entrata in camera di Camila, e farlo adesso le sembra quasi un sacrilegio.

“Cosa stai cercando?”

“Tutto e niente,” risponde Davide, chiudendo l’armadio. Si china sul baule e prova ad aprirlo, inutilmente. E’ chiuso, probabilmente a chiave vista la serratura presente sul lato. Prova a spostarlo, ma non ci riesce: è pesante. “Che c’è qui dentro?”

“Non ne ho idea,” risponde Alessia. “Non sono mai entrata nella sua stanza prima d’ora.”

Davide si ferma al centro della stanza. Controlla l’orologio e si rende conto che sono quasi le nove.

Dove sei, Camila? Che cosa ti è successo?

“Forse ha incontrato degli amici,” dice Alessia, pensandoci bene prima di aprire bocca. “Forse si è soltanto allontanata dal tuo palazzo, e magari adesso è fuori alla porta che si chiede perché non le apri.”

“E la ciabatta?” chiede lui. “Che ci faceva la ciabatta in mezzo alla strada?”

“Quale ciabatta?”

“Aveva le ciabatte ai piedi quando è scesa per accompagnare Bilbo. Ne ho trovata una prima di venire qui.”

“Sei sicura che fosse sua?”

“Sì!” grida. “Sì! Era mia, gliel’ho prestata io!”

“Ok,” dice lei, oltrepassando la soglia per andargli accanto. Appoggia le tazzine sul comodino. “Facciamo così. Tu ora torni a casa, io rimango qui. Se Camila dovesse tornare le dirò che sei venuto a cercarla, che non sapevi che fine avesse fatto. Non appena la vedo entrare ti do un colpo di telefono, ok? Torna a casa, Davide. Sicuramente Camila è lì.”

“Camila non ha amici,” sussurra Davide. “Non può essere andata con degli amici. Gli unici amici che ha siamo noi… io e la mia famiglia?

“Tu e la tua famiglia?”

“Camila lavora per noi,” dice, avvertendo un nodo alla gola. “Non fa altro, Ale. Lavora, lavora, lavora. Non può aver incontrato nessuno, non può aver incontrato i suoi amici.

“Allora è a casa tua, adesso. Allora si è semplicemente allontanata. Forse il tuo cane l’ha strattonata ed è caduta.

Bilbo è minuscolo, non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. O forse sì? Forse è caduta, e qualcuno l’ha soccorsa, portandola all’ospedale. Ecco perché ha perso la ciabatta.

Davide estrae dalla tasca della tuta il suo cellulare e lo controlla. Nessuna chiamata, nessun messaggio.

“Adesso torno a casa,” dice dopo aver pensato al da farsi. “L’aspetto lì. Torno ad aspettarla lì.”

“Va bene. Io ti chiamerò non appena la vedo tornare,” dice Alessia.

Insieme escono dalla camera di Camila e si avviano nel corridoio, all’ingresso.

Davide si sente come se stesse vivendo un’esperienza surreale, incredibile. Non gli è mai successa una cosa del genere, e per la prima volta in tutta la sua vita si sente impotente, debole.

“Mi stai aiutando,” dice ad Alessia, senza neanche pensarci. “Grazie.” Prova a sorriderle, ma non ci riesce. E’ più pallido di un lenzuolo.

“Stai tranquillo,” dice lei. “Non può esserle successo nulla. Torna a casa e se la trovi fammi sapere.”

“Grazie,” ripete Davide. “E scusa se ti ho svegliata… se…”

“Non fa niente,” lo interrompe lei. “Guida piano. Ci sentiamo più tardi.”

Lo guarda scendere prima di chiudere la porta e di tornare in cucina. Ida la raggiunge dopo pochi secondi. “Se n’è andato? Si può sapere che voleva? E perché non gli hai sbattuto la porta in faccia dopo quello che ti ha fatto?” Si versa il caffè in una tazzina prima di continuare. “Non ci posso credere, lui e Camila escono assieme? Fossi in te le farei una scenata quando torna.

“Smettila,” dice Alessia, sedendosi al tavolo. “Pensavo che stessi dormendo.”

“Ci ho provato, ma ormai ero troppo sveglia per riaddormentarmi. Allora, Davide che ti ha detto?” Beve un sorso di caffè, ma non le dà l’opportunità di rispondere. “E con che coraggio esce con quella? Hai visto come si è arrabbiato quando l’ho chiamata pazza? Dio, hai fatto benissimo a mandarlo a-”

“Ida, smettila!” Alle parole, Alessia accompagna uno schiaffo al tavolo che fra trasalire l’altra. “Non hai capito cosa ho detto? Smettila! Smettila di parlare!” Si alza ed esce dalla cucina, lasciando l’amica e coinquilina al tavolo da sola.

 

***

 

Davide fa ritorno a casa premendo sull’acceleratore come se fuggisse da un pericolo. Quando scende dall’auto lo fa con addosso due precise sensazioni: il desiderio che Camila sia davanti l’uscio di casa, e la paura che non ci sia.

Per questo motivo sale le scale del palazzo con rapidità, ma anche con un peso immenso nel cuore. Un peso che cresce, gradino dopo gradino, e che si trasforma nella più pesante delle ancore quando raggiunge il suo piano e si rende conto che Camila non c’è.

Entra in casa imprecando sottovoce, recandosi immediatamente sul terrazzo per osservare il vicinato dall’alto. Di Camila non c’è traccia. Controlla il suo telefono e poi, dopo essere tornato in camera, quello di lei.

Infila le mani nella sua borsa e afferra il borsello.

Si siede sul letto e lo apre, e da esso escono fuori poche banconote, molti spiccioli… e una fede.

La sua fede. Suo marito.

L’ho lasciato in Basilicata.

Davide si alza dal letto e va in corridoio, dove c’è più luce. Fa girare la fede fra le dita e scopre ciò che cercava, una scritta. Umberto e Camila 24-05-1996

Umberto. Suo marito si chiama Umberto.

Torna in camera, accende la lampada del comodino e rovescia il contenuto della borsa sul letto, lo stesso letto in cui lui e Camila hanno fatto l’amore per tutta la notte. Stringe i denti per non pensarci, per non pensare a lei come ad un ricordo vecchio, irrecuperabile, perduto.

La borsa di Camila contiene pochi oggetti: il borsello, uno specchietto rotondo, un pacchetto di fazzolettini, la carta d’identità. Davide l’ha già vista sottoforma di fotocopia, ma la apre ugualmente. La foto a colori mostra una Camila diversa, sorridente ma allo stesso tempo triste, sofferente.

E’ solo una piccola foto per la carta d’identità, si dice il ragazzo. Non devo leggervi cose assurde.

E in quel momento sente il suo telefono squillare. Davide si precipita di sotto per recuperarlo dal tavolo su cui l’ha appoggiato, rischiando anche di cadere sulle scale.

Il cuore batte forte quando risponde. “Pronto? Camila? Camila, sei tu?”

“Davide, sono tua madre. Perché dovrei essere Camila?”

Oh, no. Maledizione, maledizione.

“Davide, sei ancora in linea? Tesoro, noi siamo appena atterrati. Perché non sei qui? Non dirmi che ti sei appena svegliato, sono le dieci passate. Hai promesso di-”

“Mamma, prendete un taxi,” taglia corto il ragazzo. “Io non posso lasciare casa. Tornate con un taxi, per favore.”

Simona avverte che c’è qualcosa di strano nella voce di suo figlio. “Davide, che succede? Stai bene? Dove sei?”

“Sto bene, mamma. Io sto bene, ma non posso venire all’aeroporto adesso. Per favore, prendete un taxi.”

“Davide, spiegami cosa è successo,” insiste la donna. E poi aggiunge, rivolta a suo marito e a Priscilla. “Dobbiamo prendere un taxi. Muoviamoci. Davide, sei ancora lì? Tesoro, che cosa è successo? Sei sicuro di stare bene?”

“Sì,” dice lui, sprofondando sul divano. “Ma dobbiamo parlare. Devi aiutarmi, mamma. Dovete aiutarmi.”

 

Due ore dopo - quando Camila non è ancora rientrata e Alessia non ha ancora chiamato - Priscilla, Simona e Giancarlo guardano Davide con un misto di sorpresa e preoccupazione. Quando sono rientrati il ragazzo ha raccontato loro tutto: Carovigno, le docce del campetto, le scarpe rubate in soffitta, il nuovo incontro a casa di Alessia, la sera al Mc, il marito lasciato in Basilicata, la cena al ristorante fuori Roma, la ciabatta trovata in strada.

Lo ha fatto per liberarsi di un peso più grande di lui, e perché è cosciente del fatto che può essere aiutato soltanto se è onesto fino in fondo.

Priscilla sembra essere quella più shockata dalla notizia della scomparsa di Camila. Giancarlo e Simona non fanno altro che guardarsi negli occhi e comunicare in silenzio.

“Dobbiamo andare alla Polizia,” dice Davide. “Sono passate cinque ore, e tutte le sue cose sono qui. Sarebbe dovuta tornare, no? Avrebbe dovuto almeno chiamare.” Si alza dal divano. “Io devo trovarla. Pri,” dice, rivolgendosi alla sorella, “io devo trovarla.”

Priscilla sta per parlare, ma Simona la anticipa. “Perché non ci hai mai detto nulla? Perché non ti sei mai confidato con me?”

“Perché non ci hai detto che la conoscevi?” aggiunge Giancarlo. “Avresti dovuto parlarcene, Davide, prima che l’assumessimo, perché-”

“Perché cosa?” chiede il ragazzo. “Perché così avreste potuto farvi l’idea sbagliata sul suo conto? E’ stata con noi per tre mesi,” grida, “e l’avete adorata tutti, tutti. Non vi ha mai dato alcun problema, e ora che conoscete la sua storia venite a farmi la morale? No,” dice, guardando in particolar modo il suo patrigno. “No. Non ne avete il diritto.”

“Davide, noi avevamo il diritto di capire,” dice Simona, facendosi avanti. “Io sono tua madre, ho il diritto di sapere cosa succede in casa mia.”

Davide abbassa le spalle. “Avrei dovuto parlarne, è vero.”

“Almeno con me,” dice Priscilla. “Sono tua sorella. Pensavo mi raccontassi tutto.”

Davide, esasperato, si passa le mani nei capelli. “Vi prego,” dice con un filo di voce. “Io devo trovarla, devo sapere dov’è. Quando l’avrò ritrovata potremo parlare per ore, per giorni interi. Potrete anche licenziarla, se pensate che non meriti più la vostra fiducia, ma vi prego, vi prego: aiutatemi a trovarla. Si volta verso Simona. “Mamma, ti prego.”

 

Mezzora dopo sono al commissariato di Polizia del loro quartiere a denunciare la scomparsa di Camila. Davide ha con sé il documento di lei, il cellulare (rimasto muto per tutta la mattinata), l’intera borsa. Un ispettore accoglie la denuncia, e gli fa numerose domande.

Perché Camila si trovava fuori casa? Non ha sentito nessun rumore sospetto? Ha detto qualcosa prima di uscire con il cane? Cosa indossava? Sapete qualcosa della sua famiglia? Dove vive? Dove lavora? E’ sposata? Avete provato a comporre qualche numero presente sul cellulare e a chiedere di lei?

Davide risponde ad ogni domanda dettagliatamente, fornendo tutte le informazioni di cui è al corrente.

Non ha mai parlato volentieri di suo marito. Mi ha detto che l’ha lasciato in Basilicata, quindi forse è scappata da lui. Forse lui le faceva del male. E’ raro che parli del suo passato. E’ sempre stata molto riservata.

Tre ore dopo, alle quattro del pomeriggio, Davide e la sua famiglia si preparano a lasciare il commissariato.

“Roma è una città immensa,” dice l’ispettore. “E non possiamo escludere nulla… neanche che abbia deciso di andarsene liberamente, di sua spontanea volontà.”

“Ma è impossibile,” dice Davide. “Camila non se ne sarebbe mai andata, mai!”

L’ispettore sospira e si accarezza la barba. “Mi avete lasciato i vostri recapiti,” dice, “farò circolare la descrizione della donna e nel frattempo cercherò di contattare la famiglia, il marito. Una cosa è certa: non può essere svanita nel nulla.

Durante il viaggio di ritorno a casa, Davide chiama Alessia, la quale gli dice che Camila non è rientrata.

Lui e sua sorella occupano i sedili posteriori della berlina di Giancarlo, il quale è concentrato sulla strada e se ne sta in silenzio, imitando Simona.

“La troveremo,” dice Priscilla, allungando una mano per coprire quella di Davide. “L’ispettore ha detto bene: non può essere svanita nel nulla.”

 

Davide si lascia andare sul poggiatesta, stringendo le dita di sua sorella e cercando di trovare nelle sue parole la speranza di cui ha bisogno. Ciò nonostante non riesce a cancellare dal suo cuore la sensazione di paura e di angoscia.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Penultimo Capitolo ***


Capitolo 17

Mai come per questo capitolo, un ringraziamento speciale va a Lele Cullen.

 

Capitolo 17 – Penultimo Capitolo

 

L’ispettore che ha raccolto la denuncia dei Falco ha ragione: Camila non è svanita nel nulla.

Si trova, assieme ai suoi tre rapitori, in una casa nascosta dai boschi di Sabaudia, a pochi di metri dal lago. L’hanno portata lì dopo averla trascinata nell’auto sotto casa di Davide.

Ha gridato, Camila, si è dimenata, ma non è servito a nulla.

Umberto ha trascinato il suo corpo snello al centro dei sedili posteriori, incastrandolo alla perfezione fra il suo e quello di Federico. Quest’ultimo le ha sistemato velocemente un sacco di stoffa nera sul capo, mentre suo marito le teneva ferme le mani.

Quando Camila ha provato a liberarsi, muovendo la testa per impedire che la rendessero cieca, è stato Umberto a darle uno schiaffo. Forte, ma attutito dal tessuto nero.

“Piantala,” le ha detto fra i denti. “Non farmi arrabbiare. Non gridare.”

“Non c’è bisogno di legarglielo attorno al collo,” ha detto Federico. “L’importante è che non veda dove stiamo andando. Continua a tenerle le mani, così non potrà liberarsi.

Camila ha gridato, ha scalciato (o almeno ci ha provato), ha cercato di liberarsi dalla presa dei due uomini. I suoi sforzi, però, sono serviti a poco. Umberto e Federico si sono trasformati in due pareti di acciaio, ai suoi fianchi.

Sfrecciando lungo le strade di una Roma avvolta dalla tenue luce del primo mattino, Carmelo, Federico e Umberto non hanno avuto difficoltà ad uscire dalla città indisturbati. I vetri oscurati dell’auto li hanno aiutati: nessuno ha visto Camila, né quando l’hanno presa né durante l’intero tragitto dalla capitale al bosco di Sabaudia.

Lei ha pianto. Quando si è resa conto di ciò che le stava succedendo, quando ha capito che non sarebbe riuscita a liberarsi… ha pianto. Un pianto muto, quasi. Un pianto che Federico e Umberto hanno scambiato per un respiro affannato. Un lamento interno e profondo, una disperazione triste e sola.

Dove stiamo andando?, si è chiesta. Dove mi porteranno? Stiamo tornando in Basilicata? Davide si è accorto che sono sparita? Come farà a trovarmi? Dove siamo?

Si è posta tante domande durante il viaggio. I tre hanno aperto bocca solo due volte. La prima subito dopo essere ripartiti, e la seconda durante il viaggio verso sud. Camila ha colto poche parole, qualcosa di simile a ‘Chiama… Digli che deve andare lì e guardare…’.

Quando hanno raggiunto la casa e hanno fatto scendere Camila, i tre (in particolare Umberto) si aspettavano che lei gridasse, riprendesse a scalciare, cercasse di liberarsi. Lei non l’ha fatto, però. Camila è rimasta in silenzio, si è fatta trascinare fuori dalla vettura e dentro casa.

Non ha parlato, non ha gridato. Ha smesso perfino di piangere.

Nessuno sa dove mi trovo. Nessuno può salvarmi.

 

La casa, una villetta di 400mq spalmati su un solo piano è di proprietà di un loro amico che vive a Latina. E’ una costruzione abusiva, ma l’amico in questione è una di quelle persone temute anche dalle autorità. Nessuno si sognerebbe mai di demolirgli la villetta comprensiva di piscina, di un giardino immenso e anche di piccolo pezzo di terra. L’uomo la usa d’estate, quando lui e la sua famiglia si trasferiscono al lago nei mesi che vanno da Giugno ad Agosto.

Al momento, quindi, è vuota.

Quando i tre hanno organizzato il rapimento di Camila, Umberto ha subito pensato alla casa nascosta dai boschi. Isolata, a prova di poliziotti e curiosi.

Il posto perfetto in cui convincere Camila a tornare in Basilicata con loro. Con le buone o con le cattive.

 

***

 

La casa è molto grande, ma Camila non riesce a vederla tutta. Le finestre sono grandi, e protette con delle spesse inferriate. I pavimenti sono in cotto, e il soffitto mostra delle splendenti travi a vista, di legno lucido e scuro.

Non appena varca l’ingresso, Camila viene liberata dal sacco nero; Federico la conduce in una camera da letto, continuando a tenerla per i polsi. “Puoi anche gridare,” le dice, guardandola negli occhi. “Qui non c’è nessuno. Nessuno ti sentirà. Qui attorno ci sono solo terre e alberi. Puoi anche gridare,” ripete, “ma servirà solo a farmi arrabbiare.”

Federico, il più alto e il più robusto dei tre, è stato quello che Camila ha sempre tollerato meno. E’ lui il capo, è lui che detta le regole. Con sé, nei suoi gesti e nel suo viso, porta un messaggio chiaro: Qui comando io. Carmelo e Umberto sono i suoi soci e probabilmente i tre sono coinvolti in parti uguali nei loro loschi affari, ma per Camila non è mai stato difficile (e non lo è neppure ora) notare come sia Federico quello a cui spetta l’ultima parola, quello che prende le decisioni importanti, quello a cui gli altri devono ubbidire.

Ora è di fronte a lei, con il sacco nero in mano e l’espressione dura e sprezzante negli occhi.

Camila lo guarda senza rispondere, senza quasi respirare. I polsi le fanno male, a causa della presa di Federico, ma non si azzarda a dirglielo, a chiedergli di essere liberata completamente.

Davide non sa di Umberto. Come faranno a ritrovarmi?

“La finestra ha le inferriate,” dice Federico. “Non puoi scappare.” Le lascia i polsi, ed è come se il sangue riprendesse a circolare non solo verso le mani, ma anche nel resto del corpo.

Camila arretra istintivamente fino al letto, spoglio di coperte e lenzuola, massaggiandosi i polsi per trovare un po’ di sollievo.

Federico si guarda attorno per accertarsi che nella camera non vi sia nulla che Camila può usare come arma. Nessuna lampada, nessuna sedia. L’armadio è vuoto (lui e Umberto lo hanno controllato ieri notte) e il materasso è innocuo. Se anche Camila volesse sistemarlo davanti alla porta, i tre potrebbero comunque entrare facilmente. Federico esce dalla stanza senza aggiungere altro, chiudendo la porta a chiave.

Camila, il cuore in gola, non può fare altro che sedersi sul materasso. Controlla l’orologio che ha al polso, vede che sono le nove.

Sono passate due ore… cosa sta facendo Davide? Bilbo è riuscito a tornare a casa?

Osserva l’inferriata blu alla finestra, osserva i fitti cespugli che si trovano all’esterno.

Non è una stupida. Sa che gridare non le servirà a nulla.

Non sa dove si trova, ma di una cosa è certa: Non mi avrebbero mai portata in un luogo facile da scoprire, facile da abbandonare. Sono in trappola.

 

***

 

Umberto entra in camera un’ora dopo, alle dieci.

Camila è distesa sul materasso, con il viso rivolto alla parete e le ginocchia strette al petto. Ai piedi ha solo una ciabatta, addosso ha ancora il suo cappotto scuro.

“Alzati,” dice suo marito. “Dobbiamo parlare.”

L’ultima volta in cui i due si sono visti è stata la sera in cui Camila decise di scappare. Umberto la picchiò quando ella ritornò a casa, dopo essere andata alla caserma. La minacciò, in quell’occasione. Le disse, con le mani e con le parole, che non avrebbe più dovuto aprire la bocca. Le disse, a colpi di schiaffi, che non avrebbe tollerato un’altra mossa di quel tipo.

Quella sera Camila non restò a guardare. Quella sera non abbassò la testa, non ubbidì.

Quella sera scappò, salendo sul primo treno disponibile, guardandosi alle spalle e tirando un sospiro di sollievo quando capì che nessuno la seguiva. Lo stesso sospiro di sollievo lo ha tirato ogni giorno in questi tre anni, quando, rientrando a casa dopo il lavoro, si accorgeva che dietro di lei non c’era nessuno.

Ma tutto ha una fine, e Camila lo sa bene. Si mette a sedere come Umberto le ha ordinato, ma non riesce a guardarlo negli occhi.

Non lo teme, non ne è spaventata, anche se forse dovrebbe. Non ha difficoltà a guardarlo per via della paura, no. Camila è disgustata. E’ profondamente disgustata dall’uomo che ha sposato, dall’uomo che in Germania le ha fatto conoscere la parola ‘Amore’, dall’uomo a cui ha cercato per anni di dare un figlio.

“Che c’è, non mi guardi?” dice lui, leggendole nel pensiero. “Guardami, Camila. Forza.” Si siede ai piedi del letto, mantenendo la distanza.

Camila alza il capo lentamente, fino ad incontrare i suoi occhi. In essi non c’è più nulla del ragazzo che lavorava in una fabbrica di telefoni in Germania. In essi non c’è più quell’armonia, quella gentilezza di cui si è innamorata.

Sono occhi amari, occhi spenti. Occhi avvelenati.

“Ascoltami bene,” riprende Umberto. “Le possibilità per te sono due, e due soltanto. Puoi tornare in Basilicata con noi oppure rimanere qui.

Camila non manca di notare che la sua voce è nervosa, non tranquilla e ferma come quella di Federico.

Forse si è offerto lui di parlarmi perché siamo sposati, pensa lei. Forse lo hanno obbligato.

“Se torni con noi,” continua, “tornerai come mia moglie. Sarai di nuovo mia moglie. La casa è ancora lì,” dice. “E’ ancora arredata, c’è ancora tutto quello che hai lasciato. Se torni con noi, tornerai per fare la moglie, la moglie tranquilla, la moglie che non si impiccia dei fatti che non le riguardano. Andrà diversamente, stavolta,” dice, e sembra quasi che lo dica per convincere se stesso ancor prima che lei. “Farai la brava, e noi ti terremo d’occhio. Proveremo di nuovo a fare un bambino, magari. Farai la brava moglie,” ripete. “La brava moglie.”

Sebbene l’espressione di Camila sia posata, dentro di lei si agita il fuoco di mille inferni.

Come può chiedermi una cosa simile? E’ impazzito? La brava moglie?

“E’ per questo che mi avete rapito, per trasformarmi in una schiava?” Lo dice guardandolo negli occhi, desiderando ardentemente di poterli trafiggere.

“Non sei obbligata a tornare,” dice lui, stavolta più duro. “Ma se decidi di rimanere qui ci saranno delle conseguenze… e non solo per te.”

Il sottinteso trasforma il sangue nelle vene di Camila in ghiaccio puro. “Che cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che se ci tieni a quei morti di fame per cui lavori verrai con noi.”

I Falco. Davide. No.

“Tu non…” Cerca di parlare, ma non ci riesce. Il pensiero di Davide in pericolo, il pensiero che loro possano fargli del male la paralizza, la immobilizza. “Tu non puoi,” riesce a dire al terzo tentativo.

“Io posso,” ribatte Umberto. “Io posso fare quel che mi pare, Camila. Non l’hai ancora capito?”

Il sorriso di beffa che ha sulle labbra è come un nuovo schiaffo, per lei.

“Perché?” chiede Camila. “Che cosa volete da me, perché volete riportarmi laggiù? Io non voglio vivere lì, io non voglio avere più niente a che fare con te e con voi!” Il suo tono di voce è a metà fra la supplica e il grido disperato.

Umberto reagisce alzandosi dal letto e indietreggiando verso l’armadio. A Camila sembra quasi che voglia fuggire dalla disperazione di lei

“Se avessi voluto darvi dei problemi lo avrei già fatto,” continua. “Vi avrei denunciato in questi tre anni, vi avrei messo in pericolo! A me non importa… Io voglio solo…” Io voglio solo vivere la mia vita, cercare di essere felice, dimenticare il passato. Io voglio solo tornare a casa di Davide.

“Tu sei un problema,” replica Umberto, puntandole un dito contro. “Sei talmente stupida che non te ne rendi conto, ma tu sei un problema. Ogni giorno di questi tre anni ci siamo dovuti guardare alle spalle, e abbiamo dovuto fare sempre…” Si ferma di scatto, come se si fosse appena reso conto di aver detto più del necessario. Quando torna a parlare, la sua voce è decisa e impostata, ferma e priva di alcuna emozione. “Tu rappresenti un problema. Nessuno di noi può permettersi che tu sia libera. Devi tornare in Basilicata, Camila. Punto.”

Come una schiava. Come una prigioniera. Come un animale in gabbia.

“Io non voglio avere a che fare con voi, e-

“Non mi interessa!” grida lui. Le si avvicina, e inizia a scuoterla, usando due mani sulle spalle. “Tu sei mia moglie. Per la legge italiana sei ancora mia moglie!” Il suo respiro è affannato, le sue parole confuse e incomprensibili.

Camila ha paura, ma riesce a liberarsi della sua presa. Rotola al lato opposto del letto, perde la ciabatta, e si alza in piedi.

“Sei pazzo!” grida. “Tu e quei due… siete pazzi! Come potete pensare di farmi ritornare in quella casa, in quel posto… come?! Me ne andrò di nuovo,” dice con rabbia, stringendo i pugni. “Alla prima occasione me andrò di nuovo! La legge italiana è dalla mia parte, non dalla tua!

Umberto è veloce nel fare il giro del letto. Chiude una mano attorno al sottile collo di Camila, bloccandole temporaneamente il respiro. “Tu non farai niente,” sibila. “Tu non farai niente. Ti terrò al guinzaglio, se necessario, come un cane. Camila cerca di liberarsi dalla presa, ma stavolta non ci riesce. Gli graffia la mano, l’avambraccio, ma è inutile. Annaspa, la sua pelle diventa pallida.

E in quel momento, quando il viso di Camila si colora di bianco, Carmelo e Federico irrompono nella stanza.

Umberto lascia andare la presa e si gira verso di loro. “Che c’è?”

Camila tossisce e si chiude in un angolo, le mani attorno alla gola e gli occhi pieni di lacrime.

“Allora, l’hai convinta?” chiede Carmelo.

“Le hai detto cosa succede se non viene con noi?” domanda Federico. Senza attendere risposta, si avvicina al letto e a Camila. “Forse non l’hai capito,” dice, “ma a noi non interessa nulla di te. Per noi sei un peso, e l’unico problema, al momento, è quello di decidere in che modo liberarci di questo peso. O ti portiamo con noi, o ti lasciamo qui. Qui, però… qui ci resti morta. Non sei obbligata a venire in Basilicata,” dice sollevando le mani. “Ti stiamo lasciando libertà di scelta. Vieni con noi, segui le nostre regole, oppure resti qui e ci resti morta.

“Assieme al tuo ragazzo,” gli fa eco Carmelo.

Federico si gira per guardarlo, sorride, e torna a guardare Camila, ancora stretta nell’angolo con le mani attorno al collo. “Umberto ti ha detto che abbiamo una persona che lo sta tenendo d’occhio? Gliel’hai detto?” chiede ad Umberto. Quando quest’ultimo scuote il capo, Federico incalza. “Sappiamo tutto di lui,” dice, con quella sicurezza mista a strafottenza che Camila odia e teme. “Sappiamo il suo nome, sappiamo quando è nato, sappiamo cosa studia. Sappiamo che poco fa è andato a cercarti al tuo appartamento, e che è appena ritornato a casa sua. Sappiamo tutto di Davide, così come sappiamo tutto di sua sorella, di sua madre. Vieni con noi,” continua, con un sorriso viscido e crudele, “e li lasceremo in pace. Resta qui, e morirai assieme a loro.”

Passa accanto a Umberto, la raggiunge fino a trovarsi ad un passo da lei. “Pensaci,” dice, dandole un buffetto sul mento. “Pensaci.” Poi guarda i suoi amici. “Andiamo. Dobbiamo parlare.”

I due lo seguono senza fiatare. Umberto guarda Camila per un’ultima volta prima di uscire dalla stanza. Gli occhi di lei, però, sono persi nel vuoto. “Pensaci,” ripete Federico.

 

***

 

Il tempo passa lento. Camila trova la forza di abbandonare l’angolo freddo della camera da letto e di sedersi sul materasso.

Tutto questo non ha senso, si dice. Portarmi qui, offrirmi due possibilità come se si trattasse di uno scambio equo, di una scelta facile. Non ha senso.

Perché non mi uccidono? Perché non mi imbavagliano e mi portano in Basilicata con loro? Perché mi tengono qui, invece di liberarsi di me?

Umberto stava per strozzarmi, pensa. Non ha avuto alcun problema a stringere le dita attorno al mio collo. Non ha provato pena, dispiacere. Per lui non sono niente, ad eccezione di un problema, un problema che deve essere eliminato. Un peso, così ha detto Federico.

Forse fa tutto parte del loro piano. Forse vogliono solo spaventarmi, terrorizzarmi. Forse il piano consiste nel farmi temere per la mia vita e per quella dei Falco, in modo da costringermi a lasciare Roma. Mi stanno minacciando, e lo stanno facendo nel modo più crudele di tutti. Vieni con noi, comportati bene, e a loro non accadrà nulla. Torna nella gabbia da cui sei scappata, e al tuo ragazzo non accadrà nulla.

Il mio ragazzo, così lo hanno chiamato. Davide. Il mio Davide.

Dov’è adesso? Si è accorto di essere seguito? E’ vero che è andato a cercarmi al mio appartamento? Perché dovrebbe averlo fatto? Cos’ha pensato quando non mi ha vista tornare? Ha parlato con Alessia? Si è rivolto alla Polizia? Come farà a trovarmi… non sa nulla di me. Non gli ho detto nulla di me.

I pensieri si accavallano come onde impazzite nella mente di Camila. Da un lato è terrorizzata, sconvolta. Dall’altro è quasi rassegnata. Rassegnata all’idea di non poter aprire la finestra e scappare. Rassegnata al fatto che non riuscirà in alcun modo a far ragionare Umberto e i suoi amici.

Mi hanno cercata per tre anni. Mi considerano una minaccia. Gli faccio paura, ma anche loro ne fanno a me. Loro però sono in tre, e io non ho nulla su cui fare leva. Io non ho niente. Io sono un topo in trappola, e loro sono tre gatti pronti a banchettare.

 

Ad un certo punto, Camila si alza dal letto e va alla porta. E’ chiusa a chiave – ha sentito Federico chiuderla – per cui non si azzarda neppure ad aprirla. Ciò nonostante appoggia l’orecchio ad essa, e cerca di ascoltare le voci degli altri. Resta immobile, con l’orecchio che sfiora il legno scuro, per una fetta indefinita di tempo, ma non sente alcuna voce.

Forse sono in un’altra stanza. Forse bisbigliano, invece di parlare.

Camila ignora che i tre sono in realtà fuori, all’aperto.

“Angelo ha detto che il ragazzo è ancora in casa,” dice Carmelo, chiudendo la comunicazione telefonica. “Ha chiamato per dirmi che due minuti fa sono arrivati anche i genitori e la sorella. Sono arrivati con un taxi, avevano dei bagagli. Forse hanno passato il fine settimana fuori città.”

“E’ strano che non sia andato ancora alla Polizia,” dice Federico, facendo cadere la cenere della sua sigaretta in un’aiuola. “Molto strano.”

“Proprio per questo dovremmo andarcene,” sbotta Umberto. “Che vogliamo fare, rimanere qui fino a che non sentiamo le sirene? Dobbiamo andarcene,” ripete. “Subito.”

Federico getta la sigaretta nonostante sia solo a metà e lancia un’occhiata torva al suo amico. “Guarda che è per te che siamo ancora qui,” dice. “E’ solo per fare un favore a te che ci stiamo trattenendo. Per come la vedo io avremmo dovuto portarla qui e gettarla nel lago. Fine della storia. Ti sto facendo un piacere,” dice puntandogli un dito nel petto. “E tu non ne stai approfittando.”

“Umberto ha ragione, però,” interviene Carmelo. “Ogni minuto che passa è un minuto a favore del ragazzo e della Polizia. O ce ne liberiamo, oppure…”

“Non possiamo liberarci di lui,” taglia corto Federico. “Non abbiamo bisogno di altri casini in questo momento. A lui penseremo se e quando si rivolgerà alla Polizia. Il punto è un altro,” continua, voltandosi verso Umberto. “Sei stato tu a volere del tempo per parlare con lei, per convincerla a seguirti di sua spontanea volontà. Il tuo approccio sta fallendo, te ne rendi conto? Pensi davvero che voglia tornare a fare la mogliettina felice dopo quello che ha fatto tre anni fa?”

A Umberto non piace il tono di scherno di Federico. “Non mi interessa di lei,” dice Umberto. “Tutto ciò che voglio è assicurarmi che capisca che non ha alternativa. Deve capire che non può più scherzare con noi.

“Io dico che abbiamo già perso troppo tempo. Ammazziamola e andiamocene.”

Umberto si avventa al collo di Carmelo con molta più forza di quando ha compiuto lo stesso gesto con Camila. Riversa su di lui la rabbia e la frustrazione, l’agitazione che ha addosso da quando hanno scoperto che Camila era a Roma.

Federico resta a guardare, come un padre che osserva divertito un litigio di poco conto fra i figli più piccoli.

“Smettila di dire quella parola,” sussurra Umberto. “O andrai a finirci tu, nel lago.”

“Tu non sei lucido,” ribatte l’altro. “Tu non sei lucido perché quella lì dentro è tua moglie. Tu non sei lucido, e non sei riuscito neanche a farle paura. Carmelo alza la voce. “Federico, diglielo anche tu che ho ragione.” A differenza di Camila, Carmelo riesce a liberarsi dalla presa di Umberto. Gli dà una spinta che lo fa arretrare di qualche passo, riportandolo accanto a Federico.

“Avete ragione entrambi,” dice quest’ultimo. “Umberto ha ragione a volerla convincere, a volerle fare paura. Se dobbiamo riportarla indietro dobbiamo essere certi che una volta lì non parlerà, non farà cazzate, non sarà di nuovo un problema. Ma hai ragione anche tu,” dice a Carmelo, “non possiamo perdere altro tempo.” Il modo in cui guarda Umberto è glaciale e categorico.

Umberto conosce bene quello sguardo. E’ lo sguardo delSto per pronunciare l’ultima parola’. E’ lo sguardo che non ammette repliche. “O Camila viene con noi, accettando di lasciarsi Roma alle spalle e promettendo di comportarsi come una vera moglie, oppure…” Federico non finisce la frase. Si limita a pestare un ciuffo d’erba con la scarpa nera e a far ruotare il piede verso destra e verso sinistra, come si farebbe per un insetto. Né Umberto né Carmelo proferiscono parola. Il capo ha parlato.

“Noi andiamo a comprare qualcosa da mangiare,” dice poi, tirando fuori le chiavi dell’auto. “Parlale di nuovo,” dice ad Umberto, “e fai in modo che stavolta capisca.” Dal retro dei jeans tira fuori la sua pistola, l’unica arma che hanno portato dalla Basilicata. La porge ad Umberto, che la accetta senza guardarlo negli occhi. “Tienila,” gli dice. “Usala per spaventarla.”

 

Umberto resta a guardare l’arma per un quarto d’ora, dopo la partenza dei due amici, prima di decidere di lasciarla sul tavolo della cucina e andare nella camera in cui è rinchiusa Camila.

 

***

 

Lei non si muove, quando sente la porta riaprirsi. E’ seduta ai piedi del letto, accanto alla finestra.

Ha ancora il cappotto addosso, ma è scalza. I piedi sono graffiati, le mani continuano a tremare.

“Sono andati a prendere da mangiare,” dice Umberto, chiudendo la porta e infilando la chiave in tasca. “Quindi voglio dirti una cosa.”

Camila alza la testa nella direzione di suo marito. Cerca di capire dal suo sguardo se ciò che sta per dirle può migliorare o meno la sua situazione, ma non riesce a decifrare i suoi occhi.

“Di noi tre, l’unico che non vuole vederti morta sono io. Ti abbiamo portata qui perché sono stato io a volerlo, ad impormi. Per loro, ucciderti non è un problema. Non hanno scrupoli, Camila. Non si faranno scrupoli, se non ti deciderai a tornare a casa.

Camila si aggrappa al materasso per evitare di lanciarsi contro di lui. “Io ho già una casa,” dice a denti stretti. “A Roma. Quella è la mia casa.”

“No,” dice lui, sibilando come il più velenoso dei serpenti. Non grida, ma scatta verso di lei rapidamente, facendola sussultare.

Camila porta le mani al viso, temendo di essere colpita.

“Quella non è casa tua,” dice Umberto. “La tua casa è quella in cui hai vissuto con me, con tuo marito.” Si batte la mano sul petto due volte: una quando dice ‘tuo’ e l’altra quando dice ‘marito’. “Forse non hai capito cosa stai rischiando,” continua. “Forse pensi davvero che i tuoi pianti possano intenerirci, ma non è così.”

Camila osserva i suoi occhi, alla ricerca del passato, di ciò che Umberto era tanto tempo fa. Li guarda, ma non trova nulla che possa dimostrarle che la sua è una farsa, una scena, un modo per costringerla ad accettare, per spaventarla.

“Perché mi stai facendo questo?” chiede, iniziando a piangere. “Perché mi odi? Io ho paura di te, io provo… io provo sdegno per ciò che sei diventato, ma non ti odio… Dopo tutto quello che… Perché mi stai facendo questo, Umberto?” Si alza, raccogliendo le forze per rimanere dritta sulle gambe deboli. “E’ perché non sono riuscita a darti un figlio? E’ perché sono andata dai Carabinieri tre anni fa? Avevo paura, lo capisci? Ero terrorizzata, e tu non hai mai fatto nulla per tranquillizzarmi, o per dimostrarmi che le mie paure erano infondate, anzi. Tu mi hai picchiata,” dice, arrivando a singhiozzare. “Tu mi hai picchiata.”

Ricorda le mani di lui sul viso, nei capelli. Ricorda le notti passate a guardare il soffitto, ad occhi aperti, spaventata dai continui spostamenti di suo marito e dei suoi soci.

“Cosa vuoi che faccia, adesso?” riprende. “Come puoi pensare che io possa ritornare lì con tutti voi? Cosa sei diventato in questi anni… cosa sei diventato… Non eri così. Non eri così… senza cuore. C’era un cuore dentro di te,” dice, inclinando la testa sulla spalla, “quando eravamo in Germania… te lo ricordi? Ti ricordi quando andavamo al parco dietro casa dei Bauer e mi guidavi sulle altalene? Te lo ricordi, Umberto? E’ di quell’uomo che mi sono innamorata. Mi sono innamorata dell’uomo che si spaccava la schiena mattina e sera per lavorare, e che aveva sempre un sorriso per me… un gesto d’amore. Questo,” dice indicandolo con la mano tremante, “tu… tu non sei quell’uomo. Tu hai smesso di esserlo tanto tempo fa. Io non ti riconosco più. Io non posso più… Io non ho nulla a che vedere con questo Umberto. Si asciuga gli occhi, battendo i denti a causa della pausa e della tensione. “Se è vero che non vuoi vedermi morta, ti pr-

“Un figlio non avrebbe cambiato niente,” dice lui, interrompendola. Osserva il pavimento, e sembra quasi che tutto ciò che le sia rimasto dentro delle parole di Camila sia il riferimento alla gravidanza mai arrivata. “Forse è un bene che non ce ne siano stati…” aggiunge, con una punta di rammarico.

“Perché?”domanda Camila, con rabbia, stringendosi nel cappotto. “Perché così hai potuto fare tutto ciò che volevi con Federico e Carmelo, vero? Perché con un figlio avresti avuto una grande responsabilità, vero? Un figlio ti avrebbe costretto a ripensare alla vita che facevi. Lui tace, confermando, di fatto, tutte le sue insinuazioni. “Tu non sei come loro, Umberto. Tu… Tu non sei come quei due.” Gli si avvicina di qualche passo. “Tu non sei come loro. Ti hanno trascinato, ti hanno mostrato un mondo fatto di soldi, di potere e bella vita… ma cosa hai avuto, in cambio? Rischi di andare in galera per quello che fai. Rischi-”

“Tu non sai quello che facciamo. Tu non hai mai saputo niente di quello che facevamo.

“So che volete uccidermi,” dice lei, fredda. “Quindi vuol dire che rappresento una minaccia troppo grande, un rischio che non siete disposti a correre. Mi volete chiudere la bocca, nonostante in tre anni non l’abbia mai aperta con nessuno, e volete tenermi in gabbia come una bestia. Forse non conosco le vostre attività nel dettaglio, ma so che siete disposti ad andare lontano pur di proteggerle.

Umberto impreca, coprendosi il viso con una mano. Impreca di nuovo, in un modo violento e volgare.

“Avrai tutto quello che vuoi,” le dice poi. “Più vestiti, una macchina tutta tua, una casa più grande. Dopo un po’ di tempo… Dopo un po’ di tempo potrai viaggiare, potrai andare in Francia come hai sempre voluto fare. Non la sta minacciando, le sta semplicemente dicendo la verità. Le sta dicendo che è disposto a comprare il suo ‘Sì, tornerò in Basilicata con voi’.

“Lasciatemi in pace,” rilancia lei. “Tornatevene a casa, e fingete che io sia morta. Io farò lo stesso con voi. Farò lo stesso con te,” dice. “Fingerò di essere vedova.”

“Così potrai vivere felice e contenta col tuo fidanzato?!” sbotta lui, gesticolando con vigore. “Chi è? Che fa? Non è più giovane di te? Mi è sembrato più giovane.” Le sue non sono domande da marito geloso e tradito. Non c’è neppure un grammo di sentimento in ciò che dice. E’ come se Camila fosse una lontana cugina, non sua moglie.

Camila capisce, ancora una volta, che Umberto è mosso solo ed esclusivamente da un desiderio di possesso, e non da un sentimento puro. Non vuole riavere sua moglie, non rivuole una famiglia. Vuole semplicemente riavere l’oggetto che ha perduto, l’oggetto che ha finalmente ritrovato.

Lo guarda impassibile, cercando di ignorare la fitta allo stomaco al pensiero di Davide e di ciò che Umberto, Carmelo e Federico hanno potuto vedere e sapere di loro due.

“Lui non c’entra niente,” dice, tremando. “Lui non sa niente di me, di te. La sua famiglia non sa nulla del mio passato.

Umberto scuote il capo. “Eppure la loro vita dipende da te.”

“Lasciami libera,” incalza lei. “Lasciami tornare alla mia vita.” Le lacrime rigano il suo volto scavato e pallido. “Non vi darò problemi, te lo giuro.” Unisce le mani in un gesto di supplica, di preghiera. “Ti prego, Umberto. Io non merito questo. Io non merito di…”

Di morire.

Io non merito di fare questa fine. Io non merito di morire in questo modo. Perché in un modo o nell’altro morirò… succederà.

Se verrò con voi morirò dentro, per sempre. Se rimarrò qui… forse non sarà Umberto ad uccidermi, ma so che accadrà. A me, e anche a loro… alla mia prima e unica famiglia. Davide, Priscilla, Giancarlo e Simona.

Non si tratta solo di me. Non sono io la sola a rischiare. Ci sono anche loro. C’è anche lui.

Le spalle sono pesanti, il senso di impotenza le mangia anima come un tarlo velenoso: Camila si lascia andare ad un pianto violento, doloroso. Si siede sul letto, le gambe inesistenti, chiude le mani attorno alla testa e piange.

Piange perché non ha scelta. Piange perché non vuole morire. Piange perché sente dentro di sé che non riuscirà a convincere Umberto. Il suo cuore è marcio, ormai. Il suo cuore è corrotto e avvelenato dai dieci anni trascorsi con Federico e Carmelo. Per un attimo le è sembrato di rivedere in lui il ragazzo che ha sposato quando aveva solo 17 anni, ma si è trattato di un solo attimo, di una diapositiva rovinata e irrecuperabile.

Posto di fronte ad un bivio, Umberto ha sempre scelto Carmelo e Federico… sempre.

Quando ha lasciato la fabbrica di plastica, quando Camila ha trovato la pistola, quando lui ha saputo della denuncia ai Carabinieri. Ha sempre avuto la possibilità di scegliere, proprio come ha fatto lei quando ha fatto la valigia e se n’è andata. Umberto ha scelto fin dal principio, e la sua decisione è irremovibile, definitiva, incisa a fuoco nella roccia.

Le lacrime di Camila non gli faranno cambiare idea. Le parole di sua moglie, per quanto giuste siano, non lo convinceranno mai dei suoi sbagli.

“Cosa faresti se fossi in me?” riesce a chiedergli dopo aver pianto tutte le sue lacrime.

Umberto è ancora fermo accanto all’armadio, le braccia lungo i fianchi, gli occhi neri spenti e vuoti.

Camila alza il capo per guardarlo meglio. “Cosa faresti al mio posto?”

“Tornerei in Basilicata,” risponde lui, pronto. “Non capisci che è la cosa migliore per tutti? Non capisci che è l’unica cosa da fare?”

La cosa migliore per tutti. Per Davide e per la sua famiglia, forse, ma non per me.

Eppure devo andarmene. Devo andarmene, se voglio proteggerli. Devo tornare in quell’inferno e arrendermi ad una morte lenta, quotidiana, inesorabile. Mi spegnerò giorno dopo giorno, ma così facendo salverò Davide e la sua famiglia.

Camila si asciuga le guance con i palmi delle mani, e trova la forza per alzarsi in piedi.

“Devi promettermi che a loro non accadrà niente,” dice tremando. “Devi promettermi che li lascerete in pace, sempre. I Falco non sanno niente di me, niente. In questi tre anni non ho mai parlato con nessuno, proprio per non… per non attirare l’attenzione. Io verrò con voi, tornerò in Basilicata, e voi li lascerete in pace. Promettimelo. Giuralo.”

Umberto annuisce. “Te lo prometto. Neanche noi vogliamo attirare l’attenzione. I Falco non saranno toccati.”

“Giuralo,” dice lei, il mento che trema per via di un nuovo pianto in arrivo. “Giurami che non gli farete nulla.”

“Te lo giuro,” ribatte lui. “Te lo giuro.”

Camila annuisce, abbassando le spalle. Arrendendosi definitivamente.

Non lo vedrò mai più. Non avrò mai più la possibilità di raccontargli chi sono, di dirgli cosa provo, di illudermi di poter essere felice con lui. E’ stata solo un’illusione: questi tre anni, i Falco, i soldi messi da parte per scappare in Brasile. Potrò utilizzarli, prima o poi? Avrò mai l’opportunità di scappare di nuovo, o avrò davvero un guinzaglio al collo? Quanto tempo passerà prima che mi trasformi in una schiava a tutti gli effetti?

“Che c’è?” chiede Umberto. “A che pensi?”

La guarda con le sopracciglia corrucciate, come se potesse in qualche modo avvertire il suo tormento interiore.

Camila ricambia lo sguardo, rimanendo in silenzio per qualche istante. “Ho sempre pensato di meritare di più,” dice ad un certo punto. “Fin da quando ero bambina, fin da allora. Pensavo che… Pensavo che a me sarebbe andata meglio di come è andata per mia madre e mio padre. Le lacrime le bagnano i capelli, le labbra, il colletto del cappotto. “Sposare te è stato lo sbaglio più grande della mia vita,” dice. “Tornerò con te, sarò la tua schiava, ma ricordati questo: sposare te è stato il mio più grande sbaglio.”

In qualche modo, le parole di Camila arrivano dritte all’animo di Umberto. Lo turbano, lo fanno sentire sporco. Camila se ne accorge, e sta per parlare di nuovo, ma il rumore di un’auto li allontana dal luogo in cui stavano andando entrambi. Un luogo che, forse, avrebbe potuto cambiare le cose.

“Sono tornati,” dice lui, lievemente allarmato. “Resta qui.”

La lascia nella stanza, chiudendo la porta a chiave e raggiungendo gli altri. Camila si avvicina di nuovo al legno, cerca di origliare. Per un lungo minuto non sente nulla, ma poi le grida arrivano anche a lei.

Carmelo impreca, qualcuno sbatte violentemente qualcosa. “Lo sapevo, lo sapevo!”

“Ce ne dobbiamo andare… subito…” Federico. “Adesso… Polizia… merda, merda!”

C’è la Polizia? La Polizia mi ha trovata? Davide ha contattato la Polizia?

Altre voci, Camila cerca di ascoltare ma non capisce tutto.

“…convinta, l’ho convinta.” E’ Umberto. “Tornerà con noi, ora dobbiamo solo andarcene… a posto… promesso…

“…cambia tutto, non hai capito? Se c’è una denuncia… rapimento… un rischio…

“E’ troppo, è troppo.” Carmelo. “Non doveva… così… Dovevamo sistemarla subito… Così è troppo…

Che cosa è successo? Perché dicono che è troppo? Di cosa parlano?

“Andiamocene…” Di nuovo Umberto. “Portiamola con noi… convinta… non ci sarà bisogno di…

Di cosa? Di cosa? Non ci sarà bisogno di cosa?

Le voci si allontanano, ma anche se Camila non può capire ciò che i tre dicono, sa che sono agitati, sa che qualcosa è cambiato. La Polizia ha scoperto dove l’hanno portata? Qualcuno li ha denunciati? Qualcuno li ha visti rapirla dalla strada in cui passeggiava con Bilbo?

Camila si allontana dalla porta e inizia a camminare nervosamente avanti e indietro.

Ho accettato di andarmene. Ho accettato di tornare in quel posto. Non possono farmi nulla, giusto? Se avessero voluto farmi del male l’avrebbero fatto immediatamente.

Ma allora perché non si decidono? Perché sono insicuri, perché litigano?

Ad un tratto le grida sono di nuovo vicine, per cui Camila torna alla porta.

“Tu non sei lucido!” grida Carmelo. “E’ tutta colpa tua se siamo arrivati a questo!”

“No, no! Voi non potete, no!” Umberto grida qualcos’altro, ma Camila non riesce a sentirlo. Sente però un rumore, come di un mobile spostato con violenza. Qualcuno impreca, forse lo stesso Umberto. “Non possiamo, no!” grida ancora.

“Lo faccio io. Ci penso io.” Federico. Le sue parole viaggiano nell’aria e oltrepassano il legno della porta, fino al cuore di Camila.

Ci penso io.

I passi degli uomini che si avvicinano alla sua porta sono solo un sottofondo al battito forsennato del suo cuore. Il rumore della chiave nella toppa è lontano e perduto.

La porta si apre con un movimento rapido, sbattendo con violenza sul muro.

La prima cosa che Camila vede è Federico. La seconda è la pistola che l’uomo ha in mano.

Dietro di lui, Carmelo trattiene Umberto, il quale grida il nome di Federico, del capo, intervallato da imprecazioni e oscenità.

“Mi dispiace,” dice Federico, unendo alle parole un sorriso macabro.

E’ in quel momento che Camila avverte una sensazione mai provata prima, una sensazione mai provata in tutta la sua vita. E’ una sensazione di pura disperazione, di puro panico.

E’ la sensazione provata da coloro che si trovano su un lago ghiacciato nel punto in cui la lastra gelida si sta rompendo. E’ la sensazione che provano i condannati a morte che si stendono sul lettino e si preparano all’iniezione letale.

E’ la sensazione che provano tutti coloro che sono ad un passo alla morte.

Non esiste un nome specifico per ciò che lei sta provando. Potrebbe chiamarsi panico, terrore, disperazione, ma questi sarebbero termini insufficienti, deboli.

Ciò che Camila prova adesso è qualcosa che la scuote e la paralizza al tempo stesso. E’ la consapevolezza mista alla voglia di lottare per l’ultima volta; è il rifiuto, da parte del corpo e della mente, di ciò che sta per accadere.

Si dice che quando si sfiora la morte, quando si è ad un passo dall’ultimo respiro, tutta la vita appaia davanti agli occhi come un rapido film fatto di immagini, suoni, voci. La mente cerca di abbracciare il passato in quei pochi secondi che restano per elaborare sensazioni, momenti felici, ricordi positivi.

Poi c’è chi si ribella alla fine imminente, chi vuole lottare.

Come il condannato a morte che cerca, fra i presenti, il volto di un parente o di un amico.

Come coloro che sono ad un passo dal congelamento e cercano comunque di aggrapparsi al ghiaccio o di nuotare verso l’alto. La realtà è lì, ad un passo, eppure l’istinto cerca di andarle contro, di ribellarsi fino all’ultimo.

Camila però è sempre stata diversa dagli altri. Sempre, fin da quando era una bambina.

I suoi genitori vivevano come barboni, mentre lei era l’unica a cui interessava la pulizia, il decoro. Lei era l’unica a cercare sempre il sapone e l’acqua corrente per lavarsi. In Germania, quando le adolescenti che vivevano nel suo palazzo uscivano per godersi la loro età, lei rimaneva in casa a pulire, preparare la cena, rifare i letti e lavare il bucato. Anche allora era diversa. Si occupava della sua famiglia, dei suoi genitori. Lo ha fatto quando ha iniziato a lavorare dai Bauer, lo ha fatto quando loro pensavano ad oziare e a litigare.

Camila è stata una bambina diversa, un’adolescente diversa, una figlia diversa, una moglie diversa.

Diversa dalle mogli di Carmelo e Federico, ad esempio, le quali hanno sempre taciuto, ubbidito, abbassato la testa.

La sua diversità l’ha resa orfana, vedova. Sola, priva di amici, priva di aiuto.

E’ diversa anche ora, Camila, ora che sa che è ad un passo dal sipario nero.

Lei non rivede la sua vita, no. Lei non rivede tutti i ricordi, tutte le voci, tutti i volti di coloro che hanno fatto parte della sua vita. Lei vede solo ciò che ha amato. Lei vede solo ciò che ama.

Lei vede solo le persone che le hanno dato amore, le persone con cui ha sorriso, le persone che – anche se per poco tempo – hanno reso la sua vita migliore.

Camila rivede il signore e la signora Bauer. Rivede se stessa, nello studio del dottore tedesco, durante una delle ultime visite dopo la terapia a base di vitamine. Si vede sorridente, accanto alla signora Bauer, che le fa i complimenti perché la ragazza dinoccolata può finalmente camminare dritta.

Camila rivede, ed è strano perché fino a questo momento non ricordava neppure dell’esistenza di quelle persone, le commesse del supermercato di Carovigno, che la lasciavano girovagare nelle corsie senza temere che potesse rubare dolciumi e biscotti.

Camila rivede Davide. Lo vede bambino, con i capelli biondi e il viso paffuto. Vede le sue orecchie a sventola, vede le scarpe di Priscilla e le barrette al cioccolato nascoste sulla finestra delle docce, dietro il flacone di docciaschiuma. Vede e ricorda la prima sera a casa dei Falco, quando Simona le ha affidato la sua cucina. Vede il sorriso caloroso di Giancarlo quando le ha dato il primo assegno. Vede le barrette nascoste in casa, vede se stessa e Davide a cena fuori.

“Non lo vedrò mai più,” dice, piangendo. Lo dice come se tradurre il pensiero in parole potesse affievolire il dolore. “Non gli dirò mai che lo amo. Non glielo dirò mai.”

Pensa a Bilbo. Pensa ai capelli biondi di Priscilla, e alle risate con Simona. Pensa all’amore che ha ricevuto e a quello che non ha fatto in tempo a dare. Pensa al desiderio espresso sulla torta al cioccolato, un desiderio che non realizzerà mai.

Non voglio morire così. Non voglio morire. Voglio vivere.

“Non lo fate,” dice, gli occhi appannati a causa delle lacrime, il corpo una foglia al vento. “Vi prego, vi prego. Ti prego, Umberto. Ti prego. Verrò con voi, farò tutto quello che volete.

“Vai tu,” dice Federico.

Camila non capisce cosa succede, a causa della vista compromessa dalle lacrime, ma ad un tratto senta due mani sulle braccia, due mani che la bloccano. “Ferma.” La voce è quella di Carmelo. “La tengo io,” dice a Federico.

A nulla valgono le sue grida. A nulla vale il suo tentativo di liberarsi da Carmelo. Tutto accade in un attimo.

Il suo grido, quello di Umberto.

Camila sente lo sparo, chiude gli occhi. E muore.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Ultimo Capitolo ***


Questo è l’ultimo capitolo di ‘Ti Ricordi Di Me

Questo è l’ultimo capitolo di ‘Ti Ricordi Di Me?’. Fra domani e dopodomani posterò anche l’epilogo. No, non ci saranno extra. No, non ci sarà un seguito.

 

L'ultimissima parte di questo capitolo è scritta in prima persona.

 

Ci vediamo alla fine. Buona lettura.

 

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Capitolo 18 – Ultimo Capitolo

 

Delicate – Damien Rice

 

Davide viene a sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua famiglia sono seduti a tavola, a cena.

 

Per tre giorni di fila, il ragazzo ha telefonato all’ispettore a cui ha denunciato la sparizione di Camila, chiedendo informazioni. Tutto ciò che ha sempre ricevuto in risposta è stato un: Al momento non abbiamo novità. La stiamo cercando. Non appena sapremo qualcosa vi contatteremo.

Per tre giorni, i Falco si sono chiusi in un’atmosfera cupa, muta, nera.

Davide è tornato due volte a casa di Camila, solo per sapere da Alessia che Camila non è mai rientrata, e che né lei né Ida l’hanno più rivista. Priscilla ha cercato di essere ottimista, parlandogli di come la gran parte della gente scomparsa viene subito ritrovata.

Simona e Giancarlo si sono comportati da adulti. Hanno pregato Davide di avere fiducia nella Polizia, lo hanno obbligato a mangiare anche quando lui non aveva fame, gli hanno consigliato di uscire a distrarsi con i suoi amici. Ma ad eccezione delle due volte in cui ha attraversato la città per andare a casa di Camila, Alessia e Ida, Davide non ha mai lasciato il suo appartamento.

E’ rimasto in casa, spostandosi dalla sua camera al salotto, alla cucina, al terrazzo. Rimanendo accanto al telefono, pronto a rispondere ad ogni primo squillo. Si è occupato di Bilbo, portandolo a spasso più volte nell’arco della giornata, ma per periodi brevi, in modo da non rimanere troppo lontano dal telefono. Ha abbandonato i libri, ha ignorato le chiamate e i messaggi gli amici.

Ha raccolto i vestiti di Camila dal pavimento della sua stanza e li ha piegati ordinatamente, solo per poi afferrarli e stringerli a sé due minuti dopo.

Lunedì mattina, Simona gli ha parlato. “La troveranno,” gli ha detto. “Vedrai, Davide. Andrà tutto bene.”

“E se non dovesse andare bene?” ha risposto lui. “Se non dovessero trovarla mai?”

Simona ha letto lo smarrimento e la disperazione sul viso di suo figlio, per cui ha appoggiato sul tavolo i piatti che aveva in mano e gli è andata accanto, accarezzandogli i capelli. “La troveranno,” ha ripetuto. “Me lo sento. Camila è una ragazza splendida,” ha detto, “non può esserle successo nulla di grave. Devi rimanere tranquillo, Davide. Devi cercare di rimanere calmo.”

Davide si è lasciato accarezzare e coccolare dalla madre, bisognoso di rassicurazioni e di affetto. “Posso raccontarti come ci siamo conosciuti?” ha detto poi.

“Pensavo che ce lo avessi raccontato ieri, quando siamo rientrati dalla Sardegna.”

“Sì, ma voglio rifarlo. Voglio raccontarlo a te… senza… senza Giancarlo.

“Va bene,” ha risposto la madre. Si è seduta al suo fianco e gli ha preso la mano. “Raccontami tutto.”

Trenta minuti dopo, Simona si è alzata per prendere un fazzoletto e asciugarsi gli occhi. “Perché non me ne hai mai parlato?” ha chiesto a suo figlio, con un tono più materno di quello usato il giorno prima. “Perché ti sei tenuto tutto dentro? Io e tuo padre saremmo intervenuti, a Carovigno,” ha detto. “Ci saremmo informati, avremmo contattato i servizi sociali. Era solo una bambina,” ha detto asciugandosi gli occhi. “E tu l’hai aiutata, tu le hai portato le scarpe di tua sorella.” Lo ha abbracciato, continuando a commuoversi.

“Ho sempre pensato che la vita non debba essere stata facile per lei,” ha detto Simona dopo un po’. “Avrei voluto sapere prima queste cose, Davide, perché come quando eravate bambini… avrei potuto aiutarla. Perché ha lasciato suo marito, te l’ha mai detto?

“No. Non ne ha mai voluto parlare.”

Simona ha riflettuto sulle infinite possibilità: un marito violento, una separazione dolorosa, un grave lutto che li ha portati a dividersi.

“Hai raccontato tutto alla Polizia, vero? Non hai nascosto niente.”

“Certo,” ha risposto il ragazzo. “Papà diceva sempre che se vuoi aiuto dalle forze dell’ordine devi dire la verità.”

“E’ vero,” ha detto Simona. “E’ così. La troveranno,” ha ripetuto poi la donna, cercando di sorridere a suo figlio. “Ne sono certa. Andrà tutto bene.”

 

Davide viene a sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua famiglia sono seduti a tavola, a cena. La tv è sintonizzata sul telegiornale, ma nessuno sta ascoltando con attenzione. Gli unici rumori presenti nell’aria sono quelli delle forchette nei piatti.

“…ed ora passiamo alla cronaca e al tragico ritrovamento del cadavere di una donna di origini brasiliane, Camila Romano, nel lago di Sabaudia. La donna sembra essere stata uccisa da un colpo al cuore. Gli inquirenti setacciano la zona alla ricerca di indizi. Vediamo il servizio.”

La prima forchetta a cadere nel piatto è quella di Giancarlo. Priscilla si alza di scatto per prendere il telecomando ed alzare il volume. Davide resta immobile.

“E’ proprio qui, sulla riva del Lago di Sabaudia, all’interno del Parco Nazionale del Circeo, che il corpo di Camila Romano, 32 anni, è stato ritrovato all’alba di questa mattina.” Le immagini mostrano il lago, quattro o cinque uomini fermi in un punto, attorno ad un sacco nero adagiato sull’erba. “Camila Romano era scomparsa da Roma tre giorni fa, in circostanze ancora da chiarire. Il corpo della donna era riverso nel lago, ed è stato ritrovato da…

La voce del giornalista diventa immediatamente un sottofondo, per Davide. La sua mente prende a lavorare velocemente.

E’ morta. Camila è morta.

Trentadue anni. Hanno detto che ha trentadue anni. Aveva. Aveva trentadue anni.

Li ha festeggiati con me. Le ho detto Ti Amo.

E’ morta. Non la vedrò più. Mai più.

“Davide…” La voce di Simona è un soffio, eppure riesce a coprire quella del giornalista. La donna gli è accanto, abbracciandolo senza che lui se ne renda immediatamente conto. “Giancarlo, spegni tutto. Subito. Davide, tesoro.” Lo abbraccia, gli accarezza i capelli biondi.

Davide sente spostarsi la sedia su cui è seduto, ma non si rende conto che a spostarla è lui, per consentire a Simona di avvicinarsi.

“E’ impossibile…”

“Forse non è lei, forse c’è stato uno sbaglio…

“Non è possibile…” continua a ripetere Priscilla.

La Polizia ci chiamerà,” dice Giancarlo. “Ci spiegheranno tutto.”

“Hanno detto che l’hanno uccisa. Hanno detto che è morta per un colpo…”

“Smettetela, maledizione,” sibila Simona, mentre abbraccia Davide. “Smettetela.”

Davide si copre le orecchie con entrambe le mani e continua a fissare le verdure arancioni nel suo piatto. Si concentra sui cerchi semi-perfetti dell’olio, sugli schizzi verdi del prezzemolo.

Lo fa sperando di arginare la realtà, di allontanare il dolore.

“Davide, tesoro…” Sua madre cerca di dargli conforto, ma sa (come lo sanno Priscilla e Giancarlo) che è inutile.

“Davide…” Priscilla gli si avvicina, facendosi spazio fra il tavolo, le sedie e sua madre. “Davide, vieni con me,” dice. “Andiamo… Andiamo… Andiamo a portare Bilbo, andiamo con…

Non sa neanche lei come parlargli. Non sa neppure lei cosa dirgli.

Gli anni sono passati, ma il ricordo di un’altra tragica notizia è ancora fresco in loro, e Priscilla lo ricorda bene.

Il giorno in cui seppero della morte del padre, Davide e Priscilla reagirono diversamente. Priscilla pianse, Davide no. Quando Simona comunicò loro la notizia, tutto ciò che Davide disse fu ‘Come?!’. Non pianse, il bambino. Non lasciò cadere neppure una lacrima.

Sebbene il dolore per la perdita di suo padre sia rimasto lì per 15 anni, Davide non è mai stato aperto e pronto a mostrare la sua sofferenza. Ogni volta che Priscilla cercava di portare a galla qualche ricordo, qualche aneddoto divertente, Davide fingeva sempre di non ricordare, o di avere di meglio da fare. Per anni, Simona e Priscilla hanno commentato con preoccupazione il suo chiudersi totalmente al dolore, e adesso che Camila è morta… adesso temono che lui possa fare la stessa cosa.

“Vieni con me,” gli dice sua sorella. “Andiamo, vieni.”

“No,” dice lui, la prima parola da quando ha ascoltato le parole del giornalista. “No.”

Si libera dell’abbraccio della madre e sposta la sedia indietro per potersi alzare. “No,” ripete.

Solleva lo sguardo sulla sua famiglia. “Vado in camera mia,” dice.

“Davide, tesoro…”

“No, mamma.” Si allontana dalla sua presa con uno scatto, violento a dispetto della tranquillità che c’è nella sua voce. “Vado in camera mia,” ripete.

Ciò che Davide prova mentre lascia il salone e si avvia alle scale non è traducibile in parole. Una parte della sua mente gli chiede di lasciarsi andare al dolore che lo sta mangiando dall’interno. Una parte di sé lo supplica di rompere qualcosa, di gridare, di piangere e di reagire.

L’altra parte, invece, gli dice che è tutto un sogno, che quelle ascoltate al telegiornale sono parole di fantasia, parole inventate.

Non può essere morta. Sì, è morta.

Non la rivedrò mai più. Non è vero, la rivedrai ancora.

Non sono stato capace di proteggerla. E’ colpa mia. Non è colpa tua. Camila sta bene.

Quando si chiude la porta della sua camera alle spalle, Davide nota immediatamente i vestiti di lei appoggiati su una sedia, piegati e ordinati. Si siede sul letto e li prende per accarezzarli, per stringerli.

Li indosserai di nuovo. Non li indosserai più.

E’ tutta colpa mia. Sarei dovuto andare io con Bilbo.

Sei morta. No, non sei morta.

Le due parti di lui gli fanno compagnia per qualche minuto, cullandolo in uno stato di pura e finta tranquillità. Non appena pensa alla morte di Camila, la mente di Davide elabora qualcosa per convincerlo del contrario, per convincerlo che non è morta, che tornerà presto, che la Polizia la ritroverà.

Ma poi, ad un certo punto, Davide si rende conto di una cosa. Una cosa semplice e allo stesso tempo terrificante. Non sentirò mai più la sua voce. Non vedrò più il suo sorriso.

In quel momento, la mente non riesce a contrapporre nulla. In quel momento, Davide capisce che Camila è morta davvero. Che non la vedrà più. Che niente e nessuno potrà cambiare le cose.

Si stende sul letto, i vestiti di lei ancora fra le mani, e comincia a piangere.

Piange fino a tremare, fino a singhiozzare, fino a farsi sentire al piano di sotto.

Piange fra le braccia di sua sorella prima e di sua madre poi.

Piange e non ascolta ciò che loro gli dicono. Non riesce a farlo, non può farlo.

Continua a tenere i vestiti con sé per tutta la sera, per tutta la notte. Li tiene a sé anche quando Simona e Giancarlo vanno a portargli un tranquillante, ed è Giancarlo che lo aiuta a sollevarsi per bere.

Sua madre gli chiede di calmarsi, ma lui non può sentirla. Giancarlo piange con lui, per pochi istanti, ma Davide non può vederlo. Priscilla lo copre con un plaid e resta a guardarlo per due ore, in attesa che la medicina faccia effetto, ma Davide non se ne rende conto.

E’ tutta colpa mia. E’ morta per colpa mia. Avrei dovuto proteggerla. Avrei dovuto portare io Bilbo. Sono rimasto qui, e lei è morta. La mia Camila. L’ho persa per sempre. L’ho persa per sempre. Perché? Perché proprio lei? Perché proprio a me? Non la vedrò mai più. Mai più. Che succederà adesso? Che ne sarà adesso di me?

Ad un certo punto si addormenta, sfinito dal pianto e aiutato dal tranquillante.

Priscilla non se la sente di portargli via i vestiti di Camila, l’unica cosa che gli resta di lei.

Si limita ad accarezzargli i capelli, bagnandoli con le sue stesse lacrime mentre gli lascia un bacio sulla fronte. Vorrebbe dirgli qualcosa, vorrebbe confortarlo, ma sa bene, Priscilla, che la pace ed il conforto arriveranno solo dopo le lacrime.

Sa bene, Priscilla, che il momento delle lacrime è appena iniziato.

 

***

 

Il giorno successivo, giovedì, i Falco vengono interrogati dalla Polizia.

Davide non è presente. I tranquillanti lo hanno messo fuori uso, facendolo dormire profondamente per tutta la notte e per tutta la mattinata.

L’ispettore che ha raccolto la denuncia di scomparsa si reca all’appartamento nel primo pomeriggio e fa loro diverse domande circa il passato di Camila e la sua sparizione. Simona e Giancarlo ripetono all’ispettore ciò che sanno e chiedono informazioni sul ritrovamento e sulle cause della morte. Apprendono che è stato un colpo al cuore ad ucciderla. Apprendono che sembra si sia trattato di una esecuzione. Apprendono che la Polizia sta seguendo delle piste, ma che al momento non possono parlarne con nessuno.

Apprendono che i funerali potranno essere celebrati solo dopo l’autopsia, e che saranno i genitori di Camila, contattati durante la notte, ad occuparsene. A dispetto del rapporto con i Falco, dice l’ispettore, e a dispetto dell’intenzione di Giancarlo e Simona di finanziare tutte le spese, la vera famiglia di Camila è composta dai genitori e dal marito.

Quando Priscilla chiede del marito di Camila, l’ispettore cambia discorso.

L’uomo chiede di parlare con Davide, ma Simona si rifiuta di andarlo a svegliare. Non vuole che suo figlio sia sottoposto ad un nuovo stress, per cui chiede all’ispettore di rimandare il colloquio col ragazzo. L’ispettore accetta.

I Falco fanno nuove domande, in particolare Giancarlo. Qualcuno l’ha portata via da qui domenica mattina, vero? Come ci è arrivata a Sabaudia? Quanto tempo occorrerà per l’autopsia? Vorremmo metterci in contatto con la famiglia, come possiamo fare?

L’ispettore consiglia a tutti di aspettare qualche giorno, prima di mettersi in contatto con i Romano. Questo è un momento terribile e delicato per loro, ed egli crede che per il momento i genitori di Camila debbano essere lasciati soli nel proprio dolore.

“Camila non ne parlava mai,” dice Priscilla dopo che l’ispettore è andato via. “Non parlava mai dei suoi genitori.”

“Camila non parlava quasi di nulla,” mormora Simona, seduta sul divano accanto a suo marito.

“Avremmo dovuto capire che qualcosa non andava. Non si può morire in questo modo senza che dietro ci sia qualcosa di brutto,” aggiunge Giancarlo.

Per qualche minuto restano tutti in silenzio. Ad un certo punto, quando Bilbo si avvicina ai piedi di Priscilla – un chiaro segno del suo bisogno di essere portato fuori – Giancarlo si offre di accompagnarlo al suo posto. “Vado io,” dice. “Ho bisogno di camminare.” Dà un bacio a Simona e uno, sulla guancia, a Priscilla. “Restate qui. Davide potrebbe aver bisogno di voi.”

 

***

 

Davide si sveglia alle cinque del pomeriggio di giovedì. Impiega pochi secondi per capire dove si trova, perché ha un plaid sulle gambe e perché stringe i vestiti di Camila fra le mani.

Non è un sogno. Non ho sognato tutto.

E’ morta.

Pensarlo si traduce in una lastra di ghiaccio che si posa rapidamente sul suo corpo.

Pensarlo è come rivivere di nuovo il momento in cui ha visto il telegiornale, in cui ha sentito quelle parole. Camila Romano. Morta. Colpo al cuore.

“Davide.”

Il ragazzo scatta come una molla, quando sente la voce di sua madre. Simona è seduta ai piedi del letto, nella penombra della camera.

“Mamma.”

Davide si mette a sedere lentamente, strofinandosi gli occhi. Pungono, e lui sa bene perché. Ricorda le lacrime, ricorda di aver bevuto qualcosa grazie a Giancarlo.

“Mi avete dato un calmante” è ciò che dice a Simona, la quale lo osserva con un tazza fumante fra le mani.

La donna annuisce. “Per farti dormire e per farti… per farti calmare.”

Davide si gira in modo da mettere i piedi a terra. Indossa ancora le scarpe. Per la prima volta dalla sera precedente, lascia andare i vestiti di Camila; li sistema accanto al cuscino.

“Tieni,” dice Simona. “E’ camomilla, ti manterrà caldo e calmo.”

Lui l’accetta, ma non beve. Non ha sete, non ha voglia di assaporare niente. Chiude le mani attorno alla tazza, lasciando che il calore lo aiuti a rilassarsi.

Simona si siede accanto a lui, scostando il plaid per potergli accarezzare la schiena.

“Non sapeva fare le barchette,” dice Davide ad un tratto. Simona aspetta che continui. “Le barchette di carta,” aggiunge. “Nessuno le aveva insegnato a farle quando era piccola. Non sapeva farle. Dovevo insegnarglielo io,” dice. “Domenica mattina… Domenica mattina dovevo insegnarle a fare le barchette di carta.”

La tazza trema fra le sue mani, ma Simona non dice nulla.

Davide osserva il parquet per qualche istante. Le pieghe precise del legno, i listoni più chiari e quelli più scuri, il taglio spezzato in corrispondenza della parete e della porta. E’ chiusa, e da essa filtra la luce arancione del corridoio.

“Non mi resta niente,” riprende lui dopo un po’. “Non ho niente di lei. Non so niente di lei.” Gli occhi marroni sono gonfi e lucidi. Le labbra screpolate e arrossate. “Non saprò mai nulla di Camila. Non le parlerò mai più.” Si gira verso sua madre. “Che cosa devo fare?” chiede. “Come si fa… come faccio adesso? Come hai… come hai superato la morte di papà?

Simona ingoia il nodo che le chiude la gola e scuote il capo prima di parlare. “Non l’ho superata,” dice sotto voce. “Certe cose non si possono superare, Davide. Mai.” Gli accarezza i capelli e il viso, notando come la sua pelle chiara sia fresca. “Non c’è un modo per superare la morte della persona che ami,” continua. “Non c’è. Col tempo il dolore si affievolisce, le cose cambiano, ma non si dimentica mai.

Le lacrime scivolano sulle sue guance, e lei non le ferma. “Io ho avuto voi,” dice. “Ho avuto te e tua sorella. Tu e Priscilla mi avete aiutata. E’ per voi che… è per voi che non mi sono lasciata andare. Non potevo, non potevo annegare nel dolore. Dovevo occuparmi di voi, dovevo essere forte per voi. Avevo i miei figli ed è stato come continuare ad avere mio marito. Una parte di lui è sempre rimasta con me, in voi, e questo mi ha aiutata a non impazzire, a trovare la forza per andare avanti, per ricominciare. Nonostante questo, però, certi dolori non passano mai del tutto,” dice scuotendo il capo. “Possiamo solo adattarci, cercare di imboccare la strada meno dolorosa per andare avanti, cercare di trovare una nuova ragione per andare avanti. Ma qui, dentro l’anima, qui non passa mai.

“Io non ho nulla di lei,” dice Davide, tremando non solo nel corpo, ma anche nella voce. “Tu avevi noi, mamma. Io non ho… io non ho niente.”

“Tu hai i ricordi,” dice subito Simona. “Tu hai i ricordi, Davide, e quelli non può portarteli via nessuno. Le persone spariscono e muoiono,” dice con un singhiozzo causato dal pianto, “ma i ricordi… quelli non spariscono. Quelli restano con te per sempre, anche quando le persone non ci sono più.

Si avvicina per dargli un bacio sui capelli e sulla guancia. “Non passerà,” sussurra, “non subito, almeno… ma andrà meglio. Non ora, non domani, non fra una settimana o fra un mese. Ma andrà meglio. Non ti dirò che sei giovane e che hai tutta la vita davanti per innamorarti e per essere felice. No. Ti dirò che andrà meglio, tesoro. Ti dirò che ci sarò sempre per te e che in qualsiasi momento vorrai parlare, o piangere, o gridare, o… o ricordare… io ci sarò sempre per te. Sempre.”

 

***

 

Due giorni dopo, sabato, Davide riceve una visita inaspettata, quella di Alessia.

La serata di giovedì e l’intera giornata di venerdì sono passati in una nebbia fatta di poche parole, molte tazze di camomilla e due dosi di tranquillanti. Priscilla gli è stata accanto, cercando di distrarlo e di farlo sorridere, ma i tentativi della ragazza non sono andati a buon fine. Perfino Bilbo, il quale si è lanciato verso il suo padrone non appena lo ha visto riemergere dal piano superiore, non è riuscito a far spostare l’attenzione di Davide da Camila e dalla sua morte.

“Ciao,” gli dice Alessia quando lo vede seduto su una delle poltrone del salotto. Davide sposta lo sguardo verso di lei e cerca di sorriderle.

“Ciao.”

Simona, che ha aperto la porta alla ragazza e l’ha accompagnata in salotto, chiede ai due se desiderano qualcosa da mangiare o da bere.

“No, grazie,” dice Alessia. “Sto bene così.”

“Tu, Davide? Vuoi qualcosa?”

Lui scuote il capo.

“Va bene. Io torno in cucina a preparare il pranzo. Se avete bisogno di me sono di là,” dice Simona. E poi aggiunge: “Alessia, puoi lasciare quella valigia all’ingresso, se vuoi. Bilbo non la distruggerà, tranquilla.”

“No,” risponde la ragazza. “Meglio di no. Qui… qui c’è… Questa valigia è per Davide.

“Oh. D’accordo, allora. Vi lascio… vi lascio soli.”

Alessia parcheggia il trolley con cui ha attraversato Roma, in metropolitana prima e sull’autobus poi, accanto al divano, sedendosi sul cuscino più vicino alla poltrona su cui si trova Davide.

Lui osserva il trolley. “E’ per me?” chiede, risvegliandosi magicamente dal torpore che lo accompagna da giorni. “Che cos’è?”

“Mi dispiace,” dice Alessia, torturandosi le dita.

Indossa un giubbotto nero e un paio di jeans chiari. I capelli biondi sono sciolti e disordinati, il viso privo di trucco.

“Mi dispiace per Camila,” ripete, strofinandosi il naso.

Davide non sa cosa dire, per cui si limita a spostare lo sguardo verso il tavolino di vetro su cui di solito sono appoggiate le riviste.

“L’ho saputo giovedì mattina,” continua Alessia. “Me l’ha detto Ida, a dire il vero, io non guardo mai il telegiornale e non leggo i giornali. Mi dispiace tanto, Davide. Mi dispiace ta-

“Che c’è in quella valigia?” chiede il ragazzo, improvvisamente infastidito dalle parole di Alessia.

Non vuole il suo dispiacere, non vuole che sia dispiaciuta per Camila. Lei e Ida l’hanno sempre trattata male, e ora è dispiaciuta perché è morta?

Prima di alzarsi dal divano, Alessia usa un fazzolettino per asciugarsi il naso. Afferra il trolley con una mano e lo sistema a terra, accanto alla poltrona. Si piega sulle ginocchia per aprirlo, facendo scorrere la cerniera da un lato all’altro. Solleva la parte superiore della valigia verso di sé, in modo da permettere a Davide di osservarne il contenuto.

“Sono fotografie,” dice, le lacrime che grattano la gola inesorabilmente. “Erano nel baule in camera di Camila, quello che non sei riuscito ad aprire. C’è anche una macchina fotografica. Sono bellissime, Davide. Credo che… credo che Camila fosse una fotografa, oppure… oppure le piaceva tanto fotografare. Sono bellissime.”

Davide scivola dalla seduta della poltrona sul pavimento, per osservare da vicino ciò di cui parla Alessia. Nel trolley vi sono decine e decine di foto, sistemate in un sacco di plastica trasparente. Le sue mani tremano quando prova ad aprire l’involucro.

“Erano… erano nel baule?” chiede. “Come hai fatto… come lo hai aperto?”

“Mi ha aiutata Ida,” risponde Alessia, un timido sorriso sul suo volto. “Suo padre ha un negozio di ferramenta a Benevento, ricordi? Ida sa aprire qualsiasi cosa, ha un kit di cacciaviti e tenaglie con cui potresti anche-

“Perché le hai portate a me?” chiede lui. “La Poliziala Polizia non è venuta all’appartamento? Queste potrebbero… Queste foto potrebbero…

Questo foto sono solo delle foto,” dice Alessia, appoggiando una mano sulla spalla di Davide. “La Polizia è venuta giovedì sera. Un ispettore ci ha fatto delle domande su Camila, sulla gente che frequentava, sulle sue abitudini in casa. Non si sono preoccupati del baule, Davide. Non hanno neppure curiosato fra le sue cose, nel suo armadio.

“Perché?”

“Non ne ho idea,” dice Alessia. “Probabilmente torneranno nei prossimi giorni. Non lo so.”

La ragazza si alza da terra e si siede sul divano. “Mio padre non vuole che viva più in quel palazzo,” dice. “Secondo lui non è un posto sicuro. Dovrò cambiare casa nelle prossime settimane, e quindi… tutte le cose di Camila… Ho pensato che…” Si ferma, cerca di deglutire ma non ci riesce.

Abbassa gli occhi per non mostrarsi debole, per non fargli capire che sta per scoppiare a piangere.

“Mi dispiace,” ripete. “Mi dispiace tanto.” Usa di nuovo il fazzolettino, stavolta per asciugarsi gli occhi. “Tu eri il suo ragazzo. Le sue cose dovresti averle tu, quindi. I suoi vestiti, le sue fotografie… Noi non… Mi dispiace,” ripete, piangendo ora senza riuscire a trattenersi. Alza gli occhi per guardarlo. “Mi dispiace, Davide. Io e Camila… io non l’ho mai… L’ho sempre trattata male,” dice, la voce distorta dal pianto. “Non ho mai pensato che lei potesse… Queste foto… Queste foto sono bellissime, Davide. Le ho viste,” dice, “le ho viste tutte, e Camila… Mi dispiace di averla trattata in quel modo… La chiamavo pazza…” dice fra i singhiozzi. “Chi l’ha uccisa? Perché l’ha fatto? Lei non… Nessuno… Nessuno merita…” Non riesce ad andare avanti, non riesce a continuare.

Davide non l’ha mai vista piangere. L’ha vista sorridere, sedurre, godere, arrabbiarsi, perfino preoccuparsi… ma non l’ha mai vista piangere. Il tremore che la scuote, ora, è profondo e sincero, oltre che doloroso da vedersi.

“Mi dispiace di averle detto quelle brutte cose,” dice Alessia ad un certo punto. “E’ sempre stata sola. Non mi sono mai preoccupata di chiederle come stesse, l’ho sempre presa in giro, e ora… ora non potrò mai chiederle scusa. Queste foto… Devi tenerle tu,” dice. “E’ giusto che le abbia tu. Nei prossimi giorni ti porterò anche i vestiti e tutto quello che i genitori non hanno preso e-

“I genitori?” chiede Davide, parlando per la prima volta da diversi minuti. “I genitori di Camila sono venuti all’appartamento?”

“Sì,” risponde Alessia, asciugandosi gli occhi con le dita. “Ieri pomeriggio. Sono rimasti per dieci minuti, sono… Si sono comportati in maniera strana,” continua la ragazza, ritrovando la voce. “Ci hanno detto che erano la madre e il padre di Camila, sono entrati nella sua stanza e si sono chiusi lì per un po’. Ida e io pensavamo che… Pensavamo che volessero portare via i suoi vestiti, le sue cose… ma quando sono usciti… quando sono usciti erano quasi arrabbiati, nervosi. Non hanno portato via nulla e questo… e questo mi ha fatto… Perché non hanno portato via nulla? Ida ha chiesto loro se avessimo potuto fare qualcosa per aiutarli, ma loro ci hanno mandate a quel paese.

“Che cosa?”

“Sì,” dice Alessia. “Ci hanno mandate a quel paese e sono andati via. E’ in quel momento che sono tornata in camera di Camila e ho cercato di aprire il baule. Volevo… Quando i suoi genitori si sono comportati così, ho pensato che… Io sono stata…” Riprende a piangere, e stavolta Davide prova una fitta di dolore nel vederla così distrutta. “Io sono stata cattiva con Camila,” dice Alessia. “Ho sbagliato nel trattarla male, ho sbagliato. Ma i suoi genitori… perché non hanno preso le sue cose? Perché se ne sono andati quasi come se non vedessero l’ora di farlo? E’ come se… è come se fossero venuti a cercare qualcosa, e quando non l’hanno trovato se ne sono andati.

“E hai deciso di portare le fotografie a me…

Alessia annuisce subito. “E’ giusto che le abbia tu. Tu sei stato l’unico… tu sei stato l’unico ad esserti occupato davvero di lei. Sei stato l’unico ad averla trattata come si deve, mentre io… mentre io l’ho chiamata pazza. La prendevo in giro perché mangiava tanto cioccolato e perché aveva l’armadietto del bagno pieno di sapone. Chissà cosa nascondeva,” dice fra le lacrime. “Chissà perché… perché è morta… Tu meriti di avere queste cose,” aggiunge Alessia. “Non io, non i suoi genitori. Non la Polizia.”

“Alessia, io…” Davide osserva le foto. Alcune sono in bianco e nero, ma la maggior parte è a colori. Raffigurano paesaggi montani, rocce, fiori, piante. Le dita del ragazzo scivolano sulla carta lucida fino a trovare uno scatto che raffigura Camila. Un primo piano. Un autoscatto.

“Era così bella,” dice Alessia, notando la foto. “L’ho sempre pensato, ma non l’ho mai detto perché… perché sono una stupida. Devi tenerle tu,” dice. “Devi tenere tu le sue cose perché…”

Ma Davide non la sente più. I suoi occhi sono incollati sulla foto che ora ha fra le mani, un primo piano a colori della sua Camila, della ragazza di Carovigno. I capelli le coprono parte del viso, a causa del vento che probabilmente soffiava quando la foto è stata fatta.

Camila sorride, i suoi occhi azzurri brillano. Sembra più giovane, o forse più rilassata, più felice.

“Grazie,” dice Davide, la voce roca a causa delle lacrime che si fanno strada in lui. “Grazie per averle portate qui.” Osserva incantato le labbra di Camila, le guance chiare, gli zigomi alti. “Grazie,” ripete.

 

Davide resta a guardare le foto di Camila anche dopo che Alessia va via. Le guarda una alla volta, prima da solo e poi in compagnia della sua famiglia.

Case, oggetti, paesaggi, ritratti, gruppi di persone. Nelle foto c’è di tutto. Nelle foto c’è una parte del passato di Camila di cui Davide non ha mai saputo.

Scatto dopo scatto, in lui nasce la sensazione che grazie a questo regalo inaspettato una parte della donna che amava continuerà a vivere, con lui e nel mondo. Priscilla gli chiede cosa farà con tutte le foto. Giancarlo risponde al suo posto, dicendo: “Dovresti esporle, Davide. Organizzare una mostra in memoria di Camila. Queste foto sono magnifiche. Magnifiche.”

Davide sente le voci di tutti, ma non le ascolta sul serio. Guarda ogni foto con curiosità, con una fame interiore, profonda. La fame di sapere, la fame di conoscere ciò che non sa e che probabilmente non saprà mai.

Perché Camila scattava foto? Chi sono queste persone? Perché non me ne ha mai parlato? Perché le teneva nascoste in quel baule? Perché? Perché? Perché?

 

Le domande si alternano alle lacrime e ai sorrisi. I Perché? fanno a gara con i Mi Manchi e con i Ti Amo detti al vuoto, detti ad una foto, detti ad un volto sorridente impresso su un foglio per l’eternità.

 

I giorni passano, e Davide impara lentamente che, così come sua madre gli aveva detto, i ricordi non li cancella nessuno. I ricordi restano con noi anche quando le persone ci lasciano, scompaiono, muoiono.

Camila è morta, ma di lei rimarranno molte cose.

I suoi sorrisi, nascosti, timidi e spaventati nella maggior parte dei casi.

La sua dolcezza, infinita e smisurata.

La sua gentilezza e il suo amore per il prossimo, un amore incondizionato e sempre genuino.

La sua voglia di vivere, di migliorarsi e di rimanere sempre leale a se stessa, nonostante tutto e tutti.

Le sue parole, posate e sincere, discrete e gentili.

La sua dignità. Una dignità che l’ha accompagnata fin da quando era una bambina alla ricerca di un posto in cui lavarsi.

Di lei rimarranno molte cose. In Davide e in tutte le persone che Camila ha incontrato nel corso degli anni. Alessia, Ida, Priscilla, Simona e Giancarlo. Le famiglie per cui ha lavorato, le vicine di casa della Basilicata, perfino i suoi genitori.

 

Davide ricorda le cose più belle. I momenti che porterà con sé per sempre.

Li ricorda e li ripete nella mente e nel cuore.

 

“Come ti chiami?”

“Camila.”

“Camilla?”

“No, Camila. Con una L.”

“Camila. Verrai anche domani? Io verrò anche domani. Se vuoi… se vuoi posso portarti un’altra barretta. Sono buone, sono le mie preferite.”

 

“No. Non posso accettarle.”

“Perché? Priscilla non le usa, e le tue sono rotte. Prendile. Vuoi una barretta? Sono buone, non è vero?”

 

“Sei tu. Se la stessa Camila. Ti ho riconosciuta subito. Camila, con una L.”

“Sono io.”

 

“E se io volessi parlarti di nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera. Come possiamo fare?”

“Possiamo rivederci qui, domani sera. E parlare ancora.”

 

“Mi piace passare del tempo con te, Camila. Mi piace il modo in cui… Mi piace il modo in cui mi sento quando sono con te.

“Non so cosa provi quando siamo insieme… ma anche a me piace passare del tempo con te.”

 

“Mi stai dicendo che accetterai? Accetterai il lavoro?”

“Sì.”

 

“Sabato è il tuo compleanno. Non so se hai impegni, ma se non ne hai… lo passeresti con me? Verresti a cena con me per festeggiare il tuo compleanno?

 

“Mai nessuno… mai nessun estraneo si era occupato di me o preoccupato per me. Diamine, neanche i miei stessi genitori si preoccupavano per me. Quando camminavamo vicini si scansavano, mi dicevano che puzzavo. Come se avessi delle colpe per il fatto che non potevo lavarmi. Tu invece non l’hai fatto. Tu non ti sei mai allontanato da me. Forse mi hai dato speranza. La speranza che le cose potessero migliorare, che anche gli altri potessero interessarsi a me. Volermi bene.”

 

“Puoi farlo anche adesso, Camila. Puoi scacciarmi. Ma anche stavolta mi vedrai tornare. Tornerò sempre per te, perché ti amo.”

 

“Non sono pronto a lasciarti andare. Non stasera. Non dopo questa sera. Vieni a casa mia.”

 

Abbiamo fatto l’amore, quella sera. E’ stata lei a chiedermelo, è stata lei a prendere l’iniziativa. Si è lasciata andare fra le mie braccia. Si è lasciata baciare e spogliare. Si è lasciata condurre nel mio letto. L’abbiamo fatto lentamente. L’abbiamo fatto senza smettere neanche per un secondo di baciarci.

E’ stata la mia esperienza più bella, più intensa, più viva.

L’ho tenuta stretta per ore, dopo. Accarezzandole i capelli, le labbra piene, la pelle morbida dei fianchi. L’ho ascoltata mentre mi parlava. Le ho sussurrato che l’amavo.

“Non so fare le barchette,” ha detto ad un certo punto.

“Le barchette?”

“Le barchette di carta. Ho visto che ne hai un paio sulla scrivania.

“Sì. Le faccio sempre mentre studio, per distrarmi. Come sarebbe a dire che non sai farle? Non le hai mai fatte da bambina?”

“No,” ha risposto lei. Si è sollevata su un gomito, lasciando una mano sul mio petto nudo. “Ci sono tante cose che non so fare, tante cose che non ho mai imparato. Avrei voluto studiare, ad esempio, ma non ho mai avuto la possibilità di-

“Ti insegnerò a farle,” ho detto prima di darle un bacio. “Ti insegnerò a fare le barchette. Farai tutto ciò che non hai mai fatto, Camila. Te lo prometto.” L’ho attirata a me, l’ho abbracciata.

Ci siamo amati, quella notte, anche se lei non me l’ha detto.

L’avrebbe mai fatto? Non lo saprò mai.

 

Non ti dimenticherò, Camila. Mai.

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Scrivere questi ultimi capitoli non è stato semplice. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.

Un ringraziamento completo arriverà con l’epilogo.  A domani/dopodomani.

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


Anche stavolta, l’ultima parte è scritta in prima persona

Anche stavolta, l’ultima parte è scritta in prima persona.

 

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Epilogo

 

Every Breath You Take – Scala & Kolacny Brothers

 

 

2027

 

Sono passati diciassette anni.

Davide ne ha 41, ed è cambiato molto da quando studiava per laurearsi, da quando viveva con la sua famiglia.

E’ cambiato fisicamente, tanto per cominciare. I capelli sono corti rispetto a quando aveva ventiquattro anni, e scuri. Sono ancora biondi, ma sono pallidi, meno lucenti. Nel tempo ha messo su qualche kg, è diventato più robusto. E’ diventato, a tutti gli effetti, un uomo. Se una volta era semplicemente carino, adesso è attraente, e sono molte le donne che glielo ricordano quotidianamente. Perfino certe sue alunne hanno una cotta per lui.

Già, alunne.

Dopo essersi laureato e specializzato in ingegneria, Davide ha intrapreso la strada dell’insegnamento. Dopo anni di supplenze ed incertezze, di trasferte regionali ed extra-regionali, è riuscito ad avere un posto sicuro. Da quattro anni insegna matematica al liceo Esse di Roma, la città in cui vive.

Dopo la morte di Camila, Davide è cambiato anche da un punto di vista non fisico. E’ diventato introverso, chiuso. Ha smesso di sorridere, e di cercare qualcosa che lo facesse sorridere.

Si è chiuso in se stesso e nel dolore per due anni. La sua famiglia ha provato più volte ad aiutarlo, a fargli comprendere che annegare nel dolore non avrebbe riportato in vita la persona che amava. Neanche Priscilla, che sempre ha avuto su di lui un buon ascendente, è riuscita a liberarlo dal senso di colpa per non essere riuscito a salvare in tempo la ragazza di Carovigno.

Per due anni interi Davide si è crogiolato nella sofferenza e nel ricordo. Ha rivissuto l’unica notte con Camila fino ad odiarla, quasi. Fino a rivedere frammenti del suo sorriso e dei suoi occhi azzurri ancor prima di pensare a lei, ancor prima di iniziare a ricordare.

L’ha cercata a lungo. Nelle donne con cui è andato a letto dopo quei due anni di letargo, nelle ragazze che ha incontrato alle feste, all’università. L’ha cercata con disperazione, fino a che si è rassegnato. Fino a che non ha capito che Camila era scomparsa per davvero, per sempre, e che niente e nessuno avrebbe potuto riportargliela. I buchi nell’acqua fatti dalle indagini volte a trovare il suo assassino non lo hanno aiutato. Chiunque abbia ucciso Camila è svanito nel nulla, impedendo a Davide di avere risposte e giustizia.

Lentamente, con l’aiuto della sua famiglia e dei suoi più cari amici, l’allora ragazzo ha chiuso quel libro e ha provato ad aprirne un altro. Ha provato a dimenticare e a rifarsi una vita, e dopo numerosi tentativi falliti ci è riuscito.

Undici anni fa ha incontrato Giovanna, una collega che insegna italiano. All’inizio non le piaceva, non la trovava neppure simpatica. La considerava snob e superficiale, oltre che brutta. Ma poi, giorno dopo giorno, ha imparato a conoscerla e ad apprezzare le sue qualità. Nel giro di un anno si sono sposati (una cerimonia semplice, in municipio) e hanno comprato casa, un appartamento poco lontano dal quartiere in cui si trova l’abitazione dei suoi genitori. Con Giovanna, grazie a Giovanna, Davide è tornato a sorridere.

Il matrimonio, tuttavia, è durato soltanto sette mesi. A differenza di Simona, sua madre, Davide non è riuscito ad andare avanti, come invece avrebbe dovuto. Non è riuscito a rifarsi una vita, ad innamorarsi completamente di un’altra donna.

Giovanna lo ha lasciato dopo aver capito che in lui c’erano una solitudine ed un vuoto troppo grandi per essere colmati da una famiglia felice solo in apparenza o da un figlio che Davide non ha mai voluto mettere al mondo e che quindi non è mai arrivato. Davide, a sua volta, si è reso conto che la sua amarezza e il senso di colpa probabilmente non spariranno mai, e che non può essere di compagnia a nessuna donna, né tantomeno proporsi come candidato per un futuro felice.

Dopo la separazione e il divorzio da Giovanna ha avuto altre relazioni, più o meno brevi, ma non si è più fermato. Non ha più fatto progetti di lungo periodo.

 

Il ricordo di lei non lo abbandona mai. Qualcuno potrebbe giudicare il suo attaccamento a Camila non-salutare, e forse avrebbe ragione, ma a Davide non importa.

Ogni anno, in occasione del compleanno di Camila, Davide va nel luogo in cui una volta c’era il suo appartamento, l’appartamento che divideva con Alessia e Ida. Al suo posto, adesso, c’è uno dei pochi parchi verdi di Roma. La metropoli è cambiata, e trovare uno spazio dedicato alla natura è praticamente impossibile. Questo è un parco aperto da qualche anno, dopo la demolizione di alcuni palazzi, fra cui quello in cui viveva Camila e quello da cui proveniva la musica che loro due ascoltavano nel giardino. E’ molto ampio, include un piccolo laghetto artificiale, numerosi alberi e piante di ogni tipo. C’è perfino una zona dedicata agli animali, una specie di zoo in miniatura.

Ogni anno, Davide va lì da solo e cammina nei prati, in mezzo alle aiuole. Siede sempre sulla stessa panchina, e quando questa è occupata aspetta che chi vi è seduto vada via.

Non ne è certo, ma per lui quella panchina si trova nello stesso punto in cui si trovava la panchina del giardino abbandonato del palazzo in cui Camila viveva.

Ogni volta, si siede e resta così per un po’ di tempo, a pensare.

Ogni volta, porta con sé una piccola barretta al cioccolato. La scarta e la mangia, un minuto prima di andare via.

Pensa alla ragazza di Carovigno. Pensa a quando era giovane e spensierato, a quando la sua più grande preoccupazione era quella di aggiornare la classifica di hockey su prato sul suo computer. Pensa a quando nascondeva le barrette nel ripostiglio di casa, in attesa che lei le trovasse.

Ha dimenticato molte cose, ma certe non riesce a cancellarle. Ricorda ancora il colore delle ciabattine che usava da bambino negli spogliatoi del campetto di Carovigno. Ricorda la lunghezza della cintura della giovanissima Camila. Ricorda il profumo della sua pelle, il sapore dei suoi baci. La felicità che, quella sera, per la prima e per l’ultima volta, lesse nei suoi occhi mentre facevano l’amore.

 

E’ lì anche ora, Davide, al parco, durante una pausa di lavoro. Il cielo di Novembre è grigio e carico di pioggia, ma nonostante questo il parco è popolato come sempre. La temperatura non è bassa, a dispetto del maltempo imminente. Vi sono bambini a spasso con i genitori, o con le baby sitter, o con i nonni. Vi sono donne che portano a spasso i cani, uomini e donne che si baciano sulle panchine.

Davide osserva ciò che lo circonda con attenzione, e ad un tratto scorge due dei suoi alunni intenti a giocare con un frisbee. Sembra che i due avessero già notato il professore, perché nel momento in cui Davide gli sorride, i ragazzi smettono di giocare e si avvicinano, camminando svelti.

“Professore,” dice il primo, un ragazzo basso dai capelli lisci e neri, e i lineamenti asiatici. “E’ venuto a passeggiare qui?” chiede, sorridendo. “Non l’abbiamo mai vista al parco,” aggiunge.

“Già,” gli fa eco l’altro, più alto del primo. “Vuole giocare un po’ con noi? Agli altri non piace il frisbee,” dice. “Abbiamo anche un pallone, potremmo fare qualche tiro.”

Non è raro che gli alunni di Davide siano spontanei e amichevoli con lui. Il rapporto con i suoi allievi è sempre stato molto importante per lui, e dal momento che la sua è una materia ostica, Davide ha ben pensato di renderla più semplice alleggerendo il clima, in classe e fuori. Molti dei suoi alunni lo trattano come un vero e proprio amico, gli confidano i loro problemi e accettano volentieri i suoi consigli.

Insegnare, per Davide, non è solo far apprendere una materia, e di questo i ragazzi sono felici.

“Grazie, Liu, grazie, Teo,” dice Davide, rimanendo seduto. “Ma oggi non posso accettare. Ci sono anche gli altri?” domanda poi. “State facendo un pic-nic?”

“Sì,” risponde Liu, il ragazzo basso. “C’è tutta la terza, compresi i nuovi arrivati. Teo vuole fare colpo sulla ragazza americana,” dice, dando una gomitata al suo amico, il quale gliene restituisce una velocemente. “Non ha alcuna possibilità, glielo dica anche lei, prof. Visto che siamo in tema, hai zero possibilità,” dice allo spilungone. “Anzi, meno zero.”

Davide sorride. Meno zero non esiste, Liu. Te l’ho detto centinaia di volte. Visto che siamo in tema, fra qualche ora riferirò questa sciocchezza ai tuoi genitori. Sono certo che tua madre sarà felice di sapere di ‘meno zero’.

Liu fa una smorfia. “Accidenti, l’incontro con le famiglie. Me ne sono dimenticato. Aspettatemi qui, devo avvisarli.” Tira fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e si allontana per telefonare.

L’altro ragazzo, Teo, ne approfitta e si siede sulla panchina con Davide.

“E’ un idiota,” dice Teo. “Però è simpatico.”

Davide annuisce. “Hai avvisato i tuoi genitori? Anche gli altri,” dice indicando il gruppo di ragazze e ragazzi nascosti dagli alberi, “hanno dato la notizia a casa, vero? Non fatemi sorprese come l’anno scorso,” continua Davide. “O vi boccio tutti.”

“No,” risponde il ragazzo. “Stia tranquillo. I miei saranno puntuali come al solito, e così pure i genitori e le famiglie degli altri. A dire il vero abbiamo approfittato dell’incontro con i professori per passare un po’ di tempo insieme, per conoscerci.

“E per fare colpo sulla ragazza americana,” dice Davide facendogli l’occhiolino. “Com’è che si chiama, Angela?”

“Angela,” ripete Teo. “Angela Ryan. E’ carina, no?”

“Penso di sì,” risponde Davide, osservando la ragazza mora di cui stanno parlando. E’ seduta ai piedi di un albero con la sua compagna di banco, un’altra nuova arrivata.

Negli ultimi dieci anni si è avuta una rivoluzione nella scuola italiana. Gli scambi culturali con le nazioni europee ed extra-europee si sono moltiplicati, e per questo in ogni classe ci sono almeno sette o otto differenti nazionalità. A volte le differenze possono causare dei problemi e delle incomprensioni, ma a Davide piace che le sue classi siano ricche di giovani provenienti da ogni parte del mondo. Cina, Brasile, Stati Uniti, Zambia, Germania, Russia. Alcuni vivono a Roma con la loro famiglia d’origine, ma la maggior parte è ospite di famiglie che, tramite apposite organizzazioni, si offrono di ospitare i ragazzi durante il periodo del liceo.

“Secondo me è spettacolare,” dice Teo. “Peccato che se ne stia sempre con l’altra, Consuelo. Sembra quasi che le faccia da guardia del corpo. Il ragazzo sbuffa. “Ha qualche consiglio da darmi, prof? Lei è una bomba con le donne. Mi dia un po’ di saggezza.”

Davide scuote il capo e si lascia andare ad una risata. “Teo, Teo, Teo. Prima o poi dovrete dirmi chi mette in giro certe voci sul mio conto.

Teo sorride. “Sul serio, prof. Mi dia qualche consiglio, la prego.”

Davide appoggia le mani sul legno dipinto della panchina e riflette. Desiderava un momento per sé, un momento per ricordare Camila, e invece si ritrova a dare consigli d’amore ad un ragazzo che potrebbe essere suo figlio.

“Non cercare a tutti i costi di apparire,” gli dice ad un tratto. “Angela è sveglia e intelligente, e non ha bisogno di un ragazzo che si prostri ai suoi piedi come fai tu ogni giorno. Ti ho visto,” aggiunge subito. “Ti offri sempre di aiutarla a fare i compiti, sei sempre disponibile per farle da guida in città. Rallenta, Teo. Lascia che lei si accorga di te, non asfissiarla.

“E’ quello che gli sto dicendo dall’inizio dell’anno, prof,” interviene Liu, che ha finito di parlare con sua madre e che ha ascoltato tutta la conversazione. “Devi mantenere un profilo basso, farti desiderare… un po’ come faccio io con Consuelo,” aggiunge, facendo l’occhiolino ad entrambi.

“Perché vi ostinate a chiamarla Consuelo?!” esclama Davide. “Non è quello il suo nome.”

“E’ colpa di Gianmarco,” dicono i due contemporaneamente. “E’ lui che dà i soprannomi ai nuovi arrivati, e a lei è toccato Consuelo,” conclude Teo.

“Perché? Perché viene dal Brasile?” Davide osserva il vuoto con perplessità. “Gianmarco sa che in Brasile si parla portoghese, vero? Sa che Consuelo è un nome spagnolo, vero?

“Credo di no,” risponde Liu. “Ma ormai il soprannome ha attecchito, e poi Consuelo non dice nulla.” Si volta verso la ragazza bionda seduta accanto all’americana. “E’ un angelo,” sospira.

“Smettete di chiamarla Consuelo,” dice Davide con un tono di voce serio, da professore e non più da amico. “Ha un nome, ed è anche un bel nome: usate quello.”

Teo e Liu si guardano per un attimo e abbassano la testa.

“Adesso andate a divertirvi,” dice Davide, tornato ad essere un amico. “Ci vediamo più tardi a scuola. Liu, i tuoi genitori verranno?”

“Sì,” risponde immediatamente il ragazzo. “Grazie per avermelo ricordato, prof.”

“Di nulla. Fatemi un favore, ragazzi: ricordatelo agli altri. Magari qualcuno ha dimenticato di dare la notizia a casa. L’incontro di oggi è il primo dall’inizio dell’anno, e quindi è importante che i genitori e le famiglie ospitanti partecipino. D’accordo?”

“Tutto chiaro, prof,” dice Teo. “Grazie per la chiacchierata. A più tardi.”

Davide li guarda mentre tornano dai loro amici e sorride.

Sono un fallimento in tante cose, pensa. Ma nel mio lavoro me la cavo.

Controlla l’orologio, e si accorge di essere in ritardo. La chiacchierata con i suoi alunni gli ha portato via il tempo che avrebbe voluto dedicare a Camila e alla barretta di cioccolato.

Buon compleanno, Camila, pensa mentre si avvia al parcheggio. Anche se a volte mi piace immaginarti invecchiata, come me, ai miei occhi resti sempre la ragazza sorridente della foto che trovai in quella valigia.

Continui a mancarmi.

 

***

 

Molte cose sono cambiate in diciassette anni, ma gli incontri fra genitori e insegnanti avviene come avveniva una volta.

I registri e le lavagne sono elettronici, e alcune lezioni possono essere seguite anche da casa, tramite il computer, ma tre volte all’anno, all’inizio, a metà strada e alla fine, insegnanti e famiglie si incontrano faccia a faccia per discutere degli studenti, dei loro progressi e delle loro (eventuali) lacune.

I professori si dividono in due o tre classi, scelgono un banco che farà loro da ‘studio privato’ e attendono che i genitori. Questi si avvicinano ai banchi uno alla volta, proprio come accadeva quando lo stesso Davide frequentava il liceo.

 

“Grazie a lei, signora Di Biasi,” dice Davide, stringendo l’ennesima mano. L’incontro è iniziato da due ore, e lui segue quattro classi: i genitori fanno il via vai dall’aula in cui Davide ha sistemato il suo banchetto.

La donna gli sorride, indugiando più del dovuto sull’affascinante professore di matematica. “Grazie a lei, professore. Buona serata.”

“Grazie, buona serata,” dice Davide, ricambiando il sorriso, ma senza indugiare. Si concentra sul registro elettronico, invece, per passare velocemente alla pagina relativa a Teo, il ragazzo invaghito della compagna di classe americana. Davide ha notato che i suoi genitori sono in attesa che la signora Di Biasi vada via.

“Teo è un ragazzo in gamba. Vorrei averne trenta come lui,” dice dopo aver salutato con una stretta di mano i coniugi Carraro. “Il programma di quest’anno prevede alcune…

I minuti passano; i genitori si susseguono, accompagnati, a volte, dagli stessi figli, che li indirizzano ad un professore piuttosto che ad un altro.

Davide parla con la famiglia ospitante di Angela Ryan, e con la madre di Liu. Consiglia a due famiglie l’aiuto di insegnanti privati per i rispettivi figli, e impreca sottovoce quando deve riavviare il registro elettronico a causa di un problema della rete centrale.

Se ne sta seduto nel banchetto, basso per le sue lunghe gambe, e tiene gli occhi sulla tastiera dell’aggeggio, in attesa di poter reinserire il suo codice di sicurezza personale.

“Professore? Professore, la disturbo?”

“No,” dice lui, riconoscendo la voce della sua alunna. Digita rapidamente il PIN e sorride quando il registro prende di nuovo vita. “Ecco fatto.” Sospira e alza gli occhi, pronto ad accogliere la famiglia della ragazza. “Ciao, Az…”

La voce gli muore nella gola quando la vede. Non la ragazza, non la sua alunna. Non Azzurra, dai suo compagni soprannominata Consuelo. No. Non lei.

Ma lei. Lei.

Per anni, Davide ha creduto di vederla in giro per la città, nei volti delle altre donne, sulle pagine dei giornali. Per anni si è fermato in mezzo alla strada, convinto di aver visto un fantasma. Desiderando di vedere un fantasma.

Ora quel fantasma è lì, davanti a lui, a pochi passi da lui. E non è un fantasma, no.

E’ lei. E’ vera. E’ reale, non è un sogno.

E’ Camila.

“Professore, lei è mia madre.” Azzurra gli sorride, e quando lo fa a Davide manca il respiro.

Accade velocemente, ma ai suoi occhi appare al rallentatore. Osserva i capelli biondi della ragazza, i suoi grandi occhi azzurri e le labbra piene, proprio come quelle di…

“Professore? Professore?”

“Azzurra, il professore ci ha viste.” E’ lei a parlare. E’ lei, Camila. “Perché non vai a chiedere ad Angela se vuole venire a cena da noi, stasera? Io resto qui a parlare col tuo insegnante.

“No!” dice la ragazza sottovoce. “Ti ho detto che devo rimanere anch’io, altrimenti farai confusione con gli altri profes-

“Azzurra, vai!” esclama Camila, guardando sua figlia negli occhi.

La ragazza abbassa la testa e sbuffa. “Lui è il mio professore di matematica,” dice, arrendendosi. “Quella lì è l’insegnante di italiano. Non fare confusione, ok?”

“Ok,” risponde Camila, sorridendo. “Ora vai. Ci vediamo fra poco.”

“Arrivederci, professore,” dice Azzurra. “Ci vediamo domani in classe!”

Davide è ancora seduto. Non ha avuto la forza di alzarsi. Non ha avuto neanche la forza di parlare, di salutare Azzurra.

Osserva la donna che gli è di fronte, e ancora non crede ai suoi occhi.

Forse sto sognando. Forse si tratta davvero di un fantasma, di una visione.

Non può essere lei. Lei è morta. L’ho visto con i miei occhi, pensa. Sono stato sulla sua tomba, in Germania. Ho pianto la sua morte. Non può essere lei, no.

“Sono Elena Ado Silva. Sono… Sono la madre di Azzurra.”

Camila allunga la mano verso Davide, e lui si accorge immediatamente che sta tremando.

Lui osserva le dita sottili, le unghie curate, il tremolio silenzioso di un orologio sottile. Segue la mano verso l’alto, verso il braccio e verso il volto della donna che gli è di fronte.

E in quel momento trova la forza per alzarsi.

“Elena…” dice, a voce talmente bassa che neppure lui riesce a sentirsi.

“Elena Ado Silva,” ripete lei. Fa un passo verso il banco, la mano ancora tesa nella direzione di Davide. “Sono lieta di… di conoscerla, professore. Mia… mia figlia parla spesso di lei.”

Forse sto sbagliando. Forse non è lei. Forse si tratta di una incredibile somiglianza. Forse sono semplicemente suggestionato dai ricordi, che mi stanno consumando sia l’anima che il cervello.

In fondo non si chiama Camila, ma Elena.

In fondo ha i capelli corti, molto corti, mentre Camila li aveva lunghi.

“Io… lei…” Davide si arrende quando capisce che non riuscirà ad emettere alcun suono comprensibile, e allunga istintivamente la mano verso quella della madre di Azzurra. Non arriva neanche a sfiorarla, che Camila l’afferra con irruenza, come se non aspettasse altro.

Ed è così, in effetti. Non aspettava altro. Da diciassette anni.

Alcuni parlano di scintille, in situazioni come queste. Alcuni parlano di scosse elettriche che da una mano passano all’altra.

Camila non avverte né le scintille né la scossa. Camila avverte una sensazione di calore, di pace. Si sente, anche se forse è strano ammetterlo, di nuovo a casa.

Ed è per questo che, stringendo con le dita sottili la mano di Davide, si lascia andare, si rilassa.

Abbassa la testa lentamente, e senza rendersene conto inizia a piangere. E’ un pianto silenzioso, il suo. Invisibile agli occhi dei genitori che passano loro accanto, ma non a Davide, che si accorge immediatamente delle lacrime sulle sue guance.

La presa della sua mano diventa allora più stretta, e nell’improvviso stupore degli occhi di Camila… capisce.

“Sei tu,” sussurra. “Sei… sei tu.”

Camila può solo annuire velocemente e abbozzare un sorriso. “Sono io,” dice sottovoce.

Il cuore di Davide esplode per la gioia.

E’ viva. Sei viva.

Vorrebbe abbracciarla, stringerla a sé, gridare. Chiederle cos’ha fatto per diciassette anni, com’è possibile che sia morta e poi risorta. Vorrebbe chiederle di sua figlia.

Tutto ciò che riesce a fare, però, è accarezzarle il dorso della mano con il pollice. Lentamente. Con dolcezza.

Camila riesce a calmare le lacrime e a riprendere le redini della sua voce.

“Professore…”

Non sono un professore. Sono Davide.

“Professore, io…” Lascia andare la mano di Davide rapidamente, ma con garbo. Senza che lui o gli altri presenti se ne accorgano, Camila afferra dalla giacca un biglietto ripiegato, e glielo porge.

Davide accetta il pezzo di carta senza capire.

“Ti prego,” gli dice lei, avvicinandosi fino quasi a sfiorargli il viso. “Leggilo, e fai come c’è scritto.”

Davide non riesce a dirle di non andare via. Camila è più veloce nell’allontanarsi e nel disperdersi nel gruppetto di alunni e genitori. Apre allora il biglietto, il cuore al limite dell’esplosione.

Vediamoci al parco di via Giolitti fra un’ora. Ti prego.

 

***

 

Il parco di via Giolitti è quello in cui Davide ha trascorso parte del pomeriggio, quello in cui ha incontrato i suoi alunni. Quello in cui si reca ogni anno per celebrare il compleanno di Camila.

La trova lì, Davide, seduta su una panchina diversa da quella in cui è solito sedersi ogni volta.

La vede immediatamente, perché è lei a farsi vedere. Si alza e si sbraccia nella sua direzione, quando si accorge che lui è arrivato.

Non un’ora dopo, come c’era scritto nel biglietto. Ventisei minuti dopo. Il tempo necessario a lui per fingere un’urgenza e per correre in auto fino al parco. Il tempo necessario a lei per riportare a casa Azzurra e recarsi al parco ad attendere l’arrivo di Davide.

Ora che le va incontro, Davide può osservarla meglio, meglio di quanto ha fatto a scuola.

Camila indossa un paio di pantaloni aderenti, neri, e un paio di scarpe molto basse, verdi e blu. Verde è anche il dolcevita stretto che indossa sotto una stola nera dai bordi blu. I capelli sono corti, e le punte sono più chiare delle radici. Tendono al caramello.

Quando la raggiunge, si ferma a pochi passi da lei.

Ancora una volta vorrebbe riuscire a parlare, a farle tutte le domande a cui ha pensato per quasi vent’anni.

L’abbraccia, invece. Riempie la distanza che li separa con due passi, e chiude le braccia dietro il suo corpo esile.

E’ come scontrarsi con un’onda. E’ come lanciarsi su un letto di piume.

Camila risponde all’abbraccio gettando a terra la borsa che aveva fra le mani, per stringerlo come si deve, per accarezzargli la schiena, le spalle.

Piange, Camila. Il solito pianto silenzioso e invisibile, che negli anni ha collaudato e perfezionato. Un pianto simile ad un lamento, un pianto che solo Davide riesce ad avvertire.

E proprio quando è stretto a lei, Davide ritrova la sua voce. “Sei viva,” sussurra. “Sei viva.”

Si scosta per guardarla in viso. Gli anni sono passati anche per lei. Piccole rughe di espressione disegnano il contorno degli occhi e quello delle labbra. Il viso è ancora rigoglioso, ma nei suoi occhi c’è sempre quel velo di malinconia, di turbamento, che Davide ha imparato a conoscere e ad amare.

Le sue labbra sono bagnate dalle lacrime e curvate in un sorriso emozionato, un sorriso pieno di speranza.

“Non sei morta,” dice Davide. “Non sei morta.”

Camila continua a sorridere. Gli prende le mani, le stringe. Se le porta al petto, sul viso.

Cerca un contatto che ha sognato, immaginato e desiderato per diciassette anni. Lo cerca e lo trova, perché Davide l’accarezza, facendosi sopraffare dall’emozione e dalla commozione.

Sei viva,” ripete lui, come per esorcizzare la triste possibilità che si tratti di un sogno.

Camila si limita ad annuire e a sorridere, mentre cerca anch’essa di realizzare che è tutto vero, che non sta sognando.

 

***

 

“E’ stato Umberto a rapirmi.”

Camila e Davide sono ora seduti sulla panchina. Si tengono per mano.

Dopo alcuni istanti di commozione per entrambi, è stata lei a prendere la parola.

“Voglio raccontarti tutto,” ha detto. “Devo raccontarti tutto, dall’inizio.”

Davide ha annuito, senza lasciare la sua mano.

“E’ stato Umberto a rapirmi. Lui e i suoi amici. E’ a causa loro che sono scappata dalla Basilicata, vent’anni fa. Sono scappata per fuggire da loro. Erano ricettatori. Trafficavano in armi e droga. Erano strozzini. Scappai dalla Basilicata con il desiderio di rifarmi una vita, di andarmene dall’Italia. In quei tre anni a Roma ho lavorato per mettere i soldi da parte e andarmene in Brasile. Non parlavo a nessuno di me, non dicevo a nessuno che ero sposata… perché ancora lo ero, all’epoca. Ero davvero sposata con Umberto.

“Furono loro a rapirmi mentre camminavo con Bilbo.”

Camila parla lentamente, e Davide ha subito l’impressione che lei abbia provato e riprovato questo discorso, questa lunga confessione. Non sbaglia, Davide.

“Mi portarono a Sabaudia. Mi tennero chiusa a chiave. In una casa sul lago, per mezza giornata, per cercare di convincermi a seguirli. Volevano che tornassi in Basilicata, che tornassi a fare la moglie muta e sorda… la moglie che ero stata negli anni in cui… negli anni in cui fingevo di non vedere ciò che Umberto faceva. Mi dissero che se non li avessi seguiti mi avrebbero uccisa… e avrebbero.. avrebbero fatto del male anche a te. Mi dissero che ti tenevano d’occhio, che erano pronti ad ucciderti.

Camila alza gli occhi per guardare quelli di Davide. In essi legge dolore e meraviglia.

“Decisi di andare con loro. Decisi che avrei lasciato Roma pur di proteggere te e la tua famiglia. Accettai di tornare con Umberto. Volevo farlo, ero pronta a farlo, a non… a non vederti mai più. Tutto, pur di assicurarmi che saresti… che non ti avrebbero fatto del male. Ma poi… poi mi hanno uccisa. O almeno… o almeno hanno creduto di… di avermi uccisa.

Si ferma per un attimo, strofina la punta del dito indice sotto al naso.

“Seppero che eri andato alla Polizia, e hanno avuto… hanno avuto paura. Si sono sentiti in pericolo. Hanno capito che ero… ero solo un rischio, per loro. Volevano solo che tenessi la bocca chiusa, che non raccontassi a nessuno dei loro affari. E allora decisero di uccidermi. Entrarono nella camera in cui mi tenevano rinchiusa,” dice, le dita che si chiudono con forza attorno a quelle di Davide. “Carmelo mi tenne ferma. Federico sparò.” Parole secche, sussurrate, ma allo stesso tempo lame roventi per il cuore di Davide.

“Non ricordo niente di ciò che è successo dopo,” continua Camila. “Mi sono risvegliata in ospedale dopo l’intervento, e accanto a me c’era l’ispettore Fermi.”

Il nome non è nuovo, per Davide. “Fermi?”

“Fermi,” gli fa eco lei. “Lo stesso ispettore che si occupò della tua denuncia.”

“Ma… Ma come…”

“Umberto e i suoi amici mi portarono al lago. Mi hanno gettata nell’acqua, con l’intento di far sparire il mio cadavere. Non sapevano, però… Non sapevano che lì vicino, nascosta dagli alberi, c’era un’auto con dentro un uomo e una donna. Erano appartati nel bosco per fare l’amore,” dice con un mezzo sorriso, “e si sono allarmati quando hanno sentito lo sparo e quando hanno visto il mio corpo nell’acqua. Hanno aspettato che l’auto dei tre ripartisse, e mi hanno salvata. Ero viva. Ero ancora viva.” L’ennesima lacrima muta si ferma sulle sue labbra. “Mi hanno portata in ospedale, hanno chiamato la Polizia. Mi hanno salvata.”

“Ma Fermi… l’ispettore…”

Davide è sotto shock.

“La donna che mi ha salvata era sua moglie,” dice Camila, alzando gli occhi. “Quante sono le probabilità che una cosa del genere possa accadere? Quante sono le probabilità che la donna che ti salva la vita è la moglie dell’uomo che ti sta cercando?

Davide è senza parole.

“Quella donna, Pamela, telefonò a suo marito nonostante lo stesse tradendo prima di salvare me. Chiese a lui cosa fare del mio corpo, dove portarmi. Era agitata, spaventata. Fermi ha collegato i punti solo quando mi ha vista in ospedale, a Roma.

“A Roma? Eri… Eri a Roma?” chiede Davide, stavolta ad alta voce.

Camila annuisce. “Il proiettile mi ha sfiorato il cuore. Per estrarlo sono servite cinque ore di intervento. Fermi era lì, al mio risveglio, il giorno dopo. Assieme ad un medico. Mi dissero che ce l’avevo fatta. Mi dissero che mi sarei rimessa in sesto. Mi dissero che il mio era un miracolo.

“Fermi voleva interrogarmi. Voleva chiedermi i nomi dei miei rapitori, voleva che gli raccontassi tutto, ma prima… prima di parlare con lui parlai con un medico… una donna. E fu allora che… fu allora che seppi di…” La voce di Camila è rotta dall’emozione. I suoi occhi sono lucidi. “Mi disse che ero incinta. Mi disse che avevano fatto gli esami del sangue, e che…” Si ferma di nuovo, inspirando profondamente prima di andare avanti. “Mi consigliarono di prendermi del tempo per pensare al da farsi. Mi dissero che… Mi dissero che avrei dovuto raccontare tutto alla Polizia, per permettergli di… di trovare ed arrestare colui che…” Camila inizia a piangere, stavolta singhiozzando. I suoi movimenti, quando cerca il suo fazzoletto in borsa, sono rapidi e precisi. Si asciuga gli occhi e il naso, inspira profondamente prima di riprendere a parlare.

“Pensavano che mi avessero stuprata. Ne erano convinti, tutti, ma io… io sapevo che… che non era così. E in quel momento, quando seppi di essere incinta… Ero sopravvissuta, Davide, ed ero… ero incinta… ero incinta, ed era… era tuo.

Davide lascia andare la mano di Camila come se fosse una pietra incandescente.

“Azzurra… Azzurra è… mia figlia?”

“Sì,” dice lei. Gli sorride. “E’ tua figlia. La mia prima ed unica figlia.”

Al sorriso di Camila non corrisponde quello di Davide. Lo shock non gli permette di elaborare le informazioni. Camila è viva. Ho una figlia. Abbiamo fatto l’amore due volte. Camila è sopravvissuta. Le hanno sparato. Fermi sapeva.

Quando le parla, lo fa per chiederle di lui, dell’ispettore. Non di Azzurra. “Perché… Perché non me lo hai mai detto? Eri a Roma, e Fermi… lui venne a casa mia, lui venne a dirci che-

“Fermi mi ha aiutata,” interviene Camila. “Dopo aver parlato con i medici, capii di avere un’unica possibilità.”

“Sparire?”

“Sparire,” gli fa eco lei. “Non potevo rimanere a Roma. Non potevo rimanere in Italia. Non potevo rischiare di nuovo di… Non potevo rischiare di nuovo che mi trovassero. Avevo… Ero… Ero incinta.”

“E quindi hai finto la tua morte.” Le parole di Davide sono spente, vuote. Ritira la mano da quella di Camila, abbassando gli occhi.

“Fermi mi disse che non sarebbe stato facile inserirmi in una programma di protezione. Mi disse che, se anche ci fosse riuscito, non avrei comunque potuto lasciare l’Italia. Io allora lo supplicai,” dice Camila, cercando la mano di Davide, ma senza trovarla. “Lo supplicai di farmi scappare, di lasciarmi libera di andarmene. Gli diedi i nomi dei tre in cambio della mia morte. E lui… E lui mi fece morire.”

“Ho saputo della tua morte guardando il telegiornale,” dice Davide, amaro. “Ero… Io… E tu invece eri viva.”

Camila ignora il tono ferito della sua voce, e continua a raccontare. “Fermi organizzò un finto ritrovamento, chiamò un suo amico giornalista per filmare tutto, per dare a Umberto e ai suoi amici l’impressione che… che fossi morta davvero. Avvisò i miei genitori, che non hanno mai vista…

“Sono andato in Germania,” interviene Davide con durezza. “La mia famiglia si offrì di pagare per il funerale, e i tuoi genitori accettarono. Tennero il funerale senza avvisarci, e io andai in Germania tre settimane dopo. Ho pianto sulla tua tomba,” dice, senza alcuna emozione nella voce. “Chi c’era in quella bara?”

“Probabilmente nessuno,” sussurra Camila.

“I tuoi genitori lo sapevano? Chi lo sapeva?”

“Nessuno,” dice lei. “Soltanto io, Fermi e sua moglie, che ha sempre mantenuto il segreto.”

Fra i due cala il silenzio.

Per Davide ci sono tante informazioni, tante notizie da incamerare, e Camila lo sa. Per questo motivo gli lascia il tempo per riflettere, prendendosi una pausa di qualche secondo.

Davide si alza in piedi e prende a camminare davanti alla panchina.

“Perché non me l’hai detto?” chiede ad un tratto, quando si rende conto che è questa l’unica cosa di cui gli importa. “Perché non mi hai detto che eri incinta? Perché hai scelto di morire?”

“Per proteggere il figlio che avevo dentro,” risponde subito, alzandosi e raggiungendolo. “Per proteggere te, per proteggere me. Non sarei mai potuta rimanere a Roma, con l’incubo di essere rintracciata di nuovo. Non avrei vissuto da persona sicura, non avrei potuto assicurare a nostra figlia la sicurezza di cui…

Davide interrompe le sue parole con un gesto della mano, dandole le spalle.

Camila si ritira, tornando a sedersi. Sapeva che non sarebbe stato facile spiegargli i motivi che l’hanno spinta ad andarsene. Sapeva di non potersi aspettare assoluta comprensione.

“Ho usato i miei risparmi per andare in Brasile,” dice ad un certo punto. Ha bisogno di raccontare, e vuole che lui sappia. “Dissi a Fermi del mio libretto quando lui mi fece capire che la Polizia non avrebbe potuto aiutarmi economicamente. Andò all’appartamento che era lì,” dice, indicando il punto del parco in cui sorgeva il palazzo, “e prese il libretto dei risparmi. Con quello, dopo una settimana in ospedale, partii per il Brasile.

“Ho vissuto in un ostello per i primi due mesi. Non conoscevo nessuno, non parlavo il portoghese. Ho fatto la cameriera, ho fatto la lavapiatti. Davide si volta, la guarda. “Poi mi sono trasferita a Guaratinga, a sud sulla costa, e ho iniziato a lavorare in una fabbrica che produceva cacao.” Si ferma, trattiene il fiato prima di continuare. “Mi sono sposata.”

Davide impallidisce. “Sei… Sei sposata.”

“No,” sussurra lei. “Non più. Martim era il figlio dei proprietari della fabbrica di cacao,” riprende. “Aveva quarant’anni, all’epoca. Si innamorò di me, e continuò ad esserlo quando gli dissi che ero incinta. Continuò ad esserlo anche quando gli raccontai la mia storia. Si offrì di aiutarmi, di sposarmi, di darmi una casa, una vita normale. Si offrì di fare da padre ad Azzurra.”

“E tu hai accettato,” dice Davide in un respiro.

“Ero sola,” risponde Camila. “Ero all’ottavo mese di gravidanza, e non avevo nulla. Nulla da dare a mia figlia, nulla di meglio di ciò che i miei genitori avevano dato a me. Dissi a Martim che lo avrei sposato e che sarei stata sua moglie, ma gli dissi anche che non l’avrei mai amato. Che non avrei mai potuto amarlo. Lui accettò,” dice con un sospiro. “E’ stato un uomo magnifico,” continua. “Un marito unico, un padre… un padre impeccabile. Dopo la nascita di Azzurra ho iniziato a studiare. Sono diventata fotografa,” dice. “Lavoro per una rivista di moda brasiliana, adesso.” Prova a sorridere, ma non ci riesce. Guarda gli occhi di Davide, e in essi non legge più lo stupore, ma la delusione, l’abbattimento. Si sforza, ciò nonostante, di continuare.

“Martim è morto due anni fa, a causa di un infarto. E’ stato allora che ho deciso di ritornare in Italia. Ci avevo già pensato, in passato, ma lui me l’ha sempre impedito. Non voleva che rischiassi di trovarmi in pericolo, non voleva che…” Si passa una mano sul viso, per catturare le lacrime. Resta seduta, mentre Davide resta immobile. “Non ti ho mai cercato, in tutti questi anni. Non sapevo così avrei scoperto sul tuo conto, non sapevo cosa… Non avevo idea di come avrei fatto a dirti di nostra…” Si alza, gli va accanto. Non accarezza le mani di Davide come ha fatto prima, non lo sfiora neppure. Capisce, dai suoi occhi, che lui la sta rifiutando.

“Ti credevo morta,” dice, le labbra che tremano assieme al resto del corpo. “Ho pianto per te, mentre tu eri qui, a Roma. Viva. Te ne sei andata, ti sei rifatta una vita. Hai… Hai avuto una figlia. Non riesco a guardarti,” dice, abbassando gli occhi. “Non posso guardarti.”

Arretra verso l’erba, sollevando le mani per proteggersi. Non da Camila, ma da ciò che il suo racconto significa.

“La mia vita si è fermata in quel momento,” dice Davide. “Quando ho sentito il giornalista dire ‘Il corpo di Camila Romano è stato ritrovato nel lago di Sabaudia’. In quel momento,” dice, il sapore della lacrime sulla lingua, “io sono morto con te. Sono annegato nel senso di colpa, per non averti salvata, e nel dolore per la tua morte. E tu vieni a dirmi che eri viva? Che hai sposato un produttore di cacao? Che sei diventata una fotografa? Io ho pianto sulle tue fotografie. Le ho esposte, le ho mostrate al mondo, e ho pianto su ognuna di esse. Ho pianto perché sapevo che non avrei mai più sentito la tua voce o visto i tuoi occhi, e tu… e tu eri… Ora vieni a dirmi che hai avuto una vita piena, che hai avuto un marito magnifico e che Azzurra ha avuto un padre che…” Si ferma. Si copre il viso con le mani. Impreca. “Non hai mai pensato a me?” chiede. “Non ti è mai passato per la testa di come… di cosa…” Scuote il capo. La guarda.

Camila piange in silenzio e non dice nulla. Sa che non può dire nulla, sa che non c’è nulla da dire.

“Perché sei tornata?” chiede Davide, con durezza. “Che cosa pretendi, adesso? Che cosa vuoi da me, adesso? Vuoi dirmi che ho una figlia? Bene, me l’hai detto. Puoi anche tornartene in Brasile.”

Scosso dallo shock, dalla rabbia, dalle lacrime, Davide si allontana da lei e prende a camminare verso l’uscita del parco.

“No!” esclama Camila, inseguendolo. “Non te ne andare, no! Davide!” Lo raggiunge correndo, afferrandogli la mano ed abbracciandolo.

E’ un abbraccio diverso da quello di prima. E’ un abbraccio a senso unico, visto che le mani di Davide restano ferme. E’ un abbraccio con cui Camila cerca di impedirgli di lasciarla, di andarsene.

Si aggrappa a lui, e gli parla. Senza lasciarlo, senza guardarlo negli occhi. Gli parla all’orecchio, stringendolo a sé.

“Fra vivere e morire ho scelto di morire, e lo farei di nuovo pur di proteggere te e Azzurra. Lo farei di nuovo. Ti ho pensato ogni giorno. Ogni momento. Sempre. Sempre. Ogni volta che guardo Azzurra… E’ il tuo ritratto. Hai i tuoi capelli, ha il tuo sorriso. E’ curiosa come lo eri tu da bambino.

“Non pretendo che tu mi ami ancora, o che sia disposto ad accettare me, amare me o… o nostra figlia. Non ho mai avuto l’opportunità di dirti che ti amavo … fino ad ora. Ti amavo, Davide. Ti amo. Me ne sono andata per proteggerti e per proteggere Azzurra. Ma ti amavo. Ti ho sempre amato. Ti amo.” La mano le trema, quando l’avvicina ai suoi capelli. Li accarezza per un breve momento. Ne sente il profumo dolce.

Prova ad allontanarsi, ma lui è più veloce e riesce a trattenerla. Scosta il capo per guardarla. “Anch’io ti amavo,” dice. “E una parte di me continua ad amarti. Però… però non sei tu la donna che amo. Io non provo nulla per Elena Ado Silva. Non la conosco, non so chi è, non è... Camila Romano, la ragazza di Carovigno: è quella la persona che amo. E’ lei. Non tu, non Elena.” Pronuncia il nome con repulsione. “Io non posso… Dopo diciassette anni, Cami… Elena,” si corregge. “Hai aspettato diciassette anni per dirmi che ho una figlia. Hai aspettato diciassette anni per dirmi che non sei morta.

Davide sposta la mano con cui tiene ferma Camila. Si allontana, fa un passo indietro.

“Camila Romano è morta diciassette anni fa,” le dice. “Tu non sei lei. Io non ti conosco, Elena. Addio.”

 

***

 

“Mamma, sei sicura di stare bene?” Azzurra entra nella mia camera da letto prima di andare a dormire. Indossa già il pigiama, e il profumo dello shampoo che ha usato dopo cena riempie l’aria.

“Sì,” dico, fingendo un sorriso. “Sono solo un po’ stanca.”

“Sicura? Non sei preoccupata per la mia nuova scuola, vero? I professori hanno davvero parlato bene di me?

“Certo,” rispondo. “Sono tutti molto contenti del tuo inizio, e di come ti sei integrata con i compagni di classe. Tranquilla,” aggiungo. “Ho solo un po’ di mal di testa.”

“Va bene,” dice lei, camminando fino al letto per darmi un bacio. “Io vado a letto, allora. Notte, mamma.”

“Notte, tesoro.” L’abbraccio come faccio di solito, stringendola come se il vento stesse per portarla via. “Ti voglio bene, Azzurra.”

“Ti voglio bene anch’io. Buonanotte.”

 

Non mi pento di essere ritornata in Italia. Ho preso tutte le opportune misure di sicurezza, prima di trasferirmi a Roma.

Non mi pento di essere ritornata, e non nascondo il motivo per cui l’ho fatto. Davide.

Sono tornata per lui. Per lui soltanto.

Ho sbagliato? Sono stata egoista? Avrei dovuto continuare a fingermi morta?

Probabilmente sì. Probabilmente avrei dovuto continuare non solo a fingermi morta, ma anche a fare solamente ciò che ho fatto per tutti questi anni. La madre, la moglie (la vedova, negli ultimi due anni), la fotografa.

Per diciassette anni ho ignorato la voce che mi chiamava verso lui, verso Roma. Ho ignorato i miei bisogni, ho ignorato il mio cuore di donna. L’ho cementificato, questo cuore. L’ho reso simile ad una pietra. Aperto solo per Azzurra, aperto solo per il mio lavoro.

Non mi sono più innamorata. Non ho più amato.

Martim è l’uomo che mi ha cambiato la vita, ma Davide… Davide è la persona che mi ha salvata. Davide mi ha donato Azzurra, e senza di lei non sarei mai e poi mai sopravvissuta.

Avrei voluto spiegarglielo, questa sera. Avrei voluto raccontargli ogni giorno trascorso in Brasile e avrei voluto chiedergli dei suoi giorni qui, a Roma.

Non ce l’ho fatta, e probabilmente non ce la farò mai.

Mi ha detto che è morto con me. Mi ha detto che è morto quando ha saputo della morte di Camila. Mi ha detto che per lui Camila è morta. Mi ha detto che non mi riconosce, che Elena non è Camila.

Penso alla sua voce per ore. Rivedo i suoi occhi marroni, riesco quasi ad avvertire la morbidezza dei suoi capelli.

E poi sento il campanello suonare. Una volta. Due volte. Tre volte.

Guardo la sveglia, è l’una. Mi alzo dal letto e vado alla porta.

Non abbiamo molti amici, e nessuno di loro verrebbe a farci visita a quest’ora. Chi è? Perché sto tremando come una foglia? Azzurra è al sicuro?

Appoggio l’occhio allo spioncino prima di aprire, e il respiro si ferma.

E’ Davide.

Apro la porta rapidamente, e la prima cosa che mi colpisce è il fatto che ha l’affanno. I suoi occhi sono sgranati e la bocca è semi aperta. Respira come se avesse fatto i quindici piani a piedi, senza usare l’ascensore.

“Non mi hai mai… detto qual era il tuo… desiderio,” dice, affannato. Appoggia le mani alla porta per sorreggersi Respira in fretta. “Non mi hai mai detto qual era il tuo desiderio,” ripete.

“Come?”

“Diciassette anni fa,” risponde, gesticolando. “Quando hai espresso il tuo… desiderio sulla torta… al cioccolato. Non hai mai…”

Non lo faccio finire. Non lo faccio continuare.

Mi lancio verso di lui, sul pianerottolo, e lo abbraccio. E’ l’istinto a spingermi. E’ il cuore a guidarmi. Stavolta mi abbraccia anche lui. Mi stringe, mi solleva da terra.

Ed è come esplodere. E’ come risorgere. E’ come rinascere.

Lo stringo a me come faccio con Azzurra, come avrei voluto fare al parco, e anche Davide mi stringe. Lo sento piangere, lo sento mormorare qualcosa, per cui mi allontano e cerco i suoi occhi.

“Rimanere il più a lungo con… Rimanere il più a lungo possibile con te,” dico sorridendo. “Era questo il mio desiderio.” Gli accarezzo il viso, i capelli. Lui mi bacia le mani.

Le sue parole, così come le mie, sono incoerenti. Non riesco a capire ciò che dice, ciò che mormora. “Sei viva,” mormora ad un certo punto.

“Sì,” gli dico. “Sono viva.” Sorrido. “E non ho mai… non ho mai imparato a fare le barchette di carta.” L’incoerenza continua a governarmi, perché non pensavo di dire una cosa simile. “Non ho mai imparato,” continuo. “Perché dovevi essere tu a…”

Non mi lascia finire. Mi spinge sulla parete del pianerottolo. Con irruenza, ma senza rabbia. Non è arrabbiato, no. Mi sorride. Mi sta sorridendo.

“Non ho mai voluto imparare,” dico. Gli accarezzo i capelli come ho fatto al parco, mentre lui mi accarezza le guance, le labbra, il collo. “Voglio raccontarti tutto,” continuo. “E voglio sapere tutto, tutto di te.” Mi aggrappo al suo giaccone. C’è un folle senso di disperazione, in me, e posso leggere la stessa disperazione anche nei suoi occhi.

Siamo due persone che si fanno forza a vicenda.

Siamo cambiati eppure siamo ancora noi. Davide e Camila.

“Abbiamo una figlia,” dice lui sottovoce, asciugandomi una lacrima.

“Sì,” dico sorridendo, felice come non lo sono stata mai in tutta la mia vita. “Si chiama Azzurra Ado Silva,” dico balbettando. “E’ nata il 5 Agosto del 2011. Pesava tre kg e mezzo, e…” Mi faccio forza stringendo i pugni, per evitare di singhiozzare. “E’ intelligente, è forte,” dico. “E’ la ragazza più in gamba del mondo e in tutti questi anni mi ha aiutata a non-

“Lo so,” dice lui. “Lo so.”

Mi abbraccia, mi accarezza i capelli e la schiena. Mi ascolta mentre piango, mi dice che mi ama.

Vorrei dirgli che lo amo anch’io, vorrei continuare a raccontargli di Azzurra e vorrei smetterla di piangere… ma non riesco a farlo.

Prima o poi mi calmerò. Prima o poi passerà.

E lui sarà ancora qui, con me. Lui continuerà a stringermi, continuerà ad amarmi.

“Sei ancora lei,” sussurra Davide ad un certo punto. “Sei ancora Camila, la mia Camila. Il tuo nome è morto. Tu no,” dice stringendomi. “Tu sei viva.”

 

---

 

Quando passi due giorni e due notti a singhiozzare perché hai deciso di uccidere uno dei tuoi personaggi allora è chiaro che hai un problema.

Non potevo lasciare che Camila morisse. E non per il lieto fine, non per Davide & Camila. Non per questo.

Non potevo farlo per lei, per Camila. Ho adorato questo personaggio fin dall’inizio, e l’ho sentito più vicino di tutti i personaggi che ho creato in tre anni di scrittura.

Meritava di vivere, Camila. Merita di vivere. Ne ha viste troppe per smettere di esistere.

 

Molti di voi storceranno il naso e magari considereranno chiusa la storia con l’ultimo capitolo. Molti di voi saranno felici di questo epilogo e fantasticheranno sul futuro di Davide, Camila/Elena e Azzurra.

Io sono soddisfatta di questo finale, e questo mi basta.

 

Non sarei mai riuscita a scrivere questa storia (in particolare i capitoli più difficili) senza il supporto e l’affetto di tutti i miei lettori. Grazie a tutti voi che ci siete stati fin dall’inizio, dandomi fiducia in unsettore’ che non è propriamente mio. Grazie a chi ha approfittato della storia di Camila e Davide per raccontarmi la sua. Grazie a chi ha sempre letto e non ha mai commentato.

 

Un grazie speciale va a Lele Cullen. Grazie per avermi minacciata, monamùr. E’ servito.

 

In tanti mi avete chiesto quanto c’è di vero e di personale in questo racconto. La risposta è: molto.

 

 

In anticipo, grazie per tutti i commenti che lascerete. Alla prossima.

 

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