Russie Mon Amour

di Hiromi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo ***
Capitolo 8: *** Ottavo Capitolo ***
Capitolo 9: *** Nono Capitolo ***
Capitolo 10: *** Decimo Capitolo ***
Capitolo 11: *** Undicesimo Capitolo ***
Capitolo 12: *** Dodicesimo Capitolo ***
Capitolo 13: *** Tredicesimo Capitolo ***
Capitolo 14: *** Quattordicesimo Capitolo ***
Capitolo 15: *** Quindicesimo Capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo ***


Russia mon Amour

Ed eccomi qui dopo mesi d'assenza! xD Non so se la mia mancanza si è sentita - sono sicura di no - ma una cosa è certa: questa dannata coppia ispira solo guai! Ed è così che, ispirandomi al film Genitori in Trappola che sicuramente tutti avete visto, è nata questa roba. 

Attenzione, però. Ciò non vuol dire che la fanfic sia una copia sputata del film, anzi. Ne prende solo l'idea. Punto. Poi si diversifica completamente. =D Okay, vi lascio, buona lettura! ;)

 

Russie mon Amour

 

 

 

Furono delle risatine a far voltare, esasperata, Mrs Smith; le ennesime, per inciso. La donna, una quarantacinquenne dal portamento rigido, era la classica inglese d’altri tempi – rigida, intransigente, glaciale – e non tollerava minimamente che nel suo gruppo – quello che aveva dovuto accompagnare per il viaggio d’istruzione, vi fossero distrazioni o, peggio, risatine.

Individuate le responsabili, - e non era poi tanto difficile, visto che si trattava sempre delle stesse – le fulminò con lo sguardo, glaciale. “Davidson! Cooper! Tachibana!”

Le tre, come punte da uno spillo, saltarono sull’attenti, guardando la loro insegnante con sguardo fintamente colpevole.

“Scusi.” Biascicò la Tachibana, ravviandosi i capelli lisci e castani, ed esibendo il suo miglior sorriso seduci insegnanti.

Quando la docente si voltò nuovamente verso la guida che stava illustrando al gruppo la storia di piazza della Bastiglia, le tre ripresero a parlottare fitto fitto, un sorriso sornione a condire loro il volto.

“Che pizza queste spiegazioni!” Elizabeth Cooper – Liz – si sventolò con un depliant preso distrattamente all’ennesimo museo visitato.

“Quand’è che ci lasceranno libere?” gemette Samantha Davidson – Sam – roteando gli occhi verdi. “Sono cose le sappiamo a memoria: ci hanno rotto le scatole per mesi con la rivoluzione francese.”

Daphne Tachibana sbadigliò, insolente, poi sorrise. “Vedrete che tra dieci minuti al massimo finiranno, poi avremo un’ora e mezza, o due, per fare lo shopping più sfrenato.”

Sam la guardò, sospirando. “Io non so come fai ad azzeccare sempre. Sarà perché i professori ti adorano per la tua parlantina nonostante studi quel poco che basta per avere la sufficienza ed essere promossa, o-

Liz ridacchiò. “Lei si gode la vita, al contrario di te.”

“Veni, vidi, visa. Quella di mia madre.” Ridacchiarono così violentemente che dovettero tenersi la pancia ed allontanarsi un po’ dal gruppo per non essere rimproverate nuovamente.

Sam sospirò, beata. “Ah, tua madre: io adoro tua madre.” Gli occhi praticamente le brillavano al sol pensiero di Hilary Tachibana.

Daphne fece un sorriso tutto denti. “Lo so, è la madre migliore di tutte.”

“Trentasei anni, fisico da paura, bellissima, lunghi capelli fluenti, fila di corteggiatori che non finisce mai, avvocato di grido – quindi lavoro tosto – carattere altrettanto tosto… è perfetta!” Sam stava già elencando tutti i punti salienti del suo idolo, con gli occhi che le luccicavano, mentre le altre la guardavano ridacchiando. “Capita ad una ragazza su un miliardo di avere una madre così.”

“Lo so, e mia madre perennemente ringrazia questa tua idolatria per lei.” Ridacchiò la diretta interessata.

In effetti se le metti a confronto con le nostre…” sbuffò Liz, roteando gli occhi. “La mia a stento mi permette di andare alle feste: quale madre è una con la quale puoi fare shopping parlando liberamente del ragazzo che ti piace?”

Daphne esibì un sorriso fiero. “E’ sempre stata così, ha sempre voluto un rapporto paritario, e-” vennero interrotte dal richiamo dell’insegnante che stava dicendo loro le ultime cose sulla piazza: le tre capirono che sarebbe stata questione di pochi istanti, successivamente sarebbero state libere di scorazzare per la città.

“Vi voglio qui alle dodici e mezza precise.” l’insegnante, decisa, squadrò una ad una le sue alunne, e il suo sguardo non ammetteva repliche. “Rimanete sempre nei paraggi, e non vi allontanate.”

“Non accettate caramelle dagli sconosciuti…” sussurrò Liz all’orecchio di Sam, che ridacchiò.

“Bene, potete andare.” Annuì la docente; fu così che il gruppo, composto da diciassette ragazze sui quindici anni, si disperse a macchia d’olio per tutta piazza della Bastiglia.

Subito le tre si ritrovarono a braccetto, sorridenti e gioiose, ansiose di sperimentare lo shopping più sfrenato e la Parigi più vera.

“Mio Dio, un centro commerciale!” Sam lo esclamò come se non ne avesse mai visto uno; ma era sempre così: che fosse a Milano, Londra, Liverpool o Parigi, le tre ragazze, da cittadine del mondo quali erano, si sapevano orientare benissimo, ma bastava far notare loro un qualsiasi centro commerciale o l’ultimo negozio di Prada sulla quattordicesima, che il loro senso dello spazio e del tempo andava a farsi benedire tanto quanto il loro conto il banca.

Cinque minuti più tardi erano già entrate, missione reparto vestiti, pronte a depredarlo, saccheggiarlo, razziarlo quanto più possibile.

“Guardate, guardate!” trillò Daphne; in mano aveva una maglietta a righe con un fiocchetto sul collo. “La provo?”

“Tieni questo, con il tuo fisico e i tuoi occhi del cavolo ti starà disgustosamente bene.” Mise il broncio Liz, porgendole un vestitino aderente viola pieno di paillettes.

L’altra si accigliò. “Perché devi sempre dire che ho occhi del cavolo?”

Liz strinse le palpebre, mettendo in evidenza le pupille azzurre. “Perché si! Dannazione, come si fa ad avere gli occhi viola? Viola! Come la Taylor!” si specchiò, ravviandosi i chiarissimi capelli biondi da rosa inglese, e sospirò, affranta. “Sei così particolare, Daph. Alta, slanciata, occhi a mandorla, castana e occhi viola. Mi domando cosa tu possa volere di più dalla vita.

La domanda indiretta colse la ragazza impreparata che, dal sorriso smagliante che aveva, si ritrovò con una smorfia sulle labbra ben disegnate. “Non esagerare.” Biascicò, nascondendo il volto in un maglioncino di cachemire. “Ho dei colori particolari, ma dipende dalla mia progenie. Io… beh, io sono inglese solo di adozione, tu lo sei da generazioni e generazioni.”

Ma ormai nessuno bada più alle generazioni!” fece la bionda con una smorfia. “Sono così… volgarmente out! Il mondo è cosmopolita, chi ha nelle vene sangue di più nazioni diverse è guardato con occhi diversi, non come prima, come un mulatto!” dichiarò, scuotendo la testa. “Tu hai una madre metà Giapponese e metà Americana, e tuo padre, da quanto ne sai era Russo; poi sei venuta ad abitare in Inghilterra… Beh, tu sei il risultato, è per questo che sei una delle ragazze più popolari della scuola!”

Daphne si inacidì. “Pensavo fosse perché sono anche solo lontanamente carina, ma evidentemente non è così.” Girando sui tacchi, andò via da quel reparto, la testa che le pulsava e le lacrime agli occhi.

 

 

“Al mio segnale, prendi la rincorsa e scappa.”

“Guarda che ti ho sentito!”

Nadja ridacchiò all’ennesima scaramuccia tra gli zii, e i suoi occhi incontrarono quelli di suo zio Takao, che fece spallucce come a dirle che ci aveva provato.

Odiava fare shopping, ma quel giorno zia Karen aveva insistito tanto per comprarle qualcosa di carino, e lei non aveva saputo rifiutare.

Si trovava in Francia da tre giorni, esattamente da quando erano iniziate le vacanze di Pasqua, che aveva speso tutte lì, con coloro che l’avevano battezzata. Fino ad allora si era divertita parecchio, anche considerato che non vedeva la sorella di suo padre e suo marito – che poi era uno dei migliori amici del suo papà – da almeno un anno. Ma era esattamente come li ricordava: giocherelloni, sempre pronti a battibeccare ma tanto, tanto innamorati.

Nadja, tesoro, vieni qui per piacere.” La voce della zia la richiamò dai suoi pensieri. “Hai quindici anni ormai, è possibile che tu non abbia iniziato a truccarti nemmeno un pochino?”

La ragazza restò immobile. “Zia, non mi interessa…”

“Sciocchezze.” Decretò con una mossa della mano la donna. “Stai diventando grande; capisco che tu viva con tuo padre, ma non sei solo una blader, sei anche una ragazza. E bella, anche.” Fece, schiacciandole l’occhiolino.

Nadja arrossì, abbassando lo sguardo. “S-Sinceramente, non mi interessa… Non saprei da dove iniziare…”

“E dai, Kary, non tutte le ragazze sono fatte per i mascheroni che si vedono nelle pubblicità.” Intervenne Takao, sbuffando, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans. “Se Nadja non vuole truccarsi non vedo perché debba farlo, vuol dire che è una ragazza semplice: meglio.”

La donna sbuffò. “Beh, si. Ma sapete che dico? Io questo lucidalabbra te lo compro lo stesso. È semplice da usare, lascia le labbra morbide, è femminile, è profumato-

Il marito esibì un ghigno. “Spero non quanto l’ultimo tuo acquisto in fatto di profumi, tesoro.” Qui zio e nipote risero, alludendo al profumo preferito di Karen, che lei trovava divino ma in realtà era pressoché nauseabondo.

La zia di Nadja sospirò, incrociando le braccia sul petto. “Beh, se ti da tanto fastidio, quando lo metto, cioè la sera, puoi sempre dormire sul divano.”

Takao esibì un sorriso furbastro. “Preferirei pinzarmi il naso.” Nadja rise, e finse di interessarsi ad una marca di rossetti più in là piuttosto che all’abbraccio e ai baci appassionati che seguivano spesso le scaramucce degli zii.

Non poteva dirsi una ragazza infelice, Nadezda Hiwatari, anzi, tante volte, ad un bilancio accurato risultava che non le mancasse proprio niente. Un padre che, seppur freddo, le voleva un bene immenso e che, per lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa; ottimi voti a scuola; amici fidati che la adoravano, ricambiati; possedeva la scuola di beyblade migliore dell’intera Mosca, visto che, ad averla fondata era stato proprio Kai Hiwatari, suo padre, con la collaborazione dei suoi amici.

Nadja, così, allenandosi ogni giorno dalle due alle quattro ore al giorno, era diventata una delle migliori blader della scuola, che accoglieva studenti da tutta la Russia.

Aveva anche una schiera di zii che le volevano bene, zii molto diversi tra loro, ma che rivestivano tutti una loro importanza. Era circondata d’amore, d’affetto.

Di tutti, tranne che da quello del quale sentiva realmente il bisogno.

Sospirando, estrasse lentamente dal portafogli la foto strappata mostrante una giovane donna, poco più grande di lei, in abito da sera, con un sorriso smagliante.

Mamma

Guardando quella foto, capiva bene come mai talvolta suo padre si incantasse a guardarla, o il perché, quando giungevano amici d’infanzia dei suoi zii che la vedevano restassero ammutoliti.

È proprio uguale a..!

Ma il nome di sua madre non veniva mai pronunciato, fatto o detto: lei era l’innominabile, colei che aveva avuto l’ardire di fare innamorare un gelido come Kai Hiwatari per poi mettersi il suo cuore sotto i tacchi senza pietà, fuggendo via come una lepre.

Guardando però nuovamente la foto, la stessa che aveva trovato nella stanza di suo padre quando aveva cinque anni, si convinse di una cosa: una persona dai lineamenti così dolci, così ingenui, così rilassati, che sorrideva in maniera così spontanea, non poteva essere una megera.

La storia era un’altra; c’era qualche altra cosa sotto. Qualche altra cosa che lei voleva scoprire.

 

 

Aveva esagerato con la sua reazione, ne era consapevole, ma la realtà era che quando le si toccava un tasto in particolare diveniva parecchio suscettibile.

Liz, sminuzzando la sua vita vista dall’esterno in maniera così frivola, l’aveva fatta arrabbiare, e parecchio anche; avrebbe dovuto essere una delle sue migliori amiche, invece l’aveva trattata con la delicatezza con la quale l’avrebbe maneggiata una qualunque delle sue compagne di classe.

Ma la verità era che si era inalberata quando aveva cominciato a parlare di origini e soprattutto, di suo padre.

Daphne sospirò, tentando di calmarsi.

In genere era una ragazza vivace, sempre con il sorriso sulle labbra che, da quindicenne qual’era, si godeva la vita; zio Max e zia Maryam le ripetevano spesso quanto assomigliasse a sua madre, con la sua voglia di vivere e con la sua vitalità. Ma, quando si toccava il tasto padre, tutto ciò veniva sostituito da un malumore profondo che veniva scacciato solo dopo ore ed ore.

Estrasse dalla pochette una foto strappata che ritraeva un giovane ventenne con un sorriso appena accennato. Papà… Sua madre non ne aveva mai voluto parlare. Sapeva soltanto che era russo, e che sua madre era fuggita via da Mosca quando lei aveva appena un anno perché non lo sopportava più. Ovviamente Hilary Tachibana non le aveva detto così.

T-Tuo p-padre?” quando gliel’aveva chiesto, all’età di quattro anni, la voce di sua mamma si era fatta da gioiosa come sempre, ad acuta e stridula. Aveva sospirato innumerevoli volte ed aveva continuato a balbettare. “E’ russo, vive a M-Mosca e… Non so…” aveva ridacchiato, come isterica. Che altro d-dire? Ci vivevamo anche noi p-prima che io…” qui i suoi occhi si erano scuriti, lei era impallidita e aveva stoppato il discorso.

Riguardo zio Max, lui descriveva sempre suo padre come uno dei migliori blader che avesse mai conosciuto, seppure un po’ riservato e ritroso. Quando gli aveva chiesto il perché sua madre lo avesse lasciato, era stato lui a glissare, dicendole in fretta e furia che non lo sapeva bene e che forse era perché non si trovava più bene con lui.

Quella foto l’aveva trovata quando aveva cinque anni, nel comodino di sua madre, e, una volta scoperta, Hilary gliene aveva fatta una copia.

Ah, il festival del bey.” Aveva sogghignato Max, quando gliel’aveva fatta vedere. “Kai doveva avere una ventina d’anni, qui eravamo tutti tirati a lucido, da notare lo smoking. È una delle poche foto in cui tuo padre compare sorridente, forse per questo a Hilary piace.

La mancanza di un padre era per Daphne come un buco nero nella sua anima colorata e variopinta; si era infatti promessa di andarlo a cercare una volta divenuta maggiorenne, per avere quantomeno delle risposte di cui, più passava il tempo, più sentiva il bisogno.

Il reparto profumi e cosmetici si stagliò in tutta la sua imponenza, proponendole marche e gamme da sogno, ma nemmeno questo riuscì a sollevarle il morale; mise da parte la foto di suo padre, riponendola nella pochette, e sospirò. Era tempo di cercare di risollevare da sola il proprio umore.

“Ehi, finalmente!”

Sobbalzò a quella voce maschile sconosciuta, che le parlava in russo, e voltandosi si trovò davanti un uomo sui trentacinque, dai capelli neri, con il sorriso divertito. A poca distanza, una donna dai capelli biondissimi, era impegnata a provarsi un rossetto.

“Dice a me?” Daphne sbatté gli occhi, arrangiandosi con il poco russo che sapeva cioè quello base di un corso che aveva seguito due anni prima in Inghilterra e che ancora non era finito.

“Ma si, scema!” rise l’uomo, che, evidentemente, l’aveva scambiata per qualcun’altra. “Dove ti eri cacciata? Ti ho cercata per tutto il reparto! Kary, eccola qui!”

La donna bionda si voltò, sorridente, e Daphne spalancò occhi e bocca quando vide due occhi viola identici ai suoi stagliarsi di fronte a lei.

“Oh, Zeus…”

“Tesoro, tutto bene?” la bionda, che doveva avere poco più di trent’anni, la guardò preoccupata; sei impallidita.

Perché ho un brutto presentimento? Perché mi sento strana? Perché sento che questa donna mi ricorda qualcuno?

“S-Scusate, io…” deglutì a vuoto, poi tentò un sorriso. “Cerco un bagno.”

“Vuoi che ti accompagni?”

“No, no, signora, davvero, la ringrazio.” Fece, prima di girare sui tacchi e andarsene a gran velocità.

Karen e Takao si guardarono, sbigottiti. “Signora?”

 

 

Vedendo un maglioncino pesante a tinta unita che andava bene per l’inverno, lo prese, decidendo di cercare un camerino per provarlo.

Le piacevano i vestiti semplici, senza troppi fronzoli, che fossero comodi e adattabili al clima gelido della Russia.

Aveva lasciato gli zii intenti a sbaciucchiarsi nel reparto cosmetici, e, onde evitare di perder tempo, aveva preferito dare un’occhiata ai vestiti.

“Non vorrai davvero provare quello, spero.”

Nadja si voltò di scatto, strizzando gli occhi: chi diavolo era quella biondina che la fissava dall’alto in basso come se stesse commettendo un atto criminale? Decise di ignorarla, e di non abbassarsi al suo livello.

“Ehi, Daph. Parlo con te.” Insisté la biondina. “E poi che diamine ti sei messa addosso?”

In quell’istante sopraggiunse anche Sam, proveniente da un altro reparto. “Ehi, ragazze, ho preso una cosetta per Mi-” ammutolì quando vide le amiche. “Santo cielo, Daphne, che diavolo ti sei messa addosso?”

“E’ quello che le ho detto io.” Annuì Liz. “Jeans sdruciti e felpona verde acido? Devi andare a lavorare in miniera in stile flashdance?” le due ridacchiarono insieme, ma la loro risata si fermò quando notarono il viso scuro della brunetta.

“Ehi, Daph.” Sam le poggiò una mano sul braccio. “Scherzavamo. E poi sappiamo che non ti piacciono queste felpone o questi jeans osceni. Sei ancora arrabbiata per prima?”

Nadja non era arrabbiata: era furiosa. Nonostante stessero parlando in inglese, quell’inglese stretto della Londra bene, lei riusciva a capirle perfettamente, e capiva anche che la stavano prendendo in giro per il suo modo di vestire.

Come si permettevano, quelle oche, che nemmeno la conoscevano, e senza dubbio, l’avevano scambiata per un’altra persona? Come?!

“Andate al diavolo.” Ringhiò, prima di gettare loro addosso le magliette che aveva preso con l’intenzione di provare.

 

 

Uscendo dal bagno, la ragazza sospirò ed espirò ritmicamente come se ciò potesse automaticamente farla stare meglio. Non avrebbe saputo dire perché vedere quella donna dagli occhi viola le aveva causato quel senso di inquietudine: sapeva solo che quando aveva visto quei lineamenti familiari, una morsa gelida le aveva stretto lo stomaco.

Saranno certamente flash assurdi che mi attraversano il cervello.

Cercò di sbarazzare la mente da pensieri inutili che si accavallavano tra di loro, e per la prima volta in vita sua, passando nel reparto donna, non degnò di uno sguardo i favolosi vestiti esposti.

Quando vide una chioma bionda e una rossa vicine, sospirò, andando vicino alle sue amiche. Era probabilmente il caso di uscire da quel negozio e di andare ad un bar vicino a prendere qualcosa.

Fu l’occhiata truce che le lanciò Liz a bloccarla, seguita da Sam, che inizialmente fece finta di non vederla, dopodiché mise le braccia conserte, come a farle intendere che aveva appena commesso un atto imperdonabile.

“Che c’è?”

Liz inarcò il sopracciglio sottile e biondo. “Ci prendi in giro? Cos’è, smessi i panni da minatrice sei tornata la Daphne di sempre? Hai sviluppato una specie di dottor Jeckyll e Mr Hyde?

La bruna fece tanto d’occhi. “Che cosa stai dicendo?”

Sam la guardò, torva. “Non prenderci per il culo, Daph. Smettila.” fece, stizzita. “Potresti anche solo semplicemente chiedere scusa.”

Daphne spalancò la bocca. “Se è per questo Liz deve chiedere scusa a me!” precisò. “Fa tutto quel discorso sull’essere cosmopoliti e mi va a toccare il discorso su mio padre, che lo sapete non voglio si tocchi, e dice pure che sono popolare a scuola per questo! E dovrei scusarmi io! Ma si può sapere che avete?”

Liz le lanciò un’occhiata di fuoco. “Ah, ed è per questo che poi sei arrivata qui vestita come una soldatessa del Cile, e quando io e Sam abbiamo scherzato su questo fatto, ci hai mandate al diavolo e ci hai tirato pure gli indumenti che volevi provare!”

“Che cosa?!” sconcertata, meravigliata e sorpresa, l’interlocutrice non sapeva quasi cosa ribattere. “M-Ma non è vero!”

Sam e Liz si guardarono, le sopracciglia aggrottate. “Non è vero?” Daphne poteva essere una peperina, ma perché mentire spudoratamente e in maniera così infantile?

“No!”

Liz parlò senza riflettere. “E chi ce li avrebbe tirati questi indumenti, allora?” chiese, sventolando un maglione pesante a collo alto.

Scese il silenzio. Daphne sostenne lo sguardo delle sue amiche, che non potevano certamente credere di aver visto un ologramma o un fantasma.

“No, signorina, i maglioni a tinta unita li trova in fondo, non qui. Guardi, la ragazza con cui sta parlando la sua gemella ne ha uno in mano.

Fu un attimo. Daphne si voltò lentamente, verso la direzione della voce della commessa, per vedere… lei stessa.

Solo che non era un riflesso dato da uno specchio.

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Spero proprio che qualcosa ve l'abbia comunicato. O no?

Io sto tremando dalla paura, onestamente, sono mesi che lavoro a questa cosa... Ditemi voi. =S

Ora ho poco tempo, ci sentiremo più approfonditamente nel prossimo capitolo. O, almeno, lo spero davvero.

Un bacione a tutti. ;) 

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Capitolo 2
*** Secondo capitolo ***


Russia mon Amour

Russie mon Amour

 

“No, signorina, i maglioni a tinta unita li trova in fondo, non qui. Guardi, la ragazza con cui sta parlando la sua gemella ne ha uno in mano.

 

 

 

 

 

 

 

Se vi era una cosa che caratterizzava Nadja, era il sangue freddo che ostentava sempre, costantemente, anche in circostanze spiacevoli. Mentre gli altri perdevano la testa e si facevano cogliere dal panico, lei manteneva il suo proverbiale autocontrollo, e tramite quello, riusciva sempre in ciò che faceva.

 

Quel giorno, però, in quel centro commerciale, aveva solo voglia di svenire.

 

O di vomitare.

 

Cercando di mantenere un viso decente, si rivolse alla commessa. “Grazie, mi scusi.” la congedò in francese; quella annuì, dapprima squadrandola interrogativamente, poi andandosene nella direzione opposta.

 

Che cosa doveva fare, adesso? Non poteva certo darsela a gambe come una stupida.

Non fare l’idiota, si ammonì; decise di rivolgersi alle ragazze che le stavano davanti, cercando di sorridere e camminando nella loro direzione.

 

Delle statue di sale.

Il fattore che le diede la forza di proseguire fu la consapevolezza, seppur accennata, nell’anticamera del suo cervello, di non essere la sola ad essere quantomeno sorpresa.

La bionda aveva la mascella spudoratamente sprofondata, e la rossa gli occhi verdi così sgranati che di qualche millimetro in più sarebbero rotolati fuori dalle orbite.

 

E la bruna… Se ne stava rigida, impettita, come se avesse ingoiato un limone, e il suo colorito tendeva al verdastro.

 

Quando Nadja se la ritrovò davanti, pur sentendo un’ondata di nausea sopraffarla, non riuscì a parlare, anche perché non avrebbe saputo cosa dire.

 

“Wow!” esclamò la bionda dopo molti secondi di silenzio. “Abbiamo sette gemelli sparsi per il mondo e tu hai trovato in Francia la tua, Daph!”

 

Bastò questa frase a far accennare un sorriso a tutte, e fu solo per questo che la bruna si ricompose, sbattendo gli occhi e accennando ad un movimento del capo. “Dio, che shock…” ci furono delle risatine generali.

 

“Siete uguali.” Sam era ammirata, e stava osservando Nadja come fosse un animale raro. “Tu però hai i capelli più corti. E questa voglia sul collo.”

 

Ci furono dei secondi di imbarazzo che furono interrotti dall’altra ragazza. “Ora si che mi sono ripresa: mi era venuto un colpo prima!” altre risatine. “Piacere, Daphne.”

 

“Nadezda, ma tutti mi chiamano Nadja.” rispose, porgendole la mano.

 

“Oh, ma non è particolare per essere francese?” osservò la rossa, sbattendo gli occhi. “Samantha, comunque.”

 

Infatti sono russa. Sono a Parigi dai miei zii per la settimana bianca. E… Il vostro accento non è di qui.” chiese implicitamente, umettandosi le labbra.

 

“Io sono Elizabeth – Liz.” Si presentò la bionda. “Siamo inglesi, di Londra.”

 

Nadja sorrise. “Bellissima Londra: e come mai qui?”

 

Daphne si scambiò un’occhiata con le sue amiche, che sorrisero. “Gita d’istruzione.” poi si rivolse alla ragazza che le assomigliava in maniera impressionante. “Senti, devono essere i tuoi zii quelli che mi hanno scambiata per te.” quando la ragazza le rivolse un’occhiata interrogativa, Daphne continuò. “Due signori sui trentacinque, lei bionda color del grano, lui nero corvino?”

 

“Oh, si.” la ragazza rise. “Così come queste due mi devono aver scambiato per te.”

 

Daphne inarcò le sopracciglia verso le sue amiche. “Capisco la somiglianza impressionante.” cominciò. “Ma lei ha i capelli lunghi appena sotto l’orecchio, io fino alla schiena. Ci sarà un po’ di differenza, no?”

 

“Non so, io non me ne sono accorta.” fece Sam, aggrottando le sopracciglia.

 

“Io un po’ si, ma lei indossava un maglione a collo alto, pensavo ti fossi dimenticata di liberare i capelli dal suddetto collo del maglione.” Daph alzò gli occhi al cielo, Nadja rise. “E comunque è stato un pensiero fugace che mi ha attraversato l’anticamera del cervello.”

 

Quando il cellulare della rossa squillò, la sua espressione parlò chiaro. “Ragazze, tra dieci minuti abbiamo il ritrovo con gli altri.”

 

“Che cosa?” Daphne era incredula. “Ma ho appena trovato una delle mie gemelle sparse per il mondo, non la posso mica lasciar andare così! Devo almeno fare una tonnellata di foto, sapere qualcosa di più e-

 

“Noi questo pomeriggio saremo al Louvre.” la interruppe Liz, consultando un foglio spiegazzato. “Puoi esserci?” chiese a Nadja.

 

Si, dai. Non capita tutti i giorni, in fondo.” il sorriso che rivolse alle tre ragazze fu timido e genuino. “Vi lascio il mio numero: mi mandate un sms e mi fate sapere a che ora e dove mi devo far trovare.”

 

Daphne era su di giri. “D’accordo. Tieni.” fece, porgendole il suo I-phone. “Scrivilo qui.”

 

L’altra le rese il cellulare qualche secondo più tardi. “Va bene, io vado. Ci vediamo questo pomeriggio, a quanto pare… Aspetto il vostro sms.” e, con un cenno della mano, salutò le tre ragazze, andandosene e incamminandosi verso la direzione opposta.

 

“Dai, andiamo che se no la Smith ci lincia.” Sam ripose il suo cellulare nella tasca sbrigativamente, lanciando alle sue amiche uno sguardo complice; le altre annuirono brevemente, incamminandosi a passo spedito verso il luogo di ritrovo.

 

“Mai avrei immaginato di poter incontrare qualcuno tanto uguale a me.” Daphne storse il naso. “E’… E’ identica!”

 

Si, poi mi ha fatto una buona impressione.” Liz sorrise.

 

“Vero.” intervenne Sam. “E’ timida ma simpatica.”

 

“Senza contare che ti ha fatto vedere come staresti con i capelli corti e mossi.” alla battuta della bionda, tutte e tre scoppiarono a ridere.

 

“Sono certa che alla mamma verrà un colpo.” rifletté Daphne. “Oh, non se lo immagina di certo!”

 

Liz fece per aprire bocca, ma fu interrotta da un urlo a mezza bocca da parte di Samantha: “Oh, mio Dio! E’ ovvio!”

 

 

 

 

Quando Nadja trovò i suoi zii, erano ancora nel reparto cosmetici: zia Karen si era appena spruzzata un Burberry sul polso per farlo annusare al marito che, per tutta risposta, le aveva dato un sensuale morso.

 

Erano fatti così: sin da quando si ricordasse, tra di loro c’era sempre stato questo amore folle condito da una passione spietata, alimentata giorno dopo giorno. Avevano trentasei e trentaquattro anni e si comportavano ancora come adolescenti di sedici anni, erano incredibili.

 

“Ehi, signorina!” alla voce dello zio rispose inarcando le sopracciglia. “Finito di fare la spiritosona?”

 

“E di darmi della signora?” fece eco la zia, guardandola strana. “Che poi dove hai posato la parrucca che avevi preso? Stavi bene con i capelli lisci e lunghi…”

 

Nadja sorrise: non aveva idea di cosa poteva aver detto Daphne, ma una cosa era sicura. Nemmeno loro avevano mai incontrato i loro gemelli. “Beh, non è che fosse una parru-” il furioso trillo del cellulare la interruppe. “Scusate.” sorrisetto sul volto, rispose parecchi passi più in là. “Si? Daphne?”

 

“Tu sei russa.”

 

E’ un’accusa, per caso?Si.”

 

“Io non ho il padre. Mio padre era russo. E’ russo. Tu hai una famiglia? Oh, mio Dio, magari lo conosci.”

 

Tanti dati vorticarono nella mente di Nadja a velocità supersonica, e anche contemporaneamente.

 

“Daph. Calmati. Ripeti con calma, non le fai capire nulla.” la voce di Sam era di sottofondo.

 

All’altro capo del telefono si sentì un forte sospiro. “Nad… Io vivo con mia madre. Da sempre. E l’unica cosa che mi ha detto è che mio padre è russo. Ora… Io incontro una ragazza che è la mia fotocopia e che è russa…

 

“Quanti anni hai?” la voce di Nadja era glaciale, il suo cervello stava lavorando a velocità allucinante.

 

“Quindici. Faccio gli anni il 13 Luglio.” il filo di voce con cui lo disse si spezzò nell’ultima lettera.

 

Nadja chiuse gli occhi, sospirando rumorosamente. “Anche io.” fece, piano. “Come si chiama tuo padre?”

 

“E’ un blader molto famoso. E’ stato campione del mondo.” i battiti del cuore di Nadja accelerarono. “Kai Hiwatari.”

 

Nadja non fu in grado di dire niente per molti secondi. Sentiva solo il suo cuore martellare nelle orecchie e le lacrime pungerle negli occhi. Per confermare o altro scelse un’altra frase: “Hilary Tachibana è mia madre.”

 

Daphne era impietrita. “Oh, Dio.”

 

“Vediamoci questo pomeriggio. Urgentemente.” poi chiuse la comunicazione.

 

Resta calma, resta calma, resta calma.

 

Sentendosi visibilmente sconvolta e sull’orlo di una giustificata crisi di nervi, Nadja fece quello che faceva sempre quando il suo temperamento placido e tranquillo subiva dei cambiamenti da fattori esterni: cercò un punto focale.

In quel caso, era costituito da uno specchio.

 

Guardando quella ragazza così pallida e turbata, cercò immediatamente di restare ancorata alla realtà, e anche di trovare una scusa qualora i suoi zii le avessero chiesto spiegazioni. Dopodiché, una volta smesso di tremare, si voltò, andando verso la coppia che, come al solito, stava battibeccando riguardo qualcosa di non ben definito.

 

Eccolì lì, i suoi zii, tra le persone di cui si fidava di più al mondo. Eppure in quel frangente era furibonda con loro: la sua indole era pacifica per natura, ma, se stuzzicata, diveniva vendicativa a mai finire. E lei era sicura, sicura, che loro sapessero.

 

“Stai bene, tesoro?” la sorella di suo padre smise immediatamente di parlare con suo marito per rivolgersi a lei.

 

“Accidenti come sei pallida.” fece eco il marito. “Qualche brutta notizia?”

 

Nadja dovette farsi forza per non rispondere in maniera tagliente. “No, ho semplicemente discusso con una mia conoscente. Detesto le persone saccenti.” sputò fuori, velenosa.

 

Takao ridacchiò. “Meglio averti per amica che per nemica, Nad. Sembri così calma e pacata, ma se pungolata sei una iena.”

 

“Sangue Hiwatari.” commentò fieramente Karen, uno scintillio negli occhi viola.

 

“Andiamo a casa?” tagliò corto la brunetta. “Sono stanca.”

 

Mi devo calmare, o qui faccio una strage.

 

 

 

 

Sam e Liz si scambiarono uno sguardo preoccupato: guardare la loro amica che con la forchetta, giocherellava con il cibo, non era uno spettacolo che si poteva vedere tutti i giorni.

Da quando aveva parlato con la probabile gemella era crollata in uno stato catatonico caratterizzato da evidente depressione. Alle continue domande delle altre persone, si curavano di rispondere in maniera il più possibile vaga, anche se non era facile, con una Daphne che non collaborava in nessun modo.

 

Il suono della nuova canzone di Katy Perry interruppe le loro elucubrazioni mentali: la bruna guardò il suo cellulare con tanto d’occhi, leggendovi sul display un MAMMINA che, fino ad allora, era sempre stato accolto con entusiasmo.

 

“Che faccio, ora?” che non volesse parlarle le si leggeva in faccia: mostrava un volto pallido e sconvolto e quasi.... disgustato?

 

Sam inarcò le sopracciglia. “Non hai mai evitato tua madre.” commentò. “Quindi dovrai affrontarla. Per ora… Beh, da’ qua.” fece, con un gesto della mano. Daphne le porse il cellulare, e l’altra rispose. “Pronto, Hilary? Si, sono Samy.” ridacchiò. “Benissimo, come ieri e l’altroieri.” Intanto Daphne si stava mordendo le labbra: poteva sentire appena la voce di sua madre chiedere alla sua amica di lei. “La tua dolce figliola è… beh, impegnata, puoi immaginare. Si, ti faccio richiamare. A presto.” la comunicazione venne chiusa.

 

“Grazie.” soffiò.

 

La rossa aveva le sopracciglia fin sopra nei capelli. “Mi auguro almeno che questo pomeriggio sia fruttuoso per te.”

 

Liz mostrò un’espressione corrucciata. “In che senso?”

 

“Spero che sia tutto un gigantesco equivoco.” sbuffò. “Altrimenti sarà un casino.”

 

La bruna si morse le labbra. “Lo scopriremo, suppongo…”

 

 

 

 

Il Louvre era un museo gigantesco e bellissimo: a Daphne sarebbe piaciuto, se se lo fosse goduto davvero.

 

Invece era costretta a stare con il gruppo per ascoltare noiose spiegazioni circa quadri e sculture che avevano studiato a scuola in storia dell’arte. L’ansia la stava mangiando viva, le stava corrodendo le interiora, il cervello, fin dentro l’anima. Lei doveva sapere.

 

“Smettila di mostrare quell’espressione sofferente, mi fai agitare.” sibilò Liz. “E poi se non ti domini la Smith e la Watson capiranno che c’è qualcosa che non va.”

 

Daphne si morse le labbra, ma non disse nulla: cercò semplicemente di sgomberare la testa dai pensieri e assunse un’aria normale, fingendo di ascoltare; passarono così i minuti, lunghi come giorni, fino a quando la vibrazione del cellulare la fece sobbalzare. Nadja era arrivata.

 

Alzò la mano per farsi notare da un’insegnante, e una volta attirata l’attenzione della signorina Watson, riuscì ad inventarsi qualcosa di non troppo grandioso. “Non mi sento granché bene: potrei andare a prendere una boccata d’aria fuori?”

 

La docente la squadrò, e probabilmente dovette pensare che la vivace Daphne Tachibana, pallida e silenziosa, doveva stare veramente male, perché le lanciò un’occhiata preoccupata. “Stiamo finendo, tra un po’ usciremo di qui e vi lasceremo liberi. Riesci a resistere qualche minuto?”

 

Forse anziché parlare di nascosto e in fretta e furia sarà più utile parlare con calma… Si, va bene.” quando tornò dalla amiche, porse il cellulare a Sam. “Scrivi a Nadja che non appena possiamo la raggiungeremo. La Watson ha detto che a minuti ci lasceranno liberi.

 

 

 

 

Quindici minuti più tardi, sistemandosi il cappellino alla francese e gli occhiali da sole, Nadja sospirò, seduta nel bar nel quale aveva dato appuntamento alle altre ragazze. Nervosissima e preoccupata, non avrebbe saputo resistere un minuto di più, se non avesse scorto le figurette delle inglesine affacciarsi in lontananza e venire verso di lei. Facendo un cenno, si preparò con un sospiro al confronto, sgomberando il tavolo dalla sua borsa nera.

 

“Scusa il ritardo, ma almeno adesso abbiamo un’oretta, e non minuti contati.” esordì Liz.

 

“Che look, sembri una star che non vuol farsi riconoscere.” provò a scherzare Sam.

 

Nadja si morse il labbro inferiore. “Ho pensato che se ci vedessero i vostri compagni…” lei e Daphne si guardarono come bombe ad orologeria.

 

“Va bene, perciò terrai gli occhiali da sole.” provò a smorzare la tensione Liz.

 

Seguirono diversi secondi di silenzio, interrotti da un sospiro di Sam. “Andiamo, ragazze: so che siete spaventate, ma non fatevi prendere dall’ansia, dai! Siete qui per confrontarvi. Non per uccidervi a vicenda.”

 

Nadja annuì. “Hai ragione.” poi si rivolse a Daphne. “Sei nata il tredici Luglio.” lei annuì. “Anche io. E Hilary Tachibana è tua madre, così come mio padre è Kai Hiwatari.” lei annuì, rigidissima. “Bene. A me hanno sempre detto che mia madre si chiama Hilary Tachibana, e stamattina mi hai detto che tuo padre si chiama come mio padre. E, ti assicuro, che di suoi omonimi non ce ne sono.

 

“Poi siete palesemente uguali…” continuò Liz. “… Siete gemelle.”

 

“Che situazione.” commentò Sam.

 

Un singhiozzo interruppe la scena.

Daphne stava piangendo, palesemente sconvolta. Le tremavano le spalle, e presto si coprì gli occhi con le mani.

 

“Ehi…” le fu subito accanto Sam.

 

“Non è giusto.” singhiozzò la brunetta. “Io e mia madre siamo migliori amiche, ci adoriamo, ci diciamo tutto. Perché, perché, perché, non mi ha detto che ho una gemella?!” e giù una scarica di singhiozzi.

 

“Credo che sia a causa della storia tra i nostri genitori.” ragionò Nadja; Daphne la guardò, gli occhi pieni di lacrime. “Non so cosa ti hanno raccontato, ma mio padre è un uomo freddo, tutto d’un pezzo, che non si lascia andare ai sentimentalismi… Eppure mi hanno detto che per mia – nostra – madre lo fece. E lei, un giorno, si mise il suo cuore sotto le scarpe e sparì; da quel giorno decise che nella sua vita ci sarebbe stato posto solo per una sola donna: io.

 

“Non posso credere che Hilary farebbe mai qualcosa di simile.” esclamò Sam, sconvolta.

 

“A me è sempre stato detto così.” disse Nadja, scrollando le spalle. “Che lei lasciò gli amici e mio padre fregandosene anche di me per seguire i suoi sogni, solo perché qui si sentiva pressata.”

 

Sentendo descrivere sua madre come una prepotente arrivista, in Daphne crebbe un moto di contrarietà. “Non ci credo.” fece, asciugandosi le lacrime. “C’è di più, molto di più. Ne sono sicura.”

 

“Tu su papà che hai sentito?”

 

Praticamente niente. Mamma non ne parla mai. Me ne parla zio Max, ma dice solo che è il miglior blader che lui abbia mai conosciuto, e glissa sempre quando gli chiedo di lui e mamma insieme.” fece, sistemandosi i capelli. “Di lui ho avuto soltanto una foto, che ho trovato nel comodino di mamma… ecco, la porto sempre con me.”

 

La foto, era in realtà un’istantanea strappata a metà, sbiadita dal tempo, che ritraeva un bel giovane sui vent’anni in smoking, probabilmente durante una serata di gala, sorridente e con una luce particolare negli occhi viola.

 

“E’ mio padre.” la voce di Nadja era sicura, mentre cercava qualcosa nella tasca interna del suo trench. “E ora il puzzle si ricompone… In ogni senso.” tra lo stupore generale, estrasse l’altra metà dell’istantanea, raffigurante una bella ragazza bruna dalla pelle candida con un sorriso raggiante.

 

“E’ mia madre.” ormai Daphne si stava molto lentamente riprendendo dallo shock. Qualcosa iniziava a quadrare, come ad esempio le foto, che si incastravano alla perfezione.

 

“Sembra che qualcuno, accecato dalla rabbia, abbia strappato la foto quand’era tutta intera.” fece Sam, prendendo entrambi i pezzi. “Osservate i bordi: sono perfettamente dritti, tranne qui, dove vi è un inizio trasversale.” fece il gesto di strappare un tovagliolo che non accennava a collaborare. “Vedete?”

 

Nadja la ascoltava con attenzione. “Beh, wow.”

 

Liz sbuffò. “Mandala pure affanculo. E’ che dice sempre che deve fare la psicologa criminale.” qui ci fu una breve risata generale.

 

Daphne si ravviò una ciocca dietro l’orecchio prima di guardare la ragazza che aveva conosciuto appena quella mattina. “Beh, allora mi sembra proprio di capire che siamo… sorelle.” lo disse corrucciando le sopracciglia, come se non riuscisse a crederlo possibile.

 

“Un po’ di più a dire il vero: siamo gemelle.” le rispose l’altra con un sorrisetto quasi di scuse.

 

Daphne ridacchiò nervosamente, nascondendo la bocca dietro le mani, come se, così facendo, potesse venire meno il suo nervosismo. “Oh, Dio…”

 

“E adesso che fate?”

 

Sam guardò la bionda Elizabeth di traverso. “Tu un po’ zitta no, eh?”

 

“Beh, avrebbero dovuto affrontare il problema, prima o poi.”

 

Nadja scosse la testa. “Non ne ho idea. Io… Vorrei conoscere mia madre… E vorrei anche capire come mai ci hanno separate senza dirci nulla, ma non so co-”

 

“Ho un’idea geniale.” la interruppe Daphne.

 

“Si salvi chi può.” rantolò Liz, mentre Sam, da atea, si faceva il segno della croce.

 

Ma la loro amica non diede segno di averle minimamente ascoltate. “Tu abiti a Mosca, io abito a Londra. Tu vuoi conoscere mamma, io papà.” qui sorrise largamente. “Bene. Io torno alla base tra qualche giorno, e tu pure, quindi abbiamo qualche giorno di tempo per studiarci e conoscerci, perché io torno a Mosca come Nadja, e tu in Inghilterra come Daphne.” quando vide gli occhi della gemella raggiungere le dimensioni di due palline da tennis, sbuffò. “Oh, so bene che la pagliacciata non potrà durare, ma che altro proponi? E’ il solo modo per stare un po’ con i nostri vecchi e per sapere la verità. E vuoi sapere una cosa? Ad un certo punto… Beh, dovranno venire a scambiarci… Lì si che ci sarà da ridere.”

 

“Ci sarà proprio da ridere, perché papà detesta essere preso in giro.” grugnì l’altra.

 

“Trovami una persona che l’adora.” ribatté fieramente Daphne. “E poi anche lui ci ha preso per i fondelli.”

 

Furono queste parole a far scattare qualcosa nella testa della razionale e assennata Nadja. “Okay, ci sto.”

Anche se so che me ne pentirò.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualcosa è stato svelato. u___u

Qualcosa, che, ovviamente, era chiaro. Le somiglianze con “Genitori in Trappola” finiscono qui, perché da questo momento in poi la storia prenderà una piega completamente, assolutamente diversa: sarà sempre una commedia, certo – la Hiromi non si smentisce mai xD – ma di tanto in tanto avrà anche toni più… seriosi. u.u

Torneranno tuuuuutti i personaggi. E quando dico tutti, dico tutti. O quasi. xD

Anyway, state sintonizzati, dovremmo aspettare due capitoli per vedere Kai e Hila come genitori. *.* Ma avverrà, ve lo assicuro. ;)

Nel frattempo, ditemi come vi sembra. =D

 

Un bacione,

 

Hiromi

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Capitolo 3
*** Terzo capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

La sua migliore amica non era mai stata una ragazza normale – o una bambina normale, che dirsi voglia - : era sempre stata pazzerella, fuori dal comune, una leader nata, una che con le sue idee ti metteva nei guai… Ma in fondo la si perdonava sempre, perché con lei una giornata non era mai una giornata sprecata, ci si divertiva troppo.

Fino ad allora.

 

“Dovrete scambiarvi i ruoli?” Sam aveva gli occhi fuori dalle orbite.

 

“Cos’è del mio piano che non hai capito, esattamente?” cinguettò Daphne, intenta a studiare la pettinatura della gemella, che stava rigida sulla sedia, osservando le ragazze che aveva davanti.

 

“Ho capito tutto, è questo il problema.” sputò fuori la rossa, sorseggiando la sua acqua come fosse whiskey. “E’ una follia.”

 

“Non farla tragica, cara.” con un sorriso amabile, accavallò le gambe. “Siamo praticamente identiche: qual è la differenza?” chiese, rivolgendosi alla gemella. “Questa voglia? Bene: un po’ di fondotinta e via.” prendendo una ciocca di capelli tra le dita, fece un sorriso calcolatore. “Domattina andremo dal parrucchiere a pareggiare i capelli.” qui sospirò. “Beh, mi costerà decisamente tagliare la mia preziosissima chioma, ma per la riuscita del piano questo ed altro.”

 

Nadja si umettò lentamente le labbra, assimilando tutto ciò che la sorella aveva detto in così poco tempo.

 

E’ una follia, altro che storie… E la cosa che non capisco è perché diavolo voglio infilarmici dentro.

 

Daphne parve leggere nella mente della gemella, perché inarcò il sopracciglio, catturando la sua attenzione. “Tranquilla, Nad. Abitiamo in paesi diversi, entrambe vogliamo conoscere i nostri genitori, ma cosa possiamo fare normalmente?” qui si interruppe, e l’interessata riconobbe che, effettivamente Daphne aveva ragione. “Io vado in Russia da te e tu torni in Inghilterra presentandoti come me. Okay, magari non reggerà a lungo, ma li conosceremo e quando sveleremo il segreto ci riscambieremo e li faremo incontrare di nuovo.”

 

Nadja sorrise, improvvisamente rincuorata: ora ci credeva maggiormente nel piano della sorella, quel piano che le avrebbe permesso di incontrare sua madre. Finalmente.

 

“Io prevedo guai.” cantilenò Sam, roteando gli occhi.

 

“…Predisse il gufaccio del malaugurio!” qui tutte risero. “Che palle, mai una volta ottimista, mai!” sbottò Liz.

 

La rossa scostò una ciocca dei suoi capelli dalla fronte con fare polemico, inarcando entrambe le sopracciglia. “Sono una cinica, e non credo nelle favolette, né alle robette da film. Io prevedo guai. Punto.”

 

“Bene. A quelli ci penseremo più in là.” fece sbrigativamente Daphne. “Ora abbiamo poco, pochissimo tempo per organizzarci per la riuscita del piano.” si rivolse alla gemella. “Dobbiamo reggere qualche giorno, no?”

 

Nadja annuì. “Si spera.”

 

“Bene, allora credo proprio che dovremmo sapere tutto, ed intendo tutto l’una dell’altra. Parenti, amici, ma soprattutto routine. I nostri gesti, le cose che mangiamo, che detestiamo, cosa facciamo, come ci vestiamo...” lasciò in sospeso la frase: non le veniva più nulla in mente.

 

“Insomma, io devo imparare ad essere te… E viceversa, direi.” osservò Nadja, mordendosi le labbra.

 

“Credo sia un buon piano.” si intromise Liz. “Avete il mio appoggio.”

 

Sam sbuffò, quasi grugnendo, e la frangetta rossa le si alzò buffamente al ritmo del suo fiato. “Ovviamente avrete anche il mio. Sappiate solo che considero tutto ciò una follia.

 

Daphne sgranò occhi e bocca. “Oh, ma che cosa dici? Per l’amor del cielo, non l’avevo mica capito!” tutte ridacchiarono alla sua teatrale sceneggiata, e l’amica, un leggero sorriso sulle labbra, le tirò un fazzoletto.

 

Nadja si umettò le labbra. “Sono vegetariana.” tutte si voltarono verso di lei. “Mi piace mangiare sano, e amo gli animali. Tutti. Io e papà in estate andiamo a cavalcare, sono brava, ho vinto diverse competizioni.

 

“Quante competizioni? Partecipi ancora?” da vera cavallerizza provetta, Liz era interessata, e dal canto suo, Daphne non si perdeva una parola della gemella.

 

“Da un anno non partecipo più: ho intrapreso studi molto impegnativi, cavalco esclusivamente d’estate, per la precisione da Luglio in poi, quando ne ho il tempo.”

 

“Fortuna che siamo fuori stagione, eh?” ammiccò Sam, all’indirizzo dell’amica; Liz ridacchiò. “Daph è una frana a cavalcare, così come in tutti gli sport inglesi. Si salva nel beyblade.” non appena lo disse, le gemelle sobbalzarono: c’era qualcosa alla quale non avevano pensato.

 

“Come facciamo?” l’inglese cacciò fuori dalla tasca una trottola viola con i bordi verdi. “I bey non si fanno comandare da chiunque.”

 

La sua gemella la fissò dritta negli occhi, mordendosi le labbra. “No, è vero. Ma siamo sorelle. Gemelle, per di più. I bey obbediscono ai padroni, quindi se capiscono la situazione filerà tutto liscio.” esibì un sorriso mostrando il suo beyblade viola e argento.

 

Daphne annuì solennemente. “Presto. Non c’è un secondo da perdere.”

 

 

 

 

Al raduno con compagne di classe e docenti, le tre arrivarono per ultime, beccandosi una strigliata da parte del corpo insegnanti, ma almeno, con Nadja, erano riuscite a far quadrare molte cose sulla tabella di marcia.

 

Ad esempio le gemelle si erano battute a beyblade, evocando le loro creature: due unicorni di diverso colore e avevano constatato che Nadja era un po’ superiore a Daphne.

 

Poi erano riuscite a confrontarsi riguardo le parentele, e ad informarsi circa le persone che avrebbero incontrato più di frequente.

Nadja era senza dubbio quella con più zii acquisiti: viveva da sola in una grande villa con suo padre, che praticamente era sempre in questa scuola di beyblade rinomata in tutta Mosca, ma era circondata dall’affetto di tante persone: i suoi zii Rei e Mao, gli amici di suo padre che un tempo costituivano la sua ex squadra che lei chiamava pure zii, per non parlare dei suoi unici zii ufficiali, che erano zia Karen e zio Takao, che vivevano in Francia.

 

Tante cose da tenere a mente, troppe facce che avrebbe dovuto ricordare, un modo di fare diverso dal suo… Nadja era così calma, pacata, distesa, assennata, tutto il contrario di lei che era energica, spigliata, che non sapeva stare ferma un attimo… Ce l’avrebbe fatta a tenere a freno la sua indole?

 

“Il tuo cellulare.” dal tono in cui Liz lo disse, Daphne capì che era sua madre. Non aveva voglia di parlarle, avrebbe voluto rimandare il più possibile quella telefonata, ma per la riuscita del piano avrebbe dovuto fare uno sforzo. Immane per giunta.

 

“Ehi!” trillò, dopo aver fatto un gran sospiro e aver risposto. “Come va?”

 

“Dovrei chiederlo io a te!” la voce di Hilary Tachibana le arrivò come delle unghie che graffiavano una lavagna: un rumore insopportabile. “Come stai?”

 

“Oh, fino a stamattina un gigantesco mal di pancia, ora tutto bene. Lì come va?”

 

“Alla grande!” Hilary ridacchiò. “Max e Maryam ti salutano, Daisy ti manda un bacione.”

 

Daphne si accigliò. “Sei con loro per ora?”

 

La voce si abbassò, facendosi maliziosa. “Oh. no, no. Mi hanno solo detto di salutarti. Sono in tribunale, tesoro.” ridacchiò di nuovo.

 

Fu un attimo: la quindicenne esibì un sorrisone, capendo al volo. “C’è un uomo con te, vero?”

 

Hilary scoppiò a ridere. “Beh, al momento no. Fino a stamattina...

 

“Okay, chi è?”

 

Ci fu un silenzio che durò parecchi secondi prima che la donna rispondesse, prima, però, vi fu un altro risolino malizioso. “Non posso parlare, tra mezz’ora ho un’udienza e devo ripassare i punti del caso. Solo due parole.” e ridacchiò. “Occhi verde bottiglia e fisico palestrato.”

 

“Il giudice Jones!”

 

“Oh, si. Notte di fuoco.” 

 

“E brava!” anche Daphne rise: sin da quando era piccola era sempre stata abituata a vedere sua madre come una delle donne più corteggiate della città, per via della sua bellezza e del suo carattere allegro e gioviale; ma Hilary stava bene attenta a non fare mai incontrare la figlia con gli uomini. Con loro passo soltanto qualche ora piacevole. Niente di più. Le aveva detto una volta. Sei tu la mia vita, la mia famiglia. Io e te, Daph, solo noi due.

 

In passato Hilary era stata corteggiata molto serratamente, e aveva pure ricevuto qualche proposta di matrimonio (diplomaticamente rifiutata) da magnati stranieri cui aveva fatto da avvocato, ma sembrava che nulla potesse far breccia nel suo cuore.

 

Forse è meglio così… Il mio piano, fin’ora, procede liscio come l’olio…

 

 

 

 

“Oh, sei tornata!” Karen Kinomiya accolse sua nipote con un sorriso grande quanto una casa. “Giocato a beyblade?”

 

Nadja boccheggiò un istante. “No.” o forse era meglio dire si? “Cioè, si!” di fronte alle sopracciglia inarcate della zia, esibì un sorriso imbarazzato. “Ho giocato a bey, ma non da sola. Ho… Beh, ho conosciuto una ragazza che mi ha invitato a casa sua questo pomeriggio.

 

Karen sorrise. “Che bello, mi fa piacere che tu faccia amicizia! Com’è che si chiama?”

 

Un nome. Alla svelta. “Amelie. S-Si chiama Amelie.”

 

“Puoi invitarla anche qui, se vuoi.” esordì la zia, sorridendole.

 

Nadja sorrise, non aggiungendo altro, e andando in sala da pranzo per apparecchiare la tavola: zio Takao era impegnato nel battere qualcosa al portatile, e doveva essere qualcosa di lavoro, a giudicare dagli occhialini rettangolari che portava solo quando doveva leggere o stare al pc.

 

“E’ pronto? Ho una fame…” la brunetta sorrise: da che ricordava, suo zio era sempre stato una buona forchetta, ma anche sua zia non scherzava in quanto a mangiare, infatti almeno una volta a settimana andavano a cena nei vari ristoranti più rinomati di Parigi, sia per provarli, che per stare un po’ insieme.

 

Si, dovrei apparecchiare…”

 

“Tolgo subito e ti aiuto.” in un batter d’occhio, zio e nipote sparecchiarono e apparecchiarono accuratamente la tavola, e dopo qualche minuto Karen portò le leccornie, pronte per essere gustate e mangiate. O, nel caso di Takao, divorate.

 

“Tesoro, potresti pure fare attenzione alla coreografia, ed a cosa ho cucinato, prima di spazzolare tutto!” lo rimbrottò Karen. “Potrei pure cucinare della pasta scaduta, o sbattuta al muro, non te ne accorgeresti.”

 

Takao sghignazzò. “Io divoro, ma ho una mogliettina che è una vera chef!”

 

Karen inarcò un sopracciglio. “Non ti dico una parolaccia perché c’è mia nipote.”

 

“Giusto. Conservala per stanotte.” le sussurrò a mezza bocca. Nadja scoppiò a ridere, Karen gli assestò una bottarella sulla nuca, prontamente fermata dal marito che baciò la moglie sulle labbra.

 

Erano sempre così, gli zii: pieni di amore e di passione, la coppia più innamorata che conoscesse. Eppure, da quanto le aveva raccontato zia Mao, quando si erano conosciuti, anni prima, di primo acchito, si erano detestati.

 

“Come vi siete conosciuti?”

 

Karen si voltò verso la nipote, che aveva formulato la domanda, sbattendo gli occhi. Si umettò le labbra e sospirò, guardando il marito. “Beh… Di certo è una storia lunga…”

 

Takao aveva preso a ridacchiare. “Io mi ricordo quando ti ho visto la prima volta. Che odiosa… Se mi avessero detto: ehi, questa è la tua futura moglie, mi sarei messo a ridere.

 

Karen scosse la testa bionda. “Che idiota!” sbottò, pinzandogli il naso tra le dita. “Comunque, Nad, ci siamo conosciuti quando io sono andata in Giappone a conoscere tuo padre. Io avevo sedici anni e questo signore qui…” Takao ridacchiò “…Diciotto – ma ne dimostrava due. E’ stata antipatia a prima vista: prima non credeva che fossi sorella di Kai, poi ci furono litigi e scaramucce, poi fui io a sfidarlo a bey…E vinsi!

 

“Solo perché barasti!”

 

“Ma quale barare! Era una gara leale, c’erano dei testimoni, eri tu che ti stavi innamorando della sottoscritta e ti sei fatto abbindolare da un paio di tette. Takao rise e, per tutta risposta baciò la moglie, sotto lo sguardo divertito di Nadja.

 

“E come vi siete messi insieme?”

 

“Viaggio per San Diego.” i  coniugi lo dissero in coro, e si sorrisero.

 

“A diciotto anni partecipammo ad un torneo che si doveva tenere in California, e lo raggiungemmo in auto, tanto ci trovavamo in America, in una città a poche ore da lì.” spiegò Karen. “Le auto erano tutte occupate, a noi due toccò viaggiare da soli per sei ore sulla stessa auto, e io pensai: okay, o ci ammazziamo o diventiamo amici. Invece andò più che bene. Non so se mi spiego.”

 

“Okay, capito.” rise Nadja, soprattutto vedendo il lungo bacio che seguì da parte dei due zii, e si chiese se dopo quel viaggio avessero fatto tutto il tempo così. “Oh, e… Mamma era con voi, vero?”

 

Fu incredibile l’effetto che fece quella domanda. Karen e Takao divennero di pietra, irrigidendosi totalmente, e perdendo l’atmosfera gioiosa di poco prima.

L’uomo divenne triste, quasi nostalgico, mentre Karen era dura, sembrava fatta di sale.

 

“Allora?” Nadja, però, era decisa a non mollare.

 

Si, era lì.” la ragazzina rabbrividì. Mai aveva sentito sua zia usare un tono così freddo: pareva le avesse tagliato in due lo stomaco.

Sua madre era davvero un argomento tabù…

 

Io voglio sapere. Ne ho il diritto.

 

“Era una blader?”

 

Karen sospirò pesantemente, quasi sbuffando, e andò in cucina, sbattendo la porta; la russa fissò incredula la scena. Se questo era l’effetto che faceva una persona dopo quindici anni, doveva essere stata una figura davvero importante.

 

Nadezda.” fu qui che Nadja ebbe davvero paura. Nessuno la chiamava mai così. Mai. Se non una volta, o due, per annunciarle tragedie. Lo zio Takao aveva lo sguardo basso, non aveva il solito sorriso gioioso che lo caratterizzava. “So che sei una ragazza, che hai bisogno di una madre accanto, eccetera. Ma ti prego di non prendere più questo argomento. Fa…” qui fece un respiro profondo. “Fa male.”

 

“O-Okay.”

 

“Ti posso solo dire qualcosa. N-Non mi va di parlare di lei. Hilary era la mia migliore amica. Non era una blader, ma era la nostra più grande supporter, negli ultimi anni era diventata una specie di psicologa durante i campionati. Era come una sorella per me, la conoscevo dall’asilo e… quando se ne andò…” qui si alzò, facendo capire che voleva chiudere il discorso. “Fece male come se fosse morta, perché il fatto che non mi disse niente, mi fece capire che in realtà, per lei non contavo niente. Ed ora scusami.”

 

 

 

 

Daphne era a bocca aperta per quanto raccontato dalla gemella: a quanto pareva sua madre era stata benvoluta da molta gente, ed aveva spezzato il cuore non solo a suo padre, ma anche a molte persone che la consideravano una sorella. C’era solo una parola che le circolava nella mente: perché?

 

“Non so che dire.”

 

“Certo che non sai che dire, siete allo scuro di tutto.” osservò Sam, sbuffando. “Questa storia è più che intricata.”

 

“Che si fa?” Nadja si morse il labbro, pensando al fatto che, per uscire di casa di era inventata un pomeriggio a casa di Amelie.

 

“Parrucchiere.” lo sguardo di Daphne non ammetteva repliche. “Si pareggiano i capelli.”

 

 

 

 

“Oh, Dio, Daphne! Hai approfittato di Parigi per dare un taglio alla parisienne?” chiocciò Trisha McDouglas, non appena si recarono al ritrovo dell’appuntamento.

 

“Ovvio.” rispose, sicura, l’interessata. “Sapessi come mi stavano annoiando quei capelli lunghi… Sono andata dal parrucchiere all’angolo. E’ un ma-go!” scandì, liquidandola.

 

Liz, dovrai controllare ancora per molto quel block notes?” Sam aveva le sopracciglia inarcate.

 

La bionda ridacchiò. “No, è che non credevo che quello che si diceva dei gemelli fosse vero… Tutte quelle abitudini alimentari assurde in comune…” sfogliò il blocchetto. “Per esempio Daph mangia sempre i salatini con la marmellata. E anche Nadja! … Oppure entrambe non mangiano carne, e mangiano tanta frutta e verdura, anche se per motivi diversi.

 

“Ehi, che c’è di male se voglio una pelle candida e priva di antiestetici punti neri?”

 

“Che la tua gemella mangia le stesse cose per non mangiare animali. Motivi nobili, i suoi.”

 

“Che palle.”

 

“Entrambe mangiano la pizza con le patatine e il salmone…

 

Sam scosse la testa. “Siete proprio gemelle.”

 

“Ehi, è buonissima!”

 

Però Nadja va matta per carote, cetrioli e pomodori, mentre Daphne mangia solo insalata.”

 

La brunetta scosse la testa. “Passino i pomodori, ma i cetrioli e le carote non le mangerò mai.”

 

Liz e Sam si scambiarono uno sguardo, e fecero spallucce. “A tuo rischio e pericolo, lo sai.” le fece notare la rossa, mentre l’altra sbuffava.

 

“Come farai a imitare Nadja?” osservò Elizabeth. “Come carattere, intendo.” Daphne sospirò. “Siete così diverse… Lei è così… posata, calma… Quando c’è una difficoltà prima pensa e poi agisce. Tu invece ti fai prendere dal panico e perdi la testa, ti confondi… Siete proprio le due facce della stessa medaglia.

 

La brunetta fece spallucce. “Dovrò provarci. Devo riuscirci. Prenderò qualche camomilla, o che so io…” qui ridacchiarono. “Cercherò di imitarla, di non destare sospetti…” si prese la testa tra le mani. “La verità è che sono tesa. Nervosa. Ma… o la va o la spacca. E’ la sola occasione che ho per conoscere mio padre, non la voglio sprecare.

 

“Non preoccuparti. Ci saremo noi con Nadja. La supporteremo noi.” Sam aveva un sorriso incoraggiante e solare.

 

Daphne sospirò, sentendo una strana sensazione soffocarla. “Già… Ma chi sosterrà me?”

 

“Dolcezza…” lo squittio di Liz fece capire alla rossa che era ora dell’abbraccio di gruppo; e stretta lì, in mezzo alle sue amiche, la brunetta si sentì un pizzico più forte, più coraggiosa.

 

 

 

 

Poche volte si era trovata nei guai come in quel frangente: veramente, veramente poche. E doveva solo infilarsi un dannatissimo reggiseno di pizzo.

 

“Merda…” bofonchiò, cercando di non rompere i gancetti, e di capire da che parte andasse messo.

 

“Tutto bene, Nad?” la voce di Liz fece capolino al di là della porta del bagno.

 

“Oh. Ehm…” non sapeva proprio che dire: si sarebbe stata una bugia, e non voleva spaventarla con la verità, cioè che con la biancheria intima della gemella si trovava una cacca.

 

“Ho capito, arrivo.” e senza aspettare ulteriormente, la bionda s’infilò nella toilette con lei, che, per la sorpresa, cacciò un piccolo urletto. “Ehi, tranquilla, siamo tutte ragazze.” fece, spiccia. “Ma sei ancora al reggiseno?”

 

“Ehm…”

 

“Dai, ti aiuto. Mettilo così, e ti aiuto con i ganci…. Vuoi che lo allacci dove?”

 

“Al secondo gancio.” rispose prontamente l’interessata. “Ehi, ma è imbottito!” esclamò stupita. “E… Prude!” Liz prese a ridere dell’espressione stupita della ragazza. “Cose così scomode dovrebbero bandirle…” brontolò, contrariata.

 

“E’ la biancheria di cotone che dovrebbero bandire!” intervenne Daphne dalla toilette adiacente. “Reggiseno bianco, mutande a vita alta… Che palle, sei una casalinga disperata!”

 

Ci fu una risata generale, ma Nadja arrossì. “Il cotone è comodo. Poi non mi deve mica vedere nessuno.”

 

“E’ questo il danno!” esclamò la gemella, e ci furono nuove risate. “Dai, io sono pronta.”

 

“Noi siamo ancora al reggiseno.” fece Liz. “Dai, il maglioncino, i collant e la minigonna.”

 

Nadja fissò gli indumenti come si fosse trattato di un cane a tre teste. “Ma un maglione e un paio di jeans no?”

 

“Quella sei tu, non io!” fu la risposta bella e pronta.

 

Quando venti minuti dopo, tra sbuffi e imprecazioni, anche Nadja uscì dalla toilette – non prima di aver rischiato di smagliare le calze e di scucire la minigonna – Sam sospirò.

 

“Bene, è ora.”

 

“Direi di si.” fece allegramente Daphne. “Ripassiamo. Adesso prendo l’autobus 32 e alla terza fermata scendo per poi proseguire dritto e fermarmi alla villa azzurra. Villa Kinomiya.”

 

Nadja annuì. “Perfetto. Meno male che ho voi, ragazze.”

 

“Sei in buone mani.” assicurò Sam. “Oh, avete ancora le vostre borse!” Daphne diede alla gemella la sua elegante borsa nera con tanto di fiocco per vedersi consegnare un pratico zaino sportivo.

 

“Okay, ci teniamo aggiornate.” fece l’inglesina. “Voi partite domani pomeriggio, vero? Mio Dio… Non ci rivedremo per…” le mancò la voce, e le vennero le lacrime agli occhi. “Arrivederci, ragazze.” Si strinsero tutte in un abbraccio, che tanto aveva di ringraziamento.

 

“Va beh, andiamo, dai.” fece sbrigativamente Samantha, che non sopportava i saluti. “Tanto sarà per qualche tempo.”

 

Daphne sorrise: conosceva l’amica, e il suo temperamento. Stava già facendo tantissimo per lei. “Ovvio.”

 

Uscirono da quel bar, recandosi in due direzioni diverse, opposte, tutte con la stessa ansia dentro, ma tutte con la consapevolezza che si sarebbero aiutate, e che comunque sarebbe andata, sarebbe andata bene.

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

Okay, ed eccoci qui. Direi che non è stato proprio un capitolo inutile: le gemelle si sono scambiate, abbiamo avuto qualche informazione in più circa la loro vita, e c’è uno strano comportamento se solo si nomina l’innominabile… Hilary.

 

*parte la nona di Beethoven*

 

Il mistero si infittisce.

 

 

Occhio, guys. Dal prossimo capitolo la roba si fa più pepata, vecchi personaggi tornano alla carica, e il mistero, tanto per cambiare (xD) si intricherà ancora di più.

 

Ci sarete?

 

Io spero di si.

 

Un bacione e un abbraccio a ciascuno di voi.

 

Love u all!

 

Hiromi

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Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

“Allora, ripassiamo. Adesso prendo l’autobus 32 e alla terza fermata scendo per poi proseguire dritto e fermarmi alla villa azzurra. Villa Kinomiya.”

 

 

 

Secondo le indicazioni di Nadja, l’abitazione dei suoi zii avrebbe dovuto trovarsi proprio da quelle parti, e non vederla era fuori questione, visto che era una villa azzurra con tanto di fontana e iscrizione.

Avrebbe dovuto essere proprio cieca.

 

Okay, e ora?

 

Daphne sospirò, tentando di calmarsi e di non perdere la testa, in un comportamento proprio da Nadja: probabilmente era il caso di iniziare a comportarsi un po’ come la sua sorellina…

Ma dinnanzi a lei si trovavano solo casette anonime, quando avrebbe dovuto sorgere imponente una dannatissima villona di ricconi, e lei era stata bene attenta a seguire le indicazioni della gemella per filo e per segno…!

 

“Oh, mademoiselle, buongiorno.” la salutò in stretto francese un signore dall’aria cordiale che, a giudicare da come la guardava, doveva proprio conoscerla.

 

Bu-Buongiorno.” biascicò lei, cercando di sorridere. Dovrei farmela indicare? Non sarà strano?

 

“Si sente bene, mademoiselle?”

 

 “Oh, è solo un po’ di stanchezza.” minimizzò con aria noncurante. “Stavo proprio andando a casa.”

 

L’uomo la guardò con aria sorpresa. “Ma allora mi sa proprio che dovrà invertire rotta…” fece, indicandole un punto alle sue spalle.

 

E fu voltandosi che Daphne vide una villa azzurra assolutamente deliziosa e di buon gusto che le fece venir voglia di fare shopping. “Oh, grazie, monsieur.” lo liquidò, dirigendosi verso l’abitazione.

 

La villa azzurra era proprio villa Kinomiya, con il suo piccolo giardino curatissimo e la fontanella da cui zampillava elegantemente dell’acqua. Non era una costruzione imponente, era una di quelle villette graziose ma di buon gusto in puro stile francese che le piacevano tanto.

A malapena  si ricordò di suonare, sarebbe rimasta a fissare il tutto per ore.  

 

Una volta entrata si ricordò a fatica di darsi un contegno, e di non avere non l’espressione di una persona che vedeva tutto quello per la prima volta.

 

Dentro, l’abitazione era anche meglio: arredata secondo il moderno gusto francese, i mobili si sposavano in maniera deliziosa con la moquette e la carta da parati.

C’era da rimanere a bocca aperta.

 

Nadja, sei tu?”

 

Le ci volle qualche secondo per realizzare che la frase, in effetti, era rivolta a lei. “Si… Si, zia!” Che me la mandino buona!

 

Salì le scale fino ad imbattersi nella donna del centro commerciale che, giustamente l’aveva scambiata per la gemella e che, ora, le stava sorridendo.

 

“Ehi, ti sei divertita con la tua amica?”

 

Si, ci siamo allenate a bey tutto il tempo, poi siamo andate al bar a prendere una cioccolata: Amelie vive in una casa vicino il Louvre, lì ci sono tanti campi di bey e-” Oh, merda. Zitta! “E… E si, insomma, ci siamo allenate molto.”

 

La zia la fissava curiosa. “Chiacchierona, oggi.”

 

Dannazione a me! “Eh…”

 

“Chi è che è chiacchierona?” l’uomo del centro commerciale fece il suo ingresso in cucina, annusando l’aria come un cane.

 

Nadja.” rise Karen. “Non la sentivo parlare così da tempo.”

 

“Capisco, ma è meglio che inizi a diventare più come noi e meno come quell’orso di suo padre.” qui entrambi risero e Daphne si affrettò a cercare di ridacchiare. “Credimi, crescere con lui ha i suoi lati negativi, secondo me. Anzi, tu sei venuta su così bene!” e le fece l’occhiolino; da lì la ragazzina comprese che suo zio stava scherzando.

 

Ci si mise pure la donna, che ridacchiò. “Da quando lo conosco, non ho mai visto mio fratello in atteggiamento che non fosse… orsigno!” e scoppiò a ridere, seguita dal marito.

 

Kai è fatto così.” l’uomo scrollò le spalle. “Un gran burbero, tanto rompipalle, ma non ammetterebbe mai di avere un cuore. E soprattutto che il centro della sua vita è una ragazzina di quindici anni cagati.” le fece l’occhiolino. “Senza offesa.”

 

“Ha parlato il vecchio saggio della montagna.” rispose Daphne, fingendosi offesa; Karen rise, schiacciando il cinque alla nipote, Takao fece un finto gesto di sconfitta.

 

“Okay, che c’è per pranzo?” chiese, riprendendo ad annusare l’aria in stile canino. “Ho fameeee…”

 

Takao!”

 

 

 

 

Liz e Sam si affrettarono ad inseguire Nadja nella loro stanza d’albergo, laddove la ragazza si stava dirigendo a tutta velocità.

 

Rossa in viso, contrita, era passata qualche ora dallo scambio di identità, e c’era già stato qualche piccolo intoppo.

 

Leggero, diceva Liz.

 

Assolutamente imperdonabile, sosteneva Nadja.

 

Non irrimediabile, diceva Sam. Si era intervenute in tempo.

 

Semplicemente, delle compagne di classe delle ragazze – Miranda McDugall e Mandy Stevenson – si erano avvicinate a quella che credevano fosse Daphne per parlare un po’ degli ultimi acquisti di Dior e Gucci, e Nadja, che di questo ne sapeva quanto un bambino di due anni di fisica nucleare, si era limitata ad annuire e a sorridere, rigida.

Almeno fino a quando non le avevano posto delle domande a raffica sui suoi ultimi acquisti e sulla sua opinione dell’ultima sfilata primavera estate di Prada.

Nadja aveva preso a boccheggiare, ed erano intervenute prontamente Liz e Sam che, liquidate con una scusa le due, l’avevano portata via, fingendo di avere un urgente bisogno di lei.

 

Evidentemente, la gemella della loro amica si prendeva molto sul serio, al contrario di Daphne, che scherzava sempre e minimizzava sempre ogni cosa.

Probabilmente la moscovita era una di quelle precisine che, quando prendevano un impegno, volevano portarlo a termine nel migliore dei modi, e, dato che non aveva proprio impersonato Daphne in maniera eccezionale, si sentiva in colpa.

 

“Ehi, tutto bene?” Samantha spalancò la porta della stanza con un gesto deciso: Nadja era lì, in apparenza calma e posata come sempre, ma quegli occhi viola così simili a quelli di Daphne tradivano un’inquietudine non normale.

 

“Ci siamo attardate perché lì per prendere il dolce c’era la fila…” iniziò Liz. “Ecco perché ti abbiamo lasciato in balia di quelle due.”

 

La brunetta sospirò. “Non potete esattamente essere le mie ombre. Dovrò pur imparare a cavarmela da sola.” poi sbuffò. “Essere un’altra persona è così… difficile. Come dite voi inglesi mettersi nei panni di un’altra persona? To be in someone’s shoes? Essere nelle scarpe di qualcuno?” si guardò i piedi, laddove stavano le Manolo Blahnik di Daphne, e sbuffò. “Beh, io ci sono davvero.”

 

Sam aguzzò gli occhi verdi, e le andò vicino. “Ehi, tutto bene, davvero. Chiunque sarebbe nel pallone. E’ una situazione difficile, sei in bilico… Ma hai noi per riuscire a mantenere un minimo di equilibrio.” le sorrise. “Essere Daphne per te che sei così diversa da lei sarà… arduo? Ce la farai. Ne sono certa.”

 

Nadja si sentì già più rincuorata da quelle parole, e trovò la forza di sorriderle. “Solo una cosa, visto che dovrò calarmi nel personaggio…”

 

“Dicci pure.” Liz era seduta proprio di fronte a lei, aveva appena preso Vogue.

 

“Mi fareste un corso accelerato di moda?”

 

 

 

 

Voglio avere anch’io una casa così, tra dieci anni!

 

Daphne era su di giri: villa Kinomiya l’aveva conquistata, con la sua semplicità ma allo stesso tempo raffinatezza e buon gusto. Lo stile francese era così diverso da quello inglese…

 

Che bello, che bello, che-

 

Fu una foto sul camino ad attirare la sua attenzione. Era relegata in una cornice d’argento, di quelle che si regalano alle nozze, ma la foto non ritraeva – o almeno non le sembrava – un evento memorabile.

Raffigurava Karen e Takao, più giovani, probabilmente sui vent’anni, abbracciati. Takao le stava baciando la guancia mentre Karen strizzava l’occhio, ridendo.

Accanto a loro stavano Max e Maryam, e poi altre coppie che non conosceva, e che, dalla descrizione accurata di Nadja, avrebbero dovuto essere Mao e Rei, i migliori amici dei suoi genitori, e Yuri e la ragazza di quel tempo.

Ma la cosa che catturò la sua attenzione fu suo padre, messo quasi all’angolo della foto, con in braccio… lei. O Nadja, non lo sapeva. Kai aveva un sorriso sincero, sereno.

 

Prendendo in mano la foto, giurò di sentire il suo cuore aumentare i battiti, perché si accorse di un altro particolare: era irregolare, laddove stava suo padre. Era stata tagliata. Figurava il braccio di una donna, una borsa.

 

Mamma…

 

Con le mani che tremavano, Daphne mise via quel portafoto prima che le cadesse dalle mani. Si sentiva male, le mani le tremavano, era diventata rossa dalla rabbia.

Non sapeva cosa aveva fatto sua madre, né perché era andata via, ma essere tagliata via dalle foto come se si fosse trattato di una qualunque-

 

Nadja? Tesoro, ti senti bene?” la voce di sua zia, appena tornata dal lavoro la ricondusse alla realtà. “Sei tutta rossa, tremi…”

 

“No, io non sto bene!” sputò fuori la ragazza, incurante di ogni cosa. “Non sto bene perché una guarda le foto aspettandosi che parlino del passato dei suoi zii, di suo padre… E invece si accorge che sua madre è stata tagliata via, con una forbice, come se fosse un insetto!” Karen la guardò sconvolta.

Puff, via le mosche dal parabrezza di una ferrari, no? Via, ci danno fastidio!” lacrime incominciarono a far capolino dagli occhi della quindicenne, che se le scansò brutalmente.

“Non sapete niente, niente diamine! Non sapete perché se ne sia andata, non sapete cosa le frullava in testa, non sapete una dannata, fottutissima mazza!” la bionda signora qui era sconvolta.

“Avete mai pensato di cercarla? No. Di aiutarla? No. Quindi fottetevi, fottetevi tutti quanti!” e fatta la sua sfuriata si andò a rifugiare nella stanza degli ospiti, cioè la sua, sbattendo pure la porta.

 

Karen Hiwatari in Kinomiya restò ad occhi spalancati per oltre cinque minuti, e fu così che la trovò il marito, rientrando dal lavoro, quando si chiuse la porta alle spalle. Vedendo la moglie fissare il vuoto le si portò subito accanto, prendendola per gli avambracci.

 

“Karen?” La donna rabbrividì, impallidendo ed abbracciandolo. “Che succede?”

 

“Succede che ho appena subito una… Una violenta sfuriata da parte di Nadja.”

 

Takao spalancò gli occhi. “Da parte di chi?”

 

“E dovevi sentire come urlava!” la donna era sconvolta, aveva le lacrime agli occhi. “Ha visto quella foto lì, si è accorta che ho tagliato via sua madre, ed è diventata una pazza! Urlava, era tutta rossa…” Karen si morse le labbra e sospirò. “Ma Takao, ha detto anche delle cose vere… Mi hanno fatto male…” tirando su con il naso, due lacrime le rotolarono giù dalle guancie, e si sedette sul divano, tentando di calmarsi.

 

Il marito le si sedette accanto, porgendole un fazzoletto e cingendole le spalle con un braccio. “Cioè? Cos’è che ti ha detto?”

 

“Noi… Noi non sappiamo cosa frullava nella testa di…” si morse le labbra, abbassando la testa; il nome di quella che era stata una delle amiche più care non era mai stato pronunciato da lei negli ultimi anni. “Non riesco nemmeno a dirlo, vedi? E’ diventata l’innominabile! Fa male, fa troppo male! Nadja mi ha accusato di non averla neanche aiutata, di non averla cercata…” qui singhiozzò, coprendosi gli occhi con le mani. “E il brutto è che ha ragione. Implicitamente mi ha sbattuto in faccia come fossi brava solo a giudicare.

 

Takao sembrò distaccarsi dal proprio corpo: da un lato stava abbracciando la moglie, nel tentativo di consolarla, dall’altro stava galleggiando.

Perché ogni volta che si prendeva in causa la sua ex migliore amica si sentiva così: come un’entità galleggiante, incompleta.

 

Hilary c’era sempre stata nella sua vita; l’aveva conosciuta all’asilo, erano stati compagni di scuola, di vita; ed erano stati migliori amici, fratelli.

 

Lui c’era stato a difenderla contro i bulli che la prendevano in giro, c’era stato a consigliarla riguardo i ragazzi da frequentare, c’era stato per prenderla in giro quando Rick Jones – il figo della scuola – le aveva mandato una lettera d’amore, c’era stato quando aveva pianto per Rick Jones quando l’aveva mollata, e c’era stato a spezzare le gambe a Rick Jones.

C’era stato per il ballo della scuola, quando avevano deciso di andarci insieme, ed avevano passato la migliore serata di tutte, facendo a gara di cocktail e ubriacandosi, c’era stato per sbatterle in faccia che Kai era innamorato di lei da tempo, c’era stato a guardarla mettersi insieme a lui, andare a convivere, e c’era stato quando lei gli aveva telefonato, tutta felice, annunciandogli di essere incinta.

 

Anche lei c’era stata.

C’era stata per rompere le palle, con il suo ostinato essere perfettina, che lui non sopportava, c’era stata per fargli fare i compiti a casa sua, offrendogli sempre i biscotti al malto preparati da sua madre, c’era stata per consigliarlo in materia di ragazze, c’era stata per consigliarlo con il beyblade e c’era stata ad ogni campionato, spronandolo ed applaudendolo in prima fila.

C’era stata per farlo ridere e per farlo smettere di soffrire, e c’era stata per mettere in piedi quella sceneggiata delle auto da Yuma a San Diego, senza la quale non avrebbe mai capito di essere stracotto della sua mogliettina.

 

Tradito.

Takao si era sentito tradito quando aveva scoperto della sua fuga. Non si sapeva dov’era andata né come mai. Si sapeva solo che dopo una violenta litigata con Kai aveva preso Daphne ed era saltata su un taxi, portando con sé solo la bambina e nient’altro.

 

Perché non l’aveva chiamato? Diciotto anni di amicizia allora non contavano nulla? Ogni volta che ci pensava si sentiva invadere dalla rabbia, ecco perché tra lui e Karen c’era il patto non detto di non nominare Hilary.

 

Anche Karen ci era rimasta male: era vero che aveva conosciuto Hilary per poco meno di quattro anni, ma si era affezionata terribilmente a lei.

L’aveva vista come una sorella maggiore, e quando Hilary si fidanzò con Kai, presero a chiamarsi scherzosamente ‘cognatina , ad andare a fare shopping insieme, al cinema, e il Venerdì sera anche al pub.

Quando Hilary rimase incinta, Karen andò in visibilio: l’idea di divenire zia la fece impazzire di gioia.

Inutile dire che quando la cognatina se ne andò, a Karen andò in frantumi l’idea di Hilary, e quella della coppia perfetta costituita da lei e Kai.

 

Takao… E se avesse ragione?” le parole della moglie lo riportarono alla realtà.

 

L’uomo fissò negli occhi la donna, e le sorrise, baciandole le labbra. “C’era ben poco da giudicare, Kary. Lei aveva tutto, e l’ha gettato via. Aveva un uomo che l’amava pazzamente, che nella sua vita aveva amato solo lei, e non ha esitato a fargli il cuore a brandelli; aveva due bellissime bambine, eppure ne ha portata solo una con sé, abbandonando l’altra. A noi nemmeno una parola, una lettera, una cartolina, un biglietto. Una dannata chiamata.” un sospiro gli uscì spontaneamente dalle labbra.

 

La donna si prese la testa tra le mani. “Probabilmente cosa stesse pensando e perché lo ha fatto non lo sapremo mai.”

 

“Già.”

 

“Le volevo bene… Le volevo bene davvero, era come mia sorella.”

 

“Lo stesso per me.” confermò l’uomo, un groppo alla gola. “Come mai Nadja ti ha sbattuto in faccia tutto questo? Nel senso, in questi giorni ci domanda troppo spesso di sua madre.

 

“Già, lo pensavo anche io… Non è che dovremmo parlarne con Kai? In fondo è una ragazza, sta attraversando l’adolescenza, ha bisogno di una madre accanto…

 

Takao sospirò. “Io credo che abbia bisogno di sua madre accanto, non di una qualunque. Il che è un problema.”

 

 

 

 

Il volo Parigi- Londra era andato benissimo: nessun intoppo, nessuna complicazione, niente a disturbare la quiete e a far saltare i nervi di Nadja, che per tutto il tragitto aveva letto, fino a quasi consumarli, Cosmopolitan, Vogue, Elle e Harper's bazaar. Il risultato era stato un enorme mal di testa e le migliori marche della moda che le giravano vorticosamente in testa.

 

“Ti verrà a prendere lo zio di Daphne: Max, ricordi?” le sussurrò Liz, non appena presero le valigie.

 

Nadja annuì: il giorno prima sua madre aveva chiamato dicendole che un’udienza in tribunale era stata spostata al giorno dopo proprio quando lei sarebbe atterrata e che avrebbe mandato lui a prenderla. “Si. Uomo alto, capelli biondi, americano, sposato con Maryam. Hanno una bambina, Daisy, e un figlio in arrivo. Per me sono come zii e li chiamo come tali.” ripeté meccanicamente.

 

“Brava.” approvò Sam. “Dai che andrà bene.”

 

Nadja non ne era tanto convinta, ma ormai si dovevano dirigere verso il grosso cartello con la scritta inquietante arrivi, e a lei non restava altro che incrociare le dita.

Una volta superata la porta, con sua enorme sorpresa venne stretta in un abbraccio da parte di entrambe le ragazze, e si irrigidì: non era abituata ad essere abbracciata, se non da zia Mao; in Russia non erano molto calorosi, invece-

 

“Abbracciaci.” le sussurrò Liz. “O penseranno che abbiamo litigato.”

 

Era per l’intera sceneggiata, lo doveva capire.

Con gesto incerto, pose le braccia su quelle delle amiche della gemella, fino a quando, secondi dopo, l’abbraccio non si sciolse.

 

“Ci sentiamo, ragazze.” fece Sam. “Anche via sms, a tutte le ore.” e qui si rivolse a lei.

 

“Oh, certo.” Nadja si trovava ad essere un po’ rintronata.

 

Liz la abbracciò di nuovo, e la brunetta prese ad appuntarsi mentalmente di smetterla di irrigidirsi ogni volta. “Tuo zio è il biondo con la giacca blu. Non puoi sbagliare, i suoi capelli sono chiarissimi.” le sussurrò.

 

“Oh, grazie.” balbettò l’altra; Liz le sorrise e si allontanò, andando verso la sua famiglia. Nadja sospirò, decidendo di buttarsi verso un destino che le si prospettava pressoché ignoto.

 

In effetti di biondi ce ne erano parecchi: gli inglesi erano biondi, rossi, ma anche bruni, e se l’amica di sua sorella non le avesse detto che il suo presunto zio spiccava, di certo avrebbe preso lucciole per lanterne.

 

Infatti c’era un uomo che spiccava, e precisamente per i capelli: li aveva color del grano, biondissimi. Sui trentacinque anni, il suo sorriso le ricordava quello dello zio Takao, e si, stava guardando lei.

 

“Zio Max?”

 

L’uomo rise. “O Parigi ti ha annebbiato la testa, o devi essere stanchissima, Daph.”

 

E’ lui.

 

“Sono stanca, lì non facevamo altro che camminare, ho dormito veramente poco, - meno di cinque ore a notte, sai? – e il viaggio in aereo è stato tranquillo, ma i sedili erano dannatamente scomodi per farsi una dormita.” proclamò Nadja in una perfetta imitazione del modo di parlare della gemella.

 

Il biondo ridacchiò, prendendo le valigie con una mano e cingendo le spalle della nipote con l’altra. “Immagino. Vieni, dai, la macchina è da questa parte.

 

 

 

 

Okay, non sono passate nemmeno ventiquattro ore e tu ti sei già fatta quasi sgamare. Bravissima, Daphne. Complimenti.

 

La ragazza soffocò un grugnito nel cuscino, poi sospirò.

Era chiusa nella stanza degli ospiti da più di tre ore, e ormai si era calmata, tanto quanto bastava, almeno per farle comprendere che la sua sfuriata era stata legittima, ma assolutamente non da Nadja.

 

Accidenti a me e alla mia testa calda!

 

Fu un leggero bussare a farla saltare in aria. “Ehm… Si?”

 

Karen Kinomiya fece capolino dalla porta. “Posso? Vengo in pace.” fece allegramente, ma con un sorriso tirato.

 

Daphne arrossì, in un atteggiamento molto alla Nadja. “Si, certo.”

 

Sua zia teneva in mano un vassoio con due tazze di cioccolata, che poggiò sul comodino. “Tutto bene?”

 

Okay, ora Nadja cosa farebbe? “Si…” disse, con un filo di voce. “Zia, io-”

 

Ma la donna la interruppe con un gesto della mano. “So bene quanto dev’essere difficile per te crescere senza una madre.” s’interruppe, sorridendo, triste. “La mia morì quand’ero piccola: tu ne porti il nome… lo sai, vero?”

 

Ah, si? “Certo.”

 

“E ne hai anche gli occhi.” riprese, accarezzandole il viso.

 

“Beh, se è per questo anche tu e papà.” osservò. “Possiamo dire che sono il marchio Hiwatari.”

 

Karen ridacchiò. “Beh, si. Diciamo che è il nuovo marchio Hiwatari della new generation.” tornò seria. “Mi hanno sempre detto che, con questi capelli biondi e gli occhi viola assomigliavo parecchio a mia madre, e che, per non fare impazzire di dolore mio padre, fui mandata via, qui, in Francia, cresciuta in un collegio. Fu dura crescere da orfana.”

 

Daphne si incupì. “Venisti trascinata dalla Russia alla Francia come un pacco postale?”

 

La donna annuì. “E solo all’età di due anni, per di più.” sospirò. “Mio padre morì comunque mesi dopo, e il solo legame che mi rimase con la mia famiglia fu mio fratello. Non persi mai la speranza di ritrovarlo.”

 

La ragazzina era interessatissima. “Come facesti?”

 

“Crebbi come una ragazza ribelle, imparai il beyblade di nascosto… Il collegio dove vivevo era delle suore… Eppure a sedici anni, non potendone più, architettai un piano talmente intricato che non ti sto a dire, ma ebbi modo di mettere tutto il mio conto in una carta di credito, di prenotare un volo di sola andata per Tokyo e di scappare.”

 

“Tokyo?” Daphne aveva le sopracciglia inarcate.

 

Karen annuì. “Sapevo chi era mio fratello, lo seguivo tramite giornali e tv, sapevo dove abitava… E in quegli anni si trovava in Giappone… Non fu semplice sapere il suo indirizzo… Capitai come un fulmine a ciel sereno nella sede della BBA, mi presentai come Karen Hiwatari, dovetti mostrare la carta d’identità… Ma quando vidi tuo padre fu come trovare le mie radici.”

 

Daphne sorrise. “Wow… Ma che c’entra con me?”

 

La donna ridacchiò. “Era per dirti che capisco come ti senti. Crescere senza una madre è dura. Io sono addirittura cresciuta da orfana… E, beh, se tu hai qualche domanda su Hilary… Noi ti risponderemo.

 

Daphne annuì. “Va bene.”

 

“Pace?” la ragazzina annuì, per poi venire stretta dall’abbraccio della zia.

 

 

 

 

Casa Tachibana e casa Mizuhara erano attigue nel vero senso della parola. Erano di quelle case inglesi, le tipiche Semi Detached House, che avevano un muro in comune ed erano appoggiate l’una all’altra.

“Mamma fino a quando sarà via?” chiese Nadja, mentre l’uomo prendeva le valigie dal portabagagli.

 

“Non saprei, questa è una di quelle udienze che possono finire da un momento all’altro come possono terminare stasera.”

 

“Capito.” rispose allegramente; in realtà si sentiva su di giri e anche parecchio strana.

Per tutto il tragitto non aveva fatto altro che parlare, parlare e parlare, cercando di trovare punti di conversazione, argomenti di cui cianciare… Possibile che la sua gemella non facesse altro che aprire la bocca?

 

“Adesso però ci sono la zia e Daisy che non vedono l’ora di rivederti.”

 

“Andiamo!” rispose allegramente fingendo una contentezza che non aveva; in realtà avrebbe solo voluto una pillola per il mal di testa e possibilmente mettersi a dormire.

Era già nervosa per il fatto che da un momento all’altro avrebbe dovuto conoscere sua madre, e non sapeva come diamine comportarsi.

 

“Ehi, siamo a casa!” esclamò l’uomo, poggiando le valigie nella hall dell’abitazione che aveva un che di orientaleggiante. Non appena lo disse, un grosso cagnone, un labrador bianco, si lanciò verso Nadja alla velocità della luce, abbaiandole contro a tutta forza. “Gold! Ehi, Gold!” Max era accigliato. “E’ Daphne, non lo vedi che è Daphne?”

 

Nadja si fece avanti ad accarezzare il cane che, fortunatamente, dopo il primo secondo di diffidenza sembrò accettarla.

Evidentemente a lui non l’aveva data a bere.

 

Daphy, Daphy, Daphy!” uno scricciolo di bambina corse verso di lei alla velocità della luce, abbracciandole le gambe: stando bene attenta a non irrigidirsi, Nadja si chinò, baciandole le guancie, come la gemella le aveva detto di fare.

La bimba, che altri non era che la figlia dei suoi zii, aveva quattro anni, i capelli chiari del papà e degli occhi verde smeraldo incredibili.

 

“Ciao Daisy!” quando la bimba le si buttò addossò, facendola cadere sulla moquette, Nadja rise, di fronte a tutto quell’affetto: in fondo la sua gemella anche se non era cresciuta con un papà, era cresciuta con tanto amore intorno… Era una ragazza fortunata.

 

“Ehi, bentornata.” quando alzò lo sguardo, immediatamente capì da chi la bambina avesse preso quegli smeraldi di occhi: dinnanzi a lei stava una delle donne più belle che avesse mai visto.

Alta, slanciata, con una grazia e un portamento da fare invidia a chiunque nel mondo, con dei capelli scuri che parevano fatti di seta… Il pancione pareva solo addolcire la sua figura già armoniosa. Era quella che Daphne chiamava zia Maryam.

 

“Grazie. Come stai, zia?”

 

La donna si sedette sul divano, accennando un sorriso. “Bene. Mancano due mesetti, ma Jason si fa sentire eccome.”

 

Nadja sorrise. “Ah, vi ho preso delle cosette a Parigi.” Daphne me le ha etichettate, fortunatamente. “Dovrebbero essere qui…Ecco qui, per voi, spero vi piacciano.”

 

La piccola Daisy scartò in fretta e furia il suo regalo e il suo visetto parve risplendere quando scoprì di cosa si trattava. “Mamma, papà, guardate! Barbie gran galà!”

 

Più contento di lei era forse Max. “Santo cielo, Daphne, dove hai trovato il pezzo di ricambio per il mio beyblade?”

 

Ehm… “Eh, sono una maga, io!”

 

Maryam era ancora impegnata a scartare il suo pacchetto, il più grosso dei tre, ma quando ci riuscì fece un sorriso enorme. “Oddio… Quattro cappellini francesi?”

 

“Mamma, qui c’è una D, è per me… Vedi? Mi sta!”

 

“Questo con la M sarebbe per me?” Max era incerto. “Nah, è da donna e poi è piccolo; è tuo, amore.” fece, calcandoglielo in testa.

 

Maryam roteò gli occhi, poi si rivolse nuovamente alla nipote. “E questo con la J?”

 

“E’ piccolino!” fece eco Daisy.

 

“E’ per il piccolo Jason tra qualche mese, no? Così tutta la famiglia vestirà en francé.” poi si schiaffò una mano sulla fronte. “Ah, ma certo: ho una cosa anche per Gold. Tieni bello, niente di che, un osso francese da sgranocchiare, ma spero ti piaccia lo stesso.” tutti ridacchiarono.

 

“Grazie mille, ci hai portato dei pensieri bellissimi.” proferì Maryam, sorridendo.

 

Max era accigliato. “Mi stupisce il comportamento di Gold, prima… Ha abbaiato a Daphne senza averla riconosciuta… Non vorrei che la vecchiaia stesse sopraggiungendo o altro…”

 

Maryam si incupì. “Ma se ha solo quattro anni.”

 

Nadja si morse le labbra. “Forse non mi vedeva da una settimana e il suo abbaiare era un modo per dirmi… Ehi, bentornata, splendore!” la frase riuscì a far sorridere gli zii. “Non è niente, state tranquilli. Gold è okay.”

 

Quando si accorse che guardavano in un punto al di là delle sue spalle, fece per voltarsi, ma due sottili mano le oscurarono la vista. “Chi sono?” la voce era femminile, di donna, e tradiva una certa emozione.

Nadja sentì il suo cuore prendere a battere fortissimo, e quando si girò, vide il suo ritratto in versione adulta sorriderle e abbracciarla stretta. “Oh, tesoro, col cavolo che partirai ancora per queste dannate gite: mi sei mancata così tanto!”

 

“Lo dici tutti gli anni, Hilary.” ridacchiò Max, grattandosi la nuca.

 

“Mamma…” era come nella foto, anzi, era più bella: Hilary Tachibana le assomigliava tantissimo, era il suo ritratto, con la differenza che aveva dei dolcissimi occhi castani che la fissavano amorevolmente.

 

“Ora recupereremo il tempo perduto, mi devi raccontare tutto.” scandì la donna, sorridendo.

 

Già, il tempo perduto… Riusciremo a recuperarlo?

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

Direi che questo capitolo è stato importante: voi no?

Oh, insomma. Sappiamo cos’è che pensano tutti di Hilary, e perché facciano muso duro al solo suo nome pronunciato.

Poi ecco qui un paio di personaggi che sbucano fuori, ma non sono che una parte, guys

Il bello deve ancora arrivare.

Soprattutto perché nel prossimo capitolo rivedremo Kai.

Ho detto tutto. xD

Ma ormoni a posto, ragazze, niente è come ve lo immaginate. U___U

 

O, forse, si.

 

Noi ci vediamo qui, la prossima settimana, a dare una sbirciata nel mondo di RMA.

Un bacione. ;)

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Capitolo 5
*** Quinto capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

Nadja si svegliò con un vivace mal di testa e un consistente malumore: il giorno prima non aveva fatto altro che ciarlare tutto il tempo, ridere e scherzare, forzando il suo carattere in una maniera che non avrebbe mai creduto possibile.

 

Lei non era fatta così: lei non era Daphne; non era aperta, vivace, chiacchierona… No. A lei piaceva ritagliarsi il suo attimo di silenzio, osservare le situazioni, le cose, le persone… Ascoltare. Invece per non dare nell’occhio, per non insospettire, doveva parlare, parlare, parlare.

 

Ora basta. Oggi sarà proprio questo mal di testa la mia salvezza.

 

Bensvegliata, tesoro.” Hilary fece capolino dalla porta della stanza della figlia: con un tailleur viola che le fasciava la figura slanciata, i tacchi dieci che conferivano alle sue gambe un’armoniosità maggiore di quanto già avessero e  i lunghi capelli castani lasciati liberi sulla schiena, la ragazza si ritrovò ancora una volta a pensare quanto fosse bella la donna che aveva davanti.

 

Mia madre.

 

“Buongiorno.” sorrise Nadja, accettando il bacio che la donna le diede.

 

“Come ti vestirai oggi?”

 

Bella domanda. “Non lo so… Potresti… Consigliarmi tu.”

 

Hilary si voltò verso di lei con le sopracciglia inarcate. “Ma se è da quando hai l’età di Daisy che ti vuoi vestire secondo il tuo gusto.”

 

La ragazza scosse la testa. “Ho mal di testa. Non voglio nemmeno sprecarmi a ragionare.

 

Non è che hai la febbre? Fa’ sentire…”

 

Nadja si scansò. “No, niente febbre.”

 

Hilary la guardò dubbiosa, poi sospirò, andando verso l’armadio e prendendole un paio di pantaloni neri a vita alta e una blusa viola firmata Marc Jacobs. “Spero ti vadano bene.” la ragazzina annuì e, visto che non accennava a cambiarsi, Hilary la guardò scioccata.

“Beh? Guarda che hai l’autobus tra poco più di mezz’ora, mica tra due ore.” fu allora che Nadja capì che madre e figlia non avevano riserve a cambiarsi l’una davanti all’altra. “Ah, volevo dirti che oggi sono a pranzo con il mio collega…” assunse un tono malizioso. “Ha detto che mi vuole parlare…”

 

La ragazza spuntò fuori dalla blusa tutta di un altro colore. “E che vuole?” fece, con un tono un po’ troppo brusco.

Quando l’altra la fissò sbattendo le ciglia, lei si accorse dell’errore. “No, intendevo dire… Potrebbe essere un appuntamento?” si accorse che aveva la gola secca, e la cosa non le piaceva per nulla.

Sua madre non poteva uscire con un altro uomo. Non poteva e basta.

 

“Non lo so… Voglio dire, non so se mi piace, so che mi lusinga con le sue attenzioni…” qui Hilary sbuffò. “Spero solo non si faccia pressante come gli altri. Diventano così noiosi, poi…” fece, roteando gli occhi ed infine lanciandole uno sguardo complice che evidentemente doveva essere ricambiato.

 

La ragazza si ricordò solo allora di quello che le aveva detto Daphne: Hilary era una donna molto corteggiata, ma che non concedeva più di qualche appuntamento.

“Ehm si. Fammi sapere.”

 

Lei inarcò le sopracciglia. “Mettici più entusiasmo, eh.” sembrava quasi offesa: incrociò le braccia al petto, e un’espressione corrucciata si fece largo sul suo viso.

 

“Scusa, sono di cattivo umore, e ho mal di testa.” borbottò. “Comunque io vado.”

 

La donna si accigliò palesemente. “Ma se non ti sei nemmeno truccata! …E hai i capelli scombinati! Non hai nemmeno fatto colazione…”

 

Complimenti: missione non farle venire dei sospetti completamente riuscita, eh?

 

“Ah… Adesso mi pettino. Riguardo le altre cose… Ci penso a scuola.”

Mi sa che è meglio.

 

Hilary la fissò andare via con un’espressione allucinata. “Come vuoi…” esalò, con un filo di voce.

 

 

 

 

Karen era sconvolta: si, aveva insistito per portare Nadja in una boutique a fare spese, ad un giorno dalla sua partenza, e si era preparata psicologicamente a resistenze, sbuffi, lamentele passive e continui sproni da parte sua…

Non immaginava che la ragazza si sarebbe data alla pazza gioia e per ben due ore avrebbe comandato a bacchetta la commessa per provare gli abiti più belli ed eleganti.

Non era… da lei.

 

Sembra quasi un’altra persona…

 

 “Zia? Che te ne sembra?” trattenne il fiato quando la vide uscire dal camerino con addosso un vestito di chiffon nero che sembrava fatto apposta per lei. “Certo, i capelli dovrebbero essere tirati su in alto, mi ci vorrebbe una borsetta e un paio di decolleté… ma questo vestito è stupendo.”

 

La donna era allibita: aveva visto crescere quella bambina, e ora stava davanti a lei in abito da sera…

 

Come una qualsiasi quindicenne.

 

Era in quei momenti che le ricordava dolorosamente Hilary, e non poteva fare a meno di provare una stretta al cuore.

Meno male che Takao non era presente, o sarebbe perlomeno ammutolito.

 

“Sei bellissima tesoro.” fece, sforzandosi di sorridere. “Capelli, borsetta, decolleté… Come le sai tutte queste cose, tu, mh?”

 

Daphne avvampò: quando era in presenza di vestiti, o comunque di shopping si dimenticava sempre di tutto.

 Accidenti! “Amelie mi ha dato qualche dritta.” scelse di dire. “Poi quest’anno avrò il ballo del liceo e sto pensando a cosa indossare, capisci, no? Per una ragazza è importante.”

 

Karen annuì. “Cielo, quest’abito sembra ti sia stato disegnato addosso.” ammise. “Ma per il clima moscovita non è leggerino?”

 

“Non ci ho pensato.” ammise, ridacchiando nervosamente. “Lo comprerò lì.” fece, tornando di filata nel camerino.

 

Karen sorrise. “Nadja, aspetta.” sospirò, poi si rivolse alla commessa. “Potremmo vedere qualcosa da indossare sopra? Possibilmente con della pelliccia ecologica.” fece, schiacciandole l’occhiolino.

 

Oh, merda, e ora se la zia lo compra e lo fa recapitare in Russia… quando questa storia sarà finita la vera Nadja mi strozza! Questo vestito non lo metterà mai!

 

“Va bene questo?” guardando l’elegante cappotto di finta pelliccia firmato Chanel, Daphne sentì il suo stomaco strizzarsi in una morsa di piacere che solo una shopaholic come lei poteva provare.

 

Oh, beh, se non lo metterà lei, vorrà dire che mi immolerò io.

 

 

 

 

Nadja tornò a casa da scuola con un diavolo per capello: era stata una giornata stancante da morire.

 

Prima aveva ricevuto una strigliata da parte delle amiche della sua gemella per come si era comportata con Hilary, (la vera Daphne non accettava mai di farsi vestire da qualcun altro) poi si era dovuta far truccare ed agghindare da loro, dopodiché aveva passato il resto della giornata cercando di evitare la gente.

Inutilmente.

Daphne era molto popolare a scuola, attirava i ragazzi come le api al miele, e lei non poteva distruggere la sua vita sociale. Così via a risatine, battutine… Insomma, leggeri flirt.

I suoi nervi erano a pezzi.

 

Daphy!” la voce allegra di Daisy la richiamò al di là del prato: stava giocando con Gold, e aveva tutto il visetto e i vestitini sporchi di terra.

 

“Ciao.” esclamò, cercando di sorridere. “Cosa fai qui? Dove sono i tuoi genitori?”

 

“Papà è al lavoro, mamma è a casa.” fece cantilenante la bambina.

 

“Rientriamo a casa, allora? Così giochiamo io e te?”

 

“Uh, si, dai!” gli occhi della bimba erano tutti uno splendore; Nadja la prese per mano e, seguiti dal cagnone, rientrarono, laddove trovarono Maryam intenta a preparare della camomilla.

 

“Ciao Daphne.” la salutò. “Rientrata da scuo… Daisy! Sei tutta sporca di terra…”

 

Nadja le sorrise. “Zia, se vuoi ci penso io a lei, visto che tu non ti puoi piegare. Metto i suoi vestiti in lavatrice e la cambio.

 

Maryam sospirò. “Mi faresti un gran favore. Lavale pure il viso, per piacere.” Nadja annuì, dirigendosi verso la cameretta della bambina.

 

Daphy, mi metti il vestitino quello arancione?”

 

Nadja si accigliò. “Qual è?”

 

“Quello bello delle feste, Daphy…” si lagnò, riducendo gli occhi a delle pozze di smeraldo tristi tristi.

 

“Se è delle feste non dovresti metterlo.” cercò di dire la ragazza.

 

Cosa è delle feste?” intervenne Maryam, affacciandosi nella stanza.

 

“Non lo so, vuole un vestito arancione.” disse Nadja, facendo spallucce.

 

La donna la guardò interdetta. “Ma… Daphne, è il suo vestito preferito, quello estivo, che mette sempre…

 

Cavolo! “Ah…No, non fare caso a me, oggi sono interdetta.” fece, ridacchiando. “Ho un mal di testa…”

 

La zia inarcò le sopracciglia. “In genere quando hai mal di testa prendi un’aspirina e sei più energica di prima.”

 

Ecco. E’ una coalizione contro di me.

 

“Forse sto covando l’influenza. Mi sento strana.”

 

Maryam la osservò, annuendo, ma i suoi occhi parlavano chiaro: non se l’era bevuta. “Come mai in Francia hai tagliato i capelli?” Nadja interpretò il suo inarcare le sopracciglia come una sfida. “Proprio due giorni prima di partire mi hai detto che li volevi fare crescere, infatti ce li avevi belli lunghi.”

 

“Mi andava… ” balbettò. “E poi lì c’era un parrucchiere fighissimo, ha tagliato i capelli persino a Madonna e Penelope Cruz… Volevo provare.”

 

Maryam annuì, ma il suo sguardo faceva ben intendere che sebbene l’avesse lasciata andare ora, l’avrebbe tenuta d’occhio in futuro.

 

 

 

 

“Signorina Hiwatari? Siamo arrivati.” Daphne fu svegliata da una frase detta in un fluente russo dopo otto ore di volo diretto, nel jet privato che aveva scoperto di possedere.

Sbadigliò, stiracchiandosi: quelle ultime ore erano state pesanti; Karen e Takao all’aeroporto si erano quasi commossi, le avevano fatto promettere di venirli a trovare il prima possibile, e poi c’era stata la sorpresa di sentirsi chiamare dallo speaker.

 

Il diretto per la signorina Nadezda Hiwatari partirà tra un’ora dallo scalo 3.

 

Nadja non le aveva mica detto che avrebbe avuto un jet tutto per lei! Invece era così, un jet con tutte le comodità: dagli aperitivi, ai bonbon, alle riviste. Un sogno.

 

In quel momento, però, Daphne aveva altro per la testa. Era arrivata, ed era arrivato anche il momento della verità. Il momento di conoscere suo padre.

 

“Signorina, il volo è terminato, può slacciare la cintura di sicurezza.” quando l’assistente di volo alta e bionda parlò nuovamente in un russo di cui lei capì solo le parole principali, la ragazza sentì le mani cominciare improvvisamente a tremarle.

Era sempre stata una ragazza emotiva ed impulsiva, che si faceva prendere dalla foga del momento, dalle emozioni dell’istante.

 

Delle lacrime cominciarono a premerle contro gli occhi alla sola idea di chi avrebbe visto tra pochi minuti, e quasi non fu in grado nemmeno di articolare dei semplici movimenti per slacciare la cintura che la teneva ancorata al sedile.

 

Okay, o mi calmo o mando tutto a quel paese.

 

Con un sospiro profondo ricacciò indietro le lacrime e slacciò la cintura, alzandosi in piedi, su ginocchia malferme e tremolanti.

 

“Arrivederci, signorina Hiwatari.” la salutarono la hostess e il pilota, mettendosi in fila e sorridendole; lei abbozzò quello che avrebbe dovuto essere un sorriso di ricambio ma che in realtà – lo sapeva – era una smorfia.

 

Quando scese dal jet, tutta imbacuccata nel suo cappottone e nel suo cappello viola, il vento gelido della Russia le frustò le guancie, facendole chiudere gli occhi.

 

E meno male che è una bella giornata. Ci sono solo meno cinque!

 

Scese gli scalini attenta a non cadere, mordendosi le labbra, e guardandosi intorno solo quando fu a contatto con la terraferma.

 

 

Poi lo vide, e il suo cuore esplose.

Stava in piedi davanti la limousine, la guardava sorridendo, e aveva degli occhi viola proprio come i suoi.

 

Papà…

 

La testa calda di Daphne ebbe il sopravvento: gli corse incontro fino a saltargli in braccio, e quasi non si accorse delle lacrime che le rigavano le guancie.

 

Nadja!” la voce di lui, stupita, la riportò alla realtà: a Kai non piaceva essere trattato con calore, e poi lui pensava che lei fosse la sua gemella, la sua figlia riservata e timida.

 

“Papà, mi sei mancato.” sussurrò con sincerità.

 

L’uomo la guardò sbattendo gli occhi, probabilmente chiedendosi cosa vi fosse dietro questo atteggiamento così poco da Nadja. “Come mai parli in inglese?”

 

Daphne sbatté gli occhi, scagliata improvvisamente con forza nella dura realtà dei fatti.

 

Perché non conosco il russo. O meglio, lo conosco poco e il mio accento resta inglese.

 

 “Oh, ehm… perché la settimana prossima ho un compito e voglio esercitarmi, in questi giorni passati dagli zii di certo non mi sono portata libri. Tu parli bene l’inglese, no?”

 

Kai annuì, ma non aggiunse altro, entrando in macchina seguito dalla ragazza.

 

Avrei tante cose da dirti, papà… E invece devo stare zitta. Dannazione al tuo carattere schivo, Nad!

 

 

 

 

Era incredibile la quantità di tempo che solitamente Daphne passava in casa Mizuhara: generalmente Hilary era in tribunale o allo studio, quindi per non restare da sola la ragazza, anche visto che le case erano praticamente attigue, trascorreva il pomeriggio in casa degli zii.

 

In quel frangente Nadja stava constatando quanto gli esercizi della scuola inglese fossero più semplici rispetto a quelli della sua, di scuola: infatti li aveva svolti con una semplicità estrema, non trovandovi nulla di difficile, e memorizzando le lezioni per il giorno successivo in un batter d’occhio. Chi lo sapeva, magari in quei giorni in cui era avrebbe pure potuto alzare la media scadente di Daphne, che evidentemente preferiva dedicarsi alla moda piuttosto che allo studio…

 

Chi invece la osservava come un falco osserva la sua preda, era Maryam che, in teoria stava preparando il tè in cucina, in pratica, con la coda nell’occhio stava osservando sua nipote svolgere gli esercizi. Cosa assolutamente anormale.

Generalmente Daphne non studiava: lei faceva shopping, giocava con Daisy, mandava sms, chiacchierava, guardava la tv, usciva con le amiche… Lei si riduceva all’ultimo, a studiare la sera tardi, sempre, anche quando aveva un compito importante. In quei giorni quello era stato solo uno dei tanti comportamenti strani. Da quando era tornata da Parigi non sembrava più lei, sembrava cambiata, faticava a riconoscerla.

E i casi erano due: o con la gravidanza le era partito qualche neurone, e stava esagerando, facendosi film e flash laddove non ce ne erano, o dopo tanti anni di far parte degli Scudi Sacri e lavorare per proteggere l’incolumità delle persone, un po’ di sesto senso ce l’aveva ancora. Non sapeva in che opzione sperare.

 

“Sono a casa.” la voce allegra del marito richiamò la sua attenzione.

 

Stranamente Daphne non alzò neanche gli occhi dai libri, intenta com’era a studiare e a svolgere gli esercizi: fu Maryam ad andare verso l’uomo con un sorriso stampato sulle labbra. “Ehi, bentornato”

 

Max baciò la bocca della moglie sorridendo contro le sue labbra. “Ciao.” le sussurrò. “Ehi, Daph, tutto a posto? Non ti vedevo studiare così dagli esami di terza media.” fece, rivolto alla nipote.

 

Nadja sussultò. “Eh? Ah, ho… Deciso di impegnarmi con lo studio. Ho parecchie cose in sospeso.”

 

“Fai bene.” fece gentilmente Maryam, con un sorriso che celava le idee che aveva. “Vuoi del tè?” chiese al marito, che annuì.

 

Una volta in cucina, al riparo da occhi e orecchie indiscrete, l’uomo si appoggiò contro un mobile. “Allora, conosco quel sorriso… Cosa bolle in pentola?” Max si slacciò la cravatta da dirigente della American Beyblade Association, e inchiodò con gli occhi la moglie, che incrociò le braccia al petto.

 

“Cosa ti fa pensare che vi sia qualcosa di mezzo?” cinguettò lei, con aria innocente.

 

Lui alzò gli occhi al cielo. “Maryam, per favore. Ti conosco da anni, avrai pure origini celtiche, e tra parentesi forse è questo che ti rende così irresistibile… Il tuo continuo mistero…” poi inarcò le sopracciglia.

“Ma, ragazza mia, ricorda che per te sono stato un uomo disperato. Per te ho mollato la mia fidanzata ufficiale, sono andato in capo al mondo a rincorrerti, ho dovuto chiedere alla tua gente il permesso di sposarti e per farlo ho visto i sorci verdi. Maryam ridacchiò ricordandoselo.

“Ridi, eh? Per te ho perso la testa, mi hai stregato anima e corpo, e dopo anni è ancora così… E mi chiedi ancora come faccio a capirti? Beh, mi sembra il minimo.”

 

“Io ti amo, Max.”

 

L’uomo annuì, come se gli avessero confermato che due più due faceva quattro. “Si, non lo dici spesso quanto vorrei, ma…” prendendola per gli avambracci, Max l’attirò a sé, baciandola con sempre crescente entusiasmo, fino a quando un poderoso calcio all’altezza dell’addome non li divise, facendoli scoppiare a ridere.  “Qui abbiamo qualcuno che non è contento, eh?”

 

Maryam si accarezzò il pancione, sospirando. “Si è svegliato… Oggi ha dormito tutto il giorno.”

 

Lui rise. “Tutto me, allora.”

 

La donna inarcò le sopracciglia. “Che bellezza.”

 

Ridacchiò, prima di sorseggiare il tè. “Allora, torniamo al discorso di prima: cosa c’è che non va?”

 

Daphne.” disse la donna senza mezzi termini.

 

Max aggrottò le sopracciglia. “Ritieni sia strana?”

 

“Non sembra neanche lei. Okay, le persone cambiano: ma in una settimana?” prendendo a raccontargli di quello che aveva visto e sentito, la donna vide il marito assumere un viso sempre più concentrato.

 

“Se vuoi la verità,” fece eco l’uomo, “Anche a me è parsa strana quando l’ho vista all’aeroporto. Non è normale dire zio interrogativamente. Poi non so, si guardava come spaesata… Continuava a chiacchierare ma era come se lo facesse meccanicamente… Per non dire di quando Gold ha abbaiato, come se non la riconoscesse.”

 

Maryam aveva gli occhi ridotti a due fessure. “Cosa può esserci sotto?”

 

“Non ne ho idea. Attendiamo gli sviluppi della situazione e vediamo.

 

 

 

 

Perché in Russia deve esserci un altro alfabeto?

 

Subito dopo l’aeroporto, Daphne e Kai erano andati a casa Hiwatari, anzi, alla reggia Hiwatari, e l’uomo aveva dato alla figlia un quarto d’ora per farsi la doccia e cambiarsi.

 

Era in momenti come quelli che Daphne avrebbe voluto sbattere la testa al muro: era vero, Nadja si cambiava alla velocità della luce, proprio come un uomo, ma… lei no! Anzi.

 

Quindi, ecco che si ritrovava a correre per cambiarsi e mettersi qualcosa di quantomeno decente. E al diavolo la doccia, l’avrebbe fatta di sera.

 

“Pronta.” annunciò. “Dov’è che andiamo?”

 

Kai la fissò, impassibile, squadrando stranito la fascia che la figlia aveva nei capelli e le unghie laccate di rosa. “Vedrai.” le disse soltanto.

 

Questa volta avevano adoperato la Jaguar, e Daphne avrebbe tanto voluto mettersi un filo di trucco, ma ahilei, la vera Nadja metteva soltanto della crema idratante contro il freddo per via della sua pelle delicatissima, e del burro cacao. Fine.

 

Che tristezza.

 

“Non scendi?” Kai la stava guardando stranito, lei evidentemente si era da troppo tempo persa nei suoi pensieri; annuì brevemente, seguendo il padre, e osservando attentamente dov’erano.

 

Si trattava di una struttura piuttosto grande, tutta in bianco dove vigeva un cartello con una scritta russa che lei, ovviamente, non riusciva a decifrare.

Quando entrarono e si vide davanti delle segretarie con tanto di microfono auricolare dapprima pensò stupidamente ad una stazione ferroviaria, poi le venne in mente che non aveva sentito nemmeno il fischio dei treni.

 

Fu solo quando presero l’ascensore e Kai digitò il numero 5 che, dall’alto vide dei ragazzi esercitarsi a beyblade; e capì: quella gigantesca struttura era la famosa palestra di suo padre, famosa in tutta Mosca.

 

Nadja?” si era incantata ancora una volta. Si riscosse rapidamente, rivolgendo all’uomo un cenno di scuse ed uscendo rapidamente dall’ascensore.

 

“Dove stiamo andando?” chiese ancora una volta, aggrottando le sopracciglia; e ancora una volta Kai non rispose, facendo solo cenno di seguirlo. Daphne cominciava ad averne abbastanza di quella situazione, non sopportava quando non le si rispondeva.

 

“Apri la porta.” le disse l’uomo, con un sorriso appena accennato; la ragazzina gli lanciò uno sguardo interrogativo, ma fece come le fu detto, e si ritrovò con una manciata di coriandoli addosso.

 

“Bentornata!” esclamò un gruppetto di persone, in russo.

 

Daphne sorrise, cercando di individuarli e catalogarli: c’erano una donna dai capelli chiari, gli occhi da gatta e il corpo sinuoso che doveva essere quella che Nadja chiamava zia Mao.

L’uomo accanto a lei, con i capelli neri e gli occhi color caramello doveva essere suo marito, Rei. C’erano i loro figli, Rika, una bambina di otto anni con i capelli chiari come la madre e gli occhi del padre, e Lee, un bimbo di sei anni con i capelli scuri e le movenze feline.

 

C’era un uomo con i capelli rossi e gli occhi color ghiaccio che doveva essere Yuri, il suo allenatore, colui che aveva insegnato a Nadja a giocare a beyblade. Accanto a lui stava una donna dai capelli color miele e dai lineamenti dolci che doveva essere Tanya, la sua compagna.

 

Infine c’erano due ragazze dai capelli scuri che si assomigliavano parecchio, che dovevano essere le amiche di Nadja, Natasha e Dorota.

 

“Una festa?” chiese, meravigliata, in inglese.

 

“Ah, non guardare noi, è stata un’idea di tua zia.” Rei alzò le mani in segno di resa.

 

Mao roteò gli occhi. “Sono giorni che non la vediamo. Poi è andata così lontano, ci è mancata tanto e…” quella donna, rifletté Daphne, doveva volere molto bene a Nadja. Da quello che aveva detto doveva essere una specie di mamma chioccia con lei.

 

“Zia, dai, mica sono partita per il fronte.” tutti risero. “Comunque grazie, è stata una bella idea.” fece educatamente. “Ciao a tutti, non vi ho ancora salutato.” ridacchiò.

 

“Guarda, ti ho preparato la vatruska.” fece la donna, sfoderando il dolce preferito di Nadja, ragion per la quale Daphne annuì, fingendosi contenta e pregando che le piacesse; fortunatamente fu così.

 

“Allora, cosa ci racconti di Parigi?” chiese Natasha, che distinse solo perché portava una catenina d’oro con su scritto il suo nome.

 

“Che dire? Parigi è Parigi, è la città della moda, dell’eleganza, dell’arte… Mi sono divertita.” iniziò, tra un boccone di vatruska e l’altro. “E’ incredibile: dovunque ti giri c’è qualcosa da vedere. E sapete cos’altro è incredibile? Il fatto che non sai mai cosa accade.”

 

Mao osservava la ragazza tenere banco con una naturalezza estrema ed essere al centro dell’attenzione: da quando Nadja era divenuta così ciarliera e chiacchierona?

Tutti pendevano dalle sue labbra, ascoltavano con attenzione quello che aveva da dire, ridevano alle sue battute… E lei aveva un peso sullo stomaco.

 

“…dovevate vedere gli zii in quel locale, c’era da morire!” ci fu una risata generale. “No, vi giuro: hanno davvero cantato al karaoke hot stuff di Donna Summer!” e fu qui che tutti scoppiarono definitivamente a ridere. “Cioè, erano pornografici: non so come fossero alla mia età, ma quei due sembra che debbano affittarsi una stanza un’ora si e una no!”

 

Mao fu la sola a non ridere, complice una sgradevole sensazione che si stava impadronendo di lei. Possibile che in quei pochi giorni a Parigi la nipote fosse cambiata così tanto?

Nadja era sempre stata una ragazza timida, riservata, impacciata… Da quando era divenuta così disinvolta, spontanea, spigliata… Da quando era divenuta così Hilary?

 

La donna strinse i pugni, decidendo di getto una cosa: qualsiasi cosa vi fosse nel mezzo, sarebbe intervenuta e l’avrebbe schiacciata. Non poteva permettere che questo cambiamento prendesse ancora forma. Nel modo più assoluto.

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

Okay, questo è senza dubbio il capitolo che temo maggiormente.

Perché? Santo cielo, vi siete fatti tanti flash su Kai e gli altri che la paura di deludervi è fortissima! T_______T

Tenete a mente solo una cosa: ai tempi in cui scrivevo RMA non avevo ancora visionato la terza serie di beyblade, altrimenti, se la scrivessi ora i cambiamenti sarebbero… Non dico radicali, ma ci sarebbero un po’ di personaggi in più xD

Comunque. Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e sottolineo spero.

 

Se qualcuno di voi vuol vedere Kai versione papo (visto che in questo capitolo a parer mio è stato piuttosto distaccato) dovrà aspettare un po’, però ci sarà.

 

Che dire? Hope u like it. xD

 

See u next week.

 

yours forever,

 

Hiromi

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Capitolo 6
*** Sesto capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

Sam si voltò a fissare Liz, che le rispose roteando gli occhi.

Si conoscevano dall’asilo, avevano fatto le elementari, le medie e adesso anche le superiori insieme, e con Daphne costituivano un trio inimitabile conosciuto in tutta la scuola come quello delle Charlie’s Angels, perché, non solo avevano le capigliature delle ragazze del film, ma, si sussurrava, erano belle come angeli, e colui che aveva dato loro questo soprannome si chiamava Charlie.

Chi realmente fosse Charlie, però, a nessuno era dato saperlo.

 

Quella mattina, Liz e Sam erano preoccupate: Nadja (che per tutti era Daphne) stava rispondendo molto diligentemente ad una domanda di chimica. Roba che lei non faceva mai.

 

Daphne durante le lezioni ridacchiava, sfogliava le riviste, riceveva bigliettini dai ragazzi adoranti, veniva rimproverata dagli insegnanti… Insomma, faceva tutto tranne partecipare alle lezioni.

Non che fosse una ragazza stupida, anzi: era molto, molto intelligente. Talmente che si impegnava pochissimo e aveva tutte le sufficienze, quando c’erano persone che, studiando quanto lei erano a dir poco fritti con lo studio.

Senza dubbio, se avesse messo alla prova il suo cervello (come evidentemente faceva la sua gemella) i risultati sarebbero stati a dir poco stupefacenti.

 

La cosa che evidentemente sostenevano Liz e Sam era che Nadja non doveva assolutamente farlo per Daphne.

 

 

“Quante volte ti ho detto di non studiare?” una volta finita la lezione di chimica Sam si portò direttamente al lato della brunetta, affiancandola.

 

La moscovita abbassò lo sguardo. “Mi viene naturale… Ha delle insufficienze che-

 

“Molto gentile da parte tua, ma il punto è che non devi dare nell’occhio.” ribatté la rossa, pragmatica.

 

Liz affiancò le due ragazze. “Na… Ehm, Daphne... Durante il pomeriggio ti abbiamo spiegato cos’è che devi fare. Di tutto, tranne studiare. Lo devi fare la sera, e massimo per venti minuti.

 

Nadja si rabbuiò. “Che razza di metodo.” brontolò.

 

Samantha sospirò. “Ciò non vuol dire che in casi normali non avremmo apprezzato la tua… impennata alla media di… tu sai chi.” fece, per non farsi udire. “Anzi, in casi normali ti avrei detto di  far crescere pure la mia, di media.” sorrise. “Ma il nostro obbiettivo è non creare sospetti.”

 

La moscovita annuì, sentendo crescere in lei un forte fastidio: sapeva che le amiche di sua sorella non avevano torto e che, poverine, cercavano soltanto di farle notare ciò che andava e ciò che non andava, in base a ciò che avrebbe determinato un possibile sospetto altrui… Ma la verità era che era semplicemente stufa di sentirsi dire che lei non andava bene, che il suo carattere non era adatto.

Lei era Nadja, e questo non si poteva cambiare.

Lei era Nadja, ed era diversa da Daphne.

 

Daph, dolcezza!” un bellimbusto dell’ultimo anno, che Liz e Sam le avevano indicato come Pete Hunter le si parò davanti, con il ghigno e l’atteggiamento di chi sa che avrà quello che vuole. “Ti va un giro in moto alla fine delle lezioni?”

 

Nadja lo fissò dall’alto in basso, come se si trovasse di fronte ad un lombrico e sentì il suo sguardo farsi di ghiaccio mentre le sue braccia si ponevano in posizione conserta. “Sparisci.” ringhiò.

 

Fu lì che Liz si schiaffò una mano in faccia, e che Sam meditò il suicidio.

 

 

 

 

Quando si erano confrontate, lo aveva capito che la sua gemella era una specie di piccola atleta, che si esercitava a beyblade ogni giorno circa tre ore al giorno, capitanata da Yuri Ivanov, uno degli amici di infanzia di suo padre, che le faceva praticamente da coach e personal trainer.

Quello che Daphne non immaginava era che Nadja avesse una vita così dura.

 

La mattina la sveglia era alle sei, per fare colazione con suo padre: una colazione abbondante, si, ma sana: altro che uova e bacon, come era stata viziata lei da suo zio Max!

 

Dopodiché Nadja soleva ripassare le materie che avrebbe avuto quella mattina, e un’elegante auto nera si occupava di portarla a scuola; lì veniva il bello, perché la sua gemella era praticamente la migliore del suo anno, mentre lei… beh, tecnicamente l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare era destare sospetti, ma la verità era che non riusciva a stare attenta, visto che capiva a stento un ottavo di quello che dicevano e nulla di quello che scrivevano.

 

Mi sa che la media di Nadja subirà una brusca discesa…

 

Dopo la scuola la giornata continuava con l’enorme palestra Hiwatari, e lì vi erano guai: a Daphne piaceva giocare a beyblade, i suoi zii gliel’avevano insegnato quando era piccola e lei era rapidamente divenuta una delle ragazzine più brave della città; ma sottostare ai ritmi serrati che imponeva la palestra, a cui la sottoponeva quel burbero di Yuri Ivanov era impossibile!

 

Non faceva altro che darle ordine in un russo che a malapena capiva, la squadrava sempre con stizza, come se non facesse mai abbastanza, come se non fosse mai contento, mentre lei si stava impegnando al massimo delle sue forze.

 

Quelle tre ore erano un incubo, avrebbe voluto almeno una lunga doccia ristoratrice dopo l’allenamento… Invece no. Doveva sbrigarsi perché la vera Nadja era un fulmine a farsi la doccia e a cambiarsi.

 

Sempre più di malumore, Daphne non aveva quasi mai tempo per stare con suo padre, e la cosa non le piaceva per niente. Aveva poi la strana sensazione di essere osservata dalla zia di Nadja, Mao, perché più di una volta l’aveva vista soffermarsi dall’altro lato della vetrata a guardarla con uno sguardo indecifrabile.

 

Ma probabilmente sono io che mi faccio delle paranoie…

 

 

Invece era proprio così: la donna, che da anni lavorava come istruttrice e tutor in quella palestra, osservava la sua nipote acquisita sempre più spesso, con sempre maggiore attenzione.

Che ci fosse qualcosa che non andava, era palese: Nadja si stancava troppo presto per ritmi che prima reggeva alla perfezione, era imprecisa nei movimenti, sembrava una novellina.

 

Se non avesse proprio il suo viso, la voce… Direi quasi che sia un’altra persona…

 

Sorridendo, scacciò questa ipotesi dalla mente: doveva scoprire cos’aveva sua nipote. Forse c’era qualcosa che la turbava, forse stava passando un brutto periodo ed aveva altro per la testa…

Il peggio che ci si poteva aspettare era che in Francia avesse conosciuto un ragazzo che l’avesse messa nei guai!

 

Mao sorrise: ma no, Nadja non era il tipo. Lei l’aveva tirata su bene, era una brava ragazza, assennata e per bene.

C’era un'altra spiegazione, ne era sicura.

 

“Adesso basta.” la voce di Yuri suonò fredda come la lama di un coltello. “Se ti sei dimenticata come si gioca a beyblade, per me puoi anche andartene.”

 

Mao osservò la ragazza indugiare, come se non avesse ben capito neanche che cosa fare. Ecco, c’era anche questo fattore: perché parlava sempre in inglese? Per un compito, diceva lei. Ma perché sembrava così assente, quasi come se il russo non lo capisse neanche?

 

Quando uscì dalla stanza con una faccia da funerale, trovò la zia ad aspettarla. “Ehi, brutta giornata, eh?” la ragazza non disse niente, si limitò a sorridere quasi forzatamente. “Non so perché ti sei fissata con l’inglese, ma qualunque sia la cosa che ti preoccupa… Ci sono. I’m with you.”

 

Thank you, aunt.” sorrise l’altra.

 

Mao aggrottò la fronte. “Che pronuncia che hai… Sembri un’inglesina di Londra.”

 

Daphne impallidì. “Eh… Ora vado, sono stanca…”

 

“Ciao, tesoro.” la donna la guardò andare via, e ridusse gli occhi a due fessure: i suoi sospetti si facevano sempre più marcati, solo che non riusciva ad arrivare alla soluzione del caso.

 

Era ancora lì a riflettere quando Yuri uscì dalla stanza di prima imprecando sottovoce, e fu allora che a Mao venne un’idea. “Ehi.” forse gli sarebbe potuto essere utile. “Cos’ha Nadja?”

 

Il rosso inarcò le sopracciglia. “Vorrei saperlo.”

 

Gentile come sempre. Una dolcezza infinita. Ivanov, è mia nipote. Se tu mi dici cos’ha quando è sul campo e io lo confronto con che cos’ha quando ne è fuori, forse arrivo a capire e a trovare una soluzione, no?” chiese, con aria sarcastica.

 

L’uomo roteò gli occhi. “Non è più quella di prima.” disse, facendo spallucce. “Sembra una pivellina qualsiasi, non una che prima di partire mi aveva detto di voler partecipare al campionato mondiale. Così se lo sogna.”

 

“E ti sembra apatica, distratta oppure… Non so?”

 

Yuri ci pensò un attimo. “No, è come… Come se fosse tornata a qualche anno fa. Come se si fosse dimenticata tutte le nozioni acquisite.

 

Il mistero si infittisce…

 

“Grazie.” e, senza aspettare una risposta da parte del russo perché tanto non sarebbe arrivata, Mao si incamminò verso la direzione opposta.

 

Ancora non sapeva cos’avesse la sua Nadja, ma una cosa era certa: quella era un po’ come se fosse sua figlia.

Da quando quell’egoista di Hilary se ne era andata, era stata lei a prendersene cura, facendole un po’ da madre; mentre Kai era distrutto, era stata lei a vederla mentre tagliava tutti i traguardi più importanti; Hilary se ne era semplicemente infischiata.

Per Nadja, Mao aveva persino rinunciato a tornare in Cina, decidendo di restare stabilmente in Russia.

 

Era un po’ come se fosse la sua primogenita, le era terribilmente affezionata, ed era anche molto, troppo protettiva nei suoi confronti, tanto che Rei talvolta la prendeva in giro chiamandola mamma chioccia.

 

La sua Nadja… L’avrebbe protetta da tutto e da tutti. A qualunque costo.

 

 

 

 

“Scusa se ti ho rapita dai tuoi studi, ma ho un assoluto bisogno dei tuoi consigli.” Maryam guardò la nipote sospirando e nascondendo le dita incrociate dietro la schiena.

 

“Non c’è problema.” rispose la ragazza, continuando a tenere per mano Daisy, e continuando mentalmente a ripassare le nozioni di moda che le avevano impartito le amiche della gemella.

Aveva capito che la zia della gemella nutriva qualche sospetto nei suoi confronti, così, in quei giorni, si era sforzata di non cascare nelle continue trappole che la donna le aveva costantemente teso, ma era una seccatura continua.

Se il gioco non fosse valso la candela, sarebbe partita per Mosca in quell’istante, tanto il suo livello di stress.

 

“I vestiti premaman, tranne qualcuno, ti fanno sembrare tutti una balena, quindi per cambiare un po’ volevo qualcosa di spiritoso… Dove potremmo andare?”

 

E che ne so io? “N-Non so… Non sono molto esperta di negozi del genere.” balbettò, sudando freddo.

 

Maryam sbatté gli occhi. “Ma come? Proprio prima di partire me ne avevi indicato due o tre e avevi detto che mi ci avresti portato.

 

“Io?” la donna annuì. “Non mi ricordo.” Che qualcuno mi aiuti!  “Potremmo provare lì…” fece, indicando una boutique di fronte.

 

“Versace? L’hai detto tu che produce una linea premaman orribile e poco pratica.

 

“Ah, è vero.” Ecco, mi ha incastrata. Favoloso.  “Io per ora penso ai compiti, guarda, non ho proprio testa…

 

La donna le lanciò uno sguardo beffardo. “Daphne Tachibana che preferisce pensare ai compiti più che allo shopping. Me la scrivo sul calendario.”

 

Merda, perché non rifletto prima di parlare?!

 

“Comunque possiamo andare nel negozio giù in fondo: hanno la linea prenatal di Heidi Klum di cui mi parlavi.” il suo tono era ironico e non impedì a Nadja di arrossire furiosamente.

 

 

 

 

Quello di Rei e Mao era stato, ed era ancora, un grande amore: si conoscevano da tutta una vita, si erano aspettati, si erano cercati; il loro sentimento non aveva mai smesso di esserci e, quando i tempi erano stati sufficientemente maturi e loro sufficientemente adulti, avevano deciso che era tempo di smetterla di giocare, e di fare sul serio.

 

Erano invidiati per la solidità della loro coppia, per il fatto che erano sempre l’uno la spalla dell’altra.

Litigavano, oh, se litigavano, ma c’erano sempre vicendevolmente, ed era questo l’importante.

 

A ventisei anni, quando aveva deciso di sposarla, Rei conosceva bene la personalità complicata ma anche estremamente attraente della ragazza: sapeva come e per cosa si arrabbiava, per cosa si commuoveva, che cosa la faceva felice.

Mao era un arcobaleno di emozioni, un diamante con mille sfaccettature, e quello che amava di lei era che dopo anni di conoscenza aveva la sensazione di non conoscerle tutte, queste sfaccettature.

 

Nadja è strana.” quando si incaponiva su una cosa, apriti cielo, per esempio.

Non serviva che le si dicesse niente, perché se c’era un caso da esaminare, doveva essere quello preso in esame da lei, tutto il resto era secondario e solo secondario.

 

“Starà passando un periodaccio. Oppure è sotto pressione.” provò Rei, guardando la moglie disfare il letto per la notte.

 

“A me non sembra così semplice. Se una persona è sotto pressione è distratto, assente, si lagna che vorrebbe tornare in vacanza…”

 

Rei ridacchiò. “Ma Nadja non si lagna mai.”

 

“Appunto! Ma non è questo il nocciolo della questione. Mao scosse la testa, sedendosi di fronte alla scrivania, laddove stava uno specchio e prendendo a spazzolarsi i capelli chiari con gesti che Rei trovò molto attraenti.

“Che ne dici di una persona che improvvisamente, da aspirante campionessa mondiale, è diventata una novellina a beyblade? O di una che non vuole parlare il russo perché sembra che non se lo ricordi? Ma in compenso sembra sappia alla perfezione l’inglese. Ho notato anche altre cose, ma sono quisquilie… Tipo che si mette cerchietti, fiocchetti, cose che prima giudicava cavolate…”

 

Rei inarcò un sopracciglio. “Un’altra persona.”

 

“L’ho pensato anche io!” esclamò vivacemente Mao. “Ma non diciamo assurdità, non siamo in un film di fantascienza.” sospirò, preoccupata, prima di legarsi i capelli in una lunga treccia. “Tralasciando i fiocchi e i merletti… Gli altri sintomi mi portano ad una crisi psicosomatica…” la donna era sconvolta. “Tu che ne dici? Può essere, in fondo Nadja era così stressata… Mi sono sempre chiesta come faccia quella bambina a reggere il ritmo tra quella scuola così pesante e il beyblade…” Mao parlava a raffica, era diventata una macchinetta.

 

“Ehi, calmati.” Rei la prese per le spalle. “Innanzitutto la tua è un’ipotesi. Se vuoi ne parleremo con Kai, ma prima di allarmarlo non so… Che ne dici di chiamare Karen? Chiedile come si comportava lì… Poi, se è il caso contatteremo un neurologo. Per ora, però, dormici su.”

 

“E chi ci dorme? Io la chiamo subito Karen! Tanto lì in Francia è giorno!”

 

E quando mai…

Rei sorrise, osservando la moglie parlare al telefono: da quando la conosceva era sempre stata così; materna, dolce e incredibilmente buffa.

 

“Allora? Che ha detto?”

 

“Non so che pensare… Ha detto che era la solita Nadja, ma poi un giorno ha conosciuto una certa Amelie, e ha cominciato a diventare un’altra… Era ciarliera, usciva spesso, talvolta cambiava umore… E domandava spesso di Hilary. Ha pure aggredito verbalmente Karen perché si è accorta che in una foto lei è stata tolta.

 

Rei sospirò, dopodiché annuì lentamente.

 

“Karen ne ha parlato con Takao, e concordano entrambi nel fatto che Nadja abbia bisogno di sapere di sua madre.” qui Mao tremò appena. “Ma io… Io non sono d’accordo! Per niente!”

 

Eccolo, il tasto dolente…

“Tesoro…”

 

“In questi quattordici anni sono stata io, io, a tirar su Nadja, mentre Hilary, per quanto ne so, potrebbe essere pure alle Hawaii ad intrecciare ghirlande con il suo boy toy!” Rei ridacchiò.

“No, Kon, non ridere: anni fa è stata Hilary a scappare via dalla fortuna che aveva lasciandoci tutti qui, impietriti. A me, che ero la sua migliore amica, niente. Non un ciao, un addio, un ti telefono. Niente, nulla. E io dovrei parlare a Nadja di sua madre? Assolutamente no, guarda.”

 

Rei non disse alcunché, si limitò a stringere forte la moglie tra le braccia, e ciò ebbe l’effetto desiderato: Mao si calmò all’istante, rilassandosi completamente e sciogliendosi.

 

Lo sapeva, il cinese, lo sapeva quanto la donna avesse sofferto anni prima dinnanzi alla fuga della propria migliore amica, e sapeva anche che l’aveva relegata in un angolo del suo cuore fingendo di odiarla come se si fosse trattato del demone più infernale e oscuro di tutti; ma quello che Rei sapeva per certo era che se mai un giorno Hilary fosse tornata, dopo un bel chiarimento, Mao non avrebbe esitato a buttare le braccia al collo dell’amica e a stringerla forte a sé.

 

 

 

 

Max sgranò gli occhi. “Okay. Mi stai dicendo che hai portato Daphne a fare shopping e lei non sapeva dove andare?”

 

Maryam annuì, addentando lo spicchio di pizza. “Non solo: ha anche addotto la scusa del per ora non mi viene niente in mente, visto che penso allo studio.”

 

L’uomo, che stava ingurgitando un bel po’ di pizza con la maionese, la sua preferita, per poco non si strozzò. “Cosa?”

 

La donna annuì, sibillina. “Ora convieni con me, che c’è qualcosa sotto?”

 

Max la guardò con tanto d’occhi. “Qualcosa a dir poco.” scuotendo la testa, posò il trancio di pizza. “Hai qualche idea?”

 

La donna fece un gran sorriso a Daisy, mentre le puliva il visetto tutto sporco di salsa. “Purtroppo no. E’ strana, si, ma non so cosa pensare.” sospirò stancamente, e fissò negli occhi il marito. “Sembra tutta un’altra persona, è chiusa nel suo mutismo, ha cambiamenti d’umore, si contraddice… E sai meglio di me che ha avuto comportamenti strani.”

 

L’uomo si grattò la nuca. “Magari sta passando un brutto periodo?” ipotizzò. “Non è a quest’età che le ragazze cominciano a cambiare?”

 

Maryam lo guardò di traverso. “Noi ragazze maturiamo molto prima, veramente, a differenza di voi maschi.” poi sospirò. “Forse ha litigato con le sue amiche, forse qualcuno le ha detto qualcosa e lei…” scosse la testa. “Ne parliamo con Hilary?”

 

Max annuì. “Si, ne parliamo domattina stesso, dai. Sicuramente se ne sarà accorta anche lei.

 

“Già, quelle due sono come sorelle.” fece eco la moglie, pensando al solido legame che caratterizzava Hilary e Daphne. “Vorrei che anche io e Daisy crescessimo così… insieme.” mormorò, accarezzando il visetto della figlia, che le sorrise, gioiosa.

 

“Non è tutto oro quello che luccica.” disse serio Max. “Ricordi come stava Hilary i primi tempi?”

 

Maryam impallidì al ricordo: come poteva dimenticarlo? Le sarebbe sempre rimasto impresso nella mente l’immagine di quella ragazza di soli ventun anni che, in lacrime, aveva bussato alla loro porta, con una bambina in braccio, scoppiando a piangere.

Sovrappeso, con i capelli arruffati e una figlia a cui badare, era scappata dalla realtà da cui si trovava, dai suoi problemi, ad un prezzo altissimo: l’altra figlia.

 

Allora lei e Max avevano fatto di tutto per aiutarla, avvertendo a pelle che, oltre alla tristezza, quella ragazza nascondeva qualcosa di più: portandola dall’analista più famosa della città – da cui andava tutt’ora – la diagnosi era stata lampante: baby blues, depressione post partum.

Ma Hilary ne era uscita alla grande: era dimagrita quindici chili, aveva conseguito il master in giurisprudenza, aveva aperto uno studio in piena Londra ben avviato e aveva comprato casa proprio a fianco loro due. Insieme avevano scelto una semi detatched house per i loro figli, per aiutarsi.

 

Quello che una sera Hilary aveva osservato guardandoli, quando avevano annunciato l’ultima gravidanza di Maryam, era stato quanto le sarebbe piaciuto sapere come stava l’altra sua bambina. L’altra, quella che in un impeto di rabbia pura aveva dimenticato in Russia. Quanto aveva pianto, urlandosi madre degenere

 

“Hilary ha sofferto enormemente in questi anni.” soffiò la donna. “Mi fa rabbia pensare che, sparsi nel mondo vi siano persone che la ritengono una poco di buono, una vigliacca, o una traditrice.”

 

Max posò la sua mano su quella della donna, come a calmarla. “Loro potranno giudicare, ma non conoscono la realtà dei fatti come la conosciamo noi, Mari.” proferì, facendo spallucce.

“Hilary era giovane, fece degli sbagli, ma anche Kai non fu questo stinco di santo.” qui Maryam inarcò brevemente le sopracciglia come a dire che no, proprio non lo era stato. “Anche noi, offrendoci di stare dalla parte di Hilary ci siamo volutamente tagliati fuori dal gruppo che eravamo quando avevamo vent’anni, ma non lo rimpiango.”

 

Neanch’io.” sostenne Maryam, con forza. “Hilary ha ragione, se gli altri sanno solo sputare sentenze che si fottano.”

 

“…Ottano!” esclamò allegramente Daisy.

 

Max e Maryam si scapicollarono a negare e a dire che no, le brave bambine non dovevano dire le brutte parole; e una volta mandata la bimba a giocare con il cagnolone, poterono dedicarsi a sparecchiare in pace.

 

“Chissà perché combini sempre tu questi guai.” la rimbeccò scherzosamente il marito.

 

“Oh, sta’ zitto, mi sono fatta prendere dal pathos della situazione.”

 

Max le lanciò un’occhiata audace. “Mi piaci quando ti fai prendere dal pathos della situazione…” e l’unica cosa che Maryam poté fare prima di essere agguantata e baciata fu ridere.

 

 

 

 

Hilary uscì da casa ripassando mentalmente le parole da dire in tribunale: quel giorno aveva un altro divorzio, il Patel- Wood, che grazie al cielo era consensuale. Detestava i divorzi non consensuali: erano tristi e sembravano non finire mai.

 

Come avvocato divorzista stava facendo carriera abbastanza rapidamente, e questo, lo sapeva, lo doveva soltanto a Max e Maryam che, come due angeli custodi, l’avevano aiutata tantissimo durante gli ultimi anni. Se non ci fossero stati loro sarebbe andata alla deriva.

Era anche per ringraziarli che, l’anno prima, per i loro cinque anni di matrimonio, aveva fatto loro una sorpresa e aveva acquistato due biglietti per una crociera di prima classe attorno al mondo e, giustamente, aveva tenuto con sé Daisy.

Per loro avrebbe fatto di tutto. Dire che aveva un debito d’onore era riduttivo.

 

“Hilary.” quando si sentì chiamata poco prima di raggiungere la sua lancia ypsilon viola, si voltò di scatto, vedendo proprio Max che agitava la mano, facendo cenno di avvicinarsi: accanto a lui c’era Maryam. Era raro che volessero parlarle di mattina, in genere attendevano il suo rientro… Doveva essere qualcosa di serio.

 

“Ehi, cosa succede?” guardò prima uno, poi l’altra interrogativamente, ma loro sospirarono, come se non sapessero da dove cominciare.

 

“Hai notato qualcosa di strano in Daphne, ultimamente?” l’espressione di Maryam era dura, terribilmente seria, e anche preoccupata.

 

“Io… Non so, ultimamente ho un processo dopo l’altro, e sarà così fino alla prossima settimana…” scosse la testa come a scacciare l’idea. “Lo è, strana, ma credo sia un periodo…”

 

“Hilary.” Max era terribilmente serio, e a lui questa cosa non si addiceva, ragion per cui si sentiva profondamente turbata. “Daphne ha sbalzi d’umore non normali. Prima chiacchiera a raffica, poi si chiude in un ostinato mutismo. All’aeroporto faticava a riconoscermi, sembra si sia dimenticata molte cose che la riguardano…

 

“L’ho portata a fare shopping, e non sapeva nemmeno in quali negozi andare. E che scusa ha usato? Penso allo studio.” Maryam era ironica.

 

Daphne che non sa in che negozi andare?

“Okay, ragazzi, non facciamo una tempesta in un bicchiere d’acqua.” Hilary scosse la testa, come a voler convincere se stessa per prima. “Secondo me Daph sta attraversando un periodaccio, e sta riconsiderando le sue priorità, tutto qui.” fece, scrollando le spalle.

“La prossima settimana mi prenderò un giorno di ferie – tanto ne ho un sacco di arretrate – e la porterò in giro con me. Ha solo bisogno di una giornata da passare con la sua mamma. Nient’altro.” disse, convinta.

 

“Io spero che tu abbia ragione.” disse solo Maryam.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

Okay, ci siete ancora?

Capitolo importante, mh? Almeno, secondo me lo è. u__u Da questo in poi le cose si fanno non pepate... Di più. Altro che messicano, guys. xD

E questo capitolo non è nulla in confronto a quello della settimana prossima. Chi leggerà – e recensirà! – vedrà. Y___Y

 

Sono stata molto contenta dei vostri pareri, a quanto pare, grazie al cielo, non vi ho deluse (parlo al femminile perché coloro che recensiscono sono ragazze! e.e) e spero di non farlo mai. Questa storia l’ho scritta mesi fa, e dati i numerosi intrecci si è rivelata parecchio ingarbugliata. Spero solo di esser riuscita a collocare i giusti fili nei giusti posti.

Sta a voi dirmelooooo! è___é

 

Quindi recensite, non siate pigri – perché, so che molti di voi seguono, e ringrazio di questo * si inchina* - ma un’autrice per migliorare ha bisogno di più opinioni possibili.

 

Esempio:

 

“No, ti pare che Tizio possa fare così entrando in scena manco fosse Eva Herzigova in passerellaaaaaa? Sei fuori ciccia! D= Ma che ti sei fumata?! Crack?!

 

Accetto qualunque cosa. =D

 

 

 

Alla prossima settimana.

Un bacione,

 

Hiromi *che sembra davvero che si sia fumata qualcosa*

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Capitolo 7
*** Settimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

“Posso parlarti?”

 

Kai si voltò di scatto verso chi aveva formulato la domanda, scoprendo con sorpresa che si trattava di Mao; era appena uscito dall’allenamento con i suoi allievi, stava facendo una pausa, ma se la moglie del suo migliore amico lo fissava con un’aria così contrita, c’era qualcosa che non andava, e per giunta qualcosa di grosso; quindi si ritrovò ad annuire, lo sguardo attento.

 

“Sono preoccupata per Nadja.” la donna sospirò, mordendosi le labbra, e fu un fulmine nell’esplicitargli, parlando a raffica, tutte le volte in cui sua figlia sarebbe stata strana, tutte le volte in cui avrebbe avuto un comportamento non da lei.

“Anche tua sorella ha avuto qualche sospetto, lì a Parigi…” sussurrò. “La cosa che mi preoccupa è che chiedeva di continuo di…” fu in quel punto che la voce le mancò.

 

Mai, mai in quattordici anni di assenza si era fatto il nome di lei, dell’innominabile che aveva osato conquistare il freddo e gelido Kai Hiwatari per poi calpestare sotto i tacchi il suo cuore. Mao non sapeva come proseguire.

 

“Di sua madre?” il blader inarcò freddamente un sopracciglio, facendosi di pietra.

 

Lei annuì lentamente. “Si. Quello che mi stupisce è che ha pure aggredito verbalmente Karen quando si è accorta che anni fa l’aveva tagliata via da una foto… Non so cosa pensare…E’ così strana, non sembra nemmeno lei…

 

Kai non disse nulla per molti secondi, dopodiché sospirò impercettibilmente. “Grazie per avermi informato.” disse solo. “Non occorre che ti preoccupi, credo che alla base dell’inquietudine di Nadja ci sia una mia mancanza. Sono mesi che la trascuro.”

 

Mao non poté fare a meno di confrontare il discorso fatto dall’uomo – abbastanza lungo – con le battute che si scambiavano fino a quindici anni prima – circa una o due all’anno: evidentemente da quando anni prima si era presa cura di sua figlia – e stava continuando a farlo – questo li aveva avvicinati, con il risultato che non la considerava più una semplice conoscente.

 

“Potresti prenderti un giorno libero.” suggerì la donna. “Sono sicura che tua figlia apprezzerebbe. Un Sabato, magari, quando non ha scuola. Sai com’è fissata con la sua carriera scolastica. Kai annuì, e ciò le fece capire che erano giunti al termine della conversazione.

“Ora sono più tranquilla, spero davvero sia come dici… Falle passare una bella giornata.” Con un cenno della mano si allontanò, sentendosi sollevata: quel peso dallo stomaco se lo era quasi tolto.

 

 

 

 

Quando Max le aprì, Hilary lo salutò con un sorriso smagliante. “Ehi, bonsoir!”

 

“Buonasera a te; di buonumore?” fece l’americano, reggendo in braccio la piccola Daisy.

 

“Direi di si: oggi ho avuto l’ultimo processo di questo periodo: un divorzio non consensuale, lo Stevenson- Brady, e l’ho vinto!”fece, schiacciandogli l’occhiolino. “Il marito ha ottenuto la custodia del figlio, e pagherà alla moglie alimenti minimi.”

 

L’amico le sorrise largamente. “Congratulazioni, dottoressa Tachibana.”

 

Hilary sorrise di un sorriso luminoso, poi guardò verso il salotto. “La mia piccolina dov’è?”

 

“Sta studiando da ore: a quanto pare la prossima settimana ha un compito di filosofia parecchio impegnativo.”  l’uomo mise a terra sua figlia, e lanciò un’occhiata all’amica come a voler dire che, in effetti, era strano.

 

La donna, però parve non farci caso, perché dirottò abilmente lo sguardo al di là di lui. “Va bene, ora è il caso che ce ne andiamo un po’ a casa, io e lei.” si guardò intorno. “Maryam dov’è?”

 

“Mal di schiena atroce: si è già andata a coricare, la mia bella mogliettina.” fece sibillino il biondo.

 

Hilary si ritrovò ad annuire. “E’ il caso che non disturbiamo oltre: Daphne?” esclamò, chiamandola a voce appena più alta; la ragazza arrivò qualche secondo dopo, con sottobraccio tutti i suoi libri e l’aria stanca. “Dai, andiamo; a domani, Max. Sempre grazie.” dopo il cenno di saluto dell’uomo, le due si diressero verso casa loro, pronte per preparare qualcosa da cucinare in quattro e quattr’otto.

 

A quanto le aveva detto la gemella, Hilary non era mai stata una brava cuoca; a differenza di ciò che si diceva delle tradizioni giapponesi e del fatto che le donne fossero tutte brave in cucina, lei era veramente un disastro, ma, dall’età di sedici anni, aveva instaurato una relazione duratura con il microonde.

 

Casa Tachibana viveva di cibi precotti o dolci pronti da mangiare, niente che si dovesse cucinare, insomma, altrimenti, sotto le mani disastrose della donna – così abili quando si trattava di rammendare un vestito o scrivere una relazione – sarebbero divenuti immangiabili.

 

“Ti va del kebab?” la donna estrasse dal frigo una confezione surgelata di cibo. “Vuole cinque minuti: lo metto in padella e via.”

 

Nadja annuì semplicemente, troppo stanca per dire o fare alcunché: era stata tutta la giornata a studiare per Daphne, e in quel momento  si sentiva davvero intorpidita.

 

“Domani passiamo la giornata insieme? Solo tu ed io: è tanto che non ci prendiamo una pausa e… ne abbiamo bisogno. Hilary le sorrise. “Cosa ne dici?”

 

Nadja ricambiò il sorriso, sentendo i battiti del cuore aumentarle freneticamente. “Si.”

 

“Solo si? Mi aspettavo una reazione più entusiasta, signorina!” mugugnò, facendo il broncio.

 

“Mamma?”

 

“Eh.”

 

“Il kebab sta bruciando.”

 

“Merda!”

 

 

 

 

Daphne sorrise largamente per l’ennesima volta, guardandosi intorno: si trovava in una cioccolateria grandiosa e veramente spettacolare, che aveva un nome impronunciabile, ma era davvero pittoresca: sapeva di antico, con i suoi libri posti qua e là, e anche di elegante, con i suoi lampadari ornati di vero cristallo…

 

Quella mattina suo padre le aveva fatto una sorpresa, dicendole di sbrigarsi a prepararsi, e portandola, a sorpresa, in giro per la città.

E così, imbacuccandosi per bene contro il freddo della Russia, e in giro con la Jaguar, aveva visto la vera Mosca; Naomi Campbell aveva ragione: quella città era favolosa. Era la New York ricoperta di neve, una metropoli tutta da scoprire.

 

Non aveva dubbi che a Nadja piacesse quel posto: pieno zeppo di libri, un’aria familiare, ci venivano le coppiette per guardarsi romanticamente negli occhi o gli studenti quando – probabilmente – le biblioteche erano piene zeppe o contemporaneamente allo studio avevano voglia di una buona cioccolata.

 

Che bello, però, essere qui con papà…

 

Non riusciva a credere che quell’uomo fosse suo padre. Lo aveva sempre osservato da una fotografia sbiadita, invece in quei giorni era lì, ed era davanti a lei…

Avrebbe tanto voluto abbracciarlo, farsi coccolare come spesso faceva con sua madre, ma lì rischiava davvero di farsi scoprire, e allora sarebbero stati guai. Poteva solo accontentarsi di guardarlo. Guardarlo ed imprimersi nella mente tutti i particolari di un uomo che per anni era sempre stato nei suoi sogni.

 

Una volta Hilary si era fatta sfuggire che era stato il più bel ragazzo che avesse mai visto: beh, guardandolo ora, di sicuro era uno degli uomini più belli che avesse mai incontrato.

La ragazza si gonfiò d’orgoglio: quando tutta quella storia sarebbe finita, chissà che faccia avrebbero fatto Liz e Sam, scoprendo che padre aveva.

Alto, con un fisico che pareva scolpito nel marmo, con i lineamenti squadrati ma che avevano qualcosa di dolce… E con quei colori particolari… Di certo le donne non se lo lasciavano scappare.

 

Eh no, papà, vedi di fare il bravo che ho in mente un bel piano per te e la mamma, eh.

 

La ragazza accavallò le gambe, sorprendendosi a pensare come quegli occhi viola facessero tutto un altro effetto su di lui. Sospirò, sorridendo interiormente pensando a quanto fosse fortunata per avere due genitori così belli e in gamba.

 

Sentendosi probabilmente osservato, Kai alzò lo sguardo, e Daphne gli rivolse un sorriso timido, ma quando fu ricambiato da uno sguardo sereno,  la ragazzina si ritrovò ad arrossire, maledicendosi, e nascondendo il viso dietro il menù.

 

“Cosa vi porto?” chiese una cameriera, in russo, osservandoli.

 

Fortunatamente, nel menù, sotto la dicitura russa, vi era la traduzione inglese, così poteva risparmiarsi una magra figura; decise per la cioccolata bianca e, comunicandolo al padre, si perse ancora una volta nell’osservare la cioccolateria.

 

“Ti piace?” Kai la stava guardando divertito, un sorriso lieve dipinto sulle labbra.

 

Daphne annuì, gioiosa. “E’ fantastico, questo posto. Meraviglioso.”

 

“Anche quando avevi cinque anni ti guardavi intorno così.” lo disse sorridendo leggermente, come se il ricordo lo addolcisse.

 

Fu lì che Daphne pensò che dovesse essere un uomo che aveva sofferto molto nella vita, una persona molto spigolosa e dura, gelida quanto si voleva ma… Doveva amare Nadja più della sua stessa vita.

 

Potrai amare pure me, papà?

 

Mi incuriosiscono questi libri messi qua e là.” cambiò discorso la ragazza. “Cosa simboleggiano?”

 

Kai inarcò un sopracciglio. “Questa è la cioccolateria degli specchi. Detta anche dei letterati. Non ricordi?”

 

Daphne esibì un sorriso imbarazzato. “Ah, ora si.” in quel momento arrivarono le cioccolate e subito dopo la ragazza guardò il padre negli occhi.

“Papà… E’ stata dura vedere la zia fidanzata con un tuo amico?” Kai alzò lo sguardo verso la figlia, incuriosito per la domanda. “Voglio dire, dev’essere stato strano… Scoprire di avere una sorella, e poi… Lei si fidanza ufficialmente con uno dei tuoi amici più cari… No?”

 

“Non quando si mette in chiaro con l’amico in questione che se spezza il cuore della sorella tu spezzerai le sue ossa.” disse semplicemente, e Daphne ridacchiò.

 

“Non ti ha fatto effetto saperlo?” insistette la ragazza.

 

Lui sospirò. “No, anche perché… L’hanno nascosto per parecchio tempo, prima di venire fuori.”

 

Lei era scioccata. “Ma dai.” ci stette un po’ a pensare, sorseggiando la cioccolata, poi sbatté gli occhi. “Ti prego, me lo racconti?”

 

Kai sospirò, poi annuì.

 

 

 

 

 

“Okay, ragazzi, io vi posso mettere a disposizione tre auto per raggiungere la California.” Judy Mizuhara, consegnò ai ragazzi dei mazzi di chiavi con molta scrupolosità. “Da qui a San Diego sono sei ore di viaggio, nelle auto trovate delle mappe che vi potranno essere utili.”

 

“Okay, mom, thanks!” Max era su di giri per il nuovo campionato, anche perché, per loro, purtroppo, sarebbe stato l’ultimo, visto che avevano raggiunto il limite d’età.

 

“Va bene, vediamo di organizzare le auto.” Hilary assunse un tono pratico: si trovavano a Yuma, in Arizona, ospiti della famiglia Mizuhara.

La brunetta fece un rapido calcolo: tra la BBA revolution, la squadra di Max, la sorella di Kai, e Kai stesso che era sopraggiunto per venirla a trovare erano in tutto…

 

“Siamo dodici.” disse Karen, facendo spallucce.

 

“Sappiamo contare.” sibilò  velenoso Takao, indirizzandole uno sguardo di fuoco.

 

“Beh, non direi, visto che non l’hai fatto.”

 

“Basta così.” la voce da generalessa di Hilary prese il sopravvento. “Max, tu e la tua squadra avrete l’auto più grande. Ecco le chiavi.”

 

“Ci vediamo lì!” trillò il biondo; dopo i saluti e gli auguri di buon viaggio, la brunetta prese a guardare minacciosamente Takao e Karen.

 

“Io, Kai, e gli altri, prenderemo la Bmw.” ringhiò, con una voce che non ammetteva repliche. “Riguardo voi due… Queste sono le chiavi della Rolls Royce.”

 

Kai guardò Hilary sorridendo, ammirato: non finiva mai di stupirlo, la sua ragazza. Era geniale, combattiva, dannatamente sexy, e quando si intestardiva su una cosa non cambiava idea nemmeno se la si pregava in ginocchio.

 

“Io non mi faccio sei ore di tragitto con questo individuo!” tuonò Karen.

 

“Perché io sono ansioso di viaggiare con te, forse?” Takao era sdegnato.

 

“A me non interessa: noi andiamo, tra tre giorni inizia il torneo. Non vi sono né aerei né treni per San Diego. L’unica chance è questa auto. Buona fortuna.”

 

 

 

 

Daphne rise. “Mamma era una tosta!” Lo è ancora!

 

Kai sorrise, ma non commentò. “Non so cosa successe in quelle sei ore, so solo che parevano diversi, nervosi.”

 

 

 

 

Hilary si guardò intorno: erano le otto, la cena era iniziata da un’ora, tutti i bladers stavano allegramente mangiando e Takao non c’era.

I casi erano due: o aveva saccheggiato la cucina prima, o aveva contratto la diarrea.

 

“Prof, hai visto Takao?” al diniego dell’amico la ragazza si incupì: ora si che era preoccupata.

A dire il vero non l’aveva visto da quando erano a Yuma, ma era sicuro fosse arrivato con Karen, non potevano essersi ammazzati a vicenda durante il tragitto…

O si?

 

Andò verso il tavolo dei Russi e, una volta ottenuta la loro attenzione, si scusò con un sorriso appena accennato.

Kai, hai visto Takao? E’ ora di cena e lui… non c’è.” il suo ragazzo sgranò leggermente gli occhi, poi scosse la testa.

 

“Forse ha mangiato prima e ora sta digerendo in camera.”

 

Hilary annuì. “Sono preoccupata, vado a cercarlo.” all’assenso del russo, la ragazza si precipitò su per le scale, alla ricerca della camera dove soggiornava l’amico.

Rimase stupita di fronte al cartello Do not disturb, ma decise di bussare lo stesso, per accertarsi che fosse dentro.

Takao?”

 

Un paio di secondi più tardi venne finalmente ad aprire. In vestaglia. “Si? Che c’è?” la voce brusca la colpì parecchio.

 

“La cena, direi. Non dirmi che te ne sei dimenticato.”

 

Takao sgranò gli occhi. “Aspetta.” disse, quasi spaesato, prima di chiuderle la porta in faccia.

 

Hilary non sapeva se urlare o bussare di nuovo, quando la porta si aprì. “Okay, porta… Due costolette di agnello, con contorno di patatine, spumante e…Aaaaah!” Takao sobbalzò come se qualcuno lo avesse colpito. “Si, si, anche due primi a tua scelta, grazie.” poi le chiuse nuovamente la porta in faccia.

 

La ragazza non sapeva che dire o che fare. Era evidente che lì dentro vi fosse qualcuno, ma era la prima volta che Takao si portava qualcuno a letto dimenticando persino la cena.

 

“Sappi solo che non sono la cameriera!” urlò dietro.

 

 

 

 

“Ti porto nel ristorante più in di San Diego!” Mao stava imitando la voce di Rei, mentre Hilary, Karen ed Emily stavano ascoltando. “E dove mi ha portata?” la ragazza alzò gli occhi al cielo. “In una trattoria.” tutte risero, la cinese sbatté teatralmente la testa contro il tavolo.

 

“Conta il pensiero!” rise Emily, Mao roteò gli occhi.

 

Fu in quel momento che Takao sfrecciò nella stanza, un sorrisone sulle labbra. “Ehi, che si fa? Pettegolezzi?”

 

“Via, è un momento per sole donne.” Hilary aveva un sopracciglio pericolosamente inarcato.

 

Takao fece spallucce. “Karen, ti cerca tuo fratello.” la ragazza annuì. “Vado, vi lascio a ciarlare.” disse, prima di imprimere sulle labbra della sorella dell’amico russo un bacio che lei ricambiò con molto entusiasmo.

 

Hilary smise di bere la sua birra, Emily sbatté gli occhi, Mao spalancò la bocca.

 

Takao e Karen si guardarono intorno come spaesati, e, come se nulla fosse successo, il ragazzo baciò sulle labbra le ragazze una ad una, dichiarando, uscendo: “E’ sempre un piacere.”

 

Mao fissò Karen. “Okay. Se hai ancora la bambolina woodoo con le sue sembianze non ti sembra il momento di smettere?”

 

 

 

 

Rei entrò nella stanza di Takao: l’amico doveva consegnargli i soldi da mettere per il compleanno di Max.

La cosa che catturò la sua attenzione, mentre il giapponese cercava il portafogli in mezzo a tutto quel casino, fu qualcosa di rosso sul comodino.

Uno smalto da donna.

 

Lo prese ridacchiando. “Io spero vivamente che non sia tuo.”

 

Takao boccheggiò, divenendo di tutti i colori. “Certo che non è mio.” balbettò. “Qui ci sono i soldi.”

 

Il cinese non riusciva a smettere di ridacchiare. “Ciao amico… E congratulazioni!”

 

“Dacci un taglio, Rei!”

 

 

La sera stessa, durante il compleanno di Max, Karen si lamentò a voce un po’ troppo alta. “Cognatina, mi presti il tuo smalto rosso? Io il mio non ricordo dove l’ho lasciato…” fu lì che Rei trattenne a stento un’esclamazione.

 

 

 

 

Hilary decise di dare una strigliata bella e buona a Takao: non sapeva chi fosse la sua amichetta e nemmeno lo voleva sapere, ma il campionato era iniziato da un mese e lo aveva visto solo agli incontri ufficiali di bey. Non era normale.

Decise di comporre il numero della sua stanza, per parlare con lui, ma molto probabilmente vi fu qualcosa che non andava perché…

 

“…mi sento un po’ in colpa, trascuro i miei amici, il beyblade, e tutto per una ragazzina… La più bella che abbia mai visto.” Takao stava già parlando al telefono, e aveva una voce che non gli aveva mai sentito prima. Quasi… sensuale?

Hilary voleva vomitare.

 

“Non la pensavi così la prima volta che ci siamo incontrati…

Karen?! Hilary mise giù il telefono di scatto, un’espressione inorridita sul viso.

Ora si che voleva vomitare.

 

 

 

 

Il torneo era giunto a metà del suo corso, spostandosi ad Abu Dhabi.

Hilary si stava ancora chiedendo se fosse il caso di svelare tutto a Kai quando, durante una cena, Takao si alzò, dirigendosi verso Kai, chiedendogli il permesso di parlargli.

 

“Mi sono innamorato di tua sorella, amico.” il Giapponese aveva un sorriso grande quanto una casa. “All’inizio entrambi pensavamo fosse solo attrazione, l’abbiamo tenuto nascosto per questo. Ora siamo entrambi certi dei nostri sentimenti. Vogliamo stare insieme alla luce del sole. Karen ci tiene alla tua approvazione, e francamente anche io.”

 

Kai era stato preso in contropiede. Non era da Takao, il suo amico tutto beyblade e cibo, quel discorso così serio e maturo, eppure eccolo lì, felice e innamorato, con una nuova luce negli occhi.

 

Il russo annuì, serio. “Tu falla soffrire. Io faccio soffrire te. E non ti piacerà.”

 

Il giapponese sfoderò un sorriso di marca Kinomiya. “Ricevuto… cognatino.”

 

Sta’ zitto, prima che mi penta di tutto questo.”

 

 

 

 

Daphne sospirò. “Che bella storia… E’ proprio vero che il confine tra odio e amore è molto sottile.”

 

Già. Anche nel senso inverso.

Kai distolse lo sguardo, fissandolo su un punto qualunque. “Se hai finito, andiamo.”

 

“Oh, va bene. Prossima tappa?” il padre non rispose, e ciò le fece intuire che, come prima, anche la prossima sarebbe stata una sorpresa.

 

 

 

 

Hilary rise: da Harrod’s era impossibile non divertirsi, specialmente facendo spese. Era da quella mattina che stavano facendo shopping, e lei aveva ancora la batteria carica. Erano andate in tutti i negozi possibili e immaginabili, avevano fatto colazione da Starbucks, e avevano pranzato in un ristorante cinese veramente ottimo, divorando gelato fritto e biscotti della fortuna.

 

“Sembri un cono di panna montata con quel vestito!” la donna scoppiò a ridere quando la figlia le si presentò davanti con un abito panna a balze e degli stivali marroni.

 

Nadja ridacchiò. “Tu saresti la schiava ai tempi degli antichi romani?” Hilary indossava un abito stranissimo marrone chiaro a fasce, accompagnato da stivali con i lacci. “Mi sa che è meglio che andiamo, le commesse ci guardano male.”

 

“Mica è colpa nostra, è questo negozio che ha vestiti che fanno schifo.” quando lo disse, Nadja rise.

 

La mezz’ora successiva si ritrovarono al bar, a prendere un gelato, comodamente sedute. “Tra un po’ in auto non entrerà più nulla.” osservò la ragazza. “Ci sono solo pacchetti e sacchettini.”

 

Hilary fece spallucce, come fosse una cosa da niente. “Non ti preoccupare, è per una buona causa.”

 

“Cioè?”

 

Io e te.” e le schiacciò l’occhiolino, facendole stringere il cuore per la gioia.  

 

 

 

 

 

Daphne non ci credeva: da quando era atterrata a Mosca aveva avuto una sfortuna tremenda, era capitata in situazioni infernali e sfigate – in classe, in casa, in palestra, dovunque – ma quel giorno… Quel giorno sembrava ripagare tutto.

 

Dapprima Kai l’aveva portata in una cioccolateria fantastica, veramente pittoresca, dove si respirava un’aria familiare e magica, poi la tappa era stata una libreria enorme, con poltrone e divanetti ovunque…

Esattamente l’ambiente di Nadja, ma anche di sua madre.

 

Lei in genere non leggeva molto, a differenza di Hilary, però era stata attenta a recitare bene la sua parte, fingendo di perdersi in vari libri, di osservarli con aria affascinata come di solito aveva visto fare a sua madre, e, quando proprio non ce l’aveva fatta più, Kai l’aveva portata a pranzo in un ristorante stupendo.

Avevano chiacchierato – o, per meglio dire, lei aveva chiacchierato (non molto per non farsi scoprire, ma doveva pur mantenere una certa conversazione) – avevano mangiato tante cose deliziose, e poi avevano fatto una breve passeggiata.

 

In quel frangente era curiosa di sapere dove l’avrebbe portata: sapeva che la tappa sarebbe stata l’ultima, ma non le importava. Si stava divertendo, il suo sogno era diventato realtà, in quel momento sentiva di essere davvero felice.

Era lì, accanto al suo papà, nulla poteva spezzare quell’incanto.

 

 

La Jaguar si fermò dolcemente vicino ad una costruzione con una scritta russa che non seppe decifrare: Daphne, però, scese dalla vettura ostentando sicurezza, ma in realtà non sapeva proprio dove si trovasse.

Certo, c’era un gran parcheggio, un cancello, e la costruzione era imponente, ma ne aveva visto di molto più grandi da quando era a Mosca… Quindi dove diavolo erano?

 

Lo sguardo di suo padre le fece capire di seguirlo, quindi sorrise e si incamminò.

Dentro, assomigliava molto alla palestra di beyblade, con qualche modifica… Poteva essere un’altra palestra? Daphne aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi verso le grandi vetrate che vide in lontananze: era una piscina!

 

“Vieni.” la sola parola che le disse Kai bastò per farle distogliere lo sguardo da qualsiasi cosa e seguirlo. Scesero per due piani e la ragazza notò che, man mano che si scendeva, vi era sempre più freddo.

 

Che diamine…?

 

Una piccola pista di pattinaggio sul ghiaccio.

Daphne si voltò incredula verso suo padre, che le rispose calcandole un casco protettivo sulla testa, preso dagli spogliatoi, gesto che la fece scoppiare a ridere.

 

“Ginocchiere e pattini?” domandò, su di giri.

Era all’incirca un mese che non andava a pattinare, in genere, quando era a Londra, ci andava spesso con Liz e Sam, ed era anche abbastanza brava: non sapeva come fosse Nadja, ma lì nessuno la batteva.

 

Kai le indicò una panchina laddove stava tutto l’occorrente, e la ragazza corse a prenderlo. “Visto che non hai mai tempo per venire qui, ti ci ho portato io.” fece all’improvviso, laconico, aspettando che la figlia si fosse messa i pattini.

 

Daphne lo prese per mano, sfrecciando sulla pista senza alcun intoppo, e facendo pure una piroetta, lasciando di stucco il russo. “Dai, papà!” ridacchiò. “Vieni!” esclamò, finendo di compiere il primo giro e tendendogli le mani.

 

Lui inarcò le sopracciglia. “Da quando sei diventata così brava?”

 

L’entusiasmo della ragazza scemò con quella frase. “Oh. Perché non… Non lo ero prima?”

 

“Direi di no, visto che non ne avevi tempo.”

 

Daphne scosse la testa, e una cascata di capelli castani si mosse con lei, gesto che fece sbarrare gli occhi al russo.

 

Da quando si muove così? Come… Come lei?

 

“Beh, in Francia ho conosciuto Amelie, una ragazza davvero simpatica, e sono andata parecchie volte a pattinare con lei, devo essere migliorata lì.” fece scrollando le spalle e mostrandogli una smorfia.

 

Hilary…

 

Kai chiuse con forza gli occhi e li riaprì, trovandosi davanti degli occhi del tutto uguali ai suoi che lo guardavano, confusi.

 

“Papà?”

 

Si.” borbottò. Sono totalmente rincretinito. “Pattina pure, io… Ti guardo.”

 

Daphne annuì, per poi compiere un’altra piroetta sotto gli occhi vigili di Kai, che attento, la osservava come se un incubo stesse compiendosi sotto i suoi occhi. Un incubo che aveva un nome un cognome… Ma anche una data: quattordici anni.

 

 

 

 

 

A volte essere entrate nel terzo trimestre di gravidanza, era qualcosa di seccante. Non potersi più piegare, non poter più pigliare la macchina, dover fare lunghe passeggiate, dover andare sempre in bagno per via di un bambino che premeva sulla vescica…

 

Maryam non era mai stata una persona molto paziente, anzi. Affrontava la vita e tutto ciò che essa proponeva prendendola di petto, talvolta scontrandosici, e non era sempre il metodo migliore. Quando pensava a ciò che era stata a diciannove anni, e al periodo davvero nero che aveva vissuto, ringraziava di aver (ri)incontrato suo marito, il suo cuore, la sua anima gemella, colui che le aveva insegnato la semplicità della parola amare… A quel tempo era stata una ragazza non troppo per bene per poter capirlo a fondo… Se Max non avesse insistito, chissà dove sarebbe stata in quel momento…

 

Si voltò di scatto quando sentì la suoneria del cellulare di Daphne in casa sua. Che diamine ci faceva lì? Eccolo, un altro elemento assurdo, a dir poco stranissimo: quella ragazza non si separava mai dal suo cellulare. Era come un prolungamento del suo braccio.

 

Che fare?

 

Il telefonino continuava a squillare, imperterrito, così come gli occhi verdi di Maryam lo solcavano in lungo e in largo, in attesa di una decisione, che ad un certo punto arrivò.

 

“Pronto?”

 

Nadja, sono Liz. Non ti sento… Sono fuori città… ascolta, Daphne mi ha mandato un sms, mi ha detto che oggi lei e vostro padre andavano in giro per Mosca… Mi senti? Questo cazzo di campo… Il piano procede quasi alla perfezione, tu sta attenta a non farti scoprire… recita la tua parte. Ciao.”

 

La donna rimase impietrita, e fu per miracolo che si ricordò come si spegneva quell’aggeggio.

 

Fu solo quando riordinò le idee che prese il telefono in mano, facendo un numero che in tanti anni di matrimonio e di fidanzamento non aveva mai fatto.

“Sono la signora Mizuhara, posso parlare con mio marito? E’ urgente. Grazie.” Aspettò qualche secondo ticchettando nervosamente l’indice contro il tavolo, poi sospirò. “Max, Daphne non è Daphne. E’ Nadja.”

 

Cosa?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kai non sapeva come comportarsi: solo ieri aveva passato una giornata splendida in compagnia della figlia, aveva creduto risolti tutti i problemi… Invece quel giorno lo convocavano a scuola di Nadja per discutere della media scesa in picchiata di quella che era stata la studentessa migliore di tutto l’istituto.

 

Sembra assente, non fa gli esercizi, non parla, risponde con poche parole, non studia…Non sappiamo a cosa sia dovuto, signor Hiwatari, e siamo preoccupati. Nadja era il gioiello della scuola. Avete per caso problemi in famiglia?

 

Non lo sapeva, se ce ne erano. Di certo il giorno prima aveva fatto lo sforzo di parlarle di sua madre, e ora veniva a scoprire che non era servito a nulla.

Bell’affare.

 

Come la doveva affrontare? A muso duro? Parlandole più dolcemente possibile? Quella ragazzina non la capiva, e più passava il tempo più non la capiva.

Questo fatto che stava diventando così vivace, così simile a Hilary non ci voleva… Non era facile già per la sola questione della somiglianza fisica con sua madre… Se poi le diventava pure simile caratterialmente era proprio una congiura.

 

E proprio perché non sapeva come comportarsi e perché si trattava di Nadja stava andando a chiedere consiglio a colei che, in questi anni l’aveva aiutato più di chiunque altri: Mao.

 

La donna si trovava nell’aula a lei assegnata, dalla vetrata poteva vedere che stava monitorando le ragazze dagli otto ai quindici anni, la fascia a lei assegnata; la richiamò con un cenno del capo e lei uscì subito dopo.

 

Kai, che succede?”

 

“La media di Nadja è colata a picco.” disse, senza mezzi termini. “Non so che fare.”

 

Mao sbatté gli occhi: se il russo le aveva parlato, mettendo da parte il suo orgoglio, la cosa era grossa. “Okay, tranquillo, le parlerò io.”

 

 

 

 

Rientrando dal giocare con Daisy, Nadja avvertì immediatamente l’atmosfera pesante in casa Mizuhara; doveva essere successo qualcosa di strano, perché Max e Maryam la stavano fissando come fosse un’aliena.

 

“Tutto bene? Non c’eravate, noi eravamo sul retro a giocare con Gold e-”

 

Gold ha acchiappato l’osso tuuuutte le volte!” gioì la bimba, sorridendo.

 

Max le accarezzò la testolina. “Daisy, perché non fai la bambina grande e vai a giocare di nuovo con lui? Noi dobbiamo parlare con Daphne.”

 

Ahia…

 

La bimba trotterellò verso il giardino, e Nadja fissò i coniugi con aria interrogativa, sentendo i battiti cardiaci aumentare. “C’è qualche problema?” balbettò, mordendosi le labbra.

 

Maryam la guardò dritta negli occhi. “Ieri sera hai dimenticato qui il cellulare. Ho risposto io ad una chiamata. Era Liz.” la ragazza non rispose, limitandosi ad ascoltare.

“Mi ha chiamata Nadja. Ha detto qualcosa riguardo al fatto che Daphne sarebbe in giro con suo padre per Mosca e ha detto di farti sentire con lei.” la ragazza sbiancò.

 

“C’è qualcosa che vuoi dirci?” la voce di Max era terribilmente seria, ma lo sguardo era incoraggiante.

 

Improvvisamente la ragazza sentì le ginocchia cederle, e fu solo per miracolo che trovò una sedia dietro di lei, perché lo stress di quei giorni si fece sentire, più forte che mai. “I-Io mi chiamo Nadezda Hiwatari. Ho incontrato Daphne a Parigi, abbiamo scoperto di essere gemelle e lì abbiamo deciso di scambiarci i ruoli, volevamo conoscere i rispettivi genitori. Ora Daphne è a Mosca, lei ci teneva tanto a conoscere mio padre… Che poi sarebbe anche il suo…” si perse nelle parole; all’improvviso un groppo le si strinse attorno alla gola, minacciando di soffocarla. Sentì delle lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò via: lei non piangeva mai.

 

Max e Maryam erano sconvolti: non avrebbero mai immaginato tanto, e soprattutto che quella fosse la versione.

 

“Ora che facciamo?” la donna guardò il biondo, che le aveva rivolto la domanda.

 

“Deve dirlo a Hilary. E’ una cosa assurda.”

 

Nadja si morse le labbra, prendendo il telefonino e componendo un sms: Daph, è il caso di far scoppiare la bomba in Russia. Qui mi hanno scoperto.

 

 

 

 

 

 

La ragazza, quando ricevette l’sms, fece tanto d’occhi.

 

Far scoppiare la bomba? E come? E dove? Con chi? Non sapeva nemmeno come iniziare, con chi parlare…

 

Prendendosi la testa tra le mani, Daphne maledisse se stessa e la sua curiosità quando aveva iniziato questo piano balordo. Però sapeva che c’erano dei rischi, ed effettivamente, il gioco valeva la candela.

 

“Si può?” quando udì bussare alla porta della sua stanza – o meglio, stanza di Nadja – sussultò. La voce era quella di Mao: chissà che cosa voleva.

 

“Certo, entra pure.” Nadja avrebbe detto che magari poteva far scoppiare la bomba con lei, ma non poteva mica presentarsi direttamente come Daphne Tachibana. Quella donna aveva un odio potente per sua madre.

 

“Ciao tesoro, posso parlarti?” lei annuì. “Ascolta, hanno chiamato dalla tua scuola. La tua media è un disastro, e… non è normale. C’è qualche problema? Qualcosa che vuoi dirmi?”

 

Ora o mai più.

 

 

 

 

Hilary bussò alla porta di casa Mizuhara, ma ad aprirle non fu un allegro Max o una dolce Maryam, ma una piccola Daisy che giocava con Gold nella hall della casa.

 

“Ehi, scricciolo, che ci fai qui?” la donna si chinò a scompigliarle i capelli, e la bimba rise.

 

“Mamma e papà parlano da tantissimiiiiissimo tempo con Daphy, e io sono qui.”

 

Hilary sbatté gli occhi, capendo che qualcosa non andava. “Okay, vado anche io, dolcezza.” quando si affacciò nel salotto, e tre teste si voltarono verso di lei, capì immediatamente che qualcosa di grosso doveva bollire in pentola, perché Daphne era pallida come mai l’aveva vista e i coniugi Mizuhara erano palesemente sconvolti.

“Okay: che sta succedendo?”

 

Max si alzò di scatto. “Siediti.”

 

“Mi spaventi così, però.” la donna ora si stava allarmando.

 

L’americano andò in cucina, dove estrasse del martini e dei bicchieri, e, mentre preparava i cocktail, guardò fisso l’amica. “Okay, sei seduta; ora bevi e ascolta tua figlia.”

 

Hilary si voltò di scatto. “Sei incinta?” Maryam ridacchiò, Nadja sorrise.

 

“No, non lo è. E ora lasciala parlare, non è una cosa semplice da dire. Tu sta zitta e bevi.” ordinò il biondo.

 

Hilary tracannò il bicchiere tutto d’un fiato, per poi strizzare gli occhi e fissare la ragazza, che la guardava con aria spaventata. “Mamma, io… Io non so che dire… Da dove cominciare…” respirò a fondo.

 

Max la guardò, dubbioso. “Vuoi del martini pure tu?”

Visto che in Russia sono tutti abituati a bere la vodka…

 

Nadja annuì subito, e sorseggiò il cocktail sotto gli occhi smarriti di sua madre.

“Io non sono Daphne. L’ho incontrata a Parigi, per caso, in un negozio, lì per lì credevamo che fosse un caso, come la cavolata dei sette gemelli sparsi per il mondo, ma confrontandoci abbiamo scoperto di… di essere gemelle. E’ stata lei ad avere l’idea di scambiarci. Io volevo conoscere te, lei voleva conoscere papà…” gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime.

“Volevo solo conoscerti, mamma…”

 

Hilary era intontita, come se qualcuno le avesse sbattuto la testa ripetutamente contro il muro. Era un altro dei suoi sogni, lo era sicuramente…

Ma quelle lacrime, il fatto che lei stava tremando… Non poteva non essere vero…

 

Nadja…” le uscì fuori dalle labbra come un sussurro, e la ragazza annuì; Hilary le si buttò addosso, abbracciandola di scatto e piangendo tutte le lacrime di quei quattordici anni.

 

Era sua figlia, l’altra parte di lei, e finalmente si erano ritrovate. Solo questo importava.

 

 

 

 

Mao era sconvolta: mentre la ragazza davanti a lei le aveva buttato in faccia la verità come se nulla fosse, aspettandosi da lei probabilmente qualcosa, lei era rimasta immobile, con una sensazione di vuoto dentro.

 

Quella era la figlia di Hilary? L’altra figlia di Hilary?  E Nadja era in Inghilterra?

 

“Io non mi sento troppo bene…” mormorò, portandosi una mano alla tempia.

 

La ragazza la guardò, corrucciando le sopracciglia. “Vuoi un’aspirina?”

 

“Voglio solo andare via.” disse velocemente, alzandosi e prendendo le sue cose.

 

Daphne storse la bocca. “Ehi, non puoi lasciarmi così: io ti ho confidato una cosa importante, ora devi darmi un consiglio.”

 

La donna si voltò verso la ragazza, gli occhi color miele che lampeggiavano. “Senti, ragazzina: non so cosa ci fai tu qui né cosa tu voglia, ma sarò ben chiara: fai tornare mia nipote.”

 

L’altra spalancò la bocca, indignata. “Come osi? Ti ho detto perché ho messo in piedi questa sceneggiata: per conoscere mio padre, visto che non mi veniva in mente altro modo. Non volevo ferire nessuno.”

 

Mao non represse un ghigno. “Certo: prima agisci e poi pensi. Come tua madre.”

 

Non osare parlare di mia madre in quel modo.” sibilò la ragazza, velenosa come un serpente. “Conosci solo un lato della storia e non la sua campana. Cos’è, sei brava solo a giudicare? Sai solo sputare sentenze?” Mao strinse i pugni.

“Adesso dirò a mio padre quello che ho detto a te, sperando che lui reagisca in maniera più matura di come hai fatto tu. Ma credimi, è stata una autentica delusione. Nadja ha sempre sostenuto che tu fossi la migliore zia del mondo, quella con cui ci si possa confidare, quella su cui si possa contare e invece…” non terminò la frase, fissandola dall’alto in basso.

“Una cosa è certa: se mia madre verrà a riprendermi, o se mio padre e io andremo in Inghilterra, tu e tutti i tuoi amici dovrete capire che non potete continuare a vivere così. Prima o poi il fantasma di mia madre va affrontato. Perché si, è come un’ombra. Come un fantasma. Se ci foste passati sopra tranquillamente non sarebbe l’innominabile Hilary, no?” concluse, inarcando le sopracciglia.

 

La ragazza andò al piano di sotto, lasciando la donna in camera sua, e facendo di tutto per non sbattere la porta. Era arrabbiatissima, aveva un diavolo per capello, e per di più la bomba era scoppiata solo a metà: doveva ancora parlare con la persona più importante in assoluto.

 

Nadja.” suo padre aggrottò le sopracciglia vedendola entrare nel suo studio così bruscamente, e Daphne sospirò.

Se doveva affrontare dei leoni, tanto valeva affrontarne due alla volta.

 

“Ho parlato con la zia e… Non è andata bene.” stava tremando, la rabbia di poco prima era ancora presente.

“Hai notato che sono cambiata, papà? Che sembro quasi un’altra persona? Beh, io sono un’altra persona. Io sono Daphne. Volevo tanto conoscerti, e Nadja voleva conoscere la mamma… Lei ora è a Londra, assieme a zio Max e zia Maryam… Ma io sono qui, con te… ” lo stress di due confessioni la sopraffece, facendole abbassare la testa e inumidire gli occhi.

“La zia poco fa è andata fuori di testa, mi ha praticamente detto che abbiamo fatto una cavolata… E’ stata un’idea mia, ma io volevo conoscerti… Di te avevo solo una foto, una stupida foto… E ora sei qui, sei davanti a me, papà… ” le sue labbra tremarono, e scosse la testa.

 

Kai si sentiva come rintronato. “Daphne.” disse soltanto: non poteva credere di avere davanti a sé l’altra figlia, quella di cui da anni aveva perso le tracce, invece era così, ed era dinnanzi a lui, ed aveva fatto carte false soltanto per vederlo… Kai si sentiva bene e male allo stesso tempo, era come se un turbine di emozioni lo stesse sopraffacendo, era come trovarsi in un frullatore.

 

La ragazza scoppiò a piangere, buttandosi tra le braccia del padre che, dopo un po’ di sorpresa, lentamente, ricambiò l’abbraccio.

Quella era sua figlia, l’altra sua figlia, quella che credeva persa per sempre.

Doveva essere un sogno. O forse qualcosa di meglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

Capitolo pesante?

 

ne sono successe di cose, mh? In effetti sono stata indecisa fino all’ultimo se dividerlo in due o meno, ma poi ho stabilito di no. I capitoli di RMA sono quindici e quindici devono essere. u___u

 

Allora, guys, ci avviciniamo al momento della verità: il prossimo capitolo si scopriranno tutti e dico tutti gli arcani. ù.ù Quindi restate sintonizzati se volete sapere, vi conviene. xD

 

Spero questo capitolo vi sia piaciuto e non sia risultato… Banale, o chessssoio. XD

 

Ditemelo voi. u.ù

 

Un bacione, alla prossima settimana,

 

Hiromi

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Capitolo 8
*** Ottavo Capitolo ***


I flashback in arancione sono dal POV di Hilary, quelli in blu… Beh… Indovinate di chi

I flashback in arancione sono dal POV di Hilary, quelli in blu… Beh… Indovinate di chi? xD (c’era mica bisogno di puntualizzazione? .-.)

 

 

 

 

 

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con uno sbuffo si alzò, stando attenta a non disturbare Max e Takao, che si stavano allenando, combattendo l’uno contro l’altro.

Quel giorno non riusciva proprio ad essere di compagnia: gli ex Blade Breakers erano approdati a Tokyo da tre giorni, e sin da allora a casa Kinomiya era stata gran festa, ma lei era sempre stata assente, sulle nuvole, poco presente…

 

Andando verso la cucina, si sedette sullo sgabello girevole, prendendosi la testa tra le mani. Aveva la testa tra le nuvole e una paura matta: da quando i suoi genitori erano morti, un anno prima, il suo futuro era rappresentato da  un’enorme incognita.

Era stato soltanto l’anno prima che era dovuta crescere di botto, maturare in un lampo, prendere decisioni che avevano contribuito a fare di lei la ragazza che era: non aveva potuto permettersi colpi di testa et similia, non ne aveva il tempo. Aveva diciotto anni, era orfana, e si sentiva molto più grande dei suoi coetanei.

 

Doveva essere passata all’esame. Doveva. Ad ogni costo.

Ma quel college era davvero tosto, e solo giorni prima aveva dovuto sostenere sei test, per la facoltà di giurisprudenza. E di cinquanta posti, gli aspiranti erano cinquecento.

Non ce l’avrebbe mai fatta…

 

“Tieni.” sobbalzò quando si vide allungare un cappuccino.

Alzando gli occhi, si accorse che Kai era lì, e chissà quando era entrato; con le sue movenze feline e acquattate, non si meravigliava di non averlo proprio sentito.

 

“Come sapevi che volevo un cappuccino?”

 

“Lo sapevo.” la risposta di lui giunse chiara e limpida, ma soprattutto, spontanea.

 

Non era possibile. Il cappuccino era la cosa che la faceva calmare in assoluto. Ma come…?

“Come lo sapevi?” insistette, corrucciando le sopracciglia.

 

Lui mantenne lo sguardo impenetrabile. “Lo sapevo e basta.” il tono era di chi non ammetteva repliche.

“Sei passata. Ne sono sicuro.” proferì, prima di lasciare la stanza.

 

E Hilary non seppe perché, ma sorrise.

 

 

 

 

Kai sospirò, passando oltre il dojo, laddove Takao e Karen stavano discutendo: incredibile che sua sorella non andasse d’accordo con il Giapponese, eppure era così. Sembravano litigare per qualsiasi cosa.

 

“…Secondo me non dovresti. Mi sa troppo di idiota.” era la voce di Mao: lei, Hilary ed Emily erano in giardino, e probabilmente stavano discutendo su qualcosa che riguardava la brunetta.

 

“Non lo so: è carino, simpatico, gentile…” la sua voce si disperse nell’aria.

 

Fu a questo punto che Emily inarcò un sopracciglio. “Ti piace?”

 

“No.” il ragazzo rilasciò il respiro: non si era nemmeno accorto di averlo trattenuto; ma era sempre così: quando c’era di mezzo la giapponese, erano dolori per lui. Erano anni che l’aveva stregato, anni che era suo schiavo, e anni che lei non se ne accorgeva.

Kai, tu che ne dici? Si può uscire con qualcuno che è abbastanza simpatico anche se non piace?” la ragazza si rivolse a lui, vedendolo appoggiato al muro di fronte.

 

Quando gli pose la domanda, le altre si schiaffarono una mano in fronte, sospirando.

 

“Solo se si mette bene in chiaro che non provi niente.” rispose a fatica, cercando di mostrarsi indifferente.

 

Hilary sembrò riflettere sulle parole, poi annuì. “Mia madre mi ha sempre insegnato che, forse è pazzo, forse non ha senso, ma solo guardando un ragazzo negli occhi, è lì, lo sai se è quello giusto.”

 

“Forse voleva dirti altro.” non poté esimersi dal dire. “Quando ci si innamora lo si fa gradualmente. La persona ti insegna tante cose, magari senza nemmeno saperlo…E ti accorgi che ti sei innamorato solo guardandolo negli occhi.” la ragazza annuì, facendogli intendere di aver capito e lui sospirò, andandosene.

 

Non sapeva quanto a lungo potesse sopportare il fatto che i suoi sentimenti fossero messi su un piatto d’argento e lei non li vedesse nemmeno, ma non importava. Non importava mai.

 

 

 

 

Quando si vide chiuso di scatto il suo libro di diritto privato, Hilary sobbalzò. “MaTakao!”

 

Il suo migliore amico era di fronte a lei, serio come poche volte lo era stato in vita sua. Quasi la spaventava. “Dobbiamo parlare. Di Kai.”

 

La ragazza roteò gli occhi. “Già. L’altro giorno Mao ed Emily sono impazzite. Dicevano che era innamorato di me.” quando lui non fece una piega, lei prese a sghignazzare. “Oh, ma dai!”

 

Hila, sono anni che quel povero diavolo ti viene dietro, e sono anni che ti ostini a spalmarti delle fette di prosciutto sugli occhi.”

 

Kai non è innamorato di me. Non può esserlo!” fece, testardamente.

 

“E perché no? Testona, non vedi che ti tratta come una dea?

 

La ragazza boccheggiò. “Ma lui… Deve stare con una vera e propria dea, non con me!” sbottò.

 

Takao mise le mani sulle spalle dell’amica, prendendo a fissarla negli occhi. “Allora, se non ti piace è un conto. Se pensi di non essere abbastanza è davvero un altro paio di maniche. Ti piace?” lei non rispose.

 

“Beh…” Hilary scosse la testa. “Senti, io l’ho sempre visto come un territorio off limits, uno a cui non dovevo nemmeno pensare!” qui rise, come se qualcosa la divertisse. “Quando a quattordici anni lo vidi la prima volta pensai: figo, ma sei senza speranze, Hil. Quindi via, fine. E’… E’ paradossale per me ora provare a vederlo in maniera romantica, capisci?

 

Il ragazzo sbuffò. “Che palle, quanto sei complicata.” cingendole le spalle con un braccio, appoggiò la testa su quella di lei, come a darle coraggio, dopodiché sospirò. “Facciamo un’altra cosa: provi dei sentimenti per me?”

 

“Amicizia” disse sicura la ragazza.

 

“Provi dei sentimenti per lui?”

 

“Non lo so…” rispose, palesemente confusa.

 

Takao, giulivo, le baciò la guancia. “Mi piace questo ‘non lo so’: lavoraci sopra.”

 

 

 

 

Eva Nasibova era alta, slanciata e palesemente bella, nonché la nuova fidanzata di Yuri.

Approdata a Tokyo, il suo amico russo gli aveva chiesto di ospitarla perché la ragazza, di qualche anno più grande, doveva laurearsi e scrivere una tesi sulla cultura Giapponese.

Da buona russa, Eva non parlava molto, aveva degli occhi di ghiaccio che parevano sondare ogni cosa: quando insieme si recarono a casa Kinomiya, per chiedere a Takao se vi era posto per lei o se la doveva ospitare a villa Hiwatari, al Giapponese cadde il cibo di mano quando la vide.

 

“Certo che c’è posto, figurati, Kai!” poi si presentò, fin troppo entusiasta, ad una Eva che rispose a monosillabi.

 

“Ti affascina la cultura Giapponese?” chiese Mao alla ragazza, che rispose con un breve si e niente di più.

 

Quando Hilary venne a trovare gli amici per la sua quotidiana visita a casa Kinomiya, Kai vide nei suoi occhi ciò che, negli ultimi anni, aveva sempre sperato di poter scorgere: smarrimento. Furia. Dolore. Rabbia. Gelosia.

 

Ma la russa giocò d’anticipo: “Mi chiamo Eva, tu conosci Yuri, no?” la ragazza era fin troppo furba; non voleva essere presa in antipatia e stupì la bruna. “Sono la sua ragazza.”

Infine gli occhi di Hilary si erano rasserenati.

Perché mai, però?

 

 

 

 

“Cosa ne pensi di Kai?”

 

Mao si fermò di scatto di fronte a Hilary, che le aveva posto la domanda con fare apparentemente innocente. “Che intendi?”

 

“Intendo…Tu credi che sia…Carino?”

 

La cinese scoppiò letteralmente a ridere. “Tesoro, tu sei fuori, lasciatelo dire.” vedendo lo sguardo demoralizzato dell’amica, però, divenne nuovamente seria. “Ehi, che hai?”

 

“Niente, è che… Siete voi, accidenti! Giorni fa non ci pensavo neppure, ora, invece, penso continuamente a lui, che sia carino, che abbia dei begli occhi, e…” arrossì.

 

Mao sospirò. “Okay, dov’è il problema? Emily si che ha un problema. Tu no.”

 

“Emily?” per un momento Hilary corrucciò le sopracciglia. “Ah, già.” fece poi, tristemente. “Non ha ancora fatto pace con Max?”

 

Mao scosse la testa. “Quei due si prendono e si lasciano troppo spesso, secondo me. E sono diversi in maniera…” arricciò il naso. “Non bella, ecco. Non si completano. Max è un bambinone, Emily gli fa più da madre. Non c’è quell’alchimia e quella carica sessuale che c’è tra te e Kai.”

 

Hilary arrossì violentemente. “Mao!”

 

“E’ vero, ecco perché hai la mia benedizione. Max ed Emily non so nemmeno come abbiano fatto a mettersi insieme. Per Emily ci vuole qualcuno che ami un po’ più la scienze e che tolleri tutta quella passione per la biologia. Per Max qualcuna che, in primis lo faccia maturare –  una che gli dia una svegliata – e poi una che condivida la passione per il bey e per i bambini: lui li adora ed Emily non ne vuole.”

 

Hilary alzò gli occhi al cielo. “Abbiamo diciotto anni e tu stai parlando come se si dovessero sposare domani!”

 

Mao la guardò di traverso. “Sono cose che pesano. Se tu sai che un ragazzo gioca con la playstation tutto il giorno, ti ci fidanzi?” l’altra scosse la testa. “Esatto, e nemmeno ti ci sposi. Mi pesa dirlo, voglio bene ad entrambi, ma non sono fatti per stare insieme.”

 

“Forse hai ragione tu.” sospirò Hilary, alzando gli occhi al cielo.

 

“Che hai intenzione di fare con Kai?” l’altra si morse le labbra, ma non rispose.

 

 

 

 

Richiamò a sé Dranzer: quella non era la migliore serata per dormire.

Era stata una giornataccia per tutti. Emily era partita per l’America, rompendo definitivamente con Max; l’americano era sparito da casa, e non c’era stato verso di far capire a Takao che era meglio lasciarlo da solo.

 

“Fa freddo, ti prenderai un malanno.” conosceva questa voce, la adorava…

                                                               

Inarcando un sopracciglio, si voltò. “Sono russo.” fece, con una frase che faceva capire molto.

 

Hilary sorrideva, avanzando avvolta in una giacca bianca; aveva i capelli legati in una morbida treccia che le addolciva il viso ma sembrava tremare un po’… Aveva le guancie come pomelli rossi. “Ah, lo so. Me lo ricordo.” quando lo raggiunse, gli dedicò un sorriso splendido. “E’ stata una giornata difficile, vero?” lui annuì. “Vorrei poter fare qualcosa, ma a volte è meglio che le persone le cose se le sbrighino da sole.”

 

“Già.” commentò lui, laconico.

 

“Ci sono cose che non sai come potrebbero andare, devi solo prendere coraggio e buttarti: se non lo fai potresti rimpiangerlo tutta una vita.” disse, e Kai si accorse che i suoi occhi brillavano in maniera intensa, e lei sembrava quasi emozionata.

Che intendeva dire, però, con quella frase?

“Mi piaci, mi piaci tanto, e me ne sono accorta da pochissimo.” gli buttò addosso.

“Okay, ora rimaniamo amici: buenos dias, hasta luego, chi si è visto si è visto, adios amigo, bye bye…” farneticò, andando via, salutando e quasi inciampando sui tacchi.

 

Kai era allibito.

Mai nessuno era riuscito a sconvolgerlo così: non sapeva per quale forza divina riuscì a raggiungerla e a farla fermare, ma, quando lo fece, poté specchiarsi nei suoi occhi, e allora, quando i suoi occhi viola poterono rivelare quanto in quegli anni avevano taciuto a lungo, poté finalmente poggiare le sue labbra su quelle della ragazza.

 

 

 

 

Quindi cosa ne pensi?” giornata di shopping con Mao e Karen; Hilary si era isolata dal gruppo per parlare al telefono.

Con Kai.

 

 “Che sono davvero sollevato che provi qualcosa.”

 

Lei ridacchiò. “Quindi ti va bene?” quello che era sottointeso era più che evidente.

 

“Assolutamente si.” qui Hilary si stuzzicò le labbra, facendo di tutto per non urlare di gioia. Si sentiva come piena di energia, come ricaricata dopo una dormita… Era questo l’amore?

 

“Confermo anch’io.” il tono di lei era più che entusiasta. “Ora devo andare: tua sorella e Mao mi stanno guardando male. A dopo.” Chiudendo la comunicazione, venne subito presa di mira dalle due ragazze, che subito la arpionarono a destra e a sinistra.

 

“Allora? Cos’è questo sorriso che fa il giro della faccia?” il tono di Mao era sospettoso.

 

“Sai cosa succede alle donne che volevano sapere troppo?” rispose la brunetta, ghignando.

 

“Poche storie, Tachibana.” la sorella del russo incrociò le braccia al petto. “Allora?”

 

“Niente di nuovo.” fece scrollando le spalle. “Solo… Sto attualmente con tuo fratello. Tutto qui.”

 

 

 

 

Non si trovava proprio bene in quella discoteca, tra la musica troppo alta e la folla per lui troppo chiassosa, ma star seduti tutti al tavolo nel privéé, aver vicino Hilary che, di tanto in tanto si voltava a guardarlo, gli occhi castani adoranti, valeva più di qualsiasi cosa.

Quando gli amici avevano saputo che stavano insieme, erano stati molto felici per loro, e i giorni erano praticamente volati: ora Luglio incombeva, con le sue giornate afose che a malapena sopportava, abituato al clima russo.

 

“Ragazze, ci facciamo un altro giro di cosmopolitan?” esclamò Karen, la cui voce sovrastò la musica del locale.

 

Kai inarcò un sopracciglio. “Tu hai già bevuto.”

 

“Io non devo guidare.” mugugnò la sorella. “Dai, ragazze, ordiniamo qualcos’altro?”

 

“Io prendo un Manhattan.” fece Mao. “E basta, però. Le serate pazze riserviamole a quando siamo tra noi.” fece, schiacciandole l’occhiolino.

 

“Io un sex on the beach.” Hilary scrollò le spalle.

 

“Attento, Kai, è un messaggio subliminale!” la frase di Takao fece scoppiare tutti a ridere, e la giapponese gli lanciò un tovagliolo.

 

“Ma quanto sei idiota?!” sbottò, leggermente rossa in volto; non poté dirgliene altre quattro poiché l’arrivo della cameriera glielo impedì. Una volta prese le ordinazioni, la ragazza si fece seria. “Max come mai non è venuto con noi?”

 

Rei scrollò le spalle. “Aveva da fare. Dice.”

 

Mao scosse la testa. “Nasconde qualcosa. Da quando è partita Emily è strano.”

 

Kai scrollò le spalle. “Quando avrà voglia di parlarne saremo qui.” subito dopo arrivarono i cocktail, che le ragazze trangugiarono ridacchiando: la conversazione si spostò sulle loro serate brave da quando erano approdate a Tokyo.

 

“Non sono mica tranquillo a lasciarti da sola in giro per la città.” fece Rei, rivolgendosi a Mao.

 

Lei rispose con un sorrisetto. “A tenerti compagnia c’è sempre Driger.” tutti scoppiarono a ridere.

 

“Voi che farete?” Takao si rivolse a Kai e Hilary. “Tra un mese tu parti, Kai, e Hila è appena entrata in quel college…

 

La ragazza accavallò le gambe. “Non che siano affari tuoi…” iniziò con una voce minacciosa. “Ma hanno inventato lettere, mail, treni, aerei e quant’altro. Sarà difficile, ma sono riuscita ad ottenere un posto lì e non vi voglio rinunciare. Per la specializzazione si vedrà…”

 

Mao rise. “Sono sicura che ti laureerai a tempo record. Ti sei già portata avanti con tre esami, durante questi mesi!” tutti sorrisero.

 

“Le tasse sono altissime: meno spendo, meglio è. Prima mi laureerò, e meglio sarà.” rispose, sospirando.

In quel momento quando, nella pista a fianco misero un lento, lei si alzò, con la scusa di andare a chiedere dell’acqua al bancone.

 

“Il discorso dell’università ti ha reso triste.” non si era accorta che Kai l’aveva seguita.

 

Hilary annuì: in quei giorni aveva scoperto come lui, in quegli anni l’aveva sempre osservata da lontano, e come la conoscesse alla perfezione. “Volevo confondermi un po’ tra le coppie e ballare… Lo faccio sempre quando non sono dell’umore.”

 

“Lo so.” Kai emise un sospiro, guardandola negli occhi. “Balliamo?”

 

La ragazza sgranò gli occhi. “Pensavo tu fossi negato: non è quello che hai sempre detto?”

 

Lui fece spallucce. “Sono un bugiardo mai redento.” Hilary rise, poi, allacciandogli le mani dietro il collo, si lasciò trasportare dalla musica e dalle sensazioni, abbandonandosi completamente.

 

 

 

 

Che Agosto incombesse, lo si notava in primis per l’abbigliamento delle persone, e poi per l’afa e il caldo che caratterizzava Tokyo in quel periodo.

Hilary, forse per la prima volta dopo la morte dei suoi genitori, era felice. Aveva un ragazzo meraviglioso, che ogni giorno conosceva un pizzico di più e si faceva amare maggiormente; era entrata nella tanto agognata facoltà di giurisprudenza del college che aveva la fama di essere il più complicato e duro della provincia, e aveva degli amici fantastici.

Ciò che la preoccupava un po’ era il fatto che, tra una ventina di giorni a quella parte, Kai sarebbe partito per la Russia, per andarsi ad allenare per il campionato che si sarebbe tenuto tra qualche mese, ma l’avrebbe rivisto. Lui le ripeteva sempre che, ora che si erano trovati, non l’avrebbe mai fatta andare via.

Aveva appuntamento al belvedere con il suo ragazzo, e puntuale come sempre, stava percorrendo la strada per arrivarci, quando una cosa catturò la sua attenzione. O, meglio, qualcuno.

 

“Max!” l’americano si trovava proprio appoggiato ad un muro, un’aria triste che non si addiceva al suo viso, e fissava Draciel, malinconico.

 

“Hilary.” parve improvvisamente riscuotersi quando vide l’amica.

 

“Ehi, sono giorni che non ti vedo.” sapeva di avere usato un tono da mammina, ma era preoccupata, e tanto: in quel periodo il Max che aveva imparato a conoscere era stato rimpiazzato da un ragazzo malinconico, schivo, irritabile, tutto il contrario da quello che era sempre stato.

Una domanda aveva assillato tutti: perché? Possibile che tutto ciò fosse dovuto alla sola crisi con Emily? Domanda che non aveva trovato risposta…

 

“Io non ce la faccio più.” sputò fuori il biondo, prendendosi la testa tra le mani. “E’ troppo…”

 

“Se mi dici cosa succede, forse posso provare ad aiutarti.”

 

Max la guardò dritto negli occhi, e in quell’azzurro arse una disperazione che Hilary non pensava di poter mai leggere negli occhi dell’Americano. “Sono stato io a lasciare Emily: non l’amavo, e… mi sono innamorato di un’altra. Un’altra che non so se con me sta giocando.

 

La ragazza rimase a dir poco intontita dalle rivelazioni. “Okay, puoi procedere per gradi?”

 

“Ti ricordi Maryam? La ragazza degli scudi sacri? E’ lei.” Hilary era parecchio sorpresa. “Non la vedevo da anni, e l’ho incontrata in un pub, per caso. Con Emily le cose andavano male, e…” sorrise. “All’inizio tutto ciò che vidi fu una schiena bianca: aveva i capelli legati in uno chignon, un abito da sera, ma mi colpì la sua schiena. Quando si girò, e vidi i suoi occhi verdi, capii che ero fritto, colpito, non c’ero più. Venne da me e chiese se mi ricordassi di lei. Da lì abbiamo iniziato a frequentarci, per lei ho lasciato Emily, ho trascurato voi, e me ne rammarico, ma ho perso la testa… E lei continua ad essere come diffidente… Non so che vuole, cosa vuole.”

 

Lei mugugnò. “Hai provato a parlarle?”

 

Max scosse la testa. “No, non è che parliamo tanto…”

 

La ragazza arrossì. “Ho capito, risparmiati i dettagli. Senti, tu cos’è che vorresti?”

 

“Una relazione. Voglio che sia la mia fidanzata.”

 

“Bene, tesoro. Diglielo: che io sappia non può leggerti il pensiero.

 

“Se non volesse? Se mi ridesse in faccia? E’ così bella e… misteriosa. Non capisco mai cosa le passi per la testa.”

 

Hilary ricordava Maryam Kinomoto all’età di quindici anni, ed era già una ragazza che pareva fatta per stare sulle copertine di Vogue e Playboy: ora, che doveva avere diciotto o diciannove anni, doveva esser diventata ancora più bella.

“Non lo puoi sapere. Diglielo e basta: non vivere con il rimpianto. Se non glielo dici ti uccido, e ti faccio mangiare da Takao.”

 

L’americano rise. “Va bene, Hil: ti ringrazio, sei una vera amica.”

 

 

Quando la ragazza si presentò al belvedere con tre quarti d’ora di ritardo, trovò Kai intento ad allenarsi con Dranzer: anche sotto la luce del tramonto, era pur sempre bello, bellissimo. Come diamine aveva fatto a vederlo in maniera praticamente asessuata?

 

“Scusa, ho incontrato una persona.” fece, abbracciandolo.

 

“Sono stato in pensiero.” borbottò lui.

 

Lei sorrise. “Dai brontolo, adesso mi faccio perdonare. Coccole?” e, malgrado tutto, Kai sorrise: Hilary lo sapeva; lei riusciva sempre a farlo sorridere.

 

 

 

 

“Ci avevo visto giusto.”

Eva spense la sigaretta con noncuranza, scrollando le spalle; Kai, da pochi giorni a Mosca, aveva appena ammesso di essersi fidanzato. Da quando era tornato i suoi amici russi lo vedevano con una strana luce negli occhi, meno irritabile, meno lunatico, ed era stata la fidanzata del capitano della squadra, durante una pausa, a chiedere se per caso c’entrasse una ragazza.

 

Cosa intendi dire?” Yuri guardò la sua fidanzata aggrottando le sopracciglia.

 

“Che nelle due settimane in cui sono stata a Tokyo c’era una brunetta che, se avesse potuto, mi avrebbe strangolata.” fece, ghignando. “Fino a quando non ha saputo che ero già impegnata.”

 

Kaiuccio è diventato grande!” Boris incrociò le braccia al petto, facendo sogghignare tutti.

 

Il diretto interessato iniziò pericolosamente il sopracciglio. “Tra pochi giorni inizia il campionato.” non disse altro, ma era un chiaro avvertimento a non metterlo in imbarazzo.

 

 

 

 

“Quattro esami?” forse il russo si era arrabbiato.

Arrivati a Yuma, la città della California dove si sarebbe tenuto il campionato, Hilary e Kai avevano deciso di fare una passeggiata: avevano due mesi di tempo da recuperare. Era vero, si erano visti in Arizona, ma di fretta e furia.

Certo, se Kai la smetteva di guardarla male forse avrebbe smesso di intimidirsi.

Sapeva perché si era arrabbiato: okay, era dimagrita parecchio, e aveva delle occhiaie da paura, ma il college era pesante, e lei stava sostenendo ritmi paradossali, senza contare che solo quel mese aveva dato quattro esami, cosa che nessuno aveva mai pensato di fare.

 

“Mi voglio laureare nel più breve tempo possibile. Ho una memoria di ferro, la voglio sfruttare. Che male c’è?”

 

“Ti ammalerai.” fece severo lui.

 

“Non accadrà, te lo giuro.” fece, in tono sicuro; quando però vide che, con quegli occhi viola che amava tanto, lui non mollava, Hilary sospirò. “Time out. Facciamo un patto. Il campionato dura sei mesi, no? Non posso, non posso proprio perdere tutto questo tempo a non far nulla. Facciamo che per quindici giorni non tocco libro, okay?

 

Lui inarcò un sopracciglio. “Un mese.” la ragazza spalancò la bocca. “E i libri li terrò io. Tutti.”

 

“Sei uno stronzo!” sbottò.

 

“Ancora una parola e i mesi diventano due.” fece, voltandosi e riprendendo a camminare.

 

Lei si morse le labbra, non sapendo se urlare o ridere e coprirlo di baci. “Okay, brontolo, hai vinto. Un mese. Ma dopo questo torno a dare esami.”

 

“E come faresti, scusa?”

 

“Si può, per gli studenti che hanno una situazione familiare complicata. Basta collegarsi online e sostenere l’esame via webcam.” lui roteò gli occhi.“Che hai? Non vedi che ho pensato a tutto?”

 

“Mi mandi al manicomio.”

 

“Oh, si. Ma a te piace.” ribatté lei con un sorriso malizioso.

 

 

 

 

Kai si sistemò la cravatta ancora una volta: non capiva un tubo di quello che la sua ragazza stava dicendo ma, a giudicare dagli sguardi estasiati dei professori, che la ascoltavano come se dalle sue labbra sgorgasse oro colato, doveva andare benissimo.

Alla fine ce l’aveva fatta: Hilary era una piccola furia, e quando si metteva in testa una cosa, apriti cielo: si stava laureando a vent’anni appena compiuti, un anno prima del normale. A furia di dare esami come se piovesse, ce l’aveva fatta.

Quel giorno erano tutti lì per lei, in quel college che tanto sapeva di antico e tradizionalista. Mao era corsa letteralmente a venire a vedere la sua migliore amica laurearsi, Rei l’aveva seguita, c’erano Takao e Karen, che da quando si erano fidanzati non si mollavano un secondo, e anche Max e Maryam, che stavano insieme dalla fine dell’ultimo campionato.

E infine lui: il fidanzato orgoglioso, per usare un eufemismo.

Quando i professori applaudirono, fu il primo a scattare in piedi, seguito dagli altri.

I suoi occhi si persero in quelli di Hilary, e si sorrisero.

 

Quando un’ora più tardi, si ritrovarono al ristorante per festeggiare la ragazza, Takao era già partito in quarta per mangiare a sbafo.

 

“Ho visto il tuo cenno di diniego ai professori. Cos’era?” quando Kai glielo domandò, Hilary sorrise, raggiante.

 

“Mi hanno chiesto se avessi intenzione di iniziare qui il master. Ho detto di no.” Kai sentì un sorriso farsi largo sulle sue labbra. “A Mosca c’è un’ottima università…Se qualcuno mi ospita, potrei frequentarla.” e quella fu la prima volta che il ragazzo la baciò davanti a tutti, senza curarsi di nessuno, troppo felice per pensare.

 

 

 

 

 

 

Hilary imprecò, camminando per le strade di Mosca con un violento mal di testa che non le fece vedere neanche dove metteva i piedi.

Era da pochi giorni prima della laurea che era ridotta in quel modo, ed effettivamente poteva essere lo stress, visto che si era strapazzata come mai in vita sua, prendendo caffeina a mai finire e non dormendo anche per tre giorni di seguito, pur di essere perfetta quel gran giorno, ma ora quei sintomi persistevano.

 

Secondo Mao il suo fisico stava protestando vivacemente per gli sforzi subiti e le aveva raccomandato riposo assoluto. Erano passati due mesi e mezzo dalla laurea, mesi in cui non aveva fatto niente, ma quei sintomi persistevano.

E se si era ammalata sul serio?

Scosse la testa, non volendoci nemmeno pensare. Doveva uscire.

 

Facile a dirlo, con una testa che pulsava e un senso di nausea perenne. Quel giorno, poi, si sentiva peggio del solito… Era debole, fiacca…

E fu ad un certo punto, che,  mentre lo pensava, vide solo l’insegna di una farmacia, poi più nulla.

 

 

Quando si svegliò, la prima cosa che vide fu la luce insistente di una lampada, e il lettino di un pronto soccorso.

 

“Signorina, tutto bene?” il dottore che le andò incontro le parlò in russo, che lei ancora non masticava molto bene.

 

Si.” rispose debolmente, tentando di mettere a fuoco la stanza. “Sono svenuta… Non mi era mai successo.” le uscì un tono di voce basso e spaventato, mentre si guardava intorno, alla ricerca di un qualcosa di familiare, che non trovò: ogni cosa, in quella stanza, le sembrò anonima, grigia, e contribuì soltanto a farle salire quel senso di nausea che premeva dallo stomaco contro la gola.

 

“Forse è meglio che stia a casa in questi giorni… C’è troppo freddo per la sua condizione.”

 

Hilary sgranò gli occhi. “Perché?Cos’ho?”

 

“Signorina, lei è incinta. Non lo sapeva?”

 

 

 

 

Kai riprese Dranzer al volo, smettendo di allenarsi; ora sarebbe stato il turno di Yuri e Boris, e forse era anche meglio, visto che non era nemmeno tanto concentrato.

Era preoccupato: Hilary era uno straccio, non stava tanto bene, parlando in termini di salute, e questa cosa gli dava dei grattacapi.

 

“Ehi, Kai, ti sei allenato bene.” si voltò brevemente per incontrare gli occhi azzurri di Cindy, la loro nuova manager.

 

Annuì brevemente, per poi concentrarsi nuovamente sui suoi pensieri: cosa poteva avere Hilary? Che fosse malata? O che il suo fisico ne avesse risentito, di tutto quello studio?

 

Quando l’ascensore si aprì, rivelando proprio l’oggetto dei suoi pensieri, sgranò gli occhi: la sua ragazza era lì, pallida come da settimane a quella parte, e con un’aria di una che ha appena ricevuto una botta in testa.

 

“Ehi.” fece, andandole incontro.

Solitamente non veniva mai a trovarlo alla sede della palestra, aspettava semplicemente tornasse a casa, quindi quella visita lo allarmava non poco.

 

“Ti devo parlare.” fece lei, tutto d’un fiato. I suoi occhi erano lucidi, come se da un momento all’altro stesse per scoppiare in lacrime.

 

Kai la condusse in un corridoio più appartato, pronto ad ascoltarla; lei, però, si tormentava le mani, sembrava tremare, come quel giorno di due anni prima in cui gli rivelò i suoi sentimenti.

 

“Hilary.” il suo richiamo era pieno di sottointesi: lo sapeva che non doveva avere paura, che poteva dirgli tutto, che insieme avrebbero superato qualsiasi cosa.

 

“E’ successa una cosa, e non so come prenderla.” iniziò, balbettando. “Siamo giovani, e… è collegata alla mia salute.”

 

Lui sgranò gli occhi. “Sei malata?” chiese, prendendola per le spalle.

 

Lei scosse la testa, tirando su con il naso. “No… Sono incinta.”

 

Il russo sgranò gli occhi, sentendosi quasi le orecchie fischiare. Non era possibile… Lei… “Ridillo.” prima che potesse riflettere, un sorriso si insinuò con prepotenza sulle sue labbra. “Ridillo.” fece, prendendola tra le braccia e baciandola.

 

Hilary sorrise, lasciando lacrime di gioia libere di scorrere. “Sono incinta… Aspetto un bambino.”

 

 

 

 

“Sono due gemelline!” esordì la ginecologa, sorridendo.

 

La ragazza tirò su col naso: era diventata parecchio più emotiva, il che non era un bene. Detestava esserlo. “Circondato da donne…” fece, all’indirizzo del suo lui che, a sua volta, le strinse la mano.

 

Kai non poté riuscire a staccare gli occhi dal monitor, laddove facevano capolino le sagome di due testoline: sembrava che da mesi - da due, esattamente da quando gli aveva annunciato la notizia, non fosse in grado di fare altro.

 

Incinta da quattro mesi e mezzo, il pancione di Hilary ne dimostrava sei. Lei diceva di sentirsi una balena, e con la gravidanza era un po’ cambiata: piangeva molto di più, mangiava a raffica, si arrabbiava per un nonnulla, impazziva per niente…E questa cosa sembrava non viverla tanto bene, ma si sforzava di contenerla.

In quei mesi, d’altro canto, il russo era stato felicissimo. Avrebbe voluto essere più vicino alla sua fidanzata che, poverina, di tanto in tanto, si ritrovava a star da sola, ma i suoi impegni di blader non glielo permettevano.

 

 

Usciti dallo studio, fu una sorpresa, per loro, incontrare Cindy, la manager della Neoborg: la bionda Americana trapiantata in Russia sembrava, secondo Hilary, avere un interesse più che esplicito per Kai, ma lui pareva non essersene accorto.

 

“Ehi, ciao!” esclamò, giuliva. “Hilary…” fece, squadrando con disapprovazione il suo pancione: la brunetta si sentì ancora più grassa.

Kai, domani sera ricordati quel giro promozionale per Mosca e San Pietroburgo. Alle sei, eh.” Tipico: organizzava cose in cui lei non avrebbe potuto essere presente.

Kai annuì brevemente, poi si salutarono, ma a Hilary non sfuggì lo sguardo malizioso della bionda mentre squadrava il ragazzo.

 

“Quella ti vuole saltare addosso.” sbottò.

 

“Non credo.” disse lui. “E non mi interessa.”

 

“Non ti lamentare se un giorno ti ritroverai a soddisfare le sue voglie carnali.” lui sorrise.

 

 

 

 

 

“Dovresti firmare questo.” Cindy, sorrise smielatamente, mettendogli davanti foglio e tette contemporaneamente. Era vestita, come al solito, con un paio di jeans attillati e con un top rosso che mostrava il decolleté più che abbondante.

 

Kai si trattenne dallo sbuffare, e firmò velocemente il documento, per poi tornare in campo.

 

“Aspetta un attimo.” lo fermò, con un sorriso fintamente imbarazzato stampato sul volto. “E’ che il mio ragazzo ieri mi ha lasciata e… Ho due biglietti per il concerto dei Muse. So che sono il tuo gruppo preferito, potremmo andare.

 

Lui inarcò un sopracciglio. “Ti ringrazio, ma sono impegnato. In tutti i sensi.” quella ragazza aveva un a gran faccia tosta: ora aveva avuto la prova che Hilary aveva ragione, e che aveva aspettato che fosse incinta di otto mesi per farsi avanti. Che tipo.

 

 

 

 

 

Hilary sorrise all’ennesimo complimento da parte di Mao di quanto le sue gemelle fossero belle: sentiva una strana inquietudine che, da due giorni a quella parte, ossia da quando aveva partorito, si stava facendo largo in lei.

Si sentiva come svogliata, guardava le gemelle e l’unica cosa che provava era incapacità e impotenza di fronte a quelle due scricciole. E piangeva. Piangeva sempre.

 

“E come mai l’avete chiamata Daphne?” stava chiedendo Mao, cullando la piccola, mentre Karen giocava con Nadja.

 

Hilary si asciugò il naso. “E’ il mio nome preferito: poi quando ero piccola giocavo sempre con mia madre ad avere una sorellina di nome Daphne.” scrollò le spalle, singhiozzando. “Scusate, gli ormoni…” balbettò.

 

Karen si scambiò uno sguardo con Mao. “Dai, cognatina, tranquilla! Sai che ti assomigliano proprio? Ma hanno occhi uguali ai miei. O a quelli di Kai.” rise.

 

“E come mai l’avete chiamata Nadezda?” la cinese storse il naso. “Non mi piace, è brutto.”

 

“La madre di Kai si chiamava così, e abbreviato è Nadja…” spiegò, soffiandosi il naso.

 

“Si può?” fu in quel momento che una testa bionda ossigenata fece capolino, in tutto in suo fisico scolpito: Cindy. “Volevo solo farti gli auguri a nome della Neoborg. Oh, ma che belle pupette!” cinguettò, leziosamente. “Sarai distrutta, tesoro…” sbatté gli occhi, un sorriso falsissimo a condire il tutto. “Volevo solo dirti che stasera Kai non ci sarà: si ferma ad allenarsi… Auguri ancora.”

 

Ma chi è questa puttana?” non appena la porta si chiuse, il ringhio di Mao diede voce ai pensieri di tutte: per tutta risposta Hilary scoppiò a piangere.

 

 

 

 

 

 

 

La cosa che attirò l’attenzione di Kai fu un anello: e quando lo vide improvvisamente il suo pensiero andò alla donna che amava, a come le sarebbe stato bene al dito.

Sorrise di questi pensieri, ma non se ne stupì. Era pazzamente, follemente, assolutamente innamorato di Hilary Tachibana, e quel gesto che stava per compiere era fatto con assoluta spontaneità e coscienza.

 

Fu quindi con molta genuinità e spontaneità che entrò nella gioielleria, sapendo già cosa voleva e immaginando il tutto.

Gliel’avrebbe dato anche tra qualche mese: non voleva che quella testona pensasse che voleva sposarla perché era divenuta la madre delle sue bambine. Erano altri, i motivi.

 

“Siamo di buonumore.”

 

Alzò gli occhi al cielo, improvvisamente irritato. “Cindy.”

 

“Fatto spese?” chiese, sbirciando il sacchettino rigido che recava la scritta della gioielleria; non rispondendogli, Kai le fece capire di non impicciarsi.  “Va bene, ti saluto…”

 

Quella ragazza era solo un impiccio: fosse per lui avrebbe cambiato manager volentieri, ma gli altri si trovavano bene, dicendo che era efficiente ed organizzata, e la democrazia era la democrazia, ma ultimamente quella ragazza stava superando tutti i limiti, tentando di flirtare ogni due per tre.

 

 

 

 

 

Erano passati due mesi da quando erano nate le gemelle, e bum: sembrava qualcuno le avesse fatto il malocchio, perché non ricordava di essere mai stata così male.

Piangeva sempre, e l’aiuto della tata talvolta non era neanche sufficiente. Fare la madre era dura, durissima, e lei si sentiva così inadeguata, così inutile…Se la cavava meglio Madga, la bambinaia, che lei, e dire che era la loro mamma, avrebbe dovuto calmarle… Invece con lei piangevano solo di più.

Kai era sempre ad allenarsi, sempre in palestra, sempre con quella smorfiosa di Cindy: ogni volta che li vedeva stavano chiacchierando, e se sopraggiungeva Cindy andava via come se avesse interrotto qualcosa.

 

Si sentiva sola.

Aveva abbandonato gli studi, in quel frangente era impossibile studiare per il master: avrebbe tanto voluto divenire un avvocato, ma come faceva con due gemelle di due mesi che piangevano in continuazione? Daphne piangeva sempre e spesso, e quando dormiva era Nadja a reclamare la sua parte di attenzioni.

 

Hilary avrebbe voluto esplodere, stare qualche giorno senza di loro, ma il solo formulare quel pensiero la faceva sentire una madre snaturata, non degna di questo appellativo.

 

Ciò che un tempo era la sua unica consolazione – gli amici – sembrava averla dimenticata: Takao e Karen erano appena partiti per un viaggio on the road per l’America, di cui lei aveva già ricevuto due cartoline; Mao stava studiando per l’università a Pechino con Rei… Max e Maryam si erano trasferiti da pochissimo a Londra: aveva ricevuto una lettera da parte loro quand’erano nate le gemelle in cui la invitavano, quando volesse, ad andarli a trovare.

Londra… Lei era sempre voluta andare a Londra.

Invece ora stava iniziando ad odiare Mosca. Mosca e tutto quello che rappresentava.

 

Quando Daphne scoppiò a piangere per l’ennesima volta, Hilary singhiozzò, coprendosi la bocca con la mano. “Che cosa vuoi?” balbettò. “Che cosa vuoi da me?”

 

 

 

Kai si era accorto che l’aria di casa era divenuta irrespirabile: Hilary non stava più bene con se stessa, ma lo attribuiva ad un semplice affaticamento dovuto allo star dietro a due gemelle contemporaneamente.

In quel periodo forse avrebbe dovuto stare di più con loro, ma si stava organizzando per portare avanti un progetto che, da sempre, lo aveva affascinato: aprire una scuola di bey a Mosca.

Non ne esistevano, il beyblade si imparava nelle strade, e sarebbe stata una specie di palestra. Era per quello che, in quei giorni era così occupato: tra andare al comune per far approvare il progetto e vedere quale struttura sarebbe stata la più consona a quello che aveva in mente, stava a casa pochissimo.

 

Kai, sono arrivati i documenti di delibera per la scuola!” gli annunciò Cindy, porgendogli una busta gialla. Lui la esaminò attentamente, prima di aprirla. “Oh, prima ha telefonato Hilary…Sembrava non stesse tanto bene, forse piangeva. Ha detto che una delle gemelle ha preso il morbillo e non sarà a casa.” lui annuì. “Le cose non vanno bene a casa?”

 

“Due gemelle sono faticose.” disse soltanto, prima di lanciarsi a leggere il documento.

 

Cindy sembrò non voler mollare la presa. “Capisco, ma se fossi in lei spetterei di frignare, mi metterei a dieta e mollerei le bambine a una babysitter. L’ultima volta che ho visto Hilary era una mongolfiera.

 

Kai serrò la mascella, andandosene, praticamente, e lasciando la biondina con uno sguardo infastidito.

 

 

 

“Perché non mi accompagni?” fu una frase buttata lì innocentemente, ma servì a far scoppiare la brunetta in lacrime. Di nuovo.

 

“Oh, certo.” sbottò, singhiozzando. “E che mi metto? Tu vai in smoking, e io? L’unica cosa che mi viene è il tappeto rosso, forse.” alzando gli occhi al cielo per tentare di fermare le lacrime, Hilary non smise di singhiozzare. “Chiedi a Cindy, lei sarà molto contenta di accompagnarti.”

 

Kai si infuriò. “Che c’entra lei? Sei tu la mia compagna! Smettila con questa assurda gelosia.”

 

“Il mio sesto senso non sbaglia, e per ora dice solo: attenzione a quella biondina rompipalle.”

 

“Io non conto niente? O nella mia posizione subisco e basta?” Hilary roteò gli occhi. “Ti ringrazio per la fiducia.”

 

“Per favore: passi tutta la giornata con lei, che è bella, slanciata, zuccherosa…Poi ci sono io che sono tutto il contrario-

 

Kai la freddò con lo sguardo. “Quando sei tornata in te chiamami.” quando sbatté la porta, Nadja si svegliò, piangendo, e Hilary tirò su con il naso.

Voleva fuggire. Fuggire e basta.

 

 

 

“Ehi, come mai da solo stasera?” Cindy era elegantissima nel suo abito rosa che lasciava poco all’immaginazione.

 

Kai sorseggiò l’ennesimo bicchiere di vodka, poi la guardò. “Due gemelle sono impegnative.” ripeté, e il suo tono era laconico.

Quella era una frase che diceva in continuazione, a chiunque chiedesse come mai la sua compagna non fosse con lui o perché mai in un determinato momento lei piangesse.

Solitamente non gli dispiaceva zittire la gente con quelle poche parole: quella sera, però, con tutto quell’alcool in corpo, e dopo quell’ennesimo litigio, quel discorso sembrò fuori luogo, obsoleto, come passato di moda, e non fu l’unico a notarlo.

 

Cindy sprizzò felicità da tutti i pori. “Sei un po’ giù o sbaglio? Hilary forse si dedica troppo alle gemelle…” fece, prendendolo a braccetto e portandolo fuori dalla festa, in giardino. “Se io fossi la tua ragazza, Kai, non sarei così.” disse, sicura, sporgendosi un po’ più verso di lui per baciarlo.

 

Forse fu per la quantità d’alcool ingerita. Forse fu per la tristezza. Ma non la respinse, e probabilmente si ritrovò pure a ricambiare il bacio.

 

Non si accorsero però di una persona che, per l’occasione si era vestita di tutto punto e che, vedendoli, si maledisse amaramente, e andò via.

 

 

 

Passaporto. Carta d’identità. Patente. Via quel ridicolo abito da sera.

Vestita con dei semplici jeans e un maglione grigio, Hilary non smetteva di piangere mentre, di fronte a lei, le sue bambine la fissavano, curiose, come a chiederle silenziosamente cosa fosse successo.

Kai l’aveva tradita dopo due anni e mezzo d’amore. Dopo che era diventato padre da sei mesi.

Bastardo.

 

Non smettendo di piangere, finì finalmente di fare la valigia: in realtà era già pronta da un pezzo, perché un giorno, mesi prima, in un lampo di depressione, per sentirsi meglio l’aveva preparata fingendo di dover partire. Non poteva sapere che le sarebbe servita sul serio e definitivamente.

Il taxi sarebbe stato lì da un momento all’altro, portando lei e le bambine all’aeroporto. Non sapeva ancora dove andare, ma avrebbe deciso sul momento.

 

“Che fai?!” il suono di quella voce tanto amata fu per lei come il rumore di unghie sulla lavagna: insopportabile e fastidioso.

 

“Me ne vado.” ringhiò, la determinazione e la furia nei suoi occhi. “Ti lascio libero. Libero di vivere con chi vuoi. Di farti chi vuoi. Io sono stufa.” disse, ad un passo dal piangere.

 

Ma che cosa…?”

 

“Basta, Kai!” il proposito di rimanere calma andò a farsi benedire quando scorse un lampo di rabbia negli occhi di lui: l’unica che doveva permettersi di essere furibonda, lì, era lei. Lei e nessun altro. “Non può continuare! Io mi sto annullando per te, e tu invece continui così come se nulla fosse! La persona più importante della mia vita sono io! Devo pensare a me, diventare chi voglio essere, costruirmi una carriera…E non posso farlo con te accanto.” disse, guardandolo negli occhi, risoluta. “Sei una persona ingombrante.”

 

“E tu una dannata egoista.” la voce di lui si fece  metallica, gli occhi viola che tante volte l’avevano guardata con amore, dolcezza ed affetto si strinsero a due fessure, squadrandola con astio.

 

“Io sarò pure egoista, ma tu non sei fatto per la vita di coppia, ergo, lo sei pure tu. Cos’hai cambiato per noi? Cosa? Niente! Ero io che badavo a Daphne e Nadja, io che ventiquattro ore su ventiquattro c’ero per loro! Tu eri tutto casa e palestra! Come sempre. No, Kai. Io detesto venire per seconda, e se devo cambiare pretendo che il mio partner faccia altrettanto!” urlò, e si scacciò le lacrime dagli occhi, infilando i documenti nella borsa.

“Abbiamo sbagliato ad inseguire il sogno di un amore perfetto. Siamo solo troppo giovani.” il tono usato dalla ragazza per quest’ultima frase fu freddo e pungente, e ad occhi esterni se poteva sembrare che avesse la situazione sotto controllo, in realtà Hilary continuava ad essere  fuori di sé.

 

“E le bambine?” il tono usato da lui fu sarcastico, come se lei fosse talmente stupida da non averle neanche calcolate. “Nemmeno ci pensi?”

 

Fu la cosa che fece esplodere il vaso, non traboccare.

Hilary gli tirò addosso il primo oggetto che trovò a portata di mano, e poco le importò delle lacrime che le scorrevano sulle guancie.

“Sei un idiota, Hiwatari! Sei un padre egoista, e pensi a corteggiare le americane piuttosto che aiutare la madre delle tue figlie!” urlò, aprendo la porta e trovandovi parcheggiato davanti il taxi che aveva chiamato.

 

Daphne scoppiò a piangere, e Hilary, le lacrime che le appannavano gli occhi, la prese senza pensarci, infilandosi rapidamente sulla vettura.

 

Non sarebbe tornata da lui mai, mai più.

 

 

 

 

Kai si sedette sulla sedia, di botto, lo sguardo vitreo. Se ne era andata; era uscita dalla sua vita.

 

Da quando aveva conosciuto Hilary, anni prima, in Giappone, aveva subito capito che quella ragazza era diversa da tutte le altre persone che aveva conosciuto fino ad allora. Infatti, piano piano, con dolcezza, ma al contempo irruenza, vitalità, passionalità, e tante, tante risate, quella ragazza si era insinuata nel suo cuore, portandolo a provare sentimenti e sensazioni che mai, mai avrebbe pensato di poter sentire.

Quando quella sera d’estate gli si era dichiarata, aveva assaporato cosa voleva effettivamente dire essere felice, e da allora era incominciata la loro storia non più come amici, ma come fidanzati.

 

Non avrebbe mai immaginato che, un giorno, lei potesse effettivamente uscire dalla sua vita. E dire che lo sapeva bene che il‘per sempre’ non esisteva. Peccato che si sentisse come se una mano gli avesse strappato il cuore.

 

 

Fu un gorgheggio a richiamare la sua attenzione: era lì, era ancora lì. Una delle gemelline lo fissava, un sorriso sul visino paffuto e gli occhioni viola che solcavano la stanza, come a domandarsi perché qualcuno non si occupava di lei.

Nadja stava di fronte a lui, lo sguardo sereno e l’aria di chi non si è accorta di nulla.

 

Quando rispose al telefono come in trance, fu investito da una raffica di parole. “Kai, sono Mao: sono mesi che non sento Hilary, come sta? E le gemelline? Tutto bene?” 

 

“Hilary…Se ne è andata.”

 

“Come hai detto?”

 

“Mi ha lasciato. Poco fa. E’ scappata.”

 

Una lunga pausa seguì la frase del russo: era come se fosse caduta la linea. Quando Mao parlò, la sua voce era ridotta ad un sussurro strozzato.“M-Ma perché?”

 

“Non le andava più bene questa vita e diceva che abbiamo fatto uno sbaglio.”

 

 

 

 

 

La più grande umiliazione fu piangere davanti al tassista quando, una volta atterrati a Londra, le chiese dove dovesse andare.

 

“Non lo so.” balbettò, tremando. “Io non lo so.” per quanto ci provasse, non riusciva a smettere di piangere e la cosa, oltre ad infastidirla, la faceva solo stare peggio: stava piangendo molto più in quel periodo che in tutta una vita.

 

“Vuole che le indichi  un buon motel dove riposare?”

 

Riposare… Dopo sette ore di viaggio passate a cercare di far addormentare la piccola ne avrebbe avuto bisogno, ma no, doveva trovare Max… Aveva bisogno di un viso amico, di qualcuno che la rassicurasse…

“Ho degli amici qui. Ma non so come si chiama la zona dove abitano…” con mani tremanti, estrasse dalla valigia la lettera che le avevano inviato mesi addietro, e il tassista la esaminò laddove vi era inserito il mittente.

 

“D’accordo signorina, la accompagno.”

 

Quando, mezz’ora più tardi, approdò di fronte una abitazione in tipico stile inglese, scese lentamente: voleva credere che fossero in casa, non poteva essere così sfortunata…

Tremando e mordendosi le labbra, cullò la piccola, ancora addormentata: per tutto il viaggio in aereo Daphne non aveva fatto altro che piangere, e lei più aveva provato a calmarla, più la piccola aveva strillato. Con tutto il crollo nervoso che poi era seguito.

 

 

Suonò con mani tremanti, pregando silenziosamente che venissero ad aprire il prima possibile: quando, poi, una luce si accese, la fiammella della speranza insita dentro la ragazza prese a rinvigorirsi.

“Chi… Hilary!” Max aprì la porta con aria distratta, ma cambiò espressione non appena la vide: la fissò con occhi spalancati, e il suo sguardo saettò dalla sua figura abbondante alla bambina, fino al taxi, oltre a lei vuoto; subito dopo gli venne accanto Maryam, altrettanto stupita.

 

“Aiutatemi.” soffiò, prima di scoppiare in lacrime.

 

 Maryam si umettò le labbra, cingendo con un braccio le spalle della brunetta e facendola entrare in casa, mentre Max, lanciando uno sguardo preoccupato alla fidanzata, andava a prendere i bagagli.

 

Per le spiegazioni, in fondo,  ci sarebbe stato tutto il tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

Okay.

Non dirò che sono spaventata.

Dirò che sono terrorizzata, perché questo capitolo l’ho letto e riletto così tante volte da averne abbastanza; praticamente lo so a memoria. Non so se fa schifo, se è banale, se è OOC, se ho proprio toppato… Non lo so.

 

Io incrocio le dita e basta. Sono esaurita.

 

Comunque, spero, spero, spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuta e non sia una delle singole cose che ho elencato prima (altrimenti mi posso andare a buttare sotto un tram in corsa) e…

 

Beh, ora si che abbiamo il quadro della situazione abbastanza chiaro, no?

 

Ora siamo esattamente a metà della storia, e ne siamo al punto focale. Le cose cominciano a farsi più rapide, i pezzi del puzzle si ricompongono… I nostri personaggi cominciano a reagire… In che modo?

 

Lo scopriremo presto. ;D

 

 

Un bacione,

 

Hiromi

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Capitolo 9
*** Nono Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

“Buongiorno, papino!” il trillo di sua figlia fece sbattere gli occhi a Kai, ancora vagamente insonnolito: era entrato in sala da pranzo, pronto per la colazione, come ogni giorno; erano solo le sei del mattino, non si aspettava certo di venire avvolto da un prepotente profumino di caffè e pancakes e di trovarci dentro sua figlia che, con tanto di grembiulino stretto in vita, disponeva le cose in tavola.

“Accomodati, è tutto pronto!” assicurò la ragazzina, mettendogli davanti il caffè e sorridendogli. “Natalia prende servizio alle sette e mezza, quindi ho pensato di farti una sorpresa.” esclamò, contenta. “Sciroppo d’acero?”

 

Il russo sbatté gli occhi: ecco un lato dell’altra sua figlia che non conosceva – uno dei tanti – assolutamente diverso da Hilary: pur nella sua irruenza, chi l’avrebbe mai detto che quella peste fosse in grado di mettersi ai fornelli senza provocare danni?

Il profumino che aleggiava non mentiva: doveva essere tutto paradisiaco.

“Ci penso io.” rispose, sedendosi e sorseggiando l’ottimo caffè che sua figlia gli aveva messo davanti; quando vide su di lui un paio di occhioni viola in attesa di qualcosa, non poté impedirsi di sorridere. “E’ ottimo.” assicurò.

 

Daphne rilasciò un sospiro, prendendo la sua porzione di pancakes. “Quando vivi con mamma o impari a cucinare o muori di fame.” ghignò, accavallando le gambe.

 

Kai parve irrigidirsi. “Chi ti ha insegnato?” buttò lì la domanda come fosse parte di una semplice conversazione, ma la sua espressione la diceva lunga.

 

“Zia Maryam.” La ragazzina sorrise. “Cucina benissimo, altro che zio Max: quello spargerebbe maionese anche sulla frutta!” fece, rabbrividendo.

 

Certe cose non cambieranno mai… “In questi anni hai avuto solo loro oltre tua madre?” la domanda fu calibrata attentamente, e le parole dosate alla perfezione, al fine di ottenere come risposta ciò che realmente voleva sapere.

 

La ragazza, però, dapprima aggrottò la fronte, poi le sue labbra si distesero in un sorriso malizioso. “Se vuoi sapere se accanto a mamma c’è qualcuno, chiedilo e basta.” fece, addentando una fetta di pancake con un sorriso furbastro.

 

Kai si irrigidì fino alla spasmo per più motivi: innanzitutto non pensava che potesse essere scoperto così facilmente, poi quella ragazzina aveva messo in luce davvero il suo desiderio di sapere. Ma, ovviamente, non l’avrebbe mai ammesso; nemmeno sotto tortura. “Non so di cosa parli.” sibilò, irrigidendo la mascella.

 

Okay, mi sono addentata nel territorio proibito. “Bene, allora ti dirò che non c’è nessun patrigno, e che, per restare attinente alla tua domanda, ho tanti amici e una vita di cui ero mezza soddisfatta.” fece, stiracchiandosi. “Ora che ti ho conosciuto, però, sono proprio tutta, tutta soddisfatta.”

 

Kai scosse la testa e alzò gli occhi al cielo. “Ruffiana.”

 

Daphne ridacchiò, arricciando il naso. “E dillo che mi adori!”

 

Lui si alzò e si voltò per non farle vedere il sorriso che aveva preso a spuntargli sulle labbra. “Vado a lavoro.”

 

“Ti voglio bene, papino!”

 

Anch’io, peste.

 

 

 

 

Gillian Bennett sospirò brevemente, arricciandosi con un dito una ciocca dei ricci capelli rossi. Facendo l’analista da diciotto anni, poche volte le era capitato di vedere un paziente in preda ad una vera e propria crisi isterica come lo era Hilary Tachibana in quel momento.

La conosceva da quattordici anni e, malgrado fosse uscita alla grande dalla sindrome post partum e dalla depressione che aveva caratterizzato i primi tre anni di terapia, aveva continuato a frequentare il suo studio come supporto. Ma ora Hilary pareva veramente fuori di testa: l’aveva chiamata alle sei di mattina implorando un appuntamento e, una volta concesso, si era messa a strepitare tutto quello che le era accaduto.

In quel momento stava consumando il suo tappeto persiano a furia di fare avanti e indietro con le Louboutin, ma poco importava.

 

“Scusa, Hilary… Non ho ben capito quale sia il problema: ti sconvolge che le gemelle si siano messe d’accordo? Ti senti presa in giro?” tentò di capire.

 

La donna scosse la testa di scatto, quasi ringhiando. “Ma no, no! E’ lecito che abbiano fatto quello che hanno fatto! Io sono fuori di me per un altro stupido, fottutissimo fattore.” sputò fuori, cercando qualcosa nella sua borsa che pareva non trovare. “Devo andare a riprendere Daphne e… Devo andarci io!” esalò, accendendosi una sigaretta proprio sotto il cartello non fumare.

 

“Non si dovrebbe… fumare, ma… Fa niente…”

 

“Devo andare a Mosca, rivedere Kai, Mao, Rei… Lì tutti mi detestano!” fece, aspirando una lunga boccata di fumo. “Non posso farcela.” concluse, lasciandosi cadere sulla poltrona.

 

Gillian si sistemò gli spessi occhiali neri sul naso. “Okay, cerca di non perdere la testa. Hilary? Tutto ciò mi sembra un fattore positivo. I tuoi amici, o ex amici, hanno sempre costituito un fattore d’intralcio per la tua serenità, così come lo era Nadja. E adesso guarda: Nadja ti si è presentata e hai l’opportunità di chiarirti con loro. E’ perfetto, direi.”

 

Hilary spense la sigaretta e si prese la testa tra le mani. “Non ce la farò mai. I miei nervi si ridurranno ad uvetta passa.”

 

Gillian sorrise. “Non puoi continuare a vivere come se fossero fantasmi che ti porti dietro. Affrontali. Che vada bene o male. E in entrambi i casi avrai vinto tu. Ma se fuggi, se non ci provi, hai perso tutto, a cominciare dalla felicità tua e di quella delle tue figlie.

 

 

 

 

“Tra due giorni? Perfetto. No, ma’, qui ci sono talmente tante stanze che papà ne potrebbe fare un hotel. Daphne ridacchiò. “Si, ne è al corrente. Okay, tra due giorni alle sei e mezza del pomeriggio. Ciao mamy, ti voglio bene.”

 

“Verrà anche Max?”

La ragazza sobbalzò quando udì la voce del padre: possibile che avesse sempre questo passo felpato tale che la facesse sempre saltare in aria? Non lo aveva sentito entrare per nulla, e poi era stata talmente immersa nella telefonata con sua madre…

 

“No, gli zii resteranno a Londra. Non è opportuno per zia Maryam venire qui con il clima russo.” spiegò; Kai annuì. “Zia Karen e zio Takao sanno di… di me e Nadja?”

 

Si, gliel’ha detto Mao.”

 

Capito…” Daphne si morse le labbra, cercando di trovare le parole per esprimere un concetto non proprio semplice e abbastanza spinoso. “Papà, okay, ascolta: so che non sarà facile per nessuno, né per te né per la mamma, ma almeno puoi cercare di collaborare? Per favore.”

 

“Non è facile.” rispose l’uomo dopo parecchi secondi di silenzio.

 

Beh, grazie al cavolo!

E io scommetto che non lo sarà nemmeno per mamma, ma se ti mostri quantomeno civile… Le cose andranno lisce. Ci scommetto le chiappe. Ma mettiti nei suoi panni: non è semplice venire qui dopo anni e-”

 

Lui la freddò con lo sguardo. “Nemmeno per me è semplice l’idea che la donna che… La madre delle mie figlie venga qui, dopo nemmeno una cartolina tra di noi. ” sibilò.

 

Daphne incrociò le braccia al petto, per nulla intimidita. “Ecco, visto che non è facile per nessuno, perché non ci semplifichiamo le cose a vicenda?” esordì, con un’alzata di sopracciglia.

“E dai, se tu sei cortese, lo diverrà pure lei, e l’aria sarà leggera. Invece se tu sei freddo e burbero lei si chiuderà a riccio e l’aria diverrà irrespirabile. Quale scegli?”

 

“Non ti prometto niente.”

 

La ragazzina gonfiò le guancie. “Ma sei un testone..!” sbottò. “E dai, papà, che vuol dire?”

 

“Quello che ho detto.” fece, scrollando le spalle.

 

Ma fallo per me e Nadja!” provò ancora; per tutta risposta Kai lasciò la stanza, salutandola con un cenno della mano.

 

Eh no, papino: tu sei testardo, ma io lo sono più di te, scommetti?

Strinse gli occhi: non si sarebbe mai arresa, c’erano in gioco troppe cose. Prima o poi lui avrebbe capitolato.

 

 

Sentì il telefono squillare nuovamente, e si precipitò a rispondere: in quei giorni pareva che villa Hiwatari fosse divenuta la casa del sindaco di Mosca, data la quantità giornaliera di telefonate ricevute.

“Casa Hiwatari.”

 

“Sono Karen, con chi parlo?”

 

“Ehi, zia, sono Daphne, tutto bene?”

 

All’altro capo, improvvisamente, vi fu qualche istante di silenzio. “Ah… Si, tutto a posto.”

 

“Non sarai imbarazzata per quello scambio, spero.” esordì, fissandosi le unghie. “Sono Daphne, semplicemente Daphne. E Nadja torna presto, tranquilla.”

 

“Ah, torna?” improvvisamente la voce si fece incerta, come se le fosse stata data una notizia assurda.

 

Si, si. Lei e mia madre approdano a Mosca tra due giorni.

 

“Scusa, come hai detto?” la voce di Karen appariva sconvolta. “H-Hilary viene lì?”

 

Si, perché? Tra due giorni…” non le sembrava di aver detto qualcosa di sconvolgente.

 

“Io… Devo andare, scusami, eh. Salutami tuo padre.” detto questo, la comunicazione venne chiusa bruscamente.

 

 

 

 

Rei entrò nella hall di casa sua posando le chiavi dell’auto all’ingresso, sul comò: aveva appena accompagnato Rika da una sua amichetta, Lee era a giocare in palestra, quindi i suoi doveri si erano esauriti.

Stiracchiandosi brevemente, pensò di prepararsi qualcosa da mangiare, ma la luce accesa nello studio lo incuriosì: sapeva che Mao aveva il giorno libero, ma solitamente lo passava a cucinare qualcosa di buono da far trovare per cena, come sorpresa.

 

“Tesoro?” la chiamò, aggrottando le sopracciglia e spalancando la porta dello studio: la moglie era al computer tutta impegnata a visionare qualcosa.

 

La donna sobbalzò, come colta in flagrante. “Ehi.”

 

“Che stai facendo?” chiese, andandole vicino e baciandole il collo.

 

Mao ridacchiò, riducendo tutto ad icona. “Nulla, cavolate.”

 

Con un gesto abile, Rei si impossessò del mouse, andando a visionare la pagina web: voli low cost Mosca- Pechino.

Con le sopracciglia inarcate, fissò la moglie, che abbassò lo sguardo. “Okay, come mai stavi per prenotare un volo per dopodomani?”

 

“Niente, è tanto che non vediamo Lai e i ragazzi e-

 

“Mao.”

 

“Mi ha telefonato Karen.” ammise la donna in un soffio, mordendosi le labbra. “Tra due giorni torna Hilary.”

 

Rei incrociò le braccia al petto. “E tu pensi che scappare risolva ogni cosa?”

 

Mao indurì lo sguardo. “Non stavo… scappando. Semplicemente, non la voglio vedere.”

 

L’uomo sospirò. “Amore, non credi che quattordici anni siano abbastanza? E’ tempo di tagliare con i fantasmi del passato e di mettere il proprio cuore in pace. Non si può vivere in questo modo.”

 

“Io non so come tu faccia a essere così clemente.” ringhiò lei. “La odio.”

 

Come no.

Rei trattenne a stento un sorriso. “Non conosco il suo punto di vista, e poi sono affari suoi e di Kai. Io non mi ci immischio.”

 

“Allora vorrà dire che io sono troppo sputasentenze e immatura per questo mondo.” Mao mise il broncio come Rika quando faceva i capricci, e Rei ridacchiò, resistendo a stento all’istinto di baciarla.

 

“Cerca di vedere tutto questo come un’occasione per star meglio. Se poi andrà male pazienza, ma almeno ci avrai provato.

 

Mao si morse le labbra. “Non ti prometto nulla. Non so che effetto mi farà vederla, averla davanti a me.

 

Rei scrollò le spalle. “Intanto so che il volo per Pechino è rimandato a quest’estate. Vuoi?” la moglie gli sorrise, prima di baciarlo.

 

 

 

 

“Ehi, non ti sprecare troppo ad abbracciarmi, eh!”

 

Kai Hiwatari era perplesso. Troppe cose stavano accadendo in troppo poco tempo, e lui non era uno molto propenso ai cambiamenti.

Già il fatto di aver scoperto che Nadja fosse Daphne lo aveva traumatizzato, per non parlare dell’arrivo imminente di Hilary, previsto per quel pomeriggio, a cui stava cercando di prepararsi psicologicamente.

 

Ma che ci facevano sua sorella e Takao, con tanto di bagagli, a casa sua?

 

“Mi spieghi, per favore?” fece, aggrottando le sopracciglia ed incrociando le braccia al petto.

 

“Ehi, zii!” una Daphne piuttosto contenta andò loro incontro. “Ma che fate sulla porta? Entrate!”

 

Takao esibì il suo migliore sorriso. “Vedi Kai, dovresti prendere esempio da tua figlia: lei si che sa fare gli onori di casa.”

 

Sta’ zitto.” borbottò lui, incamminandosi verso il salotto, mentre i coniugi Kinomiya lo seguivano.

 

“Allora, fatto buon viaggio?” domandò Daphne, aggiustandosi il cerchietto viola.

 

Takao la squadrò, sorpreso. “Oh, si…si.”

 

“La vogliamo smettere con questa diffidenza nei miei confronti? Sono Daphne, solo Daphne. Nadja arriverà questo pomeriggio, e io sono la sua gemella, tutto qua. Se volete ci presentiamo, così finiscono tutte le timidezze e robe simili.” fece, seria.

 

Takao e Karen si scambiarono un’occhiata perplessa, prima di abbozzare un sorriso. “Lo sai, Kai, tua figlia da te ha preso solo gli occhi.” l’uomo sembrava parecchio divertito.

“Comunque non occorre. So chi sei. E so che tu sai chi sono io.”

 

Daphne annuì, scrollando le spalle. “Pensavo di sistemare mamma nella camera in fondo a destra, che è singola, e di fare aggiungere una brandina nella stanza di Nadja, per dormire con lei. Voi quando venite qui avete una stanza fissa? La faccio preparare subito.”

 

“No, niente stanze fisse, fai un po’ tu.” Takao fece spallucce.

 

“Posso offrirvi qualcosa? Gin tonic, acqua e soda? Vodka?” fece, balzando in piedi.

 

“No, grazie, niente.” fece, secca, Karen.

 

“Del gin tonic, se non ti dispiace.” fece invece Takao.

“Riconfermo, Kai: la signorinella fa gli onori di casa meglio di te.” quando Daphne andò in cucina per preparare il drink richiesto, il russo ne approfittò.

 

“Allora, che succede?”

 

Karen inarcò le sopracciglia. “Hilary torna a Mosca. Non posso certo perdermi un evento del genere e poi sentirmi dire dai presenti avresti dovuto esserci. Kai la fulminò con lo sguardo.

 

“Quello che sta cercando di dirti in maniera sarcastica è che si, siamo curiosi.” spiegò Takao. “Quindi, se non ti dispiace, amico…”

 

“Beati voi che vi potete permettere ferie quando vi pare.” borbottò il russo, come a dire che, certo, non c’era problema, e che potevano usufruire della sua ospitalità per quanto avrebbero voluto.

 

“Per la verità io avrei anche delle persone con cui incontrarmi qui per lavoro, quindi ne abbiamo approfittato.” rivelò Takao, facendo spallucce.

 

Ma guarda che coincidenza.” ribatté Kai.

 

“La gemella… Daphne… Mi ricorda troppo Hilary.” intervenne Karen. “E’ sputata a lei.”

 

“Anche se te la ricorda, ti prego di essere quantomeno cortese con lei, sorella.” e dal tono, la francese capì che quella del fratello non era affatto una preghiera.

 

 

 

 

Non avrebbe mai pensato di essere così agitata: beh, in effetti il punto focale del loro piano era quello. Fare incontrare i loro genitori dopo ben quattordici anni.

E stava per accadere.

Lì, all’aeroporto di Mosca, con suo padre che pareva un orso in letargo, con le mani incrociate al petto e gli occhi chiusi, e lei che, a furia di camminare a destra e a sinistra stava consumando il terreno, erano proprio un bel duo.

Avevano già annunciato che l’aereo proveniente da Londra era atterrato, ma lo speaker aveva parlato quindici minuti prima: dove diamine erano quelle due?!

 

Io morirò di crepacuore, lo so.

 

“Ehi, sei sveglio?” trillò a Kai,  punzecchiandolo con un dito.

 

Lui spalancò un occhio solo, come quegli indiani pellerossa che emettono l’ardua sentenza.

Si.” disse, laconico.

 

Che palle.

“Non ti addormentare, eh.” borbottò, prima di marciare nuovamente in giro per smaltire la tensione.

 

Ma dove diavolo erano?

 

Via sms lei e Nadja avevano stabilito che si sarebbero accordate poi di presenza sul da farsi. Dovevano ancora decidere su quale onda doveva vertere il loro piano.

 

Quando vide due chiome castane, a due altezze differenti, si animò di gioia, iniziando ad alzare il braccio per farsi notare. Hilary le sorrise, correndo verso di lei e abbracciandola di slancio.

 

Piccola brigante.” scherzò, baciandole la guancia. “Fino in Russia dovevo venire a prenderti!”

 

“Che vuoi, sono merce rara.” fece, schiacciandole l’occhiolino. “Ciao Nad!” trillò, abbracciando la gemella. “Me li hai portati i miei vestiti, si?”

 

Quella roteò gli occhi. “Si, si, sono qui dentro.” sbuffò, indicando la valigia e il bagaglio a mano. “Ciao, papà.”

 

E in quell’istante la tensione si fece sentire: Hilary e Kai parvero osservarsi per quella che sembrò un’eternità, per poi fare entrambi un breve cenno del capo.

Nadja e Daphne si guardarono l’un l’altra, demoralizzatissime: la strada sarebbe stata lunga, decisamente lunghissima.

 

 

 

 

“Mao, non ti sembra di aver bevuto troppo?” osservò Karen. “C’è freddo, ma non così tanto da bere tre bicchieri di vodka.”

 

Mao sospirò, allontanando da sé l’acquavite: la verità era che era agitata, molto più che agitata, più che nervosa, e aveva bevuto qualche goccetto per aiutarsi un po’.

Che vergogna, lei non lo faceva mai, e ora… Per Hilary, poi! “Hai ragione, metto via.” biascicò.

 

“Ti senti bene?” chiese Takao, squadrandola.

 

Mao sospirò. “Fisicamente si, e non sono ubriaca se è questo che intendi. Ma… Mi sento…”

 

Karen non la lasciò finire. “Ti capisco. E’ come ci sentiamo tutti noi. Strani. Se ne va all’improvviso, il buio assoluto per quattordici anni. Poi, di punto in bianco, ecco che torna. E noi qui.” scrollò le spalle. “A volte penso di darle troppa importanza.”

 

Mao si sedette sulla sedia, accavallando le gambe. “Hilary era amica di tutti, la macchietta di tutti i campionati, quella su cui potevi contare. Tutti ci eravamo affezionati a lei.” disse, con non poca fatica.

“Era la mia migliore amica, e anche la tua, Takao. Se non fosse per lei, voi due non vi sareste mai messi insieme, così come Rei, ad un certo punto, non avrebbe capito cosa fare con me. O Max e Maryam non si sarebbero messi insieme. O Kai non sarebbe più un blader.” elencò.

 

Takao annuì. “E’ proprio per questi motivi che ho deciso di passare avanti. Non di… perdonarla… ma quantomeno di provare a farla spiegare. Se mi convince bene, altrimenti niente.” sospirò. “Saranno qui a momenti. Vorrei chiederle se le va di venire a cena con me e Karen. Ti va di venire?”

 

Mao scosse il capo. “Non chiedetemi questo. Io rimango solo per salutare Nadja. Un passo alla volta, per favore. Non… reggerei.” i coniugi Kinomiya annuirono, e in quel momento si udì un rumore di chiavi.

 

Kai entrò, visibilmente scuro in volto e provato, sfrecciando in cucina e versandosi una quantità abbondante di vodka, tracannandola tutta d’un fiato: non sapeva come diamine aveva fatto a resistere quaranta interi minuti con Hilary nella stessa auto, ma erano stati i minuti più lunghi della sua vita.

 

Diamine.

 

La voglia di una doccia fredda si impossessò di lui, così come quella di lanciare Dranzer ancora e ancora, per sfogarsi.

Non era pronto: lo sapeva che non era pronto. Non lo era, e mai lo sarebbe stato, nemmeno tra centinaia di millenni.

 

Avrebbe dovuto essere indifferente; avrebbe dovuto scoccarle un’occhiata gelida; avrebbe dovuto fare qualche cosa che le facesse capire che non era la benvenuta e che si, dannazione, era sopravvissuto anche senza di lei, e alla grande.

 

Invece tutto quello che aveva pensato era stato quanto fosse bella.

Trentacinque anni, fisico asciutto, morbidi capelli castani che le incorniciavano il viso, Hilary pareva passarsela benissimo.

 

Un incubo. Deve essere un incubo.

 

E l’incubo divenne consistente quando una risata attirò l’attenzione generale: tre figure entrarono nella hall della villa, ridacchiando e sussurrandosi qualcosa. 

Ai lati c’erano le gemelle, con dei sorrisi enormi ed un’aria beata, ed al centro stava Hilary, che chiacchierava amabilmente con loro; sembrava la loro versione adulta, la somiglianza era impressionante.

 

“Salve a tutti!” trillò Daphne, buttandosi sul divano.

 

Nadja si illuminò. “Zii, siete tutti qua!” era semplice riconoscerla dalla sua gemella: lei era quella vestita più semplicemente, senza fronzoli o fiocchetti, lei era semplicemente Nadja.

 

Nad, tesoro.” la coccolò Mao, abbracciandosela tutta; tuttavia, dopo averla salutata, non poté fare a meno di osservare la sua migliore amica di un tempo: era stato un colpo vederla, trovarsela davanti. Era lì, di fronte a lei, con un’aria da finta innocentina che le dava sui nervi, e pareva spaesata, come un pesce fuor d’acqua.

No, non poteva fare come aveva detto Rei. Non poteva essere gentile, provare ad istaurare un dialogo, per il semplice fatto che lei, quattordici anni prima, non aveva voluto istaurare un dialogo con lei.

 

“Zia, stai bene?” Nadja la osservò preoccupata.

 

“Oh, si, benissimo: ora devo andare, vienimi a trovare quando vuoi, intese?” la ragazza annuì, e Mao, una volta sorrisole, ne approfitto per fare un saluto generale e andar via.

 

Quando lo sguardo di Hilary incontrò quello della cinese, il suo stomaco si strizzò in una morsa gelata: non poteva dire di non sapere che non sarebbe stato facile.

Era già stato un colpo vedere Kai all’aeroporto. Un Kai così cambiato, così… conturbante. E lei tutto avrebbe pensato, tranne di trovarlo ancora attraente.

 

Sto impazzendo.

 

Sentendosi osservata, alzò lo sguardo fino ad incontrare due occhi che conosceva bene: occhi che l’avevano accompagnata tutta una vita, tutta l’infanzia, l’adolescenza…

 

“Ciao Takao.” la voce le uscì gracchiante, incerta, qualche sillaba non fu propriamente chiara, ma il rossore che le colorò le guancie fu genuino, spontaneo… Così come lo era la gioia di vederlo; anche lui era cambiato, e la fissava intensamente, come se attraverso uno sguardo potesse carpire tutto ciò che non c’era stato in quegli anni. Fu una sensazione strana e devastante insieme.

 

“Che cos’hai da fare stasera?” la diretta interessata sobbalzò alla domanda; si aspettava un saluto controllato, un’occhiata e nulla più, non... Quella domanda criptica.

 

“Io?” domandò stupidamente, arrossendo. Oh. Oh, nulla, proprio nulla.” biascicò.

 

“Hanno aperto un ristorante italiano che io e Kary vorremmo provare. Vieni?” dalle sue parole sgorgava gentilezza pura; tutti attorno a loro li osservavano come se si trattasse della scena madre del classico film in cui si tenta di disinnescare la bomba e non si sa se ci si riesce o meno: adrenalina pura.

 

La donna era meravigliata, stupita, a dir poco sconvolta: se c’era una persona che aveva pensato le potesse puntare il dito contro, sarebbe stato senza dubbio Takao.

A vent’anni – e anche meno – era stato una testa calda, una persona che non esitava ad urlare e a pestare i piedi per terra se riteneva lo avessero tradito… E ora che faceva? Le diceva implicitamente che le offriva l’occasione di ascoltarla?

 

La gente può cambiare, allora?

 

Si, certo. Vengo volentieri.” disse, tentando di non mostrare il proprio sconvolgimento. “Ragazze, voi non-”

 

“No, mamy, vai pure.” fece subito Daphne, seguita da Nadja che annuì, completamente d’accordo. Qualcosa doveva iniziare a smuoversi, altrimenti sarebbero stati guai.

 

 

 

 

Il ristorante italiano era molto lussuoso e ben curato ed era, forse, una delle pochissime volte in cui i coniugi Kinomiya non si buttavano a capofitto sul menù per decidere che cosa prendere.

Seduti ad un tavolo per quattro, si trovavano estremamente a disagio e la tensione poteva tranquillamente essere tagliata con il coltello.

Hilary stava quasi rimpiangendo di aver accettato l’invito ed a fatica si ricordava le parole dell’analista in merito ad affrontare le sue paure.

Karen, fingendo di essere interessatissima a quello che vi era impresso sul menù, ne approfittava per lanciare occhiatacce all’ospite, mentre suo marito, tra le due, tentava come poteva di cercare di trovare una soluzione.

 

“Come stanno Max e Maryam?”

 

Hilary sobbalzò quando Takao glielo domandò, ma gli rivolse un sorriso gentile. “Bene, stanno molto bene. Max ha fondato l’ABA a Londra, la conosci?” quando lui annuì, continuò: “E’ il presidente, mentre Maryam lavora nell’azienda come commercialista. Sono sposati, hanno una bambina, Daisy, di quattro anni, e un bambino in arrivo.

 

“Mi sarebbe piaciuto salutarli.”

 

“Avrebbero voluto anche loro, ma Maryam è entrata all’ultimo trimestre di gravidanza e non era prudente comprometterlo con un volo di lunga durata e oltretutto con il gelido clima di Mosca.”

 

Karen chiuse rumorosamente il menù, sbattendolo sul tavolo; Takao la ignorò. “Tu cosa fai, invece?”

 

“Dopo essermi trasferita a Londra con non poche difficoltà sono riuscita a studiare per quel master per divenire avvocato. Ora ho uno studio e… Beh, va bene.” ammise, con un sorriso. “E’ quello che mi piace, lo adoro.”

 

Ma che brava.” ringhiò Karen, a braccia conserte.

 

“Ti ci vedo in tribunale a rompere le palle al giudice e a tutti con paroloni.” Takao parlò quasi sopra la moglie. “Sarai bravissima.”

 

Hilary osservò incerta prima l’una, poi l’altro, infine si sforzò di sorridere. “Mi piace, do il meglio di me.” disse, semplicemente. “Tu di cosa ti occupi?”

 

Fu lì che Karen scoppiò: “Possiamo piantarla?” sibilò. “Siamo qui per un motivo ben preciso, porca miseria, non per tergiversare! Mi state dando il voltastomaco con le vostre finte moine!

 

Il marito la fissò severamente. “Non siamo qui per metterla alla berlina. Siamo qui perché, se lo vorrà, almeno io vorrei una spiegazione. Dopo quattordici anni credo sia lecito.”

 

La diretta interessata serrò le mascelle. “Mi meraviglio di te, Karen: non eri tu che mi chiamavi cognatina, che mi mandavi delle e-mail dicendomi che mi volevi bene? E ora non esiti a giudicarmi senza nemmeno conoscere il mio punto di vista?

 

“E sentiamolo, questo punto di vista! Ma cosa pretendi? Hai spezzato il cuore di mio fratello, il mio, quello di mio marito, quello di tutti. Eri importante per ognuno di noi, Hilary! Avevi tutto… E te ne sei andata per uno stupido capriccio!

 

La donna si alzò. “Se già sei convinta di sapere le cose non serve nemmeno che io resti. Sei onnisciente, mi leggi nel pensiero, sai già tutto di me: non è così?

 

Takao alzò le mani in segno di resa. “Calmiamoci, signore. Hila, siediti, ti prego. Karen, da questo punto di vista ha ragione. Io sono qui perché voglio sapere. Se tu però, qualunque cosa dirà Hilary, la vedrai sempre come la strega cattiva, puoi pure prendere le chiavi della macchina. Se resti, devi essere obbiettiva.”

 

La signora Kinomiya sbuffò: si rendeva conto talvolta di essere infantile, ma quando le si toccavano i sentimenti non ce la faceva ad essere razionale, si inalberava e basta.

“E sia, ti ascolterò. Comincia pure.”

 

 

 

 

“Okay, c’è qualcosa che non va.” Nadja inarcò le sopracciglia quando la gemella lo disse: si erano rifugiate in camera, al sicuro da tutti, e non sapeva esattamente cosa l’inglesina intendesse.

 

“Prego?”

 

Daphne sbuffò, prendendo a cambiarsi, con gli abiti che avevano appena portato da Londra. “Mamma è nei guai. E se si continua così il nostro piano non andrà granché in porto.”

 

Nadja si sedette sul letto, accavallando le caviglie. “E quale sarebbe il nostro piano, arrivate a questo punto, scusa? Pensavo fosse concluso. Incontrarli, farli incontrare, fine.”

 

La gemella sbuffò, roteando gli occhi. “No, non basta. Mamma e papà si detestano, e non può andare avanti così: dobbiamo far di tutto affinché si riappacifichino. Non voglio avere dei genitori che si guardano in cagnesco, tante grazie.

 

L’altra inarcò le sopracciglia con fare scettico. “Grazie al cielo, per un attimo ho temuto che volessi farli rimettere insieme.” quando quella arrossì con aria colpevole, Nadja spalancò occhi e bocca. “Daphne! Si detestano!”

 

“Lo so, lo so.” fece, scrollando le spalle con aria noncurante. “Ma è tutto un equivoco, anche se so solo la campana di papà ho fiducia in mamma, non mi ha mai tradita. A proposito, come mai è andata a Londra?”

 

“Era affetta da depressione post partum e la sera della festa ha visto papà e Cindy baciarsi.”

 

“Il tuo saper riassumere mi lascia di stucco.”

 

Nadja incrociò le braccia al petto con aria ostile. “Mamma e papà non si rimetteranno mai insieme.”

 

Daphne esibì un sorriso birichino. “Scommetti, sorella?”

 

“Cosa te lo fa dire?”

 

“Il fatto che in quattordici anni mamma sia passata da un corteggiatore all’altro più per svago che per altro ma che, quando le cose rischiavano di farsi serie, ha sempre mollato. Una volta ho sentito zia Mari dire a zio Max che secondo lei mamma cercava inconsciamente un’altra versione di papà, ovviamente senza trovarla.

 

Nadja sospirò. “Io in questi anni non ho mai visto una donna con papà, ma presumo che con qualcuna sia uscito.”

 

Daphne sorrise, trionfante. “Visto? Se avesse avuto una storia seria te l’avrebbe presentata, invece nulla. Magari, come dici tu, è uscito con qualcuna, ma niente di serio. Esattamente come mamma. E perché? Te lo dico io: perché sono due pezzi di puzzle che si incastrano alla perfezione, ecco perché.”

 

L’altra storse il naso. “Per me la fai troppo romanzata.”

 

“Come vuoi, sorella, ma facciamo così: tu aiutami quantomeno a ristabilire la pace. Se poi viene fuori anche altro, tanto meglio. Ci stai?”

Nadja non poté far altro che annuire, chiedendosi come mai la sua mente tanto razionale si ritrovasse inguaiata nei piani più strampalati ogni volta che la gemella apriva bocca.

 

 

 

 

 “Soffrii di depressione per tre anni.” Hilary si morse le labbra, cercando di guardare negli occhi prima l’uno e poi l’altra. “Derivante dalla crisi post partum. Fu terribile, ma ne uscii grazie a loro, e riuscii anche ad istaurare un rapporto meraviglioso con la mia Daphne. Se una parte di me era felice, l’altra non lo era: voi mi mancavate da morire, e in questi anni ho pensato giorno e notte a Nadja. Anche per lei ho continuato a seguire la terapia dall’analista.” confidò, sospirando.

“Il fatto, nella rabbia, di averla dimenticata, quella notte, non contribuì ad altro che a peggiorare la depressione i primi tempi. Mi sentivo una madre così degenere... Ora sono così contenta di averla ritrovata. So che non sarà possibile recuperare quattordici anni, ma ci voglio essere per i prossimi.” ammise, con un sorriso.

 

Il silenzio calò al tavolo, e fu un silenzio carico di parole non dette, di consapevolezze prese in quegli istanti, di quattordici anni che non potevano cancellarsi con un colpo di spugna e con un racconto. E tutti e tre lo sapevano bene.

 

Hil, mi dispiace… Mi dispiace così tanto…” quando Karen scoppiò in singhiozzi, fu solo perché alzò gli occhi al cielo furiosamente, fissandosi sul lampadario molto vistoso che non le fece compagnia.

Decidendosi ad abbassare lo sguardo su di lei, rivide in breve quella ragazzina che aveva conosciuto a diciotto anni, capitata tra capo e collo, quella che aveva strillato a Takao che si, era la sorella di Kai, quella che la chiamava cognatina, quella che le diceva che le voleva un mondo di bene, quella che le diceva che era la sua prima amica…

“Perdonami…”

 

Sfiorò dolcemente il suo braccio con una mano, e quando ebbe i suoi occhi su di lei non poté fare a meno di scrollare le spalle. “Non possiamo cancellare questo tempo…” sussurrò, provando a sorridere, e a ricacciare le lacrime. “Ma possiamo accantonare gli sbagli del passato ed imparare da questi; altrimenti non saranno serviti.”

 

Karen annuì convulsamente prima di ricambiare la stretta di Hilary: sapeva di essere una testa calda, una che prima parlava e poi pensava, una persona che agiva sulla base di ciò che provava, ma non ne poteva fare a meno. La giapponese era stata la sua prima amica, la sua quasi cognata, perderla era stato uno shock, così come sapere il suo punto di vista… Che cambiava totalmente le carte in tavola.

 

 

“Perché non sei venuta da me?” Takao aveva lo sguardo basso, e il tono di chi dice una cosa che si è tenuta dentro troppo a lungo.

 

Quella sospirò, sciogliendosi dalla stretta con Karen. “In quel periodo Kai era sempre in palestra, Mao aveva il suo college, tu e Karen eravate in giro per l’America nel vostro viaggio e…” sentì nuovamente le lacrime pungerle gli occhi, e tirò su col naso.

“Io mi sentivo grassa. Solo grassa e goffa. Inadeguata. e di peso. In tutti i sensi. Non volevo disturbare.” disse, prima di scoppiare in lacrime. “Mi sono sentita così sola… La verità è questa. Sono saltata sul primo aereo per Londra perché era la mia città preferita, e anche perché Max e Maryam mi avevano invitato ad andare da loro… Ho reagito totalmente d’impulso, dettata solo dalla disperazione…Non devi pensare che io abbia preferito loro a te. Tu eri il mio migliore amico, e lo so che ti sei sentito tradito… Mi dispiace.” singhiozzò.

 

Takao serrò le mascelle un istante, dopodiché si slanciò ad abbracciarla, e per Hilary fu una sensazione nuova: fu come liberarsi di un peso, librarsi in aria, e finalmente poté piangere ancora, e questa volta erano lacrime di gioia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

News, news, news!

E  spero non siano indigeste! xD Visto quante novità? o.o  Come al solito mi chiedevo se non dividere il capitolo, poi ho detto: “al massimo faranno una lavanda gastrica” xD e via.

Ditemi cosa ne pensate, guys.

 

Un bacione, al prossimo capitolo (anche perché ce ne andiamo con i numeri a due cifre *__*)

 

Hiromi

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Capitolo 10
*** Decimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

“Lo confesso: non la ricordavo così, Mosca.” Hilary sorrise, ben imbacuccata nel suo cappotto di finta pelliccia. “Forse perché passavo un brutto periodo quando ho vissuto qui.” ipotizzò.

 

Daphne sorrise, entusiasta. “E’ proprio vero: è la nuova New York.”

 

Nadja non prestò molta attenzione alle frasi dette da mamma e sorella, ritrovandosi a fissare gli innumerevoli pacchetti e sacchetti tenuti Hilary e Daphne con aria pressoché dubbiosa.

“Okay, e di questi cosa ne faremo?”

 

La donna fece spallucce. “Abbiamo un’auto con noi, non preoccuparti.”

 

Si, ma tra un po’ entreranno questi e ne usciremo noi.”

 

Dai, Nad, rilassati.” Daphne esibì un sorrisone. “Ancora non hai visto il meglio!”

 

“Non avete ancora saccheggiato Louis Vuitton legando i commessi e dichiarando il tutto terra di mezzo?”

 

Hilary scoppiò a ridere, la gemella esibì un sorrisetto. “No, ma è un’idea.”

 

Quella mattina si erano prese una giornata solo per loro, tutta per stare insieme, mamma e le figlie, e avevano passato delle ore splendide a ridere, scherzare, prendersi in giro e raccontarsi qualche aneddoto da condividere per conoscersi meglio.

Conoscersi… Le lacune sarebbero state tante, grandi. Ma non incolmabili. Non se vi era la volontà da entrambe le parti di rimediare.

 

“Non ne dubito.” rispose, alzando gli occhi al cielo.

 

“Okay, sono due ore abbondanti che andiamo in giro per negozi.” intervenne la madre, sorridendo. “Tu che vorresti fare?”

 

Time out.” propose la moscovita, sbuffando. “Non so come facciate a non essere sfinite.”

 

“Vuoi che andiamo a prendere un aperitivo, che ci rilassiamo in un bar?” Hilary stava già cercando a tentare di individuare un locale con gli occhi.

 

“Veramente io avrei un’idea migliore…”

 

 

 

 

Kai tornò a casa presto: era stata una mattina normale, che aveva trascorso andando al lavoro, allenando i ragazzi ed avendo a che fare con noiose scartoffie che spettavano al direttore di una scuola di beyblade.

 

“Ehi, fratellone!” Karen gli si parò davanti, sgranocchiando un biscotto. “Bonjour!”

 

Lui inarcò un sopracciglio. Non vedeva sua sorella dalla sera prima, ossia da quando lei e Takao avevano portato fuori a cena Hilary, e non sapeva proprio com’era andata, ma era da tanto che non vedeva la francese così di buonumore.

Come doveva interpretarlo?

 

“Buongiorno Kai.” fece eco Takao. “Natalia, in cucina, sta preparando delle robette deliziose, per pranzo.” fece, sventolando le mani in un gesto che fece capire che non vedeva l’ora.

 

“Non sarai sazio, dopo ieri sera?” tentò di lanciare l’amo, inarcando il sopracciglio con finta impassibilità.

 

“Ieri sera?” il Giapponese corrucciò le sopracciglia. “Ma se sono passate più di dodici ore!”

 

Karen ridacchiò. “Se vuoi sapere com’è andata e cosa ci ha detto, chiedilo subito.” fece, accavallando le gambe.

 

Kai sbuffò: avrebbe dovuto ricordarsi che sua sorella, come lui, usava quel trucchetto troppo spesso. “Va bene; allora?”

 

Takao spalancò gli occhi. “Aaaah, hai capito Kai…”

 

La francese ridacchiò. “Allora niente: ci sono dei risvolti interessanti, ma non pensare che io vuoti il sacco. Sappi solo che molte, troppe cose si spiegano.

 

Lui inarcò pericolosamente un sopracciglio. “Se non mi dici come faccio io a-

 

“Parlandole, forse?” la voce di Karen era sarcastica. “Io giudicavo, e giudicavo male. Ero solo una sputasentenze. Non ho riserve ad ammetterlo. Sono cose tra te e Hilary, occorre che le risolviate.

 

Kai scosse brevemente la testa. “Forse sono io a non volerle risolvere.”

 

La sorella mise le mani sui fianchi. “Fa’ un po’ come credi. Sappi solo che sbagli. E della gros-“

 

Un trillo di campanello interruppe la loro conversazione: Marina, la domestica, andò ad aprire. “Ti ho detto che non è giusto!” si lagnò Daphne, entrando in casa. “Mi hai battuta perché è tutta la vita che ti alleni, accidenti.”

 

Nadja aveva un sorriso soddisfatto stampato sul viso. “E allora? Un combattimento è un combattimento, e io ho vinto.”

 

Takao saltò subito su. “State parlando di beyblade?”

 

Hilary si sedette vicino a lui, dando il suo cappotto a Marina. “Eccolo, sempre pronto per l’argomento.” scherzò, ridendo.

 

L’uomo fece scontrare il proprio pugno con quello della donna, in un gesto d’intesa che facevano sempre quand’erano ragazzi. “Daphne, giochi anche tu a bey?” domandò poi.

 

La ragazza annuì, sistemandosi lo strizzacollo bianco. “Mi ha insegnato zio Max. A quanto pare non sono all’altezza di sua maestà.” fece ironicamente. “Ma me la cavo. Sono una delle più brave di Londra.”

 

“Per favore, Yuri mi ha fatto iniziare un allenamento speciale per recuperare il tempo perso. Diceva che sei una mezza calzetta.”

 

Mezza calzetta?!” Daphne era indignata. “Lo riduco io ad una mezza calzetta!” tutti scoppiarono a ridere, immaginandosi la scena.

 

“Non badare a quello che sostiene Yuri.” intervenne Karen. “E’ un brontolone, lo è sempre stato.” fece, scrollando le spalle. “Forse intendeva dire che sei brava, ma Nadja è ad un altro livello, lei l’anno prossimo dovrà gareggiare per il campionato del mondo.” spiegò.

 

Hilary fece un sorrisone. “Sul serio? Nad, non me l’avevi detto!”

 

“Perché, ne saresti stata contenta?” l’atmosfera si freddò all’istante: sopracciglio inarcato, braccia conserte, a parlare era stato Kai, con un tono di voce pressoché gelido.

 

Hilary si irrigidì. “Ovvio. Qualunque strada le mie figlie decidano di prendere, io sarò dalla loro parte, a fare il tifo per loro. La cosa sufficiente è che siano felici.”

 

“Questo detto da una che tra pochi giorni sparirà di nuovo.” fece, beffardo.

 

La donna sorrise di un sorriso compiaciuto. “Veramente no. Sono un avvocato indipendente e sono qui con un biglietto di sola andata. Posso andarmene quando mi pare e piace.”

 

“Cioè quando tremerai di paura e fuggirai.”

 

Hilary, pur ribollendo di rabbia, non raccolse. “No, quando riterrò che le cose saranno sufficientemente sistemate tanto da poter tornare a Londra. Tu mi ospiterai, vero Kai?” domandò, accavallando le gambe, un sorriso amabile sulle labbra.

 

Lui non rispose: la freddò con lo sguardo e se ne andò senza dire una parola, seguito dallo sguardo di tutti.

 

“Per un momento ho temuto di vedere la casa bruciare.” sospirò Karen.

 

“Io, più che altro, la testa di Kai su un mobile come trofeo.” alla battuta di Takao tutti risero. “Un tempo non ci avresti messo molto a perdere la pazienza e a strepitare, Hil. Divenire avvocato ti ha fatto bene, evidentemente.”

 

Lei lo fissò brevemente. “Cosa credi? Sono furibonda.” sibilò, mordendosi le labbra e divenendo paonazza. “Quel… troglodita!” sbottò. “E non è stata altro che la punta dell’iceberg.” mormorò, affranta.

 

“Mi aspettavo si comportasse così.” sospirò Karen. “E’ un tale testone…”

 

Hilary provò a sorridere. “Vedi che fratello maggiore che ti ritrovi?”

 

Dagli tempo. Sono sicura che, piano piano, se si rende conto da solo di star sbagliando, ti lascerà avvicinare.”

 

La donna scosse la testa, mettendo subito le braccia conserte come a chiarire qualcosa di fondamentale. “Kary, io non sono venuta qui per chiedere scusa a nessuno. Quattordici anni fa ho fatto quello che ho fatto per delle precise ragioni. Il mio unico rimpianto, la cosa che non mi perdonerò mai è di aver dimenticato Nadja. Solo questo.”

 

 

 

 

“Okay, dobbiamo fare qualcosa.” Daphne, troppo nervosa per qualsiasi cosa, stava girando per la stanza della gemella mordendosi le labbra e consumando il tappeto.

 

Nadja la guardò in maniera scettica. “Che cos’è che avresti in mente?”

 

“Non lo so!” esclamò lei, smanettando. “Ma la situazione è tragica, e così non va.”

 

“Ah, si?” sbadigliando, la moscovita fece capire alla gemella la sua ironia.

 

“Per l’amor del cielo, cerca di collaborare!” pigolò. “Siamo ad un punto morto!”

 

Nadja sbuffò, roteando gli occhi. “Non direi, visto che gli zii adesso sono dalla parte della mamma.”

 

Daphne picchiettò con insistenza il tacco dieci sul pavimento in marmo. “Non basta.” disse. “Voglio dire, è un passo avanti, per mamma è stato importante aver ritrovato il suo migliore amico e la sua ex cognata… Ma nemmeno la sorella di papà riesce a dar dei consigli a suo fratello! E’ come sordo!”

 

L’altra sbuffò. “Cosa proponi?”

 

L’inglesina si sedette a peso morto sul letto. “Ci vorrebbe una persona importante, importantissima per lui. Una persona che ascolta sempre, sempre. …Ma chi?”

 

Nadja si morse le labbra, salvo poi illuminarsi. “Ho io la soluzione.”

 

 

 

 

Quella mattina le gemelle si alzarono di buona lena, già vestite e pronte, e trovarono la madre intenta a far colazione con gli zii.

 

“Buongiorno mamy.” trillò Daphne, baciandole una guancia.

 

“Buongiorno, spruzzetto di sole.” Hilary sorrise, ancora avvolta nella sua vestaglia di seta. “Ciao, tesoro.” trillò, rivolgendosi a Nadja.

 

“Mamma, stamattina ti va di venire a scuola?” Hilary la fissò in maniera interrogativa. “Daphne e io dobbiamo andarci per dimostrare alla preside che ho davvero una gemella e che il mio calo improvviso è dovuto al fatto che lei, durante questi giorni in cui ha preso il mio posto, non sapeva quasi il russo.”

 

Daphne alzò gli occhi al cielo. “Che palle, ma se è una lingua noiosa!”

 

“In compenso Nadja ti ha portato la media alle stelle.” Hilary ridacchiò. “Non credo di aver mai visto tante A in pagella in vita mia.”

 

“Cos’è che Daphne ha preso da te?” chiese Karen, divertita, intingendo un biscotto nel tè.

 

“Oltre la somiglianza impressionante?” la donna si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “La passione per la moda, il carattere tenace…”

 

“Vorrai dire testardo.” Takao si beccò un fazzoletto in piena fronte, e rise.

 

“E anche la spigliatezza, il non arrendersi mai, i valori… Sono tutte cose che le ho trasmesso.”

 

La porta della sala da pranzo si aprì, rivelando un Kai piuttosto accigliato. “Pronte per andare?” disse soltanto. Le gemelle annuirono, e Hilary fissò la sua vestaglia arrossendo.

 

“Mamma, dai, va’ a cambiarti.” la incitò Nadja, Hilary trangugiò il caffè e corse in camera.

 

“Perché deve venire pure lei?”

 

Kai, non rompere.” la sorella lo guardò male. “Se le gemelle vogliono che ci sia pure lei cosa succede?” lui scrollò le spalle, andandosene. “Ecco, mi sa che uno dei più tenaci della famiglia è lui.” disse, ironicamente.

 

 

 

 

“Vedrò quello che posso fare, signor Hiwatari.” mormorò la preside, in russo, fissando sconcertata Nadja e la sua gemella. “E’ una storia complicata e a tratti assurda, ma… Vi credo. In effetti era strano che Nadja all’improvviso non capisse più il russo e non lo parlasse… Convocherò il consiglio di classe per decidere il da farsi. Nadja è pur sempre la migliore alunna della classe.

 

“La ringrazio, preside.” fece Kai..

 

“Non c’è di che: un chiarimento era doveroso, e mi sento sollevata nell’apprendere che Nadja tornerà ad essere l’alunna eccellente che è sempre stata.” fece, congedandoli. “Arrivederci, signori Hiwatari.” disse, facendo un cenno col capo all’indirizzo di Kai e Hilary, più imbarazzati che mai per l’appellativo.

 

 

 

 

“Ehi, papà, dov’è che andiamo adesso?” esclamò Daphne, una volta a metà strada.

 

Kai e Hilary erano in imbarazzo. Nuovamente.

Le gemelle, con un’abile mossa, si erano sedute sui sedili posteriori della Jaguar, lasciando a loro quelli anteriori; poi avevano parlato tutto il tempo, quasi come se volessero farli sentire… una famiglia.

Era strano. Troppo.

 

“In palestra.” rispose lui, inserendo la freccia.

 

Si, io tra un’ora ho l’allenamento con Yuri.” spiegò Nadja. “Così, mamma, in quest’ora ti faccio fare un tour guidato della scuola di beyblade, vuoi?”

 

Hilary si voltò verso la figlia, annuendo. “Mi farebbe piacere.” ammise; poi provò a voltarsi verso Kai. “E’ la scuola che stavi costruendo anni fa, vero?”

 

L’uomo inarcò brevemente un sopracciglio. “Ai tempi in cui tu te ne andasti, già.” fece, schioccando la lingua. “Ma stavo solo ottenendo dei permessi e contattando gli architetti. Ora, il risultato, è questo.” esordì, con un gesto.

 

Hilary guardò dove gli aveva indicato, e restò a bocca aperta: quella era una meraviglia. Una struttura imponente, maestosa, nel pieno stile russo si affacciava davanti a lei, e per guardarla tutta si doveva per forza alzare lo sguardo.

 

“Papà ha radunato qui i migliori blader di un tempo che non hanno voluto appendere il bey al chiodo e ora vogliono insegnare.” le spiegò Nadja. “Ci vengono tutti i ragazzi di Mosca, ma anche numerosissimi ragazzi di fuori città per apprendere non solo come giocare, ma come farlo bene. La tecnica, la disciplina, lo spirito.”

 

Hilary si voltò verso Kai. “Una sorta di progetto di Judith Mizuhara riveduto, corretto e migliorato.”

 

L’uomo rimase sulle sue. “La madre di Max insegnava solo agli All Stars. Io insegno a mezza Russia.” fece, prima di entrare nella struttura, senza aspettare risposta.

 

La bruna sospirò. “Entriamo, ragazze?” chiese, sorridendo alle figlie.

 

Nadja e Daphne si scambiarono uno sguardo, poi assentirono.

 

 

 

 

Rei corrucciò le sopracciglia quando vide entrambe le gemelle aspettarlo fuori dallo spogliatoio. Aveva appena finito il turno, ed era ora, per lui, di tornare a casa. Non si aspettava certo di vedere due copie di Nadja fuori dalla porta.

 

“Zio Rei, devi aiutarci.” fece una, tutto d’un fiato.

 

Nad, calmati.” la riprese l’altra.

 

“Ti ricordo che abbiamo poco tempo: mamma è andata in bagno, mica sulla luna.”  rispose quella, inarcando un sopracciglio.

 

Rei sorrise. “Okay, tu sei Daphne e tu Nadja, giusto?” chiese pacatamente, loro assentirono. “Cosa posso fare per voi?”

 

“Dillo tu, miss riassuntina.” alzò gli occhi al cielo Daphne.

 

“Vogliamo che mamma e papà non litighino ogni due minuti, ma sembra impossibile. Papà sembra sordo a chiunque, anche a zia Karen.

 

Rei era sorpreso. “Karen ha parlato a favore di Hilary?”

 

“Hanno fatto pace.”

 

Il cinese sbatté gli occhi, decidendo di procedere per gradi. “Non vi preoccupate, siete in buone mani. Dov’è vostra madre?”

 

“Alla toilette in fondo. Il fatto è che tra un quarto d’ora ho lezione con Yuri, e ne avrò per tre ore…” spiegò Nadja.

 

“Vai tranquilla.” Rei sorrise. “Ci penso io.”

 

“Allora io correrei a prepararmi.” la ragazza fece un cenno di saluto. “Fatemi sapere. Oh, mamma è lì, sta uscendo, in bocca al lupo.

 

“Crepi.” fece brevemente Daphne. “Ma cos’è che hai in mente?”

 

“Vedrai.” entrambi attesero che Hilary li raggiungesse e, una volta fattolo, Rei sorrise. “Ciao, come stai?”

 

La donna ricambiò il sorriso, visibilmente sollevata che il suo amico di un tempo non dimostrasse rancore et similia. “Io bene, tu?”

 

“Bene anche io. Al piano superiore c’è un bar: ti offro un caffè, ti va?

 

Hilary sorrise, molto più a suo agio. “Mi farebbe piacere.” ammise.

 

 

 

 

Mezz’ora dopo, seduti ad un tavolino del bar, dopo aver appreso che Rei era sposato da anni con Mao, che avevano due bambini – Rika, di otto anni, e Lee, di sei – e che lavoravano entrambi come insegnanti nella palestra fondata da Kai, Hilary trovò il coraggio di fare una domanda che le rodeva:

 

“Mao come sta?” sussurrò. “L’ho… intravista, il giorno del mio arrivo, ma è subito scappata.”

 

“La conosci, è una testa calda, e tale è rimasta.” L’uomo sorrise, finendo di sorseggiare il suo caffè. “Ma sta bene. Adora il suo lavoro, i suoi bambini… Me.” Hilary ridacchiò.

Le sei mancata da morire.”

 

“Anche lei mi è mancata tantissimo.” La donna si morse le labbra. “Mi piacerebbe poterle parlare, ma… La vedo ardua.”

 

Rei sorrise, e gli occhi color caramello si illuminarono. “Guarda, sta proprio venendo verso di noi. Non ti voltare.”

 

Hilary fece come le era stato detto: rimase una statua di sale, incapace del più piccolo movimento, fino a quando l’altra donna non venne verso di loro, sorridente, baciando il marito, ma cambiò espressione – e colore della faccia – quando si accorse di lei.

 

Fece per andar via, ma l’uomo la fermò.

 

“Mao, non fare la bambina!”

 

La cinese si liberò della presa del marito, filando via, un’espressione acida sul viso.

 

Una volta quell’espressione era per quelli che mi facevano soffrire, Mao… Non è giusto, tu non sai niente…Non merito questo, accidenti!

 

Fu a causa di questi pensieri che Hilary si alzò, rincorrendola, decisa.

Erano state migliori amiche, si erano giurate amicizia eterna, insieme avevano pianto, riso, fatto cavolate… erano cresciute.

 

Quando Mao entrò in una stanza, senza pensarci vi entrò anche lei.

 

“Esci!” ringhiò la cinese, ravviandosi con un gesto brutale i capelli chiari.

 

Hilary si sforzò di rimanere calma. “No. Dobbiamo parlare.”

 

“Allora esco io!” esclamò con forza, andando alla porta e provando ad aprirla. Con sua enorme sorpresa, la trovò… chiusa. “Ma che caz… Che hai fatto?!” urlò, rivolta a Hilary.

 

La donna cominciò ad agitarsi. “Ma niente! Che cosa potevo fare, se sono entrata dopo di te?!

 

Mao disoscurò la vetrata, e questa rivelò Rei e Daphne che, dall’altra parte, sembravano essere particolarmente soddisfatti. “Rei Kon!” ringhiò. “Che diamine hai-”

 

Sta’ calma.” suo marito era la pacatezza fatta carne. “Semplicemente, non uscirai da lì finché non ti sarai chiarita con Hilary o, quantomeno, non le avrai dato l’opportunità di spiegarsi.”

 

La donna divenne, se possibile, ancora più arrabbiata. “Tirami fuori da qui o giuro che te la butto giù a spallate!”

 

“Non ti conviene ascoltarmi e lasciarla parlare?” l’uomo reggeva le chiavi, facendole passare da una mano all’altra. “Arrabbiarti ti fa male, chiarirti con lei, no.”

 

Hilary serrò le mascelle. “Lascia perdere, Rei. Apri questa porta. Non vuole ascoltarmi, sa solo giudicare; come tutti del resto.

 

Mao si voltò, uno sguardo quantomeno feroce. “C’è chi sa giudicare, c’è chi sa fuggire. Ognuno ha la sua abilità. Non trovi?” sibilò.

 

“Proprio per niente!” Hilary la spintonò, cosa che non aveva mai fatto, e Daphne, dall’altro lato, spalancò occhi e bocca, appoggiandosi a Rei, che le sussurrò di star calma.

“Mi odi, mi detesti?! E allora dai, picchiami! Sfogati! Su, Mao, voglio proprio vedere! Siamo donne, abbiamo trentasei anni, dai!” con un enorme sforzo per ricacciare indietro le lacrime, serrò i denti. “Siete bravi solo a giudicare, cazzo, sapete fare solo questo!”

 

Mao la spinse a sua volta. “Sappiamo fare solo questo perché i fatti parlano chiaro!” qui Rei sussurrò a Daphne di chiamare suo padre.

“Avevi l’amore di un uomo che ti amava, avevi due figlie meravigliose, avevi la nostra amicizia, eri laureata… E hai deciso di far andare tutto a puttane!” urlò. “Non ti perdonerò mai. Mai! Te ne sei andata, e per me potresti essere andata pure in Papuasia ad intrecciare fiori, senza dire addio a nessuno! Dimenticando Nadja! L’ho cresciuta io, come fosse mia figlia!” a quel punto Kai arrivò, e Rei gli fece cenno di mettersi davanti la porta, in modo che le donne non lo vedessero.

 

“Ti ringrazio per questo, ma mi meraviglio di te! Credi sul serio che io sia così stupida? Avevo vent’anni, ma non avrei mai gettato tutto all’aria, cazzo! Amavo Kai, amavo le mie figlie! E tu mi puoi capire, sei madre, accidenti, ma sei stata più fortunata di me.”

 

Mao aveva gli occhi fiammeggianti. “Sentiamo, perché? Cos’aveva la povera fiammiferaia?”

 

Hilary le scoccò un’occhiataccia. “Ho sofferto di depressione per tre anni.” disse, gelida, stringendo i pugni. “E nessuno se ne è mai accorto, nemmeno Kai, tanto impegnato a… costruire questo posto. E a farsela con un’altra.”

 

Mao sbarrò gli occhi. “Che cosa…?”

 

“Per tutto l’anno e mezzo in cui sono stata qui ci sono stata malissimo. La depressione è una malattia orrenda, specie quando ti va ad intaccare dopo il parto. La mia analista sostiene che è a causa di questa che il mio cervello si dimenticò temporaneamente di Nadja. Semplicemente, ottenebrata dal litigio, presi Daphne che si trovava più vicina, e saltai sul taxi. Vedevo solo Kai e il suo tradimento.”

 

L’altra donna aveva occhi e bocca spalancati. “M-Ma quale tradimento?”

 

“Cindy.” schioccò, beffarda.

“L’ex manager della neoborg. Venni invitata da Kai ad un party, ma non mi andava. Non mi andava mai di fare nulla… Poi trovai per caso in un negozio un abito da sera che mi veniva e non mi faceva sembrare una porta aerei, e andai dal parrucchiere dopo mesi. Il risultato fu che, arrivata alla festa li vidi baciarsi, e scappai. Ne avevo abbastanza, rivolevo la mia vita.

 

“Perché non sei venuta da me?” chiese, dopo parecchi secondi di silenzio.

 

Hilary scrollò le spalle. “E’ la stessa domanda che mi ha fatto Takao, e io ti rispondo nello stesso modo: non ragionavo, vedevo solo Londra come città che mi piaceva, punto. Il fatto che vi fosse Max era un’aggiuntiva, non vuol dire che ho preferito lui a te, o a Takao. Voi eravate i miei migliori amici, è solo che…” si toccò le guancie, e fu sorpresa di scoprire che vi scorrevano lacrime: non si era accorta di star piangendo.

“Voi avevate la vostra vita, e io mi sentivo così sola… Volevo solo un posto dove poter ricominciare. E l’ho avuto.”

 

Mao scoppiò in lacrime, avvolgendola in un abbraccio. “Perdonami.” singhiozzò. “Scusami.” ripeté. “Sono una cretina.”

 

Hilary la strinse forte a sé, ricambiando l’abbraccio: quanti anni perduti c’erano stati, quanti sbagli e quante rivendicazioni… Una cosa era certa: avrebbero avuto un sacco di tempo da recuperare.

 

 

 

 

“Respiri, amico mio?” Rei girò la chiave nella toppa, per aprire la porta quando le donne si sarebbero ricordate di uscire, e si incamminò verso il corridoio, incitando Kai a fare altrettanto.

 

L’uomo era pallido come un cencio, lo sguardo perso nel vuoto di chi ha appena ricevuto una notizia sconvolgente.

Senza dubbio il punto di vista di Hilary cambiava le carte in tavola: ora la ragione non era più tutta la sua.

 

Daphne, ti dispiace andare a vedere come procede l’allenamento di tua sorella?” la ragazza sorrise, facendogli cenno di aver capito, e andò via.

Rei fece un sorriso soddisfatto: quella ragazzina aveva, come Nadja, l’intelligenza di sua madre. Aveva capito subito che suo padre stava per avere un’epifania.

Kai, tutto bene?”

 

“Non… Mi ero reso conto che… Ci avesse visti.” il russo parlò a fatica, visibilmente scosso. “Cindy non era niente, era una che mi faceva una corte serrata. Quel giorno mi ha baciato, ma non pensavo…” con una sequela di imprecazioni, diede un pugno di sfogo al muro, e Rei inarcò le sopracciglia.

 

“Che pensi di fare, adesso?”

 

“Non lo so. Io non lo so.”

 

 

Ahia. L’ultima volta che hai detto così sei stato bello fritto, amico.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

Uh.

Non so a voi, ma alla alla sottoscritta è piaciuto questo elemento. xD

 

Che dire? Sia fatto santo Rei, grazie al quale molte cose hanno cominciato a muoversi contemporaneamente e… Beh, vedremo cosa accadrà prossimamente! xD

 

Voi lo sapete? Io si. XDDD

 

See yah next week; hope you’ll be there.

 

A big kiss,

 

Hiromi

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Capitolo 11
*** Undicesimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

“Non ti vedevo così in crisi da quando ci dicesti di essere innamorato di Hilary.” non appena Takao lo disse, Rei scoppiò in una breve risatina; in effetti Kai li aveva buttati giù dal letto in un’ora non molto consona per il Sabato mattina, giorno in cui la stragrande maggioranza dei lavoratori sulla faccia della terra preferiva dormire, quindi doveva esserci sotto qualcosa di grosso.

 

“Ti ricordi?” quando il cinese ammiccò verso il giapponese, entrambi si persero nel ricordo di quasi vent’anni prima, quando, ad un campionato del mondo, avevano messo il russo con le spalle al muro.

 

 

 

 

“E intanto Kaiuccio se la spassa.” brontolò Takao. “Guarda quante fan…”

 

L’interpellato, le braccia conserte e gli occhi chiusi, appoggiato al muro, sospirò impercettibilmente.

“Sei un immaturo.” non aveva ringhiato né urlato, ma il tono in cui l’aveva detto era quasi… amareggiato.

Un tono che il Giapponese non gli aveva mai sentito usare.

 

“Non sono tutte le fan del mondo a fare la felicità, Takao.” spiegò Rei. “E’ questo che intendeva dire.”

 

Quello scrollò le spalle. “Beh, i miei fan ce li ho, ma se ogni volta che combatto, vedessi una caterva di ragazze urlanti che sbandiera striscioni indecenti… Beh…” ridacchiò.

 

“Mao vale cento di quelle ragazzine.” affermò Rei tranquillamente.

 

“Che palle, da quando stai con lei sei tutto un cuoricino.” si lagnò il giapponese. “Questo è il campionato che si doveva chiamare Valentino! Prima tu e Mao, poi Max ed Emily… Ci manca solo che si fidanzi Kai e mi butto dal balcone…

 

Il russo non rise né fece cenno di aver apprezzato la battuta. Semplicemente, incupì maggiormente lo sguardo.

 

Kai, guarda che scherzava.” provò Rei.

 

Ma dove guardi?”

 

Takao e Rei seguirono la traiettoria dello sguardo del russo, e ciò che videro li lasciò a bocca aperta: Hilary.

Hilary che, a braccetto con una nuova leva della squadra europea, rideva, rovesciando indietro la testa. E il russo strinse i pugni.

 

Sei innamorato di lei?”

 

M-Ma da quando?” Takao sembrava incredulo più che altro perché non l’aveva capito.

 

Il moscovita parlò lentamente. “Da sempre, per sempre.”

 

 

 

 

“Molto divertente.” Kai era serissimo.

 

Ma non stiamo dicendo che lo sia.” fece notare Takao. “Stiamo solo ricordando i bei tempi andati. Sono già passati vent’anni? Siamo noi che siamo vecchi o siamo semplicemente prematuri?

 

“Sei tu che ti stai comportando come una nonnina.” brontolò il russo.

 

“Dai cognatino, non fare quel muso lungo, mi dici che succede? Per te mi sono alzato prestissimo… Suvvia, adesso siamo qui, in compagnia di un buon caffè, e mi dici tutto.

 

Kai sbuffò: non era semplice spiegare come si sentiva se davanti a sé aveva un Rei che lo fissava come se già sapesse tutto, e un Takao che aveva più l’aria rincretinita che altro.

“E’ stata una pessima idea.” affermò quindi, alzandosi.

 

“No, adesso ti siedi e ti calmi, che sei sconvolto.” Rei finì di sorseggiare il suo . “Takao, sai cos’è successo ieri?”

 

Quello scrollò le spalle. “So che è accaduto il miracolo senza andare a Medjugorje: Mao e Hilary si sono riappacificate.”

 

Rei annuì. “Quello che non sai – per la verità non lo sa nessuno e nessuno lo deve sapere – è che quando si stavano chiarendo – o stavano urlando, dipende dai punti di vista – Kai era dietro la porta, e ha sentito tutto.”

 

Takao era perplesso. “Beh… Allora?”

 

Il russo lo trapassò con un’occhiata di fuoco. “Scusa se sono sconvolto.” sibilò. “Scoprire che mia… La mia fidanzata di allora se ne è andata perché riteneva che la tradissi, e che era affetta da depressione non ti sembra abbastanza per rimanerci? Depressione! E non me ne sono neanche accorto.” ringhiò. “Ero tutto preso da… Da quella palestra, accidenti.” sibilò.

 

Va’ da Hilary.” disse semplicemente Takao. “Dille quello che hai appena detto. Tu la tradivi?”

 

“Cazzo, no!” il volto di Kai era rabbioso. “Cindy era una palla al piede. Nient’altro che questo.”

 

“Bene, tutto è risolto.” il giapponese scrollò le spalle.

 

Rei sorrise. “Io non credo.” al volto interrogativo di Takao, assunse un’aria sibillina. “Lo conosco troppo bene, quello che ha detto a noi non è che la punta dell’iceberg.”

 

Kai si irrigidì palesemente, ogni volta si dimenticava che al mondo esistevano persone in grado di conoscerlo così bene da sapere cosa lo affliggesse prima ancora che aprisse bocca; gli ci vollero parecchi secondi per decidere.

Cacciò fuori dalla tasca un astuccio quadrato di seta blu e lo aprì, rivelando al suo interno un solitario. Lo ammirò sospirando, come se lo avesse fatto tante e tante volte e, i due uomini che erano con lui si scambiarono uno sguardo, meravigliati.

 

“Dopo tutto questo tempo?”

 

“Sempre, per sempre.”

 

 

 

 

Daphne batté le mani, deliziata. “Che bello, tutto va come previsto!”

 

Nadja fissò la gemella. “Mamma e papà non sono ancora tornati insieme, ti ricordo.”

 

L’altra la guardò di traverso. “Oh, ma stai sempre a fare il gufaccio del malaugurio, te?”

 

“Sono realista, è diverso.” disse, scrollando le spalle.

 

L’inglesina scosse la testa, decidendo di cambiare discorso. “Ma l’hai visto tuo zio come è stato geniale? E’ una mente acutissima, già lo adoro!” trillò, estasiata. “Non solo ha fatto fare pace alla mamma e alla sua ex migliore amica – il che è un passo avanti enorme, perché più appoggi ha e meglio è – ma ha pure fatto si che papà ascoltasse. Un genio, è un genio!”

 

Si, è stato bravo.” ammise Nadja, con un sorriso.

 

“E fattela una risata, scema!” Daphne era su di giri.

 

“Preferisco ridere una volta raggiunta la meta, non mentre sto scalando la montagna.”

 

L’altra roteò gli occhi. “E queste frasi da dov’è che le tiri fuori, tu? Hai quindici anni e sembri una sessantenne, mamma mia…

 

Nadja non raccolse. “Il prossimo passo qual è?”

 

“Semplice. Fare in modo che quei due stiano a contatto l’uno con l’altra. Un contatto molto, molto stretto, non so se mi sono spiegata…” fece, con un sorrisetto.

 

La moscovita annuì, poi assunse un’aria scettica. “Ti ricordo che il tuo piano potrebbe fallire.”

 

“Già, così come un asteroide potrebbe colpirmi mentre cammino, un alieno potrebbe rapirti mentre fai la doccia e un merlo cacarmi in faccia mentre apro la finestra… Nadjaaaaa! Basta!”

 

 

 

 

Hilary rise nuovamente alla battuta di Mao: dire che si stava divertendo era un eufemismo e in quell’istante benedisse le sue adorate gemelle per aver architettato quel piano strampalato, quel giorno, a Parigi.

Era da tanto, troppo tempo che non si sentiva così bene, che non era così rilassata, e lo doveva solo a loro.

Si trovava in un pub con Mao e Karen, fasciata in un tubino nero aderente, e il tempo sembrava essere tornato indietro di, perlomeno, sedici anni.

Avevano deciso di andare nel locale più in di Mosca per festeggiare la loro amicizia ritrovata, e si erano vestite di tutto punto, erano andate dal parrucchiere insieme, e ora si trovavano lì da più di un’ora.

 

“Ragazze…” richiamò la loro attenzione alzando il bicchiere di vetro. “Che ne dite di brindare?”

 

“Io ci sto.” Mao aveva un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. “A cosa?”

 

“Alle gemelle.” ridacchiò. “Senza il loro piano del cavolo questo giorno sarebbe arrivato molto più in là.”

 

Karen annuì solennemente. “Alle gemelle!” I loro bicchieri tintinnarono, e tre Manhattan vennero sorseggiati subito dopo.

 

“Allora, dopo il secondo giro di drink qual’era il nostro argomento?” Mao si porto una mano alla tempia per poi illuminarsi. “Oh, si.” il tono era malizioso. “Uomini.”

 

Mh, vero.” fece Karen, annuendo. “Il primo giro era carriera, per il secondo uomini, il terzo amicizia.”

 

Hilary arricciò il naso. “Chissà perché quest’ordine.”

 

“Ah, non cambiare discorso.” Mao la puntò con un sorrisone. “Sei l’unica che non si è sposata. Mi fai credere che a Londra, nella mitica London non c’è un signor Tachibana?

 

La bruna quasi si strozzò con un sorso di drink per il ridacchiare, e Karen le fece eco. “No, no.” rispose, quando si riprese. “Non c’è.”

 

La francese inarcò un sopracciglio, ravviandosi una ciocca di capelli biondi. “Mi vuoi far credere che sei stata da sola per quattordici anni? Con questo fisico e questo viso? Nah, non ci credo.”

 

Hilary rise. “Infatti non è così. Gli uomini ci sono stati, rigorosamente tenuti al di fuori dalla mia casa, e alla larga da mia figlia ma…” qui arricciò il naso. “Con il mio lavoro ho conosciuto parecchia gente: tra colleghi, superiori, clienti, sono uscita con parecchi di loro. Con molti la situazione minacciava di farsi seria e-

 

Minacciava?” Mao inarcò un sopracciglio.

 

La bruna ridacchiò nervosamente. “Si, beh, molti di loro erano dei magnati stranieri, ma non mi interessavano più di tanto. Uscivo a cena, se qualcuno mi piaceva un filino di più c’era qualche dopocena, ma…” arricciò il naso. “Ho avuto tre proposte di matrimonio.”

 

Karen era stupita. “Non ne hai accettata nessuna?”

 

Lei scosse il capo. “No, non li amavo. Uscirci era una cosa, passarci il resto della vita un’altra.” fece, ridacchiando. “Mi dicevo: è questo l’uomo che voglio che mia figlia conosca? Mi rispondevo: Cielo, no!!!!!!!! E declinavo.

 

Daphne quindi non ha mai conosciuto nessuno degli uomini che hai frequentato.” all’affermazione di Karen, Hilary scosse la testa come se la sola idea la ripugnasse.

 

“In tutti questi anni Max e Maryam sono stati la nostra famiglia, a quei due devo tutto.” fece, enfatizzando l’ultima parola. “Potessi comprare loro la luna, la comprerei. Mi hanno accolta, mi hanno mandata dall’analista, mi hanno fatta finire gli studi, mi hanno tenuto Daph per quattordici anni, mi hanno mandata al centro weight watchers… Sono stati la mia famiglia.” spiegò, gli occhi fissi nel vuoto, quando si riprese, si accorse che l’atmosfera si era incupita parecchio.

“Ehi, ma anche voi dovete raccontarmi di voi! Mao, io ero rimasta a te eterna fidanzata dall’età di sedici anni e ti ritrovo sposata e mamma di due figli!” rise. “Beh?”

 

Mao ridacchiò. “Questo è il potere che hanno le donne.” spiegò. “Il potere di far fare le cose spontaneamente. Basta dire loro ti lascio in bianco e vedi come filano.” tutte risero.

 

“No, sul serio, come te l’ha chiesto?”

 

La cinese scrollò le spalle. “Dopo che tu te ne andasti io volevo prendermi cura di Nadja, mi ero affezionata a lei, ma non potevo vivere qui da sola. Le regole della tribù sono severe; così Rei un giorno mi disse che dovevo vivere con qualcuno, qualcuno che conoscessi bene: lui. Dicendolo mi aveva preso la mano sinistra e mi aveva infilato quest’anello che vedi.” fece, mostrandole una fascetta d’oro con incastonato un topazio che ricordava gli occhi di Mao.

 

Hilary sorrise. “Che bello… praticamente per amor tuo accettò di vivere qui. Romantico Rei lo è sempre stato…” sospirò.

“E tu, Kary? Come hai vissuto questi anni? Ti avevo lasciata on the road.”

 

La bionda fece spallucce. “Per un paio di anni abbiamo vissuto in Giappone, poi il nonno di Takao è mancato, e lui c’è rimasto davvero, davvero male, così abbiamo venduto la casa e gli ho proposto di trasferirci in Francia. Lì abbiamo faticato un po’ per trovare lavoro, soprattutto lui che è pigro e non sapeva cosa fare, ma alla fine c’è riuscito.” raccontò.

 

“Quando vi siete sposati?”

 

“Cinque anni fa, a Parigi.” sospirò Karen, mostrandole la mano sinistra dove, accanto alla fede vi era un solitario con un bell’ametista.

 

Hilary ridacchiò. “No, adesso la voglio sentire la proposta di matrimonio di Takao!”

 

“Guarda che con me fa tutto il seducente.” le strizzò l’occhio la sorella di Kai. “Eravamo in un ristorante molto chic, ha estratto l’astuccio, ha fatto un sorrisetto e me l’ha chiesto.”

 

La bruna era meravigliata. “Anvedi il marpione!”

 

Mao ridacchiò. “Non beccare mai insieme Karen e Takao. Sono letali mentre amoreggiano.”

 

Ma che spiritosa.”

 

In effetti Takao è cambiato molto.” osservò Hilary. “L’ho trovato più posato, meno irruento, più maturo…

 

Karen si sciolse. “Sapete tenere un segreto?”

 

Santo cielo, ragazza, spara!” Mao aveva già aperto le orecchie.

 

“Ieri sera mi ha sussurrato che vuole un bambino.” mormorò, quasi con le lacrime agli occhi. “Cioè, lavoriamo entrambi, siamo sposati da cinque anni, lui ha trentasei anni, io ne ho trentatre abbondanti… All’inizio della storia mi dicevo: bambini? Li vorrei, ma è un bambino lui, diamine! Ora, invece…” fece, sciogliendosi in un sorrisone. “E’ il momento giusto, me lo sento.”

 

“Tesoro, sono tanto felice per te.” sussurrò Hilary. “Te lo meriti.”

 

Mao annuì. “Sono d’accordo, si dice che parlarne in anticipo porti male, ma dobbiamo anche dire che i fattori favorevoli ci sono.”

 

Karen si strinse nelle spalle, felice. “Spero di non diventare una di quelle donne ossessionate da ovuli e momenti propizi, non lo sopporterei.”

 

Mao decise che era il momento di cambiare discorso. “E tu cerca di far in modo che avvenga nella maniera più naturale possibile. Come, qualcuna, qui, che se non sta attenta, farà il tris.

 

Karen scoppiò letteralmente a ridere, divertita, e Hilary, che stava finendo di sorseggiare il suo drink sbatté gli occhi.

“Eh?”

 

Seh, seh. Fa’ finta di non capire.”

 

La bruna era accigliata. “Ma io non capisco sul serio. Che intendi con tris?”

 

Mao aveva uno sguardo malizioso. “Com’è che da un giorno all’altro Kai è cambiato così repentinamente nei tuoi confronti?”

 

Hilary scrollò le spalle. “Non so: è sempre stato il tipico uomo con il mestruo, lui.”

 

“Bah, io direi che ti guarda in un modo… Tipo stasera quando sei uscita in abito da sera ti avrebbe stesa sul tavolo del salotto, dai ascolto a me.”

 

Karen scoppiò a ridere. “Anche prima non scherzava, solo che lo nascondeva dietro l’atteggiamento da orso grizzly.” aggiunse.

 

“Siete fuse.” Hilary scosse la testa.

 

“Ne riparleremo quando ti ritroverai nuda un letto che non è il tuo.” le due donne sghignazzarono.

 

“Che poi io lo vedo bene un ritorno di fiamma tra mio fratello e Hila. Potrei iniziare nuovamente a chiamarti cognatina!

 

La bruna la guardò di traverso, decidendo di stoppare definitivamente quel momento e che era ora di tornare serie, chiarendo subito le cose. “Kary, fatti un nodo alla lingua. Non ci sarà nessun ritorno di fiamma.”

 

Mao sorrise. “Mai dire mai, tesoro. L’elettricità tra te e Kai è talmente potente che si taglia con il coltello. Vi attraete in una maniera primitiva, quasi animalesca, ed è sempre stato così, da vent’anni a questa parte, e puoi fare di tutto, pure negarlo, ma non cambiarlo. Non è in tuo potere.”

 

“Leggi troppi romanzi rosa. Ti fanno male. E molto.”

 

La bionda si ravviò i capelli. “Onestamente, secondo me può ancora nascere qualcosa tra voi.”

 

Quella alzò gli occhi al cielo. “Okay, ragazze, a me non interessa. Attrazione è una cosa, amore è un’altra. Il treno passa una volta, e noi siamo scesi a forza, soprattutto io.

 

Mao ponderò bene le parole prima di parlare: “In questi anni come si sono evoluti i tuoi sentimenti per lui?”

 

Hilary alzò un sopracciglio. “Mi stai chiedendo se lo amo ancora? La risposta è no. E’ passato troppo tempo. Quattordici anni sono un’eternità. Ho passato mille e mille avventure, avuto altri uomini, vissuto con la mia famiglia, cresciuto mia figlia; figurati se ho pensato a lui.

 

Va bene, Hil, farò finta di crederci.

 

 

 

 

Si, ma è di sopra: ultimamente sta sempre a parlottare con Nadja. Quelle due stanno legando un sacco. Ti faccio richiamare, poi.” Hilary, al telefono con Maryam, sorrise, trangugiando una fetta di torta tipica russa.

“Ieri sera sono uscita con Mao e Karen, ed è stata davvero una gioia, devi credermi. Alla fine questo viaggio ci voleva proprio…” fece, sospirando, contenta. “No, onestamente non so quando torno, ma ora che mi ci fai pensare dovrò pur iniziare a pensarci… Sono qui ormai da cinque giorni, in effetti non posso chiudere lo studio per sempre.” rifletté, accigliata.

“Come ultima cosa mi resta mettermi d’accordo con Kai sulle gemelle… Poi potrò iniziare a prenotare un volo…” s’interruppe per ascoltare cos’aveva da dirle l’amica, e annuì, convinta.

“Ma certo, ma certo. Con lui le cose vanno meglio, improvvisamente è diventato molto più gentile e affabile del solito, non siamo più sul sentiero di guerra… Diciamo che siamo in un territorio neutrale.” ridacchiò.

“Va bene, farò come dici tu. Ti saluto, Mari. Dì ciao a Max e Daisy da parte mia; mi mancate tantissimo.” fece, mettendo giù.

 

Lentamente, finì di mangiare la sua fetta di vatruska, pensando a quello che le aveva consigliato l’amica, ossia di instaurare un dialogo con Kai, e pensare prima di tutto a quello che era meglio per le gemelle: si erano conosciute, ormai avrebbero voluto una parvenza normale di famiglia, o qualcosa di simile…

 

Già, ma in che maniera?

 

Sospirò pesantemente alzando gli occhi al cielo, e sobbalzò quando sentì qualcuno entrare in cucina.

Kai.

 

“Ehi, ciao.” lo salutò, sorridendo. “Sei tornato presto da lavoro.”

 

Lui la fissò attentamente, poi si versò della vodka, che i russi bevevano a tutte le ore del giorno per combattere il freddo. “Ho finito prima” tagliò corto. “Vuoi?”

 

Hilary aggrottò le sopracciglia. “Nah, non ho particolarmente freddo, anche se capisco che tu vieni da fuori.” fece, togliendo il piattino e mettendolo nel lavello. “Nadja è da poco rientrata da scuola, Daph è con lei di sopra… Quelle due stanno sempre a cianciare.” spiegò, sentendosi stranamente nervosa: era la prima volta che si trovava con lui da sola, e si sentiva strana.

Le parole di Mao e di Karen a proposito della loro attrazione continuavano a tornarle in testa, a vorticarle senza sosta nel cervello, e si sentiva inadeguata, spaventata, strana.

 

Devo finirla, nemmeno vent’anni fa mi comportavo così…

 

Facendo per uscire dalla stanza, sbatté inavvertitamente alla gamba del piccolo tavolo, e sarebbe caduta se qualcuno non l’avesse prontamente afferrata. Qualcuno con due magnetici occhi viola. Occhi viola in cui, anni prima, si era già persa.

 

Fu un attimo.

 

Nell’istante in cui si ritrovò tra quelle braccia e a guardare così tanto da vicino quel viso, a respirare quel profumo, ricordò tutto.

Ricordò com’era baciarlo, ridere, scherzare con lui, prenderlo in giro, essere coccolata da lui e coccolarlo; ricordò com’era piangere tra le sue braccia, litigare con lui e subito dopo fare la pace, perché loro non sapevano mettersi il muso a vicenda, allora

 

Mao e Karen avevano ragione: loro si attraevano. Ma non nel comune senso che si suole dare quando due persone si piacciono. Loro si attraevano come due calamite, ma c’era di più, c’era molto di più: erano due cani che si mordevano la coda, schiavi di quell’attrazione, di quella magia che li avrebbe legati per sempre.

 

Io non posso innamorarmi di te un’altra volta, Kai. Non lo permetterò.

 

“Mamma, dove sei?” la voce di Daphne interruppe tutto. Il contatto tra di loro venne spezzato bruscamente e si ricomposero, come se nulla fosse accaduto.

 

“Sono qui, tesoro.” la voce le uscì un po’ gracchiante.

 

Le gemelle entrarono in cucina, Nadja con i capelli sciolti, fino sotto le orecchie, Daphne con i capelli fino alla vita, dato che si era fatta applicare le extension.

 

“Abbiamo una richiesta da farvi.” esclamò l’inglesina, le mani sui fianchi.

 

Nadja alzò gli occhi al cielo. “Se inizi così…”

 

“Allora inizia tu che sei tanto brava.”

 

“Ragazze.” al richiamo di Kai entrambe si zittirono, e Nadja si fece avanti.

 

“Sappiamo che è questione di giorni prima che la mamma e Daphne tornino in Inghilterra, quindi abbiamo pensato che sarebbe bello passare una giornata tutti e quattro insieme.”

 

L’altra annuì, contenta. “Si, una giornata per la famiglia Hiwatari!”

 

Hilary e Kai si guardarono, in imbarazzo.

Questo proprio non se l’aspettavano, e non sapevano cosa fare. Senza dubbio qualcosa per ricordare loro una famiglia la dovevano ma… che ne sarebbe stato di loro due, i cui ormoni promettevano così poco?

 

“Oh, e va bene.” concesse la donna, balbettando. “C-Cioè, per me va bene… Non so, tu sei d’accordo?”

 

Lui annuì, come a convincere più se stesso. “Si, certo.”

 

Daphne e Nadja si scambiarono un breve sguardo, complici. Quello era soltanto l’inizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

Se quello di prima mi era piaciuto, e anche tanto, questo qui è il classico quanto antipatico capitolo di transizione. u__u Antipatico ma ci vuole.

Anche perché la roba succulenta c’è, sparsa qua e là, ma anche arriverà nel prossimo capitolo. e___e

 

Quindi, restate sintonizzati.

 

Perché con il prossimo… Dovrete preparare una bella scorta di bombole d’ossigeno. *sorriso malefico*

 

Io l’ho detto, e a buon intenditor…

 

xD

 

Hasta luego, guys;

 

besos,

 

Hiromi

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Capitolo 12
*** Dodicesimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

“Allora?”

 

Quel giorno Hilary aveva un’inquietante voglia di nicotina: da fumatrice non abituale, portava le sigarette sempre con sé, nel caso servissero, in casi, ad esempio, come quello. Un caso di isterismo puro.

Perché il fatto che Mao e Karen avessero entrambe incalzato in una situazione che già, di per sé, non era semplice, non aveva contribuito a nulla se non che ad aumentare il suo nervoso.

 

“Ehi, ehi!” la bionda francesina fece aria con la mano, arricciando il naso. “Cos’è quella roba?”

 

“Ti lascio immaginare.” le rispose la bruna, aspirando una lunga boccata dalla sigaretta.

 

Mao la squadrò con disapprovazione. “Da quant’è che dura questa cosa?”

 

L’imputata alzò gli occhi al cielo. “Un po’. E si, merito la reclusione, vostro onore.”

 

“E’ questo che insegni a tua figlia?”

 

“Accendo solo quando sono nervosa, Kary. Tipo adesso. E funziona, sai?”

 

“Ci credo, con tutta quella roba… Sai che sono cinque minuti della tua vita in meno?”

 

“E tu sai che chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni in più?” la battuta servì a farle ridacchiare. “Dai, ragazze, sono nervosissima, non mi date addosso…” fece, aspirando un’ultima boccata per poi buttar via la roba incriminata.

 

“E’ soltanto una giornata, Hil.” Karen scrollò le spalle. “Sapete già dove andare?”

 

“No, non so nulla.” sospirò. “Accidenti, sono così… Agitata.”

 

Mao fece un sorriso malizioso. “Me la racconti meglio questa di ieri?”

 

Hilary sospirò, prima di mordersi le labbra. “E’ stato tutto come… In un maledetto film sentimentale.” sputò fuori. “Ero lì, che mi facevo i fatti miei, poi arriva lui, e comincio a balbettare, come una dannata adolescente. Inizio a dire cose senza senso… Poi, quando faccio per andarmene, cado – ovviamente, le mie solite figure – e lui… Beh, mi prende al volo.

 

“Come ti sei sentita?”

 

Alla domanda di Karen, ci dovette pensar su un istante, come per trovare le parole. “Ero… In una bolla. C’era una parte di me che pensava: wow, allora quello che dicono i romanzetti è vero! Mentre un’altra parte di me si perdeva nei suoi occhi. E, intanto mi ricordavo tutto quello che avevamo passato insieme, di com’era stare insieme a lui, e ho sentito ogni cosa: l’attrazione, l’elettricità. Che erano fortissime, potenti. In quegli istanti, giuro, avrei soltanto voluto stringere le braccia al suo collo e baciarlo.” confessò, abbassando lo sguardo. “Ma sarebbe stato un errore pazzesco. Fortuna che la mente domina gli istinti.”

 

Mao era tutta un sorriso, anche se provava a nasconderlo. “Beh, non sempre. A furia di dominarli, verranno fuori nel momento meno opportuno, e allora non resterà altro che-

 

“Correre ai ripari.” l’interruppe Hilary, decisa. “Non voglio nemmeno pensare a cosa sarebbe se accadesse quello che hai detto tu. Io non sono un ormone ambulante. Beh, vero: con Kai c’è attrazione, ma saprò dominarmi, non ho più vent’anni e ho delle responsabilità. Ho due figlie, non posso illuderle.”

 

“E se ti innamorassi di nuovo di mio fratello?”

 

Hilary impallidì. “Non dirlo neanche per scherzo. Ora che è tutto sistemato, che tra me e Kai c’è un rapporto civile, non intendo rovinarlo. Ci siamo amati tantissimo, ma è stato un amore che ha rovinato entrambi. Eravamo giovani, stupidi, sbagliati.” dichiarò, scuotendo la testa. “Non voglio soffrire ancora in quel modo. Ne morirei.”

 

Mao parlò lentamente. “Se non lo ami e basta è un conto… Ma se non vuoi amare per paura di soffrire… E’ un’altra cosa, completamente diversa, e palesemente stupida. Riflettici.” dichiarò, prima di lasciare la stanza.

 

 

 

 

Fasciata in un abito Marc Jacobs, scese mezz’ora dopo. Si era truccata di tutto punto, cercando di eliminare le occhiaie con una bella dose di fondotinta, ma non sapeva quanto ci fosse riuscita. Quella notte non era riuscita a chiudere occhio per l’agitazione e quella mattina i risultati erano stati più che evidenti.

 

“La mamma è qui, possiamo andare.” una Nadja palesemente contenta le venne incontro: con un maglione verde e dei pantaloni neri, soleva vestirsi in maniera più semplice e meno ricercata rispetto a lei e Daphne, ma aveva dei lineamenti bellissimi ed un gran cuore, oltre che degli alti valori morali. Mao aveva fatto un bel lavoro, crescendola.

 

“Non dobbiamo fare colazione?” chiese la donna, aggrottando le sopracciglia.

 

“Papà ha detto che ci porta da qualche parte.” esclamò Daphne, tutta contenta. “Dai, muoviti, mamma!”

 

Lei alzò le mani in segno di resa. “Okay, perdono.” fece, andando ad indossare il cappotto.

 

“Siete pronte?” Kai le fissò con un cenno di sorriso sulle labbra e Hilary non poté non pensare a quanto fosse bello quando se lo concedeva.

 

Si, andiamo!” esclamò Daphne. “Prendiamo la Jaguar?”

 

Kai annuì, prendendo il mazzo di chiavi dal mobile di fronte; Hilary sbuffò. “Non potremmo prendere un veicolo che dia meno nell’occhio?”

 

“Vuoi prendere la limousine?”

 

“Ho capito, prendiamo la Jaguar.”

 

 

 

 

Un’ora più tardi si ritrovarono nel bar più antico di Mosca a far colazione; e lì seduti, Hilary non riusciva completamente a rilassarsi, e si vedeva. Pur con un caffè davanti e un cornetto della migliore pasta sfoglia, sembrava avesse un elefante sullo stomaco.

 

Sto rovinando la giornata a Daphne e Nadja… Devo almeno far finta di divertirmi, lo so…

 

Le gemelle facevano finta di nulla chiacchierando fitto fitto, punzecchiandosi amorevolmente riguardo la passione dell’inglesina per la moda, e Kai le ascoltava con l’ombra di un sorriso sul volto, dopodiché Nadja annunciò di dover andare in bagno.

 

“Ti seguo, se no ti perdi.” puntualizzò Daphne. “Torniamo subito.”

 

Hilary si riscosse bruscamente, realizzando di essere stata lasciata da sola con Kai. Il suo nervosismo crebbe di secondo in secondo, soprattutto quando gli occhi ametista di lui si specchiarono in quelli di lei.

Ci fu un secondo di silenzio in cui le parve di udire i secondi scanditi dal battito del suo cuore, anziché dalle lancette dell’orologio.

 

“Ho ascoltato il tuo discorso.” iniziò, di puntò in bianco, facendola sobbalzare.

 

Lei sbatté gli occhi. “Cosa?”

 

“Non intenzionalmente, ma è successo. Quando tu e Mao vi siete chiarite. Ti ho sentito.”

 

Arrossì. “Beh… Stavamo urlando talmente forte che probabilmente solo qualcuno a cinquanta chilometri dalla palestra potrà dire di non aver sentito.”

 

“Non ti tradivo. E’ stata Cindy a baciarmi. Le ho sempre detto di lasciarmi in pace.”

 

Hilary abbassò lo sguardo, non capendo perché, a distanza di quattordici anni, quelle parole le facessero ancora così male. “Non ha più importanza, adesso.” si costrinse a dire.

 

Ce l’ha.” dichiarò, deciso. “Ero talmente preso dalla costruzione della palestra da non accorgermi che la mia compagna, la mia donna stava male, ed era caduta in depressione… Che razza di uomo sono?” sibilò, stringendo le labbra.

 

“Eravamo giovani.” rispose lei, accorata. “Eravamo sbagliati. Avevamo vent’anni. Che diamine se ne sa della vita, a vent’anni?” Senza nemmeno accorgersene, posò una mano su quella di lui, e quando il contatto generò una piccola scarica elettrica, che arrivò ad entrambi, la ritirò bruscamente. “Certo, ora ne abbiamo quattordici in più, ma personalmente mi sento molto più matura delle mie coetanee.” dichiarò tranquillamente. “Ho cresciuto una figlia, mi sono rimessa in piedi, ho sconfitto la depressione. E tu non sentirti in colpa per me: semplicemente, non era tempo per noi.” fece, scrollando le spalle. “Le uniche cose belle sono state Daphne e Nadja.”

 

Lui sorrise tristemente. “Già.”

 

“A proposito, dobbiamo parlare di loro, e anche di come ci dobbiamo organizzare per il futuro. Non posso stare a Mosca in eterno.”

 

Kai si irrigidì appena. “Stasera, non appena torniamo, prendiamo un bicchiere di vino insieme?”

 

Hilary sorrise, palesemente più rilassata. “Mi farebbe piacere.”

 

 

 

 

Nascoste dietro una colonna, le gemelle ascoltavano tutte con un’avidità fuori dal comune.

 

“Non ci credo, io mamma la strangolo!” gemette Daphne, strappandosi quasi le extension per la disperazione.

 

Nadja sbuffò. “Perché?”

 

“Ha praticamente detto che è tutto morto, finito tra loro!”

 

“Ha detto che erano sbagliati allora. Ciò non vuol dire che non siano giusti adesso.

 

Daphne incrociò le braccia al petto. “Eh, ma come si fa a farlo capire a lei?”

 

“Beh, io un’idea ce l’avrei.”

 

 

 

 

Hilary, un sorrisone sulle labbra, continuò a scattare delle foto: per il clima russo faceva una bella giornata, vi erano ben tre gradi, la giornata era abbastanza soleggiata, anche se il cosiddetto sole si divertiva a fare cucù da dietro le nuvole, ma andava bene così.

Non aveva mai visto la ‘Piazza Rossa’, la piazza principale di Mosca, e stava scoprendo, in quei giorni, una Russia molto più bella di come la ricordava. Diversa, piacevole.

 

“Non vedo alcunché di rosso.” osservò Daphne, accigliata. “Che pacco.”

 

“Il nome piazza rossa non deriva né dal fatto che gli edifici e le costruzioni qui attorno sono di colore rosso, né dal collegamento fra il colore rosso e l’ideologia comunista.” spiegò Nadja, inarcando il sopracciglio, e fissandola scocciata, come se stesse dicendo qualcosa di ovvio.

 

“Okay, enciclopedia, e da cosa deriva?”

 

“Dalla parola krasnaja, che in russo vuol dire sia rosso sia bello.”

 

“Che diamine c’entra questa parola con la piazza?”

 

“E’ stata applicata alla cattedrale lì in fondo.” spiegò Kai, indicando qualcosa alle spalle della ragazza. “E tu la smetti di fare delle foto a tradimento?”

 

Hilary scoppiò a ridere. “Nemmeno per sogno, mi diverto troppo.”

 

“Ehi, potremmo scattare tante foto di noi!” Daphne sembrò apprezzare molto l’idea, perché si illuminò tutta. “Che bello!”

 

“Okay, mettiti vicino a tua sorella.” sua madre con un gesto le indicò la fontana accanto alla quale potevano posare.

 

E scattò tante foto di loro due, che si spostarono in continuazione, facendo smorfie e boccacce, o anche ammiccamenti verso l’obbiettivo.

 

“Oh, anche con papino!” all’esclamazione di Daphne, la donna rischiò di svenire per le troppe risate.

Se pensava che solo vent’anni prima per far fare una foto a Kai ci voleva una pistola puntata, ora era il colmo se pensava che solo due ragazzine potessero coinvolgerlo così.

 

E come lo coinvolsero!

Ne vennero fuori delle foto memorabili: le ragazze che lo baciavano sulle guancie, o che lo abbracciavano, o che fingevano di contenderselo, tirandolo una da un lato e una dall’altro.

Ma l’ultima fu davvero spettacolare: Kai, le braccia incrociate al petto e l’aria da duro – un po’ come al solito, quindi – , e le gemelle al suo fianco, con gli occhiali da sole stile men in black.

 

“Mi state prendendo in giro?” l’uomo aveva un’aria scettica.

 

Ma no, papo.” trillò Daphne. “Cos’è che te lo fa pensare?”

 

Hilary stava ancora ridendo: aveva quasi le lacrime agli occhi mentre rivedeva tutte le foto impresse sulla digitale, non vedeva l’ora di scaricarle sul portatile.

 

“Ehi, una foto tutti e quattro!” esclamò Nadja, sorridendo.

 

“Hai ragione, sorella.”

Daphne, con un fischio, fermò una ragazza di colore. “Ehi, amica: New York?” quella annuì. “Dammi il cinque! Mi faresti un favore? Grazie.”

 

Non appena la foto venne scattata, Hilary fece per domandare dove sarebbero andati a quel punto, quando una delle gemelle prese nuovamente la parola.

 

Si, ma mamma e papà devono avere una foto insieme.”

 

La donna arrossì. “Non essere ridicola.”

 

Nadja annuì. “Non ha tutti i torti, mamma. Io la voglio una foto dei miei genitori insieme.”

 

La bruna boccheggiò. “Ma abbiamo la foto di tutta la famiglia, è venuta molto bene e-

 

Daphne inarcò le sopracciglia. “Non abbiamo chiesto una quindicina di stelle e la via lattea. E’ solo una foto.”

 

Voltandosi a guardare Kai, vide che nei suoi occhi vi era lo stesso imbarazzo, ma che lui tentava di non scomporsi. “E va bene.” fece, mettendosi accanto a lui.

 

“Mamma, non fare la scema.” rise Daphne. “Non siete due estranei capitati lì per caso, diamine!”

 

Hilary sbuffò.

 

Oh, al diavolo!

 

D’istinto si rivolse verso l’uomo e lo abbracciò, rivolgendogli un sorriso, che venne ricambiato. Il flash li abbagliò in quell’istante.

 

 

 

 

“Avete finito?”

Nadja aveva abbondantemente esaurito la sua scorta di pazienza: Daphne e Hilary si trovavano in due camerini di una boutique molto in da ormai mezz’ora e non accennavano minimamente ad uscire.

 

“Rilassati!” esclamò di rimando la gemella, da dietro la tenda.

 

“Stiamo facendo la muffa.” si lamentò l’altra, sedendosi sul divanetto assieme al padre, che, inespressivo e stoico, pareva indifferente a tutto.

 

“Okay, come sto?” Hilary uscì dal camerino sorridendo di un sorriso che le illuminò il viso.

Con un vestitino rosso che le aderiva alla perfezione a tutte le curve del corpo e le scarpe nere le slanciavano le gambe tornite e sinuose, era bellissima.

 

“Stai benissimo, mamma.”

 

Quando la donna incontrò lo sguardo di Kai, sobbalzò: i suoi occhi viola stavano solcando il suo corpo millimetro dopo millimetro, a cominciare dalle sue gambe per andare sul busto e infine per affondare nei suoi occhi.

Hilary sentì la sua gola seccarsi e una scarica di desiderio attraversarla.

 

Se è questo che riesce a fare con un solo sguardo… Stasera sarò perduta.

 

“Non so, quest’abito mi ingrossa il sedere.” Daphne emise un lamento, spalancando la tenda del camerino con una manata, che la riportò alla realtà. “Ehi, mamma, stai benissimo, sei una strafiga!” fece, schiacciandole l’occhiolino. “Nad, perché non lo provi tu questo abito? Hai il sedere più piccolo del mio, ti starà alla perfezione.

 

“No, non proverò nulla del genere.”

 

“Scommettiamo?”

 

Lasciando le gemelle punzecchiarsi, Hilary sorrise. “Ehi, siamo qui anche per te.” fece, avvicinandosi, ma lasciando tra loro due una certa distanza.

 

Kai la guardò. “Cosa proponi?”

 

La donna scrollò le spalle. “Uno smoking può sempre servirti, no? Sei continuamente invitato a gran galà, party, feste… Meglio essere preparati…”

 

“L’ultima volta che mi hai accompagnato a comprare uno smoking avevo ventun anni.”

 

Hilary fece un sorrisetto. “Hiwatari, ti ricordi! Come siamo sentimentali… Stiamo invecchiando?

 

Lui alzò gli occhi al cielo. “Certe cose non cambieranno mai.”

 

Trovata la commessa, si premurarono di cercare un abito maschile che gli stesse bene. Hilary scartò tutti gli smoking blu e marroni che proposero loro, e ne ordinò solo ed espressamente qualcuno nero.

 

“Lo dicevo io che Armani è decisamente la tua firma.” osservò la donna, annuendo, soddisfatta. “Poi, vedi, non è che ti devo ricordare io che qui va un fazzoletto o-”  mettendo male il piede, scivolò sui tacchi, e all’improvviso si ritrovò una mano strettamente insinuata tra le sue dita, a sorreggerla.

Hilary arrossì, vedendo anche lo sguardo deciso di Kai, e accorgendosi solo più tardi che la commessa era alle loro spalle.

 

“Ah, ma le sta benissimo.” cinguettò. “Sembra le sia stato disegnato addosso. Siete proprio una bellissima coppia.” parlava un russo fluente, ma dalle sue reminescenze la bruna riusciva a capirla quanto bastava per capire che aveva equivocato.

 

“Mamma, papà.” le gemelle sopraggiunsero immediatamente dopo.

 

“Oh, papà, come stai bene!” esclamò Daphne. “Ma cosa…?” il suo sguardo si fece stupito, andando nella direzione delle loro dita, ancora intrecciate.

 

Hilary e Kai boccheggiarono, separandosi bruscamente. “Ehm, si.” cercò di darsi un contegno. “A che punto siamo, ragazze?”

 

“Oh, noi abbiamo finito.” Nadja fece spallucce. “Quello che prendiamo è alla cassa.”

 

Daphne fu rapidissima: prese la digitale e scattò una foto ai genitori, che protestarono vivacemente. “Oh, non ve la prendete: siete così carini, l’uno accanto all’altra.” fece ghignando. “Al posto di quella foto spezzata di quel galà, ora ho questa.”

 

Nadja le schiacciò il cinque. “Bel colpo. Poi la passi.”

 

Hilary scosse la testa. “Siete diaboliche.” Daphne rispose con un sorrisetto.

 

Ed è solo l’inizio.

 

 

 

 

“Non ci credo, gira!” Hilary aveva un sorriso grande quanto una casa, e le gemelle non erano da meno.

 

Ma papà, ma come hai fatto? Questo è il ristorante più caro di Mosca…” Nadja era sbigottita. “A parte che per mangiare qui bisogna prenotare perlomeno con un anno di anticipo…

 

Kai diede con nonchalance il cappotto al maitre. “Ho i miei metodi.”

 

Erano andati a pranzare nel ristorante più esclusivo e caro della città, che aveva luogo nel grattacielo più alto ed aveva la fama di possedere i cibi migliori nonché la clientela più raffinata.

Dalla vetrata si ammirava gran parte di Mosca, e la particolarità era che il pavimento… girava.

 

Sedendosi nel tavolo a loro assegnato, Hilary non smetteva di guardarsi intorno e le gemelle di indicare le enormi vetrate che le circondavano.

Quando il cameriere passò a prendere le ordinazioni, vennero scelti dei pasti tipici russi, anche per farli provare alle due residenti inglesi.

 

“Altro che patatine tutto il giorno tutti i giorni, ma come diamine fate?” fece Nadja, roteando gli occhi.

 

Hilary ridacchiò. “Ma noi non mangiamo solo patatine.”

 

“Ti prego, quando sono venuta ad abitare con te praticamente ho mangiato solo questo per sopravvivere.”

 

“Non è vero! Ti ho cucinato anche… Del kebab, abbiamo ordinato cinese… Abbiamo ordinato la pizza…” fece, l’ombra di un sorriso sulle labbra, tentando di ricordare.

 

“Questo perché ogni volta bruciavi le patatine!” replicò beffarda Nadja, facendo ridere gli altri.

 

“Il tuo modo di cucinare non è cambiato molto in questi anni, a quanto sento.” s’intromise Kai, sorseggiando della vodka.

 

Hilary ridacchiò, sgranocchiando qualche grissino. “Nah, ho tentato di combinare qualcosa con forno a microonde e cibi precotti, e generalmente non me la cavo male, tranne quando esagero con il tempo di cottura e si bruciano.” la donna rimase meravigliata quando lo udì ridacchiare. “Ehi, ma che hai? Mi prendi in giro?”

 

Lui scosse la testa. “No, è che… Ricordavo quando hai tentato di cucinare tu per la rimpatriata e Takao te lo impedì cucinando lui e facendo rompere il forno.”

 

Hilary scoppiò a ridere. “Ah, si! Lui non era tanto meglio di me a cucinare, per nulla! Tua sorella è un’ottima cuoca, però, e a lui piace molto questo fatto, essendo un’eccellente forchetta.

 

“Karen non scherza nemmeno sotto questo punto di vista.”

 

“Beh, si sono trovati, no?” ribatté lei, facendolo sorridere. “E pensare che litigavano come cane e gatto, i primi tempi, mamma mia.”

 

“Tensione sessuale.” fece Daphne, assaggiando qualcosa degli antipasti che erano arrivati. “Si chiama così, no?”

 

“Tu non sei troppo piccola per sapere queste cose?”

 

“Papà, ho quindici anni.”

 

“Appunto.”

 

Hilary scosse la testa, divertita. “Per curiosità, Nad, cos’è che ti ha raccontato tuo padre, al mio proposito?”

 

La ragazza inarcò un sopracciglio. “Parli della cicogna bussò alla sua finestra con un fagotto contenente me?”

 

 

 

 

Uscendo dal cinema con i pop-corn in mano, Hilary si sentì leggera e felice come poche volte lo era stata. Si, contenta da anni a quella parte lo era spesso… Ma felice, veramente felice… Quella era un’altra storia.

Aveva passato una giornata favolosa, bellissima, in cui si era divertita come poche volte nella sua vita e aveva riso praticamente tutto il tempo. Adesso si stava chiudendo in bellezza uscendo dal cinema: le gemelle, pur con il sorriso sulle labbra, erano stanche, ed era tempo di tornare a casa.

 

Visto che era bello?” fece Daphne. “Mamma Mia è un must, non tramonterà mai! E’ come Pretty woman, Star Wars, Grease…”

 

“Ehi, mettici anche Il padrino, Il laureato, Ufficiale e Gentiluomo… E anche i film della Disney! Quelli si che non tramontano mai! Però quelli di un tempo, tipo La bella addormentata.” intervenne Hilary.

 

“Bene, modaiole e anche cinefile.” Nadja sbadigliò, esausta.

 

“Ovvio, tesoro.” la donna circondò le spalle della figlia con il braccio. “Io e Daphne abbiamo un’intera collezione dei migliori dvd a casa. C’è il grande cinema a casa nostra.”

 

“Ah, per quello c’è quel televisore di oltre cinquanta pollici?”

 

“Puoi ben dirlo.” Daphne si stiracchiò. “Le migliori scene si vedono che è una delizia!”

 

Hilary corrucciò lo sguardo. “Ci sediamo un po’ lì, su quella panchina? La strada per l’auto è lontana, ci riposiamo dieci minuti.

 

Mh, io ci sto.” Daphne prese immediatamente posto. “E’ una delle innumerevoli volte che vedo Mamma Mia, e mi ha trasmesso una carica assurda. Ha un cast eccezionale, le musiche degli ABBA non moriranno mai, ed è ben recitato. E’ fantastico come, sul finire, tu abbia voglia di cantare e ballare.

 

Nadja annuì lentamente. “Si, dai, mi sono ricreduta anche io.”

 

Te ti lagnavi in continuazione, all’inizio!” rise la gemella. “Noooo, che è una commediola sentimentaaaaale!” fece, imitandola e facendo sorridere i genitori.

 

Quella dapprima storse le labbra, poi il suo sguardo saettò dal contenitore dei pop-corn semipieno alla sorella e allora un sorriso diabolico si dipinse sulla sue labbra.

Daphne spalancò occhi e bocca quando si ritrovò del sale e dei chicchi di granoturco sui capelli, ma non si perse d’animo, perché ricambiò presto il favore, colpendola e infilandogliene alcuni dentro il maglione.

 

“Chi è che ride adesso?”

 

Hilary, divertita, si ricordò a fatica di avere vent’anni più di loro, e decise di intervenire. “Ragazze, per favore, siamo in un suolo pubblico, e in una città pulitissima, potrebbero-” ma non finì la frase, perché si ritrovò accecata dal mais malefico che le finì tra la sciarpa e il cappotto. “Ah, volete la guerra, eh?”

 

Kai alzò gli occhi al cielo. “Qualsiasi cosa succeda, io non vi conosco.”

 

 

 

 

Quando la famigliola tornò a casa, quella sera, la villa era stranamente immersa nel silenzio: Karen e Takao dovevano essere già a dormire, così come le domestiche.

Le gemelle si dichiararono stanchissime, e diedero immediatamente la buonanotte ai genitori, rifugiandosi nella loro camera.

Poco dopo, Hilary, pur accusando un po’ di sonno, mise da parte il cappotto e si sedette sul divano; era contenta di aver passato quella bellissima giornata in famiglia: era stata pressoché memorabile, non l’avrebbe scordata facilmente.

Tutte quelle risate, le foto, le chiacchiere e la complicità ritrovata… Si era sentita come parte integrante di un qualcosa, ed era strano per lei che si era sempre dichiarata una nomade senza radici.

 

Quando vide Kai armeggiare con l’armadietto degli alcolici, aggrottò la fronte. “Hai del martini?” gli chiese. “Lo so che voi russi per proteggervi dal freddo solete bere la vodka, ma non mi piace granché…” spiegò, arricciando il naso.

 

“Lo so.” Kai le porse il bicchiere con il drink. “Martini rosato con un po’ di menta.”

 

Hilary corrucciò le sopracciglia, piacevolmente sorpresa. “Si, è sempre stato il mio preferito insieme al Manhattan.”

 

Il Manhattan lo prendevi quando uscivi con mia sorella e Mao, però.”

 

Lei rise. “Ricordi tutto, eh?” stranamente in imbarazzo, si strinse nelle spalle.

“Quand’è che hai comprato questa villa? Anni fa abitavamo in un’altra casa.” cambiò discorso.

 

“E’ passata in mia proprietà quando ho compiuto venticinque anni.” spiegò.

 

Hilary sorseggiò il martini. “Hai fatto grandi progressi da allora.” osservò. “Insomma, questa casa, la scuola di beyblade… Sei diventato quello che hai sempre voluto essere.”

 

Lui annuì. “Fu dura per me quando stabilirono che oltre i vent’anni non si poteva partecipare al campionato del mondo…

 

Lei ridacchiò. “Ti credo, avevate stravinto tutto, un po’ di spazio ai giovani, Hiwatari!”

 

Kai esibì un sorriso divertito e anche un po’ amaro. “Si, ma mi dovetti ingegnare perché non ci stavo ad appendere il bey al chiodo. E’ uno sport che si impara in strada, ma nella mia scuola, con professori adeguati, le competenze tecniche giuste, ne escono campioni, che poi aspiriamo a mandare al campionato del mondo.”

 

A Hilary brillarono gli occhi. “Nadja.”

 

Lui annuì. “Già.”

 

“Anche Daph è brava con il bey, è una delle migliori di Londra, ma capisco che tra esserlo di una città ed esserlo di un’intera nazione ce ne passa.” fece, ridacchiando. “Ecco perché Yuri si è accorto che  qualcosa non andava.”

 

“Le ha insegnato Max?”

 

Hilary annuì. “Si, quando era proprio piccola… Poteva avere cinque anni o giù di lì, e tra un po’ toccherà a Daisy, la primogenita di casa Mizuhara… Vedessi, è uno scricciolo adorabile!”

 

Kai riempì nuovamente i bicchieri, ormai vuoti. “Anche tu, però, in questi anni ti sei data da fare, diventando ciò che hai sempre voluto.”

 

Lei sorrise. “Si, e ne sono contenta.” prendendo il suo bicchiere, lo alzò nella sua direzione. “Alle gemelle?”

 

“Alle gemelle.” concordò, e i loro bicchieri tintinnarono, scontrandosi, un po’ come i loro occhi che si intrecciarono, fondendosi e sciogliendosi gli uni dentro gli altri.

 

Non era nuova ad un’emozione così forte, eppure se ne stupiva sempre, ed era una cosa assurda, inconcepibile; avrebbe dovuto essere abituata, invece le scappava sempre dalle mani, quasi fosse un fuoco troppo grande per essere dominato o costretto.

 

Aveva dimenticato quanto magnetici fossero i suoi occhi viola visti da vicino, o quanto inebriante fosse il suo profumo, se a poca distanza…

 

Sto impazzendo

 

Quando le si avvicinò ancora di più e la distanza tra loro fu praticamente nulla, Hilary pensò soltanto che doveva avere un viso sconvolto, e la faccia che ha la preda quando sa di star per essere catturata dal cacciatore.

 

Le prese tra le dita una ciocca di capelli, e lei non si accorse neanche di star trattenendo il respiro, talmente era ipnotizzata da lui, dai suoi gesti, dai suoi occhi, da ciò che stava facendo.

“Hai dei pop-corn tra i capelli…”

 

Uno sguardo, poche sequenze, e tutto in fretta: non memorizzarono nemmeno chi baciò chi. Non era importante. I loro pensieri vennero azzerati con uno schiocco di dita; o di labbra.

 

Si ritrovarono in breve a baciarsi in maniera famelica, quasi si fossero posti come obbiettivo il recuperare quattordici anni di astinenza l’uno dall’altra.

Da parte di lui, passare una mano sotto le sue gambe e l’altra sulla sua schiena fu naturale, così come da parte di lei lo fu aggrapparsi al suo collo, continuando a baciarlo.

Destinazione: camera da letto.

 

 

 

 

 

Continua.

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Capitolo 13
*** Tredicesimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

 

 

 

 

 

La prima cosa che Hilary pensò quando la luce del mattino batté sui suoi occhi, fu che non poteva trovarsi nel suo letto.

Quello era troppo duro, lei era abituata a materassi più morbidi, e soprattutto, c’era qualcosa che le stava accanto che-

Spalancò gli occhi all’improvviso e si ricordò tutto, ma proprio tutto.

 

 

Le chiacchiere che dovevano essere solo chiacchiere.

 

Il suo nervosismo.

 

E il bacio improvviso, l’attrazione bruciante tra loro che era divampata in passione, pronta a spazzare via qualunque cosa.

 

Ora ricordava tutto: ricordava i baci, come si erano amati quasi disperatamente, e come si era sentita lei – bene, completa, assolutamente felice –

 

Il disastro era accaduto, e lei, paradossalmente, era così contenta…

 

Accidenti

 

Dormiva accanto a lei, gli occhi chiusi e un’espressione puramente beata sul volto.

Sembrava un angelo in quel momento, ma sapeva bene cos’era capace di fare da sveglio: come poteva benissimo essere un gran bastardo, così poteva saper amare delicatamente, con le sue mani dolci e i suoi baci famelici.

 

Non resistette: Hilary Tachibana non era una donna impulsiva, ma quando c’era di mezzo Kai Hiwatari la ragione andava a farsi benedire con tanti saluti.

D’istinto premette le labbra delicatamente contro quelle di lui, le stesse che in quelle ore aveva baciato ripetutamente, e un istante dopo due occhi ametista si spalancarono su di lei.

 

“Ehi…” sospirò, ravviandosi una ciocca di lunghi capelli castani.

 

Lo vide sorridere leggermente di un sorriso che ebbe il potere di riscaldarle il cuore. “Ehi.” le sussurrò lui di rimando, prima di attirarla a sé.

 

Stretta tra le sue braccia, quelle stesse che quella notte l’avevano abbracciata fortemente, sorrise, beata. “Fortuna che gli altri dormono dall’altra parte della villa, o li avremmo svegliati tutti, stanotte.” fece, ridacchiando.

 

Kai, ormai sveglio, si passò una mano tra i capelli. “A causa tua sicuramente.” la provocò, con un sorrisetto beffardo, mettendosi semi seduto.

 

Hilary spalancò occhi e bocca. “Ah, è così, eh?”Avventandosi su di lui, sorrise. “Vuoi che non mi ricordi che il grande Kai Hiwatari, l’uomo di ghiaccio… soffre il solletico?”

E lì iniziò una vera e propria lotta tra le lenzuola, con lei che voleva a tutti i costi fargli implorare pietà, e lui che la fermava bloccandola per gli avambracci.

Finì con delle risate, l’uno a pochi millimetri dall’altra, quando si guardarono negli occhi, rendendosi conto che le lenzuola erano totalmente cadute per terra.

 

“Sei l’unica che riesce a farmi ridere così.” alla sua ammissione, lei si lasciò baciare con foga, ricambiando il tutto con calore e inarcandosi verso di lui, ma sentì che quella frase le sarebbe rimasta in testa tutto il giorno: doveva assolutamente distrarsi.

 

“Doccia?” propose quindi, con sguardo birichino.

 

 

 

 

Generalmente, in quel periodo, la colazione si teneva alle sette in punto, e per diverse ragioni: Nadja doveva andare a scuola, dove le lezioni cominciavano alle otto; Kai doveva andare a lavoro, e la palestra apriva dalle otto e trenta in poi, e Takao aveva delle importanti questioni da sbrigare verso quell’ora con un agente, quindi l’orario era perfetto.

 

Ma, quella mattina, quando in sala da pranzo non si presentarono né Hilary né Kai, tutti notarono la loro assenza, anche se decisero di non andarli a chiamare, ritenendo che, probabilmente, la donna dormisse ancora, e che Kai fosse andato al lavoro prima.

Quando, però, Daphne intravide, con la coda nell’occhio, la scena che aveva sempre sperato di vedere, restò a bocca aperta, e fu in grado soltanto di tirare una gomitata alla gemella.

 

Attraverso la porta lasciata semichiusa si vedeva benissimo Hilary salire le scale, arrancando e ridacchiando, come fosse su di giri.

Non l’aveva mai vista così sorridente, così contenta, così felice, pareva tutta illuminata dentro.

 

Ogni due o tre gradini c’era qualcuno che la tirava indietro per baciarla. Quando si vide chiaramente che era Kai, le gemelle si dovettero fare violenza per non cacciare un urlo di stupore.

 

Nadja e Daphne si guardarono, incredule, senza sapere cosa fare.

 

Quando Kai e Hilary si presentarono in sala da pranzo, finsero – o, meglio, cercarono di fingere – una nonchalance che non apparteneva loro. Un sorriso lottava per spuntare prepotente dalle loro labbra.

Erano contenti, erano felici, parevano su di giri, e più cercavano di nasconderlo, più si notava.

 

“Ve la siete presa comoda, stamattina.” osservò Karen, sorseggiando il suo caffè.

 

Hilary non la guardò nemmeno negli occhi. “Oh, si, io… Devo essermi addormentata.”

 

Karen si rivolse al fratello. “E tu?”

 

Lui scrollò le spalle. “Ho perso tempo con qualche scartoffia.”

 

La Hiwatari inarcò le sopracciglia, ma decise di tacere.

Nadja e Daphne si guardarono: evidentemente vi era una svolta non prevista nei loro piani, visto che i loro genitori facevano ostinatamente finta di nulla.

 

Hilary bevve il suo caffè tutto d’un fiato e trangugiò un plumcake alla velocità del suono. “Okay, io vado a fare una telefonata, scusate.” fece, congedandosi.

 

Nadja, le sopracciglia inarcate, si alzò subito dopo. “Io vado a scuola.”

 

Kai finì di bere il suo caffè. “Vado anch’io.”

 

Takao fece un sorrisetto. “Tutti fretta stamattina, eh?”

 

 

 

 

In camera sua, Hilary si mordeva le labbra, dandosi della sciocca e dell’idiota.

Si stava comportando come una ragazzina, e per di più con il suo ex fidanzato, che era il padre delle sue figlie e colui il quale le aveva spezzato il cuore e che aveva giurato di-

Quando udì la porta socchiudersi delicatamente si voltò, non pensando più a nulla. Il suo sguardo si fece malizioso.

“Ehi.” gli andò incontro, buttandogli le braccia al collo, e la replica di lui non si fece attendere.

Hilary adorava essere baciata da Kai: si creava sempre una chimica fortissima, e sentiva ogni volta un brivido salirle su per la schiena.

Poi, il perché quando ci fosse lui lei fosse costituita soltanto dalla sua parte sentimentale e la sua parte razionale andasse a farsi fottere, rimaneva un mistero, ma tant’è…

 

“Questo pomeriggio… Nadja si esibirà in una gara di bey: vieni?” le chiese lui dopo qualche secondo, tenendola stretta a sé e guardandola negli occhi.

 

Lei arricciò il naso in una smorfia che lui trovò adorabile. “Per Nadja verrò. Per te no!” rispose, facendogli la linguaccia e ridacchiando.

 

Kai abbassò lo sguardo, sorridendo. “Ah, è così?” fece, stringendola a sé maggiormente.

 

Hilary strinse le labbra, annuendo solennemente. “Assolutamente si. Verrò a tifare per la mia Nadja, ma per te… Bah, non ne vale la pena, no.” dichiarò, stringendo le labbra a forma di cuore.

 

Lui la baciò di scatto di un bacio che le tolse il respiro, facendola indietreggiare di un paio di passi. Quando scese a baciarle il collo e a sussurrarle delle parole in russo, cosa che – lo sapeva – a lei piaceva da impazzire, a frenarli fu solo la consapevolezza che era tardi, e che un ulteriore ritardo avrebbe insospettito definitivamente tutti.

 

“Allora?”

 

“Ma vaffanculo, va’!” ridendo, lo spinse fuori dalla sua camera e chiuse la porta, salvo poi riaprirla di scatto, stampargli un bacio sulle labbra e richiuderla, per sentirlo ridacchiare.

 

Hilary si ritrovò con i capelli lievemente scompigliati e rossa in volto come se avesse la febbre.

Era la via giusta, quella? O stava facendo una grandissima cavolata?

Si stava facendo guidare dagli ormoni, e se da una parte qualcosa dentro di lei gli urlava che era una grossa stupidata, un’altra cosa le diceva che avrebbe potuto essere felice anche così…

 

Che devo fare?

 

 

 

 

Le persone che si erano perse nei propri pensieri, che convergevano, poi, nello stesso, anche se non potevano saperlo, erano Karen e Daphne che, perplesse, si trovavano ancora in sala da pranzo, pensierose, con la testa tra le nuvole.

Che strana mattina era stata quella, per loro.

 

Di cose che non quadravano ve ne erano parecchie, e la tentazione di credere di aver lavorato di fantasia c’era, o almeno, era quello che pensava Karen.

 

Ma anche no.

 

La Hiwatari sbuffò, uscendo dalla sala e andando verso i corridoi: quella villa era immensa, e non sapeva bene nemmeno lei cosa stesse cercando, forse stava solo facendo due passi per sgranchirsi le gambe…

Quando aveva visto Hilary e Kai entrare insieme, così affannati, con gli occhi luccicanti, aveva creduto che fosse successo qualcosa… Ma poi erano stati formali come al solito, e anche parecchio sbrigativi, e allora le sue speranze si erano sgonfiate come palloncini.

 

Eppure qualcosa non torna.

 

Probabilmente Takao l’avrebbe presa in giro a vita, chiamandola con appellativi tipo Sherlock Holmes in gonnella o chissà cosa, ma lei non era persuasa.

Aveva un sesto senso pauroso, tipico femminile, ma anche raffinato, tutto suo, che le permetteva di scoprire la verità su ciò che le stava a cuore.

 

Notando quasi per caso la domestica spolverare, il suo cervello annotò che solitamente incominciava a fare i letti alle nove.

 

Chissà perché me ne sono ricordata…

 

All’improvviso le si accese una lampadina in testa, e andò al piano superiore, laddove stava la camera di Hilary.

Trovò la donna seduta alla scrivania, pensierosa, con la testa fra le nuvole, rossa in volto, con lo sguardo sognante.

E il letto fatto. Come se non fosse stato minimamente utilizzato.

 

Ghignando, non si fece nemmeno sentire: volò al piano di sotto, nella stanza di Kai: se l’avesse incontrata qualcuno poteva sempre dire che stava cercando qualche scartoffia da portare a suo fratello.

 

Bingo: il letto era disfatto, le lenzuola erano addirittura per terra, e lei non ricordava che Kai si agitasse così tanto nella notte…

 

Sorridendo maliziosamente, andò ancora una volta nella stanza di Hilary, stavolta bussando, e facendola sobbalzare.

 

Kary.” la donna sorrise. “Dimmi.”

 

La bionda era tutta un sorriso. “Vedo che hai già fatto il letto. Non occorreva, ci pensava la domestica.” fece, nascondendo come meglio poteva un sorriso che lottava per farsi spazio tra le sue labbra.

 

Hilary arrossì. “Ah. Va beh…”

 

Karen, da brava Hiwatari, andò dritta al punto. “Sei stata con mio fratello, stanotte?”

 

“No!” quasi lo urlò, e fin troppo in fretta. “… No, cosa vai a pensare?” fece, sforzandosi di calmarsi e di non arrossire, cosa che non le riuscì.

 

Karen ridacchiò. “Capisco.” fece, annuendo. “Quindi ho frainteso. Beh, capita a tutti.” facendo spallucce, fece per lasciare la stanza. “Ah, Hilary?”

 

“Si?”

 

La bionda le strizzò l’occhiolino e le indicò il collo. “Bel succhiotto.”

 

 

 

 

Daphne si passò ancora una volta la mano tra i capelli e maledisse la sua poca voglia di presenziare a quell’inutile – a parer suo – gara di beyblade.

Che senso aveva disputare una gara quando Nadja avrebbe battuto chiunque comunque?

Accavallando le gambe per l’ennesima volta e sbuffando, impaziente, si ritrovò a pregare telepaticamente la gemella di vincere il più presto possibile e il più in fretta possibile. Dovevano parlare, e dovevano farlo presto.

Le cose, a quanto vedevano erano in bilico, camminavano come sulla punta di un coltello e loro rischiavano di cadere da una parte o dall’altra da un momento all’altro, e una delle due opzioni sarebbe stata dolorosa.

Molto. Troppo.

 

La situazione era cambiata drasticamente, e non le piaceva per nulla la situazione di non sapere che pesci pigliare.

Se c’era una cosa che sua madre le aveva insegnato era avere tutto sotto controllo. Sempre.

 

“Ciao.” voltandosi di scatto, la ragazza si trovò di fronte Mao. “Sei qui da sola?”

 

Lei aggrottò le sopracciglia. “No, sono con zia Karen e la mamma.”

 

La donna assunse un’aria stupita. “Se Karen è lì con Takao… Hilary dov’è?”

 

Daphne aggrottò le sopracciglia. “Aveva detto che andava in bagno più o meno…” guardò l’orologio. “… Venti minuti fa?!

 

Mao fece un sorrisetto. “La cerco io.”

 

 

 

 

Nadja aveva appena disputato il suo primo round quando Hilary andò a girovagare per la palestra. In condizioni normali si sarebbe data della pazza, della folle, della menomata mentale, e degli altri epiteti irripetibili, ma non in quel frangente.

Era come rinchiusa in una bolla dove esistevano solo lei. Lei e la sua funzione di lui. E la cosa paradossale forse era che non le importava del futuro, dell’avvenire, del cosa ne sarebbe stato di loro, quando in realtà era la cosa più importante.

 

Si fermò dinnanzi lo spogliatoio maschile, sapendo che a quell’ora era vuoto, con una singola eccezione.

Entrò sicura di se, spalancando la porta e richiudendola con un gesto altezzoso e un sorrisetto.

Kai la osservò divertito, sorpreso, mentre armeggiava con la maglietta.

 

“Io direi che questa non ti serve.” soffiò lei, prendendogliela, e buttandogliela via.

 

“Hai visto Sex and the City, per caso, stamattina?”

 

Hilary scoppiò a ridere, rovesciando indietro la testa. “Ma che stronzo! Una viene qui, fa tutta la sexy e lui la smonta!” rise.

“Comunque si, sono Samantha Jones, piacere.” fece, solennemente, prima di baciarlo avidamente, e lui non si fece minimamente pregare.

Era incredibile come le sue mani riuscissero a trasmetterle dei brividi lungo tutto il corpo solo sfiorandola; poi quando la baciava sul collo andava proprio in paradiso, il mondo poteva fermars-

 

L’urlo fu agghiacciante al contatto con l’acqua fredda; baciandola, infatti, era riuscito a portarla sotto le docce e aveva azionato la manopola dell’acqua per sommo gradimento di lei. “Ma che stronzo!” eruppe, mentre lui, divertito, sorrideva. “Ora mi dici come faccio?!

 

“Scusa, mi è servito come promemoria per ricordarmi che non potevamo spingerci oltre, tutto qui.”

 

“Ma vaffanculo, la prossima volta fattela tu la doccia!” ringhiò, mandandogli addosso un po’ di gocce d’acqua.

 

“L’avevo già fatta.” disse soltanto, facendo spallucce e incamminandosi verso l’uscita.

 

Hilary imprecò sottovoce un paio di insulti diretti alla sua persona con il risultato di farlo ridacchiare maggiormente e, quando uscirono dallo spogliatoio, si ritrovarono davanti Mao, che li guardava con occhi spalancati.

L’imbarazzo fu grande, soprattutto perché la situazione non era proprio delle migliori, e stettero per un periodo, che parse a tutti un’eternità, in silenzio.

 

“Ho un phon nel mio armadietto… Vieni con me, Hila?” decise poi di intervenire Mao; l’altra non seppe far altro che annuire e, contemporaneamente, lanciare un’occhiataccia a Kai perché quella situazione proprio no, non ci voleva.

 

Non era mai stata in imbarazzo con la sua migliore amica; le aveva sempre detto tutto, confidato ogni cosa, e non si era mai sentita giudicata da lei – escludendo il momento del loro chiarimento – certo era che non le aveva mai nascosto nulla, e ritrovarsi nella situazione paradossale di seguirla sentendosi in mostro non rientrava nella top ten dei momenti in cui avrebbe tanto voluto trovarsi.

 

“Dovrei avere un cambio, qui.” Mao, entrate nello spogliatoio femminile, armeggiò con il suo armadietto, da cui estrasse una maglietta bianca e un paio di pantaloni neri. “Vanno bene?”

 

Hilary si sentì morire: avrebbe tanto preferito che la prendesse a parolacce come giorni prima quando ce l’aveva ancora con lei, ma non che si mostrasse così gentile.

Si.” biascicò.

 

“Sarà meglio che ti togli la blusa e i pantaloni… Grondano proprio acqua… Magari puoi farti una doccia, ho qui lo shampoo e della biancheria.”

 

Annuì lentamente, decidendo molto in fretta che era la cosa giusta da fare: si sfilò tutto velocemente e si mise sotto una delle docce; Mao le passò il flacone con cui si lavò i capelli e successivamente anche l’accappatoio. Fu quando l’amica le passò la biancheria che sospirò, decisa.

“Ho combinato un casino.”

 

“Qualcosa avevo capito.” rispose l’altra, con voce neutra, ma sorridendo, mentre passava il phon sulle cose dell’amica.

 

“Ieri ho passato una giornata fantastica, abbiamo fatto di tutto, noi quattro.”

 

Mao si illuminò, come ricordandosene. “Ah, è vero, la giornata in famiglia: com’è andata?”

 

“Bene, benissimo: è stata praticamente perfetta. C’è stata armonia, ci sono state risate, foto, e…” si morse le labbra come se non riuscisse a dirlo. “Tutto il tempo, tutto il maledetto tempo che abbiamo passato insieme c’era come una… scarica elettrica che passava tra me e lui…” emise un gemito di disappunto. “Non ci credo, mi sento come una stupida sedicenne in balia degli ormoni, e a momenti ho quarant’anni!”

 

“Cioè tra quattro anni?”

 

“Beh, sai quanto ci mettono ad arrivare? Poco, pochissimo, è un attimo!” tuonò. “E comunque… Beh, è successo l’irreparabile.” improvvisamente assunse un’espressione contrita. “Sai cos’è peggio? Cielo, il peggio è che ci sto pensando ora, è successo di tutto e io ci sto pensando ora!”

 

Mao inarcò le sopracciglia. “Okay, calmati. Respira. Ci sei? Bene. Raccontami tutto dall’inizio e non ti perdere per strada, se no non ti posso aiutare.

 

Hilary annuì velocemente, come nel panico. Succedeva sempre così, sin da quando erano ragazzine: erano sempre state l’una la parte razionale dell’altra, e quando si facevano troppo prendere dai sentimenti bastava la presenza dell’altra per tornare con i piedi per terra.

“Ieri siamo stati benissimo, e ci guardavamo sempre sai, come… Beh…

 

L’altra fece un sorriso malizioso. “Si, ho capito.”

 

A fine serata dovevamo parlare delle gemelle, di me e del fatto che dovevo andar via, di come dovevamo organizzarci… Una chiacchiera ha tirato l’altra e si è creata come un’alchimia che… E’ stata potente, indescrivibile, assurda…” sospirò, mordendosi le labbra.

 

L’amica aggrottò le sopracciglia. “E poi?”

 

“Mi ha baciata e io non ho capito più niente.” ammise, arrossendo con aria colpevole.

 

“Non me lo dire!” trillò l’altra, mentre un sorrisone si faceva largo sulle sue labbra. “Ci sei stata.”

 

Peggio.” sbottò.

“Ho fatto l’amore con lui tutta la notte, ed è stato il miglior sesso della mia vita.” confessò, nel tono in cui gli imputati ammettono un omicidio. “E quel che è peggio è che non sono pentita, e che stamattina avevo voglia di farlo, rifarlo e quasi mi chiedevo perché diamine non l’avessi fatto prima.” sbottò, piagnucolando. “Sono da galera.”

 

Mao sbatté gli occhi. “Perché dici questo?”

 

“Non mi è mai successo di essere impulsiva, tranne che con lui, ed è una cosa che mi manda al manicomio.” confessò, mordendosi le labbra. “Alle conseguenze sto pensando solo ora, ed è una cosa… a dir poco riprovevole. Sono una madre, accidenti.”

 

“Sei anche una donna, Hila.” le rispose, sospirando e incrociando le braccia al petto. “Tu che cosa vuoi?”

 

Lei si morse le labbra, passandosi una mano tra i capelli, ancora bagnati, poi sospirò. “Voglio la mia vita, la mia carriera, e non voglio… sacrificarmi per lui.” improvvisamente, tremò. “Non voglio dover diventare quello che sono stata quattordici anni fa.”

 

“Perché pensi che accadrebbe?”

 

Kai è un uomo complicato, con una vita complicata. Ce l’aveva allora, ce l’ha tutt’ora. E io… voglio la mia libertà. Non credo che ce l’avrei con lui accanto.”

Improvvisamente rise in maniera quasi sarcastica. “Ehi, ma perché stiamo parlando di questo? E’ stato solo… sesso. Puro e semplice sesso. Non vuol mica dire che dobbiamo stare insieme, no?” fece, vestendosi con gesti nervosi e rapidi.

 

Mao la guardò, sospirando brevemente. “Cerca solo di non fare stronzate.”

 

 

 

 

“Beh, alla buon’ora.”

 

Kai conosceva Rei e Takao da oltre vent’anni: erano stati i suoi amici nel bene e nel male, lo avevano supportato in qualunque situazione, sopportato sempre, ed era al giapponese che doveva la conoscenza della donna più testarda, intrigante ed eccitante del mondo.

 

Quel giorno, in palestra, si disputavano delle gare che stabilivano chi avrebbe avuto il merito di rappresentare la Russia al prossimo torneo di bey, che avrebbe avuto inizio a Settembre a Berlino. A quanto poteva notare, Nadja era arrivata in finale, e le mancava soltanto una battaglia per poter dire di aver vinto.

 

“Come sta andando?” chiese soltanto, non riuscendo a trattenere un sorrisetto sia perché era contento già di suo, sia perché era orgoglioso di sua figlia.

 

Rei sorrise. “Alla grande. Praticamente ha già vinto.”

 

Takao aguzzò la vista. “Incredibile come in questa scuola di bey li potenziate, questi ragazzi. Alla loro età me la sognavo, la loro preparazione.”

 

Kai fece per rispondere in maniera sarcastica, ma Rei lo stoppò. “Siamo allegri, oggi, Kai.”

 

“Eh?”

 

“Sei tutto un sorriso, l’ho notato anche io, si.” fece eco Takao.

 

Piantatela.” grugnì.

 

“E’ talmente contento che a momenti si traveste da coniglio pasqualino distribuendo fiori.” lo pizzicò ulteriormente. “Vero, cognatino?”

 

Rei si impose di non ridere per via dello sguardo truce che il russo riservò al giapponese. “Secondo me è successo qualcosa con una certa bruna che vive in casa sua. E non è la domestica sessantenne.”

 

Takao sghignazzò. “Ti immagini?” quando i due si ritrovarono a ridere insieme, Kai incrociò le braccia al petto, serrando le mascelle,  la pazienza che, via via, si esauriva, e scelse di allontanarsi.

 

“Ma dai, Kai, aspetta.” Rei riuscì a richiamarlo. “Allora? E’ successo qualcosa con Hilary?”

 

I suoi lineamenti si distesero malgrado facesse di tutto per sembrare neutrale. “Può darsi.”

 

Il giapponese era incredulo. “Ecco perché stamattina erano tanto strani a colazione! Dovevi vederli, erano tutto un film!”

 

“Ma piantala.”

 

Rei sorrise. “Spero solo che tutto vada bene, amico.”

 

Kai non rispose, concentrandosi su Nadja, mentre una parte del suo cervello gli proponeva un’immagine della donna più bella che avesse mai visto, vestita di bianco.

Immagine che non gli dispiacque per nulla, anzi.

 

 

 

 

“Non possiamo rimandare? Sono a pezzi.” Nadja sospirò infilandosi sotto la doccia mentre la gemella preparava la roba da mettere.

 

“Intendi la nostra chiacchierata o la festa in tuo onore?” chiese di rimando, abbinando una camicetta bianca ad una gonna nera a vita alta.

 

Quella emise un gemito. “Facciamo la festa…” sospirò. “Non vedo l’ora di buttarmi sul letto e dormire… Sono proprio a pezzi, non ce la faccio a reggere un party.”

 

“Okay.” fece Daphne. “Ma noi parliamo, eh. Sai che è urgente.”

 

“Parliamo, parliamo.” grugnì quella.

 

L’inglesina uscì immediatamente dallo spogliatoio per andare a cercare tutti gli adulti orgogliosi che non aspettavano altro che di festeggiare la vincitrice della gara, colei che assieme ad altri tre ragazzi suoi coetanei avrebbe rappresentato la Russia ai prossimi mondiali.

Li trovò due piani più in basso, più allegri e sorridenti che mai, pronti per andare a festeggiarla.

Kai stava parlando con un giornalista rispondendo a monosillabi, mentre le donne stavano chiacchierando tra di loro; Rei e Takao, infine, osservavano lo stadio dove erano state disputate le gare commentando qualcosa.

 

“Mamma, scusa…” richiamando la sua attenzione, Daphne mise le mani sui fianchi. “Nadja è sotto la doccia, e mi ha pregato di dire che proprio non se la sente per stasera. Rischierebbe solo di addormentarsi sopra una pizza calda fumante. Va bene se si rimanda la serata a domani sera, quando sarà più riposata?

 

Le donne si guardarono, poi annuirono, mettendosi d’accordo per l’indomani e sull’orario. “Okay, ci penso io a dirlo a tuo padre, quando avrà finito con il giornalista. Va’ prima che ti veda e ti scambi per tua sorella.”

 

Daphne colse il suggerimento di sua madre e si affrettò verso gli spogliatoi, dove Nadja si stava già asciugando i capelli, già vestita e asciugata. “Missione compiuta.” decretò.

 

Quella emise uno sbadiglio. “Okay.”

 

“Che ne pensi di mamma e papà?”

 

L’altra ci mise un po’ a rispondere. “Mi sa che avevi ragione: probabilmente sarà successo qualcosa tra loro e… Resta il fatto che non ce ne han fatto parola.”

 

“Ieri sera!” trillò Daphne. “E’ successo ieri sera! Ma non vedevi come si guardavano, come se volessero mangiarsi? Ieri sera è successo, ne sono sicura, e stamattina… Beh, l’hai visto anche tu.

 

“Aspettiamo un altro segnale, e nel caso le cose dovessero andare nella direzione sbagliata interveniamo, va bene?”

 

Quella sorrise. “Come sempre.”

 

 

 

 

Ventiquattro ore: aveva dovuto aspettare tanto per rimanere da solo con lei. Non sapeva perché gli sfuggisse, ma era intenzionato a scoprirlo.

Era da quando gli aveva sbrigativamente comunicato che la festa di Nadja si doveva rimandare che non si erano più parlati, e ora aveva tutta l’intenzione di rimediare.

Era stata una bella serata, avevano festeggiato Nadja e la sua riuscita nelle gare di bey, e avevano brindato, ma per portare a termine il suo piano, Kai aspettò che le gemelle dichiarassero di essere stanche e di andare a dormire.

 

Quando Hilary si sedette sul divano, preparò due bicchieri di vino e le andò accanto: dopo l’incidente sotto la doccia – che tanto incidente non era stato, visto che ce l’aveva spinta lui volutamente – non si erano più visti, almeno non nel modo in cui si erano incontrati quella notte e la mattina successiva…

 

“Grazie.” fece lei, quando le porse il bicchiere. “Ma sono ancora arrabbiata per la doccia non richiesta.” dichiarò. “O era uno stratagemma per farmi lavare?”

 

“Ovvio.” rispose lui, con un luccichio negli occhi.

 

Hilary sorrise di un sorriso che parve illuminare la stanza intera. “Ma quanto sei scemo.” ridacchiò. “Piaciuta la festa?” lui annuì. “Yuri era orgogliosissimo di suo figlio, ma anche della sua pupilla, non mi stupirei se domani andasse a farsi fare una maglietta con la scritta NADJA E’ ALLIEVA MIA o qualcosa di simile.”

 

Lui sorrise. “Nadja ha forza e tenacia, tutte le qualità giuste per una blader.”

 

“A pensarci bene le nostre figlie hanno preso da noi due dei nostri hobby preferiti. Nadja ama il bey, e a Daph piaciucchia, ma non ne va pazza… Ma ama lo shopping, come me.” dichiarò, annuendo solennemente.

 

Daphne ti assomiglia molto.” dichiarò, cambiando posto, a sorpresa, per mettersi proprio accanto a lei. “Ogni volta che la guardo mi sembra di essere tornato indietro di vent’anni.”

 

Mmm, reminiscenze… Attento ai capelli bianchi, signor Hiwatari.” lo prese in giro lei, voltandosi a guardarlo e accavallando le gambe.

 

“Ha la tua tempra.”

 

“Anche Nadja ce l’ha, ma è ben nascosta, ed è mischiata alla tua tenacia.” osservò, sorseggiando il vino.

 

Lui le fece posare il bicchiere, e quando le loro dita si incontrarono partì la solita scarica elettrica che fece si che i loro occhi si fondessero gli uni negli altri: fu un attimo prima che le loro bocche si incastrassero alla perfezione, fameliche, affamate, desiderose.

Hilary non seppe dire che né come né perché, ma all’improvviso si ritrovò a cavalcioni su di lui, non smettendo neanche per un istante di baciarlo.

Si sentiva stordita, confusa, e in quell’istante pensava soltanto a quanto fosse bello ed eccitante stare con lui, malgrado tutto.

 

Quando lui si staccò brutalmente da lei, il momento fu quasi traumatico, e lei dovette sbattere le ciglia un paio di volte. “Che… Che diavolo?”

 

“Aspetta.” disse soltanto. “Dovremmo… Mettere in chiaro delle cose.”

 

Lei si irrigidì, divenendo praticamente di pietra. “Ah.” si tolse immediatamente da dov’era, restando in piedi. “Certo.” la sua voce era glaciale.

 

“Ci sono le gemelle, la situazione è complicata…” iniziò lui, passandosi una mano tra i capelli.

 

“Va bene, basta, ti ho capito.” fece lei, tagliente. “E’ sesso, solo sesso. Non siamo i primi, né gli ultimi. Stiamo solo attenti a non farlo sapere alle ragazze perché ci rimarrebbero male e stiamo attenti alle precauzioni; bon, fine.” poi con uno sguardo lo trapassò da parte a parte.

“Era questo che volevi dire, no? Se non ti dispiace vado in camera mia, ho un certo mal di testa.” fece, seccata.

 

Kai si sentì come se gli avessero preso la sua testa per tamburo. “Ehi.” la richiamò. “Non era questo che avevo da dirti.” la afferrò per il braccio quando lei aveva già saliti i primi gradini.

 

Hilary corrucciò le sopracciglia. “Allora che c’è?”

 

Lui prese un gran sospiro. “C’è che voglio riprovarci. Voglio una famiglia. Voglio te. Voglio te e le ragazze.” lei arrossì, sentendosi invasa da un calore lacerante all’altezza dello stomaco che minacciò di sopraffarla. E che la spaventò a morte. “Potresti trasferirti qui, aprire uno studio, io ti aiuterei… E anche Daphne-

 

Con il fiato mozzo e il respiro corto, la donna scosse la testa, impallidendo, e sentendo che se non interveniva un certo calore all’altezza dello stomaco l’avrebbe sopraffatta. “Frena.” la voce sarcastica lo stoppò immediatamente. “Riavvolgi e ferma tutto, mi sa che ti sei dimenticato di me.” qui fece una risata nervosa. “Okay, ehm… No.” fece, scuotendo la testa.

“Come al solito pensi sempre a te, solo ed esclusivamente a te. Certo, io mi trasferisco. Hai mai pensato che a Londra ho una rete di contatti sociali molto esclusivi che forse non abbandonerei per nulla al mondo? Che Daphne è cresciuta lì e ha la sua scuola e le sue amiche?” scendendo e mettendosi al suo livello, incrociò le braccia al petto.

Perché si sentiva così? Perché non era come le altre volte, quando scaricare le persone era semplice come mandar giù una pillola? Perché stavolta era come leggere un copione controvoglia, dove la parte assegnata non rispecchia completamente le sfaccettature del proprio carattere? Perché il suo cuore aveva preso a battere come una batteria suonata da una band metal?

 

 

Kai era confuso.

Va bene, a tutto quello che lei aveva appena detto non ci aveva pensato, forse era partito a razzo dando per scontato che anche lei provasse tutto quello che provava lui ma… Quando ci si metteva di mezzo lei, lui non capiva più niente, perdeva ogni razionalità.

 

E, all’improvviso, l’idea che le cose che avessero condiviso fossero per lei soltanto puro divertimento lo resero pieno di disprezzo e ira.

“Che cosa vuoi, allora?” chiese, la voce vibrante di ghiaccio che trapassò lei come una lama gelata.

 

“Non voglio rinunciare alla mia libertà, a tutto quello che mi sono costruita in questi quattordici anni. Non per te.” fece, guardandolo con durezza.

 

Lui la fissò con occhi di fuoco. “Bene.” la gelò, chiudendo la conversazione e incamminandosi verso camera sua.

 

“Partirò al più presto.” gli assicurò lei, sentendosi, stranamente, uno strano vuoto nel petto.

Non aveva, forse, ottenuto quello che voleva?

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

 

 

 

Lo so, lo so: siamo passati dalle stelle a… Boh. xD

 

Quanti di voi stanno detestando Hilary in questo istante?

Ah.

 

E ancora non avete letto il prossimo capitolo. *deglutisce a vuoto*

 

Ragazze, sono triste: escluso questo, siamo a meno due capitoli alla fine di RMA!! T____T Ma quanto mi mancheranno questi personaggi?!

 

Ovviamente non vi libererete di me, ho già in cantiere due lavori, ma mi mancheranno lo stesso! *piange*

 

Anyway, spero di non avervi fatto imprecare troppo. Anche perché ancora non avete visto niente. XD

 

 

 

Eeeehi, ma devo dirvi una cosa: con questa fanfic mi avete fatto superare un traguardo che mai, mai, avevo raggiunto: CENTO recensioni.

Uao, come direbbe Cassie di Skins, Uao! *___*

Davvero, un bacione a tutti: a chi recensisce, a chi sopporta i miei scleri (Avly!), a chi sopporta le mie minacce via facebook e via messaggio privato (Lexy), a chi ha messo la storia tra preferitiseguitida ricordare, e anche a quei pigroni che leggono e basta e mi fanno imprecare come una iena. D=

 

Vi amo tutti! n_________n

 

 

 

 

 

Hiromi

 

 

P.S.= Alcune di voi mi hanno domandato se avessi adocchiato qualche attore per questa fanfic, e la risposta è si. Restate sintonizzate perché una sorpresa vi attende (piccola, ma una sorpresa! u.u)

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Capitolo 14
*** Quattordicesimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

Se c’era una cosa nella quale non era mai stata pratica, erano i computer: non li aveva mai capiti, e malgrado fosse nata nell’era della tecnologia, era come sempre stata ostile a tutto ciò che li riguardava.

Se si parlava di I-phone, I-pod, touch screen, tastiera qwerty, e tutto ciò che riguardava la tecnologia, allora andava bene: lei era la prima a voler imparare di più e sempre di più; ma se le si metteva sotto mano un pc di qualunque genere e tipo – che andasse dal fisso al portatile – allora cominciava ad andare nel pallone.

 

Con il suo lavoro di avvocato aveva dovuto imparare le cose più semplici, quelle basilari, ma quando il pc si rompeva o le spuntavano finestre che non capiva, iniziava ad imprecare in qualunque lingua conoscesse fino a quando qualcuno di buon cuore non si prestava a darle una mano.

 

Quella mattina era iniziata tutt’altro che bene, per lei: non aveva dormito tutta la notte, pensando e ripensando a quella sera in cui un bacio e una chiacchierata erano sfociati in un litigio definitivo, e aveva stranamente riempito il cuscino di lacrime.

 

Questa cosa in particolare non riusciva a spiegarsela: perché piangere se era quello che voleva? Lei non voleva Kai. Era attrazione, sesso, desiderio animale di qualcuno.

Eppure soffriva.

Non era felice, sollevata come lo era stata quando si era liberata di quegli insulsi uomini che le avevano chiesto di sposarli. Per loro aveva provato un po’ di noia e grande compassione, li aveva scaricati con molto tatto e tanti saluti.

 

Ho capito: sto male perché sono amareggiata che sia finita in questa maniera! Ci siamo detti cose bruttissime, in effetti…

 

Sorseggiando del caffè, Hilary realizzò che la situazione non poteva che finire così: lei e Kai si erano fatti del male anni prima e anche adesso. Erano come cani che si mordevano la coda, pronti a ricominciare, sempre, comunque, a cercarsi.

 

Dove può spingersi una persona per pura attrazione?

 

Sospirando, prese a cercare su internet il primo volo diretto per Londra. Non aveva mai prenotato lei queste cose, se ne era sempre occupato Max che di pc se ne intendeva, ma ora non poteva chiamarlo, visto che in Inghilterra era senza dubbio sera. E poi non voleva angosciarlo. No, ora era il momento di fare affidamento sulle sue forze.

 

Trovò un volo per l’indomani pomeriggio; il prezzo era altino, ma non le importava. Lo prenotò seguendo le procedure, e stampò due biglietti.

La camera di Nadja si trovava a pochi passi dalla sua, e quando spalancò la porta  intagliata in legno noce, notò che le gemelle stavano ancora dormendo.

Si diresse verso la porta finestra, aprendola completamente per far entrare la luce, e a quel punto i mugugni delle due sorelle si fecero sentire.

 

“Mamma…” biascicò Nadja sbattendo gli occhi. “Ma... Non sono nemmeno le sei.”

 

Daphne era la più intontita. Semi seduta, con i capelli arruffati, pareva non riuscisse a tenere gli occhi aperti. “Che c’è?” borbottò.

 

Hilary cercò di scacciar via l’amarezza e di mostrare un po’ di buonumore. “Ho pensato che solo per oggi Nadja poteva non andare a scuola e noi tre trascorrere una giornata insieme, vi va?”

 

La diretta interessata sbatté gli occhi. “Perché?”

 

La donna si morse le labbra. “Io e Daphne torniamo a Londra domani.” annunciò.

 

“Ehi, che cosa?!” stavolta gli occhi li spalancò definitivamente. “Perché?”

 

“Non mi rendere le cose più difficili, tesoro.” Hilary non la guardò negli occhi. “Torniamo a casa.”

 

“Se io non volessi?” ringhiò la ragazza.

 

La donna serrò la mascella, guardandola duramente. “Sei mia figlia, su di te ho la patria potestà fino a quando non avrai diciotto anni, quindi verrai con me, ti piaccia o meno.” fece, gelida, e un secondo dopo stava già sbattendo la porta.

 

Daphne era incredula: non aveva mai litigato con sua madre, tranne delle scaramucce subito chiarite, e per lei quello era stato uno shock.

Che diavolo poteva essere successo?

 

“Brava, bella idea darle addosso.” sbuffò Nadja. “Mi chiedo soltanto da un giorno all’altro che diamine sia cambiato.”

 

L’inglesina si abbracciò le ginocchia, affondandovi la testa: per qualche minuto non voleva pensare. In quei giorni era stata tanto addosso ai suoi genitori senza che loro se ne accorgessero da avere uno stress assurdo. Era quasi tentata di mandarli al diavolo e di urlare loro che se la sbrigassero da soli.

 

Ma certo: paura!” esclamò, rizzando la schiena.

 

“Eh?” Nadja sbatté le palpebre, non capendo.

 

Daphne si ravviò i capelli, tentando di dar loro una forma. “In questi anni mamma è stata molto corteggiata, te l’ho anche detto, no?” quella annuì. “Molti le hanno persino chiesto di sposarli, ma lei quando fiutava aria di gabbia, volava via.”

 

Alla Holly Golightly?” rifletté la moscovita.

 

“Non ci credo, hai visto Colazione da Tiffany?” chiese, incredula.

 

“Guarda che io ho letto il libro di Capote.”

 

“Ah, ti pareva.” sospirò. “Comunque si, direi che il paragone può bene o male essere quello, ma è un’ipotesi, perché non sappiamo se papà le abbia detto o fatto qualcosa che può averla spaventata… Anche se secondo me, è la più plausibile. Perché questa partenza improvvisa non me la spiego. Mamma se la fa sotto.”

 

“A noi non lo dirà mai.”

 

“Beh, a noi no… Ma alle sue amiche si.”

 

 

 

 

Rei Kon sapeva esattamente cosa fosse un deja vu: era la sensazione di aver già vissuto precedentemente un avvenimento o una situazione che si stava verificando.

Ed era esattamente ciò che gli stava accadendo in quel frangente.

 

Prima, aveva visto gli alunni di Kai esercitarsi con Yuri, e già questo di per sé non era affatto normale; poi aveva visto il diretto interessato da solo, in una stanza, intento a sfogarsi a beyblade polverizzando qualsiasi cosa gli fosse d’intralcio. Un’autentica furia omicida.

 

L’aveva già visto in questo stato: quattordici anni prima. E sapeva anche cosa fare.

Semplicemente, entrò nella stanza, e si mise in un angolo. Sapeva che l’aveva visto, e sapeva anche che, quando si fosse sfogato abbastanza fisicamente, l’avrebbe fatto anche a parole.

Lui c’era per quello.

 

 

 

 

“Spiegami solo perché.” Karen era furibonda e fronteggiava Hilary con occhi lampeggianti per la rabbia.

 

“Te l’ho già spiegato, sei tu che non vuoi capire.” brontolò la bruna, scuotendo la testa.

 

La francese fece del suo meglio per mantenere la calma. Inutilmente.

Quando era rientrata dalla sua abituale passeggiata mattutina trovando Daphne e Hilary che litigavano – cosa assolutamente anormale e preoccupante – si era immediatamente frapposta tra le due, chiedendo quale fosse il problema, e la ragazzina aveva denunciato la madre, urlando con rabbia che non voleva tornare a casa per un suo capriccio improvviso. La donna a quel punto era esplosa, gridandole di andare in camera sua e di non tornare, e Karen aveva chiesto spiegazioni.

 

“Dal tuo racconto noto soltanto una donna innamorata che ha paura dei propri sentimenti e della felicità che potrebbe sopraggiungere.” le sbatté in faccia, una volta che la bruna smise di parlare.

 

“Io non sono innamorata!” inviperita, divenne quasi pallida. “Mi dispiace che si stia parlando di tuo fratello, ma provo attrazione e null’altro per lui, ficcatelo nella zucca.” sibilò.

 

Ma se lo dici come se ne avessi paura.” Karen contò fino a dieci prima di riprendere.

“Hilary, sarò onesta con te, non è facile. Non è facile per niente. Tenere in piedi una relazione, soprattutto se è un matrimonio, è un po’ come costruire una casa a mani nude. Devi mettere tu mattoncino dopo mattoncino, e devi anche essere aiutata dal partner. Litigherete per quale cemento usare, per come impostare i mattoni, ma funzionerà. E, no, lasciami finire: ti dico che funzionerà perché tu e Kai siete anime gemelle.

 

Lei rise senza allegria. “Non esistono le anime gemelle.”

 

Karen scrollò le spalle. “Sai che sono cinica e disincantata di mio, mi conosci, ma ho incontrato Takao. Come stiamo insieme?”

 

Quella si morse le labbra. “Non è la stessa cosa.”

 

“E che ne dici di Rei e Mao? Loro hanno una storia parecchio più complicata… Rei la fece aspettare per anni, Mao lo attese pazientemente, e ora sono sposati. Non per questo vivono felici e contenti, ma di certo l’armonia alberga tra di loro. Lo stesso è per me e per quella testa di cazzo del tuo amico.” fece, ridacchiando.

“Oh, non gli dire che l’ho definito così, eh? E’ una testa di cazzo, ma lo amo.”

 

La bruna sorrise, ma scosse la testa. “Noi siamo diversi. Voi vi appartenete, ma non vuol dire che debba per forza essere così per me e Kai. Non la dovete fare rosa per forza.”

 

Karen le prese le mani. “Ehi, io ti voglio bene, non ti mentirei mai. Se tu per ora mi stessi dicendo di amare mio fratello e non ti vedessi nulla di particolare, ti direi: guarda, Hila, a me sembra soltanto che tu gli voglia molto bene, ma… Niente amore.” fece, scrollando le spalle. “Invece quando ti guardo e pronuncio soltanto il suo nome… I tuoi occhi si illuminano, il tuo viso si rischiara… E poi come vi guardate, è tutto, anzi, quasi tutto, come sedici anni fa, e io sono quasi contenta. Tesoro, non rovinare tutto.”

 

Lei scosse la testa. “Io non… Non lo so.”

 

La bionda la guardò per un po’ in silenzio, che scese inevitabilmente tra di loro, dopodiché la prese per una spalla. “Ehi, stai tremando.”

 

“Eh.”

 

“Perché piangi, adesso?”

 

Sfiorandosi gli occhi realizzò le lacrime che le erano rotolate giù: non se ne era nemmeno accorta. “Non lo so… Io…”

 

“Tesoro, ti ripeto: non è facile, non lo è mai. A volte ho voglia di ucciderlo nel sonno, l’amico tuo, figurati.” la battuta fece ridere Hilary, che si asciugò nuovamente gli occhi. “Immagino che non lo sia nemmeno per Mao, tanto che, prima che tornassi tu, quando passavo di qui, o lei veniva in Francia, andavamo sempre a prendere un drink da qualche parte per sparlare dei mariti e lei dei figli.” rise. “Ma non lasciare che la paura ti condizioni. Potresti pentirtene tutta la vita.”

 

La bruna l’abbracciò di slancio. “Non ti prometto niente, ma grazie per questa chiacchierata.”

 

 

 

 

Kai richiamò Dranzer, il fedele compagno di una vita, e lo ripose nel caricatore. Erano ore che andava avanti con lui, e a quei ritmi presto il suo fisico avrebbe ceduto. Se da un lato, infatti, sentiva i suoi muscoli stanchi e tesi come poche volte lo erano stati in vita sua, dall’altro un’energia, un furore, della rabbia e dell’ira li animava e li contagiava talmente che sarebbe stato in grado di sfogarsi a beyblade anche per tre giorni consecutivi.

 

Ma era meglio frenarsi e non sforzarsi troppo. Ne aveva fatto di cazzate da giovane, per la sua turbolenza, e ora, dopo ore di allenamento e di momenti passati chiuso in quella stanza, era meglio mettersi a riposo, anche se, con la rabbia che ancora aveva in corpo, sarebbe stato capace di incendiare una metropoli.

 

Sapeva che Rei era lì, sapeva che era entrato probabilmente ore prima, e non ne era sorpreso.

Era colui che, in tutti quegli anni non l’aveva deluso nemmeno una volta e gli era stato accanto sempre, supportandolo e anche sopportandolo, come una sorta di fratello maggiore.

Sapeva rispettare i suoi spazi senza opprimerlo e ciò gli faceva onore, ma quel giorno non era proprio in vena di parlare.

 

Non voleva sfogarsi a parole, avrebbe voluto urlare, prendere a pugni qualcuno, sfogarsi per bene. Parlare no. Magari un’altra volta.

 

“Non ora.” disse soltanto, lanciandogli un’occhiata e uscendo dalla stanza.

 

Rei sospirò, annuendo lentamente.

Sperava soltanto che Kai e Hilary non si facessero troppo male, e che la situazione si risolvesse il prima possibile. Per tipi come loro, due opposti, era molto più difficile venire a patti con i loro sentimenti.

Aveva sempre pensato che fossero come lo yin e lo yang: completamente diversi, le due facce della stessa medaglia, il giorno e la notte, ma, esattamente come questi, l’uno non poteva esistere senza l’altro.

Prima o poi l’avrebbero capito anche loro.

 

 

 

 

Tamburellando nervosamente le dita sulla scrivania del padre, Daphne aspettò che, all’altro capo del telefono le si rispondesse: non le importava che in Inghilterra fosse notte né di fare una telefonata intercontinentale. Quella era un’autentica emergenza.

 

Dai, rispondete!

 

“Chiunque tu sia, lo sai che ore sono?” brontolò la voce alterata di Max.

 

“Zio, tappati la bocca e ascoltami.” si morse le labbra, a disagio. “E’ successa una catastrofe.”

 

Daph?” l’uomo emise uno sbadiglio. “Che è successo? Hilary sta bene?”

 

“No, è fuori di testa!” ringhiò la ragazza, per poi abbassare la voce, tentando di non farsi scoprire. “Dicevo, è fuori di testa.”

 

“Okay, raccontami tutto.” si sentì il rumore di una sedia e un altro sbadiglio.

 

Zio, sei un mito.

Io e Nadja volevamo fare tornare insieme mamma e papà, infatti li abbiamo lasciati soli un sacco di volte, abbiamo creato delle situazioni, beh, sai… Un po’ ambigue… E mi pare aver funzionato, perché una mattina cosa vedo? Mamma e papà che, proprio dietro la porta della sala da pranzo, si baciano! Però, davanti a tutti, fanno finta di niente.

 

Max fischiò. “Hai capito le gemelle malefiche… Continua.”

 

“L’idillio è continuato per due giorni… La mamma era sempre con un sorrisone sulle labbra e papà… Beh, sembrava  tutto in brodo di giuggiole.”

 

“Che è successo dopo?”

 

“Non lo so! Stamattina – alle sei tra l’altro – mamma mi sveglia che sembra impazzita e dice che ha prenotato un volo per domani pomeriggio. Lei e papà non si parlano, con zia Karen la sentivo discutere… Io non voglio partire!

 

Max emise un lungo sospiro. “Ascolta, non si sa cosa sia successo tra Kai e Hilary, di certo avranno litigato per qualche motivo… Ma prima o poi dovrete tornare, no? Ora, tu lascia stare il corso degli eventi, se c’è da tornare qui, tu vieni a Londra con tua madre, poi ci penseremo io e Maryam a farla ragionare, okay? Te lo prometto.”

 

Daphne si morse le labbra, quasi tremando. “Abbiamo passato una giornata fantastica, l’altro giorno, tutti e quattro insieme, e sembravamo una vera famiglia. Io e Nadja vogliamo solo che questo possa accadere. E’ una rottura di palle se non succede perché mamma se la fa sotto.

 

L’uomo ridacchiò. “Si, sarebbe proprio una rottura di palle.” lo sentì trattenere un altro sbadiglio. “Daph, torno a dormire, se ci vediamo domani, ci vediamo domani, honey. Un abbraccio.”

 

“Grazie di tutto, zio. Sei il migliore.”

 

 

 

 

Kai uscì dalla doccia della sua camera molto velocemente. Si strinse l’accappatoio in vita e si vestì alla svelta, eccezion fatta per il maglione, che non trovò da nessuna parte: evidentemente, dovevano essere tutti a lavare. Capitava che, di tanto in tanto, la domestica decidesse che era tempo di grandi lavatrici, cosa che lui riteneva abbastanza seccante.

Andando alla ricerca, per tutta la villa, di qualcosa che somigliasse ad un maglione, visto che faceva abbastanza freddo che non era tempo di mettersi una t- shirt o una camicia elegante, trovò invece, qualcosa di molto più irritante. Anzi, qualcuno.

 

“Che ci fai mezzo nudo?” lo attaccò, arrossendo.

 

Lui si sforzò di rimanere neutro, quando avrebbe solo voluto darle addosso. “La cosa non ti disturbava fino a ieri.”

 

Il rossore di Hilary si intensificò, e nei suoi occhi apparve un lampo d’ira. “E’ passata Marina, ha portato a lavare le tue cose, e qualcuna a stirare.”

 

Lui non rispose, facendo per andare verso le stanze delle domestiche, laddove avrebbe potuto trovare qualcosa da mettersi addosso.

La sola presenza di lei lo infastidiva, gli ricordava le parole crudeli che aveva usato nemmeno ventiquattr’ore prima, e gli faceva venire voglia di urlarle cose che non pensava, che non pensava proprio per niente.

 

“Ah, volevo solo dirti che io e Daphne toglieremo il disturbo domani pomeriggio.” lo richiamò, facendogli arrestare la camminata. “Io direi che non c’è bisogno di rivolgersi a qualcuno per far vedere le gemelle…” proseguì con una smorfia – e con questo qualcuno intendeva un’autorità tipo un avvocato o un tribunale –

“A prescindere dalle vacanze ci organizzeremo: una volta qui e una a Londra. Credo sia la soluzione migliore per tutti.” concluse, sospirando impercettibilmente e voltandosi.

 

Quello che avvenne successivamente accadde in una manciata di fotogrammi così brevi da non poter nemmeno essere fotografati.

Si sentì presa per le spalle e intrappolata in una morsa d’acciaio, il cuore in gola, e gli occhi sprofondare in due pozze d’ametista. Furibondi, quegli occhi; arrabbiati, alteri, pieni di rabbia, di dolore. E anche di-

 

“Lasciami.” tremando, provò a divincolarsi, senza successo.

 

“Hai deciso tutto tu.” sibilò lui, furibondo. “Come sempre.”

 

“E’ la soluzione migliore.” ribatté, piena di rabbia.

 

“Che ne sai?” pareva una partita a ping pong, solo di quelle letali, perché in gioco c’era molto di più che una semplice vittoria. “Che ne sai se questa paura che hai non si trasformi in rimpianto?”

 

Hilary strinse gli occhi. “Io non ho paura. Dovete smetterla con questa-”

 

Negli occhi di Kai passò un lampo di trionfo. “Se non l’ho notato solo io c’è qualcosa di vero. Sai che cosa ti dico? Che sei una codarda. Coraggiosa solo quando si tratta di affermare la tua indipendenza, quando si parla di cultura e di libri, ma per i sentimenti? Me lo hai insegnato tu che sono importanti anche quelli, e proprio tu ti ritrovi ad essere incoerente, Tachibana.”

 

Hilary serrò le mascelle. “Che ti importa? Che ti importa se sono ipocrita o meno?”

 

Kai inarcò le sopracciglia. “Mi importa, perché ti amo.” un pesante silenzio scese tra di loro, e la donna si sentì come svuotata da ogni sensazione.

Anche anni prima, quando stavano insieme, non si erano mai detti quelle due parole, era la prima volta che le sentiva in assoluto.

 

“Smettila.” con le lacrime agli occhi, inghiottì a vuoto. “Non è vero.”

 

Lui la fissò con sguardo neutro. “Parti, se vuoi. Ma non è da me che devi fuggire. Né da quello che provi. Perché è dentro di te, e ti seguirà ovunque andrai.

 

 

 

 

A Takao si strinse il cuore quando, entrando nella stanza della sua migliore amica, la trovò buttata sul letto, in lacrime, che stringeva un cuscino.

Karen gli aveva raccontato tutto, da quello che si erano dette alle sue impressioni, ma ora voleva sentire la sua campana e consolarla; un po’ come faceva anni prima, prima che tutto cambiasse. Voleva uno spiraglio di adolescenza insomma, quando tutto era diverso e al contempo uguale.

 

“Ehi…” sussurrò, sedendosi sul letto, e la donna si voltò, tirando su col naso.

 

“Ciao.” singhiozzò. “Sto piangendo come una ragazzina, vedi?”

 

Ma lo sei.” fece, solennemente. “Bisogno di un abbraccio dal tuo vecchio migliore amico?” si offrì, a braccia spalancate.

 

Hilary ci si tuffò dentro: gli era mancato quell’abbraccio, e gli era mancato anche lui. “Ma tu sei il mio migliore amico. Vecchio, si. Dentro, però.” ghignò.

 

Takao si unì alla sua risata per poi posarle un bacio sulla fronte. “Allora, dolcezza: ti va di raccontarmi ogni cosa?”

 

Lei tirò su con il naso. “Non dirmi che non sai niente.”

 

“Okay, ti risparmio il fatto che hai scopato Kai alla grande e che l’hai scaricato non appena ti ha fatto la proposta indecente di una casetta in Canadà.” la donna rise, tirandogli una gomitata. “Okay, più o meno è così?”

 

“Immagino che Kary ti abbia raccontato questa versione stereotipata, e più o meno è andata così; il fatto è che quando ha accennato a famiglia e tutti insieme appassionatamente per sempre, io mi sono vista con un grembiulino a preparare vatruske allegramente e a servirgli vodka e vino per il resto della mia vita.”

 

Takao scoppiò a ridere. “Magari ingrassata di trenta chili con un fazzoletto in testa.”

 

“Ti prego, sono seria.” il suo tono era quasi isterico. “Ho un lavoro fantastico, a Londra, dei contatti altolocati, guadagno benissimo, ho una casa, degli amici, …Daphne va a scuola, ha una vita… E lui ha parlato di trasferirmi io. Perché dovrei rivoluzionare la mia vita, che va bene così com’è?”

 

Lui annuì. “Ho capito.”

 

“Mi fa rabbia che tutti pensino che stia scappando, che sono una codarda, che lo amo…

 

“Non è così?”

 

Lei ammutolì. “Non lo so!” urlò. “Anche se fosse sono affari miei. E comunque qui che vita avrei? Dovrei cominciare da capo, crearmi una rete di contatti nuova, per non parlare della vita sociale… Un casino. Un autentico casino.”

 

Takao le afferrò il braccio con decisione, bloccando il suo flusso di parole. “Dolcezza, ti informo che l’amore è un casino.” fece, deciso. “Scordati il fottuto e vissero felici e contenti, perché è una balla. L’amore, quello vero, è un litigio dopo l’altro, spezzettato da voi che dovete vedere se questi arrivano a minare il vostro rapporto di coppia. Se si, allora come duo fate cagare. Se no, allora insieme siete una squadra, e andate forte.” emise un sospiro e le concesse un sorriso.

“Tra te e Kai ci sono tante cose in ballo, è vero, ma ci sono anche due gemelle, e, cosa importante, i vostri sentimenti. Sta a voi decidere se il gioco vale la candela.” alzandosi, le baciò la fronte, prima di uscire dalla stanza. “Auguri, Hila. Ti voglio bene.”

 

“Anch’io te ne voglio…” rispose, con un filo di voce, ad una porta già chiusa.

 

 

 

 

Daphne era furibonda. Non credeva che, nella vita, lo sarebbe mai stata a quei livelli, con la madre, eppure probabilmente avevano litigato di più in quel giorno e mezzo, che in tutti i suoi quindici anni di vita.

Che non approvasse era palese, okay, ma c’era di più, molto di più.

Lei era proprio furibonda, se avesse potuto se la sarebbe mangiata. Perché quella donna spaventata da se stessa e dai suoi sentimenti era sotto gli occhi di tutti, e, invece, era proprio lei la prima a non volere ammettere di aver paura.

Difendere la propria indipendenza? Una scusa, una scusa del cavolo, un dito dietro al quale si stava nascondendo, a parer della ragazza.

 

In quel frangente, dopo aver salutato tutti – Nadja, Karen, Takao e soltanto la ragazza aveva salutato suo padre – si stavano recando a casa Kon. L’aereo sarebbe partito due ore dopo, e Hilary voleva tanto rivedere Rei e Mao prima di partire.

 

Fu Lee ad aprire la porta, e in casa trovarono Rei, che stava facendo i compiti con Rika, e Mao che stava cucinando una torta. Hilary sorrise nel vedere questo sprazzo di familiarità in casa dei suoi amici, Daphne non riusciva a dire alcunché, troppo nervosa.

 

“Allora te ne vai davvero.” Mao si asciugò le mani nello strofinaccio da cucina, sospirando.

 

“Non mi guardare così, sapevi che non sarei potuta restare per sempre.” ad uno sguardo scettico dell’amica, le guancie le si tinsero di rosso. “Mao.”

 

“Va bene, Karen mi ha raccontato tutto.” disse soltanto. “Se mi conosci sai anche come la penso, e siccome so che hai ricevuto abbastanza lavate di capo, non ti voglio dare pure la mia… Ti dico soltanto che stai facendo una cazzata.”

 

Hilary rise. “Grazie.”

 

Mao la abbracciò. “Vaffanculo, stronza. Fa’ buon viaggio, e non ti libererai di me, i voli di qui a Londra talvolta costano pochissimo.

 

Lei ricambiò l’abbraccio. “Esattamente quello che volevo sentire. E lo stesso farò io.” fece, stampandole un bacio sulla guancia. Poco dopo, si voltò verso Rei. “Ehi, arrivederci anche a te.”

 

L’uomo sorrise. “Sono d’accordo con tutto ciò che ti ha detto mia moglie, viaggio incluso.”

 

“Ah, perfetto.” lei sorrise.

 

“Tieni: io e Mao ti abbiamo fatto un regalo.” fece, dandole un pacchetto rettangolare.

 

Lei si dimostrò sorpresa. “Ah… Ma non dovevate, davvero.” scartandolo, vi trovò dentro una collana con dentro il simbolo cinese dello yin e dello yang.

Hilary li guardò interrogativamente.

 

“Per ricordarti di noi.” assicurò Rei.

 

Per indirizzarla verso ciò che è giusto. Geniale! Daphne era ammirata.

 

La bruna sorrise e li abbracciò nuovamente, dopodiché fu tempo di andare. C’era un aereo da prendere.

 

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Alloraaaaaaaaaa: l’avete visto Genitori in Trappola sul tre? Io proprio qualche stralcio e, ad essere sincera, mi ha lasciata un po’ perplessa… Un po’ troppo sempliciotta come commedia… o.o Sarà che sono io che ho il vizio di complicare ogni cosa…

 

Coooooomunque: simpatico intermezzo tra quello di prima e il prossimo che sarà… L’ULTIMOOOOOO! =(

 

Io sono triste, mi mancheranno questi personaggi, ma… Okay, ho la bocca cucita. ;D

 

Un bacione, ladies and gentlemen,

 

Hiromi

 

 

P.S.= Ci vediamo giorno diciannove per l’ultimo aggiornamento: come finirà? Ve lo dico io: moriranno tutti.  u.u

 

 

 

 

 

Occhei, non sono credibile. XD

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Capitolo 15
*** Quindicesimo Capitolo ***


Russie mon Amour

Russie mon Amour

 

 

Takao si allentò la cravatta entrando nella sua camera da letto; era terminata, per lui, un’altra mattinata di lavoro, - l’ultima, grazie al cielo, visto che aveva concluso l’affare, - e adesso poteva ritenersi grandemente soddisfatto.

Posò la cartelletta accanto all’armadio e, sospirando, si buttò sul letto: era distrutto, quella mattina si era dovuto svegliare qualche minuto prima delle sette, e non aveva nemmeno dormito bene… Urgeva recuperare.

 

Certe persone si meravigliavano ancora del fatto che lui, che in passato era stato tutto beyblade, ozio e cibo, adesso fosse un gran lavoratore, un uomo affidabile e sicuro di sé, ma era così.

Aveva un lavoro che gli piaceva tantissimo, la moglie più bella del mondo, e viveva in Francia, a Parigi. Certo, talvolta il Giappone gli mancava, ma con Karen, di viaggi intorno al mondo non ne mancavano mai, quindi non poteva certo dire di annoiarsi.

Amava la sua vita, sua moglie, il suo lavoro. Era un uomo fortunato.

 

“Ehi, quando sei tornato?” Karen comparve poco dopo, avvolta nella vestaglia di seta bianca, i capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle che le conferivano un’aria pressoché sensuale.

 

“Da poco.” mormorò, andandole incontro e prendendo a baciarle le spalle; la sentì ridere e rovesciare la testa indietro, ma gli si sottrasse subito dopo, risoluta.

 

“No.” aveva un’aria strana: era luminosa, solare, ma pareva anche in attesa di qualcosa. “Sai, Hilary è appena arrivata, la sono andati a prendere Max e Maryam.”

 

Mmm…” Takao non ne voleva proprio sapere di smettere di baciarla: il suo collo aveva un profumo così buono, ed era così liscio…

 

“E dai!” la donna rise, spingendolo via delicatamente. “Stavo dicendo che è appena arrivata, la sono andati a prendere e Nadja mi ha detto che Daphne trama qualcosa... Non sei contento?”

 

Takao sbuffò. “Kary, tra moglie e marito…”

 

“Sì, lo so, ma non mi arrendo. Non manca molto prima che io e te dovremmo andarcene, e prima di levare le tende vorrei esser d’aiuto a Kai, in qualche modo.”

 

“In realtà ho concluso l’affare oggi.” le rivelò lui.

 

Lei annuì. “Me l’avevi detto ieri. Ah, sai cosa? Anche io ho concluso un certo affare oggi.” assunse un’aria pensierosa. “No, per la verità necessità ancora di qualche mese… Diciamo pure che sono in trattativa…

 

Il giapponese sbatté le palpebre. “Eh?”

 

“Ma sì, per concluderlo, questo affare, mi ci vorranno un paio di mesi. Nove, all’incirca.” sorrise largamente, gettandogli le braccia al collo. “Sono incinta, babbeo! Ora è più chiaro?”

 

Takao dapprima la guardò senza dire alcunché, poi scoppiò a ridere, e ricambiò l’abbraccio. “Non ci credo…” sussurrò, dopodiché le stampò un lungo bacio sulle labbra. “Ti amo.” le sillabò, sulla bocca.

 

Lei intrecciò le sue dita con quelle di lui. “Anch’io ti amo.” e, appoggiando la testa sulla spalla del marito, si ritrovò ad augurare la stessa gioia a due testoni di sua conoscenza.

 

 

 

 

Gwen aveva ventotto anni, ed era la classica rosa inglese: bionda con gli occhi azzurri, minuta, lentiggini sul volto, svolgeva il suo lavoro da segretaria con passione, anche perché aveva avuto la fortuna, anni prima, di trovare un capo simpatico, affidabile e divertente: Hilary Tachibana, l’avvocato che, in quegli ultimi anni, si stava davvero facendo conoscere per la sua bravura, a Londra.

Certo, in quei giorni era mancata per motivi familiari ed era dovuta partire su due piedi dovendo chiudere lo studio, ma erano cose che potevano accadere.

 

Quello che Gwen non si aspettava, era al ritorno, di trovare il suo capo così cambiato.

Era sempre stata allegra, divertente, affabile, piena di energie, ed erano queste qualità che avevano contribuito alla sua scalata sociale, ma quel giorno pareva non esserci completamente. Stava nel suo studio a fissare il computer con occhi sbarrati, come se non sapesse cosa fare, e aveva trangugiato un caffè dopo l’altro.

 

Solitamente era lei che si occupava di revisionare i suoi scritti al pc, visto che – come aveva ammesso Hilary stessa, ridendo – era una vera nullità al computer, e sapeva fare soltanto le cose base, ma quel giorno pareva non riuscisse a fare nemmeno quelle.

 

“E’ tutto a posto? Posso aiutarla?” bussando timidamente al suo studio, decise di rompere quel silenzio devastante. Fortuna che non vi erano clienti.

 

“Oh, Gwen…” sbattendo lentamente le palpebre, si riscosse in maniera minima: era intenta ad osservare un ciondolo che, prontamente, ricacciò in tasca. “Non sono riuscita a scrivere nemmeno una riga sul divorzio Stevenson – Brady… Oggi non ho proprio testa.”

 

La bionda si ravviò una ciocca dietro l’orecchio. “Se si sente male può andare a casa.” propose, scrollando le spalle. “Ci penso io a chiudere qui, sul serio.”

 

Hilary si morse le labbra, pensandoci un po’ su. “Sai cosa?” sospirò lentamente. “Temo di… Aver bisogno della… Dottoressa Bennett.” sospirò, come se stesse ammettendo una verità scomoda. “Vedi se c’è un posto libero il prima possibile, per piacere, anche oggi… Ma ne dubito.”

 

Gwen annuì. “A qualunque ora?”

 

“Sì, sì. Ne ho… proprio bisogno. Dille che è un’emergenza.”

 

 

 

 

Daphne aveva in braccio Daisy, e, rilassandosi mentre le faceva le treccine, guardava sua zia sfornare una torta al cioccolato.

Liz e Sam erano appena andate via dopo averla riabbracciata e salutata, in quel momento si stava dedicando alla famiglia.

“E’ pronto il tè, zia?” mettendo per terra la bambina, raggiunse il posto dove si trovava la donna per vedere se aveva bisogno di aiuto.

 

“Sì, tra un po’ la teiera dovrebbe fischiare…” Maryam dispose la torta su un vassoio. “Prendi le tazze, per favore.”

 

“Certo.” portando il tutto in sala da pranzo, trovarono Daisy che tentava di arrampicarsi su per una sedia; una volta fatta sedere accuratamente la bimba, iniziarono il rituale inglese delle cinque.

 

“Ora stai meglio?” la donna le porse una fetta di torta. “Eri così nervosa ieri sera, non ti ho mai vista così arrabbiata con tua madre...”

 

Daphne le lanciò una lunga occhiata neutrale. “Sto meglio, ma non vuol dire che sia più calma.” fece notare.

“Lo zio ti ha spiegato come sono andate le cose, e scommetto che quando sono andata a dormire mamma vi ha pure detto delle cose che non so, cose che mancano al mio puzzle.” qui sospirò. “Ma non cambio idea: sta rovinando la vita a tutti. Quattordici anni fa aveva ragione lei, ora no.”

 

Maryam sorseggiò il suo tè a lungo, prima di parlare, dopodiché la fissò dritta negli occhi. “Quando affronti determinate cose, nella vita, hai paura che ritornino.” spiegò. “Io credo che Hilary tema non solo per se stessa, ma anche per te e Nadja. Poi c’è un fattore non da sottovalutare.”

 

Daphne corrucciò le sopracciglia. “Cioè?”

 

“Non sa ancora cosa prova per tuo padre.”

 

“Ma se si vede lontano un miglio che si amano!”

 

La donna sorrise. “La gente vede chiaramente negli altri, ma non riesce a vedere altrettanto chiaramente in se stessa.”

 

La ragazzina dapprima restò attonita, poi sorrise. “Lo sai, zia, mi sei mancata.”

 

“Oh, non ne dubito.”

 

 

 

 

Mao si ravviò i capelli chiari, lasciati liberi di ricadere sulla schiena.

Sin da ragazzina li aveva sempre avuti lunghi fino ai gomiti, ed erano sempre stati la sua particolarità, il suo vanto. Ora che ragazzina lo era un po’ meno, li aveva accorciati fino un po’ sotto le spalle, sempre lunghi ma molti centimetri di meno rispetto a vent’anni prima. Un po’ una via di mezzo tra quello che era stata e quello che era.

 

Karen le aveva dato appuntamento in quel pub dove, sere prima, si erano incontrate anche con Hilary. Solo a ripensare alla bruna sentiva una morsa allo stomaco.

Si diceva che le amiche ci dovessero essere sempre, che dovessero essere leali, che non dovessero giudicare… Su quest’ultima cosa non si trovava molto d’accordo. O meglio: secondo lei, aveva delle eccezioni: quando la migliore amica di una vita sta per fare una stronzata colossale, come si faceva a starsene zitta e muta?

Con molta pazienza era riuscita a non farle un casino, e a dirle quella frase, il giorno in cui era venuta a casa sua a salutarla, ma non sapeva neanche dove avesse trovato la forza.

 

Forse se le avessi detto di più… Magari…

 

Ricacciò con forza quest’ultimo pensiero: Hilary era una donna fortemente indipendente, e altamente testarda; se decideva una cosa, non cambiava idea nemmeno se la si supplicava in ginocchio, a meno che non capiva lei di avere sbagliato.

Ed era su quello che dovevano puntare.

Dovevano far capire a Hilary che lei amava Kai, che si appartenevano, accidenti.

 

“Ehi, sei qui da molto?” una Karen stretta in un tubino viola le si parò davanti, sorridendole.

 

Mao, che sorseggiava un sex on the beach, mise da parte il drink per abbracciarla. “No, solo cinque minuti. Ciao, comunque.”

 

La bionda si sedette sullo sgabello, e richiamò il barista, ordinando della coca cola. “Allora, che mi racconti?”

 

Guardandola con occhi sospettosi, la cinese mescolò il suo cocktail con la cannuccia. “Io niente, tu, signora coca cola?”

 

Karen, ricevendo la lattina, diede al barista una banconota, dicendogli sbrigativamente di tenere il resto. “Sono incinta!” esclamò, con un sorriso enorme sulle labbra.

 

Mao batté le mani, scendendo dallo sgabello ed andandola ad abbracciare. “Cielo, come sono contenta!”

 

“L’ho scoperto due giorni fa, e non dovrei essere di molto…” spiegò, mordendosi le labbra, contenta. “Appena torniamo in Francia prenderò l’appuntamento con la ginecologa.”

 

L’altra assunse un’aria delusa. “Ah, già. Andrete via…”

 

Karen sospirò. “Takao ha concluso il suo affare, e io l’ho pregato di rimanere qui qualche altro giorno. Vorrei vedere come si evolvono le cose tra Kai e Hilary. Vorrei tornare a Parigi contenta davvero, senza pensieri, godendomi spensieratamente la gravidanza.

 

Mao sorseggiò il cocktail. “Ma se continua così…”

 

“Io sono ottimista.” la bionda sorrise. “Nadja mi ha spiegato cosa lei e Daphne hanno organizzato in questi giorni per far mettere insieme i due. Le gemelle sono diaboliche.”

 

“Sì, ma serve un altro piano altrettanto diabolico per far crollare Hilary.”

 

“A quanto pare Daph ce l’ha.” Karen sorrise. “E io non ho nessuna intenzione di partire con un pensiero in più per Parigi. E quando mi metto in testa una cosa…”

 

 

 

 

Per Gillian doveva essere ora di pranzo, ma quando aveva ricevuto, ore prima, una telefonata da parte di Gwendolen Richards, la segretaria di una delle sue clienti più datate, per così dire, non aveva esitato a comunicarle quell’orario e a far arrivare Hilary Tachibana il più presto possibile.

 

“Ho ordinato thailandese, spero ti piaccia.” la rossa estrasse dei pacchettini da un sacchetto. “Il ristorante a due isolati da qui cucina del cibo davvero ottimo. Prego.” porgendole un pacchetto, che l’altra prese quasi meccanicamente, Gill prese a mangiare. “Ti ascolto.”

 

“Ho lo stomaco chiuso.” Hilary mise da parte il cibo. “Non faccio che pensare a lui, e alla litigata, a tutto quello che mi dicevano tutti, e… Tu non stai capendo nulla.”

 

“Non molto in effetti, no.” asciugandosi le mani su un tovagliolo, Gill si sistemò ben benino gli occhiali dalla spessa montatura.

 

“Sono andata a Mosca. E’ stato fantastico, mi sono innamorata di quella città, si è come… fatta perdonare.

 

“In che senso?”

 

Sospirando, Hilary cacciò fuori dalla tasca un ciondolo e prese a giocarci nervosamente, lanciandogli qualche occhiata di tanto in tanto. “Beh, quattordici anni fa la odiavo, custodiva dei ricordi orribili con Kai, Cindy e tutto il resto, ma ora… Ho ritrovato Takao, Karen, Mao… E anche lui.”

 

Gillian mangiucchiò un pezzetto di pollo. “Devo dedurre che l’hai ritrovato in un modo un po’ diverso da come hai ritrovato gli altri amici?”

 

Arrossì. “Alla fine siamo finiti a letto insieme. Vedessi, dicevo a Karen e Mao che si sbagliavano, che costruivano castelli in aria, che la vedevano rosa, invece…

 

“Invece avevano ragione?”

 

“Beh, a quanto pare sì.” arrossì, e, non riuscendo a sollevare lo sguardo, prese a mordersi le labbra, trovando, a quanto pareva, molto interessante quel misterioso ciondolo. “Dopo che abbiamo fatto l’amore è successo una cosa strana: nonostante tutto il tempo passato a ripetermi che era un errore, che ero una madre e che dovevo pensare alle gemelle e non a me, che non ero un ormone ambulante… Ho gettato queste cose nel cesso, automaticamente. Era come se Kai mi attirasse sempre di più. Avevo voglia di essere sua, sua soltanto, di fare l’amore tutto il giorno, sempre…” sospirò, ravviandosi i capelli. “Non mi capisco.”

 

“Cos’è successo?”

 

Nadja ha avuto una gara di beyblade, e l’ha vinta. Per tutto il giorno non ci siamo potuti vedere, tranne, poi, la sera successiva, quando abbiamo brindato, e stavamo per dedicarci un po’ a noi. Ma lui ha cominciato a dire che voleva una famiglia, che voleva tornare con me… E io mi spaventata a morte.”

 

Gillian si asciugò le labbra con tovagliolo, aggrottando la fronte. “Perché?”

 

“Perché non voglio ridiventare depressa!” sbottò. “E’ così difficile da capire?” gemette. “Non so se con lui sarei felice, ma so che stare con lui è difficile.”

 

“Hilary.” accavallando le gambe, la dottoressa sorrise brevemente, facendole cenno di fermarsi. “Tu non cadrai nuovamente in depressione.”

 

Sbattendo gli occhi, la bruna la fissò come se non le credesse. “Cosa?”

 

“Esatto. Hai seguito un percorso invidiabile in questi anni, e hai una vita serena. Io credo che il problema sia un altro. Ti ha detto dove andrete a vivere?”

 

“Ecco!” sobbalzò, come se si fosse ricordata di un particolare importante. “Ha parlato di trasferirmi, ma io… Perché diavolo dovrei trasferirmi? Sto bene a Londra, sto benissimo! Ho il mio lavoro, Max, Maryam…”

 

Inarcando un sopracciglio, l’altra notò qualcos’altro. “Saresti disposta a lasciarli?”

 

Ritrovandosi a boccheggiare, Hilary non seppe cosa dire. “Io non… No!”

 

“Forse il problema potrebbe essere anche questo, non credi?” concedendole un sorriso, Gillian scrollò le spalle. “Sei mia paziente da anni, so quanto tu sia legata ai coniugi Mizuhara e so quanto hanno fatto per te. Ma se tu dovessi tagliare il cordone ombelicale?

 

“Perché dovrei farlo?” ritrovandosi improvvisamente accaldata, prese di scatto un tovagliolo, con il quale si tamponò la fronte.

 

“Per un motivo qualsiasi. Valido, ovviamente.” precisò. “Il che non vuol dire non vedersi mai più. Significa… Diverso da ora.”

 

Hilary stette a pensare per un bel po’, e all’improvviso nella stanza tutto quello che si udì fu il ticchettio dell’orologio: le due donne si fissarono a lungo; la rossa, sicura di sé e sorridente, la bruna, timorosa e spaventata.

“Non lo so.” esalò infine.

 

“Credi che Kai sia una valida ragione per tutto questo?” incalzò. “Ricorda che il lavoro potrai ricominciarlo da un’altra parte. Ma ricorda, Hilary: non ha senso mentire a se stessi.

 

“Perché mentire?” ridacchiando e abbassando lo sguardo, lanciò il tovagliolo sul tavolo. “Non lo amo, punto.”

 

“Mi fai un favore? Ecco. Pensa a tutto quello che senti quando sei in sua compagnia. Emozioni, sensazioni, pensieri… Tutto. Poi mi rispondi. Abbiamo tutto il tempo. Chiudi anche gli occhi, se vuoi.”

 

La donna emise un lungo sospiro, dopodiché il ricordo di quegli occhi viola la strinse a sé con tanta forza da farla irrigidire.

 

Ricordò i suoi baci, il modo in cui le loro bocche si incastravano alla perfezione, la loro maniera appassionata di fare l’amore, nella quale i loro corpi parevano fondersi insieme, quasi fossero fatti apposta per combaciare… E i suoi sorrisi, i suoi bronci che lei trasformava in risate, il modo in cui la sua mano si stringeva alla sua, e anche come la faceva disperare… O anche quando faceva lo stronzo, il che era poi così sexy, perché se da un lato avrebbe voluto schiaffeggiarlo, dall’altro il desiderio di baciarlo era ancora più forte…

E poi abbassò lo sguardo al ciondolo di Rei e Mao e spalancò occhi e bocca, non sapendo se ridere o piangere.

 

La verità le piovve addosso come una cascata, facendola impallidire inevitabilmente: innamorata, lei era innamorata di Kai Hiwatari.

E qualunque cosa avesse fatto per fuggire sarebbe stata inutile, perché non vi era soluzione. Lo amava disperatamente, follemente e veramente, e la cosa stupida, ma davvero stupida sarebbe stata farsi frenare dalla razionalità e dalle paure.

 

“Oddio…” inghiottendo a vuoto, fu capace soltanto di portarsi una mano alla bocca, mentre con l’altra osservava meglio quella collana.

Furbi, quei due. Di certo sapevano con cosa darle le giuste imbeccate.

 

“Cos’è?” sporgendosi per vedere, Gillian ammirò la collanina e il ciondolo dello yin e dello yang.

 

“Me l’hanno regalato Mao e Rei. Non hanno detto, ma ora ho capito cosa volevano dire: secondo la tradizione cinese sono i due opposti per eccellenza, come fuoco e acqua, bene e male, ma l’uno non può esistere… senza l’altro.” concluse, con voce roca. “E’ così.”

 

Quindi sai cosa devi fare.” Hilary annuì.

 

 

 

 

Quando Rei andò a villa Hiwatari per vedere come procedeva la situazione, trovò una Nadja imbronciata che si preparava per andare agli allenamenti di beyblade, e Karen e Takao che si coccolavano a vicenda, acciambellati sul divano.

Kai era nel suo studio, tra scartoffie e documenti vari, a controllare le buste e i pagamenti della palestra.

 

“Doveri e oneri di un dirigente, eh?” appoggiato al muro, non aspettò nemmeno che l’amico lo invitasse ad entrare: ormai lo conosceva abbastanza per sapere che non l’avrebbe mai fatto. Kai Hiwatari non si formalizzava a tanto.

 

“Già.” rispose, laconico.

 

“Allora, zietto, come hai preso la notizia?”

 

Kai mise via un documento particolarmente sostanzioso e scrollò le spalle. “Una buona nuova fa piacere, di tanto in tanto.”

 

“Se lo vuoi sapere, a me fa senso pensare a Takao padre.” fece, ridacchiando. “Chiederò a Karen di filmarlo mentre cambia i pannolini.”

 

L’altro sorrise appena. “Se te lo stai chiedendo, sto bene.” inarcando le sopracciglia, lo guardò con aria di sfida. “Non mi impiccherò da nessuna parte.”

 

“Non che io lo temessi.” Rei scrollò le spalle. “La storia la so, non sono qui per fartela raccontare un’altra volta. Sono qui per dirti solo una cosa.” fece, alzandosi. “Tu le hai proposto di trasferirsi e lei si è arrabbiata.” Kai incrociò le braccia al petto. “E se fossi tu ad andare da lei?”

 

 

 

 

Maryam prese i piatti, stando bene attenta a posizionarli sulla tavola: l’ora di cena era arrivata e quella sera aveva ordinato la pizza, che stava aspettando solo di essere mangiata.

Daphne, da quando era tornata, non era felicissima, più che altro si era mostrata preoccupata e nervosa, ma lei e Max avevano assicurato alla ragazza che avrebbero parlato alla madre quanto prima. Capivano che era una situazione intricata che andava risolta.

 

“Passami il piatto.” fece, nella direzione del marito.

 

“Zia, ci penso io. Tu siediti.” Daphne squadrò il pancione al terzo trimestre abbondante di Maryam e si alzò, distribuendo velocemente i tranci di pizza. “Buon appetito.” quando si avvicinò alla sedia, il campanello venne suonato con energia. Tutti si guardarono, sorpresi. Hilary in genere smetteva di lavorare un’ora più tardi, quindi…

 

E invece era proprio lei, e pareva aver fatto spese, a giudicare dalla quantità di sacchetti che si era portata dietro.

“Ciao.” si fece strada verso la sala da pranzo, rivolgendo un sorriso a tutti; pareva nervosa, e anche leggermente sulle spine. “Oggi è stata una giornata particolare. Sono stata da Gillian.”

 

Sentendo nominare la sua analista, l’attenzione di tutti venne concentrata su di lei in toto. “Hai avuto dei problemi?” Hilary andava regolarmente da lei, ma era raro che ci andasse senza appuntamento, come quel giorno.

 

“Sì.” dichiarò, dopo qualche secondo di silenzio. “Con me stessa. E lei… E’ stata davvero grande, perché ha districato l’enorme massa dei miei pensieri.” fece, con un sospiro.

“Io… Io sono innamorata di Kai, e mi dispiace averci messo tanto a capirlo. O ad accettarlo, fate voi.” lo disse con un filo di voce, quasi timida.

 

“Finalmente!” trillò Daphne, raggiante.

 

Alleluja!” fece eco Max, alzando gli occhi al cielo mentre Maryam le sorrideva, complice.

 

“Mammina, siamo contenti?” chiedeva Daisy, mangiucchiando la pizza e sporcandosi il faccino.

 

“Sì, amore, tantissimo.” la donna rinunciò a  pulirle il visetto, pensando che se lo sarebbe sporcato nuovamente due secondi dopo.

 

“E ora?” Daphne andò dalla madre, stampandole due sonori baci sulla guancia.

 

“Oh, per schiarirmi le idee ho fatto shopping…” ridacchiò, nervosa. “Sapete, in Russia fa freddo…” Max e Daphne batterono le mani, e a loro si unì la piccola Daisy, anche se non capiva il perché. “Ho paura…”

 

“L’amore fa paura.” Maryam la fissò negli occhi. “Ma capisci che ne vale la pena quando trovi certi abbracci.” allo sguardo interrogativo della donna, lei sorrise, sibillina. “Perché ci sono braccia che son più casa di casa mia.

 

Hilary la fissò per qualche istante, confusa, poi decise di lasciar perdere. “Sentite, ho bisogno dell’aiuto di tutti quanti, perciò organizziamoci. Ho un piano, e per metterlo in atto ho fatto una telefonata. Daphne? Prepara la valigia: si parte tra qualche ora. Max? Mi accompagni all’aeroporto?”

 

Lui sorrise. “A tua disposizione.”

 

 

 

 

Nadja si svegliò presto l’indomani, e non fu sorpresa di trovare suo padre con tanto di valigia in mano; lei, del resto, era già vestita di tutto punto, ma fu divertente quando, alla vista del suo trolley, vide lui inarcare le sopracciglia.

 

“Dove pensi di andare?”

 

“Tipo nella tua stessa direzione… Mi dai un passaggio?” lo disse senz’ombra di sfida, fu una frase buttata lì, per caso, ma carica di significato.

Si fronteggiarono per un po’, poi l’uomo cedette, perché si incamminò verso la porta, lasciandogliela aperta.

 

Per quelle occasioni, tipo andare ad un party esclusivo, o pigliare l’aereo, prendevano sempre la limousine. Dava nell’occhio, ma era necessaria, se non volevano lasciare la Jaguar incustodita.

 

 

Il viaggio durò meno di un’ora, un’ora che la ragazza trascorse guardando fuori dal finestrino e pensando a tutto; la sua vita soleva essere semplice, liscia, lineare. Invece era bastato un viaggio a Parigi per scombinargliela completamente.

Daphne era entrata nella sua esistenza come un tornado, avevano scoperto di essere gemelle, e da lì avevano architettato quel piano pazzo per conoscere i rispettivi genitori. E poi… dalla conoscenza al farli tornare insieme?

 

Oddio, ma come ci siamo arrivate?

 

Quasi sorridendo, pensò a tutte le avventure affrontate, tutte le risate, le chiacchiere, tutte le volte in cui con Daphne si erano chiuse nella loro stanza ad architettare i loro piani…

 

E ora… Siamo qui.

 

Si sorprese di notare quanto fosse nervosa, quanto fosse anche cambiata rispetto a settimane prima. Era un po’ più spigliata, più vivace, si era… Tachibanizzata, ecco.

Con sorpresa, si rese conto che Daphne e sua madre le mancavano tantissimo, e che non vedeva l’ora di riabbracciarle.

 

Spero solo vada tutto bene.

 

La limousine si fermò proprio sulla pista, di fronte ai jet privati in partenza e in arrivo, e loro due scesero subito dopo.

Una hostess trafelata arrivò immediatamente, accogliendoli. “Signor Hiwatari, salve. Il suo jet atterrerà tra cinque minuti, la preghiamo di attendere da questa distanza.

 

Kai la guadò come fosse pazza. “Il mio jet doveva partire, non arrivare.” sibilò.

 

Quella sbatté gli occhi. “C-Così mi è stato riferito dalla torre di controllo.” balbettò.

 

“Papà, rilassati.” Nadja decise di intervenire per non far rischiare ad una povera hostess innocente il licenziamento. “E aspettiamo.”

 

Quello la squadrò attentamente. “C’entri qualcosa?”

 

“Potrei.” fece, imitando il tono laconico di marca Hiwatari. “E ora, se non ti dispiace, dovremmo attendere un volo.”

 

Nadezda, che diamine-”

 

Ben sapendo che quando la chiamava con il suo nome intero le cose erano gravi, la ragazza decise di intervenire con un sorriso. “Guarda, quello è l’aereo.” scrollò le spalle, indicando un punto, in alto. “Non ci resta che attendere qualche secondo.”

 

Kai seguì il tragittò del jet con il cuore in gola, pur stando attento a mantenere l’aria distaccata che si riservava sempre di mostrare all’esterno.

 

Quando, minuti più tardi, da lì scese una Daphne che cacciò un urlo di gioia e corse ad abbracciare la gemella, facendola girare… Restò paralizzato, si sentiva come ingessato, inamidato, assolutamente bloccato e sconvolto.

 

“Senza parole, Hiwatari?” Hilary scese le scale con una lentezza che pareva misurata. Indossava un cappotto di pelliccia color panna, e trascinava con sé una sostanziosa valigia.

 

Le gemelle ridacchiarono. “E’ diventato di sale.”

 

“Voi state zitte, malefiche!” la donna fece finta di prendersela con loro, arricciando il naso. “Ne avete combinate abbastanza.”

 

Ma per prenotare jet privati in modo da essere qui in meno tempo ti serviamo, eh?” Nadja incrociò le braccia al petto, facendola ridere.

 

“Dai, andiamo, lasciamoli ai loro affari.” fece Daphne. “Chissà se i negozi degli aeroporti sono davvero più cari come si dice…

 

Uscite dalla visuale, Hilary si avvicinò a Kai, sorridendogli. “Battuto sul tempo.” si morse le labbra. “Okay, per una volta.” vedendo che non rispondeva, lo fissò dritto negli occhi. “Ti ho sorpreso?”

 

“Lo fai sempre.” il tono di lui era neutro, l’espressione indecifrabile.

 

“E non sempre positivamente, lo so.” annuendo, la donna sbuffò. “Abbiamo avuto una storia… complicata. E siamo… complicati.” dicendo nuovamente la parola, ridacchiò. “Ma sai cosa? Forse queste ore lontane da te sono state un bene. Ho capito tante cose.”

 

“Tipo?”

 

“Avevo paura di cadere nuovamente in depressione, e quando mi han confermato che non è possibile, beh, wow, è stato una preoccupazione meno.” notando che l’espressione tesa di lui si scioglieva man mano, lei continuò, un po’ più sicura.

“E poi mi hanno fatto capire che avevo uno spasmodico senso di attaccamento a Max e Maryam… Non sai quanto hanno fatto per me, e sarà difficile star lontana da loro, ma… E’ giusto tagliare il cordone ombelicale.”

 

“E il tuo lavoro?”

 

 “Una scusa.” ammise, e le guancie le presero fuoco. “Posso fare l’avvocato dovunque e… Beh, all’inizio mi preoccupavo anche per Daphne, ma lei sarebbe contenta se si potesse fare e…

 

“Si potesse fare cosa?” con un sorrisetto particolarmente irritante, Kai incalzò nel punto dolente con tenacia e astuzia.

 

Le guancie di Hilary divennero color mattone. “Guarda, un tempo ti avrei ricoperto di insulti per questo.” decise di prenderla con ironia, ridacchiando. “Ma ti conosco, e so che a modo tuo mi stai facendo pagare tutto quello che hai dovuto passare. Quindi okay, ci sto.” si schiarì la voce, mordicchiandosi le labbra.

“Apri bene le orecchie, Hiwatari: io ti amo.” scandì, mordendosi le labbra. “Beh, se la proposta è ancora valida, per me va bene. Che tu decida di andare a vivere qui, a Tokyo, a Londra, in Papuasia, non mi importa. Ci sei tu? Ci sono le mie bambine? Beh, allora va bene.”

Kai ridacchiò, distogliendo lo sguardo, e lasciando la donna inebetita che, dapprima lo fissò, incredula, poi gli schiaffeggiò la spalla.

“Cioè, io mi dichiaro e tu mi ridi sopra? Ma che stronzo!”

 

Stava per mettere le braccia conserte, offesa, ma una sua mano venne fermata da quella di lui, che le bloccò il polso. I suoi occhi vennero attirati da due pozze color ametista, e quando incontrò un sorriso dolce come il miele, il suo cuore rischiò di sciogliersi come burro.

“Ti amo.” le sussurrò. “Casa è dove ci sei tu, non importa il luogo.”

 

Quando le sue labbra trovarono quelle di lei, Hilary capì cosa aveva voluto dire.

 

In quegli anni si erano separati, avevano visto altre persone, le avevano frequentate, ma nessuna mai avrebbe potuto prendere il posto l’uno dell’altra.

 

Si appartenevano, erano l’una il pezzo mancante del puzzle dell’altro, e potevano negarlo, ma non per questo la realtà sarebbe cambiata.

 

In quattordici anni erano maturati, forse un po’ cambiati, e per due gemelle dispettose si erano ritrovati lì, a Mosca, quella città che aveva avuto l’ardire di farli dividere e che adesso si stava facendo decisamente perdonare.

E, in quell’istante, mentre suggellavano con un bacio la tacita promessa di non dividersi mai più e di realizzare la famiglia che tanto volevano, Hilary capì perché, stretta in quell’abbraccio, labbra contro labbra, quello era il posto che poteva dichiarare casa.

 

Perché ci sono braccia che sono più casa di casa mia.

Era vero.

 

 

 

 

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

 

Ooooh. *.*

 

Ed eccoci qui, dopo ben quindici settimane, a mettere la parola fine a questa storia che, per me, è stata molto importante. Che dire? Spero davvero non vi abbia deluso: ci sono state alcune recensioni che minacciavano Hilary di morte semmai si fosse recata lei da lui ma, vedete… Ci ho riflettuto e riflettuto, e qui davanti avete quella che Kai lo tratta peggio di tutti, in qualità di autrice (xD) però… Oh, andiamo: si sono incontrati a metà strada! *ç* Lui stava per andare da lei, mollando tutto! Solo che, ho pensato: con tutti i casini che hanno, forse verrebbe male a lui lasciare la scuola di bey, mentre Hila ha un lavoro autonomo… Mmm… Quindi è solo per questo motivo che ho fatto spostare lei e non il contrario, altrimenti l’Hiwatari chiappesode avrebbe mosso il culone, parola mia. u___u

 

Comunque, spero davvero che come conclusione vi sia piaciuta e… Beh, che altro dire? Vi auguro una buona pasqua (e la auguro pure a me, visto che prevedo già come andrà a finire…   .-.) e delle belle vacanze.

 

Non disperategioite troppo, e vi consiglio di segnare il primo Maggio sul calendario…

 

Perché?

 

 

Ma perché è festa, ovvio. ;D    (come no)

 

 

Un bacione, vi adoro tutti,

 

Hiromi

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