Buio

di daeran
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Parte prima ***
Capitolo 3: *** Parte seconda ***
Capitolo 4: *** Parte terza ***
Capitolo 5: *** Parte quarta ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Allora, questo racconto lo ho scritto per partecipare al Primo Concorso "Comitato per Belle Storie". Non sono certissima se si possa considerare horror, ma lo ho inserito lo stesso in questa categoria, fatemi sapere che ne pensate. Detto questo, vi posto il primo pezzo, è breve ma questa è solo una prefazione. ^_-



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Buio

Prefazione

Questa sarà una storia inquietante, una storia orribile, una storia che in pochi oserebbero raccontare e che nessuno, con il senno di poi, avrebbe mai il coraggio di ascoltare.
Solo per il bisogno di farvi conoscere quale è stata la mia vita, vi descriverò i fatti senza fronzoli, senza perdermi in immagini patetiche e romanzate, atte solo a rendere più facile e meno spaventosa quella che è una terribile verità. Tutto ciò che sentirete da me saranno i puri e semplici avvenimenti reali, ciò che davvero è accaduto sotto questo cielo immenso e misterioso, nel corso di innumerevoli anni.
Alla fine del mio resoconto non crederete alle mie parole, negherete che tutto ciò sia possibile, io stesso fatico a credere di aver potuto prendere parte ad una storia così assurda, non riesco a capacitarmi di aver vissuto simili terrificanti momenti.
La nostra cultura ed il nostro mondo, per tutta la vita, insegnano ad ognuno di noi che i fantasmi della nostra infanzia, le ombre che vivono negli armadi, i mostri che attendono pazienti e silenziosi sotto i nostri letti altro non sono che fantasie, immagini prodotte dall’inconscio di bambini terrorizzati, ancora troppo ingenui ed inconsapevoli, incapaci di razionalizzare le paure astratte. Ma se questa non fosse la realtà?
Se la paura irrazionale non portasse i bambini a creare mostri fantasiosi? Se invece la paura portasse gli adulti a negare una terrificante realtà, a descrivere con paroloni incomprensibili un concetto che solo ai bambini appare ancora chiaro e limpido come un ruscello d’alta montagna?
Come reagireste davanti ad una simile ipotesi?
Neghereste anche questo ovviamente, mi considerereste un pazzo, un irrazionale, un idiota che vive al di fuori della realtà, che si nasconde dietro a paure ancestrali per non affrontare il mondo, per fuggire il male ed il dolore di ogni giorno.
Eppure non è così.
Eppure io affronto ogni giorno un Male più antico della vostra stessa definizione razionale di male.
Mi vorrete rinchiudere, mi vorrete zittire ma non importa, è giunto il momento per me di raccontare la verità, di insegnare, se il tempo che mi rimane me lo permetterà, l’unico verbo al quale dobbiamo credere, nella speranza che almeno uno di voi mi dia ascolto e non mi consideri un pazzo, poiché sono rimasto l’ultimo pazzo in un mondo di dotti, razionali e concreti pagliacci, troppo terrorizzati per spegnere le luci e guardare nell’ombra.

Le Tenebre esistono, il Male esiste, i mostri della nostra infanzia ci guardano crescere, ci terrorizzano finché siamo abbastanza piccoli da vederli ma, non appena decidiamo di ignorarli, di voltare loro le spalle, ci attendono infuriati in ogni buio anfratto, pronti a reclamare la loro attenzione e, fino a quando non ce ne renderemo conto, non saremo altro che agnelli sacrificali, ignare vittime che si gettano volontariamente e con il sorriso sulle labbra tra le braccia dei loro stessi carnefici.

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Capitolo 2
*** Parte prima ***


Parte Prima

La mia storia cominciò molto tempo fa, ero solo un bambino la prima volta che vidi le Tenebre, la prima volta che mi dimostrarono la loro potenza, il loro orrore.
Vivevo solo con mia madre, non avevo mai conosciuto mio padre, né lei me ne aveva mai parlato; forse attendeva che diventassi abbastanza grande per comprendere i motivi della loro separazione, forse lo odiava a tal punto da volermi far credere che fosse morto. Non lo ho mai saputo, non le chiesi mai nulla, né potei più farlo dopo quella notte.

Non avevo più di otto anni e, come mi era capitato spesso in passato, mi svegliai urlando terrorizzato, così certo di aver visto un’ombra scivolare fuori dall’anta socchiusa dell’armadio a muro, di aver sentito un brivido gelido accarezzarmi la guancia.
Mia madre mi raggiunse di corsa, accese la luce, prese ad accarezzarmi gentilmente, mi cullò finché non smisi di tremare e mi bisbigliò ripetutamente all’orecchio: “Era solo un sogno, piccolo mio, solo un sogno. Tu sei padrone dei tuoi sogni, puoi combatterli, puoi alterarli. Sei più forte di loro, Morgan, lo sarai per sempre.”
Per convincermi che non c’era alcun pericolo, spalancò l’armadio sotto i miei occhi; io sussultai, credetti di vedere l’ombra scivolare all’interno del mobile, per sfuggire alla luce ma, non appena  le ante furono completamente aperte, vidi solo i miei vestiti, appesi agli ometti, dondolare lentamente.
“Non c’è nulla nell’armadio, amore mio, nulla che non debba esserci.” sorrise, ricordo ancora quel sorriso sicuro; bastò il suo sguardo gentile a sciogliere il terrore che mi aveva attanagliato il cuore come una lastra di ghiaccio.
Mi rimboccò le coperte, spense la luce e tornò a dormire. Mi rigirai nel letto, ancora turbato ma in parte tranquillizzato dal ricordo del sorriso di mia madre e del suo profumo che ancora mi invadeva le narici.

Stavo per riaddormentarmi, quando la sentii urlare.
Mi sollevai sul letto e, senza quasi neppure rendermene conto, mi ritrovai a correre a piedi nudi lungo il corridoio, sentii ancora le sue urla ed urlai a mia volta.
Il corridoio parve allungarsi inesorabilmente, come se volesse impedirmi di raggiungere la grande camera da letto.
Quando finalmente arrivai davanti a quella maledetta porta, la spalancai senza attendere; spiai all’interno della stanza ma non sentii più alcun lamento.
“Mamma? Mamma cosa c’è?”
Non riuscii a distinguere nulla, le tenebre più fitte avvolgevano il suo letto, la luce accesa del corridoio non oltrepassava l‘ingresso della stanza, spariva come inghiottita dal buio, in un modo che negli anni successivi imparai a distinguere tanto bene .

Chiamai ancora ma non ebbi alcuna risposta, potevo sentire il respiro affannato della donna che mi aveva messo al mondo, ero certo che fosse lei, ma perché non mi rispondeva?
Con il cuore in gola oltrepassai l’ingresso, avanzai a tentoni con le mani appoggiate sul muro freddo, in cerca dell’interruttore, poi finalmente riuscii a trovarlo.
Nel momento stesso in cui lo premetti, sentii un brivido gelido attraversarmi il braccio, dalla mano verso la spalla, scivolò velocemente via da me, mentre la luce illuminava la stanza.

Solo allora la vidi, mia madre era sdraiata sul suo letto, le lenzuola erano scivolate di lato e ricoprivano scompostamente il pavimento, un braccio le era caduto oltre il bordo del materasso, la mano inerte toccava il pavimento, le gambe erano piegate su un lato, come se avesse cercato di rannicchiarsi ed il suo volto …
Il ricordo del suo volto ancora oggi, dopo tanti anni, mi perseguita, nelle poche ore di sonno che ho il coraggio di concedermi. Gli occhi vuoti, spalancati e rivolti al soffitto, la bocca ancora socchiusa in un terrificante urlo che solo io ero riuscito a sentire, prima che venisse definitivamente soffocato, infine i suoi capelli, Dio, quei soffici capelli castani che avevo accarezzato tante volte, che annusavo estasiato quando mi prendeva in braccio, erano completamente diversi da come li ricordavo, da come li avevo visti pochi minuti prima. Erano opachi, abbandonati disordinatamente sul cuscino, ad incorniciare il viso incredibilmente pallido ed attraversati da innumerevoli ciocche grigie.
Rimasi a lungo immobile a fissarla, prima di riuscire a riconoscerla, prima di capire che la donna che giaceva davanti a me era realmente mia madre, la stessa che mi aveva appena rimboccato le coperte.

“Mamma?”
Mi avvicinai lentamente, allungai una mano a sfiorarle il braccio. Era fredda, gelida come metallo, respirava convulsamente e a fatica ma almeno respirava ancora. Tentai di scuoterla, di sollevarla ma non vi riuscii, non ero abbastanza forte ed ero terrorizzato. Le lacrime mi bruciavano gli occhi ed i tremiti mi percorrevano il corpo come se fossi attraversato da una potente scossa elettrica.
Improvvisamente ricordai cosa mi era stato insegnato a scuola, vidi dietro di me, sul comodino, il telefono.
Dovevo chiamare il nove-uno-uno per chiedere aiuto!
Mi voltai per prendere la cornetta ma, prima che potessi fare un passo, una mano gelida mi afferrò il polso e mi trascinò verso il basso, caddi sul letto, sopra il seno di mia madre.
Era lei, lei mi aveva afferrato; la sentii bisbigliare tra un sospiro e l’altro: “Scappa, scappa, Morgan, non lasciarti prendere, scappa!”
Parlava! Parlava ancora! Era un buon segno.
“Non preoccuparti, mamma, ora cerco aiuto!”
Sollevai il lenzuolo per coprirla e mi voltai di nuovo, afferrai la cornetta e tentai di premere i tasti: nove, uno…
Un’esplosione improvvisa mi fece sussultare, colpii il comodino ed il telefono cadde a terra.
Fissai smarrito il corridoio oltre la porta della stanza, ancora spalancata; era completamente avvolto nel buio più fitto. La lampadina sembrava essere esplosa, forse a causa di un corto circuito o di uno sbalzo di corrente.
Rimasi immobile con lo sguardo perso nell’oscurità, il cuore mi batteva all’impazzata, riuscivo a malapena a respirare.
In quel momento sentii un ronzio proveniente da sopra la mia testa; le lampadine del lampadario della camera cominciarono a brillare ad intensità sempre maggiore, fino a costringermi ad abbassare lo sguardo. Pochi istanti e tre nuove esplosioni risuonarono all’unisono. Indietreggiai, caddi a terra e battei la testa contro la cassettiera.
Non ho mai saputo se persi i sensi, né per quanto tempo, ricordo solo un dolore lancinante, seguito dall’oscurità più nera e da terrore puro, un terrore con il quale, dopo quella terribile notte, imparai a convivere ogni stramaledetto giorno della mia vita.

Rimasi come cieco, abbagliato dal buio, non riuscii a distinguere alcuna figura, neppure la sagoma delle mie stesse mani. Come unica prova che fossi ancora vivo, avevo solo i miei sospiri terrorizzati ed il battito accelerato del mio cuore che sembrava volermi spaccare i timpani.
Tremando come una foglia, camminai carponi sul tappeto, in cerca del letto. Trovai immediatamente la mano inerte di mia madre, la afferrai convulsamente, percorsi con le dita il braccio gelido e, raggiunta la spalla, presi a scuoterla, volevo svegliarla, dovevamo scappare, anche se non sapevo neppure da cosa.
“Mamma … mamma ti prego, svegliati … mamma ho paura …”
Scoppiai a piangere, le mie lacrime scivolarono silenziose sulla pelle gelida e, solo nel momento in cui poggiai il viso sul dorso della mano, questa prese vita, mi accarezzò lentamente, dolcemente mi asciugò la guancia.
Con un sospiro di sollievo mi alzai sulle ginocchia, mi sporsi sul letto, dove trovai l’abbraccio rassicurante che desideravo e vi affondai mormorando: “Mamma, cosa è successo?”
Avvertii due braccia soffici ma ancora fredde circondarmi le spalle, dita lunghe e sottili scivolarmi lentamente lungo la schiena.
Mi resi quasi subito conto che qualcosa non andava in quell’abbraccio, non sentii il profumo di mia madre, né la morbida carezza dei suoi capelli. Non mi parlò, potei percepire solo il suo respiro, simile ad un rantolo.
Quando tentai di allontanarmi, mi tirò nuovamente a sé, affondai con il volto in quello che mi parve un lenzuolo di carta vetrata.
“Mamma, mi fai male.”
Mi spinsi ancora indietro, ma non riuscii a sottrarmi all’abbraccio che si trasformò presto in una morsa; più mi dimenavo, più la presa attorno alle mie spalle diventava ferrea.
Le lunghe dita mi affondarono come artigli nella pelle ed urlai con quanto fiato mi rimaneva in gola, finché non mi sentii sollevare e sbattere con forza inaudita sul materasso. Qualcosa o qualcuno mi fu immediatamente addosso e mi schiacciò, togliendomi il respiro.
Fu terribile, sentivo che era sopra di me ma non riuscivo a vederlo. Ormai sapevo che non era mia madre ma ne ebbi la certezza quando, muovendo un braccio di lato in cerca di qualcosa con cui colpire il mio aggressore, trovai il viso di lei, i suoi capelli, la sua pelle.

“Non c’è nulla nell’armadio, amore mio, nulla che non debba esserci.”
Una vocetta stridula imitò grottescamente le parole di mia madre.
Cercai ancora di liberarmi ma il peso sul mio sterno aumentò smisuratamente.
“Chi sei?” gemetti appena, non potendo più respirare.
“Nulla che non debba esserci, piccolo Morgan.” ripeté la voce in un ghigno.
“Lasciami, ti prego.”
“Non sei più forte di me, Morgan, non potrai mai vincermi. Sei mio, piccolo, lo sei sempre stato.”
Due fonti di luci incandescenti si accesero improvvisamente a pochi centimetri dal mio volto, due abissi di fuoco mi scrutarono impietosi mentre la voce maligna si sollevò in una risata glaciale.
Quello che accadde dopo fu terribile, non riesco neppure a trovare le parole adatte per descriverlo, sentii come una lama trapassarmi la cassa toracica ed un gelo mortale attanagliarmi il cuore e farsi strada nelle mie ossa.
Potei percepirlo attraversarmi il corpo, muoversi dentro di me, possedermi completamente.
So cosa state pensando, so che mi state già classificando come un povero adulto cresciuto con problemi psichici provocati da un’orribile violenza subita da bambino; state già pensando che uno sconosciuto mi abbia stuprato e che la mia mente per superare lo shock abbia inventato un mostro indefinito da incolpare; un caso da manuale.
Eppure sbagliate.
Quella notte fui violentato, questo è certo ma nell’anima, non nel corpo.
Quell’essere mi entrò dentro, si impossessò di me, mi trascinò in un vortice di tenebre e dolore dal quale non riuscii più a scappare.


Passai le quattro settimane successive in un ospedale, ricoverato nel reparto di terapia intensiva. Rimasi in una sorta di catalessi dovuta al forte shock, provocatomi, secondo i dottori ed i poliziotti che ci avevano trovati la mattina successiva, allertati dai vicini, dalla visione di mia madre aggredita da un gruppo di balordi, introdottisi in casa nostra durante la notte.
Io non presentavo alcun segno di violenza, solo un forte stress emotivo, mentre mia madre era ricoperta di ematomi e lividi (non ho mai saputo che cosa li avesse provocati). Anche lei, come me, era caduta in coma, tentarono di tutto per svegliarci ma senza successo.
Clinicamente ero perfettamente sano, nessun danno fisico ma, con disappunto dei dottori, rimanevo incosciente, rinchiuso in un mio limbo personale, scollegato dal mondo circostante.
Ricordo che provavo emozioni molto forti e contrastanti, ricordo il dolore, la paura ed il freddo, la rabbia e la vergogna. Potevo vedere i volti dei medici, chini su di me, come attraverso una coltre di nebbia, oltre la quale loro non potevano sentirmi né aiutarmi.
Quella cosa era ancora dentro di me, si cibava della mia anima, mi bisbigliava in continuazione: “Sei mio, bel bambino, sei mio.”
Lo sentivo farsi più forte ogni giorno che passava, lo sentivo crescere dentro di me ma allo stesso tempo sentivo la sua frustrazione, come se non si aspettasse di dover attendere così tanto tempo per impossessarsi definitivamente della mia vita.

Quando un giorno. la situazione cambiò; vidi un uomo sconosciuto chinarsi sul mio letto, percepii le sue parole come un mormorio lontano ed incomprensibile, mi poggiò la mano sulla fronte e sentii un lievissimo soffio di tepore accarezzarmi le tempie.
Dapprima fu doloroso, la testa sembrò sul punto di esplodermi, finché il calore si fece poco alla volta più intenso, il gelo nel mio cuore divenne pungente, come un pugnale che tentasse di lacerarmi da dentro, spingendo verso l’esterno per mantenere lontano il calore.
In quei momenti ripresi in parte il controllo del mio stesso corpo e tentai di dimenarmi, per sottrarmi alla battaglia che stava avvenendo dentro di me.
Le mie orecchie furono invase da un rombo assordante, la cui eco si trasformò in parole ora comprensibili:
“Resisti, Morgan, sono qui per aiutarti.”

Solo allora mi svegliai urlando e quella cosa scivolò finalmente fuori di me, non so neppure io come, la sentii sgusciare, allontanarsi sconfitta ed infuriata; udii il suo urlo espandersi nell’aria assieme al mio, quando mi ritrovai stretto tra le braccia di quello strano uomo.
Piansi convulsamente, con il volto affondato nel suo petto, sotto lo sguardo attonito di medici ed infermieri, accorsi in seguito alle mie grida.
“Va tutto bene, piccolo, va tutto bene. E’ finita, per ora.” lo sconosciuto mi bisbigliò parole gentili, cullandomi lentamente.

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Capitolo 3
*** Parte seconda ***


Parte seconda.

I giorni successivi furono confusi, dimenticai quasi completamente l’uomo che mi aveva svegliato, a parte poche sensazioni lontane, immagini offuscate, come dopo un  sogno; non ne parlai mai, né alcun infermiere o dottore mi chiese nulla sullo sconosciuto.

Trascorsi molto tempo in ospedale per riprendermi, fui sottoposto a cure ricostituenti, fisioterapia e sedute psicologiche. In molti si prodigarono in quelle settimane per aiutarmi a superare lo shock di quella che, ai loro occhi, era stata una normalissima aggressione a sfondo sessuale. Tentarono di interrogarmi con tutta la delicatezza possibile, di domandarmi cosa fosse accaduto quella notte, se avessi visto gli aggressori di mia madre, che cosa mi avessero fatto ma, ogni volta che arrivavano al richiedere risposte precise o descrizioni più dettagliate, io mi zittivo, mi richiudevo a riccio, non sapevo cosa mi fosse davvero accaduto ma avevo paura che anche solo tentando di parlarne quella cosa sarebbe tornata da me. Non ero certo che esistesse davvero ma non potevo rischiare.
Solo una volta fui sul punto di raccontare la verità ma lo sguardo dello psicologo, nel momento in cui accennai ad un’ombra fuoriuscita dall’armadio, fu più che eloquente e mi convinse a tenermi ogni cosa per me.

Chiesi spesso di mia madre ma ogni volta ricevetti risposte vaghe, mi dicevano che stava bene, che dormiva e non potevo vederla, che presto sarebbe venuta a trovarmi ma non accadde mai. In realtà mia madre era ancora in coma e non dava alcun segno di miglioramento.
Anche quando finalmente si decisero a dirmi come stavano realmente le cose, non mi diedero spiegazioni, neppure i medici sapevano spiegarsi cosa fosse accaduto ma il suo cervello era ancora sveglio, attivo e vigile, eppure lei non si svegliava. Esattamente quello che era capitato a me, per questo mi dissero che come mi ero svegliato io, poteva farlo anche lei e che non dovevo perdere le speranze.
Però ero pur sempre un bambino e non avevo altri parenti prossimi, al di fuori di mia madre. Ben presto mandarono a chiamare degli assistenti sociali che si prendessero cura di me e, quando fui pronto ad essere dimesso, vennero a dirmi che sarei stato portato in un centro di assistenza per bambini, una specie di orfanotrofio, in attesa che mia madre si riprendesse.
L’ultima notte che passai in ospedale decisi però che volevo vederla, tentare di svegliarla prima che mi dimettessero, fare di tutto pur di non farmi portare via da lei.
Aspettai che scendesse la notte, dovetti combattere contro me stesso per convincermi ad uscire sul corridoio deserto. Dall’aggressione non avevo più passato un solo momento al buio, urlavo ogni volta che gli infermieri tentavano di spegnere le luci per mostrarmi che nell’oscurità non si nascondeva alcun pericolo. Tuttavia riuscii a farmi forza, mi allontanai da solo dalla mia stanza. I corridoi erano deserti, le infermiere di turno erano tutte rintanate nei loro stanzini a scolare tazze di caffè e sparlare del più e del meno.
Sapevo che mia madre era ricoverata al piano di sopra, reparto di terapia intensiva, tutto ciò che dovevo fare era raggiungere le scale.
Superare il corridoio non fu difficile, era illuminato dalla luce bluastra dei neon che, per quanto fioca, riusciva a darmi un minimo di sicurezza; raggiunta l’uscita del piano però, cominciò per me il vero problema: la tromba delle scale era immersa nel buio.
Quando mi spinsi sul pianerottolo, il cuore mi rimbalzò in gola ed il fiato cominciò a mancarmi, avevo ancora una mano sul maniglione antipanico ed un piede indietro, ad evitare che la porta mi si richiudesse alle spalle. Ebbi l’impulso di scappare, tornare nella mia stanza, accendere tutte le luci e rannicchiarmi in un angolo, in attesa che il sole sorgesse ma il volto di mia madre mi apparve nella mente, indifeso ed impaurito come quella notte, rividi i suoi occhi fissi nel vuoto, sentii il suo respiro affannoso disperdersi nel silenzio di tomba.
Mi guardai attorno e sussultai, vedendo pochi metri davanti a me un luccichio rosso che mi ricordò gli occhi incandescenti della creatura che mi aveva aggredito.
Trattenni il fiato e strinsi convulsamente le dita attorno al maniglione di metallo che velocemente risucchiò il calore della mia mano prima che potessi capire che ciò che stavo guardando era semplicemente l’interruttore della luce delle scale.

Diedi una spinta alla porta, corsi verso di esso e lo premetti, la luce si accese all’istante, appena in tempo prima di ripiombare nel buio più fitto, accompagnata dallo scatto sonoro del maniglione antipanico.
Rimasi così con il dito schiacciato sul pulsante, il cuore mi batteva all’impazzata, non ero certo che stessi ancora respirando.
Dovevo correre al piano di sopra e raggiungere la porta, nella speranza che fosse aperta, il tutto prima che le luci si spegnessero nuovamente.
Presi fiato, inalando molto lentamente l’aria stantia che sapeva di disinfettante e, cercando di non pensare ad altro, scattai arrampicandomi più veloce che potevo su per le scale, aggirai il primo pianerottolo e corsi ancora sulla seconda rampa; l’ingresso al reparto di terapia intensiva era davanti a me, ancora un gradino, un paio di metri e sarei arrivato a destinazione ma in quel momento la luce si spense, molto più velocemente di quanto potessi immaginare.
Mi congelai, con un piede sull’ultimo scalino; ero ancora aggrappato al corrimano, quando improvvisamente sentii un fruscio alle mie spalle, un brivido freddo mi percorse la schiena e fui certo di sentire un rantolo sollevarsi dietro di me.
Non riuscii a muovermi, non riuscii a voltarmi, né a scappare, rimasi semplicemente immobile nelle tenebre:
“… Morgan …” Il rantolo si fece più forte e mi bisbigliò all’orecchio.
Solo allora le mie gambe parvero sciogliersi, corsi in avanti, anche al buio non potevo sbagliare, la porta doveva trovarsi proprio di fronte a me. Infatti sbattei contro il vetro ruvido, afferrai la maniglia, la abbassai e mi introdussi nel corridoio illuminato.
Caddi in ginocchio sotto il neon e mi appoggiai al muro.
Tremavo come una foglia, il cuore stava per esplodermi; non avevo idea di come sarei tornato nella mia stanza ma non sarei per nulla al mondo tornato su quelle scale prima del sorgere del sole. C’era una sola cosa di cui potevo dirmi certo: sarei stato al sicuro, finché la luce fosse rimasta ad illuminarmi e scaldarmi il cuore.

Ciò che in quegli istanti avevo capito era però che quella cosa era ancora vicina a me, non era stato solo un sogno, non ero impazzito, avevo sentito la sua presenza ogni volta che era calato il sole fin dal momento in cui mi ero risvegliato in ospedale e ora, in quei pochi secondi sulle scale, mi si era nuovamente avvicinata, mi aveva sfiorato come quella notte ormai lontanissima, quando si era impossessata di me e di mia madre.
Solo allora mi resi davvero conto che mi ero svegliato nel momento stesso in cui quell’essere mi aveva abbandonato, quindi mia madre, ancora in coma, doveva essere in sua balìa. Dovevo aiutarla, salvarla, fare qualcosa. Ero l’unico a conoscere la verità.

Ben presto mi avviai lungo il corridoio deserto, sbirciando incerto dietro ogni porta. Giunto davanti all’ultima, mi fermai e sospirai, mia madre doveva trovarsi in quella stanza.
Posai una mano sulla maniglia e spinsi.
L’interno era ovviamente avvolto nell’ombra, potevo distinguere solo gli schermi accesi delle macchine di monitoraggio dei vari pazienti ricoverati nella stessa corsia.
Tentai di mantenere la porta aperta, per far filtrare la luce del corridoio all’interno e trovare così l’interruttore, non volevo correre rischi, non volevo ritrovarmi faccia a faccia con quel mostro, qualunque cosa fosse.
Avevo paura, volevo aiutare mia madre ma non avevo idea di cosa fare; per questo cominciai ad odiarmi. Pensai a lei posseduta dal mostro, impaurita e seviziata da un essere orribile, invisibile al quale non poteva sfuggire ed io lì, a pochi metri e non riuscivo a raggiungerla, per la mia irrazionale paura del buio.
Mi vergognai di me stesso e le lacrime presero a sgorgarmi dagli occhi, salate e brucianti come non mai.

Che stupido, ancora oggi la paura del buio mi perseguita ma, a differenza di allora, adesso so che questa ancestrale paura è l’unica cosa che mi abbia permesso di sopravvivere negli anni.

Solo per superare la vergogna mi introdussi nella camerata, ignorando il mio buon senso che mi diceva di tornare indietro, lasciai andare la porta e questa si chiuse alle mie spalle, sospinta dalla molla cigolante. Rimasi così al buio, per l’ennesima volta, mentre una fioca luce bianca filtrava dalla finestra posta in fondo alla camera; i raggi della luna piena, sfuggiti alle rade nuvole, mi raggiungevano rassicuranti ed inaspettati.
Vedevo chiaramente davanti a me sei letti, tre per ogni lato, con le testate appoggiate al muro bianco, dietro ad ogni letto, tre pulsanti, uno di essi doveva accendere le griglie di luci al neon che sovrastavano i pazienti adagiati sui gelidi baldacchini.

Camminai fino al fondo della camerata, non sapevo in quale letto giacesse mia madre, ma superai le prime file senza neppure guardarmi attorno, mi fermai davanti alla finestra e mi voltai verso destra. Non sapevo perché, ma ero certo che mia madre si trovasse proprio lì.
Riconobbi (forse solo inconsciamente) il ritmico sollevarsi ed abbassarsi delle coperte, credetti di percepire il suo profumo, sotto l’insopportabile odore dolciastro dei medicinali. Immagino fosse solo suggestione, sentivo così tanto la sua mancanza che, trovandomi così vicino a lei, i miei stessi sensi mi facevano sentire ciò che desideravo. Mi mancava tantissimo il suo profumo, così come la sua voce e ancora oggi, dopo tanti anni, i miei ricordi di lei si basano per lo più su sensazioni olfattive che non su immagini stampate nella memoria.

Profumo o non profumo, fatto sta che quello era il letto giusto, mi avvicinai lentamente alla donna che vi giaceva, vidi i capelli opachi sparsi compostamente sul cuscino, riconobbi il volto magro e pallido, non più piegato in quella smorfia di terrore che mi aveva perseguitato durante il sonno ma mi apparve così indifesa, con quel tubicino trasparente che le passava sotto il naso, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata. Ebbi l’impulso di abbracciarla, infilarmi sotto le sue coperte e dormire accanto a lei fino alla mattina dopo, quando ci saremmo risvegliati contemporaneamente, nel lettone di casa nostra. Io avrei scoperto che era stato tutto un sogno, glielo avrei raccontato e lei mi avrebbe cullato, ripetendomi dolcemente: “Era solo un sogno, Morgan, un sogno. Tu sei padrone dei tuoi sogni. Sei più forte di loro, amore mio.”

Le lacrime ripresero a scorrere copiose sulle mie guance, mi lasciai cadere sulla sedia accanto al letto, ormai incurante di essere immerso nel buio, illuminato solo fiocamente dalle luci esterne della luna e dei lampioni.
“Mamma?” bisbigliai appena, afferrandole la mano. Non mi rispose, percepivo il suo respiro profondo e leggero. Le scossi la spalla.
“Mamma?” tentai ancora.
Di nuovo nessuna risposta.
I ripetitivi bip delle varie macchine per la respirazione, per il controllo cardiaco e per chissà quale altro folle marchingegno salvavita, sembravano salutare pietosamente ogni mio vano tentativo di risvegliare la donna che così tante volte aveva svegliato me con un semplice bacio sulla fronte.
“Mamma …” piagnucolai infine.
“Non si sveglierà così, Morgan, mi dispiace.” una voce profonda mi fece sussultare. Mi sollevai di scatto e la sedia grattò rumorosamente sul pavimento, prima di crollare a terra con un tonfo che, nel silenzio della notte, parve un boato. Nessuno dei pazienti ricoverati nella corsia diede alcun segno di fastidio.
Per quanto al giorno d’oggi si parli di persone in coma risvegliate da rumori improvvisi, quello non fu sufficiente, svegliò solo il mio cuore che, dopo il primo salto causato dalla voce dello sconosciuto, con quel secondo spavento, tentò di sgusciare fuori dal mio corpo attraverso la bocca ancora spalancata.

“Non avere paura, Morgan, non voglio farti del male.”
Un uomo di non più di trentacinque, quarant’anni, con i capelli brizzolati ed uno sguardo triste e profondo, più maturo di quanto potesse sembrare il viso giovanile, comparve come dal nulla al centro della camera ed avanzò lentamente tra le file di letti, sollevando entrambe le mani, come a mostrarmi di essere disarmato.
“Chi sei?” La mia voce acuta sembrò alle mie stesse orecchie ancora più infantile e tremante.
“Non devi aver paura di me, Morgan.” ripeté, “Non ti farò nulla.”
“Come conosci il mio nome?”
“Me lo hai detto tu, Morgan, mentre dormivi. Ti ricordi?” Aveva ormai raggiunto i piedi del letto.
“Mentre dormivo?”
Non capivo ma colsi in quella voce qualcosa di familiare.
“Quando ti ho richiamato dal ‘ buio ’, non ti ricordi?” ripeté, fermandosi a pochi passi da me.
“Dal buio … “ bisbigliai, rivolto più a me stesso.
La stessa voce calma e gentile mi risuonò nella mente: Resisti, Morgan, sono qui per aiutarti.
“Tu!” lo indicai, quasi ad accusarlo. “Tu mi hai … Tu eri vicino a me, quando mi sono svegliato!” Stavo per dire: mi hai svegliato ma ricordai le parole del medico quando gli chiesi di svegliare mia madre, come avevano svegliato me.
Non è così facile, piccolo. Nessuno ti ha svegliato, è successo e basta. La tua mamma è in coma e solo lei ora può decidere di riprendersi.

“Si, ero io.” rispose semplicemente, alzando le spalle. “Non dovresti trovarti qui, ragazzino.” Si avvicinò lentamente e distolse lo sguardo da me, per posarlo sul volto addormentato di mia madre; un lampo di tristezza gli attraversò gli occhi.
Si inginocchiò accanto al letto e, sospirando, le accarezzò una mano.
“Mi dispiace, Emma, mi dispiace. Dovevo arrivare prima, dovevo …” sospirò ancora prima di socchiudere gli occhi.
“La conosci?” mi stupii ancora. L’aveva chiamata per nome, doveva conoscerla ma allora perché io ero così sicuro di non averlo mai visto prima?
“Si, la conoscevo, piccolo. Molto tempo fa …” bisbigliò, alzandosi in piedi. “Andiamo fuori dove c’è più luce. Ho bisogno di parlarti un momento, Morgan.” mi posò una mano sulla spalla ed indicò la porta.
“Ma chi sei?” non lo seguii.
“Il mio nome, se è questo che vuoi sapere, è … “
Non terminò la frase, improvvisamente sgranò gli occhi e si avventò contro di me, mi spinse verso il muro e mi si parò davanti di spalle.
“Caleb.” Un sospiro sinistro si sollevò nell‘aria e pronunciò un nome che non conoscevo, con un tono enigmatico, lievemente alterato.

“Mamma …”
Sussultai, rendendomi conto che la voce giungeva proprio dal letto di mia madre.
Si era svegliata ed aveva parlato!
Da quel che potevo vedere, da dietro la grande stazza dello sconosciuto, lei si stava muovendo, si stava alzando a sedere sul letto. A stento mi trattenni dall’urlare di felicità.
Riuscii a scivolare sotto le braccia dell’uomo che non dava segno di volersi spostare e mi sporsi in avanti.
“Morgan.” Bisbigliò ancora la voce. “Vieni qui, piccolo mio.”
“Mamma!” allargai le braccia e mi slanciai per saltare tra le sue.

“NO!” l’uomo mi afferrò per le spalle e mi tirò indietro, circondandomi il busto con un solo braccio.
“Lasciami!” mi dimenai e presi a scalciare nell’aria, nel tentativo di sottrarmi alla stretta.
“No, Morgan, fermo!” bisbigliò a stento, cercando di tenermi lontano da mia madre che parlò ancora: “Caleb, lascialo. Lascia il mio bambino, fallo venire da me.” mi sorrise, stranamente calma.
“Mamma.”

“No, Morgan, non è lei, non è tua madre che parla!” l’uomo mi spinse di nuovo dietro di sé.
“Non lo avrai, bastardo! Non te lo permetterò!”
“Caleb, Caleb, Caleb.” la voce di mia madre cambiò, divenne cupa, l’espressione sul volto tornò inespressiva, gli occhi freddi si posarono sull’uomo ed improvvisamente, mi parve di vedere una patina di tenebra oscurarli; fu come se dell’inchiostro nero si fosse mischiato al cristallino. “Ci conosciamo da un po’ di tempo, ormai dovresti aver capito che ottengo sempre tutto quello che voglio.”
“Non hai avuto me.” rispose l’uomo con un sorriso scaltro. “E non avrai neppure lui!”

Mia madre cominciò a ridere freddamente, quel suono orribile mi gelò il sangue. Non era mia madre, non poteva essere lei.
“Ho preso questa bella signora, non è così?” disse ancora, facendosi scivolare una mano sul corpo poi, guardando verso di me, fece l’occhiolino ed aggiunse: “Ed ho anche avuto il piccolo Morgan tutto per me, finché tu non hai deciso di rovinare ogni cosa, Caleb. Rovini sempre tutto quello che tocchi, te ne rendi conto? Volevo aiutarti, Caleb, lo ho fatto per te, volevo salvare questo bambino, prima che la tua presenza potesse distruggerlo od ucciderlo. Gli avevo donato un mondo nel quale tu non saresti mai esistito, nel quale io sarei stato per lui una casa, una famiglia, una madre, un padre, ogni cosa di cui avesse mai sentito il bisogno ma tu hai rovinato il suo futuro. Ti sei mai fermato a domandarti se per caso le persone che salvi non preferirebbero continuare la loro inutile esistenza assieme a me, al mio fianco, nella mia realtà? Che cosa offri invece tu? Incertezze, paure, distruzione, morte …“
“Non ci provare.” la interruppe l’uomo. “Come hai detto tu, ci conosciamo da un po’ di tempo, ormai dovresti aver capito che queste tue stupidaggini non funzionano con me!”
“Davvero? Questo invece funziona?” domandò quindi mia madre, allargando le braccia.
Tutto il letto venne all’istante circondato da una leggera coltre di nebbia nera che si fece poco alla volta più fitta ed andò allargandosi, ogni cosa nella stanza scomparve alla vista.
Un braccio mi circondò le spalle e sentii la voce dell’uomo bisbigliarmi all’orecchio, calma e rassicurante: “Non ti muovere, rimani tranquillo accanto a me, non gli permetterò di farti del male.”
“Cosa sta succedendo? Mamma!” chiamai ancora, quando le tenebre mi accecarono completamente.
Portai le mani avanti nel buio, in cerca di qualsiasi cosa ma le dita salde dell’uomo chiamato Caleb si serrarono attorno ai miei polsi, mi sospinse nuovamente dietro di sé e ripeté: “Non è davvero tua madre, Morgan, rimani dietro di me e stringi la mia mano. Ti spiegherò ogni cosa dopo ma ora devi darmi retta o non usciremo di qui.”
“Non uscirete di qui in ogni caso, Caleb, il nostro gioco mi ha ormai stancato, è giunto il momento di concluderlo.” la voce che si sollevò dall’oscurità non aveva più nulla del timbro di mia madre, risuonò inespressiva e gelida, gracchiante e spaventosa. Strinsi la mano dello sconosciuto ed attesi con il fiato sospeso.

Di nuovo, come quella notte, due fuochi si accesero davanti a me, la voce gracchiante bisbigliò vicinissima: “Voglio cominciare con te, bel bambino.”
Una morsa mi attanagliò il braccio libero e mi tirò con forza in avanti, rischiai di cadere ma lo sconosciuto a sua volta non mi lasciò andare, sentii il palmo della sua mano sullo sterno, a trattenermi, si inginocchiò dietro di me e mi abbracciò con entrambe le braccia, mentre quella creatura mostruosa, cercava ancora di strattonarmi in avanti.
“Chiudi gli occhi, Morgan, ascolta solo la mia voce.”
Lì per lì, mi parve un ordine stupido. Chiudere gli occhi? Non ero neppure certo che fossero ancora aperti! Ma mi lasciai guidare ed obbedii.
Immediatamente l’uomo cominciò a mormorare parole che risuonarono sconosciute per significato, ma dal suono inspiegabilmente familiare, il mio cuore si calmò, mi sentii per la prima volta, dopo tante settimane, al sicuro, inattaccabile e tranquillo, come dovrebbe sentirsi ogni bambino.
Caleb continuò a mormorare lentamente, potevo sentire il calore del suo corpo molto vicino, il suo fiato mi accarezzava leggero la nuca, ben presto intonò una sorta di litania, la morsa attorno al mio braccio sinistro si allentò, fino a lasciarmi andare completamente, dopodichè percepii la voce dell’essere come una eco lontana, ciò che giunse a noi fu solo un mormorio rabbioso che andò lentamente perdendosi nell’aria della notte. Caleb mi lasciò andare.
“Morgan?”
Aprii gli occhi, la luce della luna era tornata ad illuminare la stanza, i fastidiosi bip dei macchinari avevano ripreso a susseguirsi costanti. Mi guardai attorno, ogni cosa sembrava tornata al suo posto ma, quando posai gli occhi sul letto davanti a noi, sussultai.
Mia madre giaceva composta e tranquilla, come se tutta la scena a cui avevamo appena assistito non fosse mai accaduta. Sembrava non essersi mossa affatto.
“Mamma.” le corsi di nuovo accanto. “Perché non si muove più?”
“Perché non si è mai mossa, Morgan.” mi rispose l’uomo con semplicità. “E temo non si muoverà mai più, mi dispiace.” mormorò tristemente.

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Capitolo 4
*** Parte terza ***


Parte terza.

Quella notte la mia vita ricominciò realmente. L’uomo che subito dopo si presentò come Caleb Cohen, riuscì con non poca difficoltà a convincermi ad uscire dalla camera di mia madre, mi parlò a lungo dell’essere che ci aveva appena attaccati, tentò di spiegarmi cosa fosse. Quella stessa notte mi portò fuori dall’ospedale, mi rapì, secondo la legge, mi adottò e salvò, secondo la mia esperienza successiva. Sarei morto se non mi avesse cresciuto, se non mi avesse iniziato sulla via della Luce. Fu per me un maestro, un amico, un padre, fino a quando, diventato troppo debole, la Creatura non lo prese, lasciandomi solo ad affrontare le Tenebre che tanto mi spaventavano.
Mi insegnò tutto ciò che sapeva, ciò che il suo maestro gli aveva insegnato, mi insegnò a riconoscere la Creatura ed a contrastarla, mi disse ciò che io ora dirò a voi, nella speranza che qualcosa della nostra missione possa continuare ad essere tramandato.
Nessuno sa cosa sia davvero la Creatura del Buio; nacque prima degli uomini, prima della vita stessa. Nacque dal Buio e con il Buio, in esso sopravvive, da esso trae forza.
E’ una creatura imperfetta, nata prima di ciò che rende l’essere umano superiore ad essa: l’anima. Nei millenni si è cibata delle anime di uomini e donne ignari del pericolo e continuerà su questa strada finché non avrà ottenuto ciò che più brama: le Tenebre.
Da quando gli esseri umani posseggono la ragione, la combattono: fieri cavalieri della Luce in lotta eterna contro il loro alter ego. Ma l’eternità è ormai giunta al termine, gli Uomini si sono fatti imbrogliare, si sono piegati alle lusinghe della Creatura, sono ormai assuefatti alla sua presenza e non credono più nella sua esistenza.
Le persone come me, Caleb ed il suo maestro prima di lui, sono considerate pazze, niente più che poveri spostati, rei di non credere a quella che viene considerata unica verità, per il solo fatto di essere creduta tale dalla maggioranza ma sappiate, voi che ascolterete le mie parole, che non esistono più i pazzi, io sono l’ultimo di noi rimasto e la mia vita sta giungendo al termine.
Ho fallito, sono stato stupido e la mia missione è fallita, non ho trovato un discepolo che mi succedesse, ho il timore che non esista più nessuno con la Luce dentro di sé, la stessa che da bambino mi permise di sfuggire alle tenebre, la stessa che mancava a mia madre e la costrinse ad un’esistenza fittizia, che la trasformò in un guscio vuoto, viva ma al contempo priva di vita, priva di anima.

L’ultima volta che la vidi, fu dieci anni fa.
La andai a trovare, poco dopo la morte di Caleb, era ancora in quel letto d’ospedale, illuminata dalla luce del giorno ma ancora inerte ed inerme. Mi sembrò così piccola, un’immagine ormai sbiadita di un passato che avevo quasi dimenticato. Le presi la mano, le accarezzai il volto, tentai un contatto che sapevo inutile.
“Mamma.” bisbigliai per l’ultima volta, dopo tanto tempo. Naturalmente non mi rispose.
Avevo perso ogni speranza, la perdita del mio maestro mi aveva distrutto, ero certo che presto la Creatura sarebbe tornata anche per me, sentivo che quello sarebbe stato il mio ultimo addio a ciò che era rimasto di una donna che avevo tanto amato.
Mi alzai con rabbia, infuriato e disperato per ciò che la vita non mi aveva mai concesso, per tutto ciò che mi era stato strappato; mi allontanai di pochi passi, quando la sentii sospirare. Mi fermai ma senza voltarmi, ero certo che fosse solo la mia immaginazione, non volevo altre delusioni, ripresi a camminare verso l’uscita.
“Caleb …” mormorò alle mie spalle.
Il mio cuore si fermò, mi voltai lentamente, senza trovare il coraggio di sollevare lo sguardo dal pavimento di marmo lucido.
“Caleb.” disse ancora, la guardai. Aveva le mani alzate sopra il letto, tendevano verso di me, mi avvicinai incerto su cosa avrei trovato, tutto ciò che la mia mente riusciva a concepire era: “Non è possibile.”
Non era possibile, la sua anima era stata divorata decenni prima, non avrebbe mai potuto tornare non avrebbe dovuto …
Vidi i suoi occhi, azzurri e limpidi come li ricordavo, mi chinai su di lei. Sollevò una mano e mi accarezzò una guancia.
“Caleb, sei tornato da me.” sorrise debolmente, parlando con voce roca e tanto bassa che a stento riuscii a sentirla.
Non mi aveva riconosciuto, per un momento ne fui rattristato, poi ricordai che l’ultima volta che mi aveva visto avevo otto anni, non avrebbe mai potuto capire chi fossi, neppure da lucida. Stranamente mi aveva scambiato per Caleb, sapevo che si conoscevano da ragazzi ma non si erano più incontrati per anni. Tuttavia non mi osai contraddirla, né interromperla, ero troppo felice di vedere i suoi occhi, sentire la sua voce, le sorrisi a mia volta e l’accarezzai dolcemente.
“Non mi sento bene, Caleb, sono così stanca. Devi fare una cosa per me, occupati di Morgan, mentre dormo, occupati di nostro figlio, Caleb.”
Fu come se una lama incandescente mi trapassasse il cuore.
“Figlio?” balbettai stupefatto.
“Si, il mio amore. Morgan ti assomiglia così tanto, Caleb.” mi accarezzò ancora la guancia, calde lacrime presero a scivolare lente sulle sue dita. Caddi in ginocchio accanto al letto, affondai il volto tra le sue braccia e piansi come non facevo da ormai troppo tempo.
In realtà lo sapevo, lo avevo sempre saputo. Caleb non ne aveva mai parlato, negli anni in cui vissi con lui, nessuno di noi lo espresse mai ad alta voce ma sapevo la verità fin dall’inizio, dal momento in cui sentii la sua voce richiamarmi dal Buio.
Furono le ultime parole che mia madre mi rivolse poi si addormentò dolcemente, stringendomi tra le braccia. Era riuscita a salvarsi, una piccola parte della sua anima, era scampata alla Creatura ed era rimasta rintanata in quel guscio inerte, in attesa che qualcuno la richiamasse.
Morì serena e finalmente libera.

Non sarà così per me, la Creatura mi sta aspettando pazientemente, la sento vicinissima e sono troppo debole per contrastarla. Mi ha attirato qui con l’inganno, stupidamente mi sono lasciato intrappolare in questa vecchia casa. Sono ferito, non riesco a muovermi e la notte sta calando. Presto sarò in sua balìa, si impossesserà di me e non avrò scampo. Dovrei uccidermi, impedirle di giocare con la mia vita ma non lo farò. Ormai ho perso, sono stato sconfitto ed a causa mia il mondo scivolerà nell’oscurità, più di quanto già non sia. Non posso più fare nulla per il mondo degli Uomini ma voglio guardarla in faccia, voglio vederla ancora, sfidarla, dimostrarle che non mi avrà mai davvero, così come non ha avuto né mia madre, né mio padre.
Tra poco morirò e con me sparirà la speranza, o forse no.
Caleb mi insegnò che la speranza non sparirà mai, finché gli Uomini sopravvivranno.
La speranza fa parte di noi, delle nostre stesse anime.
Un antico detto recita: “Finché c’è vita c’è speranza” ma io posso aggiungere: “Finché ci sarà speranza, resisterà la vita” e la mia ultima tenue speranza risiede in questa registrazione, risiede nella capacità degli Uomini che verranno di credere nelle mie parole.
L’Oscurità vi avvolgerà tutti ma forse, in qualche angolo di questo mondo, esiste ancora qualcuno con la Luce dentro di sé, qualcuno che, ascoltando queste mie sconnesse parole, saprà intraprendere la strada sulla quale mi condusse Caleb e sulla quale io avrei dovuto condurre un discepolo che non ho mai trovato.
Ormai è finita per me, spero solo disperatamente che non lo sia anche per tutti voi.

Morgan, sono qui per te, piccolo mio.
Hai atteso a lungo? Non preoccuparti, ora sei mio, lo sei sempre stato.



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Capitolo 5
*** Parte quarta ***


Parte quarta.

Il giovane Robert Thompson sussultò e lanciò uno sguardo accigliato al dottor Daneel Pineta che rispose invece con espressione annoiata.
“Ha sentito anche lei, dottore?” domandò lo studente, quando la registrazione venne interrotta. “Cosa diavolo era quella voce?”
“Una voce, Robert, niente più di una voce.” Sbuffò il più vecchio.
“Si, dottor Pineta ma era strana, quasi inumana. Quella … cosa lo ha preso per davvero. Santo cielo.” disse ancora Thompson, portandosi una mano sul petto.
“Non essere stupido, non crederai a queste stupidaggini?”
“Lei non ci crede, dottore? Il nastro è vecchio di almeno quattrocento anni, non è un montaggio, ci abbiamo messo quasi due mesi a ricostruirlo completamente e …”
“Lo so, Robert, non ricordarmelo. Dannazione abbiamo perso due mesi per avere in mano questa spazzatura.” Lo interruppe il dottore, battendo un pugno sul tavolo.
Si alzò in piedi e prese a camminare nervosamente su e giù per la stanza, si fermò davanti al grande schermo finestra che affacciava sullo spazio infinito, al centro di esso spiccava, opaca e lontana, la Terra.
L’uomo rimase un momento in silenzio, immobile, con lo sguardo perso nelle venature grigio scure del fitto strato di nuvole che ricopriva il pianeta Natale da oramai quattrocento anni.
Quell’enorme sfera grigia era tutto ciò che la maggior parte degli Esseri Umani ancora viventi vedevano e potevano conoscere di un mondo che, secondo gli antichi scritti, salvati e contenuti nella Grande Biblioteca Virtuale, accessibile da ogni stazione orbitante, era stato un meraviglioso giardino composto da milioni di chilometri quadrati di territorio, traboccanti di vita vegetale ed animale; forse non sempre trattati al meglio dagli Uomini che sfruttavano terre, cieli ed oceani, incuranti di cosa avrebbe prospettato loro il futuro.
Un futuro che si presentò improvviso ed impietoso quando un enorme corpo astrale si avvicinò alla Terra, non la toccò, scivolò semplicemente sulla sua atmosfera.
L’effetto di bradisismo che ne seguì sollevò uno strato di chilometri e chilometri di polveri e gas che oscurarono i cieli, bloccarono i raggi solari, trasformando il giardino in una gelida ed inospitale lastra di ghiaccio.
La cometa Jack Griffin(1).
La cometa invisibile, comparsa dal nulla e scomparsa nelle profondità dell’universo.
Dopo quattrocento anni ed una fuga planetaria, gran parte delle documentazioni scientifiche erano andate perdute. Nel fuggi fuggi generale, tra alluvioni, glaciazioni ed innumerevoli morti, i terresti profughi preferirono salvare gli antichi testi letterari, anziché le documentazioni scientifiche della catastrofe più imponente mai capitata dai tempi del pleistocene.
Poco o niente rimaneva delle informazioni sull’evento; ogni ricerca o notizia sul tipo di cometa, sugli effetti immediati della collisione e sulle orbite erano andate semplicemente perdute nella grande fuga che portò gli esseri umani dalla superficie al sottosuolo, per trasferirsi infine nel grande sogno del ventunesimo secolo: le stazioni spaziali. Vere e proprie città orbitanti attorno ad un mondo perduto.

Solo negli ultimi cinquant’anni erano state organizzate delle spedizioni sul pianeta, alla ricerca di manufatti e tracce dell’antica civiltà esterna.
In molti si erano opposti alle spedizioni; dopo tanti anni di esilio, i romantici avevano cominciato a considerare la Terra come un mausoleo, un mastodontico monumento in onore dei miliardi di vittime del cataclisma che non volevano venisse profanato da scienziati i quali, ai loro occhi, apparivano solo come coloro che non avevano fermato la catastrofe.
Quando finalmente la ragione aveva prevalso sulle sciocche superstizioni, i viaggi erano cominciati e con essi gli storici avevano potuto ricostruire parte del passato dimenticato.

Lo strano nastro che il dottor Pineta ed il giovane signor Thompson avevano appena ascoltato, proveniva proprio dai reperti di una di queste spedizioni, era stato ritrovato tra i resti di una piccola città letteralmente rasa al suolo e ricoperta dai ghiacci.
Non era stato facile recuperarlo, il nastro magnetico era stato rovinato dal gelo inoltre, come se non bastasse, trovare mangianastri in grado di riprodurre quel tipo di registrazioni, era diventato pressoché impossibile.
Ora finalmente, dopo due mesi di lavoro basato esclusivamente su quell’unico reperto, Robert e Daneel avevano scoperto che il contenuto della cassetta era formato semplicemente dai vaneggiamenti di un pazzo superstizioso.

Daneel sbuffò contrariato.
 
“Dottor Pineta, è strano però, non trova?” il tono di Thompson apparve incerto.
“Che cosa, Robert?” domandò l’altro, tornando a sedersi accanto allo studente.
“Beh, la registrazione risale a prima del passaggio di Griffin, di questo possiamo essere certi. La città in cui è stata trovata è stata letteralmente rasa al suolo dallo spostamento d’aria.” azzardò il ragazzo.
“Si. Direi che questo è l’unico punto interessante, cassetta a parte, possiamo convalidare l’ipotesi che la zona di contatto e l’origine del bradisismo sia realmente nel quadrante Alfa” annuì Daneel, annoiato.
“Si, signore ma non parlavo di questo. Vede, pensavo a ciò che dice l’uomo della registrazione … cioè, a ciò che dà ad intendere …“
Chiaramente il ragazzo era teso, sapeva che il dottore non avrebbe accolto con piacere la sua teoria ma sentiva il bisogno di parlare, aveva notato una strana coincidenza che non riusciva a spiegarsi.
“Dove vuoi arrivare, Robert?” lo incitò quindi il dottore. Trovava molto fastidiosa la reticenza di Thompson, soprattutto quando era provocata dalla paura che lo studente aveva per le sue possibili reazioni. Gli studenti insicuri avevano la strana capacità di farlo sentire in colpa prima ancora di averli mandati a farsi benedire.
“Beh, dottore, non può non aver notato un’incredibile coincidenza.” sorrise il ragazzo.
“Quale coincidenza, Robert? Comincia ad essere tardi, se non arrivi al dunque ti mollo qui e vado a dormire.”
“Questo Morgan alla fine dice qualcosa come: L’Oscurità vi avvolgerà tutti.
Come ha detto lei, sembrano solo le farneticazioni di un pazzo ma oggi, con il senno di poi, sapendo cosa è accaduto nel mondo poco tempo dopo la registrazione di quel nastro, mi vien da pensare. E‘ come se avesse previsto l‘Era di Tenebra. Non lo trova strano? In fondo noi non abbiamo ancora davvero trovato segni effettivi del passaggio di Griffin né sulle carte dell’epoca, né sul terreno e se … ” non terminò la frase, Daneel lo studiò per un momento, poi scoppiò a ridere apertamente.
“E se un demone cattivo avesse conquistato il mondo e trascinato nell’oscurità ogni essere vivente?” concluse l’altro, ridendo.
“Thompson, ti facevo più realista.” aggiunse con un sorriso indecifrabile. “Suvvia, non ti lascerai convincere da queste stupidaggini? Viviamo nel venticinquesimo secolo, neppure i bambini temono più il buio, al giorno d’oggi. Non è stato un demone a causare la nostra Era di Tenebra, così come non fu Fenrir il lupo a mangiare il sole ai tempi del Ragnarok e così come le piaghe d’Egitto non furono provocate da una punizione divina; sono stati tutti semplici avvenimenti naturali. Oggi sappiamo spiegarli e non ha senso cercare giustificazioni insensate o irrazionali. Abbiamo superato certi ragionamenti, grazie al cielo.” terminò, tornando al suo solito tono didascalico.
“Si, è vero ma è anche vero che non conosciamo tutti i fenomeni naturali che caratterizzavano la terra prima del passaggio di Griffin e chissà, forse qualcosa di reale  potrebbe anche nascondersi dietro il racconto di Morgan.” proseguì caparbio lo studente.
“Se tu fossi mai stato sulla Terra, Robert, se avessi partecipato ad una delle spedizioni di recupero ed avessi visto dal vivo, come ho visto io, gli effetti del cataclisma o anche semplicemente uno di quegli spaventosi quanto meravigliosi fulmini che si sprigionano dalla nube di detriti, avresti sentito il bisogno di nasconderti davanti a tale potenza, avresti immediatamente pensato ad un intervento divino; anche io, devo ammetterlo, davanti ad un simile spettacolo, ho provato un’irrazionale e profonda paura, come non mi era mai capitato. Eppure noi tutti sappiamo che i fulmini sono provocati dal magnetismo della Terra che oggi è potenziato dalla presenza di residui metallici all’interno della nube stessa.
Vedi? Pensando così, fa molto meno paura. E’ proprio qui il problema, la paura genera i mostri della fantasia, la razionalità e la conoscenza li eliminano definitivamente. Il buio ti può far paura solo se non sai cosa si nasconde dietro di esso, Robert, in quel caso allora temerai un altro Essere Umano non certo un inesistente mostro. Questo signor Morgan probabilmente aveva saputo del passaggio della cometa dai media, sappiamo per certo che all’epoca avevano una tecnologia sufficiente a poterla quanto meno prevedere con largo anticipo, previsione che ha permesso ad una parte della popolazione di salvarsi, rifugiandosi nel sottosuolo. Il nostro Morgan ha avuto paura, sapeva di non potersi salvare da una forza che andava contro ogni umana ragionevolezza, conosceva i probabili effetti della cometa ed ha per questo creato il suo mostro immaginario. Se ciò che racconta sul suo passato è reale, mi sembra chiaro che fosse psicolabile, la notizia dell’arrivo di Griffin deve averlo semplicemente scosso al punto di perdere completamente il senno.” sentenziò Daneel Pineta, alzandosi in piedi. “E quella voce finale, - aggiunse, interrompendo l’ennesima obiezione del giovane - potrebbe essere qualsiasi cosa: da un parente, presentatosi nella stanza dove è stato registrato il nastro, allo stesso Morgan affetto da personalità multipla.”
“Ha sempre una risposta pronta, dottore?“ borbottò corrucciato Thompson.
“Sono uno scienziato, ragazzo mio.“ gli strizzò l’occhio, prima di prendere a stiracchiarsi e sbadigliare. “E dopo questo, credo proprio che me ne andrò a dormire. Domani a mente fresca tenteremo di cavare qualcosa di utile da questa storia.”

 

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(1) Jack Griffin: protagonista de “L’uomo invisibile” di H. G. Wells.

 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo

Meno di un’ora dopo, Daneel era già nel suo alloggio, pronto a coricarsi. L’idea di aver perso due mesi di ricerche dietro al testamento di un povero folle, non era affatto piacevole ma tentò di non pensarci. In fondo aveva sempre la possibilità di studiare il nastro magnetico in sé; mentre cercavano di riprodurlo, ne avevano studiato il funzionamento, da quel momento avrebbero potuto utilizzare la stessa tecnica per restaurare eventuali nuovi nastri.
Spense la luce e si intrufolò sotto le coperte, sbadigliò ancora. Il calore del letto gli fece immediatamente sentire tutta la stanchezza accumulata durante le ultime settimane, tra lezioni all’Università Spaziale, convegni, conferenze ed il restauro del nastro. Si addormentò velocemente, dimenticando le preoccupazioni ma un momento prima di cadere tra le braccia di Morfeo, la voce di Morgan gli rimbombò misteriosa nella mente:
< Le Tenebre esistono, il Male esiste. >
< L’Oscurità vi avvolgerà tutti >

Dormì di un sonno agitato, si rivoltò nel letto, mormorò parole incomprensibili ed affannate, finché a tarda notte si svegliò di soprassalto.
“Luce!” ordinò secco, alzandosi a sedere.
Obbedendo al comando vocale, le luci si accesero all’istante ed illuminarono diffusamente tutta la stanza.
L’uomo si guardò attorno a disagio, si era svegliato con una strana sensazione, si sentiva come osservato; un momento prima di aprire gli occhi, aveva avuto la sensazione di percepire un sospiro, un alito freddo accarezzargli la guancia.

< Certo di aver visto un’ombra scivolare fuori dall’anta socchiusa dell’armadio a muro, di aver sentito un brivido gelido accarezzarmi la guancia >

Di nuovo la voce di Morgan gli tornò alla mente.
Senza volere, il suo sguardo si spostò sull’armadio a muro, posto a pochi metri dal letto. Una delle ante non era stata chiusa bene e mostrava un minuscolo spiraglio nero come la pece.
Improvvisamente Daneel si liberò delle lenzuola, si avvicinò all’anta e la richiuse con uno scatto deciso.
Non tornò subito a letto, camminò pensieroso per la stanza, ricordando le parole senza senso, pronunciate da un uomo terrorizzato, messo dal destino crudele davanti alla certezza di essere sul punto di morire, assieme ad un mondo intero.

Il dottor Pineta ricordava ancora la sensazione che aveva provato la prima volta che aveva messo piede sulla Terra ormai morta, per la prima volta era uscito all‘aperto, per la prima volta aveva sentito la sensazione di freddo gelido, sconosciuta sulle stazioni orbitanti, climatizzate a temperature standard ma ciò che più lo aveva colpito era stato il senso di solitudine, il terrore irrazionale che gli aveva attanagliato le viscere quando aveva alzato lo sguardo al cielo per vedere ciò che nella vita aveva potuto scrutare solo dall’esterno: la coltre di nubi e polveri che avvolgevano la Terra.
Una massa nera ed  informe che pareva viva, si muoveva senza sosta sopra le teste degli esploratori. Daneel era rimasto meravigliato e terrorizzato alla vista di un simile spettacolo. Sapeva che quello che stava guardando era semplicemente un effetto del passaggio della cometa, un normalissimo, per quanto catastrofico, fenomeno naturale; ne conosceva le cause, gli effetti, i più piccoli particolari, sapeva cosa conteneva quella nube fin da quando era un ragazzino alla prima lezione di scienze naturali, eppure il vederla per la prima volta lo aveva quasi sconvolto, si era sentito atterrito come un uomo condannato alla prigionia eterna.

< Presto sarò in sua balìa, si impossesserà di me e non avrò scampo >

“Oh, stupidaggini!” sbottò all’improvviso l’uomo, tornando a sedersi sul letto. “E’ solo suggestione!” disse ancora ad alta voce.
Si risistemò sotto le coperte e, dopo un momento di indecisione, sbuffò: “Buio!”.
Il computer efficiente spense le luci ed il letto venne avvolto dalle tenebre.
Daneel nascose la testa sotto la coperta e tentò di riaddormentarsi senza successo.
Continuò a rivoltarsi, cercando di ignorare il ricordo della strana voce gracchiante, cupa e sconosciuta che chiudeva la registrazione.

< Morgan, sono qui per te, piccolo mio.
Hai atteso a lungo? Non preoccuparti, ora sei mio, lo sei sempre stato.
>

Infine, esasperato, si scoprì il volto e fissò il soffitto.
Il cuore gli batteva troppo in fretta, si sentiva affannato, stanco ed inspiegabilmente spaventato. Non aveva senso, non poteva davvero temere le parole di quel pazzo, non c‘era nulla di vero. Presto avrebbero trovato i residui fisici della cometa.
In cinquant’anni non era stato trovato nulla di significativo, solo a causa della mancanza di mezzi, i sensori non superavano la nube di detriti, ogni trasmissione al di sotto di essa era praticamente impossibile ed i macchinari più sofisticati andavano in tilt a causa del magnetismo; ben presto però avrebbero trovato qualcosa, ben presto avrebbero scoperto il punto d’origine del bradisismo e tutte le stupide antiche superstizioni sarebbero state definitivamente fugate.
Si alzò di nuovo a sedere sul materasso, cercando di recuperare la calma.
Quando gli occhi gli caddero sul fondo del letto, sussultò, vedendo un’ombra sgusciare veloce verso il basso.
“Luce!” ripeté, con voce tremante.
“C‘è qualcuno?” domandò incerto alla stanza ma non ricevette risposta.
“Computer, chi c’è in questa stanza?” domandò, rivolto al soffitto.
“Il dottor Daneel Joseph Pineta.” rispose efficiente la voce metallica.
“Nessun altro?” chiese ancora, cominciava a sentirsi infinitamente stupido.
“Nessun altro.” rispose la voce.
“E’ solo suggestione. Daneel, che diavolo ti prende? Non hai mai avuto paura del buio.” si ricordò.
Si sdraiò nuovamente, con uno scatto stizzoso.
“Bui …” non terminò l’ennesimo ordine.
“Ordine non compatibile, ripetere, prego.”
Daneel non aprì bocca, rimase fermo nel letto, sdraiato su un fianco, le coperte spostate di lato.
“Ordine non compatibile, ripetere, prego.” ripeté la macchina.
“Ignorare.” concluse infine lo scienziato, prima di afferrare il lembo delle lenzuola e coprirsi la testa.

 

(FINE)

(by daeran)

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Angus... non so che dirti a parte GRAZIE! Mi credi se ti dico che leggere la tua recensione mi ha fatta arrossire? ^__^
Sono felicissima che questa storia ti sia piaciuta, non ho mai avuto il coraggio di postare su internet i miei racconti originali ma mentirei se dicessi che non sogno di poterli un giorno mandare a qualche casa editrice, anche se l'idea di vederli respinti mi preoccupa un po'.
Questo racconto è uno dei più brevi che abbia mai scritto e posso dire che è nato tutto da una mia fobia... La notte non riesco a chiudere occhio se le ante dell'armadio non sono perfettamente chiuse, così come ho sempre un reverenziale timore di sbirciare sotto il letto se le luci sono spente... Sono paure stupide, io razionalmente lo so, ma nonostante questo mi sento sempre a disagio. Ho pensato di rendere per iscritto quelle che sono le mie sensazioni in queste situazioni e spero di aver reso bene l'idea.
Detto questo, Angus, ti ringrazio ancora infinitmente per i complimenti spero che questo ultimo capitoletto ti sia piaciuto (o che non ti abbia deluso :-P ), fammi sapere ^_- .
Saluti.
Dae.

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