Ainor

di Elkade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una notte gelida (Aizel) ***
Capitolo 2: *** Una notte gelida (Eastar, Mahiens) ***



Capitolo 1
*** Una notte gelida (Aizel) ***


Aizel abbassò gli occhi sul fuoco del camino, assonnata ed immersa nel calore delle fiamme che scoppiettavano placide. Minuscole scintille si rincorrevano, simili a stelle d’oro che morivano inghiottite dalle tenebre. Tutto era avvolto da una tetra luce giallastra che fendeva a stento il buio della cucina, il freddo s’insinuava nella stanza dalla finestra semichiusa, il vento gelido che ululava tra i battenti, lugubre e malinconico. Si strinse di più nel lungo mantello di lana, coprendo meglio il fagottino che teneva tra le braccia. Le accarezzò una guancia ed avvertì il lieve tepore della sua pelle sulle dita. Era pallida, bianca come neve, e piccola. Capelli candidi le ricadevano sulla fronte e le orecchie a punta ed incorniciavano i grandi occhi chiusi, le ciglia tremolanti davano l’impressione che stesse sognando. Era incredibile la sua somiglianza con lui: in lei vedeva il suo riflesso, più cresceva e più diventavano simili. Il suo ricordo era ancora vivido e presente, un fantasma del passato che ancora non accennava a scomparire, a trovare pace. Riaffiorava amaro come bile ad ogni sguardo.

Le soffiò un bacio leggero e si alzò, cercando di non svegliarla con scossoni o sussulti. Scivolò verso la finestra e chiuse i battenti, poi afferrò la coperta che aveva appoggiato sullo schienale della sedia per avvolgere la bambina. Un rumore lieve di passi la riscosse, ed intravide una figura maschile sotto lo stipite della porta. Si irrigidì, trattenne il respiro per un istante, raggelata. Ancora, dopo tanto tempo, la sua mente continuava ad evocare in altri ciò che aveva perso, a trasformare la mancanza in una presenza inquietante. Quando finalmente l’intruso fu entrato, tirò un sospiro di sollievo nel riconoscerlo. Spesso, quando era sola e sveglia nel cuore della notte, lui la raggiungeva per sfruttare ogni istante con lei. «Aizel…» Voltò di nuovo il capo per ignorarlo e spostò l’attenzione sulla piccola che continuava a dormire tranquilla. Lo sentì avvicinarsi, poi avvertì la sua mano sulla spalla. A volte si era illusa che quel tocco fosse di un altro, più noto e familiare, ed era stata tentata di abbandonarsi completamente a quel contatto, lasciarsi abbracciare, stringere forte. Lo aveva desiderato, lo aveva voluto, ma aveva capito che era solo un modo per illudersi che fosse un’altra vita, che nulla fosse successo. Si impose freddezza, e restò muta, come se fosse sola nella stanza. «Perché mi eviti?» Protestò lui. «Serdar…» Sospirò lei, le pupille piantate come spilli nel buio denso del corridoio. Si accorse che ora era più vicino, e si scansò senza nemmeno pensarci. La chiamava di nuovo, la voce rauca che pareva chiedere compassione. Si chiese per cosa dovesse mostrargli pietà. «Non posso sopportare un’altra notte a sentirti piangere». La sua espressione mutò in puro disprezzo a quell’affermazione: non era lui che soffriva, non era lui ad aver perso il proprio mondo in una notte soltanto, la propria ragione di vita. Non era lui ad avere ogni ragione per disperarsi quando gli affanni consolatori del giorno lasciavano il passo alla solitudine opprimente della notte. Non soffocava sotto il peso dell’angoscia di anni.
Non osò replicare, si limitò a fingere di essere sola, di nuovo. Strinse al petto la piccola e con il passo di un gatto raggiunse le scale.

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Capitolo 2
*** Una notte gelida (Eastar, Mahiens) ***


Ormai la coltre notturna era scesa a celare quel crudo spettacolo. Il velo di tenebra copriva già la terra ferita e viscida di sangue, mascherando quel suo cremisi mortifero. Nel buio, occhi spalancati, braccia tese, gemiti spezzati, corpi laceri. Quando le lune avessero lasciato il posto al chiarore del giorno, allora sarebbe stato il momento di scendere nella piana e raccattare i macabri frammenti di esistenze misere. Gli scontri si erano protratti fin oltre il tramonto, ogni minimo raggio di sole era stato strappato a quell’ingrato compito. Sarebbe toccato all’alba assistere a quella tremenda cerimonia, prima che tutto si ripetesse, ancora una volta: nemici si sarebbero trascinati in quel luogo di morte come fantasmi, sarebbero arrancati uno accanto all’altro, spogli di armi ed armature, avrebbero raccolto i fiori della battaglia e della morte. Dopo i roghi rituali, con il sole a picco sulle loro teste come la lama di un boia, avrebbero combattuto su un tappeto di cenere, mentre il vento avrebbe sparso su di loro una strana neve grigia, i resti di ciò che rimaneva di alleati e rivali. Kahrain sembrava non vedere quella tragedia che lui stesso aveva creato, forse il suo era un piacere sadico e perverso. Da due anni continuava così, due anni di inutili spargimenti di sangue, di fame, di incubi. Due anni di guerra.

«Per quanto ancora dovrà durare?» Guardava senza vedere la desolazione dei massacri e degli scontri passati; per l’occhio della mente erano ben chiari e distinti. Nella sua testa rimbombava il clangore delle lame, come i ruggiti, le urla, un fragore assordante impossibile da attutire. La brezza notturna spazzava verso l’accampamento l’odore malsano e nauseante dell’inferno. Lo stomaco gli si strinse, temeva che non avrebbe retto ancora a lungo. «Vorrei che finisse questa sera stessa, Eastar».
Si voltò e lo vide, illuminato dal bagliore fioco di un braciere. Appariva molto diverso da come l’aveva conosciuto: gli ultimi mesi lo avevano logorato senza alcuna compassione. Non era che il pallido riflesso di ciò che era stato, l’ombra evanescente del secondo principe di Ethelon. Se prima era magro, ora era diventato scheletrico. L’ultima volta che lo aveva visto senza la camicia aveva potuto contargli le costole sotto la pelle. Il viso era sciupato, smunto, la barba ispida cresceva incolta sulle sue guance. Del leggero velo d’oro che ornava le sue palpebre in giorni migliori non era rimasta traccia: al suo posto, un alone violaceo sottolineava gli occhi e gli conferiva un’aria inquietante. I capelli troppo lunghi e scompigliati erano lucidi per l’unto, sporchi di terra, incrostati di sangue. Non indossava più le sue tipiche vesti dorate, thobe lunghi fino alle caviglie svolazzanti e leggeri, di seta morbida ricamata da mani abilissime. Non profumava più delle rose che gli erano tanto care, né di incenso. Ogni vezzo da nobile aveva lasciato il posto alla trascuratezza di un soldato rude e sgraziato. Tuttavia, non poteva fare a meno di esserne affascinato.
Lasciò che lo abbracciasse, e il suo mantello a ruota intera riparasse entrambi dal vento gelido che iniziava a soffiare. Si scambiarono un bacio fugace, conoscendo l’inadeguatezza del loro gesto in una situazione simile, ma entrambi sapevano che era necessario ricordarsi il loro affetto reciproco appena ne avevano la possibilità, per non impazzire e perdersi in una spirale di dolore. Dovevano sentirsi vicini, uniti. Temevano che presto si sarebbero dovuti separare per sempre. «Vieni, su…». Si fece condurre nella tenda di Mahiens, in silenzio, e gettò un ultimo sguardo al campo di battaglia prima di scomparire dietro alla cortina di tessuto. Si sedette sul tappeto di pelliccia, e trascinò con sé il compagno. «Ho paura». Si strinse a lui, afferrando l’orlo della tunica. Il respiro si fece più pesante, la gola bruciava terribilmente. «Portami via, Mahiens. Portami via». Mentre il mondo svaniva sotto un velo opaco di lacrime, sentì una mano gentile accarezzargli la schiena. Affondò il viso nel suo petto e prese a singhiozzare.

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