Dè a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe?

di My Pride
(/viewuser.php?uid=39068)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo › Scozia, 1750 ***
Capitolo 2: *** [ Atto I, scena I › Toccata e fuga ] Il ragazzo dal volto di cera ***
Capitolo 3: *** [ Atto I, scena II › Toccata e fuga ] Amleto e Macbeth ***
Capitolo 4: *** [ Atto II, scena I › Sinfonia ] Note di follia e incontri di parole ***
Capitolo 5: *** [ Atto II, scena II › Sinfonia ] Gocce d'inchiostro su cenere nel vento ***



Capitolo 1
*** Prologo › Scozia, 1750 ***


Dè a tha thu_1
[ Prima classificata allo «Yaoi Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Ambientzione al contest «Together with our feeling» indetto da Misty Eye ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al contest
«L'amore ai tempi di EFP» indetto da victoria; e valutato da Lady Viviana ]
[
Prima classificata e vincitrice del Premio Miglior Personaggio Secondario assegnato ad Henry al contest
«Let's talk about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!» indetto da DakotaDeveraux ]

Titolo:
Dè a tha thu a’ cluinntinn, mo chridhe?
Autore: My Pride
Fandom: Originale 
Sovrannaturale › Nonsense
Tipologia: Racconto breve suddiviso in atti e scene
Genere: Storico, Drammatico, Romantico, Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo
Avvertimenti: Vagamente nonsense, Leggermente Slash
Rating: Giallo / Arancione
Frase scelta: Numero 15
Introduzione: Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
Nota: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura. Tenendo inoltre conto del luogo in cui la storia è ambientata, esse sono un’ottima scelta linguistica.


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale, ad eccezion fatta per le creature folkloristiche.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.


DÈ A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE? 
[1]

 
    Alcuni dicono che la vita sia una strada a senso unico, un grande binario che procede sempre dritto senza svolte significative.
    Anch’io l’avevo pensata così, al principio, condizionato probabilmente dalla piattezza che mi circondava e di cui erano intrise le idee delle persone che solitamente frequentavo. Prima della battaglia di Culloden [2], il mio era stato uno dei più potenti clan di tutta la Scozia, se proprio si voleva esagerare: il nostro nome era capace di provocare mormorii concitati e di richiamare sguardi sgomenti, incutendo terrore in chiunque avesse anche solo pensato di pronunciarlo. O almeno così mi era stato raccontato. Ero difatti troppo piccolo per ricordare con esattezza quei particolari, a quel tempo. Capivo ciò che mi succedeva attorno, certo, ma non coglievo appieno il significato di ogni singolo gesto o parola. Quelle che mi erano rimaste impresse, erano le idee e i pensieri sbagliati di quella società ormai in declino, concetti che non ero stato in grado di scacciare nemmeno crescendo. E così era stato fin quando la battaglia non aveva portato alla nostra disfatta. Vinto lo scontro, il governo britannico sottomise noi tutti e la nostra amata Scozia, privandoci d’ogni nostra libertà, dei nostri usi e costumi, togliendo inoltre qualsiasi autorità ai capi d’ogni clan. Non c’era libertà nemmeno nell’indossare il kilt.
    Quella fu una situazione che andò avanti per anni, durante i quali la salute di mio padre, già da tempo cagionevole come quella della mia scomparsa madre, s’aggravò. Morì ancor prima di veder abolito il bando precedentemente imposto dai britannici, lasciando a me, suo unico erede, una modestissima somma di denaro che non toccai mai, nemmeno negli anni avvenire. Utilizzai solo quel poco che ero riuscito a mettere da parte da me per seguire l’esempio di molti altri scozzesi: salpare verso le colonie del Nuovo Mondo. Ma il mio viaggio, almeno come l’avevo immaginato io, non cominciò mai. Chiamatela volontà divina, chiamatelo scherzo del destino, ma la notte prima della mia partenza, beh... io morii. Sembra assurdo da raccontare, e non vi do assolutamente torto. Se qualcuno si presentasse dinanzi a me, blaterando cose del genere, gli riderei in faccia senza tante pretese. Eppure è esattamente quello che è successo. Forse se non avessi incontrato sulla mia strada quei banditi e il mio cavallo non si fosse imbizzarrito, disarcionandomi, le cose sarebbero anche andate diversamente. Se non avessi sbattuto la testa contro le rocce sottostanti, però, con molta probabilità adesso non sarei qui a raccontarvi tutto questo.
    Ricordo fin troppo bene ciò che accadde, quella notte. Non persi immediatamente conoscenza, anzi, sentii distintamente il furente scalpiccio degli zoccoli del mio destriero sull’erba umida, i sussurri concitati dei due uomini che mi avevano assalito e il terrore nel tono della loro voce, persino il momento in cui corsero via ed intorno a me non restò altro che il silenzioso, ma presente, mormorio della notte. Vagamente consapevole che quella trapunta di stelle che avevo iniziato ad osservare altro non era che la volta celeste, ci avevo messo non poco a capire che il pulsare che avevo cominciato a sentire nelle orecchie era il sangue che tamburellava in esse, seguendo il ritmo sempre più lento del mio cuore e rendendo ovattato tutto il resto.
    Sarebbe difficile tentare di descrivere la bizzarra sensazione che provai nel sentire tutto il mio essere morire: vi siete mai ritrovati a svegliarvi di soprassalto durante la notte, dopo aver sognato di precipitare nel vuoto, provando quella sgradevole sensazione di caduta ancor prima d’aprire gli occhi? Ecco, quel che avevo vissuto io sarebbe potuto essere comparato a quella stessa percezione, con la sola differenza che il mio non era un sogno dal quale mi sarei svegliato. E forse fu proprio per quello che, quella lontana notte, provai un attaccamento morboso alla vita, rifiutandomi d’accettare quel fato senza lottare e d’incamminarmi su per quella strada a senso unico che avrebbe segnato la mia morte. La mia vita non doveva finire lì, non era ciò che volevo: fra le ombre della notte, con i richiami dei rapaci che contrastavano nettamente con il debole pulsare del mio cuore, supplicai di non morire. Da chi fu accolta quella mia supplica non lo seppi allora e temo non lo saprò mai. Ciò che so per certo è che sentii solo il dolore lancinante alla testa serpeggiare finalmente in tutto il mio corpo. Mi fece contrarre i muscoli delle braccia e delle gambe, mi serrò la mascella e mi mozzò quel poco fiato che mi era rimasto nei polmoni ormai compressi. Nemmeno mi ero reso conto, in un primo momento, che i lampi che mi passavano fulminei dinanzi agli occhi non provenivano dal cielo, ma dalle fitte provocate dal mio cervello contro le pareti del cranio, e che danzavano sulle palpebre che non ricordavo d’aver abbassato.
    Fu in quell’istante che smisi di lottare. Ma un alito gelido come il vento d’inverno, gorgogliante come un ruscello, parve capace di farmi restare ancorato a quel mondo, sollevandomi dall’abisso in cui ero sprofondato e artigliando la mia anima. Divenne un sussurro, una domanda che martellava le pareti del mio cervello e le mie carni ancora e ancora, insistentemente, senza darmi scampo o lasciarmi un attimo di respiro.
    I miei tentativi per scacciarla dalla mente furono vani, e mi abbandonai completamente a quel mormorio che prometteva più di quanto io stesso avessi mai potuto sperare. Esattamente non seppi cosa successe, e forse anche questo sarà un avvenimento senza risposta alcuna, ma quando finalmente i miei occhi si riaprirono, fu come se avessi trattenuto il fiato fino a quel momento. La gola era riarsa, le labbra secche, respirare con regolarità era una fatica enorme. Pensai d’esser morto, ma la sensazione che provai nel sentire fra le dita l’erba bagnata dalla rugiada fu così reale che piansi, con lo sguardo rivolto a quel cielo che man mano diveniva perlaceo. Odori, suoni, persino il sapore del sangue sulle labbra mi diede la certezza che ero ancora lì, vivo, sebbene sentissi in me qualcosa di diverso che nutriva però la mia speme.
    Non domandatemi cosa fosse quel qualcosa, non saprei rispondervi tuttora. Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei. Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
    Come? Pensate che io sia un vampiro? Nay, non so se sia la parola esatta per definirmi, non chiedetemelo con quel tono di referenziale timore. Forse lo sono, forse no. Non bevo sangue, ma, se qualche volta mi capita di assaggiarlo, il suo sapore non mi disgusta. Lo trovo anzi abbastanza piacevole. Evito qualche volta il sole, certo, ma non per paura che esso possa ridurmi in cenere.
    Se dovessi scavare nei miei ricordi, cercando il momento esatto di quella mia alquanto bizzarra trasformazione, non riuscirei a rammentare nulla di concreto. Forse sono davvero una sorta di demonio, chi può dirlo. Forse quello sprazzo d’erba su cui fui abbandonato era un nugolo di presenze malvagie che avevano approfittato della mia debolezza d’animo per impossessarsi di me. Per quanto possa saperne, può anche essere stato il Demonio stesso ad aver accolto la mia supplica e ad avermi reso quello che sono adesso, qualsiasi cosa io sia realmente. Ma mai come in quei primi momenti avevo sentito tutto il mio essere nel pieno delle forze, nel vigore della gioventù, con la consapevolezza che sarei potuto andare ovunque volevo senza sforzo alcuno. Fu proprio grazie a quei pensieri che decisi d’intraprendere quel mio viaggio che era stato così bruscamente interrotto, ma non per dirigermi nel Nuovo Mondo, nay, bensì verso quella stessa nazione che ci aveva così brutalmente sottomessi: l’Inghilterra.
    La ragione che mi spinse a farlo non la saprò mai spiegare, così come tante altre piccole cose che resteranno per sempre senza risposta, ma sentii una strana forza, una bassa melodia che ancora oggi sembra risuonarmi nelle orecchie, che mi incitò a mettermi in viaggio verso Londra. Ed è esattamente qui che ha inizio la mia storia, la mia vita tramutata in atti che sparisce poi quando si chiude il sipario.





[1] La traduzione letterale è “Cosa stai ascoltando, cuore mio?” ed è gaelico scozzese.

[2] Battaglia combattuta il 16 aprile del 1746 nei pressi di Inverness, che vide sconfitti i giacobiti, sostenitori di “Bonnie Prince” (Charles Edward Stuart), dalle forze lealiste guidate da William di Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo scontro si concluse in una disastrosa sconfitta, soprattutto a causa delle scarse innovazioni belliche di cui l’esercito scozzese era dotato; gli Highlanders, difatti, s’ispiravano ancora a strategie e concetti risalenti al medioevo. La fine della battaglia impedì del tutto agli Stuart di riconquistare il trono inglese, ponendo fine al sogno della Scozia di rendersi ancora una volta indipendente dall’Inghilterra.
Dopo la disfatta furono molti i prigionieri, sia giacobiti che sostenitori: una stragrande maggioranza fu deportata nelle colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti in carcere o mandati in esilio.
Per sottomettere definitivamente la Scozia, tra l’altro, il governo britannico ne annientò costumi e tradizioni, proibendo ai civili scozzesi di indossare il kilt o di suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte dell’esercito inglese. A ciò si aggiunse inoltre l’abolizione dell’autorità che i capi avevano sui propri clan.
Il bando venne abolito solo nel 1782, periodo in cui l’immagine del mondo celtico andava pian piano estendendosi.



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** [ Atto I, scena I › Toccata e fuga ] Il ragazzo dal volto di cera ***


Dè a tha thu_2
ATTO I: TOCCATA E FUGA [1] { APRILE 1912 }
SCENA I: IL RAGAZZO DAL VOLTO DI CERA
 
    Un brusio basso e sconnesso si levava dalla ressa della locanda in cui mi trovavo, dando quel lieve tocco d’allegria in più a quel posto quasi polveroso che, altrimenti, sarebbe stato un vero e proprio mortorio.
    Con l’arrivo della primavera, non era raro vedere luoghi come quello ghermiti di gente che arrivava da ogni dove. C’era chi raggiungeva Londra solo per puro piacere personale, chi per affari da lungo tempo rimandati, e poi chi, come mille altri signorotti d’alto rango, per avere l’occasione d’ammirare o d’imbarcarsi presto sulla più grande nave mai costruita fino ad allora [2]. Era una cosa che stupiva e meravigliava anche me, ad esser sincero, ma la notizia legata a quel mastodontico esemplare era ben presto passata in secondo piano, lasciando che concentrassi altrove le mie attenzioni.
    Non che ci fosse poi molto altro d’eclatante, alla fin fine. Da quando ero partito per raggiungere Londra erano passati quasi due secoli, e l’unica cosa che mi aveva realmente interessato, in quel lasso di tempo, era stato il caso di un certo Jack lo squartatore [3]. Non che lodassi i suoi atti, sia ben chiaro. Ma il male insito nella mia natura aveva fatto sì che mi incuriosissi al punto di seguire di nascosto le indagini della polizia.
    Durante il corso di una vita così lunga,
il più delle volte ci si stufava, e occupare il tempo in quel modo, al principio, mi era sembrato un ottimo svago. Adesso invece avevo ben poco da fare, oltre all’osservare il laborioso operare degli esseri umani. Spesso faticavo persino a credere che un tempo ero stato anch’io come loro, un comune uomo che svolgeva le proprie mansioni nelle terre del clan per adempiere ai compiti d’un futuro Laird [4]. E probabilmente sarebbe stato così, se non avessimo perso lo scontro con i britannici. Avrei occupato il posto di mio padre e avrei vissuto in Scozia fino alla fine dei miei giorni, a vegliare sulla nostra gente e sui territori che ci spettavano di diritto. C’era anche da dire, però, che se quella battaglia non avesse mai avuto luogo, io non mi sarei ritrovato lì, a distanza di centosessantasei anni, seduto ad un tavolo di una piccola locanda nel West End [5] di Londra. In un certo modo contorto e perverso, la cosa aveva in fin dei conti avuto i suoi vantaggi. “Non tutti i mali vengono per nuocere”, non si diceva forse così?
    Rincorrendo quei pensieri, mi ritrovai a far vagare di poco lo sguardo sulla clientela lì presente. Il chiacchiericcio era allegro e frettoloso, ma gli argomenti di discussione erano ben lontani dal mio interesse. Scostai dunque gli occhi per stornarli in direzione d’una cameriera che avanzava a fatica fra i tavoli, ma che aveva a sua volta un’aria divertita dipinta in viso. Era accentuata dal sorriso presente sulle sue labbra rosee e carnose, e persino gli sguardi che regalava ai clienti sembravano dare quell’impressione.
    Sbuffai senza poterne fare a meno. Cosa avessero tutti per essere così allegri proprio non lo capivo. Mi ritrovai dunque ad alzarmi e a lasciare qualche spicciolo sul tavolino, pagando così quel bicchiere di liquore che avevo ordinato ma che non avevo toccato per niente. Mi diressi verso l’uscita a grandi falcate, ritrovandomi ben presto nel bel mezzo d’un acquazzone in piena regola. Odiavo Londra solo per quel motivo. In quei due secoli l’avevo lasciata più di una volta per passare un paio d’anni altrove, sfruttando quella mia longevità per vedere posti come Parigi o Amsterdam, ma in nessuna di quelle città mi ero davvero sentito come a casa mia. Forse il motivo era che Londra era quanto di più simile ad Edimburgo apparisse ai miei occhi. Sentivo nostalgia della Scozia, e questo non potevo negarlo, ma non mi sentivo per niente pronto a tornarci.
    Mi diedi dell’idiota da solo per l’essermi perso nuovamente fra i miei più disparati pensieri, sistemandomi in dosso il mio pesante giaccone da viaggio e calcandomi subito dopo il cilindro in testa, così da potermi avviare sotto quella pioggia torrenziale. Incrociavo passanti che sgattaiolavano svelti per cercare di bagnarsi il meno possibile, persino coppie con figli che tentavano di frenare l’entusiasmo dei bambini, che si divertivano a giocare nelle pozzanghere create dall’acqua. Per un lungo periodo di tempo mi concentrai solo sul suono che le mie scarpe producevano sul lastricato bagnato, godendomi al tempo stesso il picchiettare della pioggia che diveniva man mano più intenso. Si creò ben presto un vasto via vai di persone, ancor più frettolose di quanto non fossero prima. Io camminavo invece tranquillo, senza preoccuparmi più di tanto delle gocce che continuavano a cadere. Mi fermai persino dinanzi ad una vetrina, osservando distratto le merci e al tempo stesso il mio vago riflesso.
    Ero cambiato così tanto, in quegl’ultimi due secoli. La prova che ero tutto fuorché un vampiro l’avevo lì, esattamente davanti ai miei occhi. Stavo invecchiando. Non come avrebbe potuto farlo un essere umano, certo, ma stavo invecchiando. Si riuscivano già a scorgere i primissimi cenni dell’età sui lineamenti del mio viso. Quando avevo lasciato la Scozia ero poco più d’un ragazzino, mentre adesso l’ombra che ricambiava il mio sguardo era quella di un uomo di trentacinque anni o poco più. Non ero mai stato bello e non lo ero nemmeno adesso, ma la corta e ben curata barba che possedevo nascondeva almeno in parte i lineamenti troppo pronunciati del mio viso, facendo così in modo che l’attenzione non venisse richiamata dal mio naso un po’ aquilino ma, piuttosto, dai miei occhi d’un verde sorprendentemente chiaro. In un modo tutto mio, insomma, avevo una bellezza fuori dal comune. Ma chi avrebbe mai detto, incontrandomi per caso per strada, che quella maschera che mostravo non ero realmente io? Per molti sarei dovuto essere molto più vecchio di quanto non apparissi, e dovevo tutto a quella mia strana natura. Probabilmente ero davvero una sottospecie di demone, chi poteva dirlo.
    Avevo letto molti libri sull’argomento e, anche se non avevo trovato quasi nulla che avesse potuto aiutarmi a comprendere, quella mia ferma convinzione ancora restava. Avevo difatti scoperto che la possessione da parte di spiriti maligni non era per niente rara, dunque avevo cominciato a studiare per anni quel determinato caso. Spaziando fra le varie mitologie e il folklore di diversi popoli, i miei studi avevano rivelato l’esistenza di demoni e spiriti, come i Rakshasa [6] o gli Youkai [7], per fare un esempio, che avrebbero potuto spiegare almeno in parte ciò che ero. Che certe notizie fossero vere o meno, però, poco importava. Ciò che contava davvero era l’essere lì, ancora in vita, a godere delle bellezze del mondo.
    Fu proprio a quei miei pensieri che decisi di riprendere la mia traversata, così da poter tornare a casa. Condividevo un appartamentino con un altro uomo, Henry Laurent, che dieci anni addietro aveva lasciato la Francia per venire a vivere lì in Inghilterra. Non gli avevo mai chiesto il motivo e nemmeno me ne importava, dato che lui non aveva fatto a sua volta domande sul mio conto. Ci eravamo conosciuti per caso una sera fra i boulevard di Parigi e, tra una chiacchiera e l’altra, appena aveva saputo del mio imminente ritorno a Londra aveva insistito affinché lo portassi con me. A patto che non mi disturbasse, gli avevo tenuto presente, avrebbe potuto fare ciò che più gli aggradava. Era stato un ottimo espediente per spezzare un po’ la monotonia che mi avvolgeva, ed era da allora che ci trovavamo a dividere lo stesso tetto, anche se il più delle volte non rispettava i patti e lasciava ovunque i suoi colori. Si auto-definiva un pittore, ma fino a quel momento non aveva avuto granché successo. Forse perché, a parere di molti, i suoi quadri mancavano di buon gusto. Io li trovavo solo un po’ eccentrici, ma non del tutto da buttare. Cosa mai poteva essere qualche testa mozzata da un angelo della morte, in confronto ai quadri di Caravaggio? [8]
    Henry diceva che ero io ad ispirarlo, il più delle volte. Da quando avevo scoperto la mia passione per il piano, dettata forse anche dalla strana melodia che avevo udito e che mi aveva spinto fino a Londra, avevo comprato quello stesso strumento per dare sfogo alle mie repressioni. E quelle rare volte che lo suonavo, Henry cominciava a dipingere quei suoi sanguinosi quadri con lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse posseduto dal demonio. E su quel particolare dettaglio avrei avuto davvero molto da dire. Ma la mia vita non andava oltre quelle semplici cose, e me ne rammaricavo. Avevo quella che molti avrebbero definito immortalità, sebbene la definizione non fosse per nulla esatta, e non la sfruttavo per niente come avrei realmente dovuto.
    Sentivo però dentro di me una bizzarra sensazione, come se qualcosa, o per meglio dire qualcuno, sarebbe ben presto arrivato a portare scompiglio in quella mia lunga e noiosa vita. E fu proprio in quel preciso istante che lo vidi di sfuggita con la coda dell’occhio, col volto simile a quello d’una maschera di cera; ma quando mi voltai del tutto, lui già non c’era più
.





[1] È l’opera per organo più conosciuta di Bach.
Probabilmente si tratta di uno dei primi brani da lui composti, visto che si creda sia stata scritta tra il 1703 e il 1707, esattamente durante il periodo della sua giovinezza.
In questo contesto, naturalmente, non si intende la sua opera, ma un semplice gioco di parole tra la toccata e fuga dei due protagonisti principali.

[2] Ovviamente, anche se non viene per niente specificato né al principio né durante tutta la storia, la nave a cui si accenna è il Titanic, la nave britannica della Olympic Class ultimata nel marzo del 1912 e salpata dal porto di Londra il 10 aprile dello stesso anno. La storia, dunque, è ambientata parecchi giorni prima della fatidica notte in cui la nave affondò. 
 
[3] Serial Killer che, durante l’autunno del 1888, commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a “opera” conclusa. Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte le persone che cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior parte di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.
 
[4] Letteralmente significa “Signore”, deriva dall’inglese “Lord” ed è gaelico scozzese.
 
[5] È il principale distretto incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32 distretti di Londra che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar Square, mentre Oxford Street è una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
 
[6] Demoni o spiriti malvagi dell’induismo, molti dei quali erano esseri umani assai crudeli nella loro precedente reincarnazione. I Rakshasa sono noti per la loro abitudine di rovinare le cerimonie sacre, dissacrare tombe, molestare sacerdoti e possedere esseri umani.
Hanno l’abilità di cambiare aspetto e fare magie, e spesso compaiono in forma di uomini, cani, e grandi uccelli. Non sempre, però, appaiono come malvagi - sebbene il loro aspetto sia orribile a vedersi - ma, anzi, a volte prendono a ben volere una persona, aiutandola e, generalmente, facendola diventare ricca.
 
[7] Traducibile con la parola apparizione, spirito o più semplicemente demone, gli youkai sono creature del folklore giapponese.
Spesso rappresentati con tratti grotteschi e terrificanti, non mancavano però i demoni con fattezze umane o animali. I più noti erano i Nekomata (Gatto a due code evolutosi dal gatto normale), gli Tsuchigumo (Ragni di terra considerati per l’appunto demoni, descritti come esseri giganteschi), gli Inugami (Shikigami dall’aspetto di un cane, che una volta generati possono anche diventare indipendenti e rivoltarsi al loro creatore) e infine i Kitsune, demoni volpe che avevano la capacità di acquisire un aspetto umano e confondersi dunque fra gli uomini.
Avevano inoltre il potere di impossessarsi degli esseri umani, di appiccare il fuoco, di entrare nei sogni e di creare illusioni spesso indistinguibili dalla realtà. Proprio per la loro capacità di possessione, dunque, chiamata “Kitsunetsuki”, traducibile ovvero come “Luna di volpe” o simile, il protagonista crede che abbiano un qualche legame con la sua posizione attuale.

[8] Qui si intendono quadri come, tanto per citarne alcuni, “La testa di Medusa”, “Giuditta e Oloferne”, “Salomè con la testa del Battista” e “Davide e Golia”. Ovviamente, il tutto è detto in chiave vagamente ironica da chi racconta.  



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** [ Atto I, scena II › Toccata e fuga ] Amleto e Macbeth ***


Dè a tha thu_3
SCENA II: AMLETO [1] E MACBETH [2]
 
    Era sparito fra la folla così com’era apparso, l’ombra d’un pallido fantasma dissoltosi nella marea di gente che imperversava fra le strade di Londra.
    Pensai quasi d’essermelo immaginato, cercandolo ancora con lo sguardo sebbene ormai, di lui, restasse solo la sua vaga presenza sulle mie retine. Non seppi perché mi affannai così tanto nel ritrovarlo, negli attimi che seguirono, ma cominciai a vagabondare fra quelle strade sotto quel diluvio, quasi non riuscissi a darmi pace. L’avevo visto solo per un attimo, però quell’attimo era bastato. E continuai a cercarlo e a cercarlo ancora mentre intorno a me la gente diveniva man mano più rada, non capacitandomi al tempo stesso del perché seguissi quello spettro che avevo veduto e che a sua volta, per non più d’una frazione di secondo, aveva rivolto verso di me il suo sguardo.
    Cosa mai avrebbe potuto significare quella mia ossessione? Avevo trovato un’altra creatura che condivideva il mio stesso destino o, forse, volevo soltanto tentare d’illudere la mia persona, e dunque quella visione che ai miei occhi era apparsa così reale era invece stata solo un parto della mia mente stanca e annoiata? Non lo sapevo, ma passarono ore ed ore senza che trovassi più alcuna traccia. Con molta probabilità, rincorrendo i miei soliti pensieri e perdendomi nel passato, avevo involontariamente generato quell’immagine speculare, lasciando che la fantasia prendesse momentaneamente il sopravvento sulla realtà. Ma se era stato davvero così, perché non riuscivo a togliermi dalla mente quello sguardo un po’ vacuo, quegl’occhi d’un azzurro così intenso d’apparire di ghiaccio come quello d’un husky, e quei capelli ramati e arruffati che nascondevano il pallido viso? Che sorta di maleficio mi aveva fatto, quell’essere, se realmente esisteva? Più ci pensavo, più il mio meravigliarmi mi sembrava pura follia. Ma continuai a farlo anche quando raggiunsi il palazzo e mi chiusi la porta alle spalle, liberandomi distrattamente di giacca e cilindro mentre salivo le scale per raggiungere il mio alloggio.
    Non appena vi entrai, fui investito dall’odore della pittura, reso ancor più intenso dall’aria viziata, date le finestre che Henry aveva lasciato chiuse. Aprirle con quella pioggia non era l’ideale, certo, ma mettersi a dipingere senza farlo era un po’ come suicidarsi, dati i quantitativi di colore che lui era solito utilizzare. Diceva, però, d’esserne ormai assuefatto, e chi ero dunque io per impedirgli di fare ciò che voleva? Quello per me non era un problema, anche perché erano rare le volte in cui ritornavo a casa. Ero perfettamente a mio agio anche altrove. Esattamente come avevo previsto, trovai Henry dinanzi ad una delle sue tele. Attraversai quel poco spazio non ingombrato da tavoli e tavolinetti, attento a dove mettevo i piedi per non inciampare in qualche foglio svolazzante o colore. Con il disastro che c’era in giro, non mi preoccupai nemmeno del fatto che, con le mie scarpe imbrattate, stessi bagnando il pavimento.       
    «Hai fatto tardi, stasera», mi salutò Henry, senza alzare gli occhi azzurri dal suo dipinto. Intinse invece il pennello in uno dei colori della tavolozza che reggeva, riprendendo tranquillo il proprio operato come se fosse ancora solo.
    Poggiai il giaccone su una delle poche sedie libere, ritrovandomi poi a scoccargli un’occhiata di scarsa importanza. «Sono stato impegnato», ribattei, sentendo appena un suo mezzo sbuffo ilare.
    «Bugiardo», replicò difatti, mescolando il nero e il ciano per stemperarli poi sulla tela, assumendo un’espressione poco soddisfatta.
    Io, però, sbuffai. «Pensa ai tuoi quadri, pittore», lo ammonii, lasciando il cilindro dove capitava. Odiavo quando Henry si metteva in testa di fare la parte della madre appiccicosa o dell’amante geloso, e queste semplici cose sarebbero bastate per risvegliare quella natura che mi animava. Lui, pur sapendo ciò che ero - o, per meglio dire, sapendo quel poco di cui ero venuto a conoscenza anch’io -, non si faceva poi tanti problemi a sfidarmi o a fare in modo che mi arrabbiassi, per nulla preoccupato delle conseguenze.
    Si vive una volta sola, diceva, e della sua vita gliene importava ben poco per sua stessa ammissione. Io, che ero diventato quell’essere proprio a causa del mio attaccamento alla vita, non lo comprendevo. Ma d’altra parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne il motivo. Forse quando quel momento sarebbe arrivato l’avrei capito, e mi sarebbe anche stata spiegata la sensazione che provavo quando lo vedevo davvero all’opera, completamente immerso nel suo mondo dove nessuno, me incluso, poteva raggiungerlo. Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata.
    In quel momento, invece, Henry non mi trasmetteva quella stessa percezione. Era soltanto un semplice uomo che giocava distratto con i suoi colori, senza dipingere ancora nulla di concreto com’era solito fare. «Mancanza d’ispirazione?» domandai sarcastico quando mi spostai di poco per sbirciare la tela, vedendolo abbassare il pennello per poggiarlo sulla tavolozza. Mise su una sottospecie di broncio che stonava non poco sul suo viso, poi, aggrottando la fronte e incurvando le labbra all’ingiù.
    Guardò a sua volta la tela senza proferire ancora parola, come se la stesse contemplando. Era diversa da quelle che ero solito vedere, e me ne meravigliai: il tratto base dei soggetti era chiaro e sottile, quasi nullo, e le pennellate che componevano la prima passata di sfondo erano solo linee di colore prive d’un vero motivo. Sembrava quasi che fossero state buttate lì a caso, e forse era davvero così. Si scorgeva vagamente un viso, in quell’ammasso di colori e forme, ma era piuttosto difficile stabilire il sesso del soggetto rappresentato.
    «Sacrebleu, je suis un faillite [3]», mormorò infine nella sua lingua, abbandonando la tavolozza su una sedia lì accanto prima d’afferrare saldamente la tela per lanciarla con foga sul lato opposto della stanza. Andò a scontrarsi con la libreria accostata al muro, e i pesanti tomi che caddero non furono per niente pochi. Ma Henry non sembrò curarsene, alzandosi dallo sgabello che aveva occupato per dirigersi invece alla finestra, dove si accostò prima di tirar fuori un sigaro.
    «L’unica cosa di cui sono capace è dipingere, mon amie, ma se non riesco più a fare nemmeno quello, cosa potrò mai inventarmi?» quella sua domanda non sembrò diretta propriamente a me, giacché non aspettò per niente una risposta. Si accese invece il sigaro e se lo portò alle labbra, concedendosi quell’unico e piccolo piacere. «Potresti ammazzarmi», continuò poi, scompigliandosi i capelli. «Sarebbe di sicuro molto più interessante di questo mortorio».
    Sollevai un sopracciglio, prendendomi qualche attimo di silenzio, come se stessi cercando le parole adatte. C’era un lato di me che non si faceva poi tutti questi scrupoli ad uccidere, certo, ma se avessi ammazzato Henry, quali altri svaghi avrei avuto? Quel mio fantasma che mi era sembrato di vedere durante il ritorno? Davvero una bella prospettiva. Così sbuffai e, scuotendo il capo, andai a recuperare la tela. «Cercati un altro mostro per farti ammazzare, pittore», ribattei infine, chinandomi per prendere anche alcuni libri caduti. «Io e la morte abbiamo ancora un conto in sospeso», soggiunsi sarcastico, vedendolo appena con la coda dell’occhio storcere il naso prima di tirare una bella boccata dal suo sigaro. Fra le mani mi capitò uno dei tomi che tempo addietro avevo studiato nel tentativo di comprendere la mia natura, e mi ritrovai a carezzarne appena il dorso prima d’alzarmi in piedi, così da rimettere tutto a posto. «Credi ai fantasmi, piuttosto?» domandai a bruciapelo, accostando la tela contro la gamba d’un tavolino.
    Henry assunse un’aria piuttosto perplessa, dando vita ad una breve risata per nulla divertita. «Cos’è, uno scherzo?» chiese in risposta. «Sto parlando con una sottospecie di demone, mon Dieu», ci tenne a ricordarmi, come se poi ce ne fosse davvero bisogno. «Chiesta da te, la cosa è alquanto ironica».
    Tagliai corto con un gesto secco della mano, impedendogli di continuare. «Niente sofismi, gradirei piuttosto una risposta», insistetti, poiché non riuscivo ancora a liberarmi dell’immagine di quell’apparizione. Però Henry scrollò semplicemente le spalle, tirando un’altra boccata di fumo. «Se credo in ciò che vedo adesso e non sono dunque impazzito, perché non dovrei credere anche all’esistenza dei fantasmi? Non mi stupirei nemmeno se da quella porta entrasse Dracula [4] in persona, in questo momento».
    Quel suo sarcasmo, nonostante tutto, mi fece brevemente sorridere. «Temo che tu sia rimasto troppo a lungo chiuso in questa stanza, pittore», dissi. «L’odore di quei colori gioca brutti scherzi».
    «Sei stato tu ad avermelo chiesto», mi tenne presente, scombinandosi ancora una volta i corti capelli castani prima di ravvivarli alla bell’e meglio all’indietro. «Io mi sono solo limitato a rispondere. Tu, piuttosto, sei più strano del solito. E ce ne vuole, aggiungerei».
    Non risposi, limitandomi solo ad attraversare la stanza per dirigermi verso il mio piano, carezzando lievemente il legno massello con cui era stata lavorata la parte superiore che nascondeva la cassa. Mi sedetti poi al mio posto, alzando il coperchio della tastiera per sfiorare con due dita i tasti bianchi e neri. «Credo d’aver intravisto uno spettro», rivelai infine. «È stato solo un attimo, ma mi ha guardato dritto negli occhi prima di sparire».
    Henry mi fissò per una buona manciata di minuti, sorridendo poi lieve. «Oh, mon amie, e di cosa ti preoccupi?» domandò, lasciandomi un po’ basito. Ancora mi stupivo di come la vita di quell’essere umano sembrasse essersi ormai adattata alle stranezze di quel mio mondo sovrannaturale. Non ne era rimasto sconvolto come avevo creduto, bensì mi aveva semplicemente posto quella domanda. Forse, dopo dieci anni, quella sua padronanza nel gestire situazioni del genere era più che normale, chi poteva dirlo. Possibile che quello stupito fossi io che appartenevo a quel mondo e non lui? 
    «Non era questa la risposta che mi aspettavo, se me lo concedi», risposi poi, facendo scivolare l’indice sulla tastiera, vedendo di sfuggita Henry sorridere brevemente.
    Spense il proprio sigaro nel posacenere riposto su uno di quei bassi tavolini da the, rivolgendomi poi un cenno del capo. «Mon cher», cominciò. «Se permetti, dopo dieci anni che ti conosco ci sono ben poche cose che possano riuscire a farmi scappare in preda al panico», soggiunse, allargando di poco il sorriso «e il tuo aver visto uno spettro non rientra ancora tra queste, mi spiace».
    A quelle sue parole mi innervosii e, abbattendo con forza entrambe le mani sui tasti del piano, creai un suono grottesco e per nulla armonioso che si propagò intorno a noi come una lugubre melodia. «Dovresti temere un po’ di più ciò che non conosci», lo redarguii, ma lui si limitò ancora una volta a scrollare semplicemente le spalle, come se la cosa non lo riguardasse per niente.
    «Ho ben altro da fare che spaventarmi per ogni piccolezza esistente a questo mondo», ribatté semplicemente, accennando poi un inchino nella mia direzione. «Pardonne moi, monsieur [5]», soggiunse poi, scomparendo nella stanza adiacente per tornare solo svariati minuti dopo con un’altra tela immacolata, riponendola sul treppiedi occupato poco prima da una sua sventurata compagna.
    A quanto sembrava, Henry aveva intenzione di riprendere il proprio lavoro, e di questo non mi stupivo. Non faceva altro che dipingere dalla mattina alla sera, per quel che ne sapevo, e forse i pasti che consumava si riducevano appena a del porrige e a del pane di segale. L’unica bevanda poteva magari essere del whisky scadente, ma non contavo nemmeno su quello. Se non avesse conservato almeno un briciolo di buon senso, si sarebbe lasciato morire di stenti e di fame dinanzi a quelle sue dannate tele.
    Dopo quella nostra breve conversazione non parlammo più, perdendoci l’uno nel silenzio dell’altro. Lui s’impegnò su quella sua nuova opera, io continuai a pensare a quel ragazzo fantasma che avevo intravisto appena, pigiando di tanto in tanto qualche tasto dello strumento dinanzi al quale ero seduto. Mi persi ben presto, sia per mio diletto sia per non curanza, nell’intonare la Sonata in Re maggiore [6] di Mozart, di cui tempo addietro mi ero innamorato quando mi ero ritrovato ad ascoltarla. Lasciai che fossero le sue note a guidare i miei pensieri, nella vana speranza che li direzionasse presto altrove.
    Era stata un’illusione, mi ripetevo, forse timoroso che la follia che di tanto in tanto muoveva Henry stesse cominciando a divorare anche me. Ma come poteva mai essere che uno stato così umano potesse insinuarsi persino in una creatura pari a un demone quale ero io? Probabilmente era stata quella stessa trasformazione a rendermi pazzo, e gli effetti stavano iniziando a farsi vivi solo ora dopo secoli. Il mio pensarci con così tanta intensità ne era la prova.
    Interruppi di scatto la melodia che avevo cominciato ad intonare e chiusi il coperchio della tastiera, così forte che quasi temetti di rompere esso e i tasti sottostanti. Così facendo fui capace di richiamare l’attenzione di Henry, che mi osservò con tanto d’occhi senza muovere un muscolo. Lo fulminai con un’occhiataccia, nervoso per un motivo che solo io conoscevo, alzandomi poi per andare a recuperare il mio giaccone. «Non aspettarmi», dissi semplicemente in tono secco, imboccando la porta prima di richiudermela con un tonfo alle spalle.
    Scesi le scale in fretta e furia, ritrovandomi ben presto nuovamente fra le strade di Londra. Non pioveva più forte come prima, fortunatamente, ma una leggera pioggerellina continuava insistentemente a scendere, bagnando il lastricato. Anche le grondaie e i portici dei palazzi che sorgevano sui lati delle strade gocciolavano pigramente, diffondendo nell’aria quel lieve ticchettio che preannunciava una futura schiarita.
    L’ora era ormai tarda, dunque erano poche le persone che ancora si attardavano fra le vie. Decisi di spostarmi allora verso l’East End [7], dove avrei di sicuro potuto godere di qualche attimo di distrazione. Era esattamente quel che mi ci voleva, dopo tutte le reminiscenze che avevano affollato i miei pensieri per tutto il giorno. Avevo bisogno di uno svago, di un qualunque divertimento, di forviare magari qualche giovane mente come si confaceva alla mia natura stessa. Così facendo, forse, avrei anche potuto dimenticare il reale motivo che mi aveva spinto ad uscire.
    Vagai fra quelle strade e quei vicoli avvolto nel mio soprabito, silenzioso e rapido come un’ombra, evanescente io stesso come uno spettro. Quelle poche persone che incrociavo - per lo più prostitute con i loro clienti, e ad una certa distanza il protettore che li seguiva -, sembravano non badare a me o non vedermi nemmeno, quasi fossi realmente inconsistente come la notte che ci avvolgeva.
    Non arrivai mai dove mi ero prefissato, però, e la ragione non fu il mio perdermi fra i miei pensieri, stavolta: avevo udito quella stessa melodia che sembrava aver guidato i miei passi verso la città di Londra duecento anni or sono. E seppur avessi cominciato ormai a pensare che anch’essa fosse soltanto un parto della mia mente, probabilmente una rimembranza delle canzoni che mia madre, prima di morire, soleva cantarmi quand’ero bambino per conciliare il mio sonno, avevo semplicemente deciso di seguirla verso luoghi sconosciuti, perdendomi nelle note basse e cariche d’attesa prodotte da quello strumento che, forse, in realtà non esisteva
.





[1] È un’opera in 5 atti di William Shakespeare, rivista da Ambroise Thomas con il nome di Hamlet e rappresentata all’Opéra de Paris il 9 marzo del 1868.
La tragedia assume un carattere romantico: il suo senso iniziale viene stravolto, Amleto perde la sua solita e tagliente ironia, i cortigiani spariscono, il ruolo di Polonio non esiste, Gertrude sa del crimine e ne è persino complice. Il dramma si restringe sulla tensione al cuore del personaggio di Amleto, mentre i suoi aspetti bizzarri sono cancellati.
Nel corso del capitolo si capirà vagamente la scelta del titolo.
 
[2] Uno tra i più conosciuti drammi di Shakespeare, nonché la tragedia più breve.
Modello della brama di potere e dei suoi pericoli, tale opera è stata riadattata e rappresentata frequentemente nel corso dei secoli.
Per la trama Shakespeare si ispirò liberamente al resoconto storico del re Macbeth di Scozia di Raphael Holinshed e quello del filosofo scozzese Hector Boece.
Ci sono molte superstizioni fondate sulla credenza che il dramma sia in qualche modo maledetto e molti attori non vogliono menzionarne ad alta voce il titolo, riferendosi ad esso come “Il dramma scozzese”.
Nel corso del capitolo si capirà vagamente la scelta del titolo.
 
[3] La traduzione sarebbe “Accidenti, sono un fallito (O fallimento)” ed è naturalmente francese.
 
[4] Nome del protagonista di un romanzo gotico dalle atmosfere cupe e minacciose che riprende il mito del vampiro, scritto nel 1897 dall’irlandese Bram Stoker, che si ispirò alla figura di Vlad III, principe di Valacchia.
 
[5] La traduzione sarebbe “Mi scusi, signore” ed è naturalmente francese. Potrebbe essere letto, a seconda di come lo si interpreta, anche come “Mi perdoni” o “Chiedo scusa”.
 
[6] Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un Presto.
 
[7] Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in cui stare. 
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che nell’East End si concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi che ciò comporta
.  



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** [ Atto II, scena I › Sinfonia ] Note di follia e incontri di parole ***


Dè a tha thu_4
ATTO II: SINFONIA [1] { APRILE 1912 }
SCENA I: NOTE DI FOLLIA E INCONTRI DI PAROLE
 
    Era la terza o quarta notte che passavo all’addiaccio, fermo su quel vecchio porto sulle rive del Tamigi.
    Quando calava il sole sentivo pullulare quella zona di presenze, come se fosse un ritrovo per chi, come me, sembrava essersi perso fra i sussurri della notte. Non erano solo gli uomini a ritrovarsi in quel luogo, il più delle volte, ma persino creature inquiete che fino a quel momento non avevo mai avvertito.
    I loro respiri mi solleticavano il viso non appena socchiudevo gli occhi, le loro bocche gelide mi sfioravano con delicatezza, sussurrandomi all’orecchio parole che io non comprendevo. Quando alzavo le palpebre sembravano poi sparire nel nulla, lasciando solo nell’aria un’eco simile ad una risata cristallina. Ed era proprio in momenti come quelli che temevo d’esser ormai impazzito, lasciando però che quelle stesse voci continuassero senza che facessi nulla per scacciarle. Alcune erano dolci e malinconiche, quasi portassero con sé il dolore della mia terra natia; altre ancora risuonavano invece aspre e dure, e mi rimproveravano per cose che, almeno per quanto ricordassi, non avevo mai fatto. Vecchie nenie cantate nella mia lingua sommergevano poi tali voci, lasciando che trovassi nel sonno quel poco riposo che mi concedevo.
    Avevo ormai ripreso a viaggiare, diretto Dio solo sapeva dove. E ad esser sincero, affidare quel mio peregrinare all’Onnipotente dopo quanto mi era successo, dopo quel che ero diventato, mi sembrava quasi assurdo. Ma forse, giacché la mia, in vita, era stata una famiglia fortemente religiosa, non avevo potuto fare a meno di conservare quel frammento di fede insito nella mia persona. Non ci speravo poi molto, ma pensarci, arrivati ormai a quel punto, a cosa sarebbe servito? Assolutamente a nulla. E mi imposi dunque di smetterla con certi pensieri, incamminandomi in silenzio fra quelle vie buie e solitarie in cui mi ero ritrovato. Il Big Ben [2], che da dove mi trovavo riuscivo a scorgere scostando soltanto di poco lo sguardo verso sinistra, segnava sul suo immenso quadrante un quarto a mezzanotte. Si avvicinava l’ora in cui le mie compagne voci cominciavano a manifestarsi, e non sapevo se esserne lieto o meno. Forse erano reali, forse no, ma se lo erano, avrei dovuto iniziare a far davvero attenzione.
    In quei secoli avevo imparato che creature come me, dunque pressoché immortali, erano piuttosto volubili, a lungo andare. Bastava pensare ai vampiri, ad esempio: non ne avevo mai incontrato uno, però avevo sentito che in quanto a volubilità erano i peggiori. Imbattermi sfortunatamente sul cammino di in uno di loro, dunque, era davvero l’ultima cosa che volevo. Intorno a me regnava però una strana quiete, forse più bizzarra di quanto non mi fosse mai sembrata fino ad allora. E fu proprio in quel mentre che, abituato a star continuamente in giro senza dipendere da niente e nessuno, ricordai di non aver avvisato Henry della mia decisione d’allontanarmi ancora. Non che avrebbe poi fatto tanto caso alla mia mancanza, probabilmente; impegnato com’era con i suoi quadri, forse avrebbe cominciato a rendersi conto della mia assenza solo dopo l’aver sentito quella stanzetta silenziosa per troppo tempo. Non contavo di star via a lungo, ma non si poteva mai sapere.
    Quel mio peregrinare mi condusse ai confini della città, e fui indeciso se lasciarla o meno. Avrei lasciato alle spalle tutti quegli strani fantasmi che mi perseguitavano, ma sapevo che mi sarei pentito di averlo fatto. Dove sarei potuto andare, poi? Mi era sempre piaciuta l’Europa, non lo mettevo in dubbio, e visitare Vienna per spostarmi verso l’Italia e visitarne Firenze non era una così cattiva idea. C’era qualcosa che continuava a bloccarmi, però, non permettendomi di compiere un altro passo.
    Cos’era quella strana sensazione che aveva cominciato a fluire nel mio corpo, simile a fuoco vivo nelle mie vene? Non lo comprendevo, ma ciò di cui ero certo era che aveva di sicuro a che fare con la città alle mie spalle. Ritornai allora sui miei passi, venendo ben presto investito da un vento gelido di cui non capii la provenienza. Più che un vero e proprio vento, era molto più simile ad un mormorio nella notte, rassomigliante alle voci che per giorni non avevano fatto altro che accompagnarmi, ma molto più lieve, quasi come un suono che in realtà non era tale, una confusione di colori e forme e di tasti bianchi e neri.
    Or dunque, mi venne da pensare che avessi raggiunto il mio limite. Era follia, pura e semplice follia, e se l’avessi raccontato, così come avrei potuto raccontare la mia stessa vita, nessuno mi avrebbe mai creduto. Non l’avrei fatto nemmeno io. Quella era un’assurdità e tale doveva restare, se le avessi dato spago non avrebbe fatto altro che tormentarmi per l’eternità dei miei giorni.
    Scossi la testa e cercai di scacciarla, sentendomi seguito da piedi invisibili e deboli fruscii. Continuai sulla mia strada senza voltarmi indietro, attraversando un piccolo ponte di pietra per ritrovarmi sull’altra sponda della città, in modo da potermi dirigere verso il confine sud del quartiere Mayfair, a Piccadilly. I passi divennero più rapidi e scattanti mano a mano che ci avvicinavamo a case e negozi, finché, stufo, non decisi di fermarmi io stesso e di voltarmi di scatto, lanciando un grido esasperato e gutturale che nemmeno io avevo mai sentito provenire dal fondo della mia gola. I rumori cessarono del tutto, ma qualcosa privo di consistenza mi strisciò sulla pelle, viscido come un serpente, e storsi il naso con fare disgustato prima di cercare di togliermelo di dosso. Com’era prevedibile, però, non trovai assolutamente nulla.
    Andai avanti così per giorni e giorni, pensando quasi d’accettare quella mia follia come un chiaro segno del destino. La morte non era riuscita ad avermi con sé, dunque cercava in tutti i modi di farmi impazzire per spingermi magari al suicidio. E, aye, io quasi ci avevo pensato. Ma quale folle, dopo esser scampato per secoli dalla nera signora con la falce, avrebbe mai fatto ciò? Per quanto quelle voci mi spingessero più e più volte su quella stessa strada, la natura di quell’essere che si era insidiato in me, e che mi aveva inoltre reso ciò che ero, riusciva a salvarmi sempre per un soffio da quell’orripilante baratro.
    Mi trascinai quasi faticosamente verso i quartieri alti di Londra, alzando soltanto di poco lo sguardo verso il cielo: sebbene non piovesse, il tempo era uggioso, ed erano molte le nubi che solcavano quel manto ormai cinereo sopra di noi. Erano pressappoco le due del pomeriggio di un plumbeo sette aprile, e la gente che passeggiava o che si trovava semplicemente a guardare le vetrine dei più svariati negozi, appariva serena come sempre, ignara del terrore che si celava ogni notte negli anfratti bui. E mentre il mio sguardo vagava stanco fra quei mille volti, e il mio stomaco sembrava reclamare a gran voce pietanze che giorni addietro non avrei mai creduto di poter assaggiare [3], gli occhi mi caddero sul viso di quel qualcuno che aveva continuato ad affollare i miei pensieri per tutto quel tempo.
    Forse sgranai gli occhi, non ne fui sicuro, ma sentii un qualcosa stringermi dolorosamente il cuore alla sua vista. Era perso nel contemplare una vetrina di balocchi, con un vago sorriso dipinto sulle piccole labbra rosee. Non poteva avere più di sedici o diciassette anni, adesso che riuscivo a vederlo meglio, e aveva persino perso quell’aspetto etereo con cui lo ricordavo. Ma sapevo che era lui, non c’era alcun dubbio: quello sguardo un po’ perso, come se si trovasse sempre in un mondo tutto suo, e quei capelli rossi, spesso tipici della maggior parte di noi scozzesi, avrei potuto riconoscerli fra mille. Non sapevo il perché, non comprendevo come mai il vederlo aveva provocato quella bizzarra sensazione che sentivo ormai nel petto e in tutto il mio essere, come se dentro di me accrescesse una strana sorta d’ansia che mai, fino a quel momento, avevo avvertito.
    Non riflettei neanche, quando feci i primi passi verso di lui. Era quasi come se il mio stesso corpo si muovesse senza che gli imponessi di farlo, e di questa cosa non me ne capacitavo affatto. Ero quasi ad una spanna da lui quando infine si voltò, alzando il viso verso il mio per potermi osservare attentamente negli occhi. Non era alto più di un metro e cinquantacinque, probabilmente, il che lo rendeva ancor più bambino di quanto non sembrasse.
    Mi squadrò a lungo, in silenzio, sbattendo solo di tanto in tanto le palpebre per umettare gli occhi. Sembrava quasi che intorno a noi non ci fosse più nessuno, mentre ci fissavamo immobili dinanzi a quella vetrina. Sentivo che il tempo si sarebbe potuto fermare in quello stesso istante, lasciando così che vagassimo entrambi in un limbo che non avrebbe avuto nome. Infine lui parlò, con una voce così bassa e roca che sembrava non aprisse bocca da parecchio tempo. «È venuto a prendermi?» mi domandò, ma io mi limitai solo a fissarlo basito e muto, non comprendendo il senso di quel suo strano quesito.
    Non mi sarei mai aspettato che il vederlo mi avrebbe rimescolato l’animo in quel modo, dando vita ad un sentimento di cui mi vergognavo persino a pronunciare il nome. In quei giorni in cui mi ero ritrovato a pensare a lui, a quello stesso ragazzino che avevo ormai dinanzi ai miei occhi, avevo cercato di trovare una qualche spiegazione razionale a quella mia ossessione, non riuscendoci. E nemmeno adesso ci riuscivo, se dovevo proprio essere sincero, e la cosa iniziava a spaventarmi un po’. Spaventava me, una creatura che in teoria sarebbe dovuta nascere proprio con lo scopo di terrorizzare gli incauti.
    Ritrovarmi dunque vicino a lui, così tanto che potevo benissimo scorgere la spruzzata di lentiggini sul suo viso da bambino, mi faceva quasi sentire... male. Era quella la parola adatta da utilizzare, in quel momento? Rincorrendo quei pensieri ebbi finalmente il coraggio di rispondergli con un’altra domanda, resistendo all’impulso di leccarmi le labbra nel sentire il fresco e giovane odore che sembrava provenire da lui. «E per portarti poi dove, mo gille [4]
    Stavolta fu lui a prendersi qualche attimo per rispondermi, raschiandosi persino di poco il labbro inferiore con i denti. E, Dio, ai miei occhi apparve così fragile e indifeso! Era come un piccolo bocciolo che tardava ancora a mostrare i suoi petali al mondo.
    Infine, dopo aver incurvato di poco le spalle ed essersi ficcato entrambe le mani nelle tasche, quasi l’avessi rimproverato anziché porgergli un semplice quesito, abbassò di poco lo sguardo per evitare di fissarmi ancora negli occhi. E di quel distacco me ne rammaricai. «Al Foundling [5], signore», mormorò a mezza voce, quasi sperasse che non lo sentissi. Ma l’avevo udito eccome, e quelle sue parole mi fecero aggrottare di poco le sopracciglia.
    Senza nemmeno pensarci troppo mi chinai verso di lui e mi puntellai sui calcagni, in modo da poter quasi essere alla sua altezza. Perché l’avessi fatto non lo compresi, così come non capii il mio allungare una mano verso di lui per sfiorargli il viso, sentendolo tremare appena. «Vivi lì?» gli chiesi ancora, e, dopo aver fatto un piccolo passo indietro, lui si limitò semplicemente a scuotere il capo.
    Non alzò lo sguardo e non ricambiò il mio, come se avesse paura che io potessi fargli qualcosa. E come dargli torto? Ero un estraneo, e lui era poco più d’un ragazzino che con molta probabilità aveva davvero quattordici o quindici anni. Che cosa ci faceva, allora, tutto solo per le strade di Londra? Ma di certo non erano affari miei, quelli.
    «Perché dovrei portarti al Foundling, allora?» domandai infine, forse persino un po’ incuriosito, squadrandolo dall’alto in basso non appena mi rialzai in piedi.
    Di quel ragazzo non comprendevo parecchie cose, ma c’era un qualcosa, fra i meandri della mia anima oscura, che mi spingeva a pazientare e ad attendere che fosse lui stesso a dissimulare le mie curiosità e i miei dubbi, come se fra noi potesse esserci un patto silenzioso e mai stipulato che imponeva l’uno di parlare con l’altro. Avrebbe difatti potuto scappare via e non l’avrei biasimato, data la sua giovane età. Anch’io, quand’ero un ragazzino, diffidavo degli estranei che mi si avvicinavano. E anche a maggior ragione, visti i tempi che correvano.
    Il mio interlocutore si gettò delle occhiate a destra e a manca, quasi non volesse rispondere, avvicinandosi poi ancor più alla vetrina per poggiarvi sopra le mani. Osservò distrattamente l’interno, concentrato probabilmente come me su quel brusio circostante che faceva quasi da sottofondo.
    Passarono altri minuti di silenzio, attimi durante i quali fummo affiancati da un bambino accompagnato dalla propria madre. Chiacchierarono animatamente fra loro mentre davano degli sguardi alla merce, finché non si decisero finalmente ad entrare nel negozio. Il mio piccolo amico li seguì con lo sguardo, allontanandosi poi con un’espressione mesta prima di sistemarsi la giacca logora che indossava. Era di una o due taglie più grande, e ricadeva a nascondergli praticamente metà cosce, fasciate da un semplicissimo pantalone scuro che, ne ero sicuro, riscaldava ben poco durante le fredde notti.
    Giacché non si era ancora deciso a rispondermi, come se stesse guadagnando in qualche modo tempo, mi ritrovai a chinarmi un po’ a mezzo busto verso di lui. «Non hai un posto dove andare, mo gille?» gli chiesi ancora. «Una casa, un luogo dove io possa accompagnarti?»
    Sebbene si fosse ritrovato ad osservarmi ancora una volta in silenzio, perso in chissà quali pensieri interiori, alla fine scosse il capo, facendo persino brevemente spallucce. «Poco tempo fa abitavo con altri ragazzi in una piccola baracca nei pressi del porto, signore», mi informò. «Molti sono stati decimati dalla febbre, altri sono scappati o si sono diretti proprio al Foundling».
    «Sei scappato anche tu, dunque?» domandai con fare ovvio e senza troppi giri di parole, guadagnandoci un rapido annuire.
    «Avevo paura a restar lì da solo la notte, signore», soggiunse un po’ spaventato. «Gli altri ragazzini non mi credevano, ma da quelle parti risuonano le voci dei morti».
    Risuonano le voci dei morti. Ripetei quelle parole più e più volte, nella mia mente, cominciando a pensare che quelle basse nenie che avevo udito per giorni, non fossero tutte frutto della mia immaginazione. Se dunque esistevano davvero, non ero stato affatto l’unico a sentirle. Però non mi sarei mai aspettato che ci riuscisse un piccolo umano come quello che avevo dinanzi.
    Mi puntellai ancora verso di lui, squadrandolo con attenzione in quegl’occhi un po’ sbiaditi, molto simili a quelli d’un cieco. Fu solo allora che mi accorsi che in essi c’era qualcosa di strano, e non era affatto il loro colore particolare. Era un qualcosa che non comprendevo, ma che, presto o tardi, mi sarebbe forse stato svelato. O almeno sembravo sperarci. «Dovrei portare anche te al Foundling, mo gille», cominciai, nonostante io stesso non fossi così sicuro delle parole che stavo pronunciando. «
È lì che dovrebbero stare i bambini senza famiglia».
    Contro ogni mia aspettativa si aggrappò alla mia giacca, costringendomi a drizzarmi per non perdere l’equilibrio a causa di quel suo scatto improvviso verso di me. «La prego, signore, non mi accompagni lì», supplicò.
    Lo guardai con la fronte aggrottata, se dal turbamento o dalla preoccupazione era difficile a dirsi. Quello scricciolo sembrava non volerne proprio sapere, dato il modo in cui si impuntava. «Quanti anni hai, mo gille?» mi ritrovai a chiedere di punto in bianco, e nonostante lo sconcerto che gli si dipinse in viso per quel cambio repentino di discorso, alzò gli occhi per fissarmi intensamente prima di rispondermi.
    «Dodici alla fine di questo mese, signore».
    Fui io a sconcertarmi, questa volta. Quella creatura che avevo dinanzi, e a cui avevo erroneamente dato qualche anno in più, era soltanto un bambino. Un bambino per il quale io, senza rendermene conto io stesso, avevo cominciato a provare quella sorta di bizzarro sentimento prima ancora che lo conoscessi. E forse fu proprio per quello che alla fine scossi il capo e gli allontanai delicatamente le mani dalla mia giacca, rilassando il viso. «Un motivo in più per non lasciarti per strada, allora».
    Adesso che avevo scoperto che era soltanto un semplice ragazzino, non sembravo più così ossessionato da lui e dai fantasmi come lo ero stato al principio. Volevo solo che restasse al sicuro, lontano dalle creature oscure che popolavano il mondo e dai pericoli che quella città racchiudeva nel suo vaso di Pandora fino al calar del sole, momento in cui veniva inevitabilmente scoperchiato.
    Quello che stavo osservando era un bambino, lasciare che lo accogliessero al Foundling Hospital come altri trovatelli era la cosa più giusta da fare. Allora perché quel qualcosa, in cuor mio, continuava ad agitarsi senza remore come un leone in gabbia? Che non fossi predisposto per buone azioni come quella, e il mio spirito stesse cercando di ricordarmelo insistentemente? Nay, se fosse stato soltanto quello non avrei di sicuro perso tutto quel tempo. C’era ben altro con cui avrei dovuto fare i conti, ma non avevo la benché minima intenzione di capire cosa, questa volta. Mai come in quel momento, desiderai solo restare all’oscuro di tutto come durante la mia vita mortale e tornarmene a casa.
    Guardai dunque quel bambino mentre intorno a me il brusio della folla continuava, ogni volto da esso composta diveniva soltanto una macchia sbiadita che si perdeva fra mille altre ancora. C’eravamo solo io e quel ragazzino, per il momento. Nessun altro.
    Dopo attimi che apparvero interminabili, mi ritrovai ad aprire di poco la bocca, dando vita a parole sommesse e quasi indecifrabili. «Dirigiti al Foundling a tua volta, mo gille. Non vi è nulla fra le strade, per te». E non attesi nemmeno che potesse rispondermi, accennando un saluto con il capo prima di dargli le spalle e incamminarmi per la mia strada. Che razza di creatura abbandonerebbe un bambino senza prestargli il soccorso adeguato, penserete voi. Ebbene, io vi risponderei: una creatura come me. Non avevo nessun obbligo nei suoi confronti, men che mai volevo averne. Essendo solo un essere umano, e non uno spettro come avevo erroneamente creduto quando l’avevo visto da lontano la prima volta, volevo che restasse il più lontano possibile da me e dal mio mondo. E, forse, ad impormelo era proprio quella bizzarra sensazione che avevo cominciato ad avvertire nei suoi confronti, e che solo in rarissime occasioni avevo provato. Come quando avevo veduto le meraviglie di Parigi, tanto per dirne una. Ma mai mi era successo con un essere umano. E questo mi turbava.
    Sperai che quel ragazzino mi ascoltasse, che comprendendo la sua posizione andasse a cercare asilo in quel luogo, e nemmeno mi voltai per accertarmi che fosse scomparso in quella direzione. Sentii solo i suoi piccoli passi mescolati con quelli della miriade di altre genti, il suo cuore che pompava sfrenatamente e che sembrava battere furente contro le pareti della gabbia toracica. Potei persino avvertire il flusso del sangue nelle sue vene, e il comprimersi dei polmoni ad ogni suo respiro. Sembrava che fosse qui, vicinissimo, nel mio stesso essere, quasi fossimo un’entità sola.
    Fu soltanto a quel punto che mi voltai, vedendolo farsi largo fra la folla per venirmi in contro. Ne rimasi ancor più esterrefatto, non comprendendo le ragioni che spingessero quel bambino a seguirmi con tutta quell’ossessione. Quando mi fu abbastanza vicino da poterlo squadrare dall’alto in basso, lo fissai quasi con distacco, come se quel modo di fare potesse aiutarmi ad allontanarmi davvero da lui, dal suo sguardo e dal suo cuore. «Cosa credi di fare, mo gille?»
    Lui mi guardò, e mai come in quel momento l’espressione che si dipinse sul suo viso mi sembrò quella d’un uomo che, nel corso della sua vita, aveva vissuto esperienze terribili. «Vengo con voi ovunque voi andiate, signore».
    Mi accigliai. «Te lo proibisco», ribattei subito, stornando lo sguardo e riprendendo ad incamminarmi senza più dargli peso. Quella mia originale ombra, però, a dispetto di ciò che io stesso avevo pensato, non si perse d’animo e continuò a seguirmi, qualsiasi strada o vicolo mi trovassi a percorrere. Aveva cominciato quasi ad innervosirmi. Se era davvero così, dunque, per quale motivo non l’avevo ancora scacciata, spaventandola come avrei dovuto? La ragione era semplice, ma la mia mente si rifiutava d’accettarla. Continuai difatti ad eludere quelle poche parole che non facevano altro che martoriarmi, affacciandosi insistentemente nella mia mente come se facessero pressione affinché io le ascoltassi. Scuotevo, però, di continuo il capo, tentando vanamente di scacciarle mentre avvertivo i passi di quel ragazzino sempre più vicini. Me lo ritrovai quasi al mio fianco quando rallentai, avendo intravisto con la coda dell’occhio l’appartamento che dividevo con Henry, il pittore.
    Raccolsi tutta la calma e la buona volontà di cui non avrei più disposto di lì a breve, sentendo distintamente il cuore di quel bambino perdere un battito quando voltai appena lo sguardo per fronteggiarlo. «Le nostre strade devono dividersi qui, mo gille beag [6]», gli dissi freddamente, sperando forse che quel mio tono di voce lo invogliasse ad indietreggiare e fuggire.
    Fece sì un passo indietro, ma dopo essersi portato entrambi le mani strette a pugno all’altezza del cuore, scosse il capo. E io sospirai, non comprendendo. «Perché ti ostini così?» domandai, senza ottener stavolta risposta alcuna. Quel ragazzino si limitava soltanto a fissarmi, ad osservarmi con quell’espressione un po’ confusa e quasi persa nel vuoto, esattamente come al prima volta che l’avevo visto. Nel profondo dei suoi occhi si leggeva un’infanzia tutt’altro che facile, e proprio per quel motivo avrebbe dovuto diffidare almeno un po’ degli estranei. Invece mi aveva seguito fin lì, fino alla mia dimora, e non sembrava intenzionato ad andarsene. E quel che era peggio era che io, nel profondo, non volevo lo facesse.
    Forse ciò che mi spinse a voltarmi del tutto verso di lui, e a fare qualche passo nella sua direzione, fu proprio quello strano sentimento che, nella mia mente, stava cominciando a compararsi con la stessa sensazione che provavo nel veder dipingere Henry. Forse in quel bambino c’era qualcosa che non attraeva me, bensì la bestia annidata nelle viscere, e che voleva disperatamente metter fine a tutta quella follia. E nel chinarmi un po’ verso di lui per poterlo fissare negli occhi, capii che il solo modo che avevo per sbarazzarmi di lui era ucciderlo, ma non ero intenzionato a farlo. Non ancora, almeno. «Come ti chiami, mo gille?» chiesi, stupendo ancora una volta me stesso e lui.
    Quel mio bizzarro amico ritrovò, però, ben presto il sorriso, e quel sorriso così innocente e bambinesco fu capace di rendermi inquieto ma... sereno. Qual spaventoso ossimoro. «William, signore», mi rispose infine, guardandomi con quei suoi grandi occhi azzurri.
    Mi accostai a lui e mi scostai un po’ il giaccone, così da poter coprire anche il suo corpicino. Era così basso e minuto che avrei potuto persino nasconderlo benissimo. «Allora vieni con me, William», pronunciare il suo nome mi parve così strano che cominciai ad incamminarmi come se quello potesse distrarmi, spronandolo a seguirmi. «C’è qualcuno che voglio farti conoscere».
    In molti si chiederanno perché mai, dopo tanti sotterfugi, avessi infine deciso di portare con me quel bambino, ne sono certo. La verità è che ero e sono tuttora un egoista. Volevo tenerlo lontano dal mio mondo, ma allo stesso tempo non volevo che, in quel modo, potesse allontanarsi da me. A quel tempo lo consideravo una preda piccola e appetitosa, un tesoro prezioso che andava custodito gelosamente finché non fosse arrivato il momento di mostrarlo al mondo.
    Ancora non potevo saperlo, ma avrei rubato giorno per giorno un pezzettino della sua anima e della sua purezza, sporcandola poco a poco, conducendolo sempre più dinanzi allo spartito d’una sinfonia che avremmo suonato fino alla fine dei nostri giorni. Non fu dunque con quei pensieri che lo portai in quel misero appartamento che puzzava di chiuso e trementina, ma, almeno al principio, l’avevo fatto credendo che in quel modo avrei placato le sensazioni che imperversavano nel mio animo.
    Ricordo ancora come se fosse ieri l’espressione che si dipinse sul volto di Henry nel vedermi tornare con quello scricciolo avvinghiato al tessuto dei miei pantaloni, mentre gli occhi azzurri vagavano curiosi tutt’intorno come per catturare qualsiasi particolare.
    Mi sembra ancora di vedere il luccichio in quegli stessi occhi quando s’erano soffermati sul mio piano, facendo sì che il loro possessore corresse nella sua direzione sotto lo sguardo ancora sconcertato di Henry, che aveva voltato il capo verso di me per cercar risposte. E cosa avevo mai fatto, io? Mi ero semplicemente limitato a stringermi di poco nelle spalle, alzando una mano per zittirlo prima ancora che potesse porgermi qualsiasi domanda. Forse fu la prima volta che lo vidi davvero umano, chi potrebbe dirlo. Nemmeno quando mi aveva incontrato e aveva in seguito scoperto quant’anni in realtà avessi, aveva mai avuto un’espressione simile. E, aye, non mi vergognavo per niente nel dire che in un primo momento mi aveva terribilmente eccitato. Aveva risvegliato il predatore che era assopito in me, e che gli aveva rivolto un’occhiata sardonica prima d’avvicinarsi a quel piccolo tesoro che si era arrampicato sullo sgabello.
    «Lei suona il piano, signore?» una domanda semplice e chiara, limpida proprio come l’essere che l’aveva posta. E in risposta soltanto un breve cenno del capo, mentre la creatura dentro di me si dimenava e si dibatteva, tentando di liberarsi, comparendo nel mondo per un breve attimo sottoforma d’un sorriso
.





[1] Con questo titolo si intende la nona sinfonia in Re minore di Beethoven.
Venne completata nel 1824 e, nell’ultimo movimento, include persino una parte dell’ode An die Freude, l’Inno alla gioia di Friedrich Schiller.
La sinfonia è una delle opere più note di tutta la musica classica ed è considerata uno dei più grandi capolavori di Beethoven, che l’ha composta quando si era ritrovato completamente sordo.
 
[2] Anche se è il nome della campana principale del Grande Orologio di Westminster, viene chiamata in questo modo l’intera torre dell’orologio, costruita in stile gotico (Particolare corrente architettonica nata in Francia e diffusasi poi in tutta Europa) e alta oltre 96 metri.
 
[3] In questo passaggio non si intende ovviamente del cibo umano, come si potrebbe erroneamente pensare, bensì piuttosto del sangue o delle anime.
Essendo difatti il protagonista una sottospecie di demone, l’associazione risulterebbe fin troppo facile da fare.
 
[4] Letteralmente significa “Ragazzo mio” ed è gaelico scozzese.

[5] Ricovero fondato nel 1739 come ospizio per bambini poveri o trovatelli, poveri o meno abbietti.
I primi bambini vennero ammessi al Foundling Hospital il 25 marzo 1741, in una casa temporanea dislocata a Hatton Garden. In un primo momento ai genitori che abbandonavano qui i figli perché non potevano mantenerli, veniva semplicemente richiesto di lasciare al collo dei bambini un segno di riconoscimento tramite una piccola collana a ciondolo. Il ricovero era dotato di personale anche medico-assistenziale per la prevenzione o la cura di malattie.
Attivo nell’ospedale era anche il servizio musicale, che originariamente veniva portato avanti unicamente dai bambini ciechi, ma divenne famoso per la generosità di George Frideric Handel, che sovente si impegnò gratuitamente ad eseguire il suo Messiah presso l’ospedale.
 
[6] Letteralmente significa “Mio piccolo ragazzo” ed è gaelico scozzese.  



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** [ Atto II, scena II › Sinfonia ] Gocce d'inchiostro su cenere nel vento ***


Dè a tha thu_5
SCENA II: GOCCE D’INCHIOSTRO SU CENERE NEL VENTO
 
    Non capii esattamente nemmeno io come tutto fosse iniziato, oppure quando avessero cominciato a susseguirsi poi giorni, mesi, anni.
    Avevo veduto quel piccolo fiore iniziare a sbocciare dinanzi ai miei occhi, e il momento in cui sarebbe stato raccolto aveva cominciato a farsi sempre più vicino. Durante quei mesi che aveva passato in nostra compagnia, William aveva legato parecchio con Henry, il quale, dopo essersi finalmente abituato a quella sua strana presenza, aveva di poco messo da parte pennelli e tele per insegnargli ciò che sapeva della vita e del mondo. Gli aveva parlato delle bellezze di Parigi, dei boulevard che di primo mattino odoravano di pane appena sfornato, persino della grandezza della Torre Eiffel e di come da lassù le luci della città risplendessero, simili a tanti piccoli diamanti, al calar della sera.
    Non erano poi state rare le volte in cui, quando tornavo dai miei lunghi e solitari viaggi, trovavo quello stesso Henry intento a leggergli testi in francese - che spesso William non capiva - o vecchie favole, quasi fosse un padre premuroso che accudiva il figlio. Quel lato di lui non l’avevo mai visto e mai avrei creduto esistesse, sebbene lo conoscessi ormai da lunghi anni. Tornava ad essere se stesso solo quando sentiva avvicinarsi l’ora di dipingere. E quando essa scoccava nel suo orologio interno, scacciava rapidamente William e gli imponeva di cercarsi qualcos’altro da fare, tornando ben presto a lavorare su quelle vecchie tele. Quel suo modo di fare, però, non faceva altro che incuriosire quel ragazzino, che gli si avvicinava di soppiatto per spiare il suo operato.
    Più e più volte l’aveva pregato d’insegnargli anche quello e, nonostante i tentennamenti iniziali, Henry aveva infine ceduto. Gli aveva mostrato come impastare i colori, come stenderli poi sulla tela per creare uno sfondo di base, spiegandogli in seguito come avrebbe dovuto impostare i soggetti da rappresentare, ottenendo però risultati tutt’altro che soddisfacenti. Erano state molte di più le tele impiastricciate da William che quelle dipinte da Henry nell’ultimo periodo.
    Ciò in cui quel nostro piccolo amico eccedeva era la musica. Se ci rifletto adesso, forse, posso comprendere fin troppo bene il motivo per cui cominciava a suonare non appena gliene si presentava l’occasione. La sua vita, fino al momento del nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento. Nessuna sfumatura, nel corso dei suoi dodici anni, soltanto una vita bianca e nera. Una vita bianca e nera che fino ad allora gli era bastata e che aveva poi cominciato ad andargli stretta, non lasciando però che la passione per il piano si spegnesse a poco a poco come era accaduto per tutto il resto.
    L’avevo trovato seduto dinanzi al piano, un giorno, esattamente come quando l’avevo portato lì per la prima volta. Aveva cominciato a pigiare su quei tasti un po’ alla rinfusa e, non capendo cosa stesse facendo, al principio avevo persino temuto che potesse scordarmelo. Invece aveva in seguito iniziato a dar vita ad una melodia quasi indefinita, mai sentita fino ad allora, e non aveva smesso finché non mi aveva visto con la coda dell’occhio, spaventandosi. Quelle sue scuse frettolose mi avevano fatto sorridere. Si era strofinato gli occhi, rossi probabilmente per la mancanza di sonno o altro, ed era sceso dallo sgabello, pronto a sgattaiolare via in fretta. Io l’avevo fermato, avvicinandomi e invitandolo ad accomodarsi ancora una volta. E nel sentirlo così vicino, battito contro battito, mi aveva colto una sensazione di quiete e pace che mai, dal momento in cui ero rinato in tale forma, mi aveva avvolto. Sotto il suo sguardo incantato, avevo poi cominciato a suonare come non avevo mai fatto, probabilmente perché, in cuor mio, ero sempre stato un esibizionista ammaliatore e volevo che da quella mia esibizione ne restasse esterrefatto. Oltre ad Henry, però, fino a quel momento nessun altro aveva mai avuto il privilegio di sentirmi suonare. C’erano stati sì momenti in cui da giovane avevo intrattenuto mio padre con la cornamusa, ma quei tempi erano ormai un ricordo che andava pian piano svanendo.
    Avevo dunque trovato strano il mio aver un pubblico così giovane, da poco entrato nei primi anni della pubertà. Bastava che muovessi anche soltanto di poco le mani e lui le seguiva con lo sguardo, quasi rapito, intonando di tanto in tanto qualche bassa melodia sfruttando le vibrazioni delle corde vocali. Ne era uscita una musica senza alcun senso, in realtà, ma nessuno di noi due, quel giorno, aveva aperto bocca per farlo notare all’altro.
    Forse ciò che mi fa ancora ridere è il fatto che fosse ormai divenuto quasi un rituale per entrambi. Quando la sera ritornavo nell’appartamento mi si presentava dinanzi agli occhi sempre la stessa scena: Henry seduto sul proprio sgabello, intento a dipingere con una concentrazione tale che sembrava fuori dal mondo, e William al piano che lo intratteneva con la sua musica, come un tempo facevo io, esercitandosi persino nella Sonata in Sol maggiore [1]. Non appena si accorgevano della mia presenza si voltavano entrambi a guardarmi, e quello che era ormai diventato il mio piccolo tesoro mi sorrideva e, scendendo dallo sgabello, mi correva in contro, afferrandomi una mano per portarmi al piano lui stesso.
    Era una delle poche libertà che gli concedevo, quella. Sapevo quanto amasse sentirmi suonare, quasi più di quanto non adorasse vedere Henry dipingere. Fino a quel momento non aveva mai visto un quadro, o almeno così ci aveva raccontato. Aveva solo qualche vago ricordo di quella musica particolare che di tanto in tanto si dilettava a suonare, ma non rammentava da dove essa provenisse.
    Anche chiedergli della sua famiglia non aveva portato a nessun passo avanti. Sapeva soltanto che i suoi genitori erano entrambi morti a causa di una malattia genetica, ma non aveva idea di quanto tempo avesse passato per strada. Guardando i calli sulle sue dita si poteva pressoché dedurre che, fin da piccolo, aveva compiuto in nero qualche lavoro manuale, però era difficile capire quando avesse realmente iniziato. Molto probabilmente la figura più vicina ad un padre che aveva avuto in quegl’ultimi anni, era stato un certo Beaver, uno dei ragazzi che avevano occupato con lui la catapecchia in cui aveva vissuto fino a quel momento. Ci aveva raccontato che era stato questo Beaver a provvedere a loro, pensando lui stesso a rubare del cibo per farli mangiare. A portarlo via era stata la malattia, e lui e gli altri bambini erano rimasti nuovamente soli. Forse era anche per quel motivo che molti avevano deciso di andare al Foundling, chi poteva dirlo. Su questo punto, William non era stato mai abbastanza chiaro.
    La malattia, però, a dispetto di ciò che noi tutti avevamo creduto, non aveva risparmiato neanche lui. Quel bagliore morente, che sempre più di frequente gli vedevo negli occhi, ne era la prova tangibile. Spesso, sempre più spesso, sembrava sforzarsi nel mettere a fuoco oggetti e persone, e a nulla era servito munirlo di un paio d’occhiali. Solo in seguito scoprimmo che quel suo problema era legato ad una malattia della vista [2], ma a quel tempo non c’era alcun modo per curarla. Ai giorni nostri basterebbe intervenire chirurgicamente per sostituire il cristallino, ma, nel novecento, chi mai avrebbe potuto fare una cosa del genere? Io non conoscevo nulla di medicina, e anche sapendo almeno le basi non avrei comunque potuto far nulla per far sì che la vista di William migliorasse.
    Io ed Henry potevamo soltanto assistere impotenti all’avanzamento progressivo di quella malattia che lo privava, giorno dopo giorno, del senso visivo. Se ci fossimo realmente trovati tutti e tre in questo ventunesimo secolo, nel piccolo appartamento a St. Louis che utilizzo quelle rare volte in cui, come adesso, mi ritrovo a mettere nero su bianco le esperienza vissute in tutti quegl’anni, probabilmente il mio William non avrebbe sofferto in quel modo. Aveva perso quasi del tutto la vista all’età di diciassette anni. Compiva sforzi sempre maggiori, e nemmeno il mio decidere di portarlo in giro per il mondo era servito a qualcosa. Volevo che vedesse le bellezze delle città europee prima che non potesse più farlo, ma nonostante la felicità iniziale che gli si dipingeva in viso quando si ritrovava a vedere cose come la Chiesa di S. Mattia [3] a Budapest, la Oude Kerk [4] di Amsterdam o l’interno del Louvre [5] a Parigi e i suoi meravigliosi quadri, nulla poteva nascondere ad entrambi la realtà della situazione. Ma lui aveva affrontato quel suo destino a testa alta, senza smettere un solo istante di vivere e sorridere. 
    Se ci ripenso adesso, non l’avevo mai sentito lamentarsi. Mai una volta che avesse fatto una qualche scenata, che avesse pianto disperatamente o imprecato contro una qualsiasi invisibile presenza. Niente. Semplicemente, aveva accettato il fatto che sarebbe diventato cieco e che, con molta probabilità, la malattia che l’aveva privato dei suoi genitori avrebbe portato via anche lui. Non sapeva quando sarebbe accaduto e nemmeno gli interessava, quel che aveva fatto era stato solo continuare a godersi ogni singolo giorno o attimo che si susseguiva, uscendo sempre più spesso e volentieri e riuscendo persino a portarsi dietro Henry, che da quanto ricordassi non aveva visto la luce per anni.
    Quel pittore stravagante non era stato per niente contento della decisione di William, ma l’aveva assecondato soltanto in onore di quell’affetto che aveva cominciato a provare per lui. E in fin dei conti lo comprendevo. Avevamo visto quel bambino crescere, diventare quasi un uomo, maturare dinanzi ai nostri occhi. Ma quella spensieratezza e quell’innocenza che l’avevano sempre caratterizzato non era mai scomparsa, anzi, sembrava persino essersi rafforzata. E c’erano momenti in cui lo guardavo da lontano, mentre se ne stava semplicemente seduto sul pavimento tra fogli e scatoloni a leggere, o quando ci ritrovavamo ad uscire tutti e tre insieme per dirigersi al Victoria Park [6], dove si accomodava accanto ad Henry e l’osservava dipingere quei nuovi soggetti che richiamavano spesso l’attenzione di molti. Era rapito dal modo in cui rappresentava su tela l’enormità degli spazi verdi presenti in quel parco, o quando si concentrava sui laghetti e sulle piccole onde create a pelo d’acqua dalle folaghe. E io lo vedevo lì, seduto vicino al pittore, un esserino entrato nella nostra vita senza nessuna ragione, ma che sembrava aver portato un po’ d’equilibrio nella vita di entrambi. C’erano momenti, però, in cui metà della mia anima non riusciva a sopportare la sua vicinanza, ed era proprio in quelle occasioni che mi allontanavo per giorni e giorni da loro, cercando conforto per quel mio cuore maledetto.
    Fu proprio durante quei periodi che uccisi il primo essere umano e ne assaporai il sangue. Era stato un furfante e un uomo di poco conto, in realtà, ma il privarlo della vita innescò in me una reazione spaventosa. La bestia aveva cominciato a ribollire e a chiedere sempre di più, godendo del sapore malvagio che possedeva l’anima di quello sventurato. Ma la mia ragione, quella parte umana che era morta in quello sprazzo d’erba in mezzo al nulla delle Highland secoli prima, aveva cercato in tutti i modi di ricacciarla indietro. E non ero tornato a casa finché non ci ero realmente riuscito. Avevo passato giorni d’inferno, attimi in cui sentivo il cuore battere forte e vedevo le vene dei polsi pulsare contro la pelle sottile, ed ero sempre stato più che sicuro che, se mi fossi visto allo specchio, l’immagine che quell’oggetto avrebbe riflesso non sarebbe stata quella a cui ero sempre stato abituato. Se sono qui a raccontare tutto questo, lo devo solo alla mia forza di volontà, che mi aveva fatto ricordare chi ero stato e non cos’ero diventato.
    La paura che ciò potesse succedere ancora, però, al principio si era insinuata nel mio animo. Spesso, quando vedevo William in compagnia di Henry, dentro di me montava una rabbia così cieca che mi ci voleva tutto il mio autocontrollo per ritornare in me. A quel tempo non potevo sapere che quella sorta di gelosia era dovuta al sentimento che, nel mio essere, avevo cominciato a nutrire per William. Dirlo adesso ad alta voce non mi fa più lo stesso effetto che mi faceva durante quei giorni, ma, anche a causa della mentalità dell’epoca, per me era stato più che difficile da accettare. Non potevo credere che io potessi provare sentimenti simili per un ragazzino. E non soltanto per il semplice fatto che, in fin dei conti, ero un mostro. Lo trovavo deplorevole, immorale, oltremodo controproducente, e il solo pensare che quei miei pensieri e sentimenti potessero sporcare un’anima candida come la sua, mi mandavano letteralmente in bestia.
    Se fosse stato l’animo di qualcun altro... non mi sarei fatto problemi, lo ammetto. In fondo, che senso avrebbe avuto? Adesso che comprendo cosa sono davvero, me ne importa relativamente poco. Avrei potuto anche contaminare ogni singola anima delle persone che abitavano a Londra, ma non la sua. La sua doveva restare immutata e così era stato, fino al giorno in cui si era spento per sempre e ci aveva lasciati entrambi.
    Ricordo perfettamente quegl’ultimi anni, quei momenti in cui, durante la notte, ci sedevamo in un angolo impolverato della stanza e, con il solo ausilio d’una lampada ad olio, illuminavamo quel piccolo rifugio e cominciavamo a leggere, aiutando anche William a farlo quando la vista gli si stancava troppo. Oppure quando, mentre Henry dipingeva come suo solito, noi due occupavamo il nostro posto, dinanzi al piano, e io gli guidavo le mani sui tasti giusti finché non ne imparava le posizioni, cosicché potesse suonare liberamente pur non potendo vedere alla perfezione. Imparò ben presto ad improvvisare la Sonata anche ad occhi chiusi sebbene il risultato fosse tutt’altro che soddisfacente, visto il modo in cui suonava di solito. Eppure non per questo si perdeva d’animo, insistendo ancora e ancora finché non crollava quasi mezzo addormentato sulla tastiera. E a quel punto era Henry a metterlo a letto, augurando frettolosamente la buonanotte anche a me prima di coricarsi a sua volta. Ma io non dormivo. Io vegliavo su quel mio piccolo tesoro che dormiva placidamente, stanco ma felice. Il viso bambinesco e spettrale con cui l’avevo conosciuto aveva lasciato spazio ai futuri lineamenti d’un uomo, ma nessuno di noi tre, a quel tempo, avrebbe mai potuto sapere che non lo sarebbe mai diventato.
    A volte, quando lo sentivo parlare con Henry mentre io accordavo il piano, si ritrovava a chiedergli come mai non avesse ancora famiglia, ricevendo sempre la solita risposta. «Non fa per me», diceva Henry, e quello io non lo contestavo affatto. Come padre se l’era cavata bene, non lo negavo, ma non ce lo vedevo proprio ad occuparsi a tempo pieno d’una famiglia tutta sua. E William non insisteva oltre, fantasticando però su come sarebbe stato l’aver moglie e figli, lasciando dentro di me una bizzarra sensazione d’amarezza. Quando poi era Henry a rigirargli la domanda, chiedendogli se lui avesse voluto metter su famiglia, William rispondeva che aveva già tutto e che dunque non gli interessava. La verità era che sapeva che avrebbe solo fatto soffrire la donna che avrebbe sposato in futuro, lasciandola da sola troppo prematuramente. Era un ragazzino e già ragionava come un uomo, in alcuni momenti. Quella, però, era una cosa che mi rendeva orgoglioso di lui, e che non faceva altro che rafforzare ciò che avevo già cominciato a provare anni addietro.
    Forse quella mia convinzione fu intensificata anche da William stesso, persino oggi non saprei darmi nessuna risposta. Ma quella lontana sera la ricordo ancora, ed è tuttora il ricordo più prezioso che ho di lui. Avendo cominciato a dipingere per strada, Henry era stato subito notato da un grande stimatore d’arte dell’epoca, il cui nome in questo momento mi sfugge. Era stato dunque invitato a presenziare al sontuoso banchetto che l’uomo avrebbe tenuto nei pressi della sua residenza, lasciando me e William da soli in casa nonostante la riluttanza che l’aveva animato. Non se la sentiva di andarci, infatti, ma non perché temesse un possibile pubblico. Essendo peggiorato, William aveva cominciato a vedere unicamente le sagome di cose e persone, e la febbre che aveva contratto a causa del freddo non aveva giovato. Si era convinto solo dopo molte insistente del malato in questione, che lo aveva rassicurato come solo lui sapeva fare. C’ero io con lui, aveva detto, e ciò aveva fatto sì che Henry si decidesse.
    Ore dopo avevo controllato che William si fosse addormentato, e avevo cominciato a suonare da solo come ormai non facevo da tanto, chiudendo persino gli occhi per aiutare la concentrazione. E mi ero letteralmente estraniato dal mondo, giacché non avevo nemmeno avvertito l’arrivo di William poco tempo dopo. Non aveva fatto nessun rumore e mi si era avvicinato, restando semplicemente immobile fino a quando non mi ero reso conto della sua presenza.
    Non avevo smesso di suonare, ma avevo soltanto lanciato un’occhiata nella sua direzione prima di tornare a fissare distrattamente dinanzi a me. «Cosa stai ascoltando, mo chridhe [7]?» gli avevo chiesto in tono scherzoso, avendo intravisto nei suoi occhi ormai opachi un baluginio di serenità. E lui, socchiudendo le palpebre e sorridendomi, mi si era avvicinato per prendere posto al mio fianco, stando attento ad ogni singolo passo che faceva.
    «La tua musica», aveva sussurrato poi. «
È allegra e vivace, ma fra le note nasconde anche tristezza e malinconia».
    Quelle sue deduzioni mi avevano fatto sorridere a mia volta, a dir poco compiaciuto. «
È una vecchia canzone del mio paese natale», gli avevo confessato. «Fino a questo momento, non l’avevo mai suonata con uno strumento del genere».
    «È bella», una constatazione semplice e chiara, pura e cristallina come l’acqua d’un ruscello delle Highland. «Mi piacerebbe vedere la tua casa, un giorno». Ma sapevamo entrambi che quel suo desiderio non si sarebbe mai realizzato. Anche se l’avessi portato in Scozia, quella Scozia che non visitavo da secoli, lui non sarebbe mai riuscito a vederne le bellezze, ad accarezzare con gli occhi le brughiere e le lowlands.
    «Ti ci porterò, mo gille». Quelle erano false speranze, lo sapevamo bene, ma avevo lo stesso continuato a parlare. «Ti sveglierai tutte le mattine con il canto della pernice bianca, che si poserà sul davanzale della tua finestra; verrai accarezzato dal piacevole vento che si innalza dalle brughiere, sentendone la frescura sulla pelle, e vedrai quegli stessi luoghi sprizzare vita e colori, uno spettacolo che lascia senza fiato ogni nuova estate; ci dirigeremo sui gran piani, lungo la costa occidentale dove ogni zona pullula di rododendri e azalee, e ti mostrerò le macchie di felci e i cespugli di ginestre, spiegandoti le loro proprietà; ti porterò nei boschi, così che tu possa osservare i pini e i larici più alti e robusti che tu abbia mai visto, e andremo a caccia di lepri e volpi, di cervi rossi e di galli cedroni, e ti farò sentire il buon profumo degl’iris selvatici. I miei occhi saranno i tuoi occhi, e assaporerai quella libertà che solo nelle Highland è possibile trovare».
    Gli avevo visto spuntare un nuovo luminoso sorriso sulle labbra, a quelle mie parole, e nonostante l’espressione sul suo viso fosse apparsa triste e spaesata, era stato con quello stesso sorriso che si era voltato a guardarmi con quei suoi occhi ormai privi di luce.
    «Fammi innamorare di questo tuo mondo, Seumas», mi aveva proposto, pronunciando il mio nome per la prima volta e con voce ferma e melodiosa. «Fammi innamorare del tuo mondo, della tua casa, di tutte quelle bellezze a cui hai appena accennato. Fammi innamorare della tua musica».
    Fammi innamorare della tua musica. Quali pretenziose parole. Ma erano state proprio quelle a farmi capire quale fosse stato, tempo addietro, il sentimento che mi aveva spinto a tenerlo con me anziché cacciarlo. Probabilmente, però, se l’avessi fatto, non avrei sofferto in quel modo non appena ci lasciò.
    Si era spento del tutto a soli diciannove anni. Aveva tenuto duro finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica assurda e geniale che era stata la sua vita fino a quel momento, ballando su di essa quel che restava dei suoi anni e assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso. Ma era soltanto un essere umano, e il suo orologio interno si era fermato del tutto. Non avevo fatto nemmeno in tempo a realizzare quel suo ultimo desiderio, quello di portarlo nella mia bella e amata Scozia. In un primo momento non ero quasi riuscito a crederci, in realtà. Sembrava che mi rifiutassi di assimilare quella notizia, quell’avvenimento che aveva accartocciato il nostro piccolo e idilliaco mondo.
    Se io non avevo accettato il concetto della sua morte, Henry era stato letteralmente distrutto dal dolore. Aveva cresciuto quel ragazzo come un figlio, accudendolo nei lunghi mesi in cui io partivo per i miei viaggi, e il rendersi conto che ormai non c’era più aveva intaccato quel poco equilibrio mentale che gli era rimasto. Il dolore l’aveva reso folle, e non passarono molti anni prima che, forse stanco di vivere con quella pazzia in corpo - che non gli permetteva neanche più d’esprimere la sua arte, la sola cosa che avesse mai fatto -, si togliesse la vita. Ed io, nuovamente solo, non ero riuscito a restare un attimo di più in quell’appartamento pregno di ricordi.
    Avevo solo voluto provare a dimenticare, in seguito. Quando nella mia mente tornavano a riaffacciarsi prepotentemente quei momenti vissuti come un comune essere umano, la metà più debole della mia anima cadeva in pezzi. In realtà parecchie cose le ho volutamente dimenticate per non soffrire, anche se ammetto che questa è una cosa che è servita a ben poco. I ricordi più dolorosi e tristi sono rimasti, proprio come quello legato al mio ritorno a casa, ad esempio. Non avevo dimenticato neanche per un istante la promessa che avevo fatto al mio William. Prima che il destino ce lo strappasse così violentemente via, rubando quell’anima che con tanta fatica avevo coltivato negli anni, gli avevo promesso che l’avrei portato alla mia casa, in Scozia. E anche se così non era stato, ero comunque partito dopo secoli di lontananza per tener fede a quel patto.
    La sensazione che provai nel rivederla è tuttora impossibile da definire. Nonostante fosse passato tutto quel tempo, erano ben poche le cose che erano cambiate davvero: volgendo lo sguardo a quel cielo azzurro che sovrastava le Highland, avvolte nella quiete come secoli or soro, si potevano vedere le pernici e gli altri uccelli che si libravano liberi in volo, sempre più su fra quelle nuvole soffici e bianche mentre si lasciavano andare ai loro canti e stridii; bastava poi abbassare le palpebre e, figurandosi quelle meravigliose lande nella mente, respirare a fondo per sentire i mille odori della brughiera, e udire i richiami degli animali che popolavano i dintorni. Uno spettacolo magico che mai avrei pensato di rivedere ancora, e che avrei tanto desiderato poter vedere con lui, con William, il pallido fantasma da cui ero stato ammaliato.
    «Siamo a casa, mo chridhe», avevo sussurrato al vento, sentendolo carezzarmi le guance con dita leggere e delicate velate di tristezza. «Siamo a casa». E da quel momento in poi, seppur separati dal tempo e dalla morte, lo saremmo stati davvero.


 
 
 
DÈ A THA THU A’ CLUINNTINN, MO CHRIDHE?
FINE






[1] Venne composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa parte delle sei sonate per pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre tempi.
 
[2] La malattia a cui si fa riferimento è la cataratta. Consiste nell’opacizzazione del cristallino, che conduce alla progressiva perdita della vista. È più frequente con l’avanzare dell’età, ma ci sono anche casi di cataratta in età più giovane.
I sintomi sono generalmente caratterizzati da un offuscamento visivo globale, ma il disturbo della vista è tanto più evidente quanto più estesa e più intensa è l’opacizzazione del cristallino.
La cataratta totale rende praticamente ciechi ed è necessario intervenire chirurgicamente, sostituendo il cristallino opacizzato con una lente artificiale intra-oculare, posizionata dietro all’iride. In passato erano stati commercializzati colliri destinati a rallentare il processo di opacizzazione del cristallino, ma tali prodotti nel tempo non hanno dimostrato una reale efficacia clinica.
 
[3] Si erge sulla piazza della Santissima Trinità, e nonostante si chiamata con il nome dell’apostolo Mattia, l’edificio è dedicato alla Madonna.
Fu costruita tra il 1255 e il 1269 per la volontà del re Béla IV d’Ungheria. Nel 1541 venne trasformata in una moschea dai turchi, per poi passare ai gesuiti. Nel 1873 e il 1896 fu oggetto di restauri da parte dell’architetto Frigyes Schulek, che la ricostruì parzialmente in stile neogotico.
E’ uno degli edifici più interessanti della città di Budapest e patrimonio artistico e turistico della città.

[4] In olandese significa “Vecchia chiesa”, ed è l’edificio parrocchiale più vecchio di Amsterdam.
Fu consacrata nel 1306 dal vescovo di Utrecht, e le sue fondamenta vennero gettate su un cumulo artificiale, ritenuto il terreno più solido in quella provincia paludosa.
Il disegno originale dell’edificio era audace e la chiesa era in piedi da solo mezzo secolo quando vennero fatte le prime modifiche, le navate laterali vennero allungate e avvolte attorno al coro a semicerchio, così da sostenerne la struttura.
Non molto dopo l’inizio del XV secolo alla chiesa vennero aggiunti i transetti nord e sud, creando la pianta a croce. Il lavoro su questi rinnovamenti venne completato nel 1460, anche se è probabile che l’avanzamento venne interrotto dai grandi incendi che colpirono la città nel 1421 e nel 1452.
 
[5] È uno dei più celebri musei del mondo, e come se non bastasse la vera origine del termine Louvre è dibattuta.
Il palazzo che ospita il museo fu originariamente costruito durante la dinastia dei Capetingi, sotto il regno di Filippo II, e attualmente la collezione del museo comprende alcune delle più famose opere d’arte del mondo, come la “Gioconda” e la “Vergine delle Rocce” di Leonardo da Vinci, “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis David, “La Libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix, la “Venere di Milo” e la “Nike” di Samotracia.
 
[6] Situato nella zona dell’East End, è uno dei parchi comunali della città di Londra.
Il parco fu aperto al pubblico nel 1845. Questo grande parco è simile a Regent’s Park ed è considerato da alcuni come il miglior parco dell’East End. È attraversato su due lati da canali: il Regent's Canal e l’Hertford Union Canal.
In esso sono rimasti pezzi del vecchio London Bridge, demolito nel 1831, posti accanto all’Hackney Wick, monumento celebrativo della Seconda guerra mondiale.

[7] Letteralmente significa “Cuore mio” ed è gaelico scozzese. Si tratta inoltre di un ovvio richiamo al titolo che fa da completo perno al racconto.





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia ha partecipato al contest indetto da Ale2 e ThePhantomAgony, Citazioni di Alessandro Baricco, e si è stranamente classificata prima. Viene quasi da chiedersi come diavolo sia venuta fuori una roba del genere, in verità. Ebbene, non ne ho la più pallida idea nemmeno io, se devo essere sincera.
Potrei dire che quando ho letto la frase che ho scelto e che ho seminato un po’ ovunque nella storia, tipo in questo passaggio “La sua vita, fino al momento del nostro incontro, non aveva avuto altri colori se non quelli dei tasti di quello strumento. [...] come era accaduto per tutto il resto” o in questo “Aveva tenuto duro finché aveva potuto, continuando a dar vita a quella musica assurda e geniale [...] assaporando la felicità fin dove gli era stato concesso”, ho avuto una sorta di visione, ma sarebbe quasi come mentire. Non lo so affatto come questa storia sia stata stesa. Diciamo più che altro che quando ho aperto il foglio Word, le parole sono scivolate da sole e hanno preso vita propria, sarebbe di sicuro la versione più giusta. Riserva in sé un pizzico di me - come ogni mia storia, ma questa ne ha un po' di più -, e devo dire di essermi particolarmente affezionata a tutto il background.
Ammettiamolo: non tutti i personaggi mostrati sembrano sani di mente... specialmente il protagonista principale, che non si capisce esattamente cosa sia. Avevo in mente una spiegazione abbastanza illogica per spiegare la sua natura, dunque ho voluto giocare più sulle spiegazioni avvenute nelle note anziché tentare di darne una piuttosto incoerente io. Possiamo piuttosto prenderlo come una sorta di cadavere posseduto da un demone, e dunque ancora in grado di muoversi, o come un hanyou. Per fare un esempio, basti pensare a come sia nato Naraku di Inuyasha, sebbene a quei tempi si pensasse che la possessione demoniaca non fosse rara.
Avrei voluto dare una spiegazione migliore, ma non c’è un vero e proprio modo per spiegare la nascita contorta di questo protagonista, di cui viene rivelato il nome soltanto verso la fine della storia. Se ci si fa caso, però, viene vagamente accennata la sua natura, precisamente in questo pezzo “Ma d’altra parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne il motivo. [...] Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata”. Nella mia mente contorta, mentre procedevo con la stesura, mi aveva in qualche modo ricordato quando Sebastian di Kuroshitsuji attende di gustare l’anima di Ciel. Dunque, per l’appunto, può essere considerato una sorta di demone.
Spero che in un qualche contorto modo vi sia piaciuta, vi lascio al commento della giudice:


GIUDIZIO
Grammatica, sintassi e stile: Credo mi troverai estremamente breve nei miei commenti, ma come dire, mi hai preso talmente tanto che non riuscirei ad essere prolissa nemmeno volendolo.
Non ho trovato errori, la storia è scorrevole, forse soltanto la lunghezza dopo un po’ può stancare il lettore, ma letta in capitoli separati e non tutta in una volta, credo dia tutt’altro effetto. Non so commentare, mi è sembrato tutto molto appropriato, dalla scelta del lessico, ai tempi che hai voluto dare alla vicenda. Forse l’unico appunto, da farmi meritare un ‘senti chi parla’ è l’uso delle virgole, che in qualche caso mi sembrava errato, ma essendo anche io confusa su questo tema non mi sento di farlo valere come errore.
Voto: 9,5

Originalità: Qui potrei scrivere un tema, ma non lo farò, tutta la fan fiction per me è originale, dai personaggi, alle interazioni che hai creato tra di loro, dall’attenzione incredibile che hai dato a tutti i riferimenti che hai messo, all’atmosfera forse un po’ gotica del tutto, alla vicenda stessa. Non riesco a commentare con parole più positive, anche la relazione che hai fatto instaurare tra i due protagonisti, così velata, è decisamente perfetta.
Voto: 9

Personaggi: Adorati tutti dal primo all’ultimo. Dal protagonista ed il suo cambiamento in una soprannaturalità che non conosce ma che è costretto a vivere, al pittore in cerca d’ispirazione che poi con il piccolo William finisce per diventare paterno e si lascia coinvolgere in una maniera inaspettata e totalizzante. E poi William, mi ha davvero coinvolto in una maniera inaspettata, è semplice ed ingenuo come vuole la sua età, però riesce a capire cose che nemmeno i due improvvisati genitori capiscono, soprattutto direi ‘ti strappa l’amore dal cuore’. Un’originale è terribile quando si tratta di caratterizzare personaggi, perché non si ha mai la certezza di quello che il lettore percepirà, io dico che è stato un lavoro che ha fatto entrare i tuoi personaggi dritti nella mia testa.
Voto: 9,5

Uso della citazione: Ammetto che su questo campo ho dovuto rileggere la fan fiction ed i tuoi commenti più volte per riuscire a capire come l’avevi inserita. Poi ho avuto l’illuminazione e devo dire che è stato un modo molto elegante per inserire una citazione estremamente complessa.
Anche qui mi ritrovo a parlare poco, forse avrei enfatizzato ancora di più i passaggi in cui risulta chiara l’ispirazione dovuta alla frase scelta, ma è un commento personale, quindi assolutamente da prendere come un’annotazione.
Voto: 8,5

Totale: 36, 5




Spero alla prossima ♥
_My Pride_



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=655298