Satisfaction - Was it better when it was worse? di Aching4perfection (/viewuser.php?uid=50115)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** At the end of the day... you wait for rain ***
Capitolo 2: *** Coward ***
Capitolo 3: *** The delicious tickle ***
Capitolo 4: *** Bad Memories ***
Capitolo 5: *** New Troubles ***
Capitolo 6: *** Dirty Little Truth ***
Capitolo 1 *** At the end of the day... you wait for rain ***
At the end of the day... you wait for rain
Due colpi secchi mi fecero sussultare, scrollandomi dal parziale stato catatonico nel quale mi ero calata circa venti minuti prima e costringendomi ad abbandonare David Boreanaz proprio mentre mi stava consegnando il pass per quella che prometteva di essere l'ora più orgasmica della mia vita.
Altri due colpi, stavolta più insistenti e ravvicinati. Spero vivamente che, chiunque sia, abbia avuto una validissima ragione per portarmi via dalle braccia di David Boreanaz, ed ero disposta ad accettare solo scuse che includevano almeno un morto o la fine del mondo...
Mi alzai pigramente dal divano facendo molta attenzione a non svegliare Andrew e Lidia, i quali dormivano tranquillamente l'uno accanto all'altra (beati loro che non si svegliavano neanche con le cannonate) sul giaciglio di cuscini che Andrew aveva ammucchiato per giocare, e andai ad aprire la porta, ritrovandomi faccia a faccia con la personificazione dell'uragano Katrina.
-È finita! Ho lasciato Duncan!
Melanie mi gettò le braccia al collo, rischiando peraltro di farci ribaltare all'indietro tutte e due, soffocando i singhiozzi contro il tessuto della mia maglietta mentre io cercavo ancora di mettere insieme una frase di senso compiuto che non contenesse espressioni tipo “di nuovo?” o “che malattia venerea ha portato a casa stavolta?”.
Mi limitai ad accompagnare la mia migliore amica in cucina facendola accomodare su uno degli sgabelli di fronte al bancone, poi tirai fuori un bicchiere dalla credenza e una bottiglia di vino rosso dalla piccola cantina elettrica che tenevo accanto al frigo, mi riempii metà bicchiere e spinsi il resto della bottiglia verso Melanie, che se la portò direttamente alla bocca bevendone due sorsi di fila. Mi sedetti accanto a lei circondandole le spalle con un braccio e cominciai anche io a sorseggiare il mio modesto mezzo bicchiere di vino, psicologicamente pronta a calarmi nel ruolo della migliore amica che l'avrebbe aiutata a coniare nuovi insulti per Duncan Davenport, il suo ex-fidanzato-per-la-terza-volta-di-fila-in-due-mesi. Quel compito mi riusciva anche piuttosto bene dal momento che, verso di lui, provavo un odio che rasentava il viscerale.
-Che è successo tesoro?
-Oh Eva! Stavolta è finita davvero, me lo sento!- la sua voce sembrava sinceramente disperata, come tutte le altre volte del resto, tranne che per l'intensità, che aumentava ogni qualvolta che si lasciavano. Ci stavo quasi facendo l'abitudine.
-Per cosa avete litigato stavolta? Non mi dire che è di nuovo la storia dello sciacquone...
-La discussione è partita da lì però... insomma, quel bastardo lo sa che odio quando lascia la tavoletta alzata senza nemmeno tirare l'acqua, io gliel'ho fatto notare mentre guardava la partita... e poi abbiamo cominciato ad insultarci... ma è così difficile tirare quel cazzo di scarico quando vai in bagno?!
In cuor mio speravo vivamente che, questa volta, sarebbe stata irremovibile sulla sua decisione, ma sapevo anche che, non appena quello smidollato figlio di papà si sarebbe presentato con un mazzo di fiori in una mano e un Cartier nell'altra, lei si sarebbe sciolta come una noce di burro e avrebbe ricominciato a scodinzolargli dietro come un piccolo terrier. Ma questo non avrei mai avuto il coraggio di dirglielo o avrei potuto essere morta prima ancora di rendermi conto di quanto si sarebbe potuta arrabbiare!
-Melanie, quante volte te lo devo ripetere? Tutti gli uomini sono dei bastardi e tutte le relazioni finiscono sempre male... ma la mia vita non ti ha insegnato proprio nulla?
Lei si limitò a prendere un altro sorso di vino dalla bottiglia per poi girarsi alle sue spalle, indicando il salotto con lo sguardo che, per un attimo, si accese di speranza.
-I bambini sono svegli?- chiese allungando le labbra in un piccolo sorriso.
-Dopo il tuo sfogo da cantante lirica con l'influenza? Non lo so...
-Ti senti simpatica oggi, vero?- domandò evidenziando con tono sarcastico quello che, nella sua lingua quotidiana in assenza di occhietti innocenti a censurarla, sarebbe stato un clamoroso “vaffanculo!”
-Hai interrotto un sogno erotico nel modo più brutale conosciuto all'uomo Mel, spero solo che i discorsi che ti farò sulla natura maschile servano a qualcosa...
Melanie alzò gli occhi al cielo in una muta richiesta di intervento divino, poi allontanò da sé la bottiglia facendola scivolare sul ripiano del bancone per e si diresse a passo rapido (tutt'altro che felpato dati i suoi tacchi a strapiombo) verso il salotto, più che sicura di aver interrotto anche il pisolino pomeridiano dei miei pargoli. La seguii a ruota constatando che, in effetti, Lidia si era svegliata, mentre Andrew continuava a dormire con una manina sotto alla guancia e l'altra sopra all'orecchio. Melanie raccolse Lidia da terra e si sedette sul divano per cominciare a farle le moine, mentre io ne approfittai per accoccolarmici accanto, anche se sapevo perfettamente che non avrei reincontrato i muscoli di David Boreanaz prima di sera. Osservai Lidia ridere a tutte gengive e cercare di afferrare i capelli di Mel, la quale rideva a sua volta ad ogni versetto da bimba di cinque mesi che emetteva mia figlia. Non potei fare a meno di sorridere davanti a quella scena, il primo momento sereno che ho da settimane...
Tra il divorzio, il fatto che ho due bambini e una sorella che studia a NewYork da mantenere, tutto ciò senza avere un lavoro tra le mani, avevo accumulato un bel po' di stress. Melanie e suo fratello Sean, il mio migliore amico, si erano offerti più volte di darmi una mano, ma ero troppo orgogliosa per accettare i loro soldi. O ce l'avrei fatta da sola o sarei tornata in Italia dai miei genitori, pensiero che odiavo più del traffico nelle ore di punta.
-Come va la ricerca del lavoro?- mi chiese senza smettere di sorridere a Lidia, spezzando così il piacevole silenzio nel quale ci eravamo calate. Sbuffai al pensiero, anche oggi era stato un completo fallimento e avevo il morale decisamente sotto i tacchi.
-Male, stamattina sono andata ad un altro colloquio ma hanno detto che non ho abbastanza esperienza nel campo...- mi salii istantaneamente il nervoso ripensando al tipo che avrebbe dovuto decidere se darmi quel posto o no. Un nano di cinquant'anni con gli occhiali da mosca che, a mio modestissimo parere, doveva aver avuto dei seri problemi con sua madre dal momento che non la smetteva di fissarmi, anche in maniera abbastanza spudorata, il seno... mamma mia! Mi venivano i brividi freddi anche solo a pensarci!
-Come diamine possono pretendere che tu abbia esperienza se non hai neanche l'occasione di fartene una?- domandò sconcertata, interrompendo per un attimo la serie di smorfie buffe che stava dedicando a mia figlia. Scrollai le spalle, sconfitta. Ormai stavo cominciando a farci il callo.
-Boh... vai a capire i ristoratori...
La vidi sollevare gli occhi al cielo, mimando un'espressione che io conoscevo molto bene e che mi ripeteva più volte nel corso delle nostre conversazioni più malate “Gesù, guarda giù e tirala su, ti prego!” -Anche tu però, proprio in un ristorante vai a cercare lavoro? Tu che sei mesi fa hai sfondato il frigo, hai rotto il microonde e hai incendiato quel povero cactus che tenevi sul davanzale sopra al lavello.
-E allora? Sono incidenti che capitano...
-Preparando un toast?!- esclamò sconvolta. Se non avesse visto tutta la scena in diretta non ci avrebbe mai creduto, infatti mia sorella ancora non ci crede... e dire che le avevo pure spedito a New York le foto dei resti carbonizzati del cactus che mi aveva regalato quando io e Daniel ci eravamo trasferiti.
-Perchè ti fissi sempre sui dettagli?- sbuffai togliendole Lidia dalle braccia e portandomela delicatamente al petto, offesa per essere stata punta nel mio orgoglio. Sia lei che Daniel non perdevano mai l'occasione per deridere le mie incapacità culinarie, le quali si erano arrese dopo il quarto promettente corso di cucina a cui avevo partecipato e avevano promesso tutta la loro devozione ai cibi pronti. L'unica persona che non mi prendeva in giro era il fratello maggiore di Melanie, Sean (e io infatti lo adoravo per questo)... più che altro perché era nella mia stessa barca, anche se la sua lista di danni includeva solo cibo bruciato o troppo salato, ma vabbè!
Un lieve fruscio tra i piedi mi indicò che anche Andrew, grazie al mezzo urlo di Mel, si era svegliato dal suo pisolino pomeridiano.
-Mamma...
I suoi occhietti nocciola interamente frutto dei miei geni fecero capolino dal mucchio di cuscini beige tra cui si era rintanato, accompagnati subito da un sorriso di gioia non appena vide che la sua adorata zia Melanie era con noi; infatti si alzò subito in piedi per correre ad abbracciarla, cosa che a lei faceva sempre piacere perchè considerava davvero Andrew e Lidia suoi nipoti ed io condividevo pienamente la sua felicità.
-Zia Mel!
-Ciao cucciolo! Come stai?
-Bene, sai che papà ha detto che oggi saremmo andati al luna park?- domandò Andrew, entusiasta all'idea di fare la sua prima gita al luna park.
Peccato che, probabilmente, non l'avrebbe mai fatta... soprattutto dal momento in cui Daniel sarebbe dovuto passare a prenderlo circa tre quarti d'ora fa. In quel momento sentii una fitta in un punto ben preciso del mio petto: nella parte bassa, all'altezza dello stomaco. Il mio segnale d'allarme che precedeva i conati di vomito.
-Oh, ca... cavoletti. Ehm... Andrew, tesoro, perché non vai di sopra a controllare di aver messo tutti i tuoi giocattoli nello zaino?
-Ok, mamma.
Aspettai che mio figlio sparisse in cima alle scale per potermi gettare nello sconforto, non volevo che Andrew ricevesse un'altra delusione da quell'uomo. Melanie probabilmente percepì il cambiamento del mio stato d'animo perché prese Lidia e la mise nella sua culla a dondolo, poi mi affiancò sul divano, chinandosi un poco per osservarmi meglio.
-Daniel è di nuovo in ritardo?- sussurrò, tentando di indovinare la causa della mia frustrazione e riuscendoci al primo colpo.
-Sì, quel figlio di buona donna non ha nemmeno chiamato per avvisare Andrew che avrebbe fatto tardi... se non dovesse presentarsi nemmeno stasera ci rimarrà malissimo! Pensa che ieri sera stavamo litigando al telefono perché questo mese non mi aveva ancora inviato l'assegno degli alimenti, e sai che cosa ha detto? Che l'unico motivo per cui aveva accettato di crescere Andrew come se fosse stato suo figlio era perchè altrimenti non avrei mai accettato di stare con lui! MA TI RENDI CONTO?!- soffocai le ultime parole sul palmo della mia mano, giusto in tempo per rendermi conto che avevo cominciato a singhiozzare. Come ogni volta che la conversazione ricadeva su tutto quello che mi aveva fatto negli ultimi tre mesi.
Sentii il braccio di Mel circondarmi affettuosamente il collo, stringendomi di più a lei che aveva potuto vedere coi suoi occhi tutte le cattiverie e gli insulti che Daniel Van DeMason mi aveva lanciato contro.
-Che bastardo senza cuore. Oh Eva, tesoro mi dispiace tantissimo. C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?
Mi asciugai le prime lacrime col dorso della mano, risparmiando sia a lei che a me stessa l'ennesimo pianto nervoso che sarebbe sicuramente sfociato in una magnifica quanto deleteria abbuffata di gelato. -No, lascia stare... quella era la vecchia Eva! Quella che si lasciava fregare dagli uomini senza protestare e che non aveva il coraggio di replicare su niente. Ora sono cambiata, mi sono reinventata ecco!
-Brava, così mi piaci.
-Oh cavolo, mi dispiace... sono un'amica orribile vero?- domandai cercando, debolmente, di sorriderle.
-Perché dici così?
-Insomma... tu vieni qui per sfogare il tuo dolore per Duncan e io monopolizzo l'attenzione su di me, mi dispiace.
La vidi replicare, in forma più ampia e serena, il mio sorriso, cosa che mi diede un conforto immenso. -Eva, se permetti io non ho appena attraversato un divorzio merdoso... e poi possiamo fare quello che facciamo di solito per confortarci!
-Tu che ti scoli un'intera bottiglia di vino mentre io ti guardo perché sto ancora allattando?
-A parte quello, potremmo passare la serata insieme... io, te, i bambini e tante scatole take away dell'unico ristorante cinese in zona che non ha ancora ricevuto visite dall'ufficio di igiene!
Dai, era una visione meno tragica di quella che avevo immaginato, io e lei circondate da tante confezioni di gelato alla stracciatella e, non contente, da glassa liquida al cioccolato fondente. -...ok.
Ormai sicura che Daniel non sarebbe arrivato, io e Mel trascorremmo il pomeriggio a giocare coi bambini, beh... a dire il vero ci giocava solo Mel, io li guardavo mentre “giocavo” col ferro da stiro e la montagna di biancheria asciugata che avevo disordinatamente ammucchiato sul tavolo.
In quel momento, il suono del campanello interruppe il mio lavoro. Mi venne immediatamente in mente che la casa accanto alla mia era appena stata comprata da una ragazza che, a quanto mi avevano raccontato le anziane signore che occupavano la metà delle case del nostro quartiere, aveva fatto la modella e che aveva percorso, per qualche anno, una discreta carriera come attrice. Chissà come sarebbe stato avere un'attrice come vicina di casa...
-Eva, apri la porta.
Il suono di quella voce, della sua voce, mandò in frantumi il mio piccolo viaggio mentale. Feci un cenno a Melanie, che prese subito Lily e la portò al piano di sopra insieme a Andrew, comunicandomi che li avrebbe portati giù solo e se l'avessi chiamata. Appoggiai il ferro da stiro sull'asse imbottita ed andai ad aprire, pentendomi subito di avergli semplicemente lanciato l'elettrodomestico attraverso il vetro della porta d'ingresso.
I suoi occhi. Dio, i suoi occhi che avevano catturato i riflessi degli zaffiri lavorati dai migliori artigiani, gli stessi zaffiri che rivedevo ogni giorno nel viso di mia figlia. Anche se avevamo divorziato da quasi due mesi non ero riuscita ad allontanarlo davvero, non se potevo osservare i suoi tratti nel viso della mia Lidia.
-Alla buon'ora... la borsa di Andrew e Lidia è già pronta- mormorai, visibilmente seccata del suo ennesimo ritardo. Lui, dietro al suo completo firmato e al viso curato, deglutì imbarazzato, e questo non fece altro che aumentare il mio nervosismo e la mia voglia di lanciargli contro il ferro ardente per lasciargli la stimmate sul bassoventre!
-Ascolta, oggi non riesco a prenderli...
-E perché mai?- domandai furente, già sull'orlo dell'ira.
-Ho del lavoro da fare e non riesco a occuparmi anche dei bambini...
-Strano, mica eri stato tu ad insistere per tenere i nostri figli almeno nei weekend?
-Lo so, ma questa settimana non ce la faccio.
Daniel Van DeMason era l'avvocato divorzista (oltre che l'uomo) più squallido e immorale che ci fosse sulla piazza, un vero squalo. La cosa peggiore del nostro divorzio fu che non potè rappresentarmi, quando aveva finito di trovare scappatoie e nascondere il patrimonio non c'era più niente da dividere. Mi ero tenuta la casa e l'affidamento dei bambini, è vero, ma per il semplice motivo che qualsiasi giudice sano di mente non avrebbe mai dato l'affidamento a lui e alla sua nuova compagna-zoccola: Sheyla.
Daniel sospirò alla vista della mia espressione per nulla convinta, si passò una mano nel capelli castani per poter pensare a quale altra balla inventarsi per tenermi buona e poi parlò ma, incredibilmente, le sue capacità ammalianti non mi fecero alcun effetto.
-Eva, senti... a proposito di quello che ti ho urlato ieri. Ho detto delle cose orribili e ti chiedo scusa.
-Ti avevo chiesto di dirmi la verità... in fondo non è colpa tua se è brutta- mormorai a voce ancora più bassa, in modo che Mel non mi potesse sentire. Sapevo che mi avrebbe fraintesa, scambiando la mia semplice constatazione per una forma di giustificazione, perchè era sempre così, io lo giustificavo sempre. E invece no, non questa volta.
-Sì, e mi dispiace...
Mi venne quasi da ridere.-Ti dispiace? Davvero ti dispiace?
-Sì, spero solo che tu e Andrew siate in grado di perdonarmi.
E in quel momento sentii distintamente la rabbia repressa rompere gli argini di pazienza che mi ero costruita dopo anni di sfiga e una serie incredibilmente lunga di pessimi fidanzati, mi trattenni a stento dal saltargli al collo e divorargli la faccia.
-Senti, faccia da culo che non sei altro. Per quello che mi importa puoi portare te e le tue scuse del cazzo a farsi fottere. Ogni tuo contatto coi miei figli è finito, non osare mai più presentarti a questa cazzo di porta, se vuoi parlare puoi farlo solo attraverso il mio avvocato e, se provi a portarmi via Lidia, io farò alla tua colonna vertebrale quello che ho fatto il mese scorso alla tua cazzo di collezione di cimeli sportivi, sono stata abbastanza chiara?
Ma non sentii mai la sua risposta perché gli sbattei la porta in faccia così velocemente da poter sentire il legno lamentarsi e picchiare contro i cardini d'acciaio. Feci scattare la serratura due volte e lasciai la chiave dentro, in modo che non potesse usare la sua per entrare, e ritornai ad occuparmi del bucato come se non avessi mai mandato a stendere il mio ex-marito, con una nonchalance che farebbe invidia a chiunque.
Sentii Melanie scendere le scale e piazzarsi di fronte all'asse da stiro con un sorriso strabiliato e incredulo. Sentivo che era orgogliosa di me e ne ero felice.
-Wow, sei davvero tu?
-La vecchia Eva non avrebbe mai risposto così, ma quella nuova gliene ha dette quattro!- esclamai ripiegando con cura il pigiama preferito di Andrew e mettendolo nel cesto dei panni puliti.
-Anche cinque o sei dal numero di parolacce che hai inserito! Qual'era la scusa stavolta?
-Aveva del lavoro da fare, traduzione: “Io e Sheyla abbiamo intenzione di passare un piccante fine settimana a casa, da soli”.
Ci fu un silenzio di circa due secondi, giusto il tempo necessario per permettere a Mel di pensare a qualche cattiveria.
-....io propongo di ucciderlo mentre la sua puttanella minorenne guarda- propose, serissima.
Scoppiai a ridere, era circa la settima volta che proponeva quella soluzione ma dovevamo ancora trovare il modo di attuarla senza finire in galera, il che era difficoltoso.
-Non lo dire o sarò tentata di darti ascolto...
-Ok, come preferisci. Ordino gli gnocchi di riso gli spaghetti di soia?
-Tutti e due!
Un'ora e mezza dopo, circondate da una fornitura militare di cibo cinese che ci avrebbe assicurato le successive 36 ore a intermittenza sul gabinetto, eravamo tornate a parlare a ruota libera del nostro tema preferito “gli uomini sono dei bastardi”; argomento su cui avevamo sempre nuovi pensieri, uno più offensivo dell'altro. E mentre io cercavo di parlare nel modo più vago e generico possibile poiché anche solo nominare Duncan avrebbe fatto esplodere Melanie in una valle di lacrime, lei insisteva particolarmente nell'usare Daniel come esempio del famosissimo Homo Solo Penis Erectus. Chi ero io per fermarla?
Ad un certo punto, in un momento non ben precisato della nostra conversazione, sentii le gocce d'acqua attaccarsi ai vetri delle finestre, scivolando lentamente su tutta la superficie trasparente, prima di toccare i fili d'erba sul terreno. Man mano che i secondi passavano aumentava anche la quantità d'acqua che cadeva al suolo, assumendo in poco tempo le proporzioni un vero e proprio temporale. Le previsioni promettevano un sole da tropici per cinque giorni, e invece si presenta questo diluvio... e la cosa non mi dispiaceva affatto. La pioggia avrebbe lavato via tutta la mia frustrazione.
-Ha cominciato a piovere... tu sei in macchina vero?
Melanie sbuffò alzandosi in piedi. Lei, e soprattutto i suoi capelli, odiavano la pioggia. -Sì, e direi che ora devo andare al lavoro... e devo anche sbrigarmi sennò Nicole mi farà camminare a piedi nudi sui ceci... sotto alla pioggia!
Mi alzai anche io e seguii la mia amica verso l'ingresso, sorridendo davanti all'immagine di Nicole che minacciava sangue e violenza con in mano un sacchetto di ceci surgelati... la sua tortura preferita e che mai aveva messo in pratica, per fortuna!
-Sì, ne sarebbe capace... salutami quell'asociale di tuo fratello quando lo vedi!
-Senz'altro... anche se dubito che lo vedrò, stasera Sean è pieno di lavoro. Dai un bacio ai miei figliocci da parte mia ok?
-Sì, certo.
-Buonanotte tesoro, e tanta merda per il lavoro!
-Grazie... 'notte.
Stavolta richiusi la porta piano, giusto per strapparmi qualche secondo in più davanti allo spettacolo d'acqua che si mostrava ai miei occhi. Immaginai le gocce di pioggia lavare via ogni singolo ricordo che il mio vialetto aveva visto negli ultimi mesi: ogni litigio, ogni urlo, ogni pianto, ogni crepa che mi aveva segnato irrimediabilmente il cuore. Non potei fare a meno di chiedermi se, per quanto amassi la pioggia, sarei mai riuscita a trovare qualcuno con un ombrello abbastanza robusto da poter resistere al mio passato e a quello che ero diventata, in modo da tenermi finalmente all'asciutto dopo tutta l'acqua che il mio cuore aveva raccolto.
ANGOLO DELL'AUTRICE
Buonasera, mi rendo conto che sono in ritardo di quasi una settimana rispetto alla data che avevo postato sul mio profilo, vi chiedo scusa. Ho riscritto questo primo capitolo una cosa come 5 volte e mi sembrava sempre peggio, ma quest'ultima versione mi ha finalmente convinta a spezzare l'attesa di chi, precedentemente, aveva letto la versione precedente di Satisfaction.
Voglio subito partire ringraziando SuxFrago1212 per avermi fatto da pre- reader e per aver sciolto la mia insicurezza, grazie mille tesoro!
Poi ci tenevo a ringraziare chi mi conosce già per questa storia e ha avuto la pazienza di aspettare fino ad oggi per rivederla pubblicata, perché senza i loro incoraggiamenti non lo avrei mai fatto. Grazie!
Per chi volesse conoscere i volti dei miei personaggi, vi do i link:
Eva
Melanie
Daniel Van DeMason
Andrew
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Capitolo 2 *** Coward ***
Coward
Era
da due mesi che andava avanti così. E quella mattina non faceva
eccezione.
Alle sette meno un quarto mi alzavo, senza nessuna
voglia di farlo, e mi vestivo con una lentezza che qualcun altro
avrebbe definito esasperante, alle sette e mezza svegliavo Andrew e,
dopo avergli fatto fare colazione, lo accompagnavo a scuola,
riuscendo a tornare a casa per le otto e un quarto circa e sfruttando
il tempo in cui viaggiavo in macchina per far addormentare mia
figlia.
Viaggiare in macchina faceva a Lidia lo stesso effetto che
faceva a me guardare il Grande Fratello, coma profondo, e quando si
svegliò (più o meno nel momento in cui spensi la macchina) reclamò
giustamente la sua poppata del mattino che, di solito, terminava in
meno di dieci minuti.
Ecco, quell'ultimo atto dichiarava la fine
delle mie attività da mamma, facendo invece partire quelle da
disoccupata sull'orlo del lastrico.
Non
ne avevo voglia, non ne avevo voglia proprio per niente, ma le buste
ancora intatte delle bollette da pagare mi fissavano in maniera
alquanto minacciosa e potevo solo limitarmi a sospirare e ad aprire
il giornale sulla pagina degli annunci di lavoro. Lidia, comodamente
sdraiata nella poltroncina a dondolo che avevo appoggiato sul tavolo,
emetteva ogni tanto dei versetti: era l'unica in quella stanza ad
essere felice e, sinceramente, avrei dato qualunque cosa per essere
al suo posto.
Il
giornale di quel giorno aveva ben due pagine dedicate alle offerte di
lavoro, un'autentica benedizione, e così, munita di pennarello e
telefono, cominciai a cerchiarne qualcuno. Sembrava facile, e invece
no, per niente.
Trovare lavoro nella Westside di Los Angeles o,
dove vivevo io, Beverly Hills, era facile come scegliere di farsi
operare di trombosi senza anestesia, oppure scegliere di farti fare
un'epidurale quando sei agofobica a livelli patologici... esperienza
che non ripeterò mai più.
La maggior parte dei cerchi rossi li
avevo fatti a caso non appena leggevo “non necessariamente con
esperienza”, ma poi vedevo che si trattava quasi sempre di un
lavoro come assistente in linea per le compagnie di Internet e
telefonia mobile, il che implicava orari di lavoro assurdi e una paga
da schiavi, quindi li scartai subito.
Ma tutti quegli annunci da
“non necessariamente con esperienza” mentivano, verità
constatata e arci risaputa. Vogliono esperti in computer, esperti in
lingue, esperti di speakeraggio, esperti di dattilografia eccetera
eccetera; persino i negozi di abbigliamento cercano solo commesse con
esperienza. Ma se nessuno dà lavoro, come facciamo noi a fare
esperienza? E poi, cosa ancora più importante, le commesse dei
negozi di abbigliamento non dovrebbero avere unicamente buon gusto e
una spiccata capacità di rifilare al cliente sprovveduto qualsiasi
cosa? Ma vabbè...
Quante
ore avrò passato china sui giornali nelle ultime settimane? Almeno
una trentina. Era sempre la stessa storia, da due mesi mi sembrava di
seguire un percorso prestabilito e, diciamocela tutta, piuttosto
bastardo: trovo un annuncio perfetto, chiamo, mi presento al
colloquio, mi scartano entro i primi venti minuti e il ciclo
ricominciava. Sempre che non mi scartassero direttamente al telefono.
Evidentemente la mia dose di sfiga non si era ancora conclusa.
-Ehm,
sì chiamo per quell'annuncio di lavoro sul giornale...
-Sì,
chiamo per l'annuncio di lavoro sul giornale...
-...quello
“spiccata personalità, bella voce... “
-...non
ho una vera esperienza nel ramo vendite...
-...ecco,
io non sono esperta di computer, ma...
-Ah,
ma credevo, credevo che fosse il negozio di zona...
-Ah,
va bene, grazie lo stesso...
Lo squillo del telefono mi
svegliò di soprassalto, facendomi venire un coccolone degno
dell'ultimo film di Saw, e quando sollevai la testa mi accorsi di
avere la pagina del giornale sul quale stavo diligentemente cercando
un annuncio attaccata al viso. Schiacciai subito il pulsante per
l'apertura della chiamata prima che svegliasse Lidia, se avesse
cominciato a piangere proprio in quel momento... penso che avrei
rischiato un crollo nervoso.
-Pronto?
-Eva,
sono Melanie.- non potei fare a meno di tirare un sospiro di
sollievo, finalmente una voce amica che non mi avrebbe mandata a quel
paese... no, un momento, Mel lo faceva senza problemi.
-Ehi,
come va?- domandai, sinceramente felice di sentirla.
-Ho
finito di lavorare alle tre del mattino e, indovina, sono appena
entrata al locale per ricominciare un nuovo turno. Tu invece?
-Sarò
sincera, sono disperata e a tanto così dal tornare al 232. A costo
di dover pregare Nicole in ginocchio sui ceci surgelati.
-Tesoro,
se non avessi il terrore che ci ammazzasse tutte e due ti aiuterei
anche... ma temo che Nicky non abbia ancora digerito la scenata di
Daniel...
-Daniel
mi ha lasciata, se ne è andato proprio quella sera. Ma immagino che
non gliene freghi proprio niente.
-Comunque,
come mai hai chiamato?
-Mi
serve un favore.
-Dimmi.
-Ho
un problema con Darren Reynolds. La sua agenzia ha smesso di inviarci
le bariste, è da una settimana che il 232 serve dei cocktail a dir
poco disgustosi. Ho provato più volte a chiamarlo ma non mi risponde
al telefono, così ho pensato: visto che tu hai una sorta di legame
con lui... che avresti potuto pensarci tu.- mi sentivo insultata e,
in un attimo, tutto il sangue che avevo in corpo affluì al cervello,
annebbiando tutti i miei pensieri più razionali e meno carichi di
imprecazioni.
-Sei
andata fuori di testa?! Non ci penso neanche morta! È anche colpa di
quel pezzo di merda se sono disoccupata e single.- neanche sotto
tortura sarei andata a parlare con Darren, quello stronzo mi aveva
rovinato il matrimonio e la carriera in un colpo solo.
-Ti
prego! Io degli incarichi alla reception non so nulla, questo era il
tuo campo e lui era un tuo cliente! Quando Nicole ti ha buttata fuori
ha piazzato me all'assistenza e ha cancellato quasi tutti gli
appuntamenti che avevo con la scusa di avere fin troppe ragazze e che
la reception era gestita da cani!
-Che
stronza!- ma in fondo la capivo. Offesa a parte, Nicole Lenwood era
il mio capo e, insieme a suo padre, aveva creato dal nulla il 232,
facendolo diventare in poco tempo uno dei locali più rinomati del
suo campo. Circa il settanta per cento dei politici, degli avvocati e
dei manager della città degli angeli erano degli abituè del 232
quasi dal giorno dell'apertura. La rissa che avevano messo in piedi
Darren e Daniel quella notte di due mesi fa fece scappare a gambe
levate alcuni dei clienti più facoltosi. Nicole andò su tutte le
furie ed fu costretta a chiamare per la prima volta la polizia, cosa
che la innervosiva parecchio perché infastidivano i clienti. Il
tutto si concluse in centrale, dove io dichiaravo che né Darren né
mio marito erano dei pazzi assassini e che il loro scontro è
avvenuto perché quest'ultimo si era trovato nel posto sbagliato al
momento sbagliato. Nicole era una stronza coi controcazzi, ma sapeva
come badare ai suoi affari meglio di suo padre e ci teneva al loro
locale, anzi... ci teneva ai loro soldi.
-Ti
giuro che lei non ne sa niente, è un favore che ti chiedo io, odio
stare chiusa qui dentro... tu lo sai meglio di chiunque altro, ti
preeeego!- il suo tono supplichevole mi fece traballare, non ero mai
stata in grado di dirle di no. Era un po' come avere un'altra sorella
minore, come se una non fosse già sufficiente.
-Mel,
sto ancora cercando lavoro, non posso occuparmi anche di
qualcos'altro...- tentai di svicolare, anche se sapevo bene che con
lei non ci sarei mai riuscita.
-Ma
ti pago! Ti do il compenso di una giornata di lavoro qui.- propose
senza esitare. A quel punto non potevo rifiutarmi, una giornata di
lavoro al 232 mi avrebbe consentito di tirare avanti un'altra
settimana senza troppi problemi. Anche se il prezzo da pagare era
trovarmi davanti a Darren Reynolds.
-E
va bene, lo farò... ma solo per questa volta!
-Grazie,
grazie, mi hai salvato il culo!- esclamò tutta esaltata,
evidentemente era davvero in difficoltà con tutta quella storia
della reception.
-Penso
che per il tuo culo sia un po' tardi...- commentai, sperando di
stuzzicarla un po'.
-...spiritosa.
Dai un bacio ad Andrew e Lidia da parte mia!
-Senz'altro,
ciao.
Tenendo
i gomiti pigramente appoggiati al tavolo riaprii nuovamente la linea,
premendo leggermente i tasti di gomma sul telefono, e me lo appoggiai
all'orecchio incastrandolo tra esso e la spalla. L'avevo usato
talmente tanto che ormai era andato in equilibrio termico col mio
corpo. Rimasi in attesa per qualche secondo poi, dall'altra parte
della linea, rispose un'annoiata voce femminile che rischiai
sinceramente di scambiare per un messaggio preregistrato della
segreteria. Per non dire a che livelli di nervoso ero arrivata...
Mi
venne una leggera fitta allo stomaco, forse non era una buona idea
chiamare... e se poi non mi avesse risposto? O peggio, e se mi avesse
risposto? Che cosa avrei potuto dirgli dopo il modo in cui ci eravamo
lasciati l'ultima volta?
-Buongiorno,
avete chiamato la Reynolds' catering& public relationships. Sono
Kate, come posso esservi utile?
-Salve,
chiamo per conto di una cliente e dovrei parlare con Darren
Reynolds.- borbottai passandomi una mano nei capelli, il suo nome mi
faceva ancora un certo effetto. Una perfetta metà tra la rabbia più
nera e il rimorso represso... e no, non ho invertito l'ordine.
-Attenda
prego.
-Grazie.-
poi partì una di quelle odiose melodie polifoniche degne di una
pubblicità per compagnie di telefonia mobile. Cominciai a
picchiettare le unghie sul tavolo, giusto per resistere alla voglia
di riattaccare. Rimasi in attesa per un paio di minuti almeno, nel
frattempo avrei potuto scaldarmi al microonde una brioche o mangiare
un vasetto di yogurt, il mio stomaco si stava letteralmente
contorcendo su se stesso emettendo delle piccole bolle d'aria
facilmente scambiabili per rutti da coca-cola, solo che erano dovuti
alla fame e non all'anidride carbonica.
-Spiacente,
il signor Reynolds non può rispondere, vuole lasciare un messaggio?
-Sì, grazie. Eva Van DeMason del 232, avrei bisogno che mi
richiamasse al più presto.
Un'ora
dopo riprovai a chiamare e, per un attimo, mi sembrò di aver avuto
un dejavu. Stesso identico copione, stavolta l'impiegato si chiamava
Russell.
A mezzogiorno la solfa non era cambiata, l'impiegata di
questo turno era Patricia.
-Darren
Reynolds per favore.
-...ma,
lavora ancora lì?
Senza
nemmeno avere il tempo di accorgermene si era fatta l'una e dovetti
andare a prendere Andrew a scuola. Cavolo, se ero già priva di forze
a quest'ora... stasera sarei stata una mummia vivente. Meglio lasciar
perdere i colloqui di lavoro per questo pomeriggio. Ne avrei
approfittato per stare più tempo con Andrew e Lidia. Da quando erano
iniziate le pratiche per il divorzio non riuscivo a passare molto
tempo a casa e non volevo che per nessun motivo si sentissero
trascurati. Lidia a stento se ne sarebbe accorta, ma Andrew era
piuttosto sensibile al fattore “presenza”e, del resto, i bambini
di sei anni cominciano già a capire che cosa gli accade intorno. Il
mio compito era quello di creare un ambiente familiare il più
confortevole e tranquillo possibile, anche se l'assenza di una figura
paterna mi aggravava il compito. Ma ce l'avrei fatta, avrei superato
anche questa e stavolta senza l'aiuto di mia sorella Angie.
Mentre
Andrew se ne stava seduto in sala da pranzo a guardare la tv, Lidia
era comodamente sdraiata nella sua poltroncina a dondolo all'altezza
del tavolo a guardare me che preparavo il pranzo. Aprii il rubinetto
del lavandino e lasciai che l'acqua riempisse la pentola. Mi bloccai
un attimo a guardare il mio riflesso nell'acqua e mi accorsi,
soffermandomi sulla pelle secca e sulle occhiaie che mi contornavano
gli occhi come si fossero tatuaggi, di come mi fossi ridotta. Il viso
sciupato dalla stanchezza, i capelli scompigliati e bisognosi di uno
shampoo come dio comanda, non era la descrizione di una ragazza di
ventiquattro anni, era quella di una donna psicologicamente frustrata
in menopausa e, sinceramente, mi facevo abbastanza schifo. Se avessi
accettato l'aiuto di mia sorella ora non sarei ridotta così. Ma non
potevo.
Non potevo obbligarla a sopportare anche questa.
Angelica
era la sorella migliore che avessi mai potuto desiderare: dolce,
premurosa, affidabile e sempre con una buona parola per tutti. Gli
ultimi dieci anni non erano stati facili per nessuna delle due, e lei
si meritava più di me di essere felice, dopo quello che aveva
sopportato da quando ci eravamo trasferite a Los Angeles.
Se
nostro padre fosse stato ancora vivo non sarebbe successo niente di
tutto questo. Niente.
Provai costantemente a rimuovere i dettagli
più brutti della mia vita, ma più mi sforzavo più essi si
imprimevano a fuoco nella mia testa, il dolore raddoppiava la sua
intensità e io mi sentivo bruciare dall'interno come se fossi fatta
di carta.
Non appena mi accorsi che la pentola stava traboccando
acqua, spensi in fretta il rubinetto e la misi sul piano cottura.
Lidia, che era stata tranquilla fino a quel momento, iniziò la sua
personale sequenza di versi che avrebbero inevitabilmente sfociato in
un pianto nervoso finché non le avessi dato da mangiare.
Cominciò
coi gorgoglii, poi coi versetti acuti per richiamare la mia
attenzione, seguì l'allungamento della durata dei suddetti e infine
degli urli da soprano in grado di frantumare vetri e cristalli.
-Sì,
sì, ho capito. C'hai ragione.- Come la presi in braccio subito si
calmò e mi fece un altro dei suoi sorrisi a tutte gengive, la mia
piccola demonietta infernale. Non avevo voglia di sedermi sulle
rigide sedie della cucina per darle da mangiare, scomode com'erano mi
sarei ritrovata con l'impronta delle nervature del legno sulle
chiappe, così raggiunsi Andrew nel salotto e mi sedetti sul morbido
divano di fianco a lui che, nel frattempo, guardava i cartoni del
primo pomeriggio. Di solito, quando eravamo in compagnia gli parlavo
in inglese, ma quando eravamo in casa da soli gli parlo solo in
italiano, era giusto che conoscesse entrambe le lingue delle sue
origini, e poi si trattava anche di orgoglio personale.
-Tesoro,
come è andata a scuola?- gli domandai mentre abbassavo in fretta la
spallina del top e mi sistemavo meglio meglio Lidia tra le braccia
per darle da mangiare.
Mi scappò una smorfia, man mano che la
mia piccoletta cresceva la sua morsa diventava sempre più forte; fra
poco sarò costretta a passare definitivamente ai biberon e quella
prospettiva non mi piaceva per nulla. Se nella cucina per adulti
facevo danni più della tempesta, in quella per neonati ero anche
peggio; sbagliavo le dosi della pastina, bruciavo i brodini e l'odore
del latte in polvere mi faceva venire da vomitare.
Lo vidi fare
spallucce senza emettere un suono di risposta. Gli si chiudevano gli
occhi dalla stanchezza e si era appoggiato al bracciolo del divano
con una spalla, accoccolandosi sui cuscini, gli accarezzai i capelli
con la mano libera per tentare di scioglierlo un pò.
-Che ti
succede cucciolo?
-Niente, sono stanco.- bofonchiò debolmente,
stropicciandosi un occhio con la manina
-Dopo pranzo ti va di
andare a fare un sonnellino?- gli proposi allora io.
E li vidi
finalmente sorridere. Lo capivo, erano mesi che non passavo un'intera
giornata con loro, era meglio approfittarne quando potevo o i miei
figli non mi avrebbero più riconosciuta. Non volevo che finissero
col preferire una studentessa di diciassete anni alla loro madre. Mi
sentirei tradita, ma la colpa sarebbe interamente mia.
Chinai il
viso verso il mio seno e incontrai un paio di occhioni blu che mi
fissavano, incantati; la sua manina era sollevata ed appoggiata al
centro del mio petto, stringendo piano una balza del top.
-Non ti
incantare, peste!- lei rise e continuò a poppare tenendo lo sguardo
alzato su di me, in attesa di qualche altra mia faccia buffa.
Dopo
aver finito di mangiare, Andrew cadde letteralmente in una fase di
abbiocco fulminante che rischiò di farlo addormentare con la faccia
nel piatto, povero cucciolo.
-Andiamo a nanna ora?- gli domandai
dopo aver messo i piatti in lavastoviglie.
-Mamma, posso dormire
nel lettone peffavoe?- non li sopportavo i suoi “peffavoe”, non
riuscivo a dirgli di no quando mi inseriva i “peffavoe” nelle
sue richieste. Annuii stirando le labbra in un leggero sorriso e lo
vidi scappare sulle scale in uno scatto improvviso di energia per
dirigersi nella mia camera.
Presi Lidia in braccio, che si era
addormentata mentre io e suo fratello mangiavamo, e la portai di
sopra con noi, mettendola nel suo lettino che avevo messo accanto al
mio letto. Andrew si era già tuffato sul materasso, affondando la
faccia nel cuscino dall'altra parte del letto, io invece afferrai il
mio de mi sdraiai accanto a lui, stringendo il cuscino tra i polsi e
poggiandoci la testa sopra.
-Sogni d'oro cucciolo.- sussurrai
prima di chiudere gli occhi.
Sì, decisamente, era meglio
approfittarne e trascorrere un po' di tempo con loro finché ne avevo
l'occasione. Da domani avrei ricominciato a cercare un impiego, anche
se prima avrei dovuto occuparmi di Darren Reynolds.
Passò
un giorno ed ero di nuovo punto e a capo. Tentai di nuovo la fortuna
col telefono, a cui risposero Will, di nuovo Kate e di nuovo
Patricia. Però qualcosa era cambiato, la durata delle conversazioni
andava mano a mano diminuendo, fino a sfiorare i quindici secondi di
durata totale.
Kate mi riattaccò il telefono in faccia non
appena avevo pronunciato il nome. Ormai mi avranno infilata nella
loro lista nera.
Cosa non si fa per le amiche! Certo, Melanie mi
avrebbe dato duecento dollari in contanti, ma erano dettagli.
Accavallai le gambe, poggiandole entrambe sopra il tavolo in una posa
che poco avevaa di buona educazione, mi sentivo molto “La vita
secondo Jim” stando in quella posizione . Peccato che dopo dieci
minuti non mi sentivo più il culo e avevo tutte le vertebre
incriccate.
-Sì ehm, sono in attesa per Darren Reynolds.
-...ma
ho chiamato almeno una dozzina di volte!
-Sì, vorrei lasciare un
altro messaggio...
-Eva Van De Mason. V-a-n D-e M-a-s-o-n
-Chiamo per conto di una vostra cliente, non è complicato.
Non
era un caso che continuassi ancora ad usare il mio cognome da sposata
nonostante fossi tornata single da un pezzo, questo per due motivi:
A) molti membri della famiglia di Daniel appartenevano alla classe
politica e lui stesso aveva sfruttato il potere del proprio cognome
quando si trovava davanti a qualche ostacolo burocratico; B) da
quando mio padre era morto essere conosciuta come Eva Brivio mi
faceva tornare alla mente ricordi troppo dolorosi del mio passato, mi
sentivo meglio considerando il mio cognome morto con lui.
Quando
mai un semplice cognome aveva creato tanto scompiglio nella mente di
una persona? Mai, credo. Ma con un passato travagliato come il mio,
abbandonando l'Italia avevo voluto lasciare tutto lì.
Ricordi,
aspirazioni e Brivio compresi. Solo Eva. Eravamo solo Eva ed Angie.
Strinsi tra le dita il telefono, contando mentalmente fino a
dieci per riuscire a sbollire la rabbia che mi stava nascendo nelle
viscere. L'unica cosa che mi tratteneva dal lanciare il telefono
contro il muro era avere Lily in braccio che giocava con una mia
ciocca di capelli, il fracasso che avrebbe prodotto il telefono
l'avrebbe fatta scoppiare in un pianto che avrebbe potuto durare
delle mezzore e non avevo la forza di gestire anche lei. Era meglio
che stessi tranquilla, per fortuna Lidia era una bambina che piangeva
solo per dei buoni motivi, sennò era quasi come non averla nemmeno
intorno. Sbuffai guardano la mia piccolina stringere tra le ditina
sottili ciocche intere dei miei capelli.
-...bene...- sussurrai
tra me e me, conscia di aver bisogno di risolvere quella situazione
una volta per tutte e per telefono non ce l'avrei mai fatta.
Che
vigliacco. Non aveva mai avuto il coraggio di discutere con me
neanche faccia a faccia, figurarsi rispondermi al telefono.
Giunta
a questo punto mi alzai in piedi e recuperai dal soggiorno il borsone
con dentro le cose di Lidia, mi infilai le scarpe ed uscii furente di
casa puntando dritta alla macchina, posteggiata all'ombra nel
vialetto di fronte al garage. Se volevo uscire il più presto
possibile e incolume da questa situazione, avrei dovuto affrontarla
di petto.
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Capitolo 3 *** The delicious tickle ***
The
delicious tickle
A NewYork era stato da poco costruito un
grattacielo made in Italy che affacciava sulla Quinta Avenue, a due
passi dall'Empire State Buliding. La Bizzi and Partners Development
aveva ultimato la costruzione del 400 Fifth Avenue, un complesso di
200 metri d'altezza e 60 piani realizzato dagli architetti Gwathmey
and Siegel. Il progetto, che aveva previsto investimenti per 670
milioni di dollari, ha ottenuto un finanziamento di 540 milioni da
una cordata di banche italiane guidata dalla Unicredit Corporate
Banking. Oggi ospita un albergo a cinque stelle, gestito da "The
Setai" e 237 appartamenti dal costo tra i 21 mila e e i 34mila
dollari al metro quadrato.
Ispirato dallo stile architettonico
utilizzato per quell'edificio, il facoltoso imprenditore Darren
Reynolds scelse di costruirne uno uguale nella Downtown di Los
Angeles e di piazzarci dentro la sua agenzia di catering, la Reynolds
Group, che oggi rientrava nella top three d'America.
L'organizzazione di eventi era l'applicazione dei criteri di
gestione di progetti finalizzata alla creazione e sviluppo di eventi
che, di solito, orbitava attorno alla promozione di un determinato
prodotto o di una persona speciale ma, da quello che Darren mi
raccontava durante i nostri incontri, il gioiello della corona della
sua agenzia era l'organizzazione dei matrimoni di personaggi famosi,
molto famosi.
Non avevo la più pallida idea di quale fosse il
fattore che spingesse le star in procinto del matrimonio a scegliere
l'azienda di Darren per l'organizzazione del loro giorno speciale.
Carisma, bellezza, eleganza, intelligenza, educazione... la
possibilità di dare il meglio del meglio del meglio?
Tutte
caratteristiche che non gli mancavano di certo. Peccato che, nella
stessa concentrazione, possedesse sfrontatezza e arroganza, ma stava
ben attento a non metterle in mostra davanti ai preziosi clienti.
Infatti, queste ultime qualità le riservava esclusivamente a me, ma
quale onore...
Parcheggiai la macchina in un garage ad ore
generalmente utilizzato dai dipendenti degli edifici circostanti,
adagiai Lidia nella sua carrozzina e mi avviai verso l'entrata del
palazzo con passo spedito nonostante l'istinto di sopravvivenza mi
urlasse di non fare cazzate e di tornarmene subito a casa.
Man mano che mi avvicinavo
all'ingresso dell'edificio mi accorsi di aver progressivamente
rallentato la velocità dei miei passi, il mio corpo cercava di
evitare quel posto come la peste bubbonica nonostante continuassi a
ripetermi del contrario. Camminavo lentamente, e all'improvviso mi
resi conto di aver rimandato questo confronto per troppo tempo,
divisa com'ero tra il timore di perdermi e di cascare nuovamente
sotto l'incantesimo del suo fascino e il ricordo di tutte le volte in
cui io e Darren avevamo fatto quel tipo di sesso bollente di cui i
bambini leggono solo nelle favole. Se Melanie mi avesse potuta vedere
probabilmente mi avrebbe tirato un paio di schiaffi, ordinandomi di
tornare in me e di non trasformarmi nello zerbino di Darren Reynolds,
ma Mel avrebbe potuto arrabbiarsi con me quanto voleva, non le avrei
comunque dato retta. Purtroppo per lei, anzi... purtroppo per me...
non c'era avvertimento che reggesse contro il sesso con un
ragazzaccio: quell'uomo insensibile e misogino mi attraeva come un
negozio di scarpe in periodo di saldi. Era troppo forte.
Quel brivido di colpevolezza
che sentivo solo a stare con lui...
Quel desiderio disperato di
cambiarlo...
E quel delizioso solletico che derivava
dalla consapevolezza che non ci sarei mai riuscita.
Ormai non avevo più niente da
perdere, non poteva più farmi perdere niente, e poi avevo Lidia con
me, non potevo permettermi di lasciarmi distrarre da lui. Ormai
giunta davanti alla porta a vetri dell'ingresso mi fermai e chiusi
gli occhi, lasciando che l'aria mi riempisse i polmoni un paio di
volte... non pensavo che il suo solo ricordo mi potesse creare tanta
agitazione, e invece mi ritrovai già madida di sudore anche se mi
trovavo sessanta piani sotto di lui e il suo ufficio.
Quel posto
emanava lusso ovunque: dal liscio pavimento di marmo bianco, agli
intarsi di legno nelle colonne portanti, alle proiezioni giganti
sulle pareti che riproducevano ripetutamente la pubblicità
dell'azienda. Intorno a me una ventina di persone sciamavano da una
parte all'altra dell'atrio, parlando da sole e talvolta a voce
piuttosto alta; unica caratteristica che mi permise di classificare
tutte quelle persone come “dipendenti” erano i minuscoli
auricolari bluetooth che tenevano appesi alle orecchie e nascosti da
ciocche di capelli accuratamente sistemati con lacca, gel e forcine.
Parlavano...anzi, litigavano al cellulare.
Alcuni di loro si
voltarono, squadrando prima la carrozzina, poi me e di nuovo la
carrozzina, come se non ne avessero mai vista una in vita loro.
Continuai a camminare, stavolta più velocemente per sottrarmi ai
silenziosi giudizi di quelle persone, anche se avevo imparato da
tempo a non farci più caso. Svoltando nel corridoio alla mia destra
trovai una parete con tre ascensori dalle porte a specchio di cui uno
che si stava aprendo proprio in quell'istante. Mi si fermò il
respiro in mezzo alla gola, costringendomi a deglutire la saliva in
un attacco improvviso di
paura-strizza-diarrea-oddio-che-faccio-se-quello-mi-compare-davanti?.
No, non era ancora mezzogiorno e lui era solito farsi portare il
pranzo direttamente in ufficio, non avrei avuto alcuna possibilità
di ritrovarmelo davanti proprio adesso, pericolo scampato.
Anche
se, guardando questa situazione da un'altra prospettiva, un incontro
improvviso e non programmato non avrebbe nemmeno permesso di produrre
adrenalina sufficiente a farmi alzare di un poco la pressione, che in
quel momento era paragonabile a quella di un vegetale.
Mi guardai attorno in allerta, pronta
ad una qualsiasi forma di urla isteriche o di assalti da parte dei
fotografi, era tutto tranquillo. Allora mi ero sbagliata, non era
lei. Eppure... no no, era lei, ne sono sicura. Avevo guardato troppe
volte entrambe le stagioni di Dollhouse... non potevo essermi
sbagliata. Affiancata da un gorillone alto un metro e novanta e largo
due c'era proprio lei. Occhiali da sole dalle lenti completamente
schermate, sandali neri della D&G parzialmente coperti da un paio
di aderentissimi jeans bianchi e una maglietta grigia.
Eliza Dushku si accorse che la
stavo fissando (avrei dovuto farmi i complimenti da sola, ero così
brava a fare l'indifferente che la mascella mi arrivava all'altezza
delle ginocchia per lo stupore...), infatti si voltò verso di noi e
abbozzò un leggero sorriso intenerito alla vista della carrozzina in
cui Lidia stava ancora dormendo.
Accidenti, l'istinto di andare
lì a chiederle un autografo era fortissimo, esattamente quanto era
fortissima la paura che quell'armadio con doppie ante potesse
decidere di scansarmi e farmi volare a terra tre metri più lontano
con la sola forza del polso.
Ma cosa ci faceva un'attrice della
sua portata qui?
Però, in effetti, di ragioni ce ne
potevano essere: matrimonio, festa privata, pubblicità personale...
Ad un tratto non mi parve nemmeno così strano, l'azienda di
Darren era la migliore di Los Angeles nel suo campo, non mi
sorprenderebbe se lei fosse solo una delle clienti minori!
Prima
che si richiudessero le porte dell'ascensore (e prima di avere il
tempo di aggiungere un'altra figura di merda alla mia playlist
personale) mi ci catapultai dentro trascinando con me la carrozzina,
alla mia destra c'erano tutti i pulsanti dei piani etichettati coi
corrispondenti uffici. Lì si riconosceva la pignoleria di Darren:
per lui tutto doveva essere chiaro e preciso come le istruzioni sulla
scatola dell'aspirina.
Sala riunioni, Reynolds & Marelli.
Sulla targhetta dell'ultimo piano era inciso il cognome che mi
interessava e lo schiacciai senza più ombra di esitazioni e con un
po' di violenza gratuita.
Dopo qualche secondo le porte si
aprirono di nuovo e la quantità di luce che mi colpì le retine
rischiò seriamente di accecarmi: il soffitto era quasi interamente
composto da lampadine piatte al neon. Non osavo immaginare le
bollette trimestrali.
Uscii cautamente dall'ascensore e alla mia
sinistra trovai un alto bancone nero occupato da una ragazza dai
capelli neri come l'onice con un top giallo sole che parlava,
nonostante vedessi chiaramente che cercava di trattenere gli insulti
tra i denti, al telefono. La ragazza mi fece segno di aspettare,
limitandosi a sollevare la mano destra davanti a sé, dandomi la
possibilità di notare due narici che potevano essere l'orgoglio
degli spacciatori di coca.
-Sì, certo signorina Reed.
Prenoteremo il locale oggi stesso, non si preoccupi...ok, a presto!
La vedo passarsi un dito tra i liscissimi capelli e chiudere la
conversazione sbuffando ed alzando esasperata gli occhi azzurri al
cielo.
-Aspetti solo un altro minuto per favore.- mi sussurrò
sollevando un telefono dalla scrivania e portandoselo all'altro
orecchio.
-Certo, non ho fretta.- risposi, passandomi una mano
tra i capelli in un debole tentativo renderli meno orribili di quanto
fossero in realtà dopo mesi che non andavo dal parrucchiere.
-Gaby,
sono Kate. Dì a Pamela che Nikki Reed ora vuole il Lava Lounge per
la sua festa di compleanno.- ma bene, questa era una di quelle
assistenti che mi avevano attaccato il telefono in faccia.
-Lo
so, lo so che è la quinta volta che cambia. Dio, odio le attrici...
sì, sì ha detto che la sua agente sarebbe passata domani per darci
i dettagli. Ok, a dopo. Come posso aiutarla?- domandò dopo aver
appoggiato il telefono sul ripiano, senza però separarsene
completamente, era come se lo avesse fagocitato con le dita. Mi venne
istintivo sorridere e nel farlo scoprii un poco i denti col labbro
superiore, come fanno i cani quando si trovano di fronte a un rivale
o ad una minaccia.
-Senta, ehm...Kate. Mi può indicare dove si
trova l'ufficio di Darren Reynolds?
-Sempre dritto in fondo.
-Grazie.- feci per allontanarmi, ma dopo neanche mezzo metro mi
fermai e tornai indietro.
-Ehm, piccolo consiglio. Attenta al
giallo, ti dà un'aria un po' da epatite B.
Soddisfatta della mia
frecciatina, ripresi a camminare. Sul muro alla mia destra c'erano
una serie di fotografie formato poster di matrimoni ed eventi
cinematografici. Le guardai distrattamente, riconoscendo ogni tanto
una celebrità tra le decine di facce e abiti griffati in esse
rappresentati. Il matrimonio di Sarah Michelle Gellar, quello di
Beyoncè Knowels E Jay-Z, i ritagli di alcune prime della Summit
Entertainment e alcune campagne promozionali per delle altre aziende
come la Blackberry, Vogue ed eccetera. Ma una sola fotografia riuscì
a colpirmi più delle altre: quella del sublime matrimonio di Eva
Longoria e Tony Parker.
Tutte queste celebrità facevano la fila
da Darren affinché organizzasse loro eventi clamorosi e io ne avevo
davanti agli occhi solo alcuni esempi.
Rimasi incantata ad
osservare Eva Longoria nella sua foto finché una voce non mi fece
sobbalzare.
-Che bella bambina! Come si chiama?- una ragazza con
in mano una lattina di Diet Coke era china di fianco alla carrozzina
con un sorriso a trentadue denti, mi chinai a mia volta in avanti per
controllare che Lidia dormisse ancora.
-Lidia- sorrisi,
ripensando alle mille litigate che avevo avuto con Daniel quando
dovevamo sceglierle il nome, alla fine avevo vinto io, ovviamente...
quale donna sana di mente si lascerebbe piegare da una stupidissima
quanto imbarazzante regola di famiglia come chiamare la propria unica
figlia col nome della nonna paterna? Nel mio caso: Margaret Olivia
III. Mai!
La ragazza si raddrizzò sulle ginocchia,
ricomponendosi velocemente. Aveva dei lunghi capelli castani e occhi
dello stesso colore coperti da un paio di occhiali da vista Vogue.
Era alta come me, e il corpo magrissimo era avvolto in un vestito a ¾
bianco e nero, ai piedi un paio di ballerine bianche e nere in stile
snakeskin. Così elegante nella sua semplicità che io, nei miei
jeans e nel mio top a balze beige chiaro, mi sentii terribilmente
fuori posto e, se proprio volevo insultarmi da sola, una pezzente.
-Italiana?- mi chiese staccando lo sguardo da Lidia. Non era
difficile beccare le mie origini, l'accento italiano era ben presente
nella mia parlantina, ed anche in modo piuttosto pesante. Lo ammetto,
alla fine ci ero affezionata alle mie origini, ma solo se
generalizzavo a livello di città natale o regione, niente famiglia.
-Sì, sono di Modena, ma il padre è di qui.- ehh già, cognome a
parte ero molto fiera di essere nata nella patria del gnocco fritto e
della tigella... che alla fine sarebbero lo stesso impasto ma cotto
con metodi diversi, il primo fritto con l'olio e il secondo cotto al
forno. Io, per esempio, mi scaldavo le tigelle col tostapane e le
imbrattavo con la marmellata di albicocche... un orgasmo per i
sensi...
Per un attimo mi parve che la ragazza avesse gettato
un'occhiata fugace alla mia mano sinistra, ovviamente sprovvista
dell'anello che cercava, poi sollevò un poco la mano, all'altezza
della mia.
-Piacere, sono Gabrielle Halverson, assistente
personale di Pamela Marelli.- le afferrai le dita affusolate e
strinsi leggermente, sembravano così fragili... tutto di lei mi dava
un'aria di fragilità, come i bastoncini di Shangai.
-Eva Van De
Mason.
-Posso aiutarti in qualche modo?
-Certo, stavo
cercando Darren. Siamo vecchi amici e sono passata a trovarlo.- dopo
tutti quei rifiuti e quelle telefonate riappese, dire che lavoravo
per conto del 232 non mi pareva più una buona idea.
-Oh, beh sei
fortunata. È arrivato dieci minuti fa. Se vuoi, mentre ci parli ti
posso tenere la piccola nel mio ufficio, è proprio qui di fianco.-
il suo sorriso era talmente rassicurante che non potei rifiutare e
poi, da lì a tre minuti ci sarebbero state parecchie urla che
avrebbero potuto spaventarla.
-Ok, però se si sveglia vieni
subito a chiamarmi... diventa piuttosto intrattabile se non ha gente
conosciuta attorno.
-Non c'è problema.
Gabrielle prese il mio
posto dietro alla carrozzina ed entrò nella porta a vetro accanto a
quella di Darren. Perfetto, se Lidia si fosse svegliata l'avrei
sentita, a meno che la mia voce non avesse coperto la sua.
Mi
avvicinai al suo ufficio ed eccolo lì, inconfondibile, ed ero
passati solo un paio di mesi.
Chino sulla sua scrivania nel suo
completo di Ralph Lauren, davanti a uno schermo piatto iMac da 20
pollici. Spinsi la fredda maniglia verticale d'acciaio ed entrai.
-Gabrielle, ti ho detto che se hai problemi devi chiedere a
Pamela, non a me.
-Ciao Darren...
E, come se avesse appena
visto un fantasma, saltò in piedi con un sussulto. Lo vedi sgranare
gli occhi e boccheggiare come un pesce, alla ricerca di qualcosa da
dire.
-...Eva, ma cos...che ci fai qui?- domandò, cercando di
ricomporre un'espressione minimamente seria. Incrociai le braccia al
petto, avvicinandomi con passo lento alla scrivania in radica scura,
più incazzata che mai.
-Allora non sei a Londra a seguire un
evento... e non sei nemmeno a New York o a Roma...-l'elenco di scuse
che avevano usato le stagiste comprendeva anche Istanbul, Parigi,
Barcellona e Vancouver, ma non aveva importanza dal momento che lo
avevo sgamato già alla prima capitale. Darren odiava e sottolineo,
odiava viaggiare. Sono gli altri che viaggiavano per lui, non il
contrario.
-Ma di che stai parlando?
-Ci sono due cose che mi
esasperano Darren, essere ignorata e che mi si dicano le bugie...
-Signor Reynolds, sono arrivati i contratti degli sponsor per la
festa dell'anniversario di Sports Illustrated.
Senza che l'avessi
vista avvicinarsi, Kate entrò nell'ufficio ignorando completamente
la mia presenza e consegnando a Darren una pila di fogli da firmare.
Lui si sedette alla scrivania, tirò fuori dal taschino della giacca
la sua Mont Blanc e cominciò a firmare distrattamente i vari fogli
con accanto la portatrice di epatite B che gli indicava dove e se era
il caso di aggiungere anche il timbro aziendale.
-Non hai
risposto alla mia domanda...- mormorò senza staccare gli occhi dai
fogli.
-Hai smesso di mandarci le bariste al 232, mi hanno
mandata qui a chiederti quali sono le giustificazioni che hai per
ignorare il contratto che abbiamo stipulato con la tua agenzia.
-Ci
sono stati dei problemi di gestione del personale, abbiamo dovuto
mandare le ragazze in altri locali. E non è venuta di persona Nicole
a dirmi questa cosa perchè...
-Nicole non sa che sono qui, è un
favore che faccio a Melanie. Mi hanno licenziata e ho dovuto
divorziare da David.
-Sì, l'ho saputo, mi dispiace. Non hai
cercato un altro posto?- mi domandò, finalmente alzando il viso.
Aveva ignorato deliberatamente quello che avevo detto a proposito del
divorzio. Sentii la rabbia montare ulteriormente dentro di me, eppure
resistetti alla tentazione di strozzarlo davanti alla centralinista.
Ma che cazzo, ci fa o ci è? Contai mentalmente fino a dieci mentre
mi chinavo in avanti per appoggiare entrambe le mani sulla scrivania,
qui rischiavo di fare una carneficina.
-Io ho cercato, ma quando
passi gli ultimi sei anni a crescere dei figli e a lavorare al 232 è
alquanto difficile trovare un lavoro normale che ti dia uno straccio
di stipendio... stai annotando tutto tesoro o parlo troppo veloce per
te?- alzai lo sguardo e notai con un certo grado di sbigottimento che
la cocainomane era alquanto confusa, anche se era più probabile che
facesse semplicemente finta di non ricordare... imbecille...
-Va
bene, oggi pomeriggio chiamo Nicole e da domani riavrete le vostre
bariste. Grazie Kate, puoi andare.
-Molto bene.
Kate se ne
andò veloce e silenziosa come era entrata, senza salutare e
ancheggiando come una pin-up degli anni cinquanta. Nell'istante in
cui sentii la porta richiudersi alle nostre spalle, Darren si
trasformò: da grande magnate delle pubbliche relazioni freddo e
formale, all'uomo caldo e passionale che avevo sempre conosciuto.
Quello che, per la prima volta nella mia vita, mi aveva fatta sentire
desiderata per davvero... e dopo avevo conosciuto Daniel...
Allungò
lentamente una mano sulla scrivania, arrivando a sfiorarmi il braccio
con la punta delle dita, e io lo lasciai fare, come ogni volta...
quel gesto era solo il primo passo della sua personale tattica
seduttiva.
-C'è qualcos'altro che posso fare per te?- avrei
voluto chiedergli di aiutarmi a rimettere insieme i cocci della mia
vita che lui aveva contribuito a distruggere, avrei voluto chiedergli
di aiutarmi a crescere i miei figli perché da sola non avrei retto a
lungo per una seconda volta. E poi capii che non era necessario, che
avrei potuto farcela da sola anche stavolta; infatti, l'unica cosa
che mi serviva era proprio lì, davanti ai miei occhi...
-Dammi
un lavoro Darren.- domandai a mezza voce, a un soffio dal suo viso.
Lo vidi trattenere il fiato e ritirare subito la mano, come se avesse
appena ricevuto una scossa, ma non sarebbe stato in grado di
rifilarmi una scusa decente, non era mai stato capace di mentirmi né
di resistermi.
-Mi dispiace, Eva, ma al momento il mio staff è
al completo.- come volevasi dimostrare. Si alzò bruscamente dalla
sedia, voltandosi per prendere una borsa a tracolla da uomo
dall'appendiabiti vicino alla scrivania.
-Mi dispiace Eva, ma ora
devo andare.- cercò di allontanarsi verso la porta, ma con due passi
gli sbarrai la strada impedendogli di uscire e di sfuggirmi.
-Darren, ti ricordo che sei stato tu a cacciarmi in questa
situazione di merda. Tu me lo devi, porca miseria!
Rimasi immobile nella mia posizione, con
le mani ancorate sui fianchi, in attesa di una sua reazione che non
arrivò. Mi voltai a guardare attraverso il vetro della porta, sicura
di avere più di un paio di occhi puntati addosso: Gabrielle, Kate e
un altro dipendente ci stavano fissando dal corridoio.
-...non
farmi implorare, se vedi che non funziona allora mi licenzi... non
farmi implorare...
-... va bene,cominci domani alle nove. Vedi di
essere puntuale.- mi sfuggì un sorriso. Potevo, per la prima volta
da mesi, tirare un sospiro di sollievo.
-Mi conosci Darren, io
sono sempre puntuale!- e sfoderando un sorriso a seimila denti mi
avvicinai alla porta di vetro, dandogli le spalle. Era meglio
riprendere Lidia prima che cominciasse a lamentarsi.
-Hai ancora
un gran culo, lo sai?
-Sì, e tu sei ancora un pezzo di merda!-
risposi secca, lanciandogli un ultimo sguardo prima di uscire nel
corridoio. Lui soffocò una risata passandosi una mano sul viso,
sfiorandosi appena guance e labbra, poi uscì anche lui. L'osservai
percorrere tutto il corridoio a passo spedito fino all'ascensore, poi
mi girai verso l'ufficio di Gabrielle. La vidi attraverso il vetro,
impegnata a fare le moine a Lidia che giaceva ancora nella sua
carrozzina, sveglia e sorridente.
Come avrei fatto a coincidere il lavoro
coi figli?
Fino ad adesso mi ero preoccupata esclusivamente di
trovare un posto che mi potesse permettere di mantenerli e di andare
avanti, senza soffermarmi mai a come questo avrebbe potuto influire
sulle loro vite. Ma questo avrei potuto pensarci dopo, è vero che è
meglio prevenire che curare, ma se comincioavo a farmi le seghe
mentali anche su questo non ne sarei uscita viva.
Dopo aver messo a letto Lidia ed
Andrew mi concessi una mezz'oretta davanti alla tv spazzatura, in
compagnia di una bottiglia di succo di frutta alla pesca che avevo
intenzione di scolarmi nel lasso di tempo di un intervallo
pubblicitario. Distesi le gambe sul tavolino da caffè in vetro e
cominciai a fare zapping col telecomando, imbattendomi solo in
scadenti reality show e telenovele di quarta scelta. Finalmente
trovai qualcosa che mi potesse occupare il cervello per un po' e, nel
bel mezzo di un fantastico e dettagliatissimo documentario
sull'industria del porno, partì la suoneria del cellulare.
I
dug my key into the side
Of his pretty little souped-up 4 wheel
drive
Carved my name into his leather seat
I took a
Louisville slugger to both head lights
Slashed a hole in all 4
tires
And maybe next time he'll think before he cheats
Era Melanie, e prima che la suoneria
svegliasse i bambini raccolsi il cellulare dal tavolino davanti a me
e, ripiegando le gambe su un fianco sopra il cuscino del divano,
accettai la chiamata.
-Dica...
-Eva Van De Mason, mi devi
assolutamente dire chi ti sei dovuta scopare per riuscirci!- la voce
di Mel era di almeno tre ottave più alta e, a giudicare dal tono,
era anche incredula.
-Io non ho fatto niente Mel, ho solo
chiesto
perché e lui mi ha detto che hanno avuto dei problemi con l'azienda
e che avrebbe chiamato Nicole entro sera...questo è quanto.
-Ma
dai!- era chiaro che le risultava difficile crederci. Lei aveva
conosciuto Darren molto prima di me e lo aveva etichettato subito
come “stronzo opportunista”. Non aveva neanche tutti i torti, ma
io avevo scoperto che quello era solo uno dei suoi lati.
-Giuro,
e poi sono anche riuscita a strappargli un posto di lavoro.-
aggiunsi, appoggiando un gomito sul bracciolo del divano e cercando
di dedicare ancora un po' della mia scarsa attenzione al
documentario. Dall'altra parte non sentii più niente.
-Mel? Ci
sei ancora?- domandai, magari era caduta la linea.
-...non ci
credo. Stiamo ancora parlando della stessa persona?
-A quanto
pare...
-Scusa ma mi sto confondendo. Insomma,
per colpa sua tu
hai perso il lavoro e Dave... e adesso ti offre lui un lavoro?
-Avrà
voluto farsi perdonare. Ma sai che ti dico Mel? Meglio così. Ho
finito con la ricerca, niente più colloqui, niente più domande e
niente più problemi col conto in banca che finisce in rosso ogni
settimana!
-Brava! Verrei lì da te per festeggiare
ma sono
stanca morta anche io e il mio turno finirà tra tre ore...- la
capivo. Lavorare alla reception del 232 poteva risultare più
stancante del lavorare in altre mansioni del locale. Non potevi
staccarti dal bancone, dovevi rispondere ad ogni telefonata con il
tono più cordiale che possedevi, prendere gli appuntamenti, gestire
le ragazze e poi batter cassa a fine serata. Non la biasimavo
affatto.
-Non ti preoccupare, ci rifaremo questo
fine
settimana... adesso però vado a dormire che domani mi devo
presentare alle nove in punto.
-Che posto ti ha dato?
-Boh,
penso che lo scoprirò domani...
-Magari sarà lo stesso che avevi
prima...- provò ad insinuare lei.
-Ha, ha, ha... non penso
proprio!- esclamai, sforzandomi in una risata sarcastica. Ci mancava
solo quello.
-Ooohh, lo sai che ti voglio bene...-
mormorò poi
la piccola provocatrice. Non mi venne niente con cui replicare, ero
troppo stanca anche solo per ricordarmi il mio nome.
-Anch'io,
buonanotte.
-Buonanotte!- e chiusi la conversazione.
Dopo essermi
assicurata che la porta principale e quella di servizio fossero ben
chiuse a chiave, spensi le luci del soggiorno e salii le scale
strascicando i piedi sul parquet. Una volta di sopra, entrai nella
camera di Andrew a rimboccargli le coperte, che dormiva a pancia in
giù con entrambe le mani sotto al cuscino e un piedino che sbucava
fuori dal lenzuolo azzurro. La notte si rigirava talmente tanto che
una volta lo trovai addormentato al contrario, coi piedi sul cuscino;
come ci riesca lo sapeva solo lui. Gli sistemai il lenzuolo tra il
materasso e le doghe del letto in modo che rimanesse abbastanza
tirato da impedire ad Andrew di cadere, poi mi chinai su di lui e,
facendo attenzione a non svegliarlo, gli sfiorai la fronte bionda
con la punta delle labbra.
Uscii dalla sua cameretta lasciando la
porta aperta ed entrai in quella di fronte, la mia. Lidia dormiva
come un sasso nella sua culla di fianco al letto e non si sarebbe
svegliata per almeno altre quattro ore. Sollevai il top a balze
sfilandolo dall'alto e lo lanciai senza troppi complimenti nel cesto
dei panni sporchi, poi mi levai anche i jeans, che fecero la stessa
fine. Mi cambiai velocemente l'intimo e mi infilai con un certo
sollievo il pigiama che tenevo sotto al cuscino, quel giorno aveva
fatto troppo caldo per dei jeans aderenti e, probabilmente, non ne
avrei tirato fuori un altro paio prima di settembre.
Le lenzuola
erano fresche e morbide, mi aiutavano a contrastare la temperatura di
Maggio che cominciava ad essere più estiva, purtroppo avevo questo
difetto di fare molta fatica a sopportare il caldo.
Purtroppo,
con Lidia ancora così piccola non potevo accendere il
condizionatore, a meno che non fosse stato veramente necessario;
quindi ero costretta a piccoli ma scomodi accorgimenti come le docce
fredde e, quando proprio credevo di stare per impazzire, mettevo il
pigiama o la canottiera nel frezeer per una ventina di minuti. Quando
poi li reindossavo mi sembrava di aver nuotato in una piscina di
ghiaccio per delle ore. Una goduria senza fine
Per fortuna non
eravamo ancora a Luglio, la leggera camicia da notte e le lenzuola
fresche di giornata potevano bastare per un altro pò.
E, per la
prima volta da mesi, avrei dormito serenamente, senza la paura di
svegliarmi il giorno dopo per affrontare tutti i problemi che mi si
sarebbero posti davanti. No, non stanotte.
Le cose stavano
cominciando a migliorare, eppure sentivo che stavo dimenticando
qualcosa... ma cosa?
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Capitolo 4 *** Bad Memories ***
Bad Memories
-Accidenti!
Il flash mi venne subito
dopo che Andrew scese dalla macchina per dirigersi insieme alla sua
maestra verso il portone della scuola elementare. Lo stavo guardando
allontanarsi, poi lo sguardo mi cadde sul seggiolino di Lidia, dove
lei stava ridendo per il rumore che faceva il sonaglino a forma di
stella.
Mi ero completamente dimenticata di chiamare la
babysitter. Porca puttana!
Passai mentalmente in rassegna tutte
le persone che avrei potuto chiamare, scartandole una ad una, finché
non rimase l'unica a cui affiderei anche la mia vita: Melanie. Lidia
la conosceva e poi era bravissima coi bambini. Presi il cellulare
dalla borsa e, prima di accendere l'auto, composi a memoria il suo
numero, pregando circa una trentina di santi diversi per poter avere
il loro appoggio e, possibilmente, una botta di culo.
-Dai,
dai...ti prego...
-Pronto?
-Mel! Sono Eva!- ero talmente
felice di sentire la sua voce che per poco non mi misi a urlare,
invece il mio corpo rispose istintivamente a quella risposta,
sobbalzando sul sedile in uno spasmo che non riuscii a controllare e
che mi fece staccare il piede dalla frizione troppo in fretta,
bloccando la macchina in mezzo alla strada e dando la possibilità a
un fantastico esemplare dell'americano medio (che si era appena
guadagnato tutto il mio odio) di ribadire, per l'ennesima volta nel
corso della storia, quanto possano essere pericolose le donne al
volante. Dopo averlo mandato a stendere con un'esclamazione che
avrebbe potuto far imbarazzare persino Tyson ripresi in mano il
telefono, il silenzio dall'altra parte della linea mi suggerì che
ero riuscita ad ammutolire persino Mel.
-Wow, Eva! Hai dei
bambini, che ti è successo di così grave da augurare una disgrazia
del genere a quell'uomo? A quest'ora del mattino poi!- domandò
basita, erano rare le occasioni in cui mi dimenticavo di mettermi la
museruola, ma quella mattina tutti coloro che si sarebbero trovati al
momento sbagliato nel posto sbagliato (ossia tra i miei piedi)
avrebbero fatto bene a portarsi sempre appresso un corno o un
rosario.
-Mel, sono nella merda più totale, è il mio primo
giorno di lavoro e mi sono dimenticata di chiamare la babysitter per
Lidia.
-Che sfiga... e che c'entro io?- in realtà lei sapeva già
che cosa stavo per chiederle, però sperava che non lo avrei fatto. E
invece...
-Me la puoi tenere? Solo per oggi, poi da domani ci
sarà la babysitter. Ti supplico!
-Eva... io non posso tenerla
qui con me mentre gestisco la reception. È molto sconveniente e
Nicole mi fucilerebbe!- stavo pezzando come una capra dal panico, e
la cosa più assurda era che, quando nacque Lidia, Nicole mi aveva
detto che avrei potuto tenerla nel suo ufficio mentre svolgevo i miei
turni. Ora niente più bambini.
-Porca miseria, e adesso?!
-...aspetta. Sean è arrivato al locale adesso, oggi non ha
appuntamenti, posso chiedere a lui. Sean, vieni qui un secondo!
-Perfetto!
Se Sean avesse accettato di badare a Lidia
mi sarei fermata alla pasticceria più cara di Los Angeles e gli
avrei comprato la torta di pesche più grossa che avevano, come
minimo! Anche se ero praticamente certa che, anche una torta per
venti persone, tra le mani di Sean sarebbe finita in meno di un paio
d'ore con la fogna senza fondo che quell'uomo si ritrovava al posto
dello stomaco... infatti mi ero sempre chiesta come diamine fosse
possibile che lui potesse mangiarsi tutte le schifezze che voleva
senza mettere su neanche un grammo di pancia mentre io dovevo
ammazzarmi di diete fai-da-te perchè qualsiasi cosa mangiassi mi
restava tre minuti in bocca e poi andavano dritti dritti sul culo,
dove ci restavano per almeno tre anni o il tempo necessario per la
successiva influenza intestinale. Che creature bislacche...
Sean Bolen era il fratello maggiore di
Melanie, anche se tutti li prendevano per gemelli, eppure lui aveva
ben due anni in più. Iniziò a lavorare al 232 circa due mesi dopo
di me e, prima che nascesse Lidia, passavamo ogni fine serata seduti
al bancone bar del locale a chiacchierare e a svuotare le riserve di
Champagne di Nicole. Mi era stato vicinissimo durante il divorzio,
l'unica presenza maschile su cui potevo fare affidamento, mi era
stato davvero di conforto e, in quei giorni in cui sguazzavo
allegramente nella merda, era ciò di cui avevo più bisogno.
Andrew
adorava Sean, quando veniva a trovarci nei i week-end passavo le ore
a giocare a football in giardino e sembrava che si divertisse più
lui di mio figlio. E poi era stata la prima persona a cui Lidia aveva
sorriso, con grande rabbia di Daniel e immensa gioia mia.
-...ok,
porta Lidia davanti al locale. Esce Sean e la porta a casa tua.
-Ok
allora gli lascio direttamente le chiavi. Ci vediamo tra cinque
minuti.
Schiacciai sul pedale dell'acceleratore con tutta la
scarpa e per poco non investii una coppia di adolescenti che stava
attraversando la strada proprio in quel momento. Purtroppo, quando
ero di fretta diventavo un vero mostro al volante, mi era andata già
di culo che in sette anni che avevo la patente non avevo mai fatto
incidenti. Riuscii ad evitare i nove semafori che mi separavano dal
232 passando almeno quattro volte col giallo e, sull'ultima curva, a
momenti non ruppi le pastiglie dei freni tanto sgommai forte. Questa
volta una multa non me l'avrebbe tolta proprio nessuno...
Mi
fermai a qualche metro dall'insegna rossa, inchiodando la macchina a
pochi centimetri dal marciapiede e dal parcheggio nel quale non sarei
entrata, non stavolta.
Mi fece un certo effetto essere davanti al
232 e non poterci entrare, e in un certo senso mi mancava. Gli orari
assurdi che spesso e volentieri coprivano quasi tutta la notte, lo
spogliatoio in cui noi ragazze ridevamo da matti mentre ci aiutavamo
a vicenda a vestirci e a truccarci, il bar davanti a cui avevo
passato ore intere, chiacchierando coi clienti e le altre ragazze.
Alla fine della fiera, eravamo una grande famiglia felice, fatta
essenzialmente di champagne e intimo francese.
-Sei contenta che
oggi stai con lo zio Sean, eh cucciola?- le sorrisi mentre afferravo
con una mano la borsa dei pannolini che stava in fondo al sedile.
Dopo essermi passata la cinghia a tracolla slegai Lidia dal suo
seggiolino e, tenendola sollevata col braccio libero, uscii dalla
macchina.
Sean si stava lasciando alle spalle la
porta a vetri del 232 proprio in quel momento, sistemandosi i folti
capelli scuri con una mano ed esibendo un sorriso talmente luminoso e
caldo che avrebbe potuto dare fuoco alle foglie secche.
Alto, fisico atletico e prestante, moro e
due occhi azzurri in grado di lanciare sguardi più penetranti di una
scavatrice, le labbra tumide e sottili, spalle da muratore e un culo
da orgasmi a grappolo. Sean Bolen era sexy come il diavolo e più di
una volta mi sorpresi a farmi dei viaggi degni del miglior film porno
in cui mi faceva di tutto e anche di più. Ovviamente non c'entrava
niente il fatto che, circa un anno fa, eravamo andati a letto
insieme... no no, ero proprio io che, dopo il divorzio, ero diventata
vittima di una delle peggiori crisi d'astinenza sessuale mai viste.
Una volta ero anche arrivata a pensare di sedurre il postino che, in
quel particolare pomeriggio assolato, mi era sembrato molto sexy con
il suo alito di birra e la sua unica ciocca bianca di capelli col
riportino... e qui lascio ben intendere quanto fossi messa male!
Ma finché non avrò il prossimo ciclo,
che include automaticamente la prossima carica ormonale sparata a
mille, credo che il genere maschile possa dormire sonni tranquilli;
di una cosa sono certa però... se dovessi arrivare a quota sei mesi
di astinenza me ne andrò a fare una passeggiata notturna in
autostrada per darla via gratis...
-Sean, guarda chi ti ho
portato!- esclamai sollevando un altro po' Lidia, sperando che la sua
presenza mi potesse fare da scudo contro un'altra eventuale crisi da
assenza di sesso che avrei rischiato di sfogare sul fratello della
mia migliore amica. Sean ci raggiunse con le braccia protese in
avanti e la prese subito in braccio tenendola su un fianco, con tutta
l'aria di chi non vedeva l'ora di piazzarsi in poltrona e di fare
zapping alla tv.
-Ehi scricciolina, come stai? Ciao Eva!- subito
si chinò un poco per darmi un leggero bacio sulla guancia e io feci
lo stesso, poi gli passai il borsone e lo aiutai ad infilarselo
attorno alla spalla.
-Bene grazie, tu?
-Non mi lamento. Oggi
non lavoro, così ne approfitto e mi riposo un pò. Lei ha già
mangiato?- domandò indicando Lidia che, nel frattempo, stava
giocando con la sua croce da uomo Comete. Le accarezzai piano la
testolina bruna, cercando di guardarlo in faccia il meno possibile.
-Sì sì, non ti preoccupare. Il prossimo biberon preparaglielo
per le due, dopo aver preparato il pranzo ad Andrew, dovrebbe
addormentarsi fra un'oretta.
-Ook, invece Andrew cosa mangia?
-Quello che vuoi, lui mangia di tutto.
-Capito, ora vai che
arrivi tardi.
-Ok, grazie mille Sean. Mi hai salvato la giornata!
Ciao cucciola.- mi sollevai un poco sulle punte dei piedi per
allungare un altro bacio sulla sua guancia, per poter avere almeno
l'illusione di un altro contatto maschile, e poi mi avvicinai
sfiorando con la punta del naso le gote di Lidia.
-Non c'è di
che. Ci vediamo oggi pomeriggio!
-A dopo!- esclamai risalendo in
macchina e chiudendo la portiera. Diedi loro un ultimo saluto
attraverso il finestrino e poi rimisi in moto l'auto in direzione
dell'edificio della Reynolds Group.
Mi presentai davanti all'ufficio di
Darren con cinque minuti di anticipo, avevo avuto anche il tempo di
fermarmi in un minimarket a prendere una confezione di succo pesca,
arancia e mela per poter finalmente fare colazione con una sacrosanta
e rovinosa dose di zuccheri di cui il mio sedere non si sarebbe mai
più sbarazzato. Trovai Gabrielle Halverson seduta alla scrivania del
suo ufficio, letteralmente circondata da schedari e fascicoli di ogni
genere e alla terza tazza di caffè per nulla decaffeinato.
-Buongiorno Gabrielle- la salutai da dietro la porta del suo
ufficio, senza però entrare.
Lei spostò lo sguardo dallo schermo del
suo portatile e mi sorrise, forse erano quattro tazze.
-Ehi,
buongiorno! Sei pronta per il tuo primo giorno?
-Sì, anche se
non so ancora cosa devo fare. Stavo giusto andando da Darren a
chiederglielo.
-Ok, adesso perdonami ma devo scappare, mi vedo
con l'agente di Nikki Reed per discutere della sua festa di
compleanno di domani sera... ci vediamo per pranzo? Di solito mi
faccio portare i pasti in ufficio dalla mensa, se mi facessi
compagnia mi farebbe piacere!- non feci neanche in tempo a
risponderle che si alzò dalla sedia mettendosi sotto braccio una
voluminosa cartelletta blu, dedicandomi un lieve gesto di saluto con
la mano ed uscendo a grandi passi dall'ufficio, tirando fuori dalla
borsa di pelle nera Chloe il suo Blackberry rosa che aveva già
cominciato a suonare come un indemoniato. Poveretta, che stress.
-...o-ok!- sussurrai, anche se parlavo solo a me stessa. Mi
guardai un attimo attorno, constatando tristemente che erano tutti
nei rispettivi metri quadrati dietro alle scrivanie, oberati di
lavoro, così girai i tacchi ed entrai nell'ufficio di Darren senza
far rumore. Lo osservai per qualche secondo nella sua aderente
camicia chiara, dove invece di “aderente” sarebbe stato meglio
dire che “gli era stata praticamente cucita addosso e ora sembrava
sul punto di esplodere”, perdendomi nel rilievo dei suoi pettorali
attraverso il tessuto sottile e apparentemente costoso.
La pelle abbronzata che scintillava di
piccole gocce d'acqua, lo stesso profumo che metteva religiosamente
ogni giorno da anni mi permetteva di riconoscerlo anche quando avevo
gli occhi bendati con la sua cravatta, piccolo gioco delle parti in
cui potevo scegliere se essere protagonista o semplice comparsa. La
presa forte delle sue dita sulla mia pelle che mi sconvolgeva senza
arrecare dolore, dandomi dolci brividi che sembravano poter durare
una vita intera. La seta che scivolava sulla mia pelle, cadendo sul
pavimento ai miei piedi in un'onda liscia e silenziosa. La passione
in ogni suo bacio, la potenza nel suo corpo.
Un uomo come pochi, quello che ogni
donna sogna ma che nessuna vorrebbe davvero.
Dietro alla maschera
dell'amante appassionato e irrefrenabile si nascondeva un'ombra
oscura, invisibile ad occhi inesperti. Ma io l'avevo vista, sapevo
fin dall'inizio della sua presenza in quel corpo paradisiaco e
l'avevo comunque accolto nella mia vita, concedendogli di prendersi
un piccolo pezzetto di me ad ogni nostro incontro.
-Incredibile, sei puntuale!- la sua voce
mi riportò alla realtà come il riavvolgimento brusco di un nastro,
sedando la mia carica ormonale e facendo rientrare il rivolino di
saliva al suo giusto posto, nella mia bocca. Mi sorrise stirando
lievemente le labbra, ma non fece di più. Al momento non sapevo
nemmeno cosa rispondergli, immersa com'ero nei miei ricordi in cui
avrei potuto annegare più che volentieri, poi mi tornò l'uso della
parola.
-Ehm... s-sì, t-te lo avevo detto. Cosa devo fare?
-Allora, forse Gabrielle non ha avuto il tempo di accennartelo,
impegnata com'è, comunque tu sarai assegnata all'ufficio del
catering familiare.- mi spiegò aprendo uno dei tanti fascicoli sulla
scrivania davanti a sé e svogliandolo di malavoglia.
-E in che
cosa consiste?
-Non ti preoccupare, non è niente di impegnativo.
Organizzazioni matrimoniali e feste comuni che necessitano di un
organizzatore. Ora ti mostro la tua postazione.
Alla faccia del
non impegnativo, organizzatrice di eventi?! Ma se non sapevo nemmeno
organizzare i carichi della lavatrice a casa mia!
La porta alle
mie spalle si spalancò facendo sbattere la maniglia metallica contro
il vetro del muro adiacente e minacciando seriamente di frantumarlo.
Una donna di colore tra i ventisette e i trent'anni di una bellezza a
dir poco disarmante fece il suo discreto ingresso
nell'ufficio, come se odiasse passare inosservata... infatti i suoi
vestiti ultra griffati che, nel complesso, potevano tranquillamente
valere quanto la mia macchina, urlavano “ignorami!”.
Solo un
particolare stonava con tutta quell'eleganza, quella donna era
incazzata come un pinguino e non lo dava certo a nascondere. Certo
che se era la prima impressione quella che contava...
-Darren,
abbiamo un problema!- esclamò con una voce che avevo sentito
fuoriuscire solo da poche persone in vita mia: una era Nicole il
giorno in cui mi licenziò, l'altra era mia sorella quando le dissi
che ero incinta di Andrew. Entrambi episodi da dimenticare e che
avevano seriamente rischiato di farmi perdere l'udito.
-Sì Pam,
dimmi. Eva, chiudi quello che resta della porta e aspettami fuori.
Io annuii ed uscii da quell'ufficio il più velocemente possibile
richiudendomi la porta alle spalle. Peccato che servisse ben poco, da
qui li sentivo perfino respirare.
-Cosa c'è?
-C'è che sono
nella merda e non ho la più pallida idea di come comportarmi!-
esclamò lei, rasentando di molto poco l'isteria.
-Pamela, cosa è
successo di così grave da metterti in agitazione in questo modo?
-Sono incinta, cazzo! Mi sposo fra tre mesi e sono incinta!
-...e il problema sta?
-Che ho eventi da organizzare un
giorno sì e l'altro pure fino ai prossimi due anni e che ho un
vestito di Vera Wang da tredicimila dollari che non potrò
indossare!- minchia, tredicimila dollari... tanto di cappello.
-…
i vestiti si allargano Pam, si è sempre fatto così.
-Darren non
si allarga un vestito di Vera Wang, sei tu che ti restringi per
entrarci! E se i geni di mia madre si metteranno all'opera allora
sono destinata ad allargarmi a livelli esponenziali!
-Stai
tranquilla che non ti allargherai prima di aver raggiunto almeno i
tre mesi. Qualche settimana in più non farà ancora di te una
balena.
-Ah sì? E tu come lo sai?- domandò Pamela,
apparentemente un po' più calma.
-Ho tre figli, ecco come lo so.
E ora, se non ti dispiace accompagno una ragazza nel settore del
catering familiare.- sentii delle rotelle scivolare sul pavimento per
un tratto molto breve, indicandomi che Darren si era finalmente
alzato dalla sua poltrona di pelle.
-Cos'ha di così speciale per
avere diritto delle tue attenzioni? Di solito, quello è compito mio.
-Ci potrà aiutare nell'innalzare la qualità dei nostri servizi,
è italiana.
-Evviva, finalmente conosceremo il vero sapore della
pasta. Ma che bisogno c'era di assumere Little Italy con l'equipe
strapagata che abbiamo?- domandò con una nota di disapprovazione più
che evidente. Little Italy?! Ma qual'era il suo problema?
-Pam,
ho forse mai fatto delle scelte sbagliate?
-Direi di no o non
saremmo qui.
-Esatto. Ora vado.- con quella frase decretò la
fine della conversazione. Pamela fu la prima ad uscire e, vedendomi
appoggiata al vetro separatore alla sua destra, mi squadrò da capo a
piedi criticando mentalmente ogni cosa che indossavo e, sicuramente,
non c'era l'ombra di un complimento in quello che potevo leggere nei
suoi occhi.
Meglio dimostrarsi superiore in ogni caso ed evitare
di fare uso di frecciate velenose.
-Piacere, Eva Van De Mason.-
dissi porgendole la mano, lei me la strinse dopo avermi fatto
aspettare quei tre secondi in più sufficienti ad imbarazzarmi.
-Pamela Marelli.
Beene, la socia in pari di Darren. Per
fortuna avevo deciso di non risponderle a tono, altrimenti mi sarei
già trovata col culo alla porta, per dirlo in termini terra a terra.
-Molto bene, visto che vi siete presentate posso cedere a Pam il
compito di istruirti, così io potrò occuparmi della festa di Sports
Illustrated. Penso che voi due andrete molto d'accordo!
Al suono
di quell'ultima frase gli lanciai un'occhiataccia che poco aveva di
umano: un misto di odio e panico e “questa me la pagherai
carissima”. Come poteva abbandonarmi così con quel mostro in pelle
di donna?
Solo dopo mi accorsi che Pamela aveva reagito allo
stesso modo, come se il solo pensiero di avermi tra i piedi
l'annoiasse. Ma che le avevo fatto?
Però secondo me era solo
irritata per via del suo vestito di Vera Wang, io ero solo quella che
era capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato. In effetti,
anche io mi sarei incazzata sapendo di aver appena buttato nel cesso
tredicimila dollari; perché, anche se si facesse allargare il
vestito, una donna incinta di quasi quattro mesi non sarebbe mai
riuscita ad entrare in un Vera Wang che era già stretto di suo.
Darren faceva tanto quello che la sapeva lunga perché aveva tre
figli, ma non era stato lui a portarseli nell'utero per nove mesi,
indi non conosceva proprio niente di quello che succedeva durante la
gravidanza. Lui al limite avrà dovuto sopportare le voglie e le
crisi isteriche di sua moglie ma, e qui ci metterei la mano sul
fuoco, non sarebbe stato nemmeno in grado di mettere piede nella sala
parto.
-Questa è la tua scrivania e questo è il
tuo computer.- Pamela mi indicò un tavolo bianco corredato di un
computer portatile Macintosh poggiato sulla superficie liscia e
lucida. Per tutto il mese prossimo sarei rimasta nell'ufficio di
Pamela e lei mi avrebbe siutata coi primi incarichi di catering
familiare, solo dopo avrei avuto diritto ad un ufficio tutto mio due
piani più in basso.
Non era più incazzata come prima... anzi,
adesso mi sembrava quasi tollerabile, o almeno quasi umana. Aveva
assunto il tipico carattere e portamento della guida severa che
doveva insegnare le tecniche del mestiere all'ultimo arrivato, cosa
che apprezzai molto.
Si sedette e accese il portatile, il quale
si illuminò in una schermata che portava il nome e il logo
dell'azienda, e aprì un'icona sul desktop con scritto “Organizzare
Nuovo Evento”. Piuttosto esplicito.
-In ogni computer
dell'azienda è installato un programma contenente la lista di tutto
ciò che possiamo offrire ai clienti e di cui siamo a conoscenza. E
per tutto intendo proprio tutto, dai campionari delle ricette per i
menu ai dati dei vip, le location e...
-Aspetta un minuto... dati
vip?- domandai incredula. Di colpo più interessata alle sue
spiegazioni, mi chinai in avanti per poter vedere meglio lo schermo
del portatile. Lei sospirò, come se avesse previsto la mia reazione,
e proseguì aprendo il link “Celebrità” ed inserendo una
password richiesta dal programma, poi sullo schermo apparve una lista
completa e ordinata alfabeticamente di tutte le celebrità sulla
faccia della Terra.
-Adesso ti faccio vedere. In questo
programma, o database se preferisci, abbiamo anche tutte le
informazioni occorrenti di ogni singola celebrità, informazioni che
vengono aggiornate praticamente ogni ora da un gruppo di persone
accuratamente selezionate per le loro conoscenze. Abbiamo
praticamente tutto: numero di telefono del vip e del suo agente,
indirizzo, data di nascita ed eventuale matrimonio, relazioni
sentimentali, film girati, riviste preferite, allergie e
intolleranze...
-Wow, che figata. Qual'è la password?- non avevo
più capito niente dopo “celebrità”. Avrei potuto scoprire
l'indirizzo di David Gandy... quel gran pezzo di dio greco sceso in
terra... oppure di Hugh Jackman... oppure di tutti e due!
-Non ti
eccitare Little Italy, il catering familiare non è autorizzato ad
usufruire della categoria vip, quella è riservata agli eventi
sociali delle aziende cinematografiche.
-Ah- a dir la verità, ci
ero rimasta peggio per essere stata nuovamente chiamata Little Italy
che per la password negata. Mi sa che quel soprannome non me lo sarei
più scollata di dosso...
Addio David Gandy e Hugh Jackman...
-Hai qualche domanda?- mi chiese lei una volta uscita dalla
categoria riservata del programma.
-In effetti sì. Se dovessi
avere dei problemi, potrei lavorare da casa?
-Sarebbe cento volte
preferibile che tu lavorassi qui, dove ti posso controllare e dare
una mano nel caso in cui tu abbia bisogno.- le labbra dicevano di no,
la voce diceva “assolutamente no”, traduzione: “Accetterei la
tua assenza solo se fossi su una barella diretta all'obitorio, in
caso contrario devi cementificare il culo su questa sedia”.
-Beh, se uno dei miei figli dovesse stare
male non potrei venire...- sussurrai, nella speranza di crearmi un
varco in quella rete di impedimenti. In teoria, la maternità avrebbe
dovuto essere il mio jolly, anche se speravo caldamente che nessuno
dei miei figli si beccasse a breve qualcosa; se questo lavoro era
difficile come me lo mostravano, per i primi tempi avrei dovuto
essere super concentrata e pronta a tutto.
Pamela spalancò gli
occhi, sbalordita. Era l'ultima cosa che si aspettava che le dicessi
e ora non sapeva che cosa rispondermi.
-H-hai dei figli?- mi
domandò passandosi una mano tra i capelli scuri e ricomponendosi dal
suo stato di sorpresa.
-Sì, ne ho due. Perché?
-Ma quanti
anni hai scusa?- mi chiese allora appoggiando il gomito sullo
schienale morbido della sedia. Sembrava sinceramente interessata.
-...ventiquattro.- risposi a mezza voce, leggermente in
imbarazzo.
-Ah...- si bloccò, le sopracciglia stirate verso
l'alto e la bocca semi spalancata.
-Questa cosa ti turba?
-No,
è che non me lo aspettavo... insomma, sei così giovane...
-Capita... allora, qual'è il mio primo incarico?- e finalmente
riuscii a cambiare discorso, concludendo quello che si stava
trasformando in un interrogatorio sul perché avevo due figli alla
mia età. Non mi piaceva parlare della mia vita, soprattutto con un
persona che conoscevo da meno di un'ora, era una cosa che mi metteva
a disagio e finivo inevitabilmente col sentirmi sotto giudizio.
Perché le persone giudicano, ohh... eccome se giudicano, parlare
il meno possibile di sé è l'unica soluzione per salvarsi dai
giudizi degli altri.
Prima non ero così, non ero una madre, non
ero divorziata e non ero in difficoltà economiche... beh, quello sì.
La verità era che avevo dovuto crescere in fretta, imparare forse
troppo presto a prendermi cura di me e delle persone che amavo e che
amo tutt'ora. Non mi pentivo di tutto quello che avevo fatto e che mi
aveva portata fino a qui, o non avrei conosciuto Melanie e Sean, non
avrei avuto Andrew e Lidia.
Il mondo divino ai piedi delle scale,
era quella la mia missione sacra. Farli aprire tutti, aiutarli, in
tanti modi diversi allontanare la loro paura fottendo. Lui sorride
troppo, si fa piccolo in modo che io possa vedere che mi sta
implorando. Solo una sbirciatina.
Lui freme per l'aria che lo
circonda, catturando gli aliti di Zefiro che soffiano, e mi invita
nel santuario della sua estasi privata.
Altri sono così timidi
che posso assaporare la loro vergogna, perché questo è il mio dono,
riuscire a percepire che cosa hanno dentro e di cosa hanno bisogno:
corteggiamento, sottomissione, umiliazione.
Guardando ogni
movimento, respirando con loro... ispira, espira.
-Ti prego, non
fraintendermi... di solito non vengo in posti come questo.
-Allora
magari non sei veramente qui. Può essere tutto quello che vuoi.
-Non dire così.
Di solito, le
prime volte si sentivano sempre a disagio, e il mio compito era fare
in modo che si sentissero accettati. Tra quelle quattro mura non
avevamo regole, non avevamo costrizioni. Ma per lui non era la prima
volta, eppure era chiuso, impenetrabile, difficile da decifrare.
-Perché mi guardi in questo modo?
-È così che conosco le
persone, guardandole negli occhi.
-Non sei obbligata a
conoscermi, non sarai mai obbligata a conoscermi.
Mi sfiorava la
veste, afferrando delicatamente l'orlo del leggero tessuto tra due
dita.
-Puoi togliertelo? Soltanto il kaftano.
-Tutto quello
che vuoi Darren.
Stavolta era lui a studiarmi, ad analizzare ogni
mio gesto volontario o involontario che fosse.
Cominciò ad
accarezzarmi la pelle nuda delle spalle, delicatamente, come se fosse
in esplorazione.
-Perché hai scelto un lavoro simile? È un
lavoro segreto... qui può succedere di tutto.
-Solo se vogliamo
che succeda.
Le sue dita viaggiavano sicure sulla mia pelle,
risalendo nell'incavo delle spalle, poi sul collo, e infine sulla
guancia, più rosea grazie al fard.
-Sei così bella... ma questo
me lo aspettavo.
Io offrivo loro tutto quanto. Nessun limite,
nessun tabù... questa era la mia promessa, andare ovunque con loro
volontariamente; nelle foreste oscure, nei luoghi segreti, per poi
portarli di nuovo al sicuro a casa.
Da loro stessi.
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Capitolo 5 *** New Troubles ***
New Troubles
-Quella è Mefisto in un corpo da donna,
ne sono certa! Come è certo che quest'insalata odora di sudore...
bleah!- commentai disgustata, allontanando con l'avambraccio il
piatto di insalata e pomodori che avevo davanti e buttandomi sulla
macedonia che avevo comprato al supermercato prima di entrare in
ufficio. Gabrielle sospirò pazientemente pulendosi le labbra col
tovagliolo di carta. Ero solo al mio secondo giorno e mi sembrava di
impazzire.
Almeno stamattina avevo chiamato la babysitter, quindi
i miei figli erano a posto. Ora, l'unica cosa di cui mi dovevo
preoccupare era organizzare un matrimonio soddisfacente per i futuri
signori Dupree.
-Credimi, Pamela non è cattiva, il suo compito è
assecondare le richieste dei clienti e dar loro quello che vogliono,
come lo vogliono, quando e dove. Qui dentro non è facile per
nessuno!
-Allora questi clienti sono pazzi! Tanto per cominciare
non esistono piatti cruditè di origine italiana dal momento che
tendiamo ad esagerare col burro e o la margarina in quasi ogni
piatto, e poi dove trovo una location raffinata ma semplice quando
gli aggettivi stessi sono esatti contrari?!- ed eravamo solo al menu
e al luogo, non le avevo ancora parlato degli inviti che dovevano
essere fatti con la carta da riso quando mezzo mondo sapeva che è un
materiale che si sgretola con la sola forza del pensiero. Ma in che
dimensione parallela ero finita?
-Eva non esistono i problemi,
solo le soluzioni.- mi rispose in tutta calma e prendendo un'altra
forchettata della sua insalata, come se richieste come quelle le
capitassero tutti i giorni, ma ormai non l'ascoltavo neanche più.
Come cavolo faceva a mangiare solo quella
roba a pranzo prima o poi me lo dovrà dire. Io, se a pranzo non
mangio almeno un coniglio intero rischio di non arrivare viva a sera.
Va bene che mi aveva invitata anche oggi a pranzare nel suo ufficio,
ma l'insalata di pomodori e macedonia per il secondo giorno di fila
non li avrei retti; da domani voglio qualcosa che si possa definire
pasto, e questo comprende la pasta o la carne.
-Ah sì, e qual'è
la soluzione? Il suicidio?- domandai sull'orlo del pianto.
-Ma
no, non essere così tragica. Allora, da quello che mi hai detto i
Dupree non sanno niente di cibo italiano. Puoi preparare il menu
cruditè semplicemente abbellendolo con nomi tipici italiani. È un
trucchetto che usiamo spesso qui... - mormorò facendomi
l'occhiolino.
-Ma questo non è imbrogliare?
-Forse, ma la
gente che passa da quella porta bada solo alla forma, non al
contenuto. Fidati, alla maggior parte delle attrici puoi far passare
una bottiglia di spumante da quattro soldi per champagne Cristal
d'annata e loro manco se ne accorgono, l'importante è che ci sia la
scritta dorata in francese.
-Quindi mi basterebbe camuffare il
nome dei cibi, tutto qui?- domandai basita. Se era così semplice
perchè non me lo avevano detto subito? Ah, giusto... ero la nuova
arrivata.
-Devi solo avere fantasia, in tutto quello che fai. Devi
prenderci la mano, ma vedrai che col tempo diventerà più facile.-
mi spiegò svitando il tappo azzurro della sua bottiglietta d'acqua
minerale e prendendone un piccolo sorso.
-Stamattina li ho
incontrati, per il momento sono solo riuscita a fargli scegliere le
partecipazioni... secondo te è fisicamente possibile stampare sulla
carta da riso?
Lei scoppiò a ridere mandando giù l'acqua di
traverso, ma recuperò subito l'autocontrollo e quella che poteva
essere una risata cristallina e sentita le uscì come un verso
smorzato e acuto. Gabrielle era veramente una ragazza tenerissima, ma
mi sembrava soffocare... mentalmente intendo, era come se trattenesse
qualcosa; era troppo rigida, troppo controllata, troppo
posata...insomma, una qualsiasi altra ragazza della sua età
indosserebbe meno della metà della quantità di stoffa che invece
indossava lei, e in effetti il suo abbigliamento quotidiano parlava
da sè: ballerine coordinate ad un abito lungo al ginocchio indossati
quasi religiosamente ogni giorno. Tutto quello che le vedevo addosso
non aveva niente a che fare con l'immagine che mi ero appena fatta di
lei: ragazza modello di giorno, femme fatale di notte. Qui c'era solo
una donna perfetta in abiti perfetti. E le donne perfette non
esistono.
La suoneria interruppe il mio pasto, costringendomi
ad asciugarmi al volo le dita bagnate dal succo di limone e zucchero
della macedonia e a rispondere ad un numero che non avevo mai visto
prima. Sperai che fosse uno dei nuovi avvocati leccapiedi di Daniel
che mi chiamava per rimproverarmi del fatto che avevo sbattuto la
porta in faccia al loro cliente, così mi preparai al volo una bella
e colorita compilation di insulti appena creati da potergli tirare...
almeno avrebbe avuto un vero motivo per chiamarmi.
-Eva Brivio Van
De Mason
-Signora Van De Mason, sono il preside Preston della
scuola elementare pubblica di Beverly Hills.
Per poco non
soffocai nella mia stessa saliva per lo spavento, avevo appena
rischiato di fare una colossale figuraccia.
-È successo qualcosa ad Andrew?- strano,
la sua scuola non mi aveva mai chiamata, cosa poteva essere successo
di così grave da meritare una telefonata da parte del preside?
-Andrew sta bene. La chiamo perché avrei urgenza di parlarle di
una questione che mi preoccupa da qualche tempo. È possibile avere
un colloquio oggi?
-Devo chiedere un permesso al mio superiore,
la posso richiamare tra cinque minuti?
-Certamente, a più tardi.
-Salve.
Riposi il cellulare nella borsa, afferrando i manici
di pelle tra le dita e stringendoli con forza. Il tono di voce che
aveva il preside Preston non mi era piaciuto neanche un po', ma
cos'altro avrebbe potuto andare storto?
Gabrielle mi guardò con aria
interrogativa, in attesa di una mia reazione.
-Devo andare alla
scuola di Andrew, a chi devo chiedere per un permesso?
-Pamela è
la tua responsabile, dovresti chiedere a lei.- molto bene. Già mi
immaginavo il suo volto avvolto dalle fiamme e gli occhi iniettati di
sangue che mi guardavano come per dire “tu prova ad alzarti dalla
tua scrivania e io ti rovino”, e magari non si sarebbe limitata
solo a comunicarmelo con gli occhi. Il preside Preston avrebbe dovuto
aspettare la fine della giornata, mal che vada direttamente il
week-end.
-Oh cazzo, ed ora come faccio?
-Fortunatamente lei
è dall'estetista, quindi il tuo superiore sono io- aggiunse
facendomi l'occhiolino da dietro gli occhiali da vista.
-Signora Van De Mason. Prego, si
accomodi.- Lo ammetto, senza peli sulla lingua, il preside della
scuola elementare di Andrew era una persona piuttosto
inquietante...con quella testa così piccola rispetto al resto del
corpo... se avessi provato a fare il gioco delle otto differenze tra
lui e l'immagine di un koala non ne avrei trovata neanche una. E poi
quella venuzza azzurra che gli partiva dalla tempia sinistra per poi
risalire sulla fronte mi incuteva un certo timore, come se
minacciasse di esplodere da un momento all'altro. Mi guardò entrare
nel suo studio da dietro ad una sbilenca scrivania di legno chiaro su
cui erano sparsi mezza dozzina di fogli. Ero agitatissima, anche se
non lo davo a vedere, mi limitai a sedermi sulla sedia davanti a lui
accavallando le gambe ed incrociando le dita di fronte al ginocchio
nel tentativo di acquistare un po' di quella sicurezza che la sua
testa di koala aveva brutalmente ucciso.
-Grazie.
-Gradisce
del caffè?- mi domandò indicando la macchinetta per l'espresso.
-Oh, no grazie.
-Come desidera... signora Van De Mason, lo
convocata perché sono un po' preoccupato per Andrew.- affermò
cominciando a sistemare in modo assolutamente privo di senso i fogli
posti davanti a sè.
-In che senso?- lo sapevo, guai in arrivo.
Ed io non ero assolutamente preparata ad affrontarli.
-Negli
ultimi tempi si distrae spesso, i suoi voti hanno subito un calo a
dir poco vertiginoso rispetto alla sua media e non socializza coi
suoi compagni di classe.
-Preside Preston, mio figlio è
incredibilmente sveglio, a casa fa tutti i compiti assegnati, come è
possibile che abbia un calo dei voti?
-Questo speravo che me lo
dicesse lei. Signora Van De Mason, è successo qualcosa nella sua
famiglia che abbia potuto influenzare in qualche modo la quiete
domestica?- Un velo di sudore apparve sulla fronte del preside, come
se volesse trovarsi in qualsiasi altro posto tranne in quello
attuale.
-Beh, poco più di due mesi fa ho divorziato, ma non ha
in alcun modo traumatizzato i miei figli.
-Signora Van De Mason,
non ho detto questo...
-E allora cosa voleva dire? Io non la
capisco, sembra così nervoso.- dal momento che da lui non sarei mai
riuscita a capire dove volesse arrivare, abbassai lo sguardo sui
fogli che stava precedentemente leggendo di sfuggita.
-La psiche
di un bambino è particolarmente fragile e la separazione dei
genitori può risultare un trauma nella maggior parte dei casi... e
la smetta di leggere al contrario i fogli sulla mia scrivania!
-Qual'è il suo problema? Voglio solo sapere se sono la causa dei
problemi di mio figlio!
-No, assolutamente no. Comunque ho già
avuto la risposta che mi aspettavo.
-E quale sarebbe?
-A suo
figlio manca una figura paterna e una situazione domestica
tranquilla.
-Cos'è? Ha studiato psicologia infantile per caso?-
prima o poi avrei trovato qualcuno che mi avrebbe cucito la lingua,
ma quell'uomo risvegliò in me la parte che cercava di trattenere gli
insulti che avevo coniato poco prima.
-Non ce n'è bisogno,
trovare risposte a questi problemi è piuttosto facile. Comunque
ritengo che suo figlio si troverebbe meglio in una scuola dove lo
possano seguire con più attenzione. Oppure le posso suggerire il
nome di uno specialista di terapia familiare.
-Non ho bisogno
della terapia familiare, e lei è davvero privo di qualunque forma di
rispetto! Se ne può andare al diavolo, lei e la sua scuola di
sputasentenze!- ero talmente ferita nell'orgoglio che solo dopo mi
accorsi dell'enorme cazzata che avevo appena fatto.
-Come
desidera, signora Van De Mason. - rispose nella più totale
tranquillità, come se si fosse appena tolto un peso di dosso. A quel
punto mi alzai dalla sedia voltandogli le spalle e mi diressi verso
l'uscita, fermandomi sulla soglia per lanciargli una frecciata
velenosa tanto quanto lui.
-A proposito, il 26 si goda la
colonscopia!- mi fermai ancora un secondo per godermi la sua
espressione di sgomento e lasciai quella topaia per andare dritta
dritta nella classe in cui si trovava Andrew, del tutto intenzionata
a portarlo via con me.
Mia sorella me lo
ripeteva più volte al
giorno, così come mia madre e mio padre a loro tempo, io sono
impulsiva. È forse il mio peggior difetto, e in parte la causa del
crollo della mia vita.
Il
mio arrivo a Los Angeles non conta,
avevo solo 18 anni ed era stata una decisione sofferta e obbligatoria
per molti versi... aver abbandonato quell'inferno in Italia fu solo
il primo passo; poi fu tutta una discesa, almeno per me.
Ero
stata impulsiva quando scelsi di tenere Andrew nonostante non avessi
i mezzi per mantenerlo e il padre fosse sparito nel nulla, ero stata
impulsiva quando scelsi di lavorare insieme a Melanie ed ero stata
ancora più impulsiva nel momento in cui accettai la proposta di
matrimonio di Daniel.
Togliere
Andrew dalla scuola era solo
l'ultima delle mie decisioni.
Qualche
giorno prima avevo
letto su Los Angeles Times la recensione di una fantastica scuola
privata che si trovava vicino al mio quartiere e che non mi potevo
assolutamente permettere, ed era proprio lì che mi stavo dirigendo.
Non mi ero fermata a riflettere sul fatto che non mi potessi
assolutamente permettere la retta di una scuola privata, ma quella da
cui avevo appena fatto togliere Andrew era l'unica pubblica
abbastanza vicina da permettermi di non fare levatacce alle cinque e
mezzo del mattino. Tutte le altre scuole in zona erano rigorosamente
mantenute dagli assegni delle famiglie. Quando eravamo ancora
sposati, Daniel aveva insistito affinché iscrivessi Andrew a quella
scuola e aveva anche parlato col preside affinché lo iscrivesse
subito nonostante ci fosse una selezionatissima lista di attesa a cui
sottoporsi. Ma la famiglia di Daniel era stata una finanziatrice
della scuola, le pressioni che aveva esercitato sul preside avevano
fatto si che Andrew venisse iscritto nel giro di tre giorni. Il
progetto era crollato sotto il mio diritto di veto, allora avevo la
repulsione verso gli istituti privati di qualsiasi genere, le scuole
pubbliche non avevano niente da invidiare in fatto di istruzione e
non costavano un occhio della testa a semestre.
Una
volta
riconosciuta la zona cominciai a seguire i cartelli delle indicazioni
che recitavano “Istituto privato Oakridge”. L'edificio era
piazzato nel bel mezzo di un parco costellato da aiuole multicolori e
da pacchiani putti di marmo posti su altrettanto pacchiane fontane,
ma nel complesso sembrava promettente. Parcheggiai di fianco al
cancello nell'area parcheggio, all'ombra di un pino argentato; almeno
ero sicura che i raggi solari non mi avrebbero squagliato la macchina
e che non avrei avuto le vampate come se fossi stata in menopausa.
-Mamma,
che cosa facciamo qui?- mi chiese Andrew dal suo
seggiolino posteriore, ancora scosso per essere uscito da scuola così
presto. Non sapeva ancora che là non ci sarebbe più andato.
-D'ora
in poi verrai a scuola qui, ci stiamo andando a iscrivere- risposi io
scendendo dalla macchina, più brusca di quanto volessi.
-Ma
siamo a Maggio.- mormorò confuso mentre lo aiutavo a scendere dalla
macchina.
-Lo
so tesoro, ma adesso andiamo a parlare col preside
di questa scuola e tu d'ora in poi verrai qui, d'accordo?
Andrew
annuì e mi strinse la mano un po' più forte, fiducioso. Percorrendo
gli ampi e luminosi corridoi riuscimmo ad intravedere l'interno delle
aule attraverso le porte semiaperte, dove varie classi di ragazzini
in divisa ascoltavano le lezioni di matematica o disegnavano su
banchi colorati. Ci dirigemmo al primo piano, verso la segreteria e
verso l'ufficio del preside, dove l'unico rumore udibile era quello
prodotto dai miei tacchi sul liscio pavimento in cotto.
Mi
avvicinai ad una grande porta di legno scuro con una targhetta in
ottone e picchiettai un paio di volte sul legno della porta con le
nocche, poi rimasi pazientemente in attesa.
-Avanti.-
aprii la
porta lentamente, facendo entrare prima Andrew.
-Preside
Hobson,
salve. Sono Eva Van DeMason e lui è mio figlio Andrew. La
disturbiamo?- domandai piano, per paura di essere cacciata
dall'ufficio. Invece, la reazione che ottenni fu completamente
opposta. Gli occhi del signor Hobson si illuminarono come se avesse
appena visto un dinosauro comprare la focaccia bianca in un
panificio, la bocca gli si allargò in un sorriso a tremila denti e
cominciò a sfregarsi le mani l'unica contro l'altra per il
compiacimento.
-Allora
lei è la moglie di Daniel! È un vero
piacere conoscerla, si è parlato tanto dell'iscrizione di vostro
figlio nel nostro istituto, è un vero peccato che ciò non sia più
accaduto. Sedetevi, sedetevi!
La
sua reazione mi aveva quasi
spaventata, sapevo che lui e Daniel si conoscevano, ma che lui lo
citasse chiamandolo col nome di battesimo mi spiazzò ed Andrew non
era da meno.
Prendemmo
posto nelle due poltroncine di pelle beige
chiaro davanti alla scrivania mentre il signor Hobson si accomodò di
fronte a noi con l'aria di un bambino che era appena stato rinchiuso
per una notte in un negozio di caramelle.
-Sì,
in realtà avrei
cambiato idea... riguardo all'iscrizione...- ammisi a bassa voce,
anche se dentro di me sapevo di essere falsa come Giuda. Seduto
accanto a me, Andrew stava cominciando ad agitarsi, ne era un chiaro
segno il movimento incontrollato del suo piede sinistro che cominciò
a tirare dei piccoli colpetti alla gamba scrivania, ma il rumore
venne attutito dalla gomma sulle sue scarpe da ginnastica. Con molta
nonchalance e senza distogliere il contatto visivo col signor Hobson,
appoggiai la mano destra sul suo ginocchio, fermandolo e dandogli poi
delle leggere pacche coi polpastrelli. Andrew mi tirò un'occhiata
contrariata e cominciò a guardare in un'altra direzione, come se non
si trovasse nemmeno nella stanza.
-Davvero?
Daniel non mi ha
avvisato di questo suo cambiamento di decisione.
-Diciamo
che è
stata una scelta improvvisa, è un problema? Mi rendo conto che sia
tardi...
-Oh
no, niente affatto! Tutti i Van DeMason hanno
imparato a leggere e a scrivere in questa scuola e di sicuro non
vogliamo escludere il piccolo Andrew da questa tradizione e, nel
prossimo futuro, vostra figlia Lidia- il riferimento a mia figlia mi
fece definitivamente convincere che lui era completamente ignaro del
fatto che io e Daniel avevamo divorziato più di due mesi prima. Non
era sicuramente Daniel il suo pensiero principale, in realtà il suo
solo obiettivo era poter vantare l'iscrizione di altri discendenti
dei Van DeMason nella sua scuola.
-Un
attimo solo che cerco i
documenti da firmare, nel frattempo le mostro la tabella con la
retta.
-Eccola
qua, faccia pure con comodo!- esclamò tutto
compiaciuto mostrandomi una tabella con elencate le cifre della
retta. Mi sentii mancare.
-È
questa allora... ma noi dovremo
pagare solo metà retta visto che ci siamo iscritti a metà del mese,
giusto?- domandai, ancora sbigottita dalla quantità di zeri segnati
su quel foglio di carta.
Per
caso compravano i gessetti d'oro
massiccio per scrivere alla lavagna?
-La
cifra è già stata
dimezzata, questa che vede è quella corretta.
Credetti
di stare
per avere un collasso cardiaco e neurologico nello stesso momento, ma
siamo impazziti?! Parliamo di una cifra a tre zeri per due settimane
e mezzo!
Purtroppo,
giunta a questo punto non mi potevo più
tirare indietro. Se mi fossi rifiutata una seconda volta di mandare
Andrew in quella scuola sarebbero successe due cose, una peggiore
dell'altra: avrei dovuto assumere un'insegnante privata che lo
istruisse a casa e il signor Hobson avrebbe chiamato Daniel per
esternare la sua disapprovazione. A quel punto il mio ex-marito
avrebbe scoperto che usufruivo ancora del suo cognome per farmi
aprire qualche porta e a quel punto sarebbe stato capace di
trascinarmi in tribunale... ero in trappola.
Sentii
qualcosa
sfiorarmi il ginocchio con insistenza, abbassai lo sguardo sulle mie
gambe accavallate e vidi Andrew che, con una manina, mi tirava delle
pacche per fermare il tic nervoso che mi era appena venuto alla
gamba.
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Buona
domenica a tutte, finalmente sono riuscita a trovare il tempo di
aggiornare il nuovo capitolo e, col prossimo, arriverà anche il tanto
atteso co-protagonista maschile di questa storia e la prima One-Shot a
rating rosso, che sarà messa in una storia a parte e unita a questa in
una serie. Spero che vi piaccia.
Un
bacione,
Aching4perfection
|
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Capitolo 6 *** Dirty Little Truth ***
Dirty Little Truth
-Darren, posso entrare?- domandai, a bassa
voce, entrando nel suo ufficio. Dopo aver lasciato Andrew a casa con
la babysitter ero tornata in azienda per cercare in qualche modo di
recuperare le due ore che avevo perso quel pomeriggio. Era circa le
sette di sera e l'edificio era praticamente deserto, se n'erano
andati tutti a casa da un pezzo... solo Darren era rimasto in ufficio
a controllare le ultime pratiche rimaste indietro, ma a breve sarebbe
tornato a casa pure lui.
-Proprio non riesci a starmi lontana...-
mormorò con tono da seduttore, allungando le labbra in un mezzo
sorriso e terminando la frase con un pesante sospiro, e fu allora che
si mise istantaneamente in moto il mio generatore di insulti rivolti
esclusivamente a lui e alla sua testa di cazzo. Annullai la distanza
affiancandomi alla scrivania e sapevo di essere nervosissima, non
riuscivo a tener le mani ferme e gesticolavo giusto giusto per tenere
impegnata almeno una parte del mio ansioso cervellino.
-Perchè
sei così agitata? Che problema hai?
-Ho pagato con un assegno
scoperto la retta per Andrew ad Oakridge e non me la posso
assolutamente permettere. Mi puoi fare un prestito? Poi me li detrai
tutti dallo stipendio!- esclamai a raffica, senza neanche prendere
fiato, ero talmente fuori di me che se mi fossi fermata un attimo a
pensare a quello che stavo per chiedergli mi sarei tirata una
padellata sui denti per impedirmi di aprire bocca.
Darren mi
guardò come se fossi stata la reincarnazione dell'ingenuità, cosa
che in effetti mi sembrava di essere. Si chinò in avanti sulla
scrivania e ne aprì il primo cassetto tirando fuori un libretto
degli assegni protetto da una custodia di pelle lucida.
-Eva, lo
sappiamo tutti e due che il tuo stipendio non copre nemmeno la metà
della cifra che hai versato per Oakridge. - affermò con sicurezza.
Lo sapeva bene perché i suoi due figli più grandi frequentavano
quella stessa scuola.
Con mano leggera compilò senza esitazioni
un assegno del valore di quattromila dollari, completandolo e
applicando la propria firma in ogni sua parte e poi, con gesto
deciso, lo staccò dal plico e me lo porse reggendolo tra due dita.
-Grazie, ti giuro che troverò un modo per restituirteli il prima
possibile...- infilai l'assegno nella borsa alla velocità della
luce, la sua sola vista rischiava di farmi morire di vergogna. Se
c'era una cosa che non sopportavo, e questo Darren Reynolds lo sapeva
bene, era avere debiti in giro.
Lo vidi alzarsi con circospezione,
guardandosi attorno, e poi si alzò in piedi per avvicinarsi a
dov'ero io -Ci sarebbe un altro modo.- soffiò a pochi centimetri dal
mio orecchio, facendomi venire i brividi lungo la schiena. Lui e le
sue maledette tattiche da manuale del perfetto seduttore.
Mi
sentivo i suoi occhi addosso: sul collo, sul seno e sui fianchi,
violati da quel suo sguardo magnetico che mi aveva sempre soggiogata
in passato come in quel momento. Lui aveva sempre saputo come
prendermi, come sedurmi, e io avevo sempre saputo come e quando dire
di no.
Solo che non l'avevo mai fatto, non lo avevo mai
respinto.
Mi sfiorò delicatamente la mano che tenevo appoggiata
alla scrivania per reggermi in piedi, lentamente, come se volesse
riesumare ricordi vecchi di un anno, quando era lui a rincorrere me.
-Sei così bella, è passato più di un anno...- mi sussurrò
all'orecchio, per poi mordicchiarmi leggermente il lobo e tirando
piano l'orecchino con le labbra, mi scappò un sospiro, un brivido
caldo che mi percorse tutto il collo e mi mandò i polmoni in fiamme.
-Darren, non siamo al 232...- mormorai senza fiato, incapace di
catturare l'aria al pensiero di quello che sarebbe successo di lì a
poco, e andai in apnea... l'eccitazione mi mandò in apnea.
-Ma tu
non sei più sposata...
-Invece tu lo sei ancora...
-Quello da
sempre, e tu sei irresistibile esattamente come allora.
Senza che
me ne accorgessi, troppo presa dalle sue parole e dai ricordi che
riaffiorarono uno dopo l'altro come bollicine dentro una bottiglia di
acqua frizzante, la sua mano mi circondò il polso e ora stava
rafforzando la presa con le dita, impedendomi di allontanarmi da lui
e dalla sua libido... e dalla mia.
Prima che me ne potessi rendere
conto me lo ritrovai in piedi a circondarmi i fianchi col braccio
libero e il suo viso era vicino, troppo vicino, sempre più vicino...
e i ricordi che avevo dei suoi baci si cancellarono immediatamente,
rimpiazzati da nuovi. I mesi se ne andarono, si dimezzarono,
sparirono, facendoci tornare indietro nel tempo, a quando quella era
la consuetudine.
Avrei potuto allontanarmi, strappargli l'assegno
davanti agli occhi, gettarlo via ed andarmene, ma non lo feci. Non ho
potuto e non ho voluto, perché ne avevo bisogno. Oh... ne avevo
tremendamente bisogno.
In queste ultime settimane mi ero sentita
sola, anche se avevo avuto più aiuto adesso che in tutta la mia
vita. Melanie, Sean, Angie, gli ero infinitamente grata per l'aiuto
che mi avevano dato e l'affetto che mi avevano dimostrato. Ma tutte
quelle attenzioni non erano niente rispetto a quello che mi stava
concedendo Darren.
Avevo quasi dimenticato come baciava, come solo
lui sapeva fare: caldo, travolgente e impetuoso come un'onda che si
infrangeva su uno scoglio ricco di spuntoni taglienti e affilati come
rasoi.
Reggendomi i fianchi con entrambe le braccia, mi sollevò
facendomi sedere sulla scrivania, inarcai istintivamente la schiena
appoggiando le mani dietro al bacino per invitarlo a baciarmi ancora
e non solo sulle labbra. E lì, col sole che gradualmente si
nascondeva dietro ai grattacieli illuminando la stanza di una luce
calda e soffusa, con un uomo che disprezzavo dalla mattina alla sera
e coi sensi completamente anestetizzati, come se mi fossi appena
scolata un'intera bottiglia di tequila liscia, mi dimenticai di
tutto. Chi ero, da dove venivo, che cosa ci facevo lì.
C'eravamo
solo io, lui e i nostri istinti senza volto e senza nome, quasi senza
senso. Sapevo che era sbagliato, ma non mi importava. Volevo pensare
solo a me stessa e al mio benessere, solo per stavolta, solo per un
po' di tempo...
Il nostro piccolo segreto sarebbe stato al
sicuro, eravamo le uniche due persone presenti nell'arco di almeno
dieci piani e quella stanza era l'unica sprovvista delle telecamere
di sicurezza (nel caso in cui i guardiani notturni avessero buttato
l'occhio sugli schermi della sorveglianza).
Come se nulla fosse
accaduto. Saremmo usciti da quell'ufficio esattamente com'eravamo
entrati, esattamente come un anno fa.
Avevo passato tutto questo
tempo a fare la madre e mi ero dimenticata come ci si sentiva ad
essere una donna, mi ero dimenticata come ci si sentisse ad essere
desiderata. Ed era questo che faceva Darren, la sua magia: mi faceva
sentire davvero una donna. I suoi baci, il suo tocco esperto, i suoi
sguardi che sapevano divorarmi dall'interno mi fecero sentire di
nuovo viva per la prima volta da settimane. Ecco perché non lo
respinsi, perché finalmente sentii di avere tra le mani ciò di cui
avevo bisogno.
Il
tragitto verso casa fu piuttosto
tranquillo, in giro non c'era praticamente nessuno, erano tutti nelle
proprie case a degustare una buona cenetta casalinga in compagnia di
parenti e della tv spazzatura. I 15 Km che separavano Beverly Hills
da Los Angeles non mi erano mai sembrati così pochi, per una volta
non feci minimamente caso ai trenta minuti di volante che mi
separavano da casa mia e da una vaschetta di gelato al cioccolato
formato famiglia. Non avevo minimamente pensato al fatto che la
giornata non potesse ancora considerarsi finita; infatti, come aprii
la porta di casa fu come se fosse appena iniziata.
-Bentornata!-
il cinguettio eccitato di
Melanie mi fece saltare il cuore in gola, non mi aspettavo di
ritrovarmela in casa a quell'ora... e per giunta bellamente svaccata
sul divano a mangiarsi la MIA tanto agognata vaschetta di gelato.
-Ehi...
come mai qui?- le chiesi
togliendomi i tacchi alti e gettandoli in un angolo non ben definito
dell'ingresso, i miei piedi urlavano vendetta. Melanie mi squadrò da
capo a piedi, sospettosa quanto Horatio Caine
nel momento in cui si leva gli occhiali da sole, già sapevo che
avrei dovuto cominciare a far girare i neuroni per inventarmi qualche
balla convincente.
-Sono
passata a trovare i miei
figliocci e, visto che non avevo niente da fare, ho dato la serata
libera alla babysitter e sono rimasta qui... dove sei stata fino
adesso?
Allora,
la regola di base era, se mi
avesse beccata: “negare, negare, negare... prima o poi diventerà
tutto vero”. Provai a giocarmi la prima carta della mezza verità,
magari non avrebbe indagato.
-Ecco,
io... ho lavorato fino a
tardi... e sulla strada del ritorno c'era molto traffico.
La
vidi strabuzzare gli occhi,
concentrandosi sulla mia espressione e al mio tono, e poi spalancò
gli occhi e saltò in piedi sul divano, come se avesse appena visto
un fantasma sbucarmi da dietro la schiena. -… oh mio Dio... oh,
no... nonononono, questo non va bene.
-Cosa?
-Quella
faccia... tu hai quella
faccia...
Andai
nel panico, avevo capito che mi
aveva sgamata in pieno ma tentai ancora di fare finta di niente, cosa
che ovviamente non fece altro che confermare quello di cui si era già
convinta dal momento in cui mi aveva vista entrare in casa. -Cosa...
quale faccia? Questa è la mia faccia.
-Oh
no... tu hai fatto sesso con
Darren!
-Cosa,
non dire stupid... sì, ho fatto
sesso con Darren...- niente da fare, il giorno in cui sarei riuscita
a nasconderle qualcosa mi sentirò una donna realizzata e felice.
Melanie fece leva con una gamba sul bordo dello schienale del divano
e saltò giù dall'altra parte come una nuova (e più bassa) Halle
Berry in Catwoman, puntandomi contro il dito indice come faceva mia
madre dopo qualche marachella.
-Lo
sapevo! Lo sapevo, lo sapevo, lo
sapevo, LO SAPEVO!
-Ssssh!
I bambini stanno dormendo...
-Lo
so che stanno dormendo, li ho messi
a letto io un'ora e mezza fa. Ma si può sapere che cavolo ti è
passato per la testa?!
-È
complicato Mel, avevo bisogno di un
favore... ma chi è che sta facendo tutto questo baccano?- sentivo
distintamente il rumore di ben due motori, e di una radio sparata a
volume oltre i limiti di legge, che provenivano dal giardino accanto
al mio. Scostai la tendina del soggiorno per controllare e vidi
due macchine parcheggiate davanti alla mia staccionata, accanto ad
esse un gruppo di ragazzi armati di birra si scambiavano battute
scavalcando la staccionata che separava i due giardini.
-Credo che siano quelli
che hanno affittato la casa della vecchia signora Henry, quando sono
arrivata ho visto un camion dei traslochi che lasciava il
quartiere.
Una cosa era più che certa, dovevano eliminare quel
rumore assordante prima di subito.
-Mel, rimani in casa per
favore, io torno subito.
Uscii sul vialetto ancora a piedi,
camminando con passo svelto per evitare che qualche sassolino mi
pungesse la pianta dei piedi, e salii velocemente sull'erba,
ritrovandomi a soli trenta centimetri dietro alle loro schiene in
meno di tre secondi e senza che nessuno di loro si fosse accorto di
qualcosa.
-...EEEHI!!!- urlai con forza, rischiando peraltrodi
strapparmi le corde vocali, ma non ottenni alcun risultato. Nessuno
si accorse della mia presenza e, forse era solo una mia impressione,
il volume della radio era aumentato ancora. In un momento di
malignità pura, che mi sarebbe sicuramente costato molti vaffanculo
in coro, sollevai il piede destro sulla tastiera dei comandi della
radio e le diedi una pedata così forte da ribaltarla sull'erba e
spegnerla in un colpo solo. Silenzio.
-Ma che cazzo è?
Sei paia di occhi si
voltarono nella mia direzione quasi contemporaneamente, squadrandomi
da capo a piedi più volte, in silenzio. Era alquanto imbarazzante
come scena, mi sentii un po' come un prosciutto in mezzo ad un branco
di ghepardi in un periodo di carestia. Il più alto del gruppo,
probabilmente l'organizzatore di quel macello a cielo aperto, si
avvicinò facendo ciondolare le spalle e trascinando un po' il passo,
con quella classica andatura da “io sono il padrone di questo
harem” che mi stava infinitamente sull'anima.
-...ciao!- mormorò
facendo schioccare la lingua tra i denti.
-Questo è un quartiere
tranquillo, come vi salta in mente di fare tutto questo casino?-
domandai, concentrando nella voce tutto l'acido che stavo producendo
a tempo record e incrociando le braccia al petto, completamente
impermeabile a qualsiasi loro apprezzamento.
-Beh, non lo so...
stiamo salutando il quartiere?- rispose ammiccando e una zaffata di
birra mi schiaffeggiò le narici, io odiavo la birra.
-Beh ci
siamo presentati, fatto! Sono io il quartiere, vedete di non rompere
le palle e sgombrate il mio giardino!- dalla rabbia mi scappò anche
un “teste di cazzo” ma, avendolo detto in italiano, nessuno dei
tre se ne accorse. Però il mio interlocutore doveva essersi accorto
del mio grado di ira, perchè tentò un nuovo approccio.
-Ehi, aspetta un secondo.
Perchè non ricominciamo da capo, ci stai? Io mi chiamo
Christian.
-Tesoro, tu pensa a me come alla proprietaria di questa
casa che vuole dormire in pace.- feci per ritornare in casa ma mi
bloccò di nuovo; dietro di lui gli altri due festaioli
ricominciarono a borbottare a bassa voce. Non ci giurerei, ma
credetti di aver sentito le parole scoparsela, centone e sfigato,
tutti in un unica frase.
-Su non fare così... eddai porca
miseria non ci conosciamo neanche, mi sento un verme, sto malissimo!-
cercò di scusarsi mettendosi persino una mano sul cuore, sembrava
serio ma ci credevo ben poco. In quel momento, le finestre del
salotto della casa si illuminarono, e subito dopo la porta principale
si spalancò facendo uscire una ragazza bionda in pigiama e
visibilmente livida di rabbia.
-Christian! Si può sapere chi
cazzo mi devo scopare per far capire ai tuoi amici di non vomitare
nel portaombrelli?!- gridò, furibonda, uscendo dal portico per
correrci incontro. Wow, c'era qualcuno più incazzato di me.
-Sei
Hanna Foster? La nuova affittuaria della casa?- domandai
dimenticandomi per un attimo del gruppo di imbecilli che mi stava di
fronte. Lei annuì con un lieve cenno della testa.
-Sì, sono io.
Eva Van De Mason giusto?- si assicurò porgendomi amichevolmente la
mano che non esitai a stringere.
-Esatto, molto piacere.-
perfetto, avevo appena trovato un'alleata e, a prima vista,
abbastanza tosta.
-Lui è Christian Hainsworth, il mio
coinquilino... ti chiedo scusa anche a nome suo- la ragazza concluse
la frase gettando uno sguardo d'odio profondo in direzione dell'uomo
che mi stava di fronte e che, imperterrito, continuava a sorridermi
come se fosse imbambolato.
Sospirai, almeno
potevo
tornare a casa tranquilla. -Hannah, è stato un vero piacere
conoscerti, benvenuta nel quartiere. Buonanotte a tutti!- dichiarai
con tono fermo senza lasciar trasparire la stanchezza che stava
cominciando a farsi sentire proprio in quel momento. Quando tentai
nuovamente di girare i tacchi per tornare a casa mi sentii afferrare
debolmente per un gomito.
-Mi
dispiace, vuoi accettare le mie
scuse? Che cavolo hai ragione, ti abbiamo invaso il giardino in piena
notte. Se vuoi ti paghiamo per il disturbo.
-Non
li voglio i
vostri soldi.- risposi senza esitare.
-Non
vuoi i nostri soldi.
Beh, allora ti porto a cena per chiederti scusa della nostra
scortesia, eh? Dammi il tuo numero... tanto l'indirizzo già ce l'ho,
perciò non puoi scappare, neh Eva? Ti chiamo, ti invito come si deve
e tutto il repertorio.
-Mh!
Vuoi avere il mio numero.- ripetei in
modo più annoiato che sorpreso.
-Assolutamente.
Sì, voglio il
tuo numero.- non solo affermava di esserne convinto, lo sembrava
pure. Tanto, tempo due minuti e anche lui avrebbe fatto la stessa
fine di tutti gli altri che avevano tentato un flirt con la
sottoscritta, e molto più velocemente anche. Dietro di lui, Hannah
stava sfacciatamente flirtando con gli altri due che, a giudicare
dalle facce e dalle pose che assunsero per mettersi in mostra, da
veri esemplari di maschi alfa dominante quali volevano sembrare,
sembravano starci eccome.
-Quale
numero vuoi che ti dia, ehm...
Christian.- chiesi fingendo di non ricordarmi il suo nome.
Lui
sorrise compiaciuto passandosi una mano sulla barba leggermente
incolta, pensava che stessi per cedere; altro che povero illuso,
povero pirla.
-Hai
più di un numero?- domandò tirando fuori
dalla tasca posteriore dei jeans un Samsung Omnia nuovo di pacca,
aveva ancora la pellicola protettiva sullo schermo touch.
-Ahh,
ho talmente tanti numeri che potrei giocarli alla lotteria per
esempio... sette.
-Sette...-
ripetè, pronto e segnare. Ed ecco
che tirai il colpo d'ascia sulle palle del suo ego.
-Sì,
sono i
mesi che ha mia figlia.
-Hai
una figlia?- domandò con aria
ebete, a bocca talmente spalancata che avrei potuto operarlo per i
denti del giudizio, completamente colto di sprovvista. A quanto pare
gli altri spettatori erano in ascolto perché vidi e sentii gli altri
due compari scoppiare a ridere come se avessi appena raccontato la
barzelletta più sporca che avessero mai sentito mentre Hannah, poco
distante da loro, era rimasta sbalordita, muta. Ma ormai ci avevo
fatto l'abitudine.
-Sexy vero? E senti questa... sei
sono gli anni che ha mio figlio; diciotto è l'età che avevo quando
sono rimasta incinta; 917 3470896 è il mio numero di telefono e con
tutti i numeri che ti ho dato scommetto che zero è il numero delle
volte che mi chiamerai!- esclamai sbattendogli la porta in faccia
sotto allo sguardo allibito di Melanie, che non aveva ancora aperto
bocca dopo tutta la scena a cui aveva assistito ma che, e di questo
ne ero certa, avrebbe presto riempito di insulti me, i miei ormoni e
il mio cervello bacato. Gettai un'ultima occhiata alla porta
d'ingresso, e vidi la sua sagoma in controluce attraverso la tendina
di cotone bianco della porta; rimase lì, immobile, non sentii nessun
passo allontanarsi dalla porta, non ero riuscita a smuoverlo di un
millimetro.
ANGOLO
DELL'AUTRICE
Sono da
castigare, frustare e picchiare col cilicio con colpi ben serrati
direttamente sulla nuca. Non so davvero che cosa fare per farmi
perdonare, non ho mai aggiornato con un ritardo così prolungato e spero
che non mi ricapiti mai più. Vi ringrazio per la pazienza infinita che
mi dimostrate, grazie grazie grazie. Vi abbraccio tutte e spero che
questo capitolo riesca ad alleviare un pò la vostra rabbia... domani
pubblico il capitolo tanto agognato. E piazzo il link anche qui.
Un
bacione,
Aching4perfection
Questo è il link diretto al capitolo extra a rating rosso: Like the Ice, Like the Fire.
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