The last passage

di _Fedra_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cinque anni dopo ***
Capitolo 3: *** La strega del Tevere ***
Capitolo 4: *** Qualcosa è cambiato ***
Capitolo 5: *** Le porte sono di nuovo aperte ***
Capitolo 6: *** Faccia a faccia ***
Capitolo 7: *** Inevitabile ***
Capitolo 8: *** Alla ricerca di Susan ***
Capitolo 9: *** Ed ecco che arriva il solito simpaticone a complicare una già ingarbugliata situazione ***
Capitolo 10: *** Bye bye innocence ***
Capitolo 11: *** Coraggio ***
Capitolo 12: *** Punto di svolta ***
Capitolo 13: *** Il Maestro ***
Capitolo 14: *** Di nuovo a Narnia ***
Capitolo 15: *** Aiuto! ***
Capitolo 16: *** Salvataggio con stile ***
Capitolo 17: *** Il sogno ***
Capitolo 18: *** Il ritorno del Magnifico ***
Capitolo 19: *** I Quattro Troni ***
Capitolo 20: *** Crepuscolo blu ***
Capitolo 21: *** La rivincita di Susan ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Vorrei dedicare questa fiction a La_la. Grazie di tutto!

Prologo


Essere sospesi sull’abisso, tra l’oblio e l’eternità. Attorno a noi, il nulla. Restai completamente immobile, i muscoli irrigiditi e le palpebre serrate nel buio. Temevo che se solo avessi osato respirare, tutto sarebbe svanito nel nulla e saremmo precipitati in quel vortice mostruoso che avvertivo incombere vicino a noi, dal quale non avremmo più potuto tornare indietro.
Era la fine. La fine di tutto. Il limite oltre il quale non ci era concesso andare, ma che ci eravamo ostinati a superare per inseguire i nostri sogni più assurdi. Compreso quello di restare insieme. Per sempre.
Il suo respiro mi risvegliò dal torpore. Lo sentivo, a pochi centimetri dal mio orecchio. Era caldo. Il suo cuore pulsava dolcemente contro la mia guancia. Eravamo vivi. Ancora vivi. L’abisso non ci aveva inghiottiti. Non ancora.
Mi strinsi ancora di più a lui, affondando il volto nel suo petto. Un gesto, un gesto appena, un battito di ciglia, e tutto sarebbe finito. Saremmo precipitati verso l’eternità. O forse no? Era quello il nostro destino, cancellare per sempre tutto ciò che era stato, la nostra famiglia, i nostri amici?
Davvero la storia finiva così?
“Edmund,” sussurrai pianissimo “ti amo”.

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Capitolo 2
*** Cinque anni dopo ***


Cinque anni dopo


 La luce era tornata. Era forte, bellissima, carica di colori e profumi che si innalzavano dalla città appena risvegliata dal torpore del lungo inverno. Accarezzava le cupole e i tetti dei palazzi signorili in un unico abbraccio fatto della tenue nebbiolina del pomeriggio.
Sospirai, premendo maggiormente il naso contro il vetro freddo della grande finestra che si affacciava sulla strada. Proprio in quel momento, un tram verde brillante, simile a un lungo serpente sinuoso, passò a tutta velocità nel piazzale, facendo tremare tutto nel grande appartamento vuoto. Mi ritrassi dalla finestra, osservando con aria assente la fiumana di persone che saliva e scendeva dal mezzo, sparendo alla vista, prima di voltarmi lentamente e andare davanti allo specchio dell’anta dell’armadio, prendendomi a spazzolare gli ormai lunghissimi capelli castani con aria assente.
Il riflesso che avevo davanti era ormai quello di una giovane donna, il pallido viso squadrato solcato da due enormi occhioni neri carichi di stanchezza, i vestiti di casa ormai troppo larghi che nascondevano un corpo magro, palestrato quanto bastava, di cui non potevo né vantarmi né lamentarmi. Mi passai la spazzola sulla nuca, liberandomi la fronte ampia dai ciuffi che si ostinavano a nasconderla, legandomeli comodamente dietro la testa. Ok, ora andava molto meglio.
Mi risedetti sul letto, incrociando le gambe e afferrando il libro di arte. Esami, esami in arrivo e la voglia di studiare che come al solito si prendeva gioco di me. Cascai malamente all’indietro, contemplando il soffitto con aria assente. Mi annoiavo da morire. Da quando avevo preso a studiare all’università, la mia vita si barcamenava tediosamente fra lo studio e il lavoro, senza nessun’altra alternativa, specie durante le vacanze, quando il potenziale tempo libero si dilatava a tal punto che mi veniva da studiare per ammazzarlo in qualche modo.
No, le cose non erano cambiate da quando avevo iniziato il liceo. Mamma e papà non c’erano mai, uscivano la mattina presto e tornavano la sera, stanchi morti. Leo era sempre in giro con gli amici, a bombardare con il pallone qualche infelice portale di una chiesa insieme a quella banda di teppisti dei suoi amici.
Qualcosa era cambiato, però. Ora avevo due amiche stupende, Giulia e Rebecca, e un ragazzo ricco e bello quanto bastava, Riccardo.
In quel momento, mi stavo chiedendo dove cavolo fossero finiti tutti quanti.
Ok, lo ammetto, le cose andavano di gran lunga meglio con le amiche che con il mio ragazzo. Riccardo c’era e non c’era. Spariva e ricompariva a suo piacimento, e cosa facesse nel frattempo non avrei saputo dirlo. Era sempre maledettamente impegnato. Però mi amava e tanto.
Per Giulia e Rebecca, le cose stavano diversamente.
Giulia aveva due anni meno di me e frequentava ancora il mio vecchio liceo classico. Ci eravamo conosciute in quarto, l’ultimo giorno di scuola, durante il delirio dei gavettoni. Entrambe avevamo avuto l’idea di nasconderci dietro il parapetto del ponte che collega il Lungotevere all’Isola Tiberina, acquattate dietro le due erme di marmo che precedono l’ingresso. Eravamo andate subito d’accordo e, cosa che ci unì più di tutte, in breve scoprimmo di avere entrambe un’insana passione per Le Cronache di Narnia. Inutile dire che avevamo colto l’occasione per andarci a vedere l’ultimo film insieme, proprio il giorno in cui Roma fu teatro di una incredibile nevicata. Più narniano di così! Giulia era così fissata con Lewis, che era persino riuscita a trovare in tutta Roma il perfetto sosia di Skandar Keynes, alias Edmund Pevensie, con la sola differenza che il ragazzo rispondeva al nome di Massimo, aveva la pelle leggermente più scura e un formidabile accento romano, Lambretta color cachi sempre a disposizione della sua damigella e sigaretta fra i denti. Un vero lord! Amavano sempre consumare le loro uscite pomeridiane a Campo dei Fiori, contemplando i passanti stando appollaiati in cima al piedistallo del monumento di Giordano Bruno, cosa che, per quanto possa sembrare bislacca, era in realtà molto romantica e pittoresca, nel cuore del mercato rionale più amato da noi romani.
Rebecca, invece, era più grande di me. Era già ricercatrice all’università e aveva una parlata formidabile. Non c’era nulla che non sapesse o che non aveva mai fatto in vita sua. Aveva viaggiato in ogni dove, avuto avventure e storie d’amore di ogni sorta, incontrato persone famose nelle situazioni più incredibili. E amava raccontare tutto questo con l’aria più naturale e disinvolta del mondo, lasciandoci puntualmente tutti di stucco. Era un mito. E la cosa più incredibile era che, nonostante la sua disarmante efficienza, Rebecca non ti stancava mai e si rivelava di continuo la persona più sensibile del mondo. Era dolcissima e, come me, amava la buona cucina, senza preoccuparsi di quanti chili puoi prendere per un innocente peccato di gola. Con lei, tutto sembrava improvvisamente facile, naturale. Non faceva mai sentire a disagio nessuno, quando gli parlava. E aveva sempre la soluzione pronta per qualsiasi problema.
Sia Rebecca che Giulia erano sempre andate molto d’accordo fra loro e per questo, nonostante le differenze di età fra tutte e tre, passavamo spesso le nostre giornate insieme. Era bella la loro compagnia. Il dono più bello che potesse capitare a un essere umano. Specie quando Riccardo mi abbandonava, cosa che accadeva ormai troppo spesso, da quando ci trovavamo in facoltà separate. Come se fra Lettere ed Economia ci fosse un abisso. Due vite diverse. Più volte, le mie buone amiche mi avevano detto di lasciarlo in tronco, ma c’era un piccolo particolare che mi aveva sempre impedito di fare il grande passo: io ero innamorata di lui. Lo amavo incondizionatamente, perdutamente, follemente. Ero così felice di aver trovato un ragazzo come lui in quella massa d’ignoranti senza cervello che avevo incontrato fino a quel momento. Riccardo era bello, atletico, i lineamenti nordici e i modi educati, amava l’arte e la musica classica, era educato e pieno di interessi. Ci eravamo incontrati a scuola, per caso, e avevamo preso a frequentarci. Fino a quando i nostri reciproci sentimenti erano emersi. Come potevo lamentarmi se in quel momento, per futili motivi accademici, lui mi trascurava?
Del resto, non mi mancava nulla. La mia vita era semplicemente perfetta.
Una fastidiosa quanto leggera fitta al cuore mi fece trasalire. No, mancava qualcosa, ma oramai dovevo rassegnarmi e basta.
Tutti sapevano ormai del misterioso ragazzo che avevo avuto il primo anno di liceo, ancora prima della mia rocambolesca avventura con Thomas durante il mio viaggio in Germania quando ero in terzo. La leggenda dello straniero dai grandi occhi neri aveva fatto il giro del liceo, fomentata più che mai da Giulia, la quale era convinta che avessi avuto una storia con il vero Skandar Keynes, cosa che però non era poi così distante dalla realtà.
Il fatto era che, per motivi che ancora non riuscivo a spiegarmi, per pochi giorni della mia vita io ero stata con il vero Edmund Pevensie. Ancora mi sembrava di poter ricordare il suo viso nei minimi dettagli, i tratti delicati e il lungo naso spruzzato di lentiggini al disotto di quella massa di capelli scuri perennemente in disordine, ma soprattutto i suoi occhi, grandi, nerissimi, penetranti, che mi avevano così colpita dal primo momento in cui avevo incrociato quel suo sguardo incredibile.
Ma ora era tutto finito. Dovevo arrendermi all’idea che, nonostante lì per lì avessi avuto quasi la certezza che un giorno ci saremmo ritrovati, non avrei rivisto mai più quel ragazzo, né avrei avuto più a che fare con Narnia. Tutto ciò che era accaduto cinque anni prima era stato un semplice capitolo della mia esistenza, necessario per farmi comprendere quanto non avevo compreso e permettermi di diventare una donna, nel mio mondo, vivendo appieno la mia vita. Edmund, invece, era rimasto a Narnia e aveva continuato il suo viaggio come un re giusto e valoroso. I nostri destini erano destinati a rimanere separati, anche se un giorno Aslan gli avesse permesso di ritornare a casa. Lui e la sua famiglia, infatti, prima di venire a Narnia vivevano in una Londra sventrata dai bombardamenti dei Tedeschi. Se solo Edmund fosse tornato, in quel momento avrebbe dovuto essere un vecchietto bavoso e sdentato che sì e no si reggeva in piedi o, peggio ancora, già nella tomba.
Era un ragionamento terribile da fare, ma, a rigor di logica, inevitabile per evitare di continuare a illudersi. Persino Lewis sembrava determinato a dividerci. Avevo terminato di leggere il libro la sera stessa del mio ritorno a casa, precipitandomi poi a vedere il film il giorno dopo. E, non appena era calato il buio in sala, il mio cuore mi era balzato immediatamente in gola, facendomi esclamare un”ah!” di sorpresa che aveva fatto voltare tutti quelli che mi stavano seduti attorno. Era tutto esattamente come l’avevo visto io, la Strega, i Pevensie, perfino Aslan. L’unica cosa che mi faceva capire che quello che avevo davanti era un film e non la realtà era quell’atmosfera strana che regnava in tutte le immagini e sui volti dei personaggi, qualcosa che mi avvertiva che mi ritrovavo di fronte a una perfetta riproduzione di ciò che avevo vissuto, provocandomi una sensazione molto simile a quella che si prova di fronte all’ammiccante riproduzione fotografica a dimensioni naturali di un quadro famosissimo che si è appena visto in un museo. Fu allora che incominciai a rendermi conto che qualcosa non quadrava e a dubitare seriamente della mia salute mentale. Fino a quel momento avevo vissuto Narnia come una cosa vera, senza pensare che si trattasse del libro che stavo leggendo fino a un attimo prima di scomparire in quel paesaggio ghiacciato. Per me era un mondo a tutti gli effetti, un universo che avevo esplorato e vissuto. Non avevo affatto realizzato che potesse trattarsi anche di un’opera letteraria e che un giorno qualcuno potesse addirittura sognarsi di farci un film! Sulle prime, pensai che anche Lewis, come me, fosse andato a Narnia e che avesse poi raccontato la storia spacciandola per un libro per bambini, scelta intelligente, visto il mondo in cui viviamo. Già, ma allora perché aveva visto cose che sarebbero accadute molto tempo dopo e, soprattutto, perché io non c’ero? Non ero mica stata seduta su un masso a osservare la battaglia da lontano come se niente fosse! Avanzai l’ipotesi che a Narnia il tempo scorre diversamente da qui, dal momento che al nostro ritorno da noi era passato poco più di un attimo e non mesi interi. Poi ogni illusione si era infranta come un vetro rotto quando mio fratello se ne era uscito con la massima naturalezza che la saga sarebbe terminata con la tragica morte di tutti i personaggi in un incidente, all’infuori di Susan, che aveva rinnegato Narnia. Fu come un pugno nello stomaco. Morti. Tutti. Peter, Lucy, Edmund…Quel giorno, Leo non comprese perché scoppiai in singhiozzi improvvisamente, né per quale motivo smisi di mangiare per giorni. Loro non potevano capire, non sapevano, non mi avrebbero mai creduta…Se solo avessimo saputo, quel giorno, sulla spiaggia, che quello era un addio…Alla fine, il destino, crudele e spietato, ci aveva divisi per sempre. Aiutato dalla penna di uno scrittore che per pochi giorni avevo amato, poi! Mi sentivo tradita, tradita da una persona che avevo creduto di ritenere una guida, dal momento che era stato grazie a lui che ero riuscita a trovare la porta per quel mondo. Ma a che pro, se era stato tutto perfettamente inutile?
Decisi così di dimenticare. Di credere che fosse stato tutto un sogno. Di costruire la mia vita qui. Non osai mai leggere l’ultimo libro. Era come se avessi la sensazione che, così come era accaduto cinque anni prima, le mie parole si sarebbero trasformate in realtà e avrei così ucciso le persone che amavo con le mie stesse mani! Diabolico Lewis! Almeno in questo modo, speravo, sarebbero stati salvi, a un passo dal baratro, ma salvi. Almeno nella mia mente. Eppure, alle volte mi sembrava di avvertire il loro cuore palpitare in qualche angolo nascosto della mia anima, i loro corpi cambiare. Stavano crescendo, come me. Si stavano avvicinando sempre di più alla fine. Se solo avessi potuto fare qualcosa per cambiare il loro destino, qualunque cosa, avrei agito senza esitazioni. Per un attimo ripensai a Edmund, a che aspetto potesse avere sulla soglia dei vent’anni. Qualcosa nell’immagine continuava a sfuggirmi. Rabbrividii. Il biglietto che mi aveva lasciato prima di dirmi addio era ancora lì, nel cassetto del mio comodino, dentro il mio diario, fermato con una grappetta il giorno del mio compleanno. Don’t forgive me. Non dimenticarmi. No, non l’avevo dimenticato, nonostante tutto, il suo pensiero continuava a tornare in momenti come quelli, quando rimanevo sola e avvertivo che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quella vita apparentemente tranquilla e rassicurante che stavo conducendo. Ma dovevo. Non avevo altra scelta.

                                                                                                                                                         
Ta-daaaaaahhhh!
Buongiorno a tutti! 
Sì, il capitolo è un po' inquietante, moltopiù di quanto inizialmente volessi renderlo, ma è indispensabile affinché capiate bene che cosa accadrà fra pochissimo (e vi preannuncio che il prossimo sarà anche peggio, perciò preparatevi!). Riuscirà la nostra Cate a ritrovare Edmund e, soprattutto, a salvargli la vita?

Nel frattempo, vorrei dedicare i personaggi di Giulia e Rebecca a due persone carissime, La_la e sawadee, voi sapete perché!^^

Colgo anche l'occasione per fare i miei più sentiti complimenti a cioccolata. Sei un mito, lo credo davvero!

Un bacio e a presto!

 
 

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Capitolo 3
*** La strega del Tevere ***


La strega del Tevere 


Uno, due, tre squilli ancora, poi il telefono tacque definitivamente. Chiamata senza risposta. Merda. Richiusi il cellulare con stizza, rovesciando il capo all’indietro e chiudendo gli occhi per qualche attimo. Ok, era impegnato, molto impegnato, ma possibile che non gli venisse neanche per un attimo un minimo di nostalgia nei confronti della sua ragazza?
 

Mi annoiavo, quel giorno, mi annoiavo a morte e non sapevo che cosa fare. Rebecca era in facoltà a vedersela con le più strampalate richieste dei suoi professori, Giulia stava sicuramente facendo divampare nuovamente le fiamme sotto la tonaca di Giordano Bruno insieme a Massi e Riccardo era dato definitivamente per disperso. E la cosa che mi innervosiva più di tutte era quel perfetto cielo di primavera, azzurro e pulito, pieno di sole, che mi lanciava lunghe occhiate interrogative fuori dalla finestra, chiedendomi che cosa diamine stavo facendo tutta sola in quell’enorme appartamento buio e polveroso invece di uscire e abbracciare il giorno come ogni altro essere umano. Sospirai, contemplando ancora una volta la finestra. Qualcosa si contrasse all’altezza dello stomaco, quasi fosse un richiamo invisibile. No, non aveva senso rimanere a casa ad ammorbarmi in una giornata del genere! Rebecca avrebbe certamente detto che ero andata nuovamente in overdose con le storie di vampiri. E io le avrei dato sicuramente ragione, anche perché ultimamente la mia vita sentimentale mi aveva portato a questo tipo di letture. Sveglia, Caterina! E’ primavera, lo è anche per te! Fatto questo ragionamento, mi alzai di scatto dal letto, mi liberai della tuta marrone che portavo da una vita, indossai un felpina leggera e un paio di jeans, inforcai le Converse e sfrecciai di sotto, tuffandomi nella pazza folla che mi attendeva giù in strada.
 
Andava meglio, decisamente meglio. In primavera, Roma si spogliava degli ori accesi dell’inverno per indossare i colori delicati della primavera, nascondendo le facciate dei propri palazzi in una brumosa nebbiolina che veniva in breve spazzata via dalle lame di sole che accendevano il giorno. L’aria profumava di fresco e di fiori lasciati sui terrazzi e i giardini pensili, sovrastando la puzza di macchine e di rifiuti che d’estate aveva la meglio su tutto. Una piacevolissima brezza proveniente dalle montagne mi scompigliava i capelli sulla nuca e portava con sé gli odori selvaggi della natura. Camminavo spedita fra la gente, le mani nelle tasche e lo sguardo alto, divertendomi a contemplare l’umanità che correva attorno a me. C’erano turisti, religiosi, businessman in auto da urlo, giornalisti frettolosi, ragazzini che si perdevano pezzi di gelato sui marciapiedi, adolescenti griffate a caccia di vetrine. Le mie gambe mi portarono sul Lungo Tevere assediato dalle macchine nell’ora di punta, i palazzi che lo costeggiavano accesi dall’oro del pomeriggio, la cupola della Sinagoga svettava elegante al disopra delle cime dei platani. Imboccai un ponte e arrivai all’Isola Tiberina, un posto tranquillo e pittoresco nel quale potevo trovare un po’ di tregua dalla calca impazzita. Amavo il profumo che proveniva dai ristoranti già al lavoro che fuoriusciva dalle loro cucine: sapeva di pasta, di carne alla griglia, di pane. In pochi minuti, mi venne una fame da lupi. Mi avviai subito alla ricerca di una buona gelateria, quando la mia attenzione fu catturata da una figuretta mingherlina seduta sulle gradinate di una chiesa, il pallone stretto fra le gambe.
“Leo?” chiamai, notando il mio fratellino. “Che ci fai qui? Dove sono Matteo e Ludovico?”.
Leonardo alzò gli occhi verso di me. Era triste, lo sguardo arrossato. “Ciao” mi salutò con voce spenta.
“Cos’è successo?”.
“Ma niente”.
Aggrottai le sopracciglia e incrociai le braccia. “Sicuro?” domandai.
“Cate, non rompere le palle, ok? Sto bene!”.
Mi sedetti accanto a lui, che continuava a fissare il vuoto davanti a sé, i lunghi riccioli neri che gli coprivano parte della faccia. “A me puoi dirlo. Sono tua sorella!”.
Leo si voltò verso di me. “Appunto” sogghignò sarcastico.
“E dai, su! Prometto che non lo dirò a nessuno, fidati!” esclamai incrociando le dita a pochi centimetri dal suo naso. “E’ per caso una ragazza?”.
Mio fratello levò gli occhi al cielo con fare rassegnato. “Bingo!” sospirò.
“Lo sapevo!”.
“Si chiama Marika” proseguì lui tristemente. “Fa il mio anno, solo che è nella B. Pascucci, di cognome”.
“Pascucci, Pascucci…”. Trasalii. “Oh, mio Dio, ma non starai per caso parlando della sorella di Stefano?”.
“Sì, proprio lei”.
“Lascia perdere, Leo! Non è roba per te”.
“Lo so, ma è bellissima”.
“Bella, ma …”.
“Ho capito. Però mi piace”.
“E non ti guarda”.
“Neanche un po’. Mi ritiene un povero sfigato”.
“Immaginavo”.
“Non è divertente”.
“Non volevo fare battute”.
Restammo per qualche attimo in silenzio, contemplando la strada immacolata che si apriva davanti a noi, poi cinsi il mio fratellino con un braccio. Non sopportavo di vederlo in quel modo, non per una sciacquetta arricchita. Il mio Leo meritava molto di più!
“Oggi l’ho vista con Palmieri” continuò il ragazzo amareggiato.
“Ahi!”.
“Credo che si stiano mettendo insieme”.
“Durerà poco, lo sai”.
“Sì, ma nel frattempo sarà di un altro”.
Si coprì il viso con le mani, non sopportando l’idea che io vedessi un ragazzo piangere. Quello era decisamente troppo. Nonostante i continui litigi, io e Leo eravamo una vera squadra.
“Oh, insomma, basta!” sbottai a un certo punto. “Non puoi ridurti in questo modo per una stupida ragazzina che non ti degna neanche di uno sguardo! Tu sei molto di più, Leo, e le tue qualità lei non le capirà mai! Non ti sto illudendo, tesoro, è la verità! Io e te siamo diversi, o meglio, siamo normali. Ma ciò non significa che siamo brutti e schifosi, no? Dai, fratellino, non ti ho mai visto dire di no a una partita di pallone! Perché invece di stare a rimuginare su queste cose, non chiami i tuoi amici e uscite insieme? Di sicuro ti sentirai molto più a tuo agio, con loro che ti vogliono bene, e tu lo sai! Coraggio!”.
“Magari domani, sorella. Ho voglia di stare un po’ con te” rispose Leo appoggiandomi la testa sulla spalla. Io lo abbracciai forte, felice di fare la sorella grande pronta ad aiutare il suo ometto nelle piccole grandi difficoltà della vita, io che avevo superato da un pezzo la fase della “sfigata” e avevo trovato anche il tempo di riderci sopra.
“Andiamo al cinema?” proposi sorridendo. “E poi pizza!”.
“Sì!” esclamò il ragazzo, tornando a sorridere.
“Andiamo allora!” dissi io levandomi in piedi.
Leo mi seguì con un balzo.
Scendemmo giù dalla scalinata e ci avviammo lungo la sponda del fiume, decisi a goderci ancora per un po’ quella splendida giornata prima di chiuderci nel buio del cinema.
“Dovresti lasciare Riccardo” disse a un certo punto Leo. “Non è possibile che, dopo aver detto delle cose del genere su me e Marika, ti ostini ancora a stare con quell’idiota”.
“Io lo amo, Leo, e lui ama me” mi difesi con decisione.
“Sì, bel modo di dimostrarti il suo amore. Non vi vedo mai insieme, mai”.
“Ci sentiamo la sera su facebook. Sai, lui è sempre molto impegnato…”.
“Già, e con chi?”.
La frecciatina mi fece deglutire vistosamente. Leo sapeva quanto fossi volubile alla gelosia e aveva compreso che al momento quello era l’unico modo per farmi ragionare.
“Non ti vedo bene, da quando stai con lui” continuò risoluto. “Scherzi molto di meno, non esci quasi mai, sei sempre depressa. Sai, ti preferivo di gran lunga quando tiravi avanti con quella panzana dello straniero con gli occhi neri”.
“Ehi, non era una panzana!”.
“Lo dicevi giusto per darti un tono, dal momento che all’epoca non uscivi praticamente mai di casa e te ne stavi sempre a studiare!”.
“Poi però uscivo di continuo!”.
“Nella speranza di incontrare il sosia? Allora, comprati un paio di buoni occhiali, sorella, perché Riccardo non gli somiglia per niente!”.
“Ma che ne sai tu di…”.
Il fiato mi si bloccò in gola, incapace di reagire di fronte a ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi. Mentre parlava, Leo non si era accorto di essersi avvicinato troppo al bordo privo di protezioni della banchina. Bastò un attimo di distrazione, un piede messo male, e il mio fratellino scomparve fra le rapide in un battito di ciglia. Mi riscossi con violenza dall’incredulità di quell’istante, incapace di realizzare che la tragedia era accaduta davvero, prendendo a correre sull’asfalto e chiamandolo a gran voce, cercando disperatamente di scorgerlo fra i flutti.
“Leo! LEO! Aiuto! Aiuto!”.
Mi chinai e feci per strapparmi via le scarpe, pronta a tuffarmi a mia volta, quando una voce calma alle mie spalle mi fece voltare di scatto.
“Va tutto bene, è salvo”.
Alzai gli occhi verso la ragazza che aveva parlato e rabbrividii. Era una giovane donna dalla pelle scura e i lunghi capelli neri che le arrivavano fino alla vita, il corpo perfetto e muscoloso avvolto da un abito nero senza maniche. Gli occhi erano blu, intensi, penetranti, il suo sguardo a un tempo ammiccante e provocatorio mi inchiodò lì dov’ero. Tra le sue braccia c’era Leo, bagnato e tremante, ma salvo.
“Io…chi sei?” balbettai. Qualcosa di lei mi faceva paura. Come se fosse più che umana. Perché non era bagnata, nonostante avesse appena ripescato mio fratello dalle acque del Tevere?
“Sono Amy” rispose lei con un sorriso. “Tu sei Cate, invece”.
Sobbalzai. “Come conosci il mio nome?” domandai tutto d’un fiato. Poi la paura crebbe. Un ricordo, un lontano ricordo risalente a cinque anni prima si fece largo nella mia memoria, facendomi rabbrividire. Già un’altra creatura, una creatura bianca e fredda come il ghiaccio, mi si era presentata in quel modo.
“Devo consegnarti qualcosa da parte del Maestro” rispose lei senza smettere di sorridere. “E’ una fortuna che passassi di qui proprio in questo momento. In caso contrario, non so se saresti riuscita a salvare il ragazzo”. Allungò la mano color dell’ambra verso di me, porgendomi un pacchetto di carta dalla forma squadrata. “Fanne buon uso” disse sorridendo.
“Il Maestro? Ma chi è?”.
“Oh, sono sicura che tu lo conosci benissimo”.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi ritrassi d’istinto, in posizione di difesa. Quel qualcosa di soprannaturale e minaccioso ora era più evidente che mai. “Chi sei?” domandai con maggiore decisione. “Cosa ti ha portata fino a me?”.
“Sono una strega, se non si è capito” precisò lei con un’alzata di spalle, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “E ho un incarico. Tutto qui. E ora che l’ho portato a termine, credo di non essere più di alcuna utilità qui. Piacere di averti conosciuta, Cate. Buona fortuna”.
E, detto questo, la creatura mi rivolse un altro strano sorriso e fece una giravolta su se stessa, arretrando di qualche passo e svanendo come nebbia fra le case. Io rimasi lì, impietrita e confusa, un pacchetto fra le mani e mio fratello che mi fissava sconcertato.
“Cos’è successo?” domandò tremando. “Chi era quella?”.
“Tu cosa ricordi?” domandai in tono innaturale.
“Una strega?”.
“Forse. In ogni caso, non tornerà più”. Spero, pensai con un brivido.
Abbassai gli occhi su Leo e sobbalzai. Era asciutto, completamente asciutto, nonostante il tuffo. Solo le tracce dello spavento sul suo volto mi ricordavano che aveva rischiato di affogare solo pochi minuti prima.
“Andiamo al cinema, Cate? Subito, però!” mi implorò.
Io annuii nervosamente, poi spinta dalla curiosità, aprii il pacchetto che la strega mi aveva lasciato. Gettai immediatamente lontano il contenuto come se si fosse trattato di un aspide. Il vecchio libro rilegato in cuoio rotolò a terra, finendo fra le mani di Leo, che lo sollevò, scoccandomi una lunga occhiata interrogativa.
Era L’Ultima Battaglia.

                                                                                                                                                        
Buongiorno a tutti! Come state?
Ok, in questo capitolo di narniano c'era solo la fine, ma è indispensabile affinché capiate. Vi prometto che nel prossimo torneranno i nostri vecchi amici!
Nel frattempo, Cate dovrà scoprire chi è il Maestro e, soprattutto, PERCHE' le ha inviato l'ultimo libro. E Amy? E' buona o cattiva?
Ok, sono perfida! (ride con sadica soddisfazione).
Ringrazio come sempre La_la, cioccolata e sawadee. Ragazze, vi voglio tanto bene!
A presto!
Un bacio!

 

 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Qualcosa è cambiato ***



Qualcosa è cambiato


Don’t forgive me.
No, non lo farò. Te lo prometto.
Don’t forgive me.
Anch’io ti aspetto. Ti aspetterò ogni istante. Poi saremo insieme. Per sempre.
Don’t forgive me…
 
“Cazz…!”.
“Attenta!”.
La macchina veniva contro di noi a velocità folle, in un attimo il suo paraurti era a pochi millimetri dal mio. Potevo scorgere nei minimi dettagli il volto incredulo del conducente.
Ci fu un agghiacciante stridore di freni. Sterzai con violenza. La 500 schizzò di lato come una scheggia, urtando il marciapiede e proiettandomi contro il volante. Chiusi gli occhi e mi afflosciai sullo sterzo, tremando per il colpo. Ci era mancato poco, davvero poco. Non osavo realizzare che solo un attimo prima avevo rischiato di morire. Quando finalmente alzai lo sguardo, mi ritrovai a pochi centimetri dal naso giallastro di Giulio, lo sguardo da furetto imperturbabile. Brutto segno.
“Che vogliamo fare?” cantilenò il mio istruttore.
“Io…mi dispiace, non volevo…” balbettai.
“Sì, mi dispiace, non volevo, eccetera, eccetera. Pensiamo di prendere la patente a suon di “mi dispiace” o vogliamo provare a concentrarci un po’ di più?” mi bloccò lui senza mutare di un millimetro la sua espressione facciale.
Mi morsi il labbro con nervosismo e annuii. Era inutile stare a discutere, tanto l’aveva sempre vinta lui. Mi limitai a riaccendere il motore e a inserire la retromarcia.
“Dimentichiamo qualcosa?” chiese Giulio con una smorfia.
“La freccia” ringhiai sottovoce, voltandomi per controllare che in quel momento non passasse nessuno.
Odiavo quell’uomo!
“Che cosa succede venerdì prossimo?” continuò l’uomo mentre mi rimettevo in strada goffamente.
“L’esame” risposi io esasperata.
Giulio scoppiò in una risatina. In quel momento avrei tanto voluto prenderlo a schiaffi.
“Che c’è?” chiesi stringendo spasmodicamente le mani sul volante.
“Mi chiedo proprio che figura farai davanti all’esaminatore”.
“Ah, ah, ah. Sappi che potrei stupirti”.
“Vedo, vedo”.
Mi sforzai di non voltarmi verso di lui e strozzarlo con le mie mani. Avrei preso quella dannata patente a tutti i costi, pur di togliermelo dalle scatole. Non credevo che potesse esistere una persona così irritante sulla faccia della Terra!
Vedere l’ingresso dell’autoscuola farsi sempre più vicino fu come una manna dal cielo. Anche per quel giorno, la tortura era finita. Gli allungai i quindici euro e scesi dall’auto a testa bassa, limitando a fare un breve cenno d’incoraggiamento al ragazzo spaurito che si stava accingendo a prendere il mio posto.
“Ho proprio voglia di farmi due risate, la settimana prossima!” proseguì Giulio sporgendosi dal finestrino.
A quel punto esplosi. Mi voltai di scatto, fremente di rabbia, pronta a dirgliene quattro, quando improvvisamente mi bloccai lì dov’ero, spalancando la bocca per la sorpresa. Strizzai gli occhi sotto la pioggia, convinta che l’acqua mi stesse giocando un brutto scherzo. Non avevo mai notato in quel modo le sue…orecchie. A punta. Erano a punta!
“Beh, che c’è?” domandò lui con indifferenza.
“Niente, niente. A domani” borbottai nervosamente, incamminandomi a tutta velocità verso casa. Francamente, non mi sembrava una cosa carina far notare a una persona le sue orecchie a punta. Anche se quella persona era Giulio.
Mentre avanzavo in quel muro d’acqua fredda e sporca, la mia mente galoppava. Possibile che non le avevo mai notate prima? Così grandi e a sventola? Di certo, avevo incontrato decine di persone con le orecchie a sventola, ma nessuno le aveva così grandi, così appuntite, simili a quelle di un folletto. Un momento, avevo detto folletto? A Roma? In un’autoscuola? Dovevo essere completamente fuori di testa. Eppure solo il giorno prima mi ero ritrovata faccia a faccia con una strega. Qualcosa non quadrava.
Mi si gelò il sangue. Soprannaturale. Cinque anni dopo, era tornato. Ma no, era impossibile, di certo era stato tutto uno scherzo giocato dalla mia immaginazione contro la spietata antipatia che provavo nei confronti di quell’uomo. Un momento, ma allora come facevo a farci rientrare la strega? Che cosa stava succedendo?
Mentre camminavo, i miei passi mi avevano portata impercettibilmente dentro Villa Borghese. Perfetto, dal momento che era stato lì che erano cominciate a succedere le cose inspiegabili. E al diavolo il rigor di logica!  Il grande leone di pietra vicino al quale avevo incontrato Lucy era ancora lì, sferzato dalla pioggia e dal tempo, i grandi occhi fissi su di me. Quel leone che per la prima volta mi aveva suggerito il nome di Aslan.
“Tu non c’entri niente stavolta, vero?” gli chiesi ad alta voce, dandomi immediatamente dopo della stupida, dal momento che era altamente improbabile che un pezzo di pietra potesse sentirmi in qualche modo. Anche se, viste le mie passate esperienze, cominciavo un tantino a rivalutare la natura delle statue.
“Qualcosa non va, Caterina?” domandò una voce maschile alle mie spalle.
“Ciao, Aldo!” salutai il carabiniere a cavallo che era sopraggiunto in quel momento. “Di ronda anche con questo tempaccio?”.
“Eh, sì, mia cara, il lavoro è lavoro!” sospirò lui senza smettere di sorridere. “Te, come va?”.
“Bene, sì, sto tornando da scuola guida” risposi io con un’alzata di spalle. “Venerdì ho l’esame”.
“In bocca al lupo, allora!” rispose lo zio di Rebecca strizzandomi un occhio. “Vedrai che lo passi!”.
“Lo spero! Io Giulio non lo sopporto più!”.
“E chi lo sopporta!”. Scoppiò a ridere e io lo imitai sollevata.
“Hai un nuovo cavallo?” chiesi a un certo punto, notando il bel sauro che montava.
“Oh, sì!” esclamò Aldo, facendosi triste per un atimo. “Alla fine, sono stato costretto ad accettare di sostituire Piumino. Senza cavallo, non posso lavorare”.
“Certo. E’ stato un peccato, però”.
“Lo so. Il cancro non risparmia nessuno, purtroppo, né uomini né bestie”.
“Come si chiama?”.
“Jedi”.
“Ah, ah, carino!”.
“E’ un bravo ragazzo, sì. Penso che finiremo per diventare amici. Un giorno, se vuoi, ti ci faccio fare un giro”.
“Grazie mille!” esclamai entusiasta. “Sempre meglio della macchina! Ciao, Jed!” lo salutai, accarezzandogli il muso vellutato.
Il cavallo alzò i grandi occhi marroni su di me e mi fissò. Quello sguardo mi lasciò senza fiato. Conoscevo quegli occhi, conoscevo quello sguardo buono e paziente, velato di una leggera vena di saggezza. Conoscevo quel cavallo.
Cate.
Mi scostai di scatto da lui. Ero sicura di aver sentito una voce nella testa, una voce calda e leggermente gutturale che sembrava provenire a un tempo dal sauro e dal mio petto, scaturita come una fonte dal solo contatto con lui.
Phil?
Sbattei le palpebre incredula. Perché quell’associazione? Non poteva essere Philip, lui era a Narnia insieme agli altri, era rimasto con…Edmund?
“Tutto bene, Cate?” domandò Aldo preoccupato.
“Oh, sì! Sono solo un po’ stanca. Meglio che vada a casa, prima che mi prenda un malanno” balbettai scuotendo il capo.
“Fai bene! Corri! E ricordati un ombrello, la prossima volta!”.
“Sicuro! A presto, Aldo! Portami tanti saluti a Rebecca!”.
“Certo! Ciao!”.
“Ciao!”.
Cominciai a correre a perdifiato sotto la pioggia che si faceva sempre più battente di minuto in minuto, stingendomi negli abiti ormai fradici. La mia mente si faceva sempre più confusa. Non sapevo come, ma ero sicura che quel cavallo fosse Philip. Ma come faceva a essere lì? Eppure avevo sentito il mio nome nella testa, avevo riconosciuto la sua voce. E a Narnia, gli animali avevano una personalità propria quanto gli uomini, forse anche di più. Non avrei mai confuso un cavallo con un altro!
Ma se quello era davvero Philp, allora significava che…Il mio cuore prese a battere all’impazzata. No, non poteva essere vero! In qualche modo, i cancelli per l’altra dimensione erano di nuovo aperti. E stavano venendo a cercare me. Mi fermai di botto sotto la pensilina di un negozio di via del Corso, sbattendo le palpebre come inebetita. Se le porte erano aperte, ciò significava che la storia andava avanti. Con tutto ciò che avrebbe comportato.
“NO!”.
Dovevo avere delle risposte. Dovevo capire perché. L’altra volta, ero giunta a Narnia perché lo avevo desiderato. Ma ora? Io non volevo ritornare lì, sapevo che ciò avrebbe comportato la morte delle persone che amavo. Avevo giurato di rinunciare per sempre a quel mondo pur di salvarle! Lo avevo rinnegato e spergiurato, relegato a un semplice libro per bambini pur di evitare l’inevitabile. E ora? Perché la porta era di nuovo aperta, perché i nostri mondi si erano di nuovo mischiati? Qualcuno, solo qualcuno, qualcuno che non ero io aveva espresso il desiderio proibito…Un momento, dove avevo lasciato L’Ultima Battaglia? Mi montò il panico. Solo una persona poteva averlo, in quel momento. Una persona che non poteva certo rendersi conto di che razza di catastrofe aveva appena scatenato.
Mi precipitai a rotta di collo verso casa, il cuore in gola, salii i gradini delle scale due a due, spalancai con violenza la porta e mi gettai nell’appartamento semibuio.
“Leo? LEO?”.
Silenzio. Niente rumore della Playstation, niente ronzio del computer, niente musica spacca timpani a tutto volume.
Fa’ che sia uscito, implorai disperatamente. Ti prego, fa’ che sia uscito, che stia facendo qualsiasi altra cosa, qualsiasi…
Il sangue smise di scorrermi nelle vene nell’attimo in cui spalancai la porta della sua cameretta.
Leo era seduto sul letto a gambe incrociate, il vecchio libro rilegato in cuoio sulle ginocchia, tutto preso dalla lettura.
“Oh, mio Dio!” esclamai orripilata. “Che cosa hai fatto?”.  

                                                                                                                                                   
Buondì!
Lo so, oggi mi andava di scrivere!
Cominciate a capire?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Vi abbraccio!

 
                  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Le porte sono di nuovo aperte ***


 Le porte sono di nuovo aperte
 


Come si fa a spiegare al proprio fratellino quindicenne che poco più di cinque anni prima ci si è ritrovati catapultati in un altro mondo attraverso la semplice lettura di un libro?
Io, al momento, non ne avevo la minima idea, perciò mi comportai come si comportano più o meno tutte le sorelle maggiori quando si trovano in queste situazioni imbarazzanti e scelgono di passare per prepotenti ed egoiste per salvare un bene comune.
Fu così che, senza starmi a fare tanti problemi, strappai con violenza il libro dalle mani di Leo e fuggii via più veloce che potevo, afferrando alla cieca un ombrello e sparendo di nuovo giù, inghiottita dal caos della strada.
Mi sentivo la testa vuota e il cuore mi pulsava come un forsennato nelle tempie, facendomi quasi male. Dovevo sbarazzarmi di quel libro, in un modo o nell’altro, quello era l’unico pensiero che avevo per la testa in quel momento.
Sulle prime pensai di gettarlo nel Tevere, ma poi realizzai che era la cosa più stupida che potessi fare. Se quel libro in qualche modo era vivo, distruggerlo significava portare la fine all’intero mondo che celava al suo interno.
No, se volevo evitare la catastrofe, dovevo nasconderlo. Dove nessuno avrebbe potuto leggerlo.
Ma dove?
Camminai simile a un fantasma per tutte le strade principali, infilandomi poi nei viottoli secondari circondati dalle anguste facciate cadenti di antiche dimore. L’acqua scrosciava impalcabile sulle pareti scrostate, riversandosi giù dalle grondaie in rigagnoli sudici che inzaccheravano i sampietrini. Mi fermai di colpo, incapace di andare avanti. Non sapevo dove andare, non sapevo a chi chiedere aiuto, perché in quel momento io avevo bisogno di aiuto.
“Non ti conviene nasconderlo, se sai che non lo ritroverai” mi disse una voce ironica, sovrastando lo scrosciare dell’acqua.
Mi voltai di scatto, mettendomi in posizione di difesa e stringendo il libro al petto come per proteggerlo.
Da dietro l’angolo, sinuosa ed elegante come una pantera, emerse Amy, perfettamente in ordine e rilucente di selvaggia bellezza, nonostante non avesse nulla per proteggersi dalla pioggia.
“Amy?” balbettai impaurita.
“Calma, Figlia di Eva, calma. Capisco la tua paura, ma ti assicuro che non ti farò del male” disse la strega sorridendo.
“E chi me lo assicura?” chiesi sprezzante. “Jadis?”.
Amy sembrò rabbrividire. “Non pronunciare quel nome” disse gelida.
“Dunque la conosci”.
“Non l’ho mai vista, ma il suo male è più vivo che mai”.
“E tu? Ne sei contenta?”.
La strega scosse il capo. “Sono venuta a cercarti e sapevo che ti avrei trovata qui. Ho bisogno di te, Cate. Narnia ha bisogno di te, come tu hai avuto bisogno di lei”.
“Spiegati”.
Amy inspirò profondamente, poi disse: “Tu conosci molto bene il mio Maestro. E’ lui che ha creato tutto ciò che hai visto, tutto ciò che conosci, tutto ciò che hai vissuto in queste pagine. Solo che non aveva compreso quale potere aveva fra le sue mani e, alla fine, questo ha preso il sopravvento”.
“Ehi, aspetta un secondo!” esclamai incredula. “Stai cercando di dirmi che il tuo Maestro è Lewis?”.
Amy annuì.
“Ma è impossibile!” sbottai io subito dopo. “Insomma, dovrebbe essere morto!”.
“Lewis è uno Scrittore” rispose lei. “E gli Scrittori non possono morire finché ci sarà qualcuno disposto a perpetuare le loro storie. Io, così come l’uomo che ami, sono una sua creatura, tenuta nascosta dalla sua mente umana, eppure più viva e concreta che mai, pronta ad agire di mia volontà, se posso. Ormai, sono abbastanza grande e forte per farlo”.
La fissai con tanto d’occhi.
“Lo so che per te è difficile accettare una cosa simile” continuò Amy. “Ma è così. Ma ora ascoltami, ti prego. Non abbiamo tempo. Il mio Maestro ha ricevuto il dono di rendere realtà ciò che scrive, è vero, è una dote che nasce dalle origini del mondo, ma non ha compreso che nella sua storia ha dato vita anche alla forza distruttrice, il male puro, che, attraverso la forma che lui gli ha donato per narrare la sua cronaca, ha avuto sempre più potere, convincendolo subdolamente a continuare un racconto che sarebbe dovuto restare al punto in cui l’aveva lasciato, nella sua età dell’oro, incanalandolo invece in quell’oscuro sentiero che l’avrebbe portato inesorabilmente alla morte”.
“Jadis!” esclamai impaurita.
“Ti ho detto di non pronunciare quel nome!” ringhiò Amy, facendomi venire i brividi. “Lo sai che anche tu ora hai quel potere!”.
“Io cos…”.
“Fai silenzio è ascoltami, non abbiamo tempo, ti dico! Il Maestro ora è completamente sotto il potere della Strega e non può fare nulla per fermare tutto questo senza sconvolgere l’ordine del mondo che ha creato, portandolo alla distruzione. Solo tu ora puoi. Leggendolo, hai acquisito parte del suo potere, senza che esso sia stato intaccato dal male. Solo tu ora puoi salvare Narnia. Solo tu puoi cambiare il finale”.
“Ma come?”.
“Questo sta a te. Al tuo cuore. Io sono solo un messaggero che per volontà del mio signore sono fuggita dalle pagine che mi hanno tenuta al sicuro fino a oggi, partendo alla tua ricerca per consegnarti la traccia che avrebbe riaperto il passaggio per Narnia. Una volta liberati i personaggi, starà a te risolvere l’enigma”.
“Ma come faccio? Ti prego, puoi aiutarmi?”.
“Ahimè, non posso. Non è in mio potere. Ma posso venirti incontro, se vuoi. Sai, noi streghe siamo molto obiettive e riusciamo sempre a trovare ciò che desideriamo più di ogni altra cosa. Per questo mi è bastato mettere il naso fuori di casa per trovare te e salvare tuo fratello”.
“Vuoi dire che ora loro sono qui? In questo mondo?”.
“Sì, Cate. Devi trovarli. Anche se penso che saranno loro i primi a venire da te”.
Rabbrividii. “E il libro?” domandai.
“Tienilo. Proteggilo più di ogni altra cosa. E’ la chiave di tutto”.
Annuii con fare consapevole. “Grazie, Amy” dissi sorridendole per la prima volta.
“Grazie a te, Cate. Narnia ti sarà grata per sempre. Ora però devi andare. Sono vicini, ormai. I buoni come i cattivi. Proteggi ciò che ami, piccola mia”.
“Aspetta! Non te ne andare!”.
“Ma non me ne sto andando!” ridacchiò la strega, passandomi accanto leggera. “Io sarò molto più vicina di quanto tu possa immaginare. Ti basterà desiderarlo e io arriverò”.
Detto questo, sempre ridendo, svanì.
 
Rimasi interdetta, impaurita, confusa, il libro stretto ancora al petto mentre la pioggia continuava a cadere gelida e sporca accanto a me.
Dovevo tornare a casa. Mi sarei fatta una doccia veloce, poi avrei deciso che cosa fare. Aveva detto che le porte erano di nuovo aperte. Che erano .
Edmund.
Il cuore prese a battermi all’impazzata. Di colpo, avevo dimenticato tutta la mia vita sul pianeta Terra, ricordandomi che parte di me apparteneva anche a un altro mondo, quel mondo che ora era nelle mie mani. Era ciò che sognavo, ciò che desideravo più di ogni altra cosa.
In un attimo, stavo correndo sotto la pioggia, il libro stretto al petto, vicino al cuore. Avrei quasi voluto spiccare il volo, leggera, determinata ad affrontare il mio destino, proprio quello che sapevo di amare.
Giunsi a Largo Argentina spazzato dalle macchine e dalla calca di turisti instancabili, pigiati sotto gli ombrelli. Mi accodai a loro, stipati sul marciapiede in attesa del verde.
Un tram verde brillante attraversò la strada a pochi metri da me, facendo tremare il cemento armato sotto le mie scarpe di tela ormai fradice, poi il marciapiede ritornò visibile, in coda allo stridore di ferro ed elettricità che si scaturivano dal gigantesco serpente d’acciaio, rivelando il capannello di persone in fila dall’altro lato.
Di colpo, il mondo si bloccò.
Non riuscivo a credere a i miei occhi.
Nemmeno lui, dal momento che il suo sguardo incredibile era tutto proiettato verso di me, confuso e spaventato come se non facesse parte di questo mondo. Non come lo conosceva, almeno.

                                                                                                                                            
Eccomi, sono tornata!
Visto, ora vi ho spiegato tutto!
Visto chi è tornato nelle ultime righe?
ora scappo in palestra, a presto!
Mi siete mancati!
Baci!
Sunny

  
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Faccia a faccia ***


 Faccia a faccia

Squilla!, pensai con il cuore che batteva forte. Rispondi, ti prego, rispondi…
“Ehilàààààààààààà!!!!” trillò improvvisamente la voce di Giulia dall’altro capo, facendomi sussultare. “Che si dice?”.
“Giulia, ascolta, io…non so come dirtelo. In questo momento esatto ho Edmund Pevensie in casa”.
“Ehi, non vale! E’ la stessa cosa che ti ho detto io la sera che ho conosciuto Massi!” protestò lei in tono pignolo.
“No, no, è quello vero!” tentai di farla ragionare. “Ti prego, devi venire subito! Non so a chi rivolgermi!”.
“Problemi con un ragazzo?” cantilenò lei con voce complice.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo. “Ascolta, è inutile startelo a spiegare qui, tanto mi prenderesti solo per matta” buttai lì con decisione. “Ma devi venire, capito? Lo devi vedere con i tuoi occhi”.
“D’accordo, cara, ma devo portare anche Massi. Sono a casa sua ora”.
“Porta anche lui, no problem. Basta che vieni. Io…credo di stare per impazzire, lo sai?”.
“Tranquilla, che arriviamo noi. Ehi, Massi, amore!” chiamò poi con una voce così alta da farmi discostare violentemente la testa dal ricevitore.
Udii un brontolare sordo dall’altra parte, poi Giulia disse: “Ok, arriviamo. See yaaaa!” e riagganciò prima ancora che avessi avuto il tempo di ribattere.
Riagganciai lentamente, poi alzai gli occhi.
Per un attimo, avevo pensato di aver avuto un’allucinazione e che nessuno in quel momento stesse occupando il mio letto, ma mi sbagliavo. Edmund mi fissava con i suoi profondi occhi neri, più grandi e belli che mai, in un’espressione a metà strada fra il confuso e l’esterrefatto, insieme a una piccola ma irresistibile sfumatura di euforia.
“Così questa è Roma?” domandò a un certo punto, cercando di stemperare un po’ quel silenzio imbarazzante che era calato fra di noi.
“Sì,” annuii sorridendogli dolcemente “come avevo promesso”.
“Molto caotica”.
“Concordo”.
Si udii un rumore affrettato di passi nel corridoio, poi la testa di Leo fece capolino nella camera da letto. Ci lanciò due profonde occhiate, indugiando in particolar modo su Edmund, poi commentò: “Allora qualcosa di vero c’era in quella storia, eh, sorella?”.
“Ah, taci!” gli risposi io bruscamente.
“E’ tuo fratello?” domandò Edmund, che fino a quel momento, nonostante il suo carattere intraprendente, non era ancora riuscito a spiccicare parola con l’omino di casa.
“Sì. Piacere, Leonardo” rispose lui, facendo il gesto di dargli il cinque.
Il ragazzo lo fissò lungamente, non comprendendo tale invito; poi, con un sorriso cordiale, gli strinse la mano, soffocando a stento l’imbarazzo.
A quanto pareva, era ancora fortemente sotto shock.
“E’ vero che sei stato il primo ragazzo di mia sorella? Sai, lei non fa altro che parlare di te…” proseguì Leo senza farsi troppi problemi, le mani puntualmente di nuovo nelle tasche.
Per un attimo, Edmund parve arrossire, poi si ricompose e disse: “Sì. Abbiamo avuto una storia per un breve periodo”.
“Leo!” esclamai io risentita. “Non hai per caso un argomento di riserva?”.
“Certo! Sei della Lazio o della Roma?”.
“Gesù santissimo! Leo, perché non ci prepari qualcosa da bere, dato che a momenti saranno qui anche Giulia e Massimo?”.
Il ragazzino sbuffò, soffiandosi via dalla faccia uno dei suoi lunghissimi riccioli neri. “Eh, ma te le chiappe non le alzi mai, Miss? Sempre io!”.
“Per…favore” sillabai.
La mia occhiata fu sufficiente a far recepire il messaggio.
“Capito, va’” borbottò uscendo a grandi passi dalla stanza.
Dal rumore della TV che pochi istanti dopo prese a gracchiare dal salotto, si capiva chiaramente che Leo stava facendo tutt’altro che preoccuparsi della merenda. Pazienza.
Mi voltai verso Edmund. Il quattordicenne che avevo conosciuto cinque anni prima aveva lasciato posto a un giovane uomo sulla soglia dei vent’anni. Il suo fascino magnetico, così strano e insolito, era ancora più affascinante di quanto ricordassi. Lo sguardo era più penetrante che mai, gli occhi nerissimi leggermente allungati, i capelli in disordine come sempre, anche se, a differenza della volta precedente, sembrava aver fatto un disperato tentativo di domarli, le immancabili lentiggini a ricoprirgli il lungo naso. Per un attimo rabbrividii. Era passato troppo tempo. In quel momento, nonostante fossimo di nuovo uno a pochi centimetri dall’altra, lo sentivo più irraggiungibile che mai. Ognuno cristallizzato nel proprio mondo. Avevamo le nostre vite, ora, i nostri progetti. Nei quali, inesorabilmente, non avevamo potuto calcolare la presenza dell’altro. Sembrava troppo assurdo.
“Come sei arrivato qui?” domandai, stringendomi le ginocchia al petto.
“Non lo so” rispose lui. “Ero in camera mia, dagli zii, a Cambridge…sai, da me c’è ancora la guerra e io e Lucy siamo in vacanza da nostro cugino, cioè eravamo. Insomma, un attimo prima ero disteso sul letto a pensare ai fatti miei e di colpo mi sono ritrovato su quel dannatissimo marciapiede. Per fortuna sei arrivata tu, o credo che sarei morto dallo spavento!”.
Scoppiai a ridere. “Edmund il Giusto che si fa spaventare così facilmente?” lo presi in giro.
“Dal futuro sì!”.
La sua risposta mi fece tornare seria all’istante. Il ragazzo sapeva quale crudele destino era in serbo per loro?
“Solo tu sei arrivato qui?” domandai in tono innaturale.
“Credo di sì”.
Annuii silenziosamente, spostando lo sguardo sui miei piedi. Qualcosa, dentro di me, si stava pregando che il ragazzo sparisse veloce come era comparso, riportandolo al sicuro nella sua dimensione.
“Tu non sei cambiata affatto” disse Edmund improvvisamente, facendomi trasalire.
“No, non è vero” risposi nervosamente. “Tante cose sono cambiate da quel giorno”.
“Quanti anni hai?”.
“Diciannove”.
“Anch’io”.
“Sì, ma con qualche decennio di differenza”.
“Ha importanza?”.
Alzai lo sguardo verso di lui e sorrisi. “No” sussurrai. Ecco, ora era tutto più naturale. Andava bene così.
Mi alzai impercettibilmente dal pavimento e mi sedetti accanto a lui. Avevo il fiato mozzo per l’emozione. Di colpo, tutti i tristi pensieri che mi avevano tormentata fino a quel momento erano svaniti nel nulla. Ora eravamo di nuovo insieme. Potevamo stare insieme. Quel momento era nostro, solo nostro. Solo che al momento sembrava così difficile colmare quel vuoto che si era creato durante la sua assenza. Come cancellare tutto ciò che aveva seguito la mia partenza, i miei ultimi anni al liceo, il mio ragazzo?
“Cosa è accaduto nel frattempo?” gli chiesi piano.
“Tante cose, incredibili, meravigliose e anche spaventose” rispose lui. “E in ogni momento, ogni cambiamento, non ho mai smesso di sperare che tu sopraggiungessi da un momento all’altro, come nella notte in cui ci incontrammo”.
Rabbrividii. Dunque mi aspettava. Mi amava. Come io amavo ancora lui. Ma una parte di me, quella razionale e radicata profondamente nel mio mondo, ancora mi impediva di accostarmi a lui, di toccarlo, di baciarlo, come i suoi occhi sembravano chiedermi.
“Anch’io ti ho sempre pensato in tutti questi anni,” dissi tristemente, ormai decisa a dirgli la verità “ma vedi, Ed, tante cose sono…”.
Il prepotente suono prolungato del campanello mi bloccò la frase a metà. Solo Giulia poteva attaccarsi al citofono per più di trenta secondi. Peggio di un terremoto.
Udii i passi di Leo trascinarsi per il corridoio, accompagnati da imprecazioni decisamente poco anglosassoni, fermandosi solo davanti alla porta della camera mia per urlarmi: “E’ arrivata l’amica tua!” e dirigendosi di malavoglia ad aprire.
Io ed Edmund restammo per pochi istanti a fissarci negli occhi, io carica di imbarazzo per averlo tradito, perché io, alla fine, lo avevo tradito, lui che continuava a fissarmi carico di interrogativi le cui risposte non avrebbero fatto altro che ferirlo, mentre la voce squillante di Giulia invadeva l’appartamento. Udii i suoi passi farsi sempre più vicini nel corridoio, ecco, lo tsunami sarebbe arrivato da un momento all’altro…
“Ciao! Allora, chi è? Che succede? Devi dirmi tutto!” esclamò tutto d’un fiato prima ancora che avessi potuto alzare la testa verso di lei e salutarla.
I suoi enormi occhi celesti si spalancarono di gioia nell’attimo in cui incontrarono quelli di Edmund.
“Oh, mio Dio!” esclamò diventando di colpo rossa come un peperone. “Ma potevi dirmelo subito, no?” mi rimproverò senza celare il sorrisone a sessantadue denti. “LO SAPEVO!”.
“Sapeva cosa?” domandò Edmund confuso.
“Wow, non sapevo che sapessi l’italiano, Skandar!” esclamò la mia amica facendo un salto all’indietro.
“Skandar? Chi diavolo è Skandar?” esclamò Edmund guardandola come se avesse avuto più di qualche rotella fuori posto.
“Tutto a posto, Ed!” intervenni io, lottando per non rotolarmi dalle risate. “Giulia, come puoi constatare con i tuoi occhi, lui è il vero Edmund Pevensie”.
Giulia si bloccò lì dov’era, rimanendo interdetta per la prima volta in vita sua. Squadrò il ragazzo dalla testa ai piedi, inclinando leggermente il capo sormontato dal caschetto biondo; poi annuì lentamente. “Mio Dio!” esclamò incredula. “E’ vero, gli assomigli tantissimo, però hai qualcosa di diverso, di più vero, insomma, non sembra che stai recitando…ecco, sei tu!”.
“Si può sapere di che cosa sta parlando?” domandò Edmund, che cominciava davvero a seccarsi.
Io alzai gli occhi verso Giulia, nella speranza che anche lei mi venisse incontro, ma questa volta il mio amico folletto dispettoso si limitava a fissare il nostro ospite con ammirazione, incapace di trovare le parole giuste per rivelargli la sua vera natura. Del resto, come fai a spiegare a una persona che in realtà è appena saltata fuori da un libro? Non mi restava che una cosa da fare, anche se sapevo che l’effetto sarebbe stato più o meno quello di una secchiata d’acqua gelida in pieno volto. Pazienza. Quello sarebbe stato solo uno dei tanti shock a cui il ragazzo avrebbe dovuto fare l’abitudine.
“Ti devo far vedere una cosa” dissi piano, alzandomi e andando verso l’armadio. Vi estrassi un DVD dalla confezione amaranto e glielo mostrai. “E’ successo tutto non appena sono tornata” dissi porgendoglielo.
“Che cos’è?” domandò Edmund soppesandolo; poi sgranò gli occhi per la sorpresa nel leggere il titolo.
“Ora il cinematografo si fa in casa” dissi io, invitandolo a seguirmi in salotto.
“Sì, si guarda Narnia!” esultò Giulia alzando i pugni al cielo e precedendoci a balzelloni nel corridoio.
“No, ancora quella roba lì?” esclamò Leo dal divano, non appena ci vide entrare con il fatidico DVD.
Accanto a lui, Massimo ci fece un cenno di saluto.
Edmund impallidì. Era impressionante quanto i due si somigliassero.
“Siamo parenti?” domandò Massi aggrottando le folte sopracciglia nere.
“Non credo di averti mai visto” biascicò lui.
“Edmund, ti presento il mio ragazzo, Massimo!” esclamò Giulia, al settimo cielo.
“Piacere” gli strinse la mano l’altro. “Meno male! Per un attimo avevo pensato che fosse quel bimbominchia inglese che piace tanto a Giulia! Sai che certe volte è una cosa stressante?”sospirò poi sollevato.
“Ma chi è questo qua di cui continuate a parlare?” protestò il ragazzo.
“Siediti e guarda” dissi io inserendo il DVD nel lettore e accendendo la TV. “Ti avverto che potresti subire un piccolo shock”.
Edmund si immobilizzò lì dov’era, affascinato dalle prime immagini che scorrevano sullo schermo. Io lo fissai intenerita. Non aveva mai visto una televisione in vita sua. Tante cose non aveva ancora visto. Si irrigidì nel vedere lo stormo di aerei che attraversava rombando il gigantesco schermo al plasma, ricordo di una ferita ancora aperta nei suoi ricordi; poi la telecamera si spostò sulla finestra illuminata di una casa, la sua casa, dalla quale i giganteschi occhi neri di un ragazzino di quattordici anni stavano osservando affascinati lo spettacolo di morte e distruzione che si apriva appena al di là del cancello, senza incontrare il suo sguardo.
Un attimo dopo, era sparito dietro lo schienale del divano.
 
“Edmund! EDMUND!”.
Lo scossi energicamente, schiaffeggiandogli le guance di colpo pallide come quelle di un cadavere. Per un attimo, temetti che la catastrofe si fosse consumata proprio in quel momento, davanti ai miei occhi, ma fortunatamente il panico si sciolse in pochi attimi in un sospiro di sollievo nel constatare che respirava ancora.
Il ragazzo riaprì gli occhi lentamente. Le gambe gli tremavano ancora.
“Come stai?” gli chiesi spaventata.
“Cosa significa tutto questo?” esclamò lui terrificato. “Che ci facevo io nel tuo cinematografo?”.
“Lo dicevo io che quel tizio è un vero skandalo!” esclamò dietro di noi la voce di Massi, seguita all’istante da un sonoro ceffone da parte di Giulia.
“Ed, mi dispiace, forse non è stato il modo giusto per dirtelo, ma non sapevo come fare!” dissi io desolata.
“Cate, una cosa alla volta, per favore. Non lo vedi che è distrutto?” disse Giulia accucciandosi accanto a me.
Io le sorrisi carica di gratitudine. Nonostante il suo carattere apparentemente insopportabile, Giulietta era in realtà una ragazza con la testa ben piantata sulle spalle.
“Deve riposare” continuò lei mettendomi una mano sulla spalla. “Non è stato facile”.
“Sì, hai ragione”.
Aiutai Edmund a rialzarsi e lo feci stendere sul divano. Ancora non sembrava avere la facoltà di reggersi in piedi da solo. I suoi occhi scattarono d’istinto verso la televisione ancora accesa, fissando il suo equivalente cinematografico parlare dell’inutilità del latino un istante prima che Leo scattasse verso il telecomando e mettesse a tacere quell’arnese infernale.
“Ho bisogno di spiegazioni” ci implorò.
“Non ora. Va tutto bene. Credimi, qualsiasi cosa ti dirò, va tutto bene. Sei qui, no? Sei qui, adesso” lo rassicurai. Per la prima volta, gli sfiorai la guancia con la mano. Lui la afferrò delicatamente e la strinse a sé. Ora ero io la sua guida nel nostro mondo. “Non ti abbandonerò, Ed. Non ti abbandonerò mai più. Promesso”.
Mi voltai poi verso gli altri. “Non può restare qui” dissi seria. “Mamma e papà non capirebbero”.
“Può venire da me, se vuole” propose Massimo con disinvoltura. “Tanto i miei non rientrano prima della settimana prossima”.
“Allora è deciso. Grazie, Massi” risposi sorridendo.
“Ma di che? Sai, mi è simpatico, il tuo amico” fece lui con un’alzata di spalle.
“Ed,  a te va bene?” gli chiesi.
“Va bene, purché poi mi spieghiate tutto per filo e per segno”.
“Promesso”.
Il suono del campanello ci fece trasalire tutti.
“Chi cavolo è?” domandò Leo accigliato.
Lo stomaco mi si contrasse in una morsa dolorosa. No, non lui, non ora
La risposta ci piombò in testa come un colpo di scure nel momento in cui mio fratello, che si era alzato per andare a vedere, ritornò in salotto in preda al panico. “C’è Riccardo” disse gelido.
Tutti gli occhi si puntarono su di me. Improvvisamente, avevamo pensato tutti la stessa cosa. Ma qualsiasi cosa fosse uscita dalla mia bocca, avrebbe ferito un’unica persona.
Non c’era tempo per le spiegazioni.
“Dovete portare via Edmund da qui. Subito!” fu tutto quello che riuscii a dire.

                                                                                                                                     
Ciao a tutti!
Piaciuto il capitolo?
Povero Edmund, in queste pagine mi ha fatto una pena!
E Giulia mi ha fatto sganasciare dalle risate (poi chi sa, mi dirà se ci ho azzeccato o meno)^^
Auguro a tutti un buon finesettimana!
A presto!

 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Inevitabile ***


 Inevitabile

 
Tirai un profondo respiro e aprii la porta. Rivedere il suo viso dopo due settimane mi provocò lo stesso, incredibile tuffo al cuore che mi sorprendeva dal primo giorno in cui l’avevo visto.
“Ciao” sussurrai timidamente.
“Ciao” rispose lui sfiorandomi la guancia mentre mi circondava la vita con le braccia.
Io sorrisi e mi abbandonai a lui, ritornando alla mia esistenza, nel mio mondo. Di colpo, tutto sembrava incredibilmente perfetto. Ero tra le braccia della persona che amavo, un ragazzo che tante mi avrebbero invidiato, bello e dolce come pensavo esistessero solo nelle commedie americane.
“Mi hai fatto una bella sorpresa” dissi sfiorandogli le labbra quasi per gioco.
“Lo so che a te fanno sempre molto piacere” rispose lui.
“Allora stasera resterai con me?” chiesi con il cuore che mi batteva forte, nella disperata speranza che dicesse di sì. “I miei non tornano per cena”.
“In realtà, pensavo di proporti di andare al cinema”.
“Fantastico!”.
Lo feci accomodare in salotto, completamente svuotato nell’arco di trenta secondi. Nell’altra stanza, il suono sommesso dello stereo di Leonardo era un chiaro messaggio minatorio: mio fratello sapeva quanto Riccardo detestasse Eminem.
“Ancora quel pagliaccio americano?” domandò infatti non appena le sue orecchie captarono i versi del rapper irrompere con violenza da sotto la porta –Leo aveva alzato di colpo il volume non appena aveva percepito la sua voce dall’ingresso−.
“Gli piace, cosa vuoi farci?” lo difesi io facendo le spallucce.
“Mah, porcheria” commentò lui arricciando il naso perfetto.
Io mi sedetti accanto a lui sul divano, mettendogli le mani nelle sue. “Quest’estate andiamo alle Terme di Caracalla?” gli chiesi in tono innocente. “Almeno lì sentirai un po’ di musica che ti piace”.
“Lo spero, se gli esami me lo permettono” rispose Riccardo fissando il vuoto. “Ne dovrò fare almeno tre, più lo stage in Inghilterra”.
“Ma non hai già prenotato?” gli chiesi alzando gli occhi al cielo.
“No, devo vedere. Sai, non si sa ancora niente…”.
“Capito, vorrà dire che ci andrò con Rebecca”.
Quest’ultima era tagliente e lì per lì non seppi neanche il perché di quell’uscita. Io non avevo mai tentato di provocare deliberatamente il mio ragazzo con il solo scopo di innervosirlo. Eppure c’era qualcosa, qualcosa di nuovo che si stava facendo lentamente largo nella mia mente, qualcosa che non avevo calcolato. Un’alternativa a quella vita scontata e trascorsa a lesinare un minimo di affetto da parte del proprio compagno.
“Credo che andrò in bagno” disse improvvisamente Riccardo, smettendo all’istante di accarezzarmi i capelli.
“Va bene”.
Il ragazzo si alzò e si avviò verso il corridoio.
Io mi rannicchiai sul divano, aspettando il suo ritorno, quando, di colpo, il raggelarsi del sangue nelle mie vene mi ricordò all’istante che avevo fatto la più grande stupidaggine del mondo.
Mi precipitai fuori in un battito di ciglia, sbarrando la strada a Riccardo proprio nell’attimo in cui stava per abbassare la maniglia della porta.
“Scusami, amore, ma mi sono scordata di dirti che purtroppo il nostro bagno è completamente inagibile, al momento” dissi tutto d’un fiato.
Riccardo mi fissò a lungo, inarcando le sottili sopracciglia bionde. “Inagibile?” ripeté.
“Sì, inagibile” precisai io con decisione. “Sai, il gabinetto non fa altro che ributtare su robe che lascio alla tua immaginazione e poi il lavandino…”.
“Eppure io ho come l’impressione che tu mi stia nascondendo qualcosa” mi bloccò lui.
“E che cosa dovrei nasconderti, scusa? Uno straniero dagli occhi neri?” buttai lì io, scoppiando in una risatina nervosa. “Come potrei mai? Io amo te e solo te” detto questo, pur di portarlo il più lontano possibile da quella stanza, gli gettai le braccia al collo e lo baciai con enfasi, conducendolo di nuovo verso il salotto. Cademmo sul divano, continuando a stringerci in quell’abbraccio, dimenticando ogni cosa.
“Mi sei mancata” mi sussurrò Riccardo un attimo prima di rituffarsi sulla mia bocca.
“Anche tu” annaspai poco prima di avvertire una fitta dolorosa allo stomaco.
Di colpo, l’intera aura di perfezione che si era instaurata per pochi minuti all’interno della casa si era rovesciata come il retro di uno specchio, rivelando tutta la sua ipocrita fuliggine. Tutto quello era sbagliato, falso. Io e Riccardo ci stavamo prendendo in giro a vicenda. E io mi stavo comportando da cortigiana. Stavo ferendo due ragazzi nello stesso momento.
Mi divincolai dalle sue braccia muscolose, allontanandolo bruscamente da me.
“Che ti prende?” esclamò il mio ragazzo. “Sembri sconvolta”.
“Non mi sento bene” farfugliai io. “Sai, lo studio, lo stress…”.
“Capito. Riposati, allora. Sarò qui per le sette e mezzo”.
“Va bene”.
Lo accompagnai alla porta, non senza mascherare quel mio improvviso disagio.
“Ciao, amore” sussurrò lui, sfiorandomi le labbra in un ultimo bacio.
“Ciao, Riccardo” risposi a voce bassissima, restando immobile nella penombra del pianerottolo.
L’eco dei suoi passi sulle scale svanì in pochi attimi, lasciandomi sola e in silenzio.
Erano trascorsi solo pochi istanti dalla sua partenza, ma a me parevano già ore. Non avevo il coraggio di aprire la porta del bagno e dar loro il via libera. Non avevo il coraggio di affrontare Edmund, anche se sapevo perfettamente che quel momento sarebbe stato inevitabile.
Sussultai nell’avvertire una presenza dietro di me.
“Ah, sei tu” dissi nel notare che era Edmund.
Il ragazzo aveva un’espressione che faceva spavento. Ogni lineamento del volto era perfettamente immobile, mascherando completamente la tensione che gli contraeva la mascella in un ringhio sordo, gli occhi più neri che mai. Sapevo che cosa volesse dire. Avvertivo ogni frammento del suo dolore. Tutto per causa mia.
“Ed, io…”.
“Non c’è niente da dire” mi bloccò lui, superandomi con freddezza. “Evidentemente, non ho più nulla da fare qui”.
“No, dove vai? Aspetta!” lo pregai io, afferrandolo per un braccio.
Edmund mi scrollò via con violenza, fissandomi dritta negli occhi. In quell’istante, ebbi paura.
“Sai, mi ero fatto un’idea sbagliata su di te” disse con amarezza. “Per un attimo, avevo pensato che tu fossi diversa. Ma mi sbagliavo. Tu sei esattamente come tutti gli altri. E io non ho alcuna intenzione di perdere altro tempo con te”.
Detto questo, si voltò lentamente verso le scale e sparì nel buio, lasciandomi sulla soglia, impietrita e schifata da me stessa, incapace persino di piangere, dato che ogni lacrima non sarebbe stata altro che un ipocrita rimpianto.

                                                                                                                                                         
Ehilà!
Ok, lo so, questo capitolo è bruttissimo, ma per fortuna ora è tutto finito e si passerà a una buona dose di azione!
Scappo a mangiare!
A presto!
Ciao!





 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Alla ricerca di Susan ***


 Alla ricerca di Susan
 

And when I’m gone, just carry on, don’t mourn
Rejoice every time you hear the sound of my voice
Just know that I’m looking down on you smiling
And I didn’t feel a thing, So baby don’t feel no pain
Just smile back
Smile back…
 
Sospirai, poggiando il volto al vetro gelido del finestrino e rabbrividendo al contatto, mentre le vetrine schizzate di pioggia di Roma mi scivolavano attorno simili a un sogno, un’eco lontana di quel mondo che credevo di conoscere.
Le parole di Eminem che da quel pomeriggio mi sussurravano nella mente, riportandomi davanti l’espressione ferita e carica di dolore di Edmund, smorzavano in un borbottio ovattato la musica classica sparata a tutto volume nell’abitacolo. Riccardo guidava spedito, un’aria di profonda soddisfazione stampata sul volto perfetto da lord inglese. Io fingevo di dormire, incapace di trovare un argomento di conversazione tra noi che si sarebbe in breve trasformato in un monologo. Era meglio così, ognuno isolato nel proprio mondo. Avevo bisogno di stare da sola, di pensare a una soluzione, non mi importava quanto dolorosa.
Primo: dovevo prendere atto di cosa fosse veramente importante per me.
Secondo: dovevo cercare di ritrovare Edmund, ovunque egli si fosse cacciato.
E terzo: dovevo trovare una soluzione ai picchi creativi del vecchio Lewis.
Socchiusi gli occhi, contemplando i marciapiedi schizzati di pioggia. Chissà dove si trovava Ed in quel momento. Mi venne da rabbrividire nel pensarlo completamente solo, senza un soldo e con addosso solo leggeri abiti estivi, fuori con quel tempaccio. Chissà, forse a Narnia ne aveva viste di peggio, ma di certo Roma non è una città che perdona tanto facilmente chi vi si avventura di notte senza conoscerne i pericoli. E di certo Edmund non sapeva che cosa lo attendeva là fuori. Non potevo lasciarlo così, da solo e indifeso, e tutto per colpa mia. Dovevo ritrovarlo, a qualsiasi costo. In quel momento, pregai che Riccardo si sbrigasse a riportarmi a casa e che sparisse una buona volta per lasciarmi piede libero. Finalmente avevo capito qual era la cosa giusta da fare. Tutto quadrava.
Finsi di crollare dal sonno mentre mi lasciava sulla porta di casa, lasciandomi un leggero bacio che accolsi a labbra strette, poi attesi che i suoi passi svanissero ancora una volta nell’ingresso.
Fu in quel momento che spalancai completamente gli occhi, sveglissima. Restai in ascolto dei rumori della casa per pochi attimi, il respiro lento e regolare dei miei genitori e di Leo nelle camere da letto appena percettibile nel silenzio ovattato dell’enorme appartamento; poi mi voltai e uscii nuovamente, decisa a ritrovare il ragazzo anche a costo di frugare la città da cima a fondo per tutta la notte.
Roma era completamente vuota e silenziosa, solo lo scrosciare della pioggia e il frastuono delle macchine accompagnava i miei passi decisi sui sampietrini. La vecchia Cate era tornata, più determinata, più donna di quella piccola ragazzina che era arrivata a combattere per quel regno che l’aveva rapita diversi anni prima. E ora andava a salvare il suo re nella grande città cattiva. Non male come prospettiva.
Camminai per un tempo infinito, perdendo qualsiasi concezione del tempo e dello spazio, solo il chiodo fisso della mia ricerca mi spingeva ad andare avanti, ancora avanti, pur di ritrovare la persona che amavo. Quello che avrei fatto in seguito era un problema secondario. Avanzavo stretta nei miei abiti, senza temere di essere una donna sola nella metropoli deserta, il bavero della giacca a vento tirata fin sotto gli occhi, l’ombrello che tremava nella mia mano intirizzita, senza demordere, senza esitare. Le parole di Amy erano la mia guida. Ora tutto ciò di cui avevo bisogno era Edmund. Dovevo solo trovarlo.
Dopo ore di vagabondaggio, alla fine mi fermai per qualche minuto in una delle anguste stradine del ghetto, sedendomi sul bordo di una fontana per riprendere un attimo fiato, massaggiandomi le caviglie indolenzite. Una serie di rumori concitati attirò la mia attenzione. Sembravano quasi dei passi affrettati sui sampietrini, come se qualcuno stesse scappando da qualcosa. Scattai in piedi d’istinto, pronta ad affrontare qualunque cosa mi sarei ritrovata davanti da un momento all’altro.
Una ragazza avvolta in un soprabito scuro si bloccò a pochi metri da me. Sembrava sconvolta, i lunghissimi capelli neri fradici incollati alle spalle esili, i grandi occhi di ghiaccio che sembravano implorarmi aiuto. Aveva le calze strappate e il volto pallidissimo rigato di lacrime. Nel vederla in quelle condizioni, raggelai dall’orrore.
“Susan?” la chiamai spaventata.
La ragazza mi scoccò una profonda occhiata, poi due mani robuste le si avventarono contro, storcendole le braccia dietro la schiena e gettandola a terra. Susan urlò e tentò di divincolarsi, ma l’uomo l’aveva inchiodata sui sampietrini, torreggiando su di lei.
“Dove credevi di andare, eh?” sogghignò afferrandola per i capelli e avvicinandole pericolosamente il volto al suo. “Ora ti darò una bella lezione…”.
Le parole gli morirono in gola nello stesso istante in cui gli piantavo la punta d’acciaio dell’ombrello fra le scapole, rovesciandolo a terra con un’abile mossa di scherma e costringendolo a guardarmi dritta negli occhi.
“Ma che diav…”:
“E’ questo il modo di trattare una regina?” tuonai con rabbia. Non riuscivo a credere che qualcuno potesse permettersi di far violenza a Susan.
“Chi sei?”.
“Neanche lo immagini”.
Non pensavo di poter essere così terrificante. Non quando mi resi conto di non essere completamente sola e che qualcuno aveva osservato attentamente tutta la scena accucciato accanto alla fontana, sferzando minacciosamente la lunga coda in aria, pronto a venirmi in aiuto se mai avessi fallito.
“Aslan!” esclamai nel vedere il grande leone.
“Questa è la tua battaglia, Cate” sussurrò lui passandomi accanto.
Io gli sorrisi e mi voltai verso l’uomo.
“Che roba siete?” continuava a ripetere quello, rannicchiandosi sui sampietrini.
“Esseri umani, non ci vedi?” lo canzonai io. “E ora vattene, se non vuoi passare la peggiore notte della tua vita” gli intimai, puntandogli la punta dell’ombrello alla gola. “Adesso”.
L’uomo sbatté le palpebre più volte come inebetito, poi si alzò lentamente, senza distogliere lo sguardo da me e da Aslan, poi si voltò e se la filò a gambe levate lungo il vicolo buio da cui era comparso, portando via con sé la sua nauseante puzza di alcol.
Fu allora che abbassai l’ombrello come se fosse stato una spada e mi accovacciai accanto a Susan. La ragazza tremava come una foglia e non riusciva a smettere di piangere.
“Va tutto bene, ora” la consolai, stringendola forte a me. “Ci sono io, qui con te”.
“Cate?” domandò lei spaventata. “Sei tu?”.
“E chi altro?” scherzai io. “Benvenuta nella Città Eterna!”.
“Ma cosa…che ci faccio qui’”.
“E’ una lunga storia e forse è meglio trovare un angolino sicuro e all’asciutto per parlarne. Ti va?”.
“Sì, ti prego!”.
L’aiutai a rialzarsi, portandola sotto l’ombrello con me e incamminandoci a braccetto nei vicoli del ghetto fino a raggiungere casa mia. Anche la reazione dei miei, al momento, era passata fra i problemi secondari. Quanto a Edmund, sentivo che poteva resistere qualche altra ora. Di certo, lui non rischiava lo stupro, a girare di notte.
 
Trovammo l’appartamento silenzioso e in ordine come lo avevo lasciato. Feci accomodare Susan in camera, le preparai una zuppa con un po’ di pane e formaggio, le prestai dei vestiti puliti e feci di tutto per farla sentire a suo agio, nonostante la brutta avventura. Finché mangiò, la mia amica non parlò moltissimo, al di fuori dei formali “grazie” e “per favore” dovuti alla sua buona educazione da giovane donna inglese di buona famiglia. Mi impressionò il fatto che, nonostante avesse appena tre anni più di me, si mostrasse molto più adulta dei suoi coetanei. Davvero proveniva da tutto un altro mondo.
Dopo essersi tranquillizzata, Susan mi raccontò finalmente di come erano andate le cose. Al momento del passaggio, si trovava in America, a un ricevimento in cui avrebbe dovuto incontrare un giovane ufficiale molto promettente e che più volte le aveva mostrato simpatia. Stava proprio per andare da lui, quando di colpo tutto era svanito e si era ritrovata improvvisamente sola nelle strade di Roma. Per ore aveva camminato senza una meta, spaventata e smarrita, sempre più stanca e affamata, incapace di prendere una decisione sul da farsi, non sapendo a chi chiedere aiuto, fino a quando quell’uomo orribile non l’aveva inseguita nel vicolo buio. Il resto della storia lo conoscevo.
Io le dissi che anche Edmund era arrivato e le raccontai del nostro litigio. Susan si mostrò evidentemente dispiaciuta per l’accaduto e mi promise di aiutarmi a ritrovare il fratello, accennando poi alla probabilità che anche Peter e Lucy potessero trovarsi lì.
Fu allora che compresi che era giunto il momento di dirle la verità. Con la massima calma e scegliendo con cura le parole, le spiegai per filo e per segno come stavano le cose, per quanto assurde fossero. La reazione di Susan fu più che prevedibile. Dapprima impallidì, poi si spaventò e infine ritrovò la calma, prendendo a pensare immediatamente a una soluzione.
“Io ho saputo del vostro destino non appena ritornata a casa” dissi a un certo punto. “E per questo non ho mai toccato quel libro. Ho preferito rinnegare Narnia, proprio come hai fatto tu, piuttosto che sapervi morti”.
Susan mi sorrise e mi sfiorò la mano. “Non siamo ancora morti” mormorò sorridendo. “Sai, anch’io ho rinnegato Narnia per lo stesso motivo”.
Quelle parole mi spiazzarono. “Che cosa?” esclamai esterrefatta.
“Un sogno. Una notte ho sognato esattamente ciò che mi hai detto. Li ho visti morire, Cate. Morire per Aslan”. L’espressione dolce di Susan si era fatta improvvisamente tristissima. “Tutto ciò mi è sembrato così assurdo, così crudele, così folle, che, piuttosto che consegnarli a quel destino, ho rinnegato per sempre Narnia. Mi dispiace− si coprì il volto con le mani – ora so che è stato tutto inutile”.
Io l’abbracciai forte, stringendola a me con tutto l’affetto che provavo nei confronti della mia sorellina. “No, Sue, no” sussurrai, pervasa da una nuova consapevolezza che mi accompagnava dal momento in cui era ricomparso Aslan. “Forse tutto ciò era inevitabile, ma possiamo ancora fermarlo. Io e te. Siamo l’inizio. Ora dobbiamo solo ritrovare gli altri e agire. Possiamo, farlo, Susan. Dobbiamo farlo”.
Susan mi fissò intensamente e annuì. “Sì” disse con decisione. “Del resto, Narnia è un po’ come la nostra seconda casa”.
“No, Susan. Narnia è la nostra casa” precisai io.
Susan si circondò le ginocchia con le braccia e sorrise, come se in preda a un improvviso buffo pensiero.
“Sai che l’ufficiale non è il mio vero amore?” disse a un certo punto.
E quello fu il vero argomento shockante della serata.

                                                                                                                                                          
Salve, Narniani!
Questa sera ho pensato di dedicarmi al personaggio che amo di più dopo Edmund, ovvero la mia sorellina Susan! Spero che abbiate apprezzato la mia resa del personaggio (che, in fondo, capisco molto bene e che credo che a volte sia un tantino sottovalutato anche dallo stesso Lewis). Per lei, ho pensato a un ingresso un po' noir, ma stasera mi girava così. Sarà l'atmosfera decadente degli inizi del '900?
Se vi va di integrare la lettura con un po' di buona musica, io vi consiglio caldamente, oltre che "When I'm gone" di Eminem (se mia sorella lo sa, mi ammazza!), "Away" dei Nightwish e "Lost in space" degli Avantasia.
Buona lettura!
Sunny

 
 
 
 

 

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Capitolo 9
*** Ed ecco che arriva il solito simpaticone a complicare una già ingarbugliata situazione ***


 Ed ecco che arriva il solito simpaticone a complicare una già ingarbugliata situazione 

 

 Devo ammettere che eravamo proprio un’ottima squadra. La mattina seguente, una domenica calda e soleggiata, ideale per i nostri piani, ci radunammo tutti a casa mia, dividendoci in gruppi: Giulia e Massimo, Rebecca e Leo, infine io e Susan. Rebecca era stata praticamente buttata giù dal letto nell’unico giorno in cui poteva permettersi un minimo di riposo, ma alla fine era stata contenta di partecipare alla ricerca, per quanto il suo pragmatico razionalismo fosse stato messo duramente alla prova dal mio racconto. In effetti, senza di lei non saremmo andati molto lontano. Avevamo fatto in modo che ciascun gruppo avesse un elemento esperto in faccende narniane, in modo tale da rendere il riconoscimento più facile. Alle otto eravamo già in azione, ognuno diretto verso la zona della città di sua competenza. Verso le undici, ci raggiunse anche Aldo in sella a Jedi, il quale si concentrò immediatamente sulla zona di Villa Borghese, dove, secondo me, era più probabile che i nostri amici si fossero nascosti. A quanto pareva, Rebecca non aveva esitato a mostrare tutta la sua disarmante efficienza. Ci mancava solo che riportasse tutti e tre i Pevensie che mancavano in un colpo solo!
Io e Susan ci dirigemmo subito verso la nostra area, che copriva via del Corso. Ci avviammo a piedi, tagliando per le strette stradine secondarie e infine immergendoci nel caos della grande via gremita di turisti e gente a caccia dell’ultima griffa.
La mia amica appariva visibilmente disorientata. Io mi limitai a scoccarle profonde occhiate di comprensione, prendendola di tanto in tanto per mano per darle forza. Povera Sue! Del resto, io ormai conoscevo anche fin troppo bene quel lato del suo carattere apparentemente freddo e calcolatore: Susan, in realtà, era una donna fragile ed estremamente sensibile e le bastava semplicemente uscire dagli schemi, ritrovandosi in un ambiente a lei completamente estraneo, per farla sentire a disagio. Lo aveva mostrato attraverso il suo atteggiamento scontroso a Narnia, la prima volta, e anche in quel momento, avanzando a testa bassa, i pugni chiusi e lo sguardo spento, gelato. Era incredibile quanto assomigliasse al fratello minore.
Insieme perlustrammo ogni angolo della grande via, ogni negozio, ogni chiesa, persino i bar, chiedendo ai passanti se avessero visto qualcuno dei tre ragazzi. Per fortuna, Susan portava sempre con sé una foto in bianco e nero di loro quattro, ma la cosa non ci fu di grande aiuto, specie per il fatto che nell’immagine apparissero vestiti come negli anni ’30. Fu più che comprensibile il fastidio che suscitammo in più di una persona, che ci scoccò delle profonde occhiate, convinto che fossimo due pazze.
A un certo punto, stanche ed esauste, crollammo sulla scalinata di una chiesa, Susan con i pugni chiusi e la testa reclinata sulle ginocchia, in preda al più totale scoramento.
“E’ inutile” singhiozzò con rabbia. “Non li troveremo mai dentro questa bolgia. E’ impossibile”.
“Nulla è impossibile” cercai di farle forza, cingendole le spalle con un braccio. “Vedrai che saranno da qualche parte. E, in qualche modo, ci verranno incontro. Proprio come avete fatto te ed Edmund”.
“Ma se non funzionasse? Se si perdessero? Se succedesse loro qualcosa?” la sentii rabbrividire. “Non posso pensarci!”.
“Dobbiamo continuare a cercare!” la esortai io tirandola per un braccio. “Adesso!”.
Susan si strofinò nervosamente il volto pallido e annuì, alzandosi in piedi.
Io le sorrisi raggiante e la seguii a ruota. Dovevamo davvero stare su di morale se volevamo concludere qualcosa di concreto. Per quanto fossimo tentate, quello non era proprio il momento di farci prendere dallo sconforto.
Riprendemmo la nostra ricerca a passo spedito, infilandoci nel primo bar che trovammo e tirando un profondo sospiro prima di dirigerci al bancone e rivolgere al barman l’ennesima domanda, già pronte alla risposta. Ma, questa volta, le cose andarono diversamente.
“Sì, conosco il ragazzo biondo” rispose l’uomo inaspettatamente mentre si rigirava la foto fra le grandi dita tozze. “E’ passato di qui poco fa. L’ho cacciato via perché pretendeva di pagare il caffè con delle sterline, pensa un po’! Questi turisti si inventano di tutto, ormai!” esclamò risentito.
Una scintilla di speranza tornò a farsi viva nei nostri cuori.
“Quanto tempo fa? Dov’è andato?” chiesi io agitatissima.
“Mah, sarà stato un quarto d’ora. Poi non ho visto dove si è cacciato. Mi ricordo solo che stava in compagnia con delle ragazze…”.
“La ringraziamo infinitamente dell’aiuto. Vieni, Susan!” esclamai gettandogli due euro di mancia e trascinando via la mia amica, precipitandoci in strada.
“Deve essere ancora nei dintorni!” disse lei mentre tentava di starmi dietro a fatica.
Io avanzavo spedita, zigzagando decisa tra la calca di turisti, saettando gli occhi da una parte all’altra della strada. “Sì!” le feci eco per tranquillizzarla. “L’abbiamo trovato!” gridai a un certo punto, indicando un capannello di ragazzi accalcato di fronte alla Guess.
Peter era con loro, parlando a ruota libera e ammiccando alle due bionde che erano con lui, mentre i loro amici si limitavano a lanciargli rapide occhiate divertite, senza dargli tanto spazio.
Aggrottai le sopracciglia. A quanto pareva, il Magnifico era visibilmente peggiorato. Mi feci largo a gomitate fra la folla, decisa a distoglierlo da quella combriccola prima che combinasse qualche guaio.
“Peter!” esclamai mentre mi avvicinavo a grandi passi.
Il ragazzo alzò lo sguardo e mi rivolse un enorme sorriso, gli occhi azzurri che brillavano. “Cate!” disse allargando le braccia. “Sapevo che ti avrei incontrata da un momento all’altro!”. E, prima ancora che avessi avuto il tempo di fermarlo, mi aveva stretta in un abbraccio stritola costole, rischiando di soffocarmi, il volto schiacciato contro il suo petto.
“Peter…ahia!” protestai, cercando di divincolarmi. “Pete, devi venire con noi! E’ successa una cosa terribile!”.
“Ma perché proprio ora?” chiese il ragazzo. “A me sembra tutto così fantastico, qui! Aspetta, ti devo presentare delle persone”. Mi mostrò al resto della compagnia. “Ragazzi, questa è Cate, una mia grandissima amica”:
“Ehm, piacere” salutai io, arrossendo mio malgrado.
“Ciao” mi salutarono gli altri, le ragazze senza preoccuparsi di nascondere una vena di gelosia e delusione nella voce.
“Peter!”.
“Susan! Ma allora ci sei anche tu! E’ meraviglioso!” esclamò lui, agguantando anche la sorella.
“No, Peter, ascoltaci, ti prego!” disse lei, guardandolo dritto negli occhi. Ecco che riemergeva la vecchia Susan, sempre pronta a intervenire nei confronti delle leggerezze del fratello.
“Devi venire con noi! Subito!” precisai io con decisione. “E’ importante. Riguarda…” gettai un’occhiata nervosa ai cinque ragazzi che ci attorniavano. Non ero proprio sicura che loro l’avrebbero presa per una cosa seria. Trassi un profondo respiro. “Riguarda tutti noi” cercai di modulare la voce, nella disperata speranza che capisse.
Peter aggrottò le sopracciglia e si fece serio. “Cosa succede, ragazze?” chiese.
“Non riusciamo a trovare Lucy” fu tutto quello che mi venne in mente per non dire “Narnia”.
“Lucy è qui?” domandò il ragazzo, assumendo un’aria preoccupata.
“Sì. Ti prego, devi aiutarci a ritrovarla”.
Le mie parole ottennero l’effetto desiderato.
“Ragazzi, scusate l’inconveniente, ma ora devo proprio andare” disse infatti Peter rivolto alla sua nuova compagnia. “Spero di rincontrarvi, un giorno. Mi sono proprio divertito con voi!”.
“Puoi almeno lasciarci il tuo numero di cellulare? Possiamo aggiungerti su facebook?” lo implorarono le due bionde, scoccandogli occhiate ferite.
“Che roba è?” chiese Peter, fissandole come se fossero diventate matte, mentre io mi affrettavo ad afferrarlo per un braccio e a condurlo lontano da lì, senza lasciargli il tempo di ribattere.
 
“Cosa diavolo ci fa qui Lucy?” chiese Peter dopo qualche minuto. “Edmund!” aggiunse poi con voce dura. “Lo sapevo, a quell’irresponsabile non gli si può mai affidare nulla…”.
Alzai di scatto lo sguardo dal cellulare, giusto il tempo di inviare il messaggio in cui avvisavo gli altri che il biondo era di nuovo con noi. L’ultima battuta se la poteva anche risparmiare.
“Non parlare di Edmund in quel modo” ringhiai. “Anche lui è qui, se proprio vuoi saperlo. Siete stati chiamati tutti e quattro per motivi che ora ti spiegherò”.
“Se lui è qui, ora dov’è?” domandò lui in tono di sfida.
“E’ scappato”.
Scoccai una lunga occhiata a Susan, la quale ricambiò con un rapido cenno del capo. Entrambe sapevamo benissimo di quanto Peter riuscisse a rendersi antipatico nel momento in cui si trattava di sentirsi in competizione con il fratello più piccolo. E di quanto non gli fossi completamente indifferente.
Scappato?” ripeté lui implacabile.
“Abbiamo litigato” mi affrettai a rispondere.
“Litigato? Tu che litighi con mio fratello?”.
“Peter, se improvvisamente sei diventato duro d’orecchie, allora potevi dirmelo subito, così parlavo a voce più alta!” sbottai stizzita.
“Ok, ok” si affrettò a borbottare lui, non senza nascondere il suo improvviso buonumore per quella notizia. “Posso aiutarti?” aggiunse poi, cingendomi le spalle con un braccio.
“A ritrovare Edmund? Volentieri”.
L’improvvisa telefonata di Leo stemperò all’istante una situazione che stava prendendo una piega decisamente troppo imbarazzante.

                                                                                                                                                    
Buon pomeriggio a tutti!
Mi scuso immediatamente se questo capitolo è stato scritto da cani, ma oggi ho proprio i nervi alle stelle a causa dell'esame TERRIBILE che mi attende domani e dei tuoni e fulmini che stanno infuriando in questo momento fuori dalla finestra (per inciso, io ho la FOBIA dei fulmini!).
Per il resto, spero di poter aggionare (decentemente) al più presto!
Un bacio a tutti!
Spero stiate bene!
Ciao!
Sunny

 
 
 

 

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Capitolo 10
*** Bye bye innocence ***


 

Bye bye innocence 

 La situazione era diventata a dir poco esplosiva e ora che eravamo tutti stipati nell’appartamento trasteverino di Massimo sembrava aver raggiunto il suo picco peggiore. Innanzitutto la tensione: erano infatti le sette e mezzo suonate e mancavano ancora due Pevensie all’appello. E poi c’era Peter, che si faceva sempre più insopportabile di minuto in minuto. Cominciavo davvero a credere che il potere potesse dare alla testa in quel modo spaventoso. Il ragazzo era terribilmente logorroico, sempre con il sorriso stampato in faccia, e faceva il simpatico con tutti, come se li conoscesse da una vita e non fosse minimamente preoccupato per la tensione che ci stava facendo impazzire tutti quanti. Inoltre, sembrava non riuscire proprio a evitare i posti in cui stavo io. Ci mancava che mi seguisse persino in bagno! Continuava a richiamare la mia attenzione per la minima stupidaggine, cosa che più di una volta gli costò una risposta poco carina, che parve accantonare dopo mezzo secondo. Era decisamente insopportabile. Anzi, man mano che il tempo passava, diventavo sempre più convinta di odiarlo. Solo Rebecca sembrava sopportarlo per più di cinque minuti, trovando addirittura il modo di dargli chiacchiera. Perlomeno, così facendo gli altri avevano qualche minuto di respiro.
Fu quando verso le otto rientrò anche Aldo che fummo costretti a dichiarare la chiusura delle ricerche per quel giorno. Avevamo setacciato ogni angolo della città, ma i due ragazzi sembravano spariti nel nulla. Non era saggio continuare a cercare di notte, avremmo rischiato di ripetere la terribile esperienza di Susan senza riuscire a ottenere nient’altro. In ogni caso, prima di venire da noi, Aldo aveva fornito un identikit di Edmund e Lucy ai colleghi, nella speranza che qualcuno della ronda notturna riuscisse a trovarli. Quello era tutto ciò che potevamo fare.
Alla fine, distrutti dalla stanchezza e dal caldo, ci congedammo fra baci e abbracci, partendo poi ciascuno per la propria strada.
Susan e Peter rimasero a casa di Massimo (Pete aveva già fatto una doccia e gironzolava per l’appartamento con solo un asciugamano bianco attorno ai fianchi, come se non fosse ospite di sconosciuti), il quale aveva arrangiato alla meglio un letto di fortuna e il divano del salotto, pregando che i suoi genitori non gli facessero la sorpresa di anticipare il ritorno. Il problema sarebbe stato trovare un posto anche agli altri due, sempre se li avessimo trovati. Nel piccolo appartamento, infatti, si stava ormai troppo stretti.
Io e Leo ci incamminammo a piedi per la via di casa, facendo un tratto assieme a Giulia, che aveva tutta l’aria di volermi fare una miriade di domande. E sapevo anche riguardo a chi.
Ovviamente, non mi lasciò altra scelta se non quella di raccontarle tutto. Incredibilmente, il mio racconto sembrò catturare  l’attenzione anche di Leo, che rimase al nostro fianco per tutto il tragitto, fissandomi dal basso all’alto con aria attenta.
“Sai che sei proprio stupida?” mi disse un volta finito. “Solo tu potevi lasciarti scappare un ragazzo del genere!”.
“Oh, eccolo che ricomincia con la tiritera!” esclamai io alzando gli occhi al cielo.
“Sul serio, io preferivo molto di più Edmund a Riccardo!”.
“Guarda che mica l’ho cacciato via! Abbiamo semplicemente litigato. Vedrai che tornerà. Io voglio che torni”.
“Sì, e dopo come farai? Ti terrai due ragazzi?”.
Mi morsi il labbro nervosamente. Leo aveva colpito nel segno, come sempre. Certo che ci avevo pensato a quello che sarebbe successo dopo, rimandando automaticamente quello spinoso problema. Ma sapevo benissimo che avrei dovuto affrontarlo da un momento all’altro.
 
Inutile dire che, non appena messo piede nell’appartamento, trovammo immediatamente un messaggio registrato sulla segreteria telefonica da parte dei nostri genitori, i quali ci annunciavano con dispiacere che si sarebbero dovuti intrattenere fino a tardi per una cena di lavoro organizzata in un antico palazzo con tanto di giardino pensile che si affacciava su piazza di Spagna. Il che significava che io e Leo avremmo avuto la serata libera.
Mio fratello avanzò subito l’opzione pizza, che di solito ci risparmiava ore di squallida attesa davanti alla televisione, cosa approvata all’istante dalla sottoscritta. Del resto, la nostra idea di uscire giorni prima era saltata per via dell’imprevisto tuffo nel Tevere.
Ci facemmo quindi una doccia al volo, mettendoci finalmente addosso degli abiti puliti alla fine di quella lunga giornata, ritornando poi al caos della strada.
La fila chilometrica di fronte alla nostra pizzeria preferita, causa manifestazione al teatro Argentina che aveva attirato nei paraggi più persone del solito, ci fece però rapidamente desistere e puntare al Mc Donald.
Cenammo rapidamente con un panino ripieno di roba sulla cui natura preferii non indagare e con un generoso pacchetto di patatine fritte che sparì nell’arco di cinque minuti. Una cena veloce, troppo veloce.
“E ora che facciamo?” domandò Leo leccandosi le dita sporche di maionese e non so quale altra schifezza, incapace di andarsi a rintanare in casa quando era ancora giorno e la città brulicava di vita.
“Ti va di fare due passi? Ci prendiamo un gelato strada facendo” proposi io.
“D’accordo!”.
Ci affrettammo così ad abbandonare quel posto angusto che puzzava di fritto e ci immettemmo di nuovo per le strade romane avvolte dall’accesa luce del crepuscolo.
Con Leo mi trovavo bene e in quegli ultimi giorni sentivo che il nostro rapporto era diventato più forte che mai. Io e lui, diversi, dimenticati dalla massa, eravamo uniti in maniera indissolubile nella nostra reciproca diversità.
Ben presto, la luce del sole venne rimpiazzata dal caotico bagliore dei lampioni e dei fari delle macchine, consegnando la città al fascino misterioso e pericolosamente attraente del velo della notte. L’aria si fece più fredda, i calori incandescenti. I locali si riempirono del vociare confusionario dei ragazzi che si ritrovavano insieme, la musica house si udiva prepotente fino in strada.
Io e Leo ci prendemmo un gelato verso via del Corso e ritornammo indietro, affrettandoci a raggiungere la nostra casa, quando di colpo qualcosa attirò la nostra attenzione.
Un gruppetto di ragazze tutte agghindate per la serata stava seduto vicino alla Barcaccia, circondando una di loro, la quale sembrava molto intimidita dalla loro presenza.
“E dai, bella!” stava dicendo la più grande, una specie di balenottera infiocchettata dai capelli biondo tinto, che sembrava essere la femmina dominante. “Se ti piace, ci provi, punto e basta. Mica c’è tanto da girarci attorno!”.
“Ma la questione è un’altra: io non voglio” disse la voce della ragazza sui quindici anni al centro, i suoi lunghi capelli castano ramato emergevano tra la selva di minigonne variopinte.
“Ma allora sei proprio una cretina, scusami, eh!” disse una ragazza in tono petulante. “Dai, vieni, che ti frega!” aggiunse, afferrandola per un braccio e costringendola ad alzarsi in piedi.
Sia io che Leo trattenemmo il fiato nello stesso istante.
Leo perché aveva riconosciuto nella ragazza Marika Pascucci, io perché avevo rivisto nel volto spaventato e confuso della ragazza dai capelli castani la bambina innocente che tanti anni prima avevo salvato  dalle acque impazzite del torrente ghiacciato.
“Lucy!” esclamai mentre le sue aguzzine la trascinavano in un locale stracolmo di ragazzotti e altre tipe malvestite come loro.
“Cosa?”.
“Dobbiamo portarla via di lì! Vieni, Leo!”.
Il ragazzo esitò. Non davanti a quella che gli piaceva, giammai.
“LEO!”.
Ora le parti si erano invertite. Toccava a me adesso riportare mio fratello con i piedi per terra.
Il ragazzo trasalì violentemente, come se avesse preso la scossa, borbottando qualcosa e seguendomi a grandi passi.
Il frastuono della musica house sparata a tutto volume e i lampi delle luci verdastre ci disorientavano. Ci facemmo largo a gomitate nella calca di gente stipata in quell’angusto locale, cercando disperatamente di ritrovare Lucy. Dovevamo assolutamente strapparla dalle mancacce di quel branco di prostitute d’alto bordo prima che l’avessero cacciata in qualche guaio. Ritrovammo Marika, che stava appollaiata sulle ginocchia di un ragazzotto che avrà avuto almeno cinque anni più di lei, il quale le stava mettendo le mani praticamente dappertutto. Leo soffocò a malapena un singhiozzo di rabbia, celandosi d’istinto il lungo viso ovale con la mano e cambiando bruscamente direzione. Io lo seguii a fatica, mettendogli una mano sulla spalla in segno di conforto, ma il ragazzo si divincolò con rabbia, finendo per seminarmi. Quello era davvero troppo per lui.
“Leo!” lo chiamai a gola spiegata, ma le mie parole furono spazzate via dalla musica.
I want your love, I want your money, I want your sex.
Cercai di farmi largo fra la massa appiccicosa che mi schiacciava da tutti i lati, cercando di ritrovare il mio fratellino, quando i miei occhi incontrarono quelli di Lucy. Era sulla pista e stava ballando insieme ad altri ragazzi, completamente inebriata dalle note altissime di quella musica alienante.
I want your love, I want your money, I want your sex.
“Lucy!” la chiamai, sbracciandomi furiosamente. “Lucy! LUCY!”.
Ma la ragazza non mi sentiva. Non era più la bambina di un tempo. Il suo corpo paffutello era mutato nelle forme armoniose e delicate di un’adolescente bellissima, una bellezza che non tutti avrebbero saputo percepire, così delicata e misteriosa come un fiore in boccio, che sa essere carico di fascino e magia senza mostrare ancora tutto il rigoglio dei suoi petali completamente dischiusi. Ora lei era avvolta in quello stretto vestitino viola che probabilmente le era stato cacciato a forza da quelle misere arpie, il viso pallido e lentigginoso truccato pesantemente, senza grazia né gusto, una maschera di occhi cerchiati di nero e labbra di un rosso che appariva quasi blu alla luce dei neon. Uno zombie.
I want your love, I want your money, I want your sex.
Un ragazzo sui vent’anni le stava a fianco, le teneva i fianchi con le mani. Era alto, abbronzato, gli occhiali da sole e il cappello nonostante fossero al chiuso, gli abiti firmati e la camicia aperta sul petto. Lucy lo guardava con ammirazione, sorridendogli, le braccia strette al collo di lui, sempre più vicina, trascinata da quella vita che non era la sua.
I want your love, I want your money, I want your sex.
L’immagine fu spazzata via dalla calca che mi trascinò lontana, contro il muro. Tutto spariva e ricompariva a velocità spaventosa, ogni attimo tutto ciò che avevo davanti svaniva per essere brutalmente rimpiazzato da un altro flash di gente delirante che danzava, beveva, si toccava, il tutto giostrato dal semplice lampeggiare dei neon. Solo la musica restava, sempre uguale, senza mutare il suo ritmo spietato, implacabile, come un orologio che scandisce un tempo infinito in cui le nostre vite sembravano essersi congelate, incapaci di uscire da quella spirale da incubo.
I want your love, I want your money, I want your sex.
Mi feci Avanti con rabbia, quella furia cieca che sembrava tenerci tutti in pugno, cercando di ritrovare quella che per me era diventata una perfetta sconosciuta, quando i miei occhi incontrarono il suo profilo alto, perfetto, i capelli biondi pettinati all’indietro, gli abiti più eleganti che aveva, il suo fare dolce e sicuro di sé. Riccardo! Un momento, che diavolo ci faceva lì, quando aveva detto che doveva studiare?
I want your love, I want your money, I want your sex.
Attorno a lui, un gruppo di ragazze che ridevano e si davano il gomito, una di loro che gli ancheggiava attorno.
I want your love, I want your money, I want your sex.
Lei gli prese la mano fra le sue, perfette, ingioiellate, il corpo magro al di fuori del seno prominente, delle anche appena coperte dal tubino, una top model, nonché la prima della classe.
Sex, sex, sex.
Lui le circondò la vita con un braccio, la trasse a sé, il sorriso di chi si trova nel momento più bello della sua vita.
Sex, sex sex.
Il gelo, il panico. Non vidi più nulla. Caddi, venni spazzata via, poi la vidi di nuovo. Piangeva.
“Lucy!”.
Sex, sex, sex.
Mi fiondai dietro di lei, senza preoccuparmi di usare le mani pur di non perderla di nuovo, sapevo che qualcosa stava andando storto, ognuno di noi aveva qualcosa che stava andando storto quella sera.
La strada apparve per me un luogo sicuro, lontano dall’inferno. Mi lasciai tutto alle spalle e la seguii sui sampietrini, su per la scalinata di Villa Borghese, fino al Pincio, dove la vidi stramazzare a terra esausta, la schiena contro una colonna caduta, il volto nascosto contro le ginocchia nude, le spalle scosse da leggeri singulti.
“Lucy!” esclami, gettandomi sulla ghiaia accanto a lei.
La ragazza trasalì, spalancando i suoi enormi occhi blu chiazzati di nero, il trucco le era colato ormai fin quasi al mento. Era spaventatissima.
“Lucy, sono io! Cate!”.
“Cate?”.
Il suo corpo fu percorso da un fremito, un attimo prima di gettarmi le braccia al collo.
“Cate!” singhiozzò, abbracciandomi forte. “Ho pregato tanto che tu arrivassi, che mi trovassi, che venissi con noi come l’altra volta!”.
“Non piangere, Lu. Ora va tutto bene, siamo insieme. Non può accaderti nulla, finché sei con me”.
“Ho avuto tanta paura! Non dovevo dare retta a quei ragazzi! Hanno tentato di farmi del male!”.
“Sei al sicuro, ora”.
Era di nuovo lì, la mia sorellina, la mia Lucy. Fu in quel momento che compresi quanto fossi stata stupida. E quanto da quel nostro dolore, da quelle lacrime che stavano scorrendo anche sul mio viso, avessi capito i miei sbagli e, da lì, quale via avrei scelto per tirarmi fuori.
“Finalmente vi ho trovate!” ansimò una voce alle nostre spalle.
Leo era arrivato proprio in quel momento, trafelato. Anche lui sembrava sconvolto quanto noi.
“Leo, questa è Lucy!” li presentai. “Lucy, questo è mio fratello, Leo!”.
“Piacere” disse lei tendendo la mano tremante verso di lui.
Nell’incrociare il suo sguardo, il ragazzo fece una strana espressione, che cancellò però con la rapidità con cui aveva attraversato il viso.
Si strinsero la mano e niente più.
“Ti è andata bene” disse mio fratello con voce ferma. Qualcosa nel suo tono era cambiato. Era più saggio, più consapevole, più adulto. “Non c’è da fidarsi di quelli là. Io li conosco bene, sai? Vengono a scuola con me”:
Lucy annuì rapidamente.
“Stai bene?” continuò lui.
“Sì” balbettò lei senza staccare gli occhi da lui.
“Anche i tuoi fratelli sono qui!” aggiunsi io mettendole una mano sulla spalla. “Sono a casa di un nostro amico!”.
Lucy sgranò gli occhi per la sorpresa. “Davvero?” esclamò. “Tutti?”.
Una leggera fitta mi colpi il cuore mentre stavo per rispondere. “Manca Edmund” fu tutto quello che riuscii a dire. “Ma lo troveremo, vedrai”:
“Dobbiamo andare da Massi” propose Leo, aiutandola ad alzarsi.
“Sì” feci eco io, quando il mio sguardo si bloccò all’istante.
Laggiù, nell’oscurità, fra gli alberi che crescevano a pochi metri da noi, mi era sembrato di scorgere qualcosa. Qualcosa di grosso, che mi fissava pazientemente con i suoi profondi occhi d’ambra, quasi mi stesse aspettando. A quanto pareva, c’era ancora qualcosa che dovevo fare quella sera.
“Voi andate da Massimo” dissi mentre mi alzavo lentamente.
“Tu non vieni?” domandò Leo.
“No” risposi. “C’è una cosa che devo fare. Fidati di me”.
Il ragazzo annuì piano. “Stai attenta, sorella” mormorò.
“Abbi cura di lei, fratello” lo ammonii mentre scomparivo fra gli alberi.
Pochi metri più avanti, Aslan prese a incamminarsi nell’oscurità.

                                                                                                                                                  
E sono ancora qua, eeeeeh già!!!
Spero che questo capitolo, anche se si è fatto un po' attendere, vi sia piaciuto.
Spero che non vi siate troppo scandalizzati nel vedere Lucy inserita in un contesto simile. Volevo parlare anche un po' di attualità, in questo modo.
Cominciate a capire qualcosa?
Per le fan di Edmund: nel prossimo capitolo ritornerà QUALCUNO che sicuramente vi starà mancando da morire (anche a me, devo dire!).
A presto!
Vi voglio tanto bene!
Sunny



 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 11
*** Coraggio ***


Coraggio


 Nel buio, i miei pensieri tornarono a perseguitarmi, facendo emergere il dolore che fino a quel momento era rimasto raggomitolato nel mio petto, aspettando l’attimo  propizio per esplodere, quello in cui non avrei avuto gente intorno a cui mostrarlo, mischiando il sale delle lacrime alla vergogna del tradimento. Riccardo mi tradiva. Riccardo non mi amava. Io ero solo una scusa, un porto sicuro per il suo carattere debole. Io ero forte, lui una nullità. Avevo ancora davanti agli occhi il giorno in cui ci eravamo conosciuti. Il primo pensiero che mi era balzato alla mente nel momento in cui l’avevo visto arrivare era stato una sorta di materna tenerezza per quel ragazzo apparentemente timido e taciturno. Un cucciolo alla ricerca di protezione. E io l’avevo accolto fra le mie braccia, gli avevo dato tutta la forza e le certezze che un ragazzo come lui poteva desiderare, senza lasciarlo mai solo, aiutandolo ad affrontare quella vita di cui aveva paura, anche se non osava ammetterlo. E ora mi rendevo perfettamente conto di quanto tutto ciò non fosse stato altro che un’orribile maschera che mi aveva celato fino a quel momento ciò che era in realtà. I miei sentimenti svanivano come fumo, mentre il dolore si faceva largo a pugnalate nel mio petto. Le prime lacrime mi fuoriuscirono dagli occhi, cadendo dense e silenziose lungo gli zigomi. Avevo sbagliato, avevo sbagliato tutto in quegli anni, e ora stavo pagando il prezzo della mia stupidità. Mi tirai con rabbia le ciocche di capelli scuri che mi ricadevano sulle spalle, volevo strapparmeli via con tutta la carne, provare dolore, ancora dolore, scagliare tutta la mia rabbia su di me, per non mettere le mani addosso a colui che mi aveva provocato così tanta sofferenza. Mi odiavo, mio odiavo e basta, perché avevo fallito, non ero all’altezza del mio compito, mi sentivo brutta, sciocca, inutile. Volevo morire.
“Cate”.
La voce di Aslan mi fece alzare lo sguardo arrossato dal pianto. Cercai il grande leone con lo sguardo, sondando i tronchi umidi degli alberi nel buio, ma lui era sparito. Ancora una volta.
Ecco, ora lo sconforto. Crollai su una panchina, abbracciandomi le ginocchia e facendovi sparire dentro la testa, desiderando scomparire. Ma il mio corpo continuava a restare lì, imperterrito, come se avesse ancora qualcosa da fare.
“CATE!”.
Sussultai come se avessi preso la scossa. La voce sembrava più vicina che mai. Eppure ero ancora sola. Mi alzai lentamente, ciondolando lungo il grande vialone avvolto dalle tenebre. Sapevo perfettamente che se c’era una cosa stupida che avessi potuto fare in quel momento, era proprio quella di passeggiare tutta sola per Villa Borghese nel cuore della notte. Mi strinsi negli abiti e affrettai il passo, trasalendo al minimo fruscio. Avevo ben chiaro quello che avevano rischiato Susan e Lucy poche ore prima e in quel momento avevo tutti i requisiti per seguire le loro orme.
Lo zampillare di una fontana attirò la mia attenzione. Dovevo essere arrivata dalle parti del Globe Theatre. In lontananza, si udiva il rumore di una festa. Era la voce dell’estate romana che bussava alla porta. Mi fermai a contemplare il getto illuminato dalle lampade, ogni singola gocciolina d’acqua che bagnava le teste marmoree degli ippocampi sembrava oro incandescente. Gli occhi mi caddero sulla vasca, discendendo nell’acqua, fino a catturare con lo sguardo la lama di una lunga spada. Trasalii per la sorpresa, riconoscendo al volo l’impugnatura: la testa di un leone. Con il cuore che batteva forte, tuffai la mano nell’acqua gelida e la estrassi con un sol gesto, impugnandola agilmente, come se dall’ultima volta non fosse passato che un attimo. Un brivido mi percorse la schiena, spazzando via tutta la rabbia e il dolore che mi offuscavano la mente, lasciando spazio a un nuovo sentimento, un coraggio infinito che mi spingeva ad andare avanti, a ritrovare il mio cammino e a difenderlo, proteggendo ciò che amavo, che sapevo di amare, che era davvero importante per me. Sentivo che c’era una battaglia in atto. Avvertivo il suo odore acre, l’adrenalina che si inerpicava ancora una volta su per i miei sensi.
Qualcosa si stava levando fra i cespugli. Una sorta di nebbiolina densa, bluastra, che avanzava sinistra fra gli alberi, ammantando tutto attorno a lei, riversandosi sinistra lungo il vialone costeggiato dai pini. Un senso di nausea m’invase, mentre i peli delle braccia mi si rizzavano per il ribrezzo. Male. Male puro. Poi un gemito di dolore ruppe il silenzio.
 
Corsi fra gli alberi, facendomi investire dalla nebbia, la spada in pugno. Ogni mio singolo respiro ingurgitava lame ghiacciate. Di colpo, mi venne da vomitare. Sentivo che era lì, nella penombra, pronta ad attaccare. La lama vibrò violentemente tra le mie mani, accendendosi di un azzurro tenue. Un inaspettato calore mi si inerpicò su per i polpastrelli. Sapevo che quella era magia, una forza misteriosa che non potevo comprendere e che mi stava facendo forza. Strinsi i denti e andai avanti, fino a quando non incontrai il suo sguardo perso nel vuoto.
Edmund stava ritto in piedi sotto un albero, gli occhi sgranati e il colorito cadaverico sotto quella luce spettrale. I muscoli erano tesi come se fosse in allerta, ma il suo intero corpo sembrava congelato, incapace di reagire. Accanto a lui, una colonna di fumo argenteo si dipanava sinistra dal suolo, articolandosi in strane forme, che ricordavano vagamente quelle di una figura umana. Con un brivido di orrore, mi resi conto che il fumo era in realtà una donna gigantesca dalla bellezza statuaria, la sua voce che rimbombava nell’oscurità.
“Vieni con me, Edmund” diceva in tono suadente. “Capisci che non puoi farcela da solo? Ora anche la tua donna ti ha tradito, sei solo come un cane, senza che nessuno ti dia l’importanza che ti meriti. E’ questo che vuoi, sciocco ragazzo?”.
“NON ASCOLTARLA, ED!” tuonai con rabbia, mettendomi in guardia. “IO TI AMO!”.
Il ragazzo sussultò, sbattendo le palpebre violentemente e posando lo sguardo su di me.
“Cate?” chiese confuso.
Io gli sorrisi, mentre un calore immenso mi invadeva le membra intorpidite. “Mi sa che siamo fatti della stessa pasta, io e te” dissi. “Dobbiamo farci male per forza, prima di comprendere quanto valiamo in realtà”.
“Non ascoltarla, sta mentendo!” esclamò la Strega Bianca accarezzandogli la guancia con le sue dita di fumo.
Quello fu veramente troppo.
“Eh, no, cara mia!” gridai partendo all’attacco.
Con un fendente bello secco, le troncai il braccio di netto.
Jadis lanciò un grido raccapricciante e svanì in un vortice di nebbia. Poi, il silenzio.
Abbassai lo sguardo su Edmund, il quale appariva sconvolto, come se si fosse appena risvegliato da un brutto incubo.
“Stai bene?” gli chiesi senza starci a pensare troppo.
“Sì” balbettò lui aggrottando le folte sopracciglia nere.
“Scusami” gli buttai lì con decisione. “Anch’io sono una traditrice. Ma ora sono tornata indietro”.
“Cate, io…”.
“Non preoccuparti. Ora so quello che voglio”.
Detto questo, senza starci a pensare oltre, mi avvicinai a lui a grandi passi e lo baciai. 

                                                                                                                                  

Qualcosa mi dice che siete soddisfatti di questo breve, ma intenso capitolo!
Bene, non mi dilungherò molto.
Volevo solo approfittarne per riflettere su una cosa molto grave che è accaduta negli ultimi mesi e che, specie in un ambiente come questo, rischia di riproporsi.
Assistere alla perdita di un'amica perché si sentiva OFFUSCATA da me non è un bel modo per abbandonare una persona. Tutti abbiamo i nostri ritmi e anche a livello artistico c'è chi matura prima e chi invece necessita di un po' più di tempo, ma tutti, alla fine, giungiamo a dei risultati. L'importante è il continuo confronto, al fine di stimolare la propria creatività. Se so scrivere, non significa che sia nata già letterata.
Non sto a fare moralisimi su cosa è giusto e cosa è sbagliato, non mi pare nè giusto nè appropriato.
Volevo solo dire che mi sento molto triste per ciò che è accaduto.
Davvero.
Sunny

 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Punto di svolta ***


Punto di svolta

Fu come risvegliarmi da un lungo sonno, un sonno che mi aveva nascosto per tanto tempo la realtà e che ora l’aveva riportata nuovamente davanti ai miei occhi. Ero di nuovo accanto a lui, quei profondi occhi neri e il lungo naso spruzzato di lentiggini a pochi centimetri dal mio. Anche Edmund sembrava visibilmente sconvolto, ancora incapace di realizzare tutti quegli eventi che ci erano piombati addosso troppo in fretta, nonché la voragine di tempo che ci aveva separati così a lungo. Quel bacio non era più una timida carezza scambiata da due ragazzini alle prese con il primo amore, ma il gesto consapevole di due adulti pienamente consapevoli dei propri sentimenti.
 

“Perché l’hai fatto?” chiese il ragazzo senza smettere di fissarmi.
“Non lo so” risposi io seria in volto. “Per un attimo, ho dato retta al maledetto rigor di logica”.
Edmund si abbracciò le ginocchia con le braccia. “Capisco” sussurrò. “Del resto, era così assurdo che io e te ci saremmo incontrati ancora…Però io non ho mai smesso di amarti, credimi”.
Io sussultai. Veniva davvero da un altro mondo. Una ragazza della mia epoca non sarebbe mai stata a mantenere un amore perduto per sempre. Non con tutta una vita davanti.
Mi avvicinai a lui, sfiorandogli la mano. Lui la ritrasse violentemente.
“No,” disse con voce dura “non posso. Non ora che appartieni a un altro”.
Inaspettatamente, scoppiai a ridere. “Io non sono mai stata di quello là!” esclamai decisa. “Lui non mi ha mai amata, come non mi amerà mai. Diciamo che gli facevo comodo mentre se la spassava con altre decisamente molto meno convenzionali di me!”.
“Cosa?” esclamò Edmund profondamente scandalizzato.
“Esatto. Pare che nella mia epoca, tradire la ragazza sia di moda”.
“Ma è una cosa da barbari!”.
“Lo so”.
Il ragazzo si morse il labbro, come se volesse dirmi qualcosa senza riuscire a trovare le parole giuste per esprimerla o come se temesse una mia risposta negativa.
Ma io fui più veloce, ormai sapevo bene come era fatto. “Ed, io ti amo come ti amavo quando ci siamo incontrati e nulla, dico nulla, sarà più in grado di farmi cambiare idea, non ora che ci siamo ritrovati”.
“Dici davvero?” chiese lui trasalendo.
”.
Questa volta, nulla impedì alle nostre labbra di incontrarsi di nuovo. Fu lui a baciarmi, senza indugio, senza paura, entrambi consapevoli che questa volta sarebbe stato per sempre. Poi, crollai fra le sue braccia, stringendolo forte a me. Personaggio o meno di uno dei romanzi più strampalati della storia, in quel momento era lì con me e questo era l’importante.
 
Roma era ritornata nel silenzio, dopo che i locali si erano svuotati e le luci delle finestre erano lentamente scomparse dietro le tende tirate. Solo io ed Edmund camminavamo fianco a fianco sui sampietrini ancora intrisi dell’afa del giorno, senza parlare, solo le nostre mani si sfioravano appena, le dita della mia sinistra strette attorno all’elsa della spada che avevo trovato nella fontana. Stavamo andando a casa di Massimo, dove ci saremmo finalmente riuniti tutti per decidere insieme sul da farsi, dato che, a quanto pareva, avevamo i minuti contati prima che accadesse il peggio.
“Davvero Narnia verrà distrutta?” chiese a un certo punto il ragazzo, rompendo il silenzio.
“A quanto pare sì” risposi io senza smettere di camminare.
“Hai qualche idea su come possiamo fermare Jadis?”.
“No”.
“Fantastico”.
Raggiungemmo il Lungotevere e prendemmo a costeggiare gli argini, le macchine che ci fiancheggiavano a tutta velocità simili a demoni d’acciaio. Una in particolare attirò la mia attenzione, provocandomi un doloroso tuffo al cuore. Sportiva, grigio metallizzato, l’auto si accostò rombando al marciapiede pochi metri davanti a noi, la musica house sparata a tutto volume. Le portiere si aprirono. Riccardo e la bionda di prima scesero dalla macchina e si fermarono l’uno dinanzi all’altra, scambiandosi un bacio appassionato senza alcun riguardo, lì in mezzo alla strada, poi la sua danarosa femme fatale si voltò girando sui suoi vertiginosi tacchi a spillo che la rendevano più alta di una buona ventina di centimetri e si allontanò ancheggiando.
Lì non ci vidi più.
“TU!” esclamai con voce ferma.
Riccardo si voltò, un’innocente aria da bravo ragazzo stampata sul viso d’angelo. Colto sul fatto. “Caterina” scandì visibilmente imbarazzato. “Cosa ci fai qui?”.
“No, cosa ci fai tu qui! Non avevi un esame, domani?” chiesi in tono perfido.
“Io…veramente, sai, la mia amica…”.
“Zitto, non inventare altre scuse. Ho capito benissimo da sola”.
Riccardo diventò paonazzo come una prugna matura. “No, invece, non hai capito niente! Se solo mi facessi spiegare…”.
“Non sapevo che le amiche si baciassero così appassionatamente! E’ forse un modo per esprimere affetto da parte di voi economisti?” continuai trionfante.
“E’ lo stesso che mi chiedo di te, signorinella!” si difese prontamente lui additando Edmund. “Fai presto a parlare te, che giri mano nella mano nel cuore della notte con un tizio che non è il tuo ragazzo!”.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Edmund mollò d’istinto la mia mano, andando dritto dritto di fronte a Riccardo, guardandolo dritto negli occhi. Nonostante fosse più basso di lui di almeno venti centimetri, il suo sguardo furibondo parve intimidire immediatamente il ragazzo. “Vorrei farle notare” disse con rabbia “che io non avrei toccato Cate neanche con un dito, non prima di sapere che l’avevate tradita in questo modo vergognoso con una prostituta che non vale neanche un decimo di lei!”.
“Ma chi diavolo sei per parlarmi in questo modo, ragazzino?” chiese Riccardo lanciandogli un’occhiata sprezzante. “E come ti permetti di girare in questo modo con quella puttana della mia ragazza?”.
Quasi non fece in tempo a finire la frase. Il pugno che Edmund gli scagliò in piena faccia gli tolse il fiato, gettandolo a terra, le mani premute sul naso che aveva preso a sanguinare copiosamente.
“Tu non sia chi sono io” disse Edmund afferrandolo per il bavero. “Né ho voglia di stare a perdere tempo con un omuncolo come te. Perciò ritieniti fortunato” detto questo, lo lasciò andare malamente sul marciapiede, intimandomi di seguirlo e procedendo al disotto dei platani illuminati dai lampioni.
“Penso che tu abbia ben capito che da oggi non stiamo più insieme” dissi chinandomi un’ultima volta su Riccardo. “Addio”.
E mi lanciai dietro a Edmund, tornando a stringergli la mano nella notte più bella della mia vita.
 
                                                                                                                                            
Eccomi qua, dopo un lungo periodo di assenza!
Spero che questo capitolo non sia stato troppo sdolcinato. In ogni caso, devo dire che mi sono proprio divertita a stenderlo!
Spero di poter continuare presto, che qui sto scrivendo un romanzo che mi sta portando via molto tempo!
Ringrazio di cuore chiunque leggerà e recensirà questa fiction!
Un bacione a tutti!
Sunny
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** Il Maestro ***


Il Maestro
 


Nonostante fosse solo maggio, il caldo si era fatto a dir poco insopportabile. Per fortuna, nei vicoletti vicino al Lungotevere si poteva godere ancora di un certo refrigerio. Eravamo tutti lì, io in testa al gruppo e gli altri al mio seguito, avvertivo tutti i loro occhi puntati sulla mia schiena in attesa che dicessi qualcosa, qualunque cosa, che avrebbe potuto tranquillizzarli, fornire una pista certa. Ma l’unica cosa che sapevo in quel momento era ciò che avevo sognato la notte precedente. L’immagine era ancora vivida nella mia testa, come se l’avessi vissuta per davvero. Amy che camminava sui sampietrini di quell’angusta via avvolta nella semioscurità, della quale riuscivo a distinguere solamente le facciate cadenti di antiche dimore. L’istinto mi aveva improvvisamente ricordato che quella era la strada che percorrevo tutte le mattine per andare a scuola e che di lì a poco mi sarei ritrovata davanti al mio vecchio liceo. Sulle prime pensai che la strega volesse condurmi proprio lì, ma poi tutto era svanito e mi ero ritrovata a contemplare il soffitto del salotto di Massi. Non sapevo come, ma in qualche modo ero certa che quel sogno volesse dire qualcosa, una pista, un messaggio. Ero pronta a scommettere qualsiasi cosa che Amy fosse in grado di ricorrere alla mia immaginazione per inviarmi un messaggio. E che io l’avrei ascoltata. Non ci restava dunque che metterci in marcia, dal momento che era l’unica pista che potevamo seguire, per quanto incerta. Di certo, la riunione della notte precedente non era servita a molto, anzi, a essere sincera, avremmo fatto meglio a risparmiarci tutta quella baraonda e andarcene dritti a letto invece che cospargere il pavimento della stanza di briciole per via dei tramezzini che continuavano inesorabilmente a uscire dalla dispensa e della fame nervosa di Edmund. Per non parlare di Peter, che non riusciva a stare zitto un attimo e continuava a ciarlare del più e del meno lanciando continue occhiate ammiccanti nella mia direzione, come se in quel momento la sua vita non fosse in pericolo come quella dei fratelli. Lucy si era addormentata sulla spalla di mio fratello dopo una decina di minuti, il quale aveva fatto un balzo talmente brusco per scrollarsela di dosso che le aveva fatto sbattere con violenza la testa sul bracciolo della poltrona. Solo Giulia, ignorando i continui brontolii di Massimo, sembrava disposta a darmi una mano, ma alla fine le nostre congetture risultavano sempre troppo assurde per essere messe in pratica. Innanzitutto ci serviva Lewis. Impossibile, dal momento che era morto qualche decennio prima. Giulia aveva proposto di tentare qualche strampalata seduta spiritica per riportarlo indietro, ma la proposta venne fortunatamente declinata all’unanimità. Non ci era restato che dormirci sopra, accampandoci alla meglio nel piccolo appartamento trasteverino. Io mi sistemai sul divano, dividendolo con Susan, mentre Edmund si accomodò sul tappeto sotto di me, accontentandosi di stringermi la mano. E poi era arrivato il sogno.

Sbattei gli occhi con violenza, cercando disperatamente di concentrarmi nonostante avessi la voce di Giulia che ronzava a pochi passi da me. Edmund mi venne accanto, prendendomi delicatamente la mano. Quel piccolo gesto bastò a farmi forza.
“Sto bene” dissi piano.
Eravamo giunti a via Giulia, la nostra meta. Susan continuava a illustrare a Lucy i vari palazzi signorili che ci affiancavano da ogni lato, delizia di qualsiasi storico dell’arte. In altre occasioni, non avrei di certo esitato a mettermi anch’io nei panni del cicerone, ma in quel momento avevo tutt’altri pensieri per la testa. Scrutavo ogni angolo della strada, cercando disperatamente con lo sguardo gli occhi violetti di Amy nei volti della gente che ci passava accanto, senza scorgerlo. Il panico stava lentamente prendendo il posto della razionalità.
“Ehi, quanto ci avete messo!” trillò a quel punto una voce familiare alle nostre spalle.
Ci voltammo tutti di scatto.
Amy era appoggiata al fianco di pietra di un grande leone, ai piedi dell’imponente scala di marmo che portava al piano superiore di un antico palazzo rinascimentale.
“Amy!” esclamai correndole incontro. “Scusaci, ci stavi aspettando?”.
“Più o meno. Per fortuna, il mio messaggio è arrivato come desideravo” rispose la strega con disinvoltura.
“Dovevamo fare colazione!” intervenne Giulia con un sorriso largo da orecchio a orecchio, che si offuscò subito nel notare le nostre occhiatacce alla “questa te la potevi anche risparmiare”.
“Perché ci hai chiamati?” chiesi. “E’ successo qualcosa?”.
“Tu hai desiderato incontrare il mio Maestro” rispose Amy. “Ebbene, ora il Maestro è qui” fece il gesto di farci salire di sopra.
Ci scambiammo tutti una rapida occhiata interrogativa, poi dissi: “Facci strada”.
 
L’interno del palazzo era buio e polveroso. Era desolante pensare quanto l’incuria e l’abbandono avessero infine distrutto la magnifica bellezza che un tempo doveva possedere quell’antica dimora. La tappezzeria in cuoio cadeva a brandelli, alcune sedie erano rovesciate e le ragnatele avevano preso il possesso di ogni superficie disponibile. Susan sobbalzò al mio fianco nel sentire uno zampettare convulso esplodere improvvisamente da dietro una tenda.
“Oh, mio Dio!” esclamò con la voce che tremava. “Non è che ci sono topi, qui?”.
“Topi grandi come gatti, eccome!” rispose Amy senza battere ciglio. “Ma non temere, non ci faranno del male”.
“Sì, ma a me fanno schifo!” protestò la Dolce.
La strega sogghignò nella penombra. “E non ti sei mai chiesta che cosa pensano loro di te?”.
Quella frecciatina bastò a farla raggelare. Io sbuffai e proseguii imperterrita.
“Un’ultima cosa” disse a un certo punto Amy, fermandosi di fronte a una porta chiusa. “Fate le vostre scelte con saggezza. Il futuro di Narnia dipende tutto da voi, capito? Io non posso influenzare la vostra volontà, né tantomeno quella del mio Maestro. Perciò, buona fortuna”.
La porta si aprì, rivelando una sala gigantesca dalle pareti completamente ricoperte di libri di ogni forma e dimensione, stipati in altissimi scaffali. Al centro, debolmente illuminato da una finestra circolare situata sul soffitto, stava un libro aperto su un vecchio tavolo di legno, il segnalibro di stoffa color porpora che attraversava le pagine come un serpente color del sangue. Attratta dal volume, Lucy si staccò dalla compagnia e si diresse al tavolo, sfiorando le sue membra di carta e inchiostro con le sue lunghe dita sottili.
Rendi visibile ciò che è invisibile” lesse ad alta voce.
“Lucy!”.
Sussultammo tutti per lo spavento. Qualcosa si era mosso in un angolo buio della stanza, qualcosa di grosso, molto più grosso di un topo. E, tanto per migliorare la situazione, Amy era sparita nel nulla. Mi strinsi di più gli altri, il loro respiro mozzo sembrava un fragore assordante nel silenzio ovattato della biblioteca, mentre un uomo anziano ricoperto da una lunga toga viola dai risvolti dorati emergeva dall’oscurità.
“Io vi conosco!” esclamò a quel punto Edmund, rilassandosi di colpo. “Vi ho incontrato nel mio ultimo viaggio!”.
“Voi siete Coriakin, il mago!” disse Lucy illuminandosi.
“Coriakin?”. Avevo letto di lui ne Il viaggio del veliero, ma mai mi sarei immaginata di ritrovarmelo davanti nella biblioteca polverosa di un antico palazzo abbandonato.
“Salute e a voi, re e regine di Narnia” ci salutò il mago in modo cortese. “E salute anche a voi, figlio di Adamo e figlie di Eva”:
“Voi…voi siete il Maestro?” trillò Giulia, gli occhioni azzurri che mandavano lampi nell’oscurità.
“Oh, no, mia cara” rispose Coriakin ridendo. “Il Maestro è una parte di me. E solo a me è consentito chiamarlo, per sua volontà”.
“E potreste farlo adesso?” chiesi io al culmine dell’agitazione.
“Come desiderate. Purché sappiate accettarne le conseguenze”.
“E’ per il destino di Narnia” disse Peter.
“D’accordo, vostra maestà”.
Coriakin congiunse le mani, poi si diresse al tavolo, sfiorando delicatamente le pagine del libro e sussurrando parole in una lingua che non conoscevo. La superficie bianca della carta prese a vibrare lievemente, poi qualcosa cambiò, come se improvvisamente tutti avessimo avuto la cognizione che ci fosse qualcun altro nella stanza insieme a noi.
“Coriakin, mi avete chiamato?” disse una voce roca nell’oscurità.
“I re e le regine di Narnia vi chiedono udienza, signore” rispose il mago senza smettere di fissare il vuoto dinanzi a sé.
“Dannazione, ma lo sapete benissimo che non ho alcuna intenzione di parlare con loro” rispose la voce in tono scortese.
“Eppure siamo qui!” esclamò Susan con fermezza. “Avanti, signor Lewis, mostratevi!”.
“Come osi dare ordini proprio a me che sono il tuo creatore, ragazzina?” la apostrofò il Maestro.
“Perché io voglio sapere! Ho il diritto di sapere! Io e tutti i miei fratelli! Perché ci avete condannati a questo orribile destino dopo averci consegnati allo splendore della nostra nuova casa? Perché avete distrutto tutto ciò che avete creato? Perché?”.
Si sentì un brontolio sordo provenire dall’oscurità, poi, da dietro uno scaffale, emerse un signore corpulento e con pochi capelli bianchi sulla testa straordinariamente piccola, un sigaro acceso stretto fra le dita tozze. “Perché” rispose Lewis in tono distaccato “non avevo altra scelta, mia cara. Le cose stanno così e non si cambiano. Punto”.
“Ma perché?” attaccò Lucy. “Siete voi il nostro creatore e voi potete decidere!”.
“Lucy Pevensie,” la chiamò lui, fissandola come se davanti a lui non ci fosse stata altro che un’ombra “ anche il tuo stesso mondo un giorno o l’altro finirà, ci hai mai pensato? E poco importa chi sarà lì ad assistere alla sua distruzione, quanti moriranno nel vedere l’apocalisse. Io dovevo semplicemente narrare la storia di un mondo, proprio come il tuo. E, come tale, esso ha un inizio e una fine”.
“Ma era proprio necessario parlarne? O almeno coinvolgere chi contribuì a costruirne la grandezza?” intervenni io con rabbia.
Lewis mi fissò come inebetito. “Tu,” disse roteando i suoi enormi occhi bovini “non ricordo di averti mai scritta”.
“Sono Caterina Mantis, Cate per gli amici. Non sono un personaggio e sono perfettamente padrona del mio destino. E non solo” la mia mano si strinse più forte attorno a quella di Edmund. “Senza volerlo, sono entrata nella vostra storia e ora ne faccio parte. E farò di tutto per impedire che la vostra apocalisse si compia. Non le permetterò di uccidere le persone che amo”.
Il Maestro storse la bocca. “Tu impediresti a me di perseguire la mia volontà?” chiese sogghignando. “Magari per salvare questo sciocco ragazzino di cui sei pazzamente innamorata, quando potresti tranquillamente accontentarti di un essere in carne e ossa proveniente dal tuo mondo? Non è di gran lunga preferibile all’oblio dell’illusione?”.
“Narnia è il mio mondo!”.  
“Come vuoi, allora. Giochiamo”.
                                                                                                                                                    
L'ispirazione malandrina è infine ritornata! Ora sì che ci si diverte! Che ve ne pare?
Stavo pensando di realizzare anche delle illustrazioni per i prossimi capitoli, ma non so come si fa! Qualcuno saprebbe darmi qualche dritta? Vi ringrazio anticipatamente! :)
Non so se domani riuscirò ad aggiornare ancora, in questo momento sto chiudendo con il piede la valigia (dove diavolo ho messo i CHIODI?), la mia Venezia mi aspetta!
Nel frattempo, vedrò di farmi balzare alla mente qualche altra idea strampalata!
A prestissimo!!!
Un bacione!
Sunny

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Di nuovo a Narnia ***


Di nuovo a Narnia
 

Un improvviso scossone ci gettò improvvisamente tutti a terra, mentre un vento proveniente chissà da dove prese a schiaffeggiarci il viso, gettandoci qua e là per la stanza e sollevando ovunque una densa polvere grigia che ci offuscò la vista. Cercai d’istinto di trattenere la mano di Edmund, ma questa mi sfuggì e svanì nel buio. Urlai a pieni polmoni in preda al panico, avanzando a tentoni in quella bizzarra bufera che ci stava trascinando via. Non riuscivo a distinguere più nulla attorno a me, né avvertivo più la presenza dei miei amici al mio fianco. Tutto era avvolto dall’oscurità, il vento che rombava assordante nelle mie orecchie. Non riuscivo a capire se fossi immobile o se quella forza irresistibile mi stesse trascinando lontano, era come se a un tempo fossi accucciata al suolo tentando disperatamente di ripararmi dalle raffiche e stessi volando via. Poi, improvvisamente, tutto si calmò. Le mie narici furono invase dal profumo dell’erba e della terra umida. Attorno a me, il silenzio. Alzai il capo tremando dalla testa ai piedi. Attorno a me, si stagliavano le chiome di altissimi alberi secolari, la luce del sole che vi penetrava simile a lame incandescenti. Ero seduta al centro di una radura verdeggiante, vicino alla quale scorreva un fiumiciattolo d’acqua limpida. Ero sola.
“Edmund!” gridai non appena mi resi conto della mia situazione. “Lucy! Giulia! Leo! Rebecca! Dove siete finiti tutti quanti?”. Nulla, solo il silenzio rotto dal canto degli uccelli mi rispose. A quel punto fui presa dal panico.
“Merda!” ringhiai. “Merda, MERDA!”.
Mi alzai in piedi con rabbia e mi guardai intorno per l’ennesima volta. Una cosa era certa: se mi ero ritrovata lì dopo aver apertamente sfidato Lewis, voleva dire che quel caro vecchietto mi aveva fatta finire nel suo libro. E non in un libro qualunque: nel suo ultimo libro. Il che significava che, qualora Narnia fosse finita da un momento all’altro, io sarei morta con lei. Mi si attorcigliarono le budella nella pancia a quel pensiero. Dovevo trovare gli altri a tutti i costi, sempre che fossero venuti con me. Cominciai a camminare avanti e indietro per il nervoso. Non sapevo proprio da dove cominciare. Il primo pensiero che mi colpì fu quello di cercare Aslan. Sì, ma dove? E secondo: da che parte di quel mondo strampalato mi aveva scodellata Lewis? Cercando disperatamente di non dare di matto come in realtà stavo già facendo, trassi un profondo respiro e mi incamminai fra gli alberi, nella speranza di farmi venire un’idea strada facendo. Avanzai per un tempo che mi parve infinito, le mani in tasca e la testa bassa, fino a quando un improvviso scricchiolio mi fece sussultare per lo spavento. Qualcosa di grosso, di molto grosso, stava avanzando a velocità record verso di me. E sembrava decisamente arrabbiato. Non feci in tempo a urlare, che un grosso lupo bianco di dimensioni spaventose sbucò fuori da un cespuglio, le zanne scoperte, appiattendosi al suolo pronto ad attaccare. Spaventata, feci per scappare, ma inciampai in una radice e piombai a terra. Avvertii lo spostamento d’aria causato dalla bestia che mi stava per piombare addosso,  il sangue che mi si congelava nelle vene, e seppi che tutto era perduto.
No!, pensai disperata. Non può finire così! Ci deve essere un altro modo! CI DEVE ESSERE UN ALTRO MODO!
Mi coprii d’istinto il volto con le mani, aspettandomi di sentire le mie carni lacerarsi da un momento all’altro, ma ciò non avvenne, sostituito invece da un sibilo sinistro e da un tonfo sordo al mio fianco. Sgranai gli occhi per la sorpresa. Il lupo giaceva a pochi centimetri da me, una freccia piantata nella gola, ed era morto. Sopra di lui, Lucy abbassò l’arco lentamente, un’espressione carica d’angoscia dipinta sul volto d’angelo.
“Cate,” mormorò con voce tremante “stai…stai bene?”.
“Lucy!” esclamai per la sorpresa. “Io credo di sì!”.
“Ho sentito il trambusto dietro i cespugli, ho visto te che fuggivi e poi, dal nulla, mi è apparso l’arco fra le mani. Non capisco!”.
Io mi alzai di scatto, di colpo presa da un illuminazione. “Ma certo!” esclamai. “Noi ora siamo nel libro, ovvero di nuovo a Narnia! Lu, quando ho visto che tutto era perduto, ho pregato di venire salvata e sei arrivata tu! Ora capisco: io sono un essere umano in carne e ossa e perciò ho il potere di cambiare le cose qui dentro! E’ una sfida tra me e Lewis!”.
Lucy mi guardò confusa, come se improvvisamente fossi diventata matta. “Continuo a non capire, scusami” disse scuotendo il capo.
“Capirai strada facendo” continuai io, in preda a un inaspettato entusiasmo, avviandomi a grandi passi nella foresta. “Ora dobbiamo trovare gli altri!”.
“Vuoi dire che siamo tutti a Narnia?” chiese lei riponendo l’arco e prendendo a rincorrermi fra i cespugli.
“Sì, come voi siete stati chiamati nel mio mondo quando Leo si è messo a leggere”risposi io senza fermarmi.
“Aspetta, Cate! Allora vuol dire che Lewis può ancora distruggere Narnia, vero?”.
“Sì, Lucy, è può farlo in qualsiasi momento! Ma io posso fermarlo! Possiamo fermarlo, lo so!”.
“Cate! Spiegami meglio! Non capisco!”.
“Non c’è niente da capire! Andiamo!”.
“CATE!”.
“Non c’è tempo, ti dico!”.
“No, è che sono caduta! Non ce la faccio a starti dietro!”.
Mi voltai, la bocca semiaperta già pronta a rispondere, quando mi resi conto che Lucy era veramente finita a terra e aveva la faccia completamente imbrattata di fango.
“Scusami, Lu” dissi porgendole un fazzoletto. “Vedrò di andare più piano”.
La ragazza si pulì il volto nervosamente e scosse il capo divertita. “Non so chi sia più fuori di testa se te o Edmund!” commentò esasperata.
“Mi dispiace! Non era questo il modo in cui volevo ringraziarti per avermi salvato la vita!” mi scusai imbarazzata.
“Oh, ma lo so! Del resto, se non sbaglio la volta scorsa sei stata tu a salvarmi dal fiume, quindi ora siamo pari”.
“Giusto”.
Lucy ripose il fazzoletto nella tasca della gonna, poi si rialzò lentamente. “Allora?” disse in tono di sfida. “Andiamo o vogliamo restare qui a poltrire tutto il giorno?”.
“Sei sempre la solita peste!” risposi io scompigliandole i capelli e prendendo a correre nel folto del bosco.
“Ah, stavolta non me la fai, vecchia spilungona!” mi gridò di rimando la Valorosa, prendendo a rincorrermi fra gli alberi.
Ci inseguimmo per non so quanto tempo, fino a quando non fummo sfinite e prendemmo ad avanzare in maniera più confacente a due ragazze sperdute in un mondo giunto alla fine. La foresta sembrava non avere fine e la luce del sole si stava lentamente affievolendo, fino a quando non ci ritrovammo in una sorta di cupa penombra.
“Non possiamo continuare così” osservò Lucy afferrandomi per una manica e invitandomi a riprendere fiato. “Bisogna trovare un altro modo per uscire di qui. Sono ore che giriamo in questo bosco e l’unica cosa che abbiamo incontrato finora è stato quella specie di lupo”. Rabbrividì. “Non vorrei che con il buio ci imbattessimo nel resto della famiglia…”.
“Hai ragione!” esclamai io massaggiandomi le tempie. “Devo pensare…”.
Provai a chiamare mentalmente i miei compagni, nella speranza che venissero come era accaduto per Lucy, ma, come avevo immaginato, nessuno di loro si fece vivo. A quanto pareva, Lewis poteva essere anche un vecchio svitato, ma non uno stupido. Aveva architettato tutto con cura. Ripensai a come avevo evocato Lucy. Un momento, io non avevo pensato “Lucy”, io avevo pensato “aiuto”! Dunque dovevo associare ciascuno di loro a una mia precisa richiesta? Compagnia, mi balzò alla mente in contemporanea all’ennesima espressione di Lucy del suo timore di rimanere sole nella foresta con il buio che calava. Compagnia.
“Ma si può sapere che cazzo di posto è questo?” udii sbraitare una voce familiare in un punto imprecisato fra gli alberi. “Voglio tornare a casa, porca miseria!”.
“Tranquillo, Tiziano” rispose un’altra voce in tono rassicurante.
“Per l’ultima volta, io mi chiamo Leonardo, capito? L-E-O-N-A-R-D-O!”.
“D’accordo, L-e-o-n-a-r-d-o, ti stavo semplicemente invitando alla calma. Qui siamo a Narnia, è il mio regno dopotutto e finché sei con me non può succederci nulla di male…”.
“Zitto, va’, e camminiamo!”.
In pochi attimi, Leo e Peter emersero dai cespugli. Nel vederci lì, entrambi sospirarono sollevati, anche se mio fratello non riusciva proprio a celare il suo disappunto.
“Ah, giusto te!” esclamò con decisione. “Sì può sapere che razza di casino hai combinato?”.
“Io non ho fatto assolutamente niente” mi schermii portando le mani avanti. “E, prima che tu riprenda a criticarmi come tuo solito, mi sto già dando da fare per risolvere questa spinosa situazione!”.
“E ti conviene sbrigarti, perché io non ho nessuna intenzione di restare qui mentre arriva l’Armageddon!” tuonò Leonardo furibondo. “E tantomeno con quello lì!” aggiunse poi indicando Peter.
Lucy aggrottò le sopracciglia, mentre il fratello ammiccava spudoratamente nella mia direzione. “Sai, Pete,” osservò “da quando ci siamo ricongiunti con Cate, ti stai comportando da vero stupido. Che fine ha fatto il vecchio fratellone responsabile di una volta?”.
“Non capisco di che cosa parli, Lu” rispose lui in tono distaccato.
Io strizzai violentemente gli occhi, diventando improvvisamente rossa come un peperone. Ora che mi trovavo a Narnia, in una storia da riscrivere, mi rendevo improvvisamente conto di quanto le mie emozioni potessero diventare pericolose. Anche se non riuscivo ad ammetterlo a me stessa, Peter mi ricordava Riccardo in maniera impressionante. Gli somigliava molto, in effetti: stessa aria da bravo ragazzo di buona famiglia, stesso fare rassicurante e flemmatico, da buon inglese. Senza contare che io gli piacevo sin dal nostro primo incontro e ciò non ha fatto altro che aumentare l’innata rivalità fra lui ed Edmund. Solo che, la prima volta, il ragazzo aveva incassato il colpo con molto più stile. Cavolo, Lucy aveva ragione: il vecchio Peter non si sarebbe mai comportato in quel modo così patetico solo per attirare la mia attenzione! Ero io che, attraverso la mia testa matta, avevo in qualche modo rovesciato le mie frustrazioni su di lui, facendolo assomigliare a un gigantesco bamboccione più che a un re. Dovevo stare attenta a come pensavo, cavolo!
“Dove sono gli altri?” chiese improvvisamente Lucy.
“La ragazza mora non si trova da nessuna parte” rispose Leo.
Incassammo tutti in silenzio. Anche se lo avevo sperato, sapevo che Susan non avrebbe mai potuto raggiungerci. La sua avventura si era conclusa lì. Speravo solo di poterla rivedere, un giorno.
“E…e gli altri?” mi affrettai ad aggiungere.
Peter e Leo si scambiarono una lunghissima occhiata carica d’imbarazzo. La cosa mi fece gelare il sangue nelle vene.
“Ragazzi?” chiesi con la voce che tremava. “Cosa è successo?”.
Mio fratello lanciò uno sguardo di fuoco al più grande dei Pevensie. La cosa bastò per farmi avvampare.
“Non ti arrabbiare, Cate” rispose Peter con disinvoltura. “Siamo arrivati qui tutti insieme, tranne Susan ovviamente”. Pausa teatrale, per dargli il modo di comunicarci il peggio in maniera più efficace. “Mentre eravamo in marcia per venirvi a cercare siamo caduti in un’imboscata e…”.
“…e cosa?” domandai, anche se sapevo benissimo la risposta.
“Questo deficiente si è dato alla fuga con me dietro, lasciando il resto della truppa in balia del nemico” rispose Leo furibondo.
“CHE COSA?” esclamai io inferocita.
“E adesso dove sono?” tuonò Lucy sconvolta.
Peter si limitò a sorridere, come se la cosa non lo riguardasse minimamente. “Oh, l’ultima volta che li ho visti si trovavano al guado del Beruna, a circa un miglio da qui” rispose indicando i tronchi degli alberi avvolti dall’oscurità.

                                                                                                                                                  
Eccomi qua, in una pausa fra Dante e Simone Martini.
Come va?
Dunque, innanzitutto temo che mi debba scusare con il povero Peter per averlo trattato da emerito deficiente per tutti questi capitoli (anche se sono dalla parte di Edmund, ammetto di essere stata cattiva!) e di aver infine fatto chiarezza sul mio accanimento su di lui. *ora va meglio, Pete?*
Premetto che sto cercando anche di scrivere una fiction per il concorso, ma ammetto di essere a corto di idee e quella che ho abbozzato non mi piace.
Nel frattempo, in qualsiasi modo vadano le cose, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nella speranza di poter aggiornare al più presto.
p.s. che ne dite se la prossima fic la faccio su Harry Potter?
A presto!
Sunny

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Aiuto! ***


 Aiuto!

 
 Da sempre mi sono considerata una persona pacifica, una di quelle che alla violenza fisica o verbale preferiscono il dialogo, che quando vedono un amico giù di morale o in un momento particolarmente difficile della sua esistenza gli vengono vicino e lo abbracciano, promettendogli di mostrare nei suoi confronti tutta la propria comprensione.
Cosa del tutto irrilevante, soprattutto in quel momento, in cui avrei tanto voluto avere con me una spada per farla ingoiare fino all’elsa a quell’idiota di Peter, che continuava a starmi davanti con quel sorriso ebete stampato sulle labbra sottili, come se non fosse stata tutta colpa sua se in quel momento i nostri amici stavano rischiando il collo.
“Tu sei solo un idiota privo di cervello, ecco che cosa sei!” tuonai furiosa, puntandogli un dito contro.
Il ragazzo mi fissò come se fossi impazzita, assumendo un’aria di innocente discolpa, come se non capisse perché in quel momento ce l’avessi tanto con lui. “Calmati, Cate” replicò levando le mani. “Sei solo stanca e hai bisogno di riposarti, tutto qui. Vedrai che domattina andrà tutto a meraviglia…”.
“IO NON SONO STANCA E LE COSE NON ANDRANNO DI CERTO MEGLIO SE CE NE STIAMO QUI A DORMIRE, RAZZA DI CRETINO!” ululai fuori di me.
Avvertendo che in quel momento ero davvero uscita dai gangheri, Leo e Lucy mi si avventarono contro, trattenendomi a stento per le braccia per impedirmi di saltargli addosso e riempirlo di pugni.
“Cate!” mi richiamò la Valorosa. “Cate, aspetta, non è in lui, il vero Peter non si comporterebbe mai in questo modo, fidati! Ci deve essere per forza qualcosa che non va!”.
Io mi voltai di scatto verso di lei, tremando da capo a piedi per l’ira, il fiato mozzo. “Che cosa?” chiesi con voce rotta.
Lucy allentò la presa, fissandomi seria. “Insomma, guardalo” rispose preoccupata. “Fino al nostro arrivo nella tua era, Peter era perfettamente normale, insomma, come te lo ricordavi: cortese, simpatico, responsabile, insomma, non si sarebbe certo montato la testa per una ragazza! Cate, io temo che mio fratello sia stato stregato!”.
Spostai lo sguardo sul ragazzo, il quale era rimasto perfettamente impassibile, come se nulla fosse successo. Anche se i miei istinti omicidi non erano diminuiti minimamente, cominciavo a rassegnarmi anch’io all’idea che quella specie di tossico che mi ritrovavo davanti non era il nostro vecchio Peter e che forse, dal momento che più la mia rabbia cresceva, più il suo sorriso ebete sembrava allargarsi, il motivo della sua demenza ero io. Dovevo stare alla larga da lui il più possibile, almeno fino a quando non avrei imparato a controllare la mia testa matta, con la ferita di Riccardo ancora fresca nella memoria, nonostante ci fosse stato Edmund ad alleviare immediatamente il mio dolore. Già, Edmund! In quel momento, lui e gli altri si ritrovavano in pericolo mortale chissà dove e io ancora stavo a perdere tempo con quel pallone gonfiato? A quel punto fu fin troppo chiaro che la soluzione del problema ero io, non c’era nient’altro da fare.
“Ascoltate,” dissi con decisione “non possiamo perdere un istante, quindi fate come vi dico, è chiaro? Voi due,” dissi rivolta a Lucy e a Leo “occupatevi di Peter. La zona mi sembra tranquilla, quindi potrete accamparvi qui. Lucy ha un arco, quindi siete anche armati. Aspettate il mio ritorno”.
“Perché, tu dove vai?” chiese mio fratello in tono allarmato.
“Vado a cercare gli altri” risposi io facendo per allontanarmi.
“Che cosa? Tu da sola? Ma non se ne parla nemmeno!” protestò lui. “Noi veniamo con te!”.
“Ascoltami bene,” scandii in preda all’agitazione “in questo momento gli altri si trovano in grave pericolo e ogni minuto che restiamo qui a cianciare potrebbe essergli fatale. Spostarci in gruppo è troppo rischioso, specie con Peter in queste condizioni! Fidati, sono già stata qui in tempi peggiori e non mi è accaduto nulla. Perciò, restate insieme e vedete di non disperdervi ulteriormente. Io vado e torno”.
“Ma…”.
“E’ UN ORDINE!”.
Fu la mia ultima parola prima di sparire fra la vegetazione.
Per diversi minuti, la tentazione di tornare indietro e portarli con me continuò a tormentarmi i pensieri, ma la posta in gioco era troppo alta per esporli a un simile rischio. Non potevamo andare lontano se l’irrazionalità dell’astio che provavo per Peter non avesse accennato a diminuire. In quel momento, il pericolo ero io.
Continuai a camminare lungo la direzione che mi aveva indicato il ragazzo, mentre la foresta si faceva sempre più fitta. Ben presto, le tenebre calarono del tutto e mi ritrovai a brancolare nel buio, senza sapere minimamente da che parte stavo andando. Gli alberi crescevano così fitti da impedirmi di scorgere il cielo, privandomi del prezioso orientamento che avrebbero potuto costituire la luna e le stelle. Ben presto, mi ritrovai il volto e le braccia che bruciavano per i graffi inferti dai rovi che continuavano a impigliarsi nei miei vestiti, il dolore che diveniva sempre più insopportabile di minuto in minuto. Tutto intorno a me, la foresta sembrava innaturalmente silenziosa, come se non vi abitasse più nessuno. Niente fruscii e scricchiolii provocati dal passaggio dei suoi abitanti nel sottobosco, neanche il richiamo di qualche uccello notturno a rompere quel silenzio spettrale. La cosa non faceva altro che aumentare la mia paura, rendendomi molto più nervosa di quanto avrei potuto esserlo al continuo sobbalzare per gli eventuali rumori provocati dalla vicinanza di qualche animale selvatico. E la cosa peggiore era il fatto che, nonostante stessi camminando da un tempo infinito, non mi sembrava minimante di udire il familiare scrosciare delle acque impetuose del fiume Beruna.
All’improvviso, qualcosa arrestò il mio passo. Sentendomi congelare dalla paura, rimasi immobile per diversi secondi, aspettando l’attacco, ma non avvenne. Eppure la forza che sembrava ostruire il sentiero era ancora lì, impalpabile e minacciosa. Comprendendo che non sarebbe servito a nulla restarmene lì impalata, provai a stendere una mano in avanti per cercare di capire l’identità dell’ostacolo, sussultando per la sorpresa quando trovai il vuoto. Subito una nebbia scura si scaturì tutto intorno a me, avvolgendomi in una stretta a un tempo minacciosa ed evanescente. Provai a urlare, ma dalla mia bocca non emerse alcun suono. Mi ritrovai completamente immobile, sospesa in mezzo al nulla, un nulla che sembrava stritolarmi nella sua morsa gelida. Avevo i brividi, quel freddo lancinante mi trapassava il corpo come tante lame affilate senza che io potessi fare nulla per oppormi. Poi la sua voce risuonò crudele nell’aria che mi teneva prigioniera. La sua risata priva di gioia mi fece drizzare i capelli sulla nuca.
“Sciocca ragazzina,” disse a pochi centimetri dalle mie orecchie “credi davvero di potermi sconfiggere, tu da sola? Non salverai nessuno con la tua stolta presunzione, anzi, renderai ancora più atroce la morte dei tuoi sciocchi amici!”.
“Dove sei, maledetta?” urlai contorcendomi per la disperazione. “Fatti vedere, codarda! Come fai a essere ancora qui, quando sei stata uccisa?”.
La Strega Bianca rise di nuovo. “Davvero pensi che basti eliminarmi fisicamente per impedirmi di vivere? No, ti sbagli, cara mia! Il mio spirito vivrà fino a quando questo non sprofonderà e anche oltre! So di essere di gran lunga più forte di quell’Aslan nel quale non crede più nessuno!”.
“Ma cosa dici, strega?” ribattei con furia. “Un abitante di Narnia non può non credere in Aslan!”.
“Eppure, in questo momento le cose stanno ben diversamente. Aslan ha perso la sua credibilità, non è più nessuno qui e non può fare nulla per coloro che troppo a lungo ha chiamato suoi sudditi! E io, grazie alla sua sconfitta, sono più potente che mai!”.
“Ne sei proprio sicura? Secondo me, invece, la festa sta per finire, ora che io e i Pevensie siamo ritornati a Narnia! Vedremo di fartela pagare una volta per tutte, maledetta fattucchiera da quattro soldi che non sei altro!”.
“Sto tremando di paura, guarda” ghignò la Strega nascosta dalla nebbia. “Sinceramente, non mi sembrate molto in forma, da come vi siete presentati qui. Il vostro Re Supremo non riesce a prendere una decisione sensata senza coprirsi di ridicolo e quell’insopportabile ragazzina di nome Susan vi ha traditi. Non lo definisco proprio un buon inizio”.
“So già come risolvere questi piccoli malintesi” assicurai io.
“E il tuo caro dolce Edmund, ne vogliamo parlare?”.
Sentirla pronunciare il nome del ragazzo con quella voce falsamente mielata mi fece gelare il sangue nelle vene.
“Che cosa gli hai fatto, puttana?” chiesi fremente di rabbia e di paura.
Jadis scoppiò in una sonora risata. “In questo momento il tuo amato si trova prigioniero nel mio castello, da dove mi assicurerò che non possa scappare come ha fatto l’ultima volta” rispose gelida. E, tanto per rendere la cosa ancora più agghiacciante, davanti ai miei occhi sbigottito comparve l’immagine evanescente di Edmund incatenato nei sotterranei del castello della strega, la testa abbandonata sul petto e gli occhi chiusi. Per un attimo, rischiai di perdere i sensi, colta dalle vertigini e dalla nausea. Non è vero, non ascoltarla, è solo la tua mente, presi a ripetermi spasmodicamente. Non ascoltarla!
“Tu credi che sia solo uno stupido scherzo della tua immaginazione, non è così?” proruppe la voce di Jadis implacabile. “Allora, sappi che ti sbaglia di grosso, cara mia! Il ragazzo è mio prigioniero e finalmente potrò sbarazzarmi definitivamente di almeno uno dei Pevensie. E non saranno di certo le tue lacrime a impedirmelo. E’ ora che impari ad accantonare le tue stupide favole per accettare la realtà così com’è, per quanto crudele e ingiusta che sia. Addio, mia piccola sognatrice!”. Detto questo, lanciando un’ultima risata, la nebbia si ritirò con violenza, scagliandomi a terra con violenza.
Il gelo svanì, sostituito in breve dal dolore alla spina dorsale che mi esplose nel momento in cui finii lunga distesa contro una radice che emergeva nodosa dal suolo, facendomi salire le lacrime agli occhi.
Rimasi lì per quella che mi parve un’eternità, singhiozzando per la disperazione. Edmund, aveva Edmund e ora lo avrebbe ucciso senza che io avessi potuto fare nulla per salvarlo. E tutto per colpa di quello stupido di Peter! E gli altri? Dov’erano gli altri? Erano morti? Erano sopravvissuti? Una debole speranza si fece largo nei miei pensieri. La strega non aveva parlato di loro, ma solo di Edmund. Quindi, in qualche modo, erano ancora vivi. Dovevo tentare. Le parole terribili che mi aveva rivolto quel mostro mi facevano ancora male, è vero, ma non potevo permetterle di avere ragione, non poteva.
Aslan!, chiamai disperata nella mia mente, la mia più grande alleata e allo stesso tempo la mia peggiore nemica, Aslan, ti prego, aiutami!
Improvvisamente, il dolore svanì. Mi rialzai tremando da capo a piedi, guardandomi attorno spaesata. Ai piedi dell’albero davanti a cui ero caduta erano apparsi, dal nulla, una spada dall’impugnatura a forma di testa di leone e degli abiti puliti, una camicia bianca, dei pantaloni da equitazione e una casacca di cuoio, i miei abiti!
Ringraziando con tutta l’anima il buon vecchio Aslan per aver ascoltato la mia preghiera, mi liberai in quattro e quattr’otto dei miei vestiti ormai logori e li sostituii con quelli nuovi, assicurandomi la spada alla cintura e proseguendo più risoluta di prima. Dovevo raggiungere il castello prima che fosse stato troppo tardi, in quel momento ero rimasta l’unica speranza per Edmund. Contando che non avevo la minima idea di quale parte del regno mi trovassi, la mia situazione non era di gran lunga migliorata da quella di pochi attimi prima. Non mi restava che camminare, camminare e ancora camminare. Già, bella soluzione. Stavo giusto per dare di matto, quando un improvviso bagliore mi fece immobilizzare lì dov’ero. Qualcosa, qualcosa di molto luminoso che danzava spettrale sui tronchi degli alberi e che avanzava incessantemente con un rumore assordante di rami spezzati sembrava farsi sempre più vicino al luogo in cui mi trovavo.
 Sguainai d’istinto la spada, mettendomi in posizione d’attacco.
“Chi è là?” gridai con voce tremante.
“Cate?”.
Per poco non mi venne un colpo. Poter udire nuovamente la sua voce quando sembrava che ogni speranza fosse svanita fu per me come una doccia gelata.
La luce della sua torcia emerse a pochi metri da me, balenandomi per un attimo sul volto, abbassandosi subito dopo per evitare di abbagliarmi.
“EDMUND!” urlai correndogli incontro e gettandogli le braccia al collo.
“Cate! Sei viva! Dove sono gli altri?”.
 “I ragazzi stanno bene! Tu, piuttosto! Per un attimo, ti ho creduto nelle segrete del castello della Strega Bianca!”.
“Io…no!”. Il suo tono si fece più serio. “Ma temo di sapere a che cosa ti riferisci” aggiunse scostandosi leggermente da me.
Dietro di lui emerse la figura tremante di Giulia, un’espressione allucinata sul volto rigato dalle lacrime. Era sconvolta.
“Mio Dio!” esclamai nel vederla in quello stato. “Che cosa è successo?”.
“Massi!” gridò lei, scossa da una nuova scarica di singhiozzi. “HA PRESO MASSI!”.

                                                                                                                                            
Ok, so che (in particolar modo una certa lettrice) alla fine del capitolo avrete voglia di spaccare lo schermo a padellata, chiedendovi che cosa le salta in mente a questa matta (io) dalle dodici e trenta in poi.
In mia discolpa, garantisco che nel prossimo capitolo vi farò rotolare dalle risate (promesso, non scagliatemi la maledizione cruciatus proprio adesso!).
Spero che non ci siano troppi errori di battitura, dal momento che ho scritto questo capitolo in tutta fretta.
Buona lettura e a presto!
Sunny

 

 

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Capitolo 16
*** Salvataggio con stile ***


Salvataggio con stile
 


“Per l’amor del cielo, Giulia, calmati e cerca di spiegarci che cos’è successo!” esclamai io prendendola per le spalle e cercando di farla ritornare dalla parte della ragione, ma in tutta risposta ricevetti un’esplosione di singhiozzi ancora più disperata della precedente.
“E’ stato mentre tentavamo di guadare il fiume Beruna” intervenne Edmund. “Ci hanno presi alle spalle. Improvvisamente tutto è stato avvolto da una strana nebbia e poi, quando finalmente la nube si è allontanata, Massimo non c’era più”.
Alle sue parole, Giulia prese a strillare e a dimenarsi ancora di più. In pochi minuti, le maniche della mia camicia furono completamente fradice, come se stessi cercando di tenere puntato contro di me un idrante.
“E’ stata la cosa più strana che mi fosse mai accaduta” osservò Rebecca, che fino a quel momento era rimasta in disparte fra le felci. “E’ come se di colpo non sentissi più nulla, solo quella nebbia terribile a oscurarmi la vista. Sembrava quasi quel libro di Stephen King in cui…”.
“Va bene, Rebecca, abbiamo capito” mi sbrigai a interromperla in previsione di un’altra serie di urla da parte della povera Giulia.
“E’ stata la Strega Bianca!” ululò lei come un’ossessa. “Lo so, lo so che è stata lei, quella maledetta befana! Non è vero, Edmund?”.
“Giulia ha ragione” confermò il ragazzo. “Era la stessa nebbia che visto l’ultima volta che sono stato qui. E’ probabile che la strega stia diventando più forte”.
“Ma perché proprio Massi? Perché il mio cucciolo, il mio amore, il mio principe azzurro? Perché, perché, PERCHE’?” singhiozzò Giulia.
“Io penso che sia stata la solita obiettività della strega a fregarvi” ipotizzai io. “Vedete, lei è sempre così presa da ciò che vuole da scordarsi tutto il resto. Non è così che dice Lewis? E’ probabile che in quel momento,  vista l’incredibile somiglianza con Edmund, ci sia stato uno scambio di persona”.
“Io ero più avanti di loro e per qualche minuto mi sono trovato fuori dalla nebbia, prima di poter intervenire” aggiunse Edmund.
“Anch’io poco fa mi sono imbattuta in quella nebbia” proseguii io. “La strega mi ha mandato l’orrenda visione di Edmund nelle segrete del suo castello,” Giulia lanciò un urlo tale che uno stormo di uccelli si levò in volo spaventato dalla cima del faggio sul quale si era rifugiato “ma ora che ci ripenso, non sono riuscita a vederlo in faccia”.
“Perfetto” disse Edmund. “Allora sappiamo dove trovare il nostro amico”.
“Dobbiamo partire subito, prima che sia troppo tardi. Non credo che Massimo reggerebbe un incontro ravvicinato con la Strega Bianca”.
“Non dev’essere molto lontano da qui” osservò il Giusto indicando la direzione in cui erano venuti. “Ma, a piedi, temo che la cosa si riveli un po’ più complicata del previsto”.
“Ci servirebbe un mezzo di trasporto” osservò Rebecca lambiccandosi il cervello. “Che so, un cavallo, per esempio”.
Si interruppe bruscamente nell’avvertire uno schiocco secco rompere il silenzio della foresta. Ci irrigidimmo tutti per lo spavento, io ed Edmund con le spade prontamente sguainate, in attesa che il grosso animale che si stava avvicinando a grandi passi nella nostra direzione facesse capolino tra le felci. Sospirammo di sollievo quando la grande testa di un bellissimo cavallo sauro sellato di tutto punto emerse dalla vegetazione.
“Ma questo è il cavallo dello zio Aldo!” esclamò Rebecca sconcertata. “Che diavolo ci fa qui?”.
“PHILIP!” gridammo io ed Edmund correndo ad accarezzare il nostro vecchio amico.
“Ciao, ragazzi” ci salutò lui scrollando la criniera rosso fiamma. “E’ bello ritrovarvi qui”.
“Io ti ho visto nel mio mondo” osservai mentre gli grattavo le orecchie.
Il cavallo mi lanciò un’occhiata furba. “Non so di preciso come ci sono finito”rispose. “L’importante è che ora siamo di nuovo tutti qui. E, a quanto vedo, avete anche bisogno dell’aiuto di un valido destriero”.
“Hai sentito la nostra chiamata?” domandai.
“Certo, non vi ho persi di vista neanche per un attimo. Ma non posso mica portarvi tutti insieme”. Detto questo, voltò il capo e lanciò un nitrito verso qualcosa che si nascondeva fra gli alberi.
Subito si udì l’inconfondibile rumore di zoccoli che trottavano sulla terra battuta, poi uno splendido cavallo baio emerse al suo fianco.
“Figli di Adamo, ho l’onore di presentarvi Ramon, mio fedele compagno di ventura” disse Philip.
“Allora,” ci salutò lui raspando nervosamente al suolo con uno zoccolo “si va?”.
Philip emise un nitrito acuto che assomigliava in maniera impressionante a una risatina. “Ramon è un cavallo da guerra” scherzò “ed è difficile tenerlo fuori dalla battaglia”.
“Bene, allora perché attendere oltre?” rispose Edmund ridendo. “Coraggio, possiamo salire in due su ciascuno di voi. Rebecca, Giulia, ve la sentite di salire su Ramos?”.
Giulia fece un debole cenno con il capo, mentre Rebecca arricciò il naso. “Non so se me la sento” disse piano.
“Stai tranquilla, è più facile di quanto pensi” la tranquillizzai io.
“Cate, tu e io saremo con Philip” aggiunse Edmund.
“Va bene”.
Dopo innumerevoli tentativi (la prima volta per poco Rebecca non cadde dall’altra parte e Giulia era così agitata che alla fine Edmund fu costretto a prenderla in braccio e issarla sulla sella con le sue forze), finalmente fummo tutti a cavallo.
“Mi raccomando,” disse il ragazzo mentre si apprestava ad aprire la fila “tenetevi forte a Ramon e fidatevi di quello che fa. L’importante è che non rimaniate indietro, altrimenti rischiereste di perdervi. E non irrigiditevi troppo sulla sella, o rischierete di cadere. Tutto chiaro? Bene, andiamo!”.
Il ragazzo diede un forte colpo di talloni a Philip, il quale si impennò lanciando un forte nitrito, fiero e ardente di energia come la prima volta, partendo poi a un galoppo sfrenato fra gli alberi. Presa alla sprovvista dall’incredibile velocità a cui stavamo filando, io strinsi ancora più forte le braccia attorno alla vita di Edmund e premetti il volto contro la sua schiena, lasciandomi trasportare, il vento che mi scompigliava i capelli con un sibilo. Dietro di me, udivo il galoppo cadenzato di Ramos che avanzava con marziale disciplina a meno di un metro dal compagno. Speravo solo che non si forse perso per strada Giulia e Rebecca.
Continuammo a galoppare per un tempo infinito, zigzagando pericolosamente fra i tronchi degli alberi, le fronde più basse che ci frustavano il viso, mentre il sentiero si faceva sempre più impervio e ricco di ostacoli per l’abbandono (mi si mozzò il fiato quando saltammo un tronco caduto).
Finalmente, dopo quelle che a me parvero ore, giungemmo in vista del castello della Strega Bianca. Il ghiaccio che nel mio primo viaggio a Narnia lo rivestiva completamente si era sciolto, formando un grande lago nero che lo circondava da tutti i lati, rivelando il suo scheletro in una strana pietra scura dall’aspetto sinistro, di gran lunga diversa da quella vulcanica che ero abituata a vedere.
“Non riuscimmo mai a passare” osservai mentre passavamo in rassegna le sponde deserte del lago.
“Ne sei sicura? Non faresti prima a chiedere una barca?” domandò Rebecca in tono scherzoso.
Non feci in tempo a risponderle, che le immobili acque gelide si incresparono, mentre una minuscola imbarcazione di legno emergeva lentamente e si avvicinava alla riva come per magia.
“Adoro far parte di una storia senza essere uno dei personaggi!” esclamai stupefatta.
Edmund mi aiutò a scendere da cavallo, poi, dopo aver fatto smontare anche le altre due (Giulia assomigliava in maniera impressionante a un gatto persiano appena uscito dalla lavatrice), salimmo sulla barca e mollammo l’ormeggio, prendendo ad avanzare silenziosamente verso il castello della nostra nemesi.
A ogni metro, gli occhi di Giulia si facevano sempre più scuri, mentre la ragazza assumeva un cipiglio sempre più omicida.
“Me la pagherai, maledetta befana” sibilava di tanto in tanto, i pugni stretti contro il petto. “Me la pagherai”.
 
Entrare nel castello della strega quella volta più molto più facile che uscirne la volta precedente. Io ed Edmund sapevamo che non potevamo risalire la grata che ci aveva salvati dai sotterranei, perciò cercammo altre vie all’esterno. Dopo una breve ricognizione, decidemmo di forzare uno dei grandi finestroni laterali e di calarci all’interno senza dover passare dal cortile centrale, un tempo pieno di statue. Edmund, però, non aveva calcolato che noi tre non avevamo la sua stessa agilità nell’arrampicarci sui ripidi costoloni che fiancheggiavano la struttura e più di una volta dovemmo cambiare percorso, visti i terribili attacchi di vertigini che ci assalirono dopo i primi metri in salita. Nonostante il ragazzo aiutasse anche Giulia e Rebecca, in realtà i suoi occhi neri erano perennemente puntati su di me, come se temesse una mia caduta da un momento all’altro. D’altro canto, in una situazione del genere, preferivo di gran lunga la sua presenza rassicurante al mio fianco, imitando in qualche modo il comportamento protettivo che avevo avuto nei suoi confronti la notte in cui ci eravamo ritrovati a condividere la medesima cella. Finalmente, ci calammo attraverso lo stretto varco che ci eravamo aperti nella vetrata, ritrovandoci ai piedi del tamburo di quella che sembrava una grande cupola, al disotto della quale si stagliava l’enorme sala del trono. La voce della strega riempiva tutto l’ambiente, rimbombando sinistra sui muri gelidi, nonostante il ghiaccio fosse completamente sparito.
“Non posso credere che abbiate potuto arrivare a tanto, razza di mocciosi” stava dicendo con stizza. “Il mio piano era perfetto, Lewis era mio, avrebbe distrutto Narnia e voi con lei e io avrei finalmente trionfato su Aslan!”.
“Ma che cazzo stai dicendo?” chiese una voce tranquilla nell’oscurità.
Al mio fianco, per poco Giulia non svenne. Allungai appena lo sguardo oltre alla balaustra che ci separava dal precipizio quel tanto che bastava per scorgere Massi, il quale, nonostante avesse le caviglie bloccate da una pesante catena, se ne stava tranquillamente seduto sui gradini della sala come se nulla fosse, intento a prepararsi una delle sue sigarette.
“E’ stata quella stupida ragazzina, non è vero?” continuò Jadis, come se il ragazzo non avesse aperto bocca. “Quella sciocchina innamorata di te”.
“Oh! Non parlare male della mia ragazza che ti spacco il muso, brutta troia!” la minacciò Massi.
“Io parlo di lei come mi pare e piace!” rispose la strega in tono sprezzante. “Se non fosse stato per quella ragazza, a quest’ora non avrei dovuto affannarmi tanto per dominare Narnia. E invece, grazie a lei, ogni volta che mi ritrovo a un passo dalla vittoria, eccola che arriva e mi manda tutto all’aria. Senza di lei, tu e i tuoi odiosissimi fratelli non avreste avuto scampo, vi avrei uccisi non appena avreste messo piede in questo mondo!”.
“MA SE SONO FIGLIO UNICO!” sbottò Massimo sgranando gli enormi occhi color nocciola.
“In ogni caso, questa volta non le permetterò di rovinare tutto” continuò la Strega Bianca fregandosi le mani. “La sto aspettando e allora,”nel frattempo Massi si era acceso la sigaretta e aveva preso a tirare profonde boccate come se nulla fosse “allora vedrà chi avrà la meglio fra noi due. Ma io so come sistemarla una volta per tutte. Lei farebbe qualsiasi cosa per te,” a quelle parole, diedi una forte gomitata nelle costole di Edmund, intimandogli di fare qualcosa, mentre Giulia aveva iniziato a emettere un suono che ricordava in maniera impressionante un incrocio fra il fischio di una pentola a pressione e il ruggito sommesso di qualche belva feroce “sarebbe disposta a dare anche la sua inutile vita in cambio della tua. Per questo, credo che sarà facile risolvere il problema alla radice uccidendoti una volta per tutte. Allora, quando il suo cuoricino innamorato non potrà battere più per te, non avrà più alcun motivo per stare ancora in questo mondo!”.
“Tu credi che Giulia sia così superficiale?” chiese Massimo in tono di sfida, stando attento a mandarle una generosa quantità di fumo proprio in piena faccia. “Perché tu non la conosci come la conosco io. Non puoi capire che razza di scatole che mi ha fatto co’ ‘sto mondo di Narnia che non so manco che è, e su Edmund, e su Skandalo e tutti gli altri che a me sembrano tutti una banda di pagliacci, ma, prese in giro a parte, lei crede veramente in questo mondo e, credimi, al di là del fatto che mi trovi in pericolo o meno, non permetterebbe mai a una pazza psicopatica di distruggerlo. Senza contare che la mia ragazza mi ama così tanto che, se solo mi torcessi un capello, sarebbe in grado di distruggere tutto questo rudere a mani nude, se necessario. Io non la reputerei una mossa intelligente, se mi uccidessi”.
“In ogni caso, tu non sarai qui a vederne le conseguenze” sentenziò la strega con un ghigno orribile, sfoderando quel pugnale che a me ed Edmund era fin troppo familiare. “Fuori uno!”.
“Sicuro che sia quello giusto, Jadis?”.
La strega voltò la testa di scatto, mentre noi uscivamo di colpo dal nostro nascondiglio, le spade sguainate. “Non è possibile!” gridò.
“Lascia stare il ragazzo!” gridai io. “Non sapevo che potessi essere così codarda!”.
“Com’è possibile questo prodigio?” continuava a ripetere la Strega Bianca, spostando febbrilmente lo sguardo ora su Massimo ora su Edmund. “Come possono essercene due?”.
“Di Edmund Pevensie ce n’è uno e solo uno” rispose il ragazzo mettendosi in guardia. “Perciò è con me che devi fare i conti”.
Tu? E questo qui chi è?” chiese l’altra afferrando Massimo per i capelli e sollevandolo a una decina di centimetri da terra.
“Uno che non c’entra niente, perciò lascialo!” gridai io.
“Non credo proprio” rispose la strega con un sorriso perfido. “In ogni caso non serve più, no?”.
Ciò che seguì accadde con una tale rapidità, da far risultare estremamente complicata la resa su carta.
Jadis fece per tagliare la gola a Massi, quando, improvvisamente, lanciò un grido di dolore, gettando a terra sia il ragazzo che il coltello. A una trentina di centimetri dal suolo, con un’aria di profonda determinazione negli occhioni azzurri, Giulia era ancorata all’avambraccio della strega con la sola forza dei suoi denti, con le gambe penzoloni nel vuoto.
Colta di sorpresa, la strega urlò di nuovo e fece per scrollarsi di dosso la ragazzina, ma in quel momento i suoi dentini acuminati sembravano aver preso la resistenza delle mascelle di uno squalo, restando saldamente ancorati alla pelle bianca del demone.
Approfittando di quell’attimo di esitazione, noi tutti ci precipitammo alle sue spalle, correndo in aiuto di Massimo, quando la strada ci fu tagliata da un ometto basso quasi completamente calvo con uno spettacolare paio di orecchie a punta e a sventola. Per un attimo, rimasi completamente interdetta.
“Giulio?” domandai, riconoscendo in quello strano essere proprio il mio istruttore di guida.
“Finalmente la resa dei conti, Mantis!” mi rispose il tizio, facendo per piombare addosso a Massi, ma la sua mossa fu intercettata dalla mia spada.
“Sai, non vedevo proprio l’ora!” risposi rispedendolo indietro, poi mi chinai sui piedi del ragazzo, liberandolo dalla catena (sì, la buona abitudine di mettermi sempre le forcine fra i capelli non mi era affatto passata da quella volta).
“Mettetevi in salvo!” gridai consegnando Massimo al resto della compagnia e preparandoci a coprire la loro fuga.
Nel vedere il suo ragazzo finalmente libero, Giulia saltò giù, correndogli incontro e stringendolo in un abbraccio stritola costole. “Amooooooreeee!” gridò riempiendolo di baci, ma le sue effusioni vennero subito interrotte da Rebecca, che riuscì a farle abbassare la testa appena prima di beccarsi un terribile fendente in piena gola.
“SCAPPATE!” gridò Edmund mentre si lanciava contro la strega.
Io gli diedi immediatamente manforte, mettendo fuori combattimento Giulio (o quel che diavolo era) e lanciandomi contro la strega.
Jadis raccolse la spada abbandonata del suo servitore e prese a combattere con quella e il pugnale, lanciando fendenti talmente sofisticati che sia io che Edmund facevamo fatica a tenerle testa. A un certo punto, il ragazzo perse l’equilibrio e cadde all’indietro, finendo lungo disteso sul pavimento gelido. Io urlai e bloccai l’affondo che la strega aveva lanciato per finirlo, ma non fui abbastanza rapida. Il dolore che mi lacerò la spalla in quel momento mi tolse il fiato, mentre mi accasciavo al suolo con la mano sinistra premuta contro la ferita, il sangue calo che mi bagnava le dita.
Edmund gridò di rabbia e si fiondò contro Jadis, tentando di colpirla, ma fu rispedito indietro da un affondo.
La situazione sembrava priva di via d’uscita, quando, improvvisamente, mi venne un altro dei miei colpi di genio. Con le ultime forze rimaste, afferrai la spada con ambo le mani, conficcandola al suolo.
La Strega Bianca urlò di dolore, come se la lama si fosse conficcata nelle sue stesse carni, mentre l’intero edificio veniva scosso da un terribile tremito e prendeva a sgretolarsi. Grossi macigni e frammenti di pietra presero a staccarsi dalle pareti, precipitando a terra con un rombo assordante. Polvere e calcinacci erano ovunque.
“Andiamo via di qui!” gridò il Giusto prendendomi in braccio e trascinandomi fuori, mentre gli altri ci seguivano a ruota.
Io chiusi gli occhi e premetti la testa contro il suo petto, mentre le forze sembravano abbandonarmi ogni secondo che passava.
Tutto intorno a me non udivo altro che urla e quel tremendo frastuono che incombeva sopra le nostre teste,  mentre tutto crollava.
Più di una volta avvertii il dolore provocato da frammenti di vetro e pietra che ferivano le mie carni, ma la mia corsa continuava.
Poi, improvvisamente, avvertii la dolce sensazione di essere adagiata delicatamente su un prato.
Eravamo in salvo.

                                                                                                                                                 
Buonaseeeera!!!
Confesso che questo è stato il capitolo più divertente che ho scritto finora e spero che sia piaciuto anche a voi!
Vi abbraccio tutti ( mando un saluto in particolare a quelle due mattacchione che non smetterò mai di ammirare).
A presto!
Sunny

























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Capitolo 17
*** Il sogno ***


Il sogno
 



Riaprii gli occhi lentamente. Il dolore delle mie ferite sembrava essersi temporaneamente assopito e un inaspettato senso di benessere mi percorse le membra. Mi sentivo improvvisamente in piena forma, in preda a un’irresistibile voglia di muovermi, di agire. Mi tirai su a sedere. Eravamo in una radura verdeggiante e illuminata dalla debole luce del mattino, i raggi del sole che filtravano leggeri dalle chiome degli altissimi alberi che ci sovrastavano. Gli altri giacevano addormentati attorno a me, abbandonati in un cerchio scomposto attorno a ciò che restava di un focolare. Mi guardai attorno, assaporando il fresco della foresta. Un senso di calma pervadeva ogni cosa, conferendo alla foresta un aspetto ben lontano dalla selva intricata e ostile che avevo attraversato solo poche ore prima. Passai distrattamente le dita sull’erba cosparsa di rugiada e restai in ascolto dei rumori che attraversavano il sottobosco. In lontananza, un uccello lanciò il suo richiamo fra gli alberi. Improvvisamente, ebbi voglia di esplorare il luogo in cui mi trovavo, così diverso da quando vi ero giunta per la prima volta. Mi levai in piedi e mi incamminai verso il primo macchione di alberi, come chiamata da una voce invisibile che proveniva dritta dal cuore della foresta. Avanzai per diversi minuti, guardandomi intorno rapita dalla bellezza della natura che mi circondava. Dai teneri fiori appena sbocciati e dal colore delicato delle foglie, sembrava essere all’inizio della primavera, quando il cielo non si è ancora spogliato delle ultime nubi e tutto inizia a risvegliarsi dopo il lungo sonno invernale. L’umidità della notte aveva fatto esplodere i profumi del sottobosco, inondandomi le narici del fresco della terra bagnata e del muschio che si arrampicava sui massi scuri. Camminai ancora per un po’, le mani in tasca e lo sguardo perso, fino a quando le mie orecchie non captarono il rumore di un corso d’acqua. Ancora pochi passi e lo trovai, un piccolo ruscello che scorreva dolcemente fra l’erba, disegnando una curva delicata fra i tronchi degli alberi. Senza pensarci, lo seguii. I miei passi si persero fra gli alberi, fino a quando al canto degli uccelli e allo scrosciare dell’acqua si aggiunse anche la dolce musica di un flauto. Un giovane uomo dai lunghi capelli scuri stava seduto su un masso, suonando il suo strumento assorto nei suoi pensieri. Neanche si accorse del mio sopraggiungere, tanto era preso dalla sua melodia. Dal mio canto, io non volli disturbarlo e mi limitai a sedermi a gambe incrociate sull’erba, prendendomi il mento fra le mani e restando lì ad ascoltarlo incantata.

Quando finalmente la musica cessò, l’uomo abbassò lo sguardo e mi vide. Sul suo viso abbronzato si dipinse il sorriso più bello che avessi mai visto, candido e rassicurante, a metà strada fra quello di un angelo e del ragazzo della porta accanto.
“Ciao” mi salutò gentilmente.
“Ciao. Scusami, non volevo essere inopportuna, ma la tua musica mi piaceva tantissimo” risposi tutto d’un fiato.
“Ti ringrazio” disse lui alzando appena le spalle. “Tu dovresti essere Cate”.
Sobbalzai. Ormai sapevo fin troppo bene che cosa significava se qualcuno a Narnia diceva di conoscere il tuo nome.
“Chi sei?” chiesi senza fiato.
“Oh, perdonami” esclamò l’uomo. “Il mio nome è Caspian. Credo che tu abbia già sentito parlare di me…”.
“Certo che ho sentito parlare di te! Tu sei un re!”.
A quel punto, le mie guance diventarono scarlatte per l’imbarazzo. Passi per i Pevensie, con i quali avevo già uno stretto rapporto di amicizia prima ancora che venissero incoronati, ma con lui? Con tutta sincerità, non avevo la minima idea di come comportarmi davanti a un re.
“Non essere timida” disse lui notando il mio evidente imbarazzo. “Essere re non significa che io sia diverso dagli altri. In qualche modo, anch’io faccio parte della tua famiglia”.
“Sì, sì, hai ragione” borbottai io. “Susan sarebbe molto felice di rivederti”. Potevo inventarmene una peggiore?
“Lo so” rispose Caspian senza smettere di sorridere. “Anch’io vorrei poterla stringere nuovamente fra le mie braccia, un giorno”.
Fu a qual punto che capii. Dopo la partenza dei Pevensie, Caspian si era sposato. E Susan non sarebbe mai più tornata a Narnia. Grazie, Lewis!
“Troppe cose non vanno, in questa storia!” pensai ad alta voce. “Questo mondo è destinato a essere distrutto, così che io perderò il mio amore, e tu hai già perso il tuo”.
“Non è ancora detta l’ultima parola, Cate. Sai che tu sei l’unica a poter cambiare le cose”.
“Lo so, me ne sono accorta” sbuffai. “Eppure, ti sembrerà assurdo, non so proprio da quale parte cominciare. E ho anche la sgradevole sensazione che, ogni minuto passato a girarmi i pollici, viene sottratto alla vita di Narnia”.
“E’ per questo che ho deciso di venirti a cercare” disse Caspian. “Ascolta, per salvare Narnia, devi innanzitutto liberarti da tutto ciò che ti impedisce di usare il tuo potere. La rabbia, il dolore e la paura vanno cancellati dal tuo cuore. Guarda che cosa è successo a Peter, che danno gli hanno procurato i tuoi pensieri. Tu sai bene di non odiarlo, nonostante i suoi difetti”.
“C’è un modo per guarirlo?” chiesi esasperata.
“Sì” rispose Caspian. “Per spezzare l’incantesimo che lo tiene prigioniero e fargli riacquistare la ragione, devi portarlo con te nel castello di Cair Paravel. Nel suo giardino, vi è una fonte benedetta dallo stesso Aslan, l’Aqua Vera. Immergi Peter nelle sue acque e lui ritornerà il re saggio di un tempo. Narnia ha bisogno anche di lui, in questo momento”.
“Grazie, e poi?”.
“Radunate un esercito sotto le insegne di Aslan, perché presto un grande nemico devasterà questa terra”.
“Proprio quello di cui avevamo bisogno!” commentai esasperata. “Qualcos’altro?”.
Caspian si fece serio. “Poi toccherà a te” disse. “Il destino di Narnia dipenderà da una tua scelta”.
“Cosa? Una mia scelta? Che cosa devo fare?”.
Il re tornò a sorridere, anche se questa volta la sua espressione era carica di antica saggezza. “Quando sarà il momento, lo saprai. Ricorda solo questo: se scegli di avere solo la tua mente come guida, tutto è perduto, ma se a essa affiancherai la pura forza del tuo cuore, allora la speranza tornerà a regnare in questo mondo”.
“Aspetta, cosa? Il mio cuore, la mia mente…che? Ma tu resterai con noi, non è vero? Ci aiuterai in quest’avventura?”.
Caspian rise. “E come potrei?” esclamò divertito. “Io non sono più”.
I suoi contorni presero a farsi sempre più sfumati, fino a quando non diventarono un unico indistinto alone di luce.
“Ehi, ma che diav…aspetta!”.
“Il tuo cuore, Cate. Il tuo cuore…”.
“CASPIAN!”.
 
Spalancai gli occhi nella penombra. Tutto attorno a me regnava la calma. Al mio fianco, Lucy borbottò qualcosa nel sonno e, senza volerlo, si avvinghiò forte al mio braccio. Sussultai per la sorpresa. Ero madida di sudore e il cuore mi batteva nelle tempie fino a farmi male. Un improvviso bruciore mi percorse le membra laddove la carne era stata recisa dai detriti del palazzo della strega. Chiusi gli occhi nuovamente, cercando di riprendere fiato. Lo spavento, il sogno, tutto mi ronzava dolorosamente nella testa, facendomi venire un’irresistibile voglia di piangere. Alla fine, i miei nervi ebbero la peggio. Calde lacrime presero a bruciarmi sulle guance.
“Cate? Va tutto bene?”.
La voce di Edmund mi riportò crudelmente alla realtà. Il mio respiro affannoso doveva averlo svegliato, lui sempre così abituato a stare in perenne allerta. Il ragazzo si tirò su a sedere, circondandomi le spalle con le braccia.
“Va tutto bene” mi disse piano. “Hai avuto un brutto sogno, solo un brutto sogno”.
Io mi strinsi a lui, prendendo a singhiozzargli su una spalla. Era esattamente come quando ti svegli di soprassalto a causa di un incubo: improvvisamente, senza sapere perché, tutte le immagini più spaventose che puoi immaginare si affollano nella tua mente, spaventandoti ancora di più di quanto tu già non lo sia. E in quel momento, l’unica cosa che i miei occhi vedevano era la prospettiva di dover perdere Edmund da un momento all’altro, di vederlo morire, spazzato via in un attimo, ritrovandomi a stringere l’aria fra le mie dita.
“Cate” mi chiamò lui accarezzandomi i capelli. “Va tutto bene, ci sono io qui con te. Non ti succederà niente. Davvero, non c’è nulla di cui ti debba preoccupare”.
“Ho paura” singhiozzai. “Non lasciarmi!”.
“No” rispose lui. “Tranquilla, non accadrà”.
Affondai il volto contro la sua spalla, lasciandomi cullare dalla sua stretta. In pochi minuti, le lacrime si arrestarono, l’incubo andò via. Sorgeva l’alba.
“Sei ferita” disse a un certo punto Edmund.
Abbassai lo sguardo. Le maniche della camicia erano strappate in più punti, lasciando spazio a una serie di macchie di sangue rappreso. Al solo pensiero delle piaghe nascoste al disotto, mi venne da vomitare.
“Anche tu” osservai notando con orrore la mano e la fronte del ragazzo.
“Non è niente” si schermì lui, ma io scossi il capo violentemente.
“Serve il cordiale di Lucy” sentenziai con decisione. “Dobbiamo tornare dagli altri”.
Edmund annuì serio. “Va bene” disse piano.
Io mi alzai in piedi barcollando, spazzandomi via dalla fronte un paio di ciocche che mi erano finite davanti agli occhi. “Ho fatto un sogno” dissi prima di voltarmi verso gli altri. “Ti devo parlare”.

                                                                                                                                                 
Bonsoir!
Scusate la mia assenza, ma fra una scena estremamente impegnativa del libro che sto scrivendo e i miei studi, questa fanfiction la sto un po' trascurando. Senza contare che vi avrei fatto attendere ancora di più se i miei buoni propositi di trascorrere l'intero pomeriggio in compagnia di Dante non si fossero risolti in un crollo davanti al computer con gli Evanescence sparati a tutto volume (mea culpa).
Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che non vi abbia confusi.
Mando un saluto enorme a tutti voi che mi seguite sempre con entusiasmo, sperando di poterci risentire al più presto!
Siete semplicemente fantastici!^^
Sunny


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Il ritorno del Magnifico ***


Il ritorno del Magnifico
 



Riuscire a far vedere un cieco o far camminare un paralitico può davvero risultare una cosa fattibile se confrontata con il nostro tentativo di far collaborare Peter nel seguirci fino a Cair Paravel.
Durante la nostra assenza, infatti, il Magnifico era visibilmente peggiorato e il suo sorriso ebete si era allargato a tal punto da fare la concorrenza a una delle peggiori boccacce di Jack Skeletron. Al nostro arrivo all’improvvisato accampamento nella radura, trovammo Lucy sull’orlo delle lacrime.
“Non so più che fare!” singhiozzò venendomi incontro con le mani nei capelli. “E’ insopportabile, non riesco nemmeno a parlarci! Dio mio, dov’è finito il mio adorato fratello?”.
Nel vedere la sorellina in quelle condizioni, Edmund la strinse istintivamente fra le braccia, lasciandole sfogare tutte le sue angosce. Io le lanciai un’occhiata carica di tenerezza, sfiorandole i capelli con le dita. Non sopportavo l’idea di vedere la mia sorellina piangere in quel modo.
“Edmund!” esclamò Lucy senza smettere di tremare. “Ho…avuto…tanta…paura!”.
“Ssst! E’ tutto finito, Lu. Ci siamo noi ora qui con te”.
Lucy sollevò debolmente lo sguardo, sfregandosi nervosamente il viso arrossato con il dorso della mano, poi i suoi grandi occhi azzurri si riempirono d’orrore. “Sei ferito!” disse indicandogli la tempia lorda di sangue.
“Non è niente” si schermì il ragazzo alzando le spalle. “Anche se in questo momento non mi dispiacerebbe qualche goccia del tuo cordiale…”.
“Il cordiale! Oh, Ed, non ce l’ho con me! Che disdetta!”.
“CATE!”. Le braccia di Leo mi si serrarono energicamente attorno al collo, rischiando di farmi perdere l’equilibrio. Non riusciva a smettere di tremare, proprio come un cucciolo spaventato. “Di tutte le cazzate che hai fatto in vita tua, questa è certamente la più grossa!” esclamò. “Non provare mai più ad abbandonarci da soli in mezzo alla foresta con un pazzo del genere!”.
“Che diavolo vi ha fatto Peter?” chiesi allarmata.
“Guarda tu stessa” rispose il ragazzo indicando il nostro compagno di viaggio con un gesto esasperato.
Peter stava seduto a gambe incrociate sulle radici di un albero, lo sguardo perso nel vuoto e il sorriso ebete disegnato sulle guance innaturalmente rosee, come la grottesca imitazione di un bambino troppo cresciuto, canticchiando sommessamente un motivetto infantile e lanciando distrattamente in aria dei sassolini, scoppiando di tanto in tanto in una risata deliziata quando i sassi da lui lanciati gli ricadevano in testa. Era un quadretto devastante.
“E’ semplicemente desolante” disse Edmund sgranando gli occhi sconvolto.
Lucy annuì. “Non sappiamo come tenerlo” rispose. “Prima voleva andarsene in giro da solo per la foresta e abbiamo dovuto minacciarlo di ricorrere alle maniere forti. Poi ha cominciato a cantare a squarciagola una canzone che non ho mai sentito, rischiando di rivelare la nostra posizione e, di tanto in tanto, scoppia a piangere senza un’apparente ragione. Non so come gestire la cosa, non riesco a rivolgergli la parola perché tanto non mi ascolta, è fuori di testa e non fa altro che delirare”.
“Io avevo proposto di legarlo” soggiunse Leo con un sorriso mefistofelico.
“Se non fosse stato per tuo fratello, Cate, sarei impazzita” concluse Lucy.
Io spostai lo sguardo dai due ragazzi a Peter. Desolante, davvero desolante. E tutto per colpa mia. Per fortuna, ora avevo pronta una soluzione. Il problema era riuscire a far sollevare il sedere del Magnifico da quell’albero. E avevo già intuito la soluzione.
“Dobbiamo ripartire subito” sentenziai decisa. “Si va a Cair Paravel, in un modo o nell’altro. Solo così potremo riavere il vecchio Pete”.
Detto questo, mi diressi a grandi passi verso Peter. Il ragazzo levò lo sguardo verso di me e i suoi grandi occhi azzurri si illuminarono di un’euforia incontenibile. “Cate!” esclamò indicandomi.
“Ti va di fare un giro con noi?” gli domandai cercando di sembrare il più dolce possibile.
“Dove andiamo?” chiese lui in tono sognante.
Io sospirai. Era come se il suo cervello fosse ritornato all’infanzia, nonostante il suo aspetto fisico fosse quello di un uomo di ventiquattro anni. Una cosa tristissima.
“Andiamo alla ricerca di un castello” disse piano. “Grande, maestoso, dove ci sono dei re”.
“Dei re? Ci andiamo insieme?”.
“Sì. Dobbiamo spezzare un incantesimo che li tiene prigionieri. Ma non possiamo farcela senza il tuo aiuto”.
“Senza il mio aiuto!” ripeté meccanicamente Peter battendo le mani. “Bello! Bello! Voglio venire!”.
Io levai gli occhi al cielo, lanciando una debole occhiata in tralice ai miei compagni, poi gli porsi una mano e lo aiutai a rialzarsi. Almeno, la parte più difficile era fatta.
 
Utilizzammo i cavalli per trasportare i più giovani della compagnia e per legarvi i nostri pochi averi, tenendoci ben strette le spade. Edmund portava Philip per le redini, mentre io avanzavo avanti a lui tenendo Peter per mano, rossa fino alle orecchie per l’imbarazzo, mentre lui mi seguiva sorridendo come un bambino accompagnato al parco dalla mamma. Non gli interessava nient’altro che stare al mio fianco, esultando estasiato ogni qual volta notava qualcosa che catturava in maniera irresistibile la sua attenzione. Non aveva altro punto di riferimento al di fuori di me. Io che l’avevo ridotto in quello stato. In quel momento, giurai che avrei fatto qualsiasi cosa pur di aiutarlo a guarire. Per un attimo mi ritornò alla mente il vecchio Peter, quello che avevo conosciuto la notte in cui avevo salvato Lucy dalle rapide del fiume, sola e smarrita nel bosco innevato. Allora lui non era ancora re, era un ragazzo come tanti altri e in quei giorni si era comportato come un vero fratello nei miei confronti. Ricordai di tutti i momenti passati assieme, della speranza che mi aveva alimentato nelle interminabili ore in attesa che Edmund ritornasse sano e salvo, dei saggi consigli che aveva saputo darmi, della calorosa amicizia che mi aveva regalato degli attimi di pura felicità quando tutto attorno a me sembrava sprofondare nell’oblio della disperazione. Non ci sarebbe mai stato amore tra di noi, questo era certo, ma l’amicizia, quella che era nata sin dal nostro primo saluto, sarebbe rimasta per sempre. Era stato lui a violentarla, cambiando improvvisamente atteggiamento nei miei confronti, pretendendo di più. Era stato allora che avevo iniziato a prendere le distanze da lui, a non fidarmi più di tanto del suo fare così alla mano. Ero rimasta profondamente delusa dal suo comportamento, si era rivelato una persona diversa da quella che credevo di conoscere. E poi era tornato Edmund. La cosa non aveva avuto seguito e ciò non aveva fatto altro che alimentare la mia vendetta, seppur inconsapevole, esplosa nel momento in cui Riccardo mi aveva tradita. In lui vedevo esattamente tutto ciò che in quei giorni nell’accampamento di Aslan avevo visto in Peter. Bello, gentile, affettuoso. Tutta una maschera. Ma in quel momento capivo che Peter era tutt’altra cosa rispetto a Riccardo. Il suo era semplicemente un amore giovanile, nient’altro. Fu allora che mi ricordai di un particolare che il tempo aveva seppellito. Era stato il giorno della battaglia, nel momento in cui mi ero gettata contro la Strega Bianca per proteggere Edmund. Il momento in cui lui mi salvò. Aveva avuto giusto il tempo di dirmi di prendermi cura di suo fratello, di restare al suo fianco. Alla fine, Peter aveva accettato la realtà e con quelle parole era tornato immediatamente il buon amico che avevo conosciuto pochi giorni prima. Era un vero eroe, alla fine. Io, invece, non avevo capito niente. In quel momento, avrei dato la vita pur di riavere il vecchio Peter.
 
Camminammo per tutta la giornata, fermandoci di tanto in tanto a riposare in qualche radura tranquilla, i nervi tesi e le armi pronte a scattare nel terrore di cadere in qualche imboscata. Tutto sembrava apparentemente normale, come se nulla fosse cambiato dall’ultima volta, eppure io percepivo chiaramente nell’aria quella vaga sensazione che le cose non stessero andando esattamente per il verso giusto. C’era come qualcosa di sbagliato fra quei cespugli, qualcosa di profondamente inquietante e minaccioso nelle lame di luce che penetravano fra le alte chiome degli alberi sopra le nostre teste. Una sgradevole sensazione di pericolo. Dovevamo andare più forte.
Verso il tramonto, raggiungemmo la spiaggia. Il cielo era velato di un rosa pastello, mentre un pallido sole di una stagione indefinibile scendeva lentamente a toccare il mare con i suoi raggi sempre più deboli. Tutto attorno a noi brillava di una luce strana, allo stesso tempo troppo intensa e troppo sfocata per essere reale, suscitando un fastidioso senso di abbagliamento ai nostri occhi.
“Che cosa significa?” chiese Lucy spaesata.
“Non mi piace” rispose Edmund. “Mai a Narnia il sole ha avuto questo colore”.
“Guardate, siamo arrivati!” annunciai io indicando l’alto promontorio a un centinaio di metri da noi che sembrava fuoriuscire direttamente dalle profondità marine. Dall’alto della sua cima boscosa, sorgeva un immenso palazzo di marmo bianco, abbracciando la rupe come un’immensa città d’avorio, le sue infinite costruzioni mai viste sulla nostra Terra simili a tanti occhi ciechi che ci scrutavano nella penombra. Persino lo splendore di Cair Paravel sembrava essere stato sconfitto da quella luce spettrale.
“Castello!” esclamò Peter aggrappandosi con forza alla manica della mia camicia, facendomi gemere per il dolore.
“Non abbiamo un minuto da perdere!” ci esortò Edmund.
Senza stare a indugiare oltre su quel tramonto senza colori, ci arrampicammo in tutta fretta lungo le pendici del promontorio, le gambe piegate dal dolore man mano che la salita si faceva più irta, raggiungendo le porte della città dopo un tempo che ci parve infinito.
“Aspettate” disse Edmund alzando un braccio. “Non mi piace”.
Alle sue parole seguì un silenzio irreale. A un suo cenno, io e Lucy impugnammo le armi, facendo scudo agli altri e procedendo con cautela all’interno delle mura. Sembrava non esserci anima viva in giro, come se Cair Paravel fosse stato completamente abbandonato. O come se tutti i suoi abitanti fossero morti. A quel pensiero, presi a sudare freddo, stringendomi ancora di più a Edmund.
Avanzammo per un buon tratto nella via principale, nella quale non era rimasto altro che il fango e qualche relitto di indecifrabile fattura. Le porte delle botteghe sotto i portici di marmo erano scardinate, degli immensi buchi neri oltre ai quali si spalancavano spazzatura e ragnatele. Nessuna traccia di esseri viventi.
“Fate attenzione, potrebbe trattarsi di un agguato” sussurrò Edmund inarcando le sopracciglia, la spada tesa davanti a sé.
Attraversammo la città bassa e ci inerpicammo verso il castello, senza incontrare nessuno. Ciò che trovammo lì fu però ben diverso dal devastante abbandono che ci aveva accolti poco prima. Tutto appariva come sotto un incantesimo. Il meraviglioso giardino, con i suoi infiniti labirinti di siepi e le sue fontane, era rimasto perfettamente intatto, nonostante non ci fosse più nessuno a curarlo e a passeggiare fra i suoi viali ghiaiosi. Il silenzio fu presto soppiantato dallo zampillare sommesso dei giochi d’acqua.
“Dov’è la fonte?” chiesi istintivamente.
“Ricordo quell’acqua. Venite, il pozzo è vicino” rispose Edmund.
Ci infilammo in un labirinto di siepi e lo percorremmo nelle sue intricatissime curve, fino a quando non giungemmo al centro del suo cuore, dove sorgeva una piccola vasca di marmo sormontata da un elaboratissimo arco di ferro battuto. Ci avvicinammo a grandi passi al nostro obiettivo, scoperchiando la grata che proteggeva l’Acqua Vera con l’aiuto delle spade.
“Dobbiamo immergerlo” dissi io facendo un cenno a Peter.
“Non sarà facile” rispose Edmund alludendo al buco nero senza fondo che si spalancava davanti ai nostri occhi.
“Dobbiamo tentare! Non si va da nessuna parte senza Peter e per di più abbiamo i secondi contati!” esclamai io. “Forza, dobbiamo trovare una corda per calarlo giù!”.
Il ragazzo mi lanciò una lunga occhiata perplessa mentre io armeggiavo febbrilmente fra il nostro bagaglio.
“Che cosa fai, Cate? Non mi piace” borbottò Peter senza smettere di starmi fra i piedi.
Alla fine, riuscii a ottenere una fune unendo la mia cintura con le redini dei cavalli e un sottopancia. Meglio di niente.
“Aiutami” intimai a Edmund mentre avanzavo verso Peter. “Pete, ascoltami. Per sconfiggere la maledizione ti dobbiamo calare in quel buco, capisci? Tu sei l’unico che può farcela. So che è brutto, ma devi fidarti di noi, ok?”.
Peter scosse il capo come un bambino spaventato. “Non mi piace. Non voglio” mi implorò.
Il poveretto ignorava che quando mi mettevo in testa una cosa era quasi impossibile farmi cambiare idea. Con una mossa degna del migliore dei cowboy, avvolsi il torace del ragazzo attorno al sottopancia di Phil, assicurandomi di stringere le cinghie ben bene, poi, con un bello spintone, gli feci perdere l’equilibrio, spedendolo dritto dritto in fondo al pozzo.
“CATE!” urlarono Edmund e Lucy increduli, mentre io mi puntellavo con i piedi sul terreno, cercando disperatamente di controbilanciare il peso di Peter senza mollare la presa sulla fune.
Dall’altro capo, il ragazzo continuava a urlare e contorcersi come un pesce preso all’amo.
“Piantala, o cadremo tutti di sotto!” esclamai contrariata.
La cosa sembrò aumentare ancora di più il panico di Peter, perché alle mie parole prese a divincolarsi con ancor più foga, facendomi perdere l’equilibrio.
“Aaaaaaahhhhh!”.
Sentivo che la fune mi stava sfuggendo dalle mani. Feci un ultimo sforzo per trattenerla, ma la forza di gravità vinse quella delle braccia, trascinandomi con violenza verso il buco nero. Aspettavo già di sentire il mio corpo precipitare nel vuoto, quando due braccia sottili mi strinsero alla vita e mi tirarono indietro, facendomi ruzzolare rovinosamente contro qualcosa di morbido.
“Ed!” biascicai stringendo la fune al petto.
“Cavolo, quella di cascarmi addosso non deve mica diventare un’abitudine!” esclamò il ragazzo sotto di me. “Cerca piuttosto di non far affogare mio fratello!”.
“Tienimi! Non ce la faccio da sola!”.
Edmund mi aiutò a rialzarmi in piedi, calibrando insieme le nostre forze e calando lentamente il povero Peter all’interno del pozzo.
Dopo un po’, si udì uno sciabordio sordo provenire da una decina di metri sotto di noi, poi più nulla. La fune era tesa, perfettamente immobile. Mi venne da sudare freddo.
“Pete?” chiesi con voce rotta. “Peter, ci sei?”.
Si sentì uno sputacchiare convulso, poi la corda tornò ad agitarsi.
“Ragazzi? Che diavolo ci faccio io qua sotto? TIRATEMI SUBITO FUORI DI QUI!”.
In tutta risposta, gli giunse un coro di risate da sopra la sua testa.
“Bentornato, Peter!”.


                                                                                                                                               
Finalmente sono tornata! Scusate la mia assenza su questa fic, ma non potete capire le cose che sono successe in questo ultimo mese!
Spero di aver rimediato con questo bel capitolone!
Ultimamente, sono proprio in vena di andare avanti con questa storia, siamo ormai prossimi alla fine e sono tanti i progetti per il futuro!
Al prossimo aggiornamento!
Un bacio grande a tutti voi! Vi voglio bene <3
F.

  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 19
*** I Quattro Troni ***


I Quattro Troni
 



“Come diavolo vi è saltato in testa di mandarmi là sotto?” tuonò Peter non appena fece la sua trionfale comparsa dal pozzo, i capelli biondi appiccicati sulla fronte e una buona dose di melma verdastra spalmata sul viso d’angelo. Impossibile restare seri, non con il Magnifico ridotto in quello stato. “Ah, vi faccio anche ridere, non è così?” esclamò il ragazzo, sputacchiando acqua in tutte le direzioni.
Edmund crollò sulle ginocchia tenendosi la pancia, scosso da un eccesso di risate. Ero convinta che fosse sul punto di sentirsi male.
Suo fratello gli scagliò un’occhiata di fuoco. “Suppongo che come al solito sia tu il fautore di tutto questo, non è vero fratellino?”.
“Credo che, per una volta, Ed c’entri poco con le tue disgrazie, Peter”.
Il Magnifico si voltò verso di me, un’espressione di pura incredulità dipinta sul volto, convinto che le mie parole fossero uno scherzo e incontrando invece il mio sguardo serio e in qualche modo soddisfatto. “Che cosa?” domandò perplesso.
“Scusaci, Pete,” mi schermii incrociando le braccia “ma, a quanto pare, sei rimasto vittima di un incantesimo e non avevamo altra scelta che farti fare un bel tuffo nell’Acqua Vera. L’alternativa era quella di tenerci un bambino di ventiquattro anni”.
Peter mi lanciò un’occhiata di fuoco, i suoi intensi occhi azzurri di nuovo vivi e fiammeggianti come quelli di un tempo. Mi sentii crollare il mondo addosso: nonostante tutto quello che era accaduto, si vedeva chiaramente che gli piacevo ancora. “Deduco che sia stata tu a escogitare il tutto, non è vero?” chiese in tono di sfida, puntandomi scherzosamente un dito contro.
“Ehi, piano con le accuse!” replicai scansandogli la mano con un gesto eloquente. “L’ho fatto per il tuo bene.
 Alle mie spalle, Edmund aveva smesso all’istante di ridere e percepivo chiaramente quanto si stesse scaldando.
“Molte grazie, Miss” disse Peter senza smettere di sorridere. “Ve ne sarò per sempre grato”.
“Peter!”.
Raggiante per aver riavuto il vecchio fratellone, Lucy gli gettò le braccia al collo. Lui rise e la strinse in uno dei suoi calorosi abbracci, sollevandola di un buon palmo da terra. “Piccola peste!” esclamò, nonostante la sorella avesse ormai i suoi quindici anni.
Noi scoppiammo a ridere deliziati, stemperando all’istante la scherzosa tensione che si era creata fra di noi.
“Scusate se vi interrompo, ragazzi,” intervenne a un certo punto Rebecca, che, nonostante si trovasse in un ambiente per lei decisamente fuori contesto, non sembrava affatto disposta a perdere la sua irrefrenabile verve “ma temo che qui ci ritroviamo con i tempi un po’ stretti. Ricordate che sta per venire la fine del mondo e forse anche un’invasione di pazzi esaltati? Io mi sbrigherei a correre ai ripari, se fossi in voi…”.
“Fine del mondo? Invasione? E, scusate se mi intrometto, ma come mai ci ritroviamo di colpo tutti a Narnia e chi sono tutte queste persone che avete portato con noi?” chiese Peter confuso.
Ci scambiammo tutti un’occhiata esasperata. Mi duole dire che ciò che nei romanzi viene allegramente omesso per la gioia del lettore, nell’effettivo tempo della storia occupa molto più spazio che poche righe di scuse da parte dei protagonisti. E che quella incaricata di ripetere per l’ennesima volta l’intera tiritera a causa della distrazione dei miei personaggi, come al solito, sarei stata io.
“Pete, è una lunga storia” dissi in tono rassegnato. “Perciò mettiti comodo e ascolta, perché abbiamo poco tempo”.
E presi a raccontare.
 
“…e questo è tutto” conclusi dopo un tempo che mi parve infinito, lasciando il povero Peter più sbalordito e confuso che mai. Sicuramente, quella non era stata una delle sue giornate migliori.
La cosa che mi sconcertava più di tutte, però, era l’atteggiamento di totale indifferenza dei miei compagni di viaggio, quasi come se il fatto che stesse per venire la fine del mondo non li riguardasse, forse perché anche loro si erano stufati di sentirsi dire per l’ennesima volta la stessa cosa.
Edmund aveva praticamente saccheggiato l’albero di mele sotto cui si era seduto, lasciando a terra un bel cumulo di torsoli rosicchiati come conseguenza a uno dei suoi attacchi di fame nervosa. Lucy si era cimentata nell’arte del coiffeur e aveva appena sistemato i capelli di Rebecca in un intricato sistema di trecce e treccine. Giulia e Massi, com’era prevedibile, si erano appartati in un angolino e si stavano scambiando una serie di effusioni delle quali non volli indagare e Leo, rimasto solo, aveva tirato fuori l’Ipod, miracolosamente intatto nonostante tutta quella strapazzata, e si stava sparando non so cosa a tutto volume.
“Non abbiamo un attimo da perdere!” esclamò Peter battendosi un pugno sul palmo. “Dobbiamo subito organizzare la resistenza, in attesa dell’attacco”.
“Sì, ma non credo che possiamo fare molto contro la fine del mondo” sospirai io tristemente.
“Tu puoi fare eccome!” ribatté lui sorridendo. “Tu puoi cambiare le cose, ricordi?”.
“Sì, ma non so come!”.
“Ma è semplicissimo! Ti basta volerlo!”.
“Per favore, Pete, basta!” esclamai prendendomi la testa fra le mani. “Non ci raccapezzo più!”.
“E dalle un po’ di tregua, poverina!” sbottò Edmund cingendomi le spalle con un braccio e fissando suo fratello in cagnesco.
“Calmati, Ed!” rispose Peter. “Non volevo certo farla disperare!”.
“Ma, a quanto pare, ci sei riuscito lo stesso!”.
“La volete piantare di beccarvi come due zitelle? Di certo non semplificate la cosa in questo modo!” esclamai esasperata.
“Scusami, amore” intervenne Edmund allungandomi un bacio sulla testa.
“Deve riposare” osservò Peter.
“Sì, grazie, era quello che stavo tentando di dirle anch’io!” lo interruppe l’altro.
“INSOMMA, BASTA!” tuonai levando gli occhi al cielo.
“Va bene, basta” tagliò corto Edmund. Mi venne voglia di alzare le braccia in segno di esultanza. “Passiamo all’azione senza spaccarci la testa in questi ragionamenti filosofici. Quando verrà il momento, ci comporteremo di conseguenza. E, per cominciare, direi di entrare nel castello e vedere che cosa fare”.
“Era proprio quello che volevo dire io, per l’appunto!” disse Peter gonfiando il petto orgoglioso.
“BASTA CHE ANDIAMO SENZA PERDERE ALTRO TEMPO!” mi affrettai ad aggiungere prima che riprendessero a beccarsi. E, per rendere la cosa ancora più convincente, mi levai in piedi e presi ad avanzare a grandi passi verso il castello.
Subito mi ritrovai fiancheggiata da quei due, che continuarono a discutere per tutto il tragitto per cose alle quali non prestai la minima attenzione, troppo stanca e preoccupata per dedicarmi alla loro interminabile telenovela. Mi limitai a voltarmi verso Lucy, la quale mi lanciò di rimando un’occhiata carica di fraterna solidarietà.
“Gli uomini!” esclamò levando gli occhi al cielo.
 
Aprimmo il grande portone di quercia con fatica, dopo averlo liberato della selva di rampicanti che ne aveva imprigionato i battenti in uno strano abbraccio faccio di tralci, foglie e spine. I nostri passi rimbombarono nell’atrio completamente deserto.
“Attenti” ci avvertì Edmund sguainando la spada.
Noi lo imitammo immediatamente.
Procedemmo lentamente lungo gli interminabili corridoi del castello, perlustrando ogni angolo alla ricerca di qualche anima rimasta al suo interno, ma nulla, non vi era alcuna traccia dei suoi abitanti. Come se fosse sotto un incantesimo, pensai e subito un insopportabile senso di gelo mi serrò il torace. Edmund sembrò percepire la mia paura e allungò una mano verso di me, cercando di farmi coraggio. Io afferrai le sue lunghe dita e le strinsi forte fra le mie, mentre una vampa di calore mi risaliva lungo le guance e il cuore accelerava i suoi battiti come un puledro al galoppo.
“Che strano” commentò a un certo punto Lucy indicando le pareti. “Non mi ricordo di questo arazzo”.
“Neanch’io” disse Peter inarcando un sopracciglio biondo. “E’ molto bello, però”.
“Molto realistico” osservai d’istinto, notando l’incredibile cura con cui era stato realizzato l’interminabile corteo di fauni, centauri, minotauri e altre creature di Narnia che seguivano i nostri passi lungo le pareti.
“Ecco la Sala dei Troni!” esclamò improvvisamente la Valorosa indicando un’alta porta dalla sommità a ogiva che conduceva a un grande ambiente inondato di luce.
“Oh, che meraviglia!” esclamò Giulia prendendo a saltellare deliziata. “Non avrei mai creduto di potervi entrare, un giorno!”.
Facemmo ingresso nella grande sala completamente vuota, le cui immense vetrate si affacciavano su un mare color pervinca sormontato da un cielo di porpora. In cima a una breve rampa di scale marmoree, sorgevano quattro troni di pietra, scolpiti in modo semplice e allo stesso tempo maestoso, come le personalità di quegli uomini incredibili che vi erano stati destinati e di cui tre stavano camminando al mio fianco. Subito mi ritornò in mente il giorno dell’incoronazione, quando quell’immensa sala brulicava di creature di ogni sorta, tutte strette attorno al grande Aslan, il quale aveva chiamato i fratelli Pevensie uno a uno, posando sul loro capo le corone a loro destinate e consegnando nelle loro mani il destino di Narnia. Ricordavo ogni dettaglio di quel momento solenne, dello squillare delle trombe, le danze delle driadi e delle naiadi, l’improvviso distacco che avevo provato verso coloro che più amavo, comprendendo che il mio destino sarebbe stato molto diverso dal loro.
“Cate!”.
Solo allora mi accorsi di essere rimasta indietro, ai piedi della scalinata. Edmund mi stava fissando dolcemente, tendendomi la mano con gentilezza. “Vieni, Cate”.
“No” risposi scuotendo il capo. “Quel posto appartiene a voi”.
“Non vedi che c’è ancora un seggio libero?”.
Mi si annodarono le budella. “NO!” esclamai decisa. “Quel trono appartiene a Susan!”.
Edmund lanciò un’occhiata agli altri due, i quali gli risposero con un cenno d’assenso. A quanto pareva, erano riusciti chissà come ad architettare tutto senza consultarmi.
“Devono essere quattro i Figli di Adamo e le Figlie di Eva a occupare questi seggi” continuò il Giusto con decisione. “E, in quanto nostra sorella è assente, solo tu per noi sei degna di farne le veci fino al suo ritorno”.
“Con quale diritto?” domandai in tono di sfida.
“Forse non ci hai mai pensato, ma tu qui sei la mia regina” si limitò a rispondere Edmund con un sorriso.
Le sue parole mi tolsero il fiato e improvvisamente ebbi l’impressione di stare precipitando da un’altezza vertiginosa. Io una regina? E non una regina qualunque, la sua regina?
Chiusi gli occhi, le mani premute contro le tempie, cercando disperatamente di prendere una decisione logica. Logica, logica, chi meglio di Susan avrebbe saputo usare questa benedetta logica? Susan, se riesci a sentirmi, ti prego, dimmi: che cosa devo fare? Aiutami, Sue. Ho bisogno di te in questo momento, non voglio compiere un atto di empietà contro una regina, un’amica e una sorella.
Improvvisamente, un senso di pace mi invase. Come in un sogno, mi parve di avvertire una piccola mano che mi si stringeva dolcemente attorno all’avambraccio, come per farmi forza, mentre la voce della Dolce mi risuonava gentilmente nella testa, proprio come se Susan fosse stata davvero lì accanto a me: “Non temere, Caterina. I miei fratelli hanno ragione. A Narnia manca una regina e solo tu puoi prendere il mio posto fino a quando le cose non si saranno sistemate. Non temere, so quello che faccio e ti prometto che alla fine vivremo tutti insieme felicemente. Devi solo fidarti di me, dei miei fratelli e dei tuoi amici e vedrai che tutto si aggiusterà. Coraggio, Cate. Non aspettare oltre. Narnia ha bisogno di te, ha bisogno di tutti voi!”.
Spalancai gli occhi, improvvisamente pervasa da una consapevolezza del tutto nuova. Assecondando la forza irresistibile che le parole di conforto di Susan avevano suscitato in me, tesi la mano verso Edmund, incontrando le sue dita e seguendolo sulle scale, fino a ritrovarmi di fronte al trono della Dolce.
“Sia come vuoi” disse osservando il suo stemma brillare sullo schienale. Mi sedetti insieme agli altri.
Un brivido irresistibile percorse le intricate nervature di pietra che sorreggevano l’intera volta della sala, dipanandosi lungo le colonne e il pavimento e percorrendo l’intero castello simile a una scarica elettrica, nello stesso istante in cui l’ultimo raggio di sole scompariva all’orizzonte con un ultimo debole bagliore. Un ruggito assordante echeggiò per le stanze, mentre il rumore di centinaia di passi esplose dal corridoio, fino a rivelare il principio di un corteo interminabile di creature di ogni sorta, che si diressero verso il trono e si prostrarono umilmente ai nostri piedi.
“Che cosa succede?” esclamai senza fiato.
“L’arazzo!” disse Lucy. “Ecco dove erano finiti tutti, erano prigionieri di un dipinto!”.
“E noi li abbiamo richiamati” concluse Peter. “Bentornati, signori!”.
“Vostra maestà” lo salutò il fauno più vicino inchinandosi ai suoi piedi. “Le nostre spade e le nostre frecce sono al servizio di Narnia”.
“Vi siamo grati per il vostro valore e la vostra fedeltà” rispose il Magnifico sorridendo. “Qual è il vostro nome?”.
“Geremia, vostre maestà”.
“Ebbene, Geremia, tu sarai a capo delle nostre truppe”.
“Vi ringrazio, maestà”.
I suoi compagni lo seguirono, inchinandosi e presentandosi a loro volta. Io seguivo in silenzio la scena, sentendomi estremamente in imbarazzo di fronte a tutta quella gente che ci rendeva omaggio. La regina non era decisamente il ruolo che mi si addiceva. Non vedevo l’ora che ritornasse Susan.
Una volta terminata la cerimonia, le tenebre erano scese su Narnia e le numerose torce appese lungo le pareti si erano accese, illuminando la grande sala di una soffusa luce rossastra.
Re Peter predispose un banchetto, affinché tutti i convenuti potessero saziarsi e prepararsi al giorno dopo. Noi cenammo insieme a loro, usufruendo del cibo che era apparso come per miracolo all’interno delle cucine. Il castello, desolato fino a poche ore prima, si era trasformato in un inarrestabile brulicare di vita e non vi era angolo che non fosse occupato da creature dedite agli incarichi più disparati. Giulia sembrava un bambino portato al luna-park per la prima volta e continuava ad aggirarsi fra i tavoli con gli occhioni azzurri che brillavano d’euforia, attaccando bottone con chiunque le si parasse davanti fino a rimbambirlo di chiacchiere. Massimo, invece, era sul punto di avere una vera e propria crisi di identità. Più di una persona, scambiandolo per Edmund, gli si era prostrata davanti chiamandolo “vostra maestà” e lui, al culmine dell’imbarazzo, si era dovuto sorbire la proskinesis senza battere ciglio, gli enormi occhi neri sgranati per lo stupore. Rebecca, invece, non si era fatta perdere d’animo e, armata del suo inseparabile notebook, si avvicinava quasi di soppiatto ai Narniani, sottoponendoli a delle vere e proprie interviste, avida di sapere il più possibile su quel popolo straordinario. Quello che invece sembrava il più taciturno di tutti era Leo, il quale se ne stava in un angolino a consumare il suo pasto, l’aria pensosa e imbronciata e lo sguardo perso nel vuoto. La cosa mi preoccupò. Non era cosa degna del mio fratellino quella di isolarsi dal resto della banda. Era come se ci fosse qualcosa che non andava. Poi, notai la sua espressione e subito mi balenò alla mente un ricordo di cinque anni prima, quando anch’io, sentendomi di troppo in una situazione del genere, mi ero allontanata dal resto del gruppo, restando sola con i miei pensieri. Possibile che Leo si fosse innamorato?

                                                                                                                                                    

Ci avviciniamo alla fine con questo capitolo, la cui stesura mi ha strappato non poche risate!
Ringrazio sin da ora quelle due suocere di Edmund e Peter per essersi prestati così docilmente a una simile parte senza opporre resistenta e mi scuso con i lettori se, nonostante l'esplicito tentativo di affogamento da parte dell'intero cast, Peter sia sempre quello di prima, ma, vabbé, ci ho provato a migliorarlo. Se qualcuno vuole avanzare un'ipotesi razionale a tutto questo, sarò lieta di ascoltarlo.
Ringrazio anche tutti i miei lettori, che ogni settimana leggono e commentano questa fiction da ormai quasi un anno e non sembrano mai stancarsi delle avventure di Cate e i suoi amici. Mille volte grazie, siete mitici!^^
Ora non ci resta che salutarci, in attesa del prossimo aggiornamento (il che, ve lo prometto, arriverà molto presto).
Un bacio grande!
vostra
Sunny

 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 20
*** Crepuscolo blu ***


Crepuscolo blu
 



La donna sorrise dolcemente verso di me, i grandi occhi neri che brillavano come due stelle lontane sui lineamenti diafani del volto illuminato dalla luce lattiginosa della luna piena. I suoi lunghissimi capelli castani erano raccolti in due trecce che si intrecciavano elegantemente sulla nuca, lasciandole scoperto il collo bianco come la neve, abbracciandole il lungo vestito giallo e verde che le avvolgeva le membra. La giovane tese una mano verso lo specchio, sfiorandone la superficie gelida e trattenendo a stento un brivido di emozione. Quella donna ero io, come mai avrei osato immaginarmi nei miei sogni più sfrenati, eppure eccomi lì, una principessa, una regina, una creatura da sogno bella e determinata, racchiusa in quel racconto che tanto avevo amato e che ora mi stava portando via con sé. La stanza alle mie spalle riluceva della pallida luce lunare che penetrava delicatamente dalla finestra spalancata sul mare, riflettendosi dolcemente sulle superfici lucide dei mobili della mia stanza, fremendo timida e leggera come il sottile tendaggio color lavanda che si muoveva lentamente al ritmo del respiro del vento. Chiusi gli occhi e inspirai il profumo del mare che entrava dall’esterno, lasciandomi inebriare dalla sua sensuale dolcezza. Sorrisi, immergendo le mani in una brocca colma d’acqua profumata e detergendomi i polsi di quel prezioso unguento, proprio come avrebbe fatto una regina dei tempi passati, una di quelle di cui tanto avevo letto sui libri di scuola, in un tempo che ormai mi sembrava lontanissimo. L’imbarazzo iniziale che mi aveva sorpresa nel momento in cui mi avevano posato la corona sul capo era come scomparso. Era chiaro che i Pevensie avevano voluto quella parte per me e il Libro aveva acconsentito affinché soddisfacessi la loro volontà. Le sue pagine mi avevano dato il coraggio e la determinazione che servivano a superare quel terribile momento,  le sue parole avevano fatto di me colei che avrei sempre desiderato essere, la giovane donna che avevo temuto di non diventare nel momento in cui avevo visto Edmund diventare un re, il giorno in cui ci separarono.
“Sei bellissima, Cate” udii la sua voce che mi parlava alle spalle.
Mi voltai con un sorriso. Per la prima volta dopo tanto tempo, eravamo completamente soli.
“Grazie” gli risposi sorridendo e avanzando lentamente verso di lui.
Edmund mi prese fra le sue braccia, percorrendomi il volto con le labbra. “Ho sempre sognato questo momento” sussurrò dolcemente.
“Anch’io. Anche se più di una volta ho temuto che non arrivasse mai”.
Gli tuffai le dita fra i riccioli scuri, baciandolo con tutta la passione che avevo. Mi sentivo felice, radiosa come non ero mai stata in vita mia. Lui era lì, bellissimo, perfetto, dolce e romantico come un essere umano può solo sognare ormai, che mi tirava dolcemente a sé, senza più avere paura di me, né io di lui.
“Ti amo, Cate” mi disse in un orecchio. “Ti amo”.
Le sue labbra incontrarono ancora le mie, le mie dita che percorrevano i tratti delicati del suo viso, le sue mani allacciate intorno alla mia vita. Mi trascinò verso il letto senza paura, il nostro bacio che scottava sempre più, le nostre braccia intrecciate senza ferire, l’uno inebriato dell’altra. In quel momento non esisteva più nulla, come se il mondo che stava lentamente giungendo alla fine, quella luna ormai stanca di splendere e quel mare dal respiro sempre più stanco, non fossero stati altro che un ricordo, un pensiero lontano che stava lentamente tornando a rigenerarsi in una nuova vita, ritornando improvvisamente all’antico splendore. Lì insieme a lui non avvertivo più il dolore, la paura di perderlo, di morire. Tutto, ormai, aveva acquistato il proprio senso, il proprio equilibrio, nei nostri baci e nelle nostre carezze, quasi fossero stati loro a muovere l’argano segreto del mondo.
“Vorrei che Narnia potesse finire ora” pensai egoisticamente ad alta voce. “Così questo momento rimarrebbe perfetto per l’eternità, senza che vi sia il tempo per un nuovo attimo di tristezza”.
“Non dirlo” mi rimproverò Edmund. “Non ora. Non ora che tutto è così perfetto”.
Io risi divertita, scagliandogli contro il cuscino e tornando a stringerlo fra le mie braccia, ma gli occhi del ragazzo si erano fatti improvvisamente seri e allarmati.
“Che succede?” gli chiesi, le mani allacciate ancora attorno al suo collo.
“Ascolta”.
Edmund si levò a sedere, risistemandosi la camicia sul petto e avanzando a grandi passi verso la finestra. Io lo seguii a ruota. Uscimmo all’esterno, rabbrividendo all’aria gelida della sera.
“Cosa c’è, Edmund?” domandai stringendomi al suo fianco. Un brivido di paura mi percorse la schiena nel momento in cui si voltò di scatto verso di me.
“Non senti questo rumore?” domandò il ragazzo levando lo sguardo verso il cielo.
Chiusi gli occhi e tesi l’orecchio. In quel momento, un orribile rumore, simile a quello di centinai d’ali di locuste battute nell’aria, colpì con violenza le mie orecchie, accompagnato da una spaventosa vibrazione che ronzava e palpitava in ogni dove, come se quegli insetti mostruosi stessero per fuoriuscire dalle viscere della terra e precipitare dal cielo da un momento all’altro, pungendo e divorando ogni cosa. Gridai con tutta la forza che avevo nei polmoni, portandomi spasmodicamente le mani alle orecchie, cercando di schermare in tutti i modi quell’orribile suono.
“Ci siamo” disse Edmund fissando il mare con gli occhi sbarrati. “E’ finita”.
Improvvisamente, la luce della luna e delle stelle si fece più tremula e opaca, prendendo a spezzarsi in tanti piccoli frammenti che presero a scorrere come lacrime di fuoco sulla volta celeste che in quel momento assomigliava spaventosamente a una cappa di metallo pronta a pioverci sulla testa, imprigionandoci e soffocandoci.
“Edmund!”.
“NAVI IN VISTA! CI ATTACCANO!”.
Ci sporgemmo oltre la balaustra, mentre i fuochi di segnalazione guizzavano dalla sommità delle torri come lucciole in una notte d’estate.
“Dobbiamo andare” esclamò Edmund deciso. “L’ultima battaglia è cominciata”.
“Sono con te, Ed. Per sempre” promisi mettendogli una mano sulla spalla.
Il ragazzo mi guardò dritta negli occhi. Per la prima volta dopo tanti anni, rabbrividii di fronte a quello sguardo selvaggio. Erano gli occhi del Giusto a fissarmi, quelli di un re forte e valoroso pronto a battersi fino alla fine, quelli che avevo incontrato per la prima volta nella prigione della strega in quella notte senza luna.
“Andiamo, Cate” mi disse dolcemente, contrastando le fiamme nere dei suoi occhi. La sua mano era di nuovo protesa verso di me. “Andiamo a salvare Narnia”.
Io annuii decisa. Le mie dita erano già strette attorno alle sue.

                                                                                                                                                    
Buongiorno!
Lo so che è un secolo che non aggiorno, ma non ho avuto proprio il tempo materiale per sedermi alla tastiera e scrivere, per quanti impegni si sono accavallati in questi giorni!

Avrete sicuramente notato che all'inizio del capitolo mi sono fatta un po' prendere la mano...lo so, è stato più forte di me: alla fine, in un momento simile, temo che evitare tutto ciò sarebbe risultato impossibile, se non forzato.
Comunque, proprio per questa scena, mi stavo chiedendo se fosse il caso di alzare il rating, ma vorrei prima consultarmi con voi lettori, prima di passare alla censura. In ogni caso, vorrei chiedervi se prima di segnalare qualsiasi cosa alla gestione, ne parliate prima con me, ok? Grazie, infinite!

Per ora è tutto. Spero di poter tornare ad aggiornare il prima possibile! 
Un bacio!
Sunny



 

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Capitolo 21
*** La rivincita di Susan ***


Per una lettura ottimale dell'ultimo capitolo, vi consiglio caldamente di mettere in sottofondo "Lost in paradise" degli Evanescence.

La rivincita di Susan

Al secondo squillo di tromba eravamo già di sotto, mentre l’intero castello tremava sotto il fragore di passi affrettati sulle scale e del sinistro tintinnio delle armi che venivano distribuite ai soldati. Edmund si precipitò nel corridoio come una tigre, chiamando al volo due ninfe affinché mi aiutassero a prepararmi, ma io mi ero già avventata sul mio baule, estraendo l’armatura  di Susan e sistemandomela addosso. La bellissima regina che avevo rimirato poco prima allo specchio era ora una guerriera. Mi sistemai alla meglio la casacca laddove, essendo appartenuta a Susan, era troppo lunga, ripiegandola alla meglio sugli arti, poi mi sistemai la spada al fianco e mi precipitai di sotto. Per poco non andai a sbattere contro Lucy.
“Scusami, piccola!” esclamai scansandola proprio all’ultimo secondo.
“Non fa niente!” biascicò lei. “Ma dov’è Edmund?”.
“E’ sceso di sotto. Credo sia andato alla ricerca di Peter”.
“Non trovo neanche Leo”.
Mi morsi il labbro. “Dobbiamo portarlo in un luogo sicuro” dissi con decisione.
“Me ne occuperò io” dichiarò Lucy. “Ci vediamo nella sala del trono. Corri, Cate!”.
“D’accordo”.
Senza stare a indugiare oltre, mi precipitai giù dalle scale, infilandomi negli interminabili corridoi marmorei e raggiungendo finalmente la sala dei Quattro Troni. Peter ed Edmund erano già arrivati e stavano confabulando animatamente fra di loro. Quasi non si accorsero del mio ingresso.
“Cate!” esclamò a un certo punto Edmund, notandomi in un angolo della sala intenta a parlare con il nostro generale.
Nel sentire la sua voce, mi voltai di scatto e corsi verso di lui. Avevo una voglia tremenda di saltargli al collo e stringerlo a me alla ricerca di un poco di conforto, ma mi trattenni con tutte le mie forze: un simile comportamento non si addiceva a una regina, tanto meno in un momento del genere. Mi ricomposi all’istante, chiedendogli subito spiegazioni. “Che facciamo?” esclamai.
“Tieni” fu la sola risposta.
Senza darmi neppure il tempo di ribattere, Edmund mi aveva messo fra le mani un piccolo arco ricurvo e una faretra carica di frecce dall’aria fin troppo familiare. Aggrottai le sopracciglia, profondamente contrariata. “Non posso” dissi con decisione, facendo per restituirgli le armi di sua sorella.
“Susan lo vorrebbe” mi esortò il Giusto.
“No!”.
Un tremendo boato scosse il pavimento della sala, vibrando cupo sulle intricate nervature che la sostenevano. Va bene, non era certo il caso di stare a fare gli schizzinosi.
“Sei un incosciente” lo minacciai fra i denti mentre indossavo la faretra e incoccavo l’arco.
In quel momento, un’esplosione di passi affrettati sul pavimento annunciò l’arrivo di Lucy. Un’espressione di puro terrore si delineava sugli enormi occhi blu spalancati e sul rossore delle guance. “Vogliono combattere” fu tutto quello che riuscì a dire ansimando.
“Chi?”.
“Quegli altri! Quelli che sono venuti con noi!”.
“Non ti capiamo”.
Non era vero, avevo capito perfettamente.
“Mio fratello non combatte!” esclamai infatti con decisione.
“No,” tuonò Peter “dobbiamo armarci tutti o verremmo sopraffatti”.
A quel punto, non so cosa mi trattenne dall’irresistibile tentazione di prenderlo a schiaffi. “Come puoi mandare al macello delle persone che non hanno mai preso in mano una spada? E’ solo un ragazzo!”.
Il Magnifico si schermì con un’alzata di spalle. “Anche noi siamo ragazzi e anche noi stiamo andando a combattere”.
Mi affondai le dita nelle guance, serrando gli occhi e gemendo per la rabbia. La follia, ecco che cosa ci stava attaccando. Altro che carlomeniani su navi fantasma e fine del mondo!
“Voi siete pazzi!” esclamai.
“Cate, Narnia cadrà da un momento all’altro, capisci?” replicò Peter indicando il cielo di fuoco che si estendeva alle nostre spalle. “E’ finita, non c’è più nulla da fare”.
Le sue parole risuonarono nella mia scatola cranica simili a una campana a morto. La disperazione mi fece crollare sulle ginocchia. “No!” gridai. “E allora perché combattere? Che senso ha tutto questo? Perché allora arrivare fin qui?”.
A ogni parola, la verità emergeva sempre più crudele e letale. Era stata tutta colpa mia. Io avevo causato tutto quel macello. Se non fosse stato per la mia stupidità, Lewis non ci avrebbe mai sfidati a quel gioco di morte e di inganno e la storia non sarebbe mai finita. O forse no, la realtà era un’altra?
“Vostre Maestà, ci attaccano!” esclamò un fauno facendo irruzione nella stanza proprio in quel momento.
“Basta piagnucolare!” ruggì Peter severo. Una fiamma selvaggia gli brillava nello sguardo color zaffiro, facendolo somigliare incredibilmente a quello di un grande felino pronto ad attaccare. “Coraggio, siamo re, siamo guerrieri! Dobbiamo difendere questo regno fino alla fine, come Aslan ci ha insegnato! Lo abbiamo fatto una volta e lo faremo ancora, in nome di Narnia! Un re non fugge, non abbandona il suo regno, il suo popolo! Avanti, ora!”.
Le sue parole pronunciate con la sua voce chiara e decisa, sotto quello sguardo fiammeggiante, parvero restituirci in una sola volta tutto il coraggio e la forza d’animo che la paura ci aveva momentaneamente sopito. Di colpo eravamo di nuovo lì, come la prima volta, schierati e pronti a combattere per quel mondo magico che ci aveva rapiti dalla monotonia del nostro quotidiano, trasportandoci in un universo che avevamo potuto chiamare casa. E che qualcuno, mosso da chissà quali propositi perversi, era deciso a distruggere.
“Peter ha ragione!” esclamai sguainando la spada. “Andiamo! PER NARNIA!”.
“PER NARNIA!” esclamarono gli altri all’unisono, poi, schierati come un piccolo esercito, ci precipitammo fuori, ponendoci sulle nostre postazioni sulla sommità dei bastioni a strapiombo sull’abisso, sospesi a metà strada fra un mare color sangue e un cielo di fuoco. Man mano che le navi nemiche si avvicinavano, comete fiammeggianti discendevano a tutta velocità dall’alto, striando il cielo di nubi incandescenti e schiantandosi al suolo fra fumo e detriti, divorando e polverizzando ogni cosa ostacolasse il loro cammino.
E’ la fine, pensai mentre lo stomaco mi si stringeva in una morsa dolorosa. Susan! Il mio pensiero si volse verso di lei, verso la mia sorella, la mia amica, uno dei maggiori punti di riferimento che avevo avuto dal mio ingresso in quella famiglia straordinaria. Mi chiesi dove fosse in quel momento, se per caso avesse bisogno di noi, lontana da tutto ciò che conosceva. Improvvisamente, la strana sensazione di coraggio e benessere che mi aveva invasa più di una volta tornò a farsi sentire all’apice della sua potenza, invitandomi con un fiotto di calore proveniente dalle profondità del mio torace a tendere l’arco verso l’orizzonte. In quel momento, diedero l’ordine di prepararsi ad aprire il fuoco. Ci fu il segnale, poi i nostri dardi si abbatterono sulle navi nemiche, mentre dal mare gigantesche palle di fuoco saettavano verso di noi, ancora più micidiali delle comete che cadevano dal cielo. In pochi istanti, ci ritrovammo completamente ricoperti di sangue e detriti. Non vedevo più nulla, né sapevo cosa stava accedendo attorno a me. I miei occhi bruciavano per la polvere, il mio corpo ardeva per le ferite che lo avevano lacerato. Improvvisamente, mi resi conto di essere stesa a terra e di avere gli occhi fissi sulla mano arrossata dal mio stesso sangue.
“CATE!”.
La voce veniva dall’alto, lontana, troppo lontana. Qualcuno mi chiamava dallo squarcio che si era creato quando il bastione era crollato, inghiottendoci completamente in una voragine da incubo. Attorno a me, non un rumore provocato da creatura vivente. Erano tutti morti.
“CATE!”.
“Ho fallito” mormorai mentre le forze mi abbandonavano.
Sentivo che tutto attorno a me ribolliva, soffiava, sprofondava, bruciava. Il nulla avanzava e non avremmo potuto fare niente all’infuori dello stare a guardare. Era finita, era tutto finito. “Hai vinto, Lewis” dissi chiudendo gli occhi, pronta ad abbracciare l’abisso.
Ma qualcosa mi trattenne. Una mano, una mano calda e tremante mi sorreggeva, tirandomi a sé con tutte le sue forze. Levai il capo e mi ritrovai a fissare due bellissimi occhi neri.
“Edmund” gemetti mentre le forze mi abbandonavano.
Il ragazzo mi strinse ancora più forte, trattenendomi dall’abisso che mi chiamava a pochi centimetri da noi, accoccolati sulla cima polverosa del bastione che si stava inesorabilmente sgretolando sotto i nostri piedi. Il ragazzo non parlava. Non ce n’era bisogno, per rendersi conto di come stavano le cose. Narnia stava svanendo a vista d’occhio e lo stesso sarebbe stato per noi.
“Dove sono gli altri?” chiesi frastornata.
Edmund scosse il capo. Mi si gelò il sangue nelle vene.
“No!” esclamai. “NO!”.
Levai lo sguardo, cercando il mare e il cielo di fuoco, ma non li trovai. Attorno a noi c’era la più totale oscurità. E il silenzio.
Hai perso, sciocca ragazzina, tuonò nella mia mente la voce di Lewis. Hai voluto giocare contro di me e io te l’ho permesso, anche se avresti dovuto sapere che avresti perduto. Come pensavi di metterti contro il creatore di questo mondo? Io l’ho generato e io ora lo distruggo e te insieme a lui!
Soffocai a fatica un singhiozzo. Aveva ragione. Ora avremmo dovuto pagare. Mi strinsi ancora di più a Edmund. Saremmo morti insieme. Uniti per l’eternità, come avevamo sempre desiderato nelle nostre folli fantasticherie. Bell’affare.
“Edmund,” dissi con gli occhi carichi di lacrime, pronta all’ultimo passo “ti amo”.
Lui mi strinse più forte a sé, come in un ultimo tentativo di proteggermi dall’abisso. “Scusami” fu tutto quello che riuscì a dire. “Non avrei mai voluto che finisse così”.
Chiusi gli occhi, attendendo il mio destino. Qualche tempo prima mi avevano detto che avrei potuto cambiare, che avrei potuto evitare una cosa del genere. Io volevo solo vivere la mia vita, nel mio mondo, ma insieme a delle persone che non gli appartenevano. Mi maledissi per la mia follia, per la mia incapacità di vedere la realtà per quella che era. Quello era il prezzo dei sogni, il più alto di tutti. Sentivo la voce trionfante di Lewis rimbombare nella mia testa, una voce severa, tronfia, vincitrice.
Sicuro di aver vinto, Lewis?
Il mio cuore ebbe un tuffo. Conoscevo quella voce. Susan.
Hai fatto un grosso errore, caro il nostro Maestro, continuò Susan imperterrita. Un errore imperdonabile. Mi hai lasciata fuori, è vero. Ma come pretendevi di non riuscire a controllarmi, trascurandomi in questo modo? Vecchio sciocco!
Udii chiaramente Lewis digrignare i denti per la rabbia. Ah, maledetta sgualdrina!, abbaiò con rabbia.
Mi hai dimenticata nel mondo degli umani e ora io posso trasformarmi da Personaggio ad Autore, così come la mia più cara amica è diventata da Autore a Personaggio. E adesso sarò io a mettere la parola fine!
Piccola vipera, lo sai che non puoi farlo, la sfidò il suo creatore.
A quelle parole, Susan si limitò a rispondere con la sua risata argentina. Non se non ho qualcuno che mi appoggia, giusto? E quel qualcuno è Cate. Cate, devi fare una scelta. So già che cosa deciderai. Narnia non esiste più, ma il tuo cuore? Dove vuoi che viva, che torni? E’ il tuo ultimo passaggio, Cate. Il nostro ultimo passaggio. Non sprecarlo.
Il cuore prese a correre più velocemente, richiamato energicamente alla vita. Guardai Edmund, i suoi occhi sempre più neri e stanchi, guardai il vuoto che ci eravamo lasciati dietro e il sangue sulle mie mani. Poi guardai la mia anima.
Per sempre” sussurrai dolcemente.
Poi tutto svanì nel nulla.
 
 
Susan mi pettinava i lunghi capelli castani canticchiando tra sé e sé un allegro motivetto, mentre io mi rimiravo con aria pensosa allo specchio nascosto nell’anta del mio armadio. Dalla stanza accanto provenivano le risate sommesse di Leo e Lucy.
“Ho quasi finito” disse a un certo punto la mia amica fermandomi due ciocche di capelli sulla nuca. “Sei bellissima”.
“Davvero?” chiesi io sollevando un sopracciglio.
“Ma sì, mattacchiona!” mi prese in giro lei allungandomi uno scappellotto giocoso sul collo. “Dai, che mio fratello ti aspetta!”.
A quelle ultime parole mi si contrasse lo stomaco. Era vero che ormai il fatto che io ed Edmund stessimo ufficialmente insieme da qualche settimana non era proprio una novità, eppure ogni volta che mi trovavo a prepararmi a uscire con lui era come se fosse la prima volta, con tutto il nervosismo e l’impacciata timidezza che ne conseguivano.
“Coraggio, Ed ha finito le lezioni venti minuti fa. Ormai dovrebbe quasi essere arrivato” mi incalzò Susan invitandomi a rialzarmi.
“Cavolo!” trasalii schizzando in piedi e afferrando al volo la borsa.
Mi voltai un’ultima volta verso di lei. Susan mi sorrise con i suoi meravigliosi occhi blu.
“Sue, non riuscirò mai a ringraziarti come si deve per tutto quello che hai fatto per me” dissi andandole incontro.
La ragazza scoppiò a ridere. “Ma figurati!” esclamò.
“Non dev’essere stata una scelta facile, però…”.
“Perché, ne avevo una? Restare nel nostro mondo significava morire comunque. Narnia doveva finire e noi con lei. Ma tu, con il tuo arrivo improvviso, hai cambiato le carte in tavola, ci hai aperto una nuova possibilità. Grazie a te, siamo riusciti a trovare il modo di uscire dalla nostra dimensione, di cambiare le regole del gioco come il nostro padre umano non avrebbe mai potuto fare. Un tempo eravamo sogno e tu ci hai permesso di diventare realtà. Ti sembra poco questo, Cate? No, sono io che ringrazio te per averci salvato la vita” disse Susan.
La forza delle sue parole mi rigò il volto di lacrime di commozione. Singhiozzando sommessamente, la strinsi forte fra le mie braccia. Lei era sempre stata mia sorella, lo avevo sempre saputo: senza volerlo, Lewis aveva generato una Cate di carta ante litteram, una versione di me stessa che aveva finito per ritrovarsi nel momento più inimmaginabile della propria storia, generando un legame così forte da avere persino il diritto di scegliere come sarebbe stata messa la parola fine. Per tutto il mio ultimo viaggio a Narnia, Susan era rimasta al mio fianco, parlando nei miei pensieri e consigliandomi fino all’ultimissimo istante, sfidando il suo stesso creatore, che l’aveva sempre così tanto disprezzata e sottovalutata, e riportandoci tutti a casa sani e salvi. Alla fine, la Dolce si era riscattata, rivelandosi la più forte e valorosa dei sovrani di Narnia. E se è vero che quando si è re o regine di Narnia lo si è per sempre, allora in quel momento, nella penombra dell’immenso appartamento di Largo Argentina, ero sicura di avere davanti la più grande sovrana che avesse mai abitato il pianeta Terra.
“Ora devi andare, piccola” mi disse Susan baciandomi sulla fronte.
“Sì, sì, hai ragione” dissi io scostandomi da lei. “Ci vediamo dopo, allora”.
“Ciao, Caterina” mi salutò lei.
“Ciao, Susan”.
Scesi di sotto a grandi passi, sentendomi leggera come una piuma. Prima di immergermi nuovamente nel caos selvaggio della metropoli, levai lo sguardo verso l’alto. Susan era affacciata alla finestra della mia camera, immersa nella contemplazione dei tetti di Roma persa nei suoi pensieri. Sorrisi tra me e me. Anche lei quella sera avrebbe visto qualcuno, qualcuno che mai avrebbe pensato di rincontrare un giorno. Chi l’avrebbe mai detto che Caspian sarebbe venuto con noi? Eppure, il giorno dopo il nostro ritorno nel ventunesimo secolo, eccolo lì, spaventato e smarrito in un vagone della metropolitana in piena ora di punta, sotto gli sguardi allibiti dei vari pendolari e il vuoto che si era creato attorno a me nel momento in cui gli ero corsa tempestivamente incontro prima che chiamassero la polizia. E così, Caspian e i Pevensie erano andati a vivere in un solaio a Trastevere, sotto le generose direttive di Massi e Giulia. Ora conducevano una vita normale, da studenti qualunque, dispersi nella confusione variopinta della città. Una vita che condividevamo tutti insieme, come avevamo sempre sognato. Roma era il nostro regno, la nostra casa, ciò che per anni era stato rappresentato da Narnia.
Il tram si fermò con un cigolio assordante davanti ai miei occhi, riversando sulla banchina la sua razione pomeridiana di pendolari di ritorno dal lavoro. In tutta quella massa senza volto, riuscii a distinguere immediatamente un gigantesco paio di occhi neri che mi stavano fissando sorridenti.
“Cate! Ohi, CATE!” mi chiamò Edmund sbracciandosi nella mia direzione.
“Ed!” gridai io correndogli incontro al culmine della gioia.
In un attimo fui fra le sue braccia. Il calore delle sue labbra mi tolse il respiro.
“Allora, com’è andata la giornata?” gli chiesi mentre lui mi cingeva le spalle con un braccio e ci incamminavamo insieme lungo il marciapiede affollato.
“Mmm, bene, fra professori che parlano troppo e amici attaccabrighe” rispose lui con una smorfia carica di ironia.
La cosa mi strappò una risata divertita. “Non dirmi che ti sei annoiato” buttai giù lì.
“Mah, certamente molto meno esaltante del guidare un esercito sul campo di battaglia. Non puoi capire quanto Bianchi sia rimasto ammirato dalle mie conoscenze tecniche a riguardo. Credo di potermi meritare un bel trenta e lode all’esame di Storia Medievale”.
“Il solito fortunato!” lo canzonai io.
“Comunque non posso negare che non è stata la parte più interessante della giornata” proseguì il ragazzo sfiorandomi i capelli con le labbra. “Allora, signorina, dove la porto stasera?”.
“Dove non esistono più regole fra sogno e realtà” risposi io ridendo.
“Allora non ci resta che partire”.
E così andammo per le nostre strade, insieme, io e lui. La città si tingeva degli ori del tramonto e delle luci della sera, vibrando di una vitalità elettrica che mostrava nel suo volto più segreto e affascinante, mentre le nostre vite scorrevano via trascinate dalla folla e dal traffico. Ci perdemmo fra i suoi colori, i suoi rumori, i suoi odori. Quello era il nostro regno e lo avremmo conservato per sempre. Alla fine, Aslan aveva mantenuto la sua promessa.
 
 

FINE
 



                                                                                                                                                                                                                                                                  
Carissimi lettori,
con sommo dolore vi informo che siamo giunti alla conclusione di questa fanfction.
Io per prima mi sento molto triste per essere giunta a termine di questo fantastico viaggio, ma posso consolarvi dicendo che in seguito potrebbero essercene altri. Dal mio canto, sto già pensando a un nuovo progetto; perciò non perdete d'occhio le ultime storie! Vi chiedo solo un poco di pazienza, perché sto finendo di scrivere il mio secondo romanzo e anche lì la cosa si sta facendo un tantino delicata. Se siete curiosi, per ingannare l'attesa potete leggere il primo volume seguendo il link sulla pagina autore.

Per il resto, non mi resta che passare ai ringraziamenti.
Innanzitutto, vorrei ringraziare tantissimo sawadee per avermi convinta a intraprendere questa incredibile avventura letteraria: se non fosse stato per i tuoi preziosi consigli quel giorno sul treno, questa fiction non sarebbe mai nata. Sei un mito!
Mille grazie anche ai miei recensori incalliti, specie quelle due pazze sclerate che, nonostante le varie difficoltà, hanno commentato capitolo per capitolo questa storia dall'inzio alla fine. Siete davvero le più appassionate lettrici che uno scrittore potrebbe desiderare!
Un particolare ringraziamento a tutti voi lettori che per un anno intero avete seguito questo racconto con passione ed entusiasmo. La mia più grande speranza è che vi abbia emozionato, lasciando nei vostri cuori il segno che ciascun Artista spera di regalare a coloro che raccolgono i sogni che lascia dietro di sè. Vi abbraccio tutti.
Un grazie infinito infine a tutte le persone che mi hanno accompagnata in quest'ultimo anno di lavoro, a chi se n'è andato, a chi è arrivato, a chi è ritornato.
Vi voglio tutto il bene di questo mondo!
A presto!
Vostra
Sunny Fortune


 

 
 
 
 
 
                                                                                                                                                                    
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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