Madri di bambole

di Joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1843: 17 anni ***
Capitolo 3: *** 1847: 21 anni ***
Capitolo 4: *** 1849: 23 anni ***
Capitolo 5: *** 1864: Damon e Stefan ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Gweiddi at Ecate, è tutta tua! ^_^

 

Prologo

 

-Cosa vuoi, Katherine?-

Amo la voce di Stefan. Non riesce a risuonare gelida neanche quando vuole ferirmi.

Mi appoggio allo stipite della porta e lo osservo, rimanendo in silenzio.

È seduto sul divano, la testa china; non si prende neanche il disturbo di guardarmi.

La biblioteca è avvolta nella penombra, soltanto il camino spande una luce tenue e tremolante sugli arredi scuri della stanza.

Le ombre vacillano inquietanti, l’odore intenso di fumo e alcol, mescolati a quello più sottile di polvere stantia mi nauseano. Non ho mai amato questo luogo.

Nella mia infanzia, la biblioteca di famiglia era una stanza piccola e linda, arieggiata da una finestra che dava sul bosco.

Riesco ancora a sentire il profumo fresco e pungente dei pini, a vedere le tende sollevarsi per la brezza serale, costringendo mio padre ad allontanare la candela, mentre consulta con instancabile tenacia i libri mastri delle sue proprietà.

Quella dei Salvatore, invece, è sempre stata un luogo opprimente e cupo; ci sono entrata poche volte e solo per cercare lui, come oggi.

Percorro la stanza lentamente e mi siedo al suo fianco; lui non si muove, si rigira tra le dita un piccolo ritratto sbiadito e non alza lo sguardo.

Per un istante, le sue mani incerte e tormentate mi riportano alla mente qualcuno.

…Ed è una persona che non voglio ricordare.

-Serata nostalgica, Stefan?- domando ironica, sbattendo la porta in faccia a tutto ciò che non voglio rivivere.

-Non tutti sono gelidi come te, Katherine.- sibila, guardandomi appena.

Sbuffo seccata e lo lascio credere alla noia che ostento.

Illuso, come sempre.

Ho più demoni di quanti se ne possa trovare all’inferno, l’unica differenza tra me e lui, è che io non li lascio vincere.

…Più o meno.

Gli tolgo dalle mani il ritratto, ma solo per farlo irritare: non sono realmente curiosa di sapere cosa rappresenta.

Gli lancio un’occhiata di scherno, in risposta al suo sguardo d’accusa e mi porto la foto davanti al viso.

Sono due giovani, ritratti nel giorno del loro matrimonio.

Li riconosco all’istante.

Sento la maschera di onnipresente freddezza scivolarmi dal volto, non riesco a trattenerla. Boccheggio sorpresa e lui se ne accorge.

-Li riconosci?- mi chiede stupito.

Vorrei dirgli di no, e ridere della sua assurda sensibilità, ma la mente mi tradisce, riavvolgendo il nastro della mia esistenza e senza che io lo voglia, mi ha già riportato indietro, a molti anni prima.

Osservo la donna nella foto, il velo da sposa a incorniciarle il volto infantile. I suoi occhi ridenti mi scrutano con simpatia, attraverso la carta sbiadita.

E come allora, non riesco a fingere.

-Sono i miei genitori.- m’informa Stefan.

Mi osserva e so che sta disperatamente cercando di decifrare le mie espressioni.

Dolce e malinconico Stefan.

Mi appoggio allo schienale del divano, sospirando appena.

-Lo so.- rispondo, e so anche che adesso mi darà il tormento fino a quando non gli avrò raccontato tutto ciò che ricordo di loro.

A conferma della mia ipotesi, lui incrocia le braccia al petto e solleva un sopracciglio, in attesa.

Non ho niente da dire su Giuseppe Salvatore. L’ho sempre odiato, per molte più ragioni di quante se ne possa immaginare. Ma lei…

Di lei potrei parlare per tutta la notte.

E improvvisamente realizzo, che contrariamente a quanto ho sempre immaginato, non mi dispiace affatto farlo.

 

 

Continua…

 

Angolino dell’autrice: ^_^

 

Non avevo previsto di imbarcarmi nell’impresa di scrivere una long, dopo tutto questo tempo e in un nuovo fandom, questa doveva essere una one shot, magari un po’ più lunga del solito, ma pur sempre una one shot.

Invece è stato subito chiaro, già di primi accenni di stesura, che questi personaggi avevano una storia da raccontare e che non si sarebbero accontentati di un semplice capitoletto.

Per cui ho lasciato che si prendessero lo spazio che desideravano, senza imporre limiti o regole, del resto Katherine le ha sempre detestate… ^_^

Spero di non tediarvi troppo.^^

Joy.

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Capitolo 2
*** 1843: 17 anni ***


1843: 17 ANNI

CAPITOLO 1°

 

1843: 17 ANNI

 

 

La primavera del milleottocentoquarantatre, il mio continuo spostarmi da un capo all’altro del mondo, mi portò per la prima volta a Mystic Falls.

Era una cittadina tranquilla, ma ricca di storia e leggende; ne avevo sentito parlare come di un luogo estremamente potente.

Ed era vero.

Ebbe sulla mia esistenza un potere che non riuscii a contrastare.

Mi addentrai nelle vie del paese; le ville eleganti avevano recinti ricoperti di fiori e rose, alcuni rampicanti tinteggiavano le mura di verde e rosso cupo. Mi fermai ad ammirare i loro intrecci contorti e mi chiesi per quanto tempo ancora sarei riuscita a vivere in questo mondo, strappando la mia esistenza al destino con maneggi e sotterfugi.

Uno schiavo di colore, di ritorno dalle piantagioni, si tolse il cappello in segno di rispetto quando mi vide e scomparve all’interno di una grande tenuta; da una finestra aperta mi giunse il frenetico cinguettare di donne intente a far salotto.

Era una serata insolitamente tiepida e il crepuscolo profumava di erba tagliata, tabacco e caffè.

Già da diversi anni potevo muovermi liberamente alla luce del sole, ma in quel periodo preferivo passeggiare la notte o la sera, quando il buio avvolgeva le forme, rendendole più discrete, meno invadenti.

Mi fermai in prossimità di una grande quercia, all’angolo di una signorile tenuta, e non riuscii a trattenermi dallo sfiorare con la mano il suo tronco nodoso.

Sentii la mia mente reclamare un attimo di quiete, era insolito per me, ma non mi opposi. Quello era davvero un luogo arcano.

Chiusi gli occhi e quando li riaprii, lei era là.

Sedeva solitaria su una panchina del giardino, non lontano dalla strada principale.

Portava i capelli sciolti sulle spalle, scuri e morbidi; la brezza serale li agitava appena…

Non poteva avere più di diciassette anni, ed era vistosamente incinta.

Il suo virginale abito, celeste pallido, creava un contrasto grottesco sul ventre prominente: sembrava una bambina, piegata senza il suo volere ai giochi degli adulti.

Odiai con ferocia l’uomo che le aveva strappato l’innocenza, quant’anche avesse ricevuto l’autorizzazione dal sacramento del matrimonio.

Ma lei era bella anche così, dovetti ammetterlo. Era la purezza che sopravvive alla corruzione.

Era anche terrorizzata, fu subito evidente. Tormentava più che ricamare, una minuscola vestina per neonati, e non la guardava realmente.

In lei rividi me stessa.

E in un attimo di debolezza, forse l’unico in quattrocento anni, decisi che desideravo conoscerla.

Mi avvicinai per parlarle e lei sollevò stupita lo sguardo su di me. Aveva enormi occhi azzurri.

-Posso aiutarla, signora?- mi chiese con voce dolce e incerta. –Mio marito è in casa…-

-Non sono qui per vostro marito, mia cara.- le risposi con tono leggero. –E sono ancora signorina.-

A quelle parole si rilassò, ma lo stupore nei suoi occhi divenne ancora più evidente.

-Perché passeggiate sola, di sera, se siete ancora ragazza?- domandò innocentemente.

-Perché amo infrangere le regole.- dichiarai.

Mi fissò incredula, poi il suo volto si aprì in un sorriso spontaneo, fanciullesco.

-Siete una donna dal carattere inusuale.- commentò allegra e subito dopo si portò una mano alla bocca, pentita di aver detto ciò che pensava. –Perdonatemi…- balbettò.

-Non occorre.- la rassicurai subito. –Mi piace essere inusuale.-

Lei tornò a sorridere, con simpatia.

Era deliziosa.

Le guance rosse, gli occhi splendenti e quel suo candore innato la rendevano irresistibile.

Avrei voluto portarla via con me.

…Ma era gravida.

Non potevo donare l’eternità ad una donna in attesa; ricordavo come fosse crescere in grembo una nuova vita nella totale incertezza, sarebbe impazzita.

M’imposi di attendere. Del resto avevo molto tempo a disposizione e nessuna fretta.

-Quando nascerà il vostro bambino?- m’informai, lasciando cadere la domanda come se fosse naturale cortesia.

-Tra poco più di un mese.- rispose in un soffio. –Spero che sia maschio.- aggiunse poi, esitante. –Mio marito desidera un maschio.- e riprese a tormentare l’abitino con occhi bassi.

Mi sforzai di trattenere uno sbuffo seccato: tipico degli uomini rovesciare sulla loro donna il peso di una decisione che spetta solo al Fato.

E per la seconda volta, mi ritrovai ad odiare un uomo di cui non conoscevo né volto né nome.

Una brezza sottile agitò appena l’orlo delle nostre gonne, i suoi capelli mi sfiorarono la manica del vestito: profumavano di camomilla, come le tisane che preparava mia madre, e di miele…

La nostalgia arrivava sempre dolcemente, sulla scia di odore o di una sensazione, ma non esitava mai a pugnalarmi crudelmente, dopo il primo istante.

Relegai quei ricordi nella parte più buia della mia mente e mi concentrai su di lei; le sue dita continuavano a intrecciarsi inquiete, notai anche un leggero tremore.

-Siete in ansia per il parto.- constatai, indovinando l’altro pensiero che la tormentava.

Lei annuì senza alzare lo sguardo.

-Non siatelo.- la rassicurai. –Andrà tutto bene.-

Fui quasi sul punto di confidarle che anch’io avevo avuto una figlia, senza alcuna assistenza se non quella di mia madre, peraltro, ma la voce di una cameriera giunse a disperdere le mie parole.

-Signora!- la sentimmo chiamare dal portico. –Il padrone vi aspetta per la cena.-

Lei sussultò e si alzò con fatica dalla panchina.

Prima che potesse salutarmi, le posai una mano sulla spalla e assicurandomi che mi guardasse negli occhi, le sussurrai:

-Non avrai più alcuna paura.-

-Non avrò più alcuna paura.- ripeté con voce atona.

-Brava ragazza.- le dissi. –Adesso va’ e dimenticati di me.-

Lei si voltò, incamminandosi verso la villa.

Rimasi ad osservarla nell’oscurità che si faceva sempre più obliante.

Io, una panchina vuota e una veste da neonato abbandonata, che sventolava piano.

 

 

Continua…

 

Angolino dell’autrice: ^_^

 

Joy doverosamente s’inchina per rendere omaggio alle meravigliose, fantastiche, superbe creature che hanno commentato, inserito nei preferiti e nelle seguite, questa storia. Se fosse in mio potere, vi manderei entrambi i fratelli Salvatore a stamparvi un sonoro bacio per guancia, giusto per ringraziarvi a dovere. ^_^ (Ovviamente se tra di voi c’è anche qualche maschietto, vi manderei Katherine, a vostro rischio e pericolo. -_^)

 

Primo capitolo e primo incontro.

Avevo in mente questa ragazza dolce, poco più di una bambina, gettata senza il suo volere in un vortice di eventi impossibili da controllare, e ho voluto credere che Katherine avrebbe percepito subito una sorta di legame empatico con lei.

Non amo i personaggi OOC, e sto camminando sull’orlo del baratro, lo so. Ma la Katerina Petrova umana, che vive nel corpo immortale di Katherine Pierce, mi sta portando in questa direzione.

… E lei vuole fare sempre di testa sua, non segue mai le mie direttive, la maledetta. ^^

 

Al prossimo delirio, passo e chiudo. -_^

 

 

 

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Capitolo 3
*** 1847: 21 anni ***


1847: 21 ANNI

CAPITOLO 2°

 

1847: 21 ANNI

 

 

Sarei tornata subito da lei, ma qualcosa mi trattenne. Forse fu il desiderio di scacciare quella vulnerabilità che lei aveva risvegliato, o più probabilmente fu solo lo scorrere del tempo, per me così irrisorio, a coinvolgermi nella spirale di eventi che mi tennero lontana da Mystic Falls.

Quando finalmente mi decisi a tornare erano trascorsi più di quattro anni.

Riconobbi la tenuta immediatamente, quasi vi fossi stata il giorno precedente.

Era una giornata calda e ventilata, prossima all’estate.

Percorsi il viottolo che scollinava portando al retro della villa, respirando a fondo l’aria zuccherosa dei frutteti, e stupii me stessa sorridendo senza motivo, ebbra di euforia.

Camminai all’ombra degli alberi frondosi e non mi accorsi della sua presenza finché non ne percepii la voce, la sua cadenza: dolce, melodica e fanciullesca.

Era lei, non ebbi alcun dubbio.

Sedeva su una coperta, all’ombra di un’enorme querce e teneva al seno un neonato, avvolto nella sua copertina azzurra. Attorno a lei saltellava allegro un altro bambino, i capelli scuri e l’espressione giocosa. Le somigliava molto.

Tesi l’orecchio, curiosa di ascoltare le sue parole.

Aveva una bella voce, chiara e nitida, e non stridula come quella dei bambini della sua età.

-Quanto dovrò aspettare perché il mio fratellino cresca?- le stava chiedendo.

-Dovrai avere un po’ di pazienza, Damon.-

-Ma giocherà con me?- continuò.

Lei rise. –Vorrà giocare in ogni momento, credimi. Alla fine sarai tu a stancarti di lui.-

Il bambino si fermò per un istante e si avvicinò per osservare il fratellino con sguardo assorto. –No. Non credo.- dichiarò poi, sicuro di sé.

Tornò a correre spensierato, ma dopo un attimo era di nuovo da lei.

-Mamma?- esordì. –Tu vuoi più bene a lui o a me?- chiese incerto.

-Oh Damon!- sbuffò lei bonariamente. –Come posso scegliere a quale dei miei figli volere più bene?- lo afferrò con il braccio libero e lo strinse a sé. –Vi amo entrambi.- rispose. –Sempre, e in egual misura.-

Il bambino le gettò le braccia al collo con impeto, poi si soffermò a guardare di nuovo il fratellino.

-E papà vorrà più bene a lui o a me?- ricominciò.

La vidi sorridere pazientemente dell’insistenza di suo figlio, ma quando scrutò la natura circostante in cerca di una risposta, incrociò il mio sguardo.

Era più matura di quando la vidi la prima volta, le due gravidanze l’avevano trasformata in una donna, ma non avevano offuscato né la spontaneità fanciullesca né l’innocenza.

-Perdonate l’intrusione.- le dissi dopo essermi avvicinata. –Stavo passeggiando e non mi sono resa conto di aver invaso le vostre proprietà.-

-Sono lieta che l’abbiate fatto, Signorina…-

-Pierce. Katherine Pierce.-

-Unitevi a noi, Katherine.- propose, indicando la coperta con la mano. –È una giornata incantevole e noi abbiamo proprio bisogno di compagnia.-

Accennai un inchino, per ringraziarla di tanta cortesia e mi sedetti vicino a lei.

I suoi capelli, illuminati dal sole di giugno, risplendevano di caldi riflessi mogano. Era anche più affascinante di quanto la ricordassi.

… Ed era la madre che io non ero stata.

Eressi l’ennesimo strato di mattoni intorno a quel pensiero e sorrisi al più grande dei suoi figli, confidando che il suo cinguettare frenetico mi avrebbe distratta, ma lui rimase immobile e in silenzio.

Continuò ad osservarmi serio e si rifiutò di allontanarsi da sua madre. Aveva i suoi stessi occhi.

-Perdonate mio figlio.- intervenne lei, cogliendo il mio sguardo. –È un po’ diffidente con gli estranei.- gli avvolse il braccio attorno e lo baciò tra i capelli.- Ma se riuscirete a conquistarlo non potrete più liberarvi di lui.-

-Temo che al momento sia stato lui a conquistare me.- chiarii con una benevolenza così marcata che suonò falsa persino alle mie orecchie.

Ma lei rise e mi ringraziò del complimento, poi mi rivolse uno sguardo attento.

-Ci siamo già incontrate prima?- mi chiese innocentemente.

Sollevai le sopracciglia, cercando di mitigare lo stupore: la mia suggestione non aveva mai fallito prima d’ora.

-Non credo.- le risposi vaga, aprendo con disinvoltura il ventaglio e agitandolo piano. –Sono in paese solo da poche settimane.-

Lei scrollò la testa con noncuranza, come se volesse scacciare ogni sospetto e ammettendo il suo sbaglio tornò a discutere del più e del meno.

L’ascoltai incantata.

Era allegra e cordiale, ma non frivola. Ascoltava con la stessa dolcezza con cui parlava e non aveva più l’aria incerta e spaurita del nostro primo incontro. Mi ritrovai a chiedermi da quanto tempo non avessi più avuto un’amica mia pari con la quale poter parlare.

L’ultima volta avevo diciassette anni, un bambino in grembo e il sospetto che Deiana non fosse indisposta, quando suo padre mi fece sbattere la porta in faccia dal domestico, chiamandomi svergognata.

Era passata un’eternità da allora, ma vicino a lei non importava.

Mi sentii viva e di nuovo umana.

Forse fu per questo che non riuscii a portarla con me, neanche quella volta.

Forse furono gli occhi indagatori del maggiore dei suoi figli o la piccola mano del neonato, chiusa a pugno sul suo seno, a trattenermi.

… Oppure fu l’immagine sbiadita della bimba che mi era stata tolta.

Mia figlia.

Quel pensiero, me ne resi conto in quello stesso istante, avrebbe continuato imperterrito a violarmi la mente. Per sempre.

Confusa dall’assalto dei fantasmi del mio passato, non mi accorsi che lei mi aveva rivolto la parola.

Mi riscossi immediatamente e le lanciai uno sguardo interrogativo.

-Voi avete figli?- ripeté.

Mi aveva chiamato signorina e io non l’avevo contraddetta, ma era ovvio che qualcosa non la convinceva.

Mormorai un flebile no ed evitai di guardarla negli occhi, ma seppi da subito che non sarei riuscita ad ingannarla.

Quando mi sentii abbastanza calma da sollevare lo sguardo, lei mi stava scrutando con interesse. Scovò il rimpianto dove le altre persone non notavano altro che superbia e mi sorrise dolcemente.

-Volete tenerlo per un po’?- disse accennando al bimbo che continuava a cullare.

Rimasi sbalordita. Non ebbi neanche il tempo di scrollare la testa in un cenno di diniego, che lei spinse quel fagottino tra le mie braccia.

Il suo peso e il suo calore colmarono un vuoto che non immaginavo tanto profondo.

Cullai il piccolo il modo impacciato, interpretando un ruolo che non mi apparteneva e mi fermai di colpo quando lui aprì gli occhi.

Pensai che avrebbe pianto nel trovarsi lontano dalle braccia materne, invece si limitò ad osservarmi placido e dopo pochi istanti si riaddormentò.

Fu la prima creatura a darmi fiducia.

… E non lo dimenticherò mai.

-Avete due bellissimi bambini.- le dissi piano.

Lei mi sorrise senza rispondere, e quando finalmente trovai la forza di distogliere lo sguardo dal bambino, la trovai cambiata.

Aveva profonde occhiaie scure e un incarnato troppo pallido per essere soltanto un vezzo della moda.

-Non vi sentite bene?- le chiesi, notando per la prima volta il battito accelerato del suo cuore.

-Oh no.- mi rassicurò subito, raddrizzando schiena e spalle. –Sto bene.-

Non le credetti.

Avevo vissuto troppo a lungo per non riconoscere i sintomi della malattia.

-Conosco dei rimedi naturali, sapete.- insistetti. –Forse potrei darvi qualcosa che…-

-Sto bene.- ribadì interrompendomi. Poi mi posò delicatamente una mano sul braccio. –Dovete credermi.-

Fui costretta a desistere.

Osservai il sole risplendere un’ ultima volta sul suo viso, stava calando lentamente.

Suo figlio la chiamò, indicando il sentiero con un dito e lei si schermò gli occhi con la mano, seguendo la traiettoria.

-Mi rincresce, ma devo salutarvi.- mi disse subito dopo. –Mio marito sta venendo a cercarmi.-

Seguii il suo sguardo e individuai la sagoma che procedeva verso di noi.

Mi congedai da lei mentre si alzava e le restituii il bambino.

-Mi farebbe piacere rivedervi, Katherine.- mi disse, prendendo anche la mano del maggiore.

-Ci rivedremo presto.- le promisi sorridendo, e rimasi ad osservare la sua schiena mentre se ne andava.

Non provai nemmeno a soggiogarla, questa volta. Non era necessario.

Sarei tornata molto presto da lei e senza altra scelta se non quella di portarla via con me.

Stava morendo.

 

 

Continua…

 

Angolino dell’autrice: ^_^

 

Al solito, ringrazio di tutto cuore le meravigliose creature che hanno ritenuto importante farmi sapere la loro opinione -non potrei chiedere di meglio ^_^-, le anime pie che seguono questa storia e i lettori che mi sopportano, tutti indistintamente. ^_^

 

In questo capitolo, volevo dare spazio ai piccoli fratelli Salvatore, ma Katherine si è comportata da egoista e gli ha concesso solo una piccola parte, anche se azzarderei a dire che Stefan, in due righe, ha fatto breccia nel suo cuore (non del tutto gelid…Argh!) 0_0!

Katherine è qui, con le zanne snudate, per farmi promettere con le buone che mai più dovrò azzardarmi a renderla così sentimentale.

… Sinceramente, credo che l’asseconderò! ^_^

 

Alla prossima.

…Katherine permettendo! -_-

 

Joy s’inchina e saluta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** 1849: 23 anni ***


CAPITOLO 3°

CAPITOLO 3°

 

1849: 23 ANNI

 

 

Continuai a controllarla con discrezione nei due anni successivi, stando attenta a non mostrarmi mai né a lei né alla sua famiglia. E quando fu chiaro che non avrebbe superato l’inverno, decisi che era il momento di farmi avanti.

Andai da lei in una sera piovosa, fu una cameriera a farmi entrare. Finsi di essere una sua parente di grado lontano e una sua amica, ma avrei potuto risparmiarmi queste menzogne perché nessuno mi chiese niente.

Era ormai chiaro a tutti che la signora non sarebbe sopravvissuta a lungo.

Percorsi lentamente il corridoio buio, determinata a portare a termine il compito che mi ero prefissata.

Non avrei rinunciato questa volta, giurai a me stessa.

Da una porta socchiusa, quella che dava sul salotto, giungeva una lugubre litania e la voce del parroco di paese che salmodiava piano. Mi accostai quanto bastava per vedere uno stuolo di matrone in abito nero, con le mani giunte in ipocrite preghiere.

Sollevai brevemente gli occhi al cielo, infastidita. Non dubitavo dell’esistenza di ogni creatura dell’inferno, ero una di loro, ma un Dio benevolo non aveva mai incrociato la mia strada, neanche quando avevo ancora l’innocenza per invocarlo.

Discosto da loro, Giuseppe Salvatore sedeva sprofondato in una poltrona, la testa china e un bicchiere tra le mani.

Non si accorse neanche della mia presenza e la bottiglia di cognac sul tavolino vicino a lui, me ne diede spiegazione. Era vuota.

Riconobbi in un angolo della stanza il maggiore dei suoi figli: il bambino che aveva ereditato gli occhi di sua madre. Lo osservai mentre si avvicinava con cautela a suo padre e lo chiamava in un sussurro.

Quello alzò brevemente lo sguardo e chiamò a gran voce la bambinaia.

-Non ti avevo raccomandato di tenere i bambini lontani da me, oggi?!- tuonò, appena una massiccia donna di colore entrò nella stanza.

-Perdonatemi, signore.- si scusò quella.

Teneva in braccio un altro bambino, di un paio d’anni. Riconobbi subito anche lui.

-Andiamo, Damon.- continuò afferrando svelta la sua mano restia, e soffocando sul nascere le sue proteste lo trascinò fuori dalla stanza.

Quando mi passarono accanto, la donna mi rivolse un breve cenno di saluto, ma il bambino non alzò neanche gli occhi e dopo un istante percepii chiaramente un singhiozzo.

-Non piangere.- ordinò rigida la bambinaia. –Lo sai che tuo padre non vuole.-

Si chetò all’istante, udii soltanto il suo respiro irregolare mentre spariva nel buio del corridoio.

La stanza dove lei riposava era al piano di sopra.

Mi avvicinai al letto con lentezza, l’aria sapeva di chiuso e di inutili erbe medicinali.

Lei giaceva immobile, le mani abbandonate sul lenzuolo e i capelli sparsi sul cuscino.

Sentii il suo cuore battere incerto, sul punto di fermarsi, e mi chinai a sfiorarle il viso.

Non avevo molto tempo, ma lei aprì gli occhi immediatamente.

-Katherine?- mormorò.

-Vi ricordate di me.- constatai.

-Non siete cambiata.-

Lei invece lo era.

Non aveva più niente della bambina che avevo conosciuto appena sei anni prima. Né il sorriso o le guance rosee, né i capelli splendenti; non aveva più neanche il suo consueto odore, di miele e camomilla.

-Siete venuta per salutarmi?- chiese, sollevandosi appena per appoggiarsi ai cuscini.

-Sono venuta per guarirvi.- chiarii sottovoce, stringendo la sua mano bianca.

-Niente può guarirmi.- mi rispose, distogliendo lo sguardo.

-Qualcosa può farlo.- rimarcai decisa, ma lei scosse il capo.

-Non voglio più provare alcun rimedio.- sussurrò e mi sorprese rispondendo con forza alla stretta della mia mano. –Voglio solo vedere i miei bambini.- continuò, fissandomi intensamente. –Li tengono lontani per paura del contagio.-

Qualcosa s’infranse dentro di me.

Ripensai alla bimba che mi era stata strappata prima ancora che potessi vederla e alla rabbia bruciante che ancora provavo verso mio padre, e seppi che quant’anche le avessi concesso il mio dono, lei non sarebbe mai stata la mia compagna per l’eternità. Sarebbe vissuta vegliando su di loro, per sempre.

-Non desiderate essere libera dalla morte?- le chiesi ancora. –Non desiderate l’immortalità?-

Mi osservò confusa, inclinando la testa sebbene fosse debole; immaginai che non mi avrebbe creduto, ma non vidi ombra di scetticismo nel suo sguardo, solo stupore.

Vide qualcosa di potente in me e non dubitò di quello che avrei potuto fare.

Ma non le importava, semplicemente.

Sospirò debolmente dopo un istante e chiuse gli occhi esausta.

-E vedere i miei figli invecchiare e morire?- ebbe la forza di chiedere, retorica.

Non le risposi. Capii che avrebbe rifiutato comunque.

… E seppi anche, che a dispetto dei miei stessi desideri, non sarei stata capace d’imporle la mia volontà.

Fu l’unica persona che riuscì a piegarmi al suo volere.

Serrai i pugni, odiando l’impotenza che io stessa mi ero imposta, e lei se ne accorse.

Posò dolcemente una mano sul mio braccio. –Devo confidarvi un segreto.- sussurrò con un fil di voce.

Mi chinai su di lei e sentii il suo fiato contro il mio orecchio.

Dopo un istante sprofondò di nuovo nei cuscini, senza più forze: aveva profonde occhiaie e respirava a fatica.

-Badate a loro se potete.- si sforzò di dirmi.

Annuii, ma lei non mi vide ed io lasciai la camera senza salutarla.

Mi voltai solo una volta prima di varcare la soglia e mi resi conto che non avevo mai saputo il suo nome.

… Ma non aveva più alcuna importanza.

Scesi le scale ed entrai nella stanza dove poco prima avevo visto sparire la balia.

Si alzò in piedi, quando mi vide.

-Porta i bambini dalla madre.- le ordinai guardandola negli occhi. – E lascia che li abbracci un’ ultima volta.-

-Sì, signora.- rispose senza esitare e si affrettò ad eseguire.

Lanciai un’occhiata frettolosa al più grande dei bambini, aspettandomi in cambio uno sguardo freddo e sospettoso, ma lui mi sorprese con un sorriso spontaneo, talmente simile a quello di sua madre che mi tolse il fiato.

Mi voltai in fretta. Desideravo solo uscire da quella casa.

L’aria notturna e la pioggia gelida mi fecero sentire meglio, scesi in strada e osservai la facciata della villa, ripensando alle sue parole. Quelle che mi aveva sussurrato all’orecchio.

-Non siate triste. Vivrò per sempre nei miei figli.-

… E perché la sua eredità non andasse perduta, mi assicurai che i suoi figli vivessero per sempre.

 

 

Continua…

 

 

Angolino dell’autrice: ^_^

 

Perdonatemi per quest’orrore, avrei voluto che fosse più empatico. -_-

Uffa.

 

Con questo capitolo si concludono gli incontri tra Katherine e la signora Salvatore, nel prossimo faremo un breve salto nel 1864, prima di ritornare ai nostri giorni con l’epilogo.

Manca poco alla fine di questa storia e come al solito ringrazio chiunque abbia avuto la pazienza di leggere, mentre mi genufletto letteralmente davanti a chi ha avuto il buon cuore di commentare. ^_^

 

Passo e chiudo. -_^

 

 

 

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Capitolo 5
*** 1864: Damon e Stefan ***


CAPITOLO 4°

CAPITOLO 4°

 

 

1864: Damon e Stefan

 

 

I quindici anni che seguirono furono i più dissoluti della mia esistenza.

Il dolore si era trasformato in rabbia; mi ero sentita fragile, vergognosamente schiava dei miei sentimenti, e non volevo esserlo.

Rinnegai tutto ciò che di umano era rimasto in me, seppellii il rimorso e la debolezza sotto un cumulo di cadaveri e placai la rabbia insieme alla sete, con crimini efferati.

Vagai da una capitale all’altra, rifuggendo qualsiasi legame e appagando vanità e desiderio al fianco di scaltre cortigiane.

Ubriaca di potere, provai piacere nel piegare al mio volere ogni uomo influente che incrociavo sul mio cammino, e godevo mentre lo osservavo perdere tutto.

Ma l’estasi suprema la provavo nell’infangare senza pietà il perbenismo della società nascente.

Ammaliai vergini ingenue e timorate di Dio, affinché aprissero le gambe di fronte ai loro zotici servitori; costrinsi promettenti rampolli di nobili famiglie a rifiutare vantaggiosi matrimoni con belle ragazze, inducendoli a trastullarsi tra loro, e risi di malsana soddisfazione nel vedere le loro vite rovinate.

Tutto per il mio egoistico piacere.

… E per dimenticare che potevo provare altro.

Finché la rabbia non si esaurì, lasciando il posto ad un gelido e minuzioso desiderio di vendetta.

Contro chi si rivolgesse il mio astio, ad oggi ancora non saprei dirlo.

Forse verso mio padre, che mi aveva cacciata da casa, o Klaus che mi aveva tradita. O più probabilmente solo verso me stessa, quella ragazzina umana che ero stata e che ancora viveva dentro di me. Quella che mi aveva impedito di ottenere la compagna che desideravo.

Ma qualunque fosse la risposta a quella domanda, alla fine mi risolsi a rovesciare tutto su di un unico capro espiatorio: Giuseppe Salvatore.

Mi convinsi che lui meritasse la mia vendetta, e ancor oggi sono convinta che tra tutte le mie vittime, lui fosse tra quelle meno innocenti.

Architettai un piano che mi rendesse sua ospite e partii per Mystic Falls.

Avrei voluto distruggere l’intera famiglia, cancellare la debolezza insieme al dolore, ma su subito chiaro che sarei uscita sconfitta da quella battaglia, di nuovo.

Lei aleggiava ancora all’interno della tenuta.

La vidi ridere come quando era ragazzina, in un angolo della stalla, mentre Stefan spazzolava con vigore il manto lucido della sua cavalcatura.

Indossava di nuovo il suo virginale abito azzurro e portava i capelli sciolti sulle spalle. Era bella come la prima volta che la incontrai.

Il mio buonsenso vacillò, la prima volta che scorsi la sua figura; da molto tempo avevo smesso di essere scettica per quanto riguardava il soprannaturale, per ovvie ragioni, ma non potevo credere che lei esistesse ancora in forma umana.

-Vivrò per sempre nei miei figli.- mi aveva detto.

La osservai ancora e poi guardai Stefan: parlava piano alla sua cavalla, accarezzandole il muso.

Portava la camicia arrotolata, sugli avambracci forti…

-Venite ad accarezzarla, Katherine.- disse quando si accorse di me. –È molto dolce e mansueta.-

Mi rivolse uno sguardo luminoso, porgendomi la mano; mi voltai verso di lei e la vidi annuire impercettibilmente, quasi a volermi dare la sua benedizione.

Capitolai.

Pochi giorni dopo la vidi correre leggiadra sul viottolo nel retro del giardino, la seguii stregata e lei mi condusse danzando alla grande querce, sotto la quale ci eravamo rilassate molti anni prima.

Vi trovai di nuovo Stefan, seduto sull’erba e immerso nella lettura di uno dei suoi libri di poesia.

Cercai lei con lo sguardo e la vidi nascondersi dietro il tronco, ridendo. Poi mi strizzò l’occhio e scomparve.

-Katherine?- mi chiamò lui nello stesso istante. –Venite a sedervi vicino a me.-

-Non vorrei interrompere le vostre letture…- gli risposi, ancora un po’ scossa.

-Non ho bisogno di altra poesia, se voi siete accanto a me.- mi sussurrò dolcemente, chiudendo il libro.

Trascorremmo insieme l’intero pomeriggio.

Mi sentii felice, come se lei mi avesse donato di nuovo alcuni istanti di umanità attraverso suo figlio.

Quando scese la sera, mi riaccompagnò alla villa e trattenne per un istante la mia mano prima di salutarmi.

-Qualche anima celeste vi ha messo sulla mia strada, Katherine.- mormorò, sfiorandola appena con le labbra. –Perché non ho mai amato nessuna prima di voi.-

M’innamorai di lui.

Del bambino che avevo stretto tra le braccia quando aveva solo pochi mesi di vita e che mi aveva dato fiducia senza chiedere niente in cambio.

Lo osservai di notte, di nascosto, cercando d’individuare sul suo volto i tratti di quel bambino, ma non ne trovai. Solo l’abbandono della sua mano sul guanciale mi riportava alla mente la sensazione dolce e appagante che avevo provato molti anni prima, tenendolo contro il mio seno.

Lei, nella sua camicia da notte immacolata, seduta sulla vecchia sedia a dondolo, sembrava dirmi che con lui sarei stata felice.

E lo fui davvero, per il breve tempo che ci fu concesso.

Da Stefan seppi anche che suo fratello serviva nella Confederazione, per volere del padre.

Soffocai un moto di stizza.

Avevo giurato a me stessa e a lei di proteggerli entrambi e quell’idiota di suo marito aveva spedito il primogenito in guerra.

Odiavo quell’uomo.

Mi risolsi ad intervenire alla prima occasione.

Damon tornò a casa un mese dopo, per una breve licenza.

Stavo trascorrendo con Stefan un piacevole pomeriggio tra i viali ombreggiati della tenuta, quando lui mi si parò di fronte, con la sua uniforme grigia impolverata dal viaggio e l’espressione giocosa.

Mi tolse il fiato.

Se Stefan possedeva solo la dolcezza di sua madre, Damon ne era il ritratto.

Non la vidi mai comparirmi davanti le volte che mi ritrovai sola con lui, non era necessario.

La vedevo chiaramente nei suoi occhi, nel modo sincero e spontaneo in cui il sorriso si affacciava sul suo volto, nel desiderio di giocare con me, quasi mi ritenesse sua pari.

-Finalmente ci conosciamo, signorina Pierce.- mi disse disinvolto, togliendosi il cappello. –Spero che mio fratello non vi abbia tediato troppo con i suoi libri, mentre non c’ero.- e gli mollò una sonora manata sulla schiena.

Non attese neanche la mia risposta, scoppiò a ridere e abbracciò suo fratello.

-Mi sei mancato.- gli sussurrò, con un tono di voce che non avrei mai udito se fossi stata umana.

Era impulsivo e sincero, e c’era qualcosa di disarmante nel modo in cui mi osservava meravigliato, sgranando gli occhi.

-Siete la creatura più incantevole che abbia mai visto.- disse poi con semplicità.

La sua voce era molto diversa da come la ricordavo, ovviamente, ma aveva mantenuto la stessa cadenza dolce e il tono profondo.

-Lieta di fare la vostra conoscenza, signor Salvatore.- gli risposi con un breve inchino.

-Il signor Salvatore è mio padre, Katherine.- rise giocoso, strizzandomi l’occhio. –Chiamatemi solo Damon.-

La sua schiettezza mi conquistò e prima che potessi riflettere mi ritrovai a baciarlo sulla guancia, in punta di piedi, come facevo con mio fratello quand’ero ancora umana.

Lui mi osservò stupito e tentò in modo impacciato di nascondere l’imbarazzo.

L’adorai se possibile ancor di più: aveva ereditato l’innocenza di sua madre, sebbene mitigata dall’ardore maschile.

Dentro di me si risvegliò il desiderio che avevo provato per lei molti anni prima e sebbene amassi Stefan senza remore, mi ritrovai a bramare lui con tutte le mie forze.

Prima che potessi escogitare un piano che unisse le mie promesse ai miei piaceri, mi ritrovai a passare la notte con lui.

Lo vidi una sera, mentre tornavo da caccia. Era seduto sui gradini del portico con un bicchiere di liquore tra le mani, sollevò lo sguardo pensieroso e mi osservò stupito.

-Non è prudente per una ragazza come voi, aggirarsi da sola per la tenuta, di notte.- disse, con un espressione seria piuttosto insolita per lui.

-So badare a me stessa, Damon.- lo rassicurai.

Lui si alzò i piedi e mi si parò davanti. –Lo so.- mormorò, e dopo avermi accarezzato la guancia, mi baciò le labbra.

Non ho mai saputo se già quella sera lui fosse stato a conoscenza della mia natura, ma certamente fu un’amante appassionato.

-Siete bellissima.- boccheggiò, quando mi svestii di fronte a lui, e non parlò più per tutta la notte.

Risvegliò l’istinto e tutto ciò che di sovrannaturale albergava in me e mi amò con la dedizione e l’intensità di chi non teme niente.

Non aveva paura di me.

Al mattino fui abbastanza lucida da rendermi conto che le sue prospettive di vita sarebbero state esigue se avesse continuato a fare il soldato.

Così lo ammaliai perché lasciasse la Confederazione.

Era ormai chiaro che non potevo fare a meno di nessuno dei due; avevo abbandonato la vendetta e le minacce di distruzione, desideravo solo che loro potessero vivere per l’eternità.

… Possibilmente con me.

Mi rimaneva quindi, un'unica cosa da fare.

Dargli il mio sangue prima che quell’invasato che avevano come padre, li facesse uccidere entrambi, in nome della sua santa purificazione.

 

 

Continua…

 

 

Angolino dell’autrice: ^_^

 

Vi risparmio i soliti pallosi commenti sul capitolo e mi limito, come al solito, ad osannare le meravigliose creature che stanno continuando a seguire questa storia. Grazie a tutte!

L’epilogo, tra una settimana. Sopportatemi ancora un po’. ^_^

 

 

Joy.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo

Epilogo

 

Ho parlato per ore e Stefan non mi ha mai interrotto.

Talvolta ha posato lo sguardo sul mio viso, scrutandolo con intensità e stupore, quasi volesse accertasi che non stessi mentendo, ma ciò che ho raccontato stanotte non è una menzogna, anche se per qualche istante sono stata tentata di farglielo credere.

-Quel che è successo dopo, lo conosci già.- concludo, invece.

Si alza in piedi, aggirandosi per la stanza inquieto e senza meta.

-La vedi ancora?- esordisce poi, voltandosi di scatto verso di me.

-No.- rispondo subito. –Da quando ho cominciato a darvi il mio sangue.-

Annuisce senza convinzione, continuando a misurare la stanza a grandi passi, ma ha i pugni serrati e la mascella contratta.

È rabbia. Furore cieco.

… E tra poco esploderà, ne sono certa.

Non faccio nemmeno in tempo a finire di pensarlo che mi ritrovo sbattuta contro la parete, la mano di Stefan artigliata alla mia gola.

-Perché non ci hai mai raccontato tutto questo?!- mi ringhia in faccia.

Lo scosto da me con un gesto rabbioso, giusto per ricordargli che sono ancora io la più forte tra noi, e lo osservo rotolare sul pavimento.

-Non ne ho avuto il tempo, Stefan.- sibilo in risposta. –Klaus era sulle mie tracce, dovevo fare qualcosa.-

-Non mentirmi…- mormora senza neanche guardarmi, mentre si rialza da terra.

Mi lascio cadere sulla poltrona più vicina, sospirando piano.

Ha ragione.

Non avrei parlato di lei in nessun caso. Non ho mai pensato di farlo, prima di stasera.

La stanza diventa improvvisamente gelida, sebbene il caminetto sia ancora acceso, e nel silenzio imbarazzante mi giunge un respiro flebile.

Sorrido appena, incrociando le braccia al petto. –Adesso puoi anche farti avanti, Damon.-

E mi tolgo la soddisfazione di vederlo comparire, un istante dopo, sulla soglia.

-Desideravi me, Katherine?- mi domanda sarcastico.

-Oh per favore!- sbotto seccata. –Come se non sapessi che hai ascoltato ogni parola, dal corridoio.-

Avanza verso di me lentamente. Sul suo viso, quel maledetto ghigno ha rubato il posto all’innocenza spensierata di sua madre.

… E non posso fare a meno di pensare che la responsabilità di questo sia interamente mia.

-Quello che ci hai raccontato stasera non cambia le cose, Katherine.- sibila, ma la mano che mi scosta i capelli dal viso con dolcezza, si fa beffe del suo tono aspro.

-Rimani ancora la solita stronza, egoista e manipolatrice di sempre.- seguita.

-E se possibile- rincara Stefan. –mi fido di te ancor meno.-

Non che mi aspettassi qualcosa di diverso.

Non ho raccontato loro questa storia perché mi giudicassero una persona migliore.

L’ho fatto per me stessa, perché volevo parlarne a qualcuno, ora che Klaus è vicino più che mai a scovarmi.

E poi l’ho fatto per lei.

Perché meritava che i suoi figli sapessero quanto li avesse amati.

Mi alzo e abbandono rapidamente la stanza, non ho più niente da dire.

Loro invece hanno bisogno di parlarne.

E so che questa volta Stefan non lascerà cadere l’argomento, pretenderà di sapere da suo fratello ogni dettaglio, come ha fatto con me.

-Ti ricordavi di Katherine, non è vero?- gli domanda infatti, mentre sto già salendo le scale. –Per questo non ne hai mai avuto paura…-

Non sento le parole di Damon, ammesso che ce ne siano state, ma conosco già la risposta.

 

-Eri tu.- constatò d’un tratto, mentre osservava il soffitto.

Era coperto solo dal lenzuolo di lino, e la ferita dei miei denti sul suo collo sanguinava ancora leggermente.

-Eri tu, molti anni fa, il giorno in cui morì mia madre.- ripeté.

 

Non gli avevo risposto, quella volta.

Del resto, la sua non era neanche stata una domanda…

Afferro poche cose dalla mia stanza e mi preparo a scendere nuovamente; questa notte la passerò fuori.

Ma prima di andarmene mi soffermo di nuovo sulla soglia della biblioteca.

Loro stanno parlando piano, seduti l’uno di fianco all’altro: lei sarebbe stata felice di vederli di nuovo così dopo centocinquant’anni.

Non m’interessa sapere cosa dicono, ma come al solito non riesco ad escludere la voce di Stefan dalla mia testa.

-Darei qualsiasi cosa in cambio di un solo ricordo di nostra madre.- mormora a capo chino, e suo fratello gli appoggia una mano sulla spalla.

È un po’ impacciato. Sono troppi anni che finge di odiarlo, ma sono certa che non ha dimenticato il periodo in cui ancora si consolavano a vicenda.

Entro brevemente nella stanza, solo per appoggiare sul tavolino ciò che ho recuperato nella mia stanza.

È una piccola veste da neonati: la porto con me da quasi centosettant’anni…

Entrambi mi osservano in silenzio, gli volto le spalle tornando sui miei passi, ma non posso fare a meno di chiedermi, se a differenza delle parole, quella cambierà qualcosa.

 

***

 

Quando rientro alla pensione Salvatore è quasi l’alba, la luce tenue filtra appena dalle tende pesanti.

Stefan e Damon sono ancora in biblioteca e hanno l’aria di essersi appena addormentati; non dubito che avranno passato l’intera notte a parlare.

Due bicchieri vuoti danno bella mostra di sé sul tavolino, di fianco ad una bottiglia di whisky, anch’essa vuota.

La piccola vestina da neonati, con i suoi ricami lasciati a metà da quasi due secoli, spicca sul legno scuro, neanche brillasse di luce propria.

Mi lascio cadere sulla solita poltrona, improvvisamente consapevole che posso e voglio fare un’ultima cosa.

E forse, questa volta lei tornerà a farmi visita…

Chiudo gli occhi e svuoto la mente: non è facile fare questo a due persone contemporaneamente.

E mentre mi concentro per proiettare le immagini di lei nei sogni di entrambi, la sua risata spontanea e cristallina mi risuona nelle orecchie.

-Lieta che tu sia felice, Suzanne.- le sussurro appena.

 

 

FINE.

 

 

Saluti e ringraziamenti:

Se siete giunti fin qui, significa che mi avete sopportata durante questi miei deliri abituali, per cui non posso esimermi dal prostrarmi a vostri piedi per aver avuto così tanta pazienza. ^__^

Mi azzardo anche a sperare che questa breve storia sia stata, se non altro, una piacevole distrazione, mentre attendiamo i nuovi sviluppi della serie.

 

Ringrazio tutti i lettori, da quelli silenziosi a quelli che hanno lasciato la loro opinione. Il vostro sostegno è stato essenziale. ^__^

 

Un bacio a Gweiddi at Ecate, che con la sua dichiarazione -cito testualmente “… per me dal breve spaccato visto con la sua famiglia, mi era parsa una ragazza molto affettuosa, non ancora la donna fredda di ora che potrebbe mangiarsi un uomo senza neanche chiedergli il nome.”- è stata la prima creatrice di questa storia..

 

Joy s’inchina e saluta.

 

 

 

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