Un'anima che brucia. di Laleith (/viewuser.php?uid=130812)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A burning soul ***
Capitolo 2: *** Sta attenta... ***
Capitolo 3: *** Nightmare ***
Capitolo 4: *** Carboni Accesi ***
Capitolo 5: *** Come pietra. ***
Capitolo 6: *** La via più facile. ***
Capitolo 1 *** A burning soul ***
A King, che mi fa ancora apprezzare la scrittura.
A Yamane, che mi sostiene ed incita sempre.
-Basta con quell’arco! Mi è più utile una spada ben affilata! E arrotala in fretta, non ho tutto il giorno, IO!
Io, io, io. Odiava sul serio quell’auto appellarsi, come se lui, solo e soltanto lui, avesse compiti urgenti da sbrigare.
Uno sguardo d’odio partì dagli occhi che osservavano l’uomo. Era davvero sgradevole, sia alla vista sia all’udito. Barba rossa e non curata. Un vero e proprio cespuglio che spuntava da un terreno abbronzato e rugoso. Il naso appuntito stonava molto sopra a quel volto tondeggiante e mostruoso, pieno di cicatrici e di piaghe causate dal sole. Gli occhi poi. Erano quanto di più maligno esistesse al mondo. Neanche la divinità più antica e malvagia dell’intera storia cosmica poteva avere degli occhi tanto perfidi. Di un azzurro glaciale, piccoli e irrisori, avrebbero scatenato qualunque bestia.
Lord Atili.
Che titolo importante, che carica imponente. Peccato che l’altezza lasciasse a desiderare. A prima vista avrebbe potuto passare facilmente per una botte, ricoperta da un’armatura e da un muschio marcio color ruggine.
E la voce. Una cornacchia si sarebbe offesa al solo paragone.
-Non osare guardarmi a quel modo!
L’acuto riecheggiò nella piccola stanza quando il Lord si accorse dello sguardo irato e subito preparò il proprio braccio, affinché potesse colpire il bersaglio.
Una figura però s’intromise fulminea, bloccando l’arto dell’uomo prima che potesse abbattersi sulla sua vittima.
-Signore non lo faccia: altrimenti non finirà mai il suo lavoro e la sua spada non trafiggerà nessuno.
Anche se l’unica cosa che poteva vedere erano le spalle, sapeva che due profondi occhi neri stavano tentando di convincere, con sguardo fermo e instancabile, l’omino che gli era di fronte. Il grande Atili arrivava a malapena al suo petto. Nemmeno.
La piccola botte umana emise un ringhio unito a uno sbuffo, mentre si rassegnava ad abbassare il braccio.
La fermezza di quel ragazzo gli era sempre piaciuta. Ma quel suo difendere sempre e comunque chiunque lavorasse con lui, lo avrebbe certamente messo nei guai, prima o poi.
-Hai ragione ragazzo. Bada bene, però. Se non fa in fretta, vi frusterò entrambi.
Solito tono scocciato di quando il moro lo metteva a tacere. Un ghigno però gli illuminò in modo macabro il volto orrendo, alla sola idea della schiena lacerata dalla sua frusta dei due ragazzi.
Uscì dalla stanza, arretrando velocemente verso la porta.
Sembrava un cane che, spaventato dal suo padrone, indietreggiava con il terrore di abbassare per un solo attimo la guardia. Anche se il lord continuava a fingere uno sguardo altezzoso.
Il ragazzo rimase qualche attimo in piedi, le mani sui fianchi, la schiena leggermente ricurva e la testa bassa.
-Devi smetterla. Non aspetta che un tuo passo falso e il tuo atteggiamento mette a repentaglio il tuo lavoro, o peggio…
Aggiunse tetro.
Aveva parlato senza voltarsi, con voce seriamente preoccupata.
Ricordava ancora il suo primo giorno…
La sosta davanti al castello era stata interminabile. Due giorni e tre notti ad aspettare che qualche anima pia decidesse di aprire quelle stramaledette porte, affinché una sola, semplice opportunità potesse essere colta. Un lavoro, era l’unica cosa che voleva da quel posto. E quello era l’unico posto in cui voleva trovarlo.
Quando però, il primo vero pensiero di cedimento aveva iniziato a farsi strada nella sua mente, il volto di un ragazzo era apparso dal portone della servitù.
Occhi neri come la pece, sguardo spento ma saldo. La pelle era scura, come quella di chi ha passato tanto, tantissimo tempo a lavorare sotto il sole, ma per nulla rovinata. Dimostrava poco più di vent’anni, nonostante la postura e la compostezza lo facessero somigliare ad un uomo provato da mille battaglie, prossimo al congedo. Eppure non si trattava di un cavaliere. I vestiti non lasciavano dubbi. Delle semplicissime braghe di lino marrone e una camicia, dello stesso tessuto, bianca.
Il suo volto esprimeva sarcasmo e curiosità.
Non poteva di certo biasimarlo. La domanda che uscì dalle sue labbra, poi, era più che legittima.
-Quale giovane donna, sana di mente, verrebbe a implorare per giorni interi un lavoro nella dimora di Lord Atili?
Note dell'autrice:
Saaaalve!
Questo è solo un esperimento e quello che avete appena letto è solo un assaggio. In assoluto il primo racconto che scrivo, perciò in caso di critiche, errori, o altro, non esistate a farmelo notare, perchè tengo molto a migliorare!
Inoltre ringrazio chi è giunto fin qui! |
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Capitolo 2 *** Sta attenta... ***
Un mese prima
Gabor osservava la ragazza che aveva di fronte con sarcasmo e curiosità.
Capelli lunghi e ramati incorniciavano un volto snello e dai lineamenti delicati. Gli occhi erano grigi, come le nubi prima di un temporale. La pelle diafana sembrava doversi sbriciolare sotto il primo raggio solare, tanto appariva delicata.
Era troppo bella per voler lavorare in quel luogo. E troppo giovane per volersi rovinare, di sua spontanea volontà, nella residenza di Atili. Ma era anche strano che a quell’età non fosse già sposata. Dimostrava, più o meno, la sua stessa età. Forse un paio di anni in meno di lui.
-Allora?
Aggiunse, notando lo sguardo della ragazza indugiare su di lui, come a studiarlo.
Per un attimo si sentì a disagio. E lui non si sentiva mai così.
Incrociò le braccia al petto, poggiandosi allo stipite della porta. Nonostante si sentisse a disagio, non c’era motivo di darglielo a vedere. Ostentare sicurezza era un gioco da ragazzi per Gabor.
-Una che non ha altre possibilità.
La ragazza mosse un passo verso di lui.
Di alternative, in verità, ne aveva, ma nessuna poteva soddisfarla come quella che aveva di fronte.
Andarsene era impensabile. Sposare il falegname, un incubo.
-Non ci servono altre domestiche. Puoi anche andartene e cercarne di nuove.
Disse tranquillo il ragazzo, voltandosi verso l’uscio e già pronto a non rivedere mai più quella giovane.
Lei non poteva saperlo, ma le stava facendo un favore.
-So affilare le lame, pulire le armature, creare frecce. Potrei aiutare il fabbro…
La ragazza quasi lo implorò, rincorrendolo.
Ma non si sarebbe inginocchiata, né avrebbe chiesto pietà. Gabor lo aveva capito benissimo. Gli occhi grigi della ragazza erano fieri e anche impertinenti.
Una ragazza che vuole fare il fabbro. Questa non l’aveva mai sentita. L’anziano che aveva quel compito, però, necessitava davvero di aiuto. Ormai non riusciva più a sostenere le richieste incresciose del Lord e dei suoi figli, oltre alle richieste delle guardie del castello.
Si voltò scocciato verso la giovane, prendendole le mani.
Nonostante fossero delicate, si potevano scorgere chiari segni di lavoro.
Sul palmo erano presenti diversi calli, mentre le nocche erano ruvide e arrossate.
Di certo non stava mentendo.
-Contento?
Ironizzò la giovane, togliendo le proprie mani da quelle del ragazzo.
Odiava il contatto fisico.
La metteva a disagio, e odiava quando succedeva.
-Vedremo come te la caverai…
La guardò di nuovo con sarcasmo. Non avrebbe retto nemmeno un mese.
Era troppo bella per quel posto.
Rimase a fissarla ancora qualche istante, come per darle il tempo di ripensarci. Ma in tre notti, ne aveva avuto di tempo. Sospirò rumorosamente, facendo un passo di lato e allargando le braccia, mostrandole l’ingresso.
La porta di spesso legno si apriva su un cortile di pietra che circondava un faggio lussureggiante.
La ragazza attese che il moro chiudesse la porta e le mostrasse dove andare. Non aveva più parlato. Aveva solo sorriso soddisfatta. Otteneva sempre quello che voleva, in un modo o nell’altro.
-Io sono Gabor, comunque.
Annunciò il ragazzo precedendola lungo un colonnato. La ragazza però non gli rispose e lui si bloccò all’improvviso, rischiando che la giovane gli finisse sulla schiena. Si voltò, osservandola con sguardo penetrante. Di certo lui non poteva andare da Atili e dire “Salve signore, una ragazza vuole lavorare per lei. L’ho fatta entrare, però non so come si chiama”. Che figura ci avrebbe fatto? La scrutò da capo a piedi, ben conscio di come i suoi pozzi neri fossero in grado di mettere in soggezione lo stesso Lord.
-Deia.
Si arrese la ragazza.
***
-Ma il mio cavaliere dall’armatura splendente è sempre pronto a difendermi, o sbaglio?
Deia lo canzonò, abbandonando l’arco sul tavolo e andandogli vicino, dopo che le aveva chiesto di smetterla.
Gabor era rimasto a fissare la porta da cui era uscito l’uomo. Sembrava pensieroso, più del solito.
In quel mese aveva imparato a conoscerlo, anche se continuava a essere un mistero per lei.
Era schivo e freddo, ma sempre pronto a sacrificarsi per gli altri domestici. Eppure era diverso da loro.
I suoi compiti erano molti.
Si occupava dei cavalli, della spesa, delle armi, della signora e di cercare nuovi lavoratori. Una specie di tuttofare capo.
Sembrava anche che Atili lo rispettasse. O temesse. O disprezzasse.
In effetti, le espressioni del caro Lord erano tutte talmente simili che potevano confondersi.
Ma Gabor era strano.
-Sono serio De’. Dovresti stare più attenta.
Finalmente si volse a guardarla, e sì, aveva qualcosa che non andava.
Sembrava triste.
La giovane incrociò le braccia al petto, osservandolo. Prima ancora che potesse farsi un’idea di quello che gli era capitato, Gabor uscì di gran carriera dall’armeria, lasciandola sola. A lavorare.
Erano giorni che il fabbro mancava. La vecchiaia lo aveva colpito all’improvviso, così come la lama che stava affilando gli era improvvisamente caduta sul piede, tagliando di netto due dita.
Deia era presente, e potette assicurare che non fu un bel vedere.
Sangue e imprecazioni dappertutto. Una scena orrenda e macabra, resa peggiore dalle piccole dita che aveva scovato sotto il tavolo. Come avevano fatto ad arrivare così lontano dal luogo di origine, non lo sapeva.
Per fortuna aveva lo stomaco forte. Neanche Gabor aveva resistito al conato di vomito che lo aveva colto alla vista della pozza rossa.
Fu proprio per evitare una scena del genere che, dopo aver affilato per bene, la lama, prestò la massima attenzione nel riporla.
Gabor non si era più fatto vedere. Chissà quale compito gli era stato affidato questa volta. Scompariva spesso, sempre con la solita scusa.
Dovevo lavorare!
Perché quello che faceva lei non lo era?
Scese la sera senza che se ne accorgesse. Le armi da affilare aumentavano ogni mezz’ora, perciò era stata costretta a rimanere nell’armeria più del dovuto.
Era molto tardi quando potette concedersi il beneficio di dirigersi nella sua stanza. I corridoi erano deserti, facendo apparire ancora più spaventoso quel castello da brividi.
Nonostante ormai ci abitasse, continuava a sentirsi a disagio. E lei odiava sentirsi a disagio.
Camminava veloce lungo il colonnato che portava all’ala dei servitori, quando sentì un fruscio alle sue spalle.
Si voltò di scatto. Poteva essere stato un alito di vento, o un uccello, o un gatto.
In effetti, non vide nessuno.
Aveva istintivamente portato una mano al cuore, e poteva avvertire il suo battito accelerato.
Chiuse gli occhi, inspirando profondamente e tranquillizzandosi.
Che sciocca, spaventata per un rumore.
Quando riaprì gli occhi, ombra si era materializzata davanti a lei.
Fece per urlare, ma una mano era già corsa a tapparle la bocca.
Note dell'autrice:
Allooora, entra in gioco sul serio Deia. Vorrei sottolineare come i nomi dei pg siano "nomi parlanti"
Gabor significherebbe "eroe" mentre Deia "che brucia"(da cui il titolo)
Non ho altre precisazioni da fare, se non che nei prossimi capitoli ne accadranno delle belle!
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Capitolo 3 *** Nightmare ***
Dove sei?
Dove diavolo sei?
Gabor percorreva di gran carriera i porticati del perimetro interno al cortile di pietra.
Un impeto e un’urgenza che potevano avere solo uomini che cercavano qualcosa… o qualcuno.
Per due giorni era stato costretto a dedicarsi ai mille e più capricci del minore degli Atili.
Cavallo pezzato?
No, nero!
Anzi, sauro!
Meglio bianco!
L’elsa della spada deve essere un’opera d’arte! Portami un artista! Anzi due!
Due giorni da incubo, il cui protagonista quattordicenne aveva trovato la morte in ogni sogno che era stato concesso al moro.
Gabor non aveva mai provato prima il desiderio di uccidere.
Soprattutto non avrebbe mai creduto possibile, per il suo cervello, elaborare le morti più lente e dolorose per il ragazzino, nonché estremamente dilettevoli per sé.
Immaginò gli occhi ghiacciati del ragazzo esprimere sensazioni diverse dalla superbia e dalla tracotanza.
Non gli sarebbe dispiaciuto per nulla appendere per i pollici il ragazzino semicastano, ultimo dei tre figli del Lord, Ilan.
Dopo aver perso quarantotto ore della sua vita dietro quella piaga, che lo aveva obbligato a ricercare oggetti insulsi e introvabili (forse anche inesistenti) solo per capriccio, si era visto costretto a ispezionare l’intero castello per trovare il ragazzo stesso.
Nella sua stanza, non c’era. Nei giardini principali, nemmeno. Nelle stalle, neanche. Nelle cucine, idem.
Sembrava essersi volatilizzato.
Al moro non sarebbe affatto dispiaciuto, se non fosse stato che era affidato a lui e che tutti lo sapevano.
L’unico luogo ancora inesplorato era proprio il cortile di pietra e il faggio che lo occupava.
Il simbolo della casata del castello era proprio quel grande albero e quale nascondiglio migliore di quello?
Gabor si piazzò sotto la fronda, una mano sul fianco e una che grattava nervosamente la testa ricoperta da corti capelli neri.
-So che sei qui, ragazzino. Scendi IMMEDIATAMENTE.
Il livello vocale era alto, tanto che riecheggiò nel cortile, ma non abbastanza da sembrare un urlo.
La voce calma con cui aveva proferito parola impediva che la frase apparisse tale. Era solo una pacata minaccia.
In tutta risposta il ragazzino, dal suo luogo sicuro, gli lanciò in testa un ramo spezzato, non troppo grande da ucciderlo, ma neanche troppo piccolo da apparire innocuo. Specialmente quando arrivava perpendicolarmente al proprio cranio.
Il ragazzo non poté non imprecare, portando le mani a massaggiare la parte lesa con astio.
Quel ragazzino poteva indurre al suicidio anche un narcisista con i controfiocchi.
-Scendi. Ed eviterò di ucciderti il cavallo.
Ennesima minaccia a freddo.
-Puoi anche mangiartelo.
Rispose una voce stridula e affatto adatta a un ragazzo di quell’età. Anche per questo era odioso. Tale padre, tale figlio.
-Io voglio la mia spada affilata!
Ennesimo capriccio.
La spada. Deia gliel’avrebbe volentieri infilata in gola o in altri orifizi, quella lama. Naturalmente dopo aver posto la massima cura nell’arrotarla. Sarebbe stato un gesto troppo carino, altrimenti.
-Per domani sarà pronta. Adesso se non scendi – e credimi, è l’ultima volta che lo dico- farò in modo che la tua morte sembri una caduta da cavallo.
Fu solo un sibilo a denti stretti, ma abbastanza alto da scatenare la reazione del ragazzo.
Questo, preceduto da un rumore di rametti spezzati e foglie mosse, si precipitò di fronte al moro, cadendo in malo modo.
Un ragazzino castano, dai riflessi color ruggine e con gli occhi ghiaccio si mostrò allo sguardo spento del servo. Per sua enorme fortuna, i lineamenti erano quelli della madre.
Gabor non gli rivolse altre parole.
Semplicemente si voltò verso il porticato che l’avrebbe condotto all’armeria.
Le ultime cose che udì, prima di essere inghiottito dalle fredde mura dei corridoi interni, furono gli sbuffi e i passi pesanti del ragazzino.
Se c’era qualcosa che avrebbe voluto cancellare dal suo lavoro, esclusa la sgradita persona di Atili, era il suo essere “multiuso”.
Ogni servo aveva un suo ruolo specifico, ma lui. No, lui era diverso. Perché era cresciuto tra quelle mura, perché aveva conquistato il rispetto di Atili, perché gli metteva paura, perché difendeva gli altri.
Non sapeva dirlo con certezza, ma era il punto di riferimento di chiunque, in quel castello. Nonché il capro espiatorio.
Sulla sua schiena erano ancora evidenti i segni delle frustrate che aveva preso al posto degli altri.
Istintivamente portò una mano alla nuca, infilandola sotto la stoffa leggera che gli ricopriva la schiena. Distrattamente accarezzò con le dita quelle ferite rimarginate, notando come la pelle più chiara fosse rialzata.
Il suo atteggiamento aveva un qualcosa di masochistico, lo sapeva perfettamente, ma non poteva non sacrificarsi.
Si ritrovò quasi senza accorgersene nell’armeria.
-Il ragazzino vuole la sua spada, De’.
Sbuffò varcando la porta di legno spesso, utile ad attutire ogni rumore metallico proveniente da quella piccola saletta rovente.
Il ragazzo rimase impalato sulla soglia qualche istante, prima di accorgersi del silenzio inusuale e dell’assenza della ragazza.
Si guardò un attimo intorno, per poi tornare lentamente sui suoi passi, osservando distrattamente i suoi piedi sul pavimento.
In quel mese non aveva mai mancato il suo dovere.
Non poté non provare una piccola, piccolissima, morsa nello stomaco nel costatarlo.
Preso da un’urgenza improvvisa, accelerò il passo, muovendosi sicuro nei corridoi, conoscendo perfettamente la strada che l’avrebbe condotto dove voleva.
Una porta di legno scuro, massiccia come quella dell’armeria, era di fronte a lui.
Portò la mano destra allo stipite, poggiandovi il peso, e la mancina a bussare energicamente.
-Avanti sfaticata! Manco due giorni e subito ne approfitti, eh? Ci sono spade da arrotare, su!
Nessuna risposta.
Attese qualche istante, col cuore in gola. “Sul serio, stai attenta De’”
Le parole che le aveva rivolto gli rimbombarono nella testa.
- Deia? So che sei lì dentro, apri!
La voce subì un netto cambiamento.
Se prima era un urlo sarcastico, adesso era impregnata di preoccupazione malcelata. Aveva anche bussato più lentamente, e con più calma.
Non era da lei non reagire a una battuta.
Bussò di nuovo, quasi senza forze, preso da una nuova contorsione di stomaco.
Sentì qualche passo e una sedia trascinata, poi la porta si aprì di uno spiraglio, quel tanto che bastava all’occhio della ragazza per essere visibile.
-Non sto bene, occupatene tu.
La voce era roca, flebile e spezzata. Come chi aveva appena pianto e urlato.
Gabor sentì un principio di ira e furore nascergli dentro.
Lo sguardo grigio, sempre impertinente e schivo, era spento. Non era più metallo fuso o argento vivo.
Era uno sguardo di pietra, contornato da occhiaie profonde e segni rossi.
La mancina, ancora posata sulla porta, fece un po’ di pressione affinché si aprisse per permettergli di vederla meglio.
Della ragazza che aveva conosciuto era rimasto soltanto l’involucro malandato.
I capelli rosso fuoco erano arruffati.
Le braccia ricoperte di graffi, probabilmente inferti dalle stesse mani che teneva nascoste dietro la schiena.
Il labbro inferiore era spaccato e gonfio. Non aveva neanche provveduto a pulirsi del sangue che le era uscito.
Sembrava un cadavere.
Le occhiaie che prima aveva notato, sull’altro occhio si confondevano con il livido scuro provocato da un pugno.
Gabor ebbe l’istinto di rivoltare il castello, uccidere ogni componente maschile della famiglia, della servitù e della guardia e poi dargli fuoco. Ma Deia era spenta. Non era più animata da quel fuoco che la distingueva dalle altre donne del maniero.
Prima avrebbe riacceso lei, poi avrebbe acceso il fuoco nella struttura.
Deia POV
Un energico bussare la risvegliò dall’apatia in cui era caduta.
Aveva fissato il muro della sua piccola stanza per chissà quanto tempo, dondolando su se stessa senza accorgersene.
Non aveva pianto. Almeno, non aveva versato lacrime.
Aveva urlato, però. E nessuno l’aveva sentita. Proprio come quella notte.
“È solo un brutto sogno. Chiudi gli occhi. Quando li riaprirai, non ci saranno più quelle mani ad artigliarti i vestiti. Non ci sarà più quell’odore nauseabondo di alcol e sudore. Tantomeno sentirai più quel ghigno roco risuonare nelle tue orecchie. È solo un brutto sogno.”
Nonostante la sua mente cercasse di convincerla, di tranquillizzarla, Deia era perfettamente cosciente della realtà di tutte quelle crudeltà. Non si sconvolse nel riaprirli.
Quell’ombra era ancora lì, davanti a lei, intenta a imprigionarla tra il freddo muro di pietra e il suo corpo maleodorante.
Una mano ancora a tapparle con forza la bocca, per impedirle di urlare. L’altra completamente concentrata nel denudarla e ferirla. Nonostante provasse a emettere suoni di qualunque tipo, la voce non voleva uscire, come congelata prima ancora di essere riprodotta.
Era successo tutto troppo in fretta.
Si era sentita trascinata lontana dal corridoio, verso un piccolo passaggio laterale, insignificante e ignorato dai più.
L’uomo le artigliava la carne, concentrandosi sui seni morbidi, stringendoli con malagrazia e strappandole gemiti soffocati di dolore.
In un attimo l’era saltato addosso, svestendosi quel tanto che bastava per portarle via l’ultimo briciolo d’innocenza che ancora custodiva gelosamente.
Un dolore improvviso, forte e, al tempo stesso, utile.
La sorpresa, la vergogna, la rabbia, l’avevano resa un manichino inerme sotto le mani perverse dell’uomo, troppo sconvolta per riuscire anche solo a reagire. Ma il dolore. L’aveva risvegliata.
Lentamente, come se avesse dormito per troppo tempo, le sue membra iniziarono a risponderle, ad agitarsi contro l’uomo per interrompere quanto prima quella congiunzione forzata e violenta.
La mancina della ragazza cercava di allontanarlo, spingendo con tutte le forze sul petto muscoloso dell’uomo.
La mano destra, invece, s’impegnava per liberare la bocca.
Inutilmente.
La mano libera dell’uomo, che prima la graffiava e s’insinuava in luoghi in cui nessun altro era arrivato, afferrò la sua.
La presa era ferrea, volta a lesionare.
Il suono che rimbalzò sulla pietra fu secco. Crack.
L’urlo di dolore le mozzò il fiato, mentre tutto diventava nero per minuti interminabili.
Gli occhi le bruciarono, sfocandole maggiormente la vista inutile nell’oscurità che li avvolgeva.
Il suo unico tentativo terminò all’istante. Era di nuovo una bambola nelle mani di una mente disturbata.
Avrebbe voluto non sentire quelle spinte dentro di sé. Ognuna di queste portava inesorabilmente altra sofferenza.
Avrebbe voluto dimenticare il verso di soddisfazione che uscì dalle labbra dell’uomo, ormai giunto all’apice di un piacere che lei non poteva provare. L’alito alcolico le inondò il collo, facendola rabbrividire di disgusto.
Avrebbe voluto evitare quel pugno, e l’altro, e l’altro ancora.
L’ombra si staccò.
La risata arrivò alle orecchie di Deia come se fosse stata immersa nell’acqua. E in quel momento voleva esserlo. Voleva andare affondo in una pozza d’acqua cristallina, in grado di lavare quella sensazione di sporco e sbagliato che avvertiva, di cancellare ogni traccia della violenza e, perché no, di lei.
Si accasciò al suolo, lasciandosi scivolare lungo la parete senza guardare l’uomo. Sapeva che alzare la testa sarebbe stato solo un inutile invito ad altri pugni. E che la Luna era stata crudele nel non arrivare a illuminarli, quel tanto che bastava a Deia per scorgere i tratti del suo stupratore.
L’uomo estrasse una lama dal calzare, chinandosi alla sua altezza e passando con studiata lentezza la punta affilata sul suo collo delicato.
Costretta a sollevare il mento, avvertì chiaramente la goccia calda scorrerle sulla pelle eburnea.
Chiuse gli occhi, sperando che entrasse più in profondità, strappandole anche la vita per non esser costretta a rivivere quel momento.
Ma non lo fece.
Le riservò un ultimo affronto.
Si alzò di scatto, dandole l’ennesimo calcio nel fianco e dandole della puttana.
Con un’ultima risata si allontanò, lasciandola sul freddo pavimento, certo che non avrebbe mai saputo identificare la sua figura.
-Avanti sfaticata! Manco due giorni e subito ne approfitti, eh? Ci sono spade da arrotare, su!
La voce di Gabor non la spinse per nulla ad avvicinarsi alla soglia. Anzi, si strinse maggiormente le ginocchia al petto, nascondendo il volto tra le rotule.
Non poteva farsi vedere in quello stato.
Non che comprendesse realmente quale fosse.
Sussultò quando il ragazzo le rivolse nuovamente la parola.
- Deia? So che sei lì dentro, apri!
Sembrava tormentato.
No, non gli avrebbe aperto.
Le aveva detto di stare attenta. Lui sapeva qualcosa? Perché quell’avvertimento? Non poteva proteggerla?
Si rese conto che incolpare il ragazzo era inutile. Lo dimostravano i lenti colpi, sempre più deboli, che risuonavano sul legno.
Tremando si alzò, decidendo che una frase sarebbe bastata per allontanarlo.
Spostò la sedia che bloccava l’accesso alla camera. Era stata messa a mo’ di protezione da lei stessa.
Ma non lo ricordava.
Tutto quanto ciò che era seguito alla violenza era sbiadito, in modo da rendere ancora più vivo il dolore provato.
Si sforzò di restare impassibile, aprendo leggermente la porta.
Con l’occhio sinistro osservò il volto immobile di Gabor, leggermente adombrato.
-Non sto bene, occupatene tu.
Non riconobbe nemmeno lei la sua stessa voce. Cosa che non sfuggì al moro.
Una luce che non seppe riconoscere gli attraversò lo sguardo mentre apriva lentamente la porta che li separava.
Il volto del ragazzo si contrasse di un millimetro. I denti, nascosti dalle labbra contornate da una leggera barba, si strinsero convulsamente, come dimostrava l’irrigidimento della mascella.
La studiava e a lei non importava. Lo sguardo d’ira andava bene. La tristezza anche. La pietà, affatto.
Ma sapeva che sul suo volto non avrebbe mai trovato simile espressione.
Il ragazzo, appoggiato allo stipite fino a quel momento, mosse un passo verso di lei, spostando la mano che prima batteva sulla porta accanto al viso di Deia, come a volerla toccare.
La ragazza, istintivamente, fece un balzo indietro, sgranando gli occhi spaventata.
Per un attimo quella mano amica le era sembrata la stessa che le aveva tappato la bocca.
Non si scompose. Semplicemente riabbassò la mano ed entrò nella stanza, chiudendo la porta alle sue spalle e poggiandosi a essa.
-Io non ho alcuna fretta.
Affermò fissandola negli occhi, esercitando quello strano ascendente che sapeva di avere su chiunque.
Non gli importava quando e quanto. L’importante era che gli spiegasse cosa fosse accaduto. E Deia lo sapeva.
Angolo dell'autrice.
Chiedo enormemente scusa per il ritardo, spero non ricapiterà.
Non ho molto da dire, se non che spero di non aver esagerato, anche se non credo, sono stata attenta.
Alla prossima :) |
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Capitolo 4 *** Carboni Accesi ***
carboni accesi
Sostenere
uno sguardo non
era mai stato così difficile.
Stare
in silenzio non era
mai stato più facile.
Un
paio di iridi nere
cercava in tutti i modi di incatenarne un paio grigie sfuggenti.
Il
volto cui appartenevano
quei pozzi scuri sembrava immobile, così come il corpo che
sormontava.
L’unica
nota sbagliata
risiedeva nel leggero tremolio, malcelato, della mano.
Ogni volta che per
sbaglio lo sguardo ricadeva su una ferita, istintivamente si chiudeva a
pugno,
pronta a scattare verso il responsabile.
Ma
quella mano furiosa si sarebbe
accontentata anche di un innocente o di un muro, pur di sfogarsi.
Era
rimasto per più di
venti minuti poggiato alla porta, a osservare la ragazza.
Non
l’aveva fermata
quando era indietreggiata, di fronte al suo sguardo.
Non
l’aveva fermata quando
aveva provato a cacciarlo.
Non
l’aveva fermata quando si era richiusa in se
stessa per sfuggire le sue domande.
Semplicemente,
le aveva ricordato che era
lì. E che non se ne sarebbe andato.
E
sarebbe rimasto senza
batter ciglio, senza pronunciare una sola parola, se osservarla in
quello stato
catatonico non gli avesse provocato sempre più desiderio di
uccidere.
Seduta
con le spalle
dritte e la testa alta, aveva sostenuto le sue occhiate indagatrici con
meno
energia del solito. Nessuna, a dir la verità.
Gabor
uscì senza dirle
niente dalla stanza. Forse aveva deciso che dopo più di
mezz’ora, aspettare che
lei si confidasse con lui, era una perdita di tempo.
Non
lo aveva fatto per un
intero mese, figurarsi ora che era solo l’ombra di quello che
era stata.
Si
ritrovò a fissare un
punto a caso davanti a lei, senza realmente vederlo, mentre una
sensazione alla
bocca dello stomaco la fece rabbrividire.
Chiuse
gli occhi un istante, un
istante di troppo però. Delle mani erano tornate a
stringerla, a graffiarla, a
violarla.
Sentì
dei passi precedere
una figura sulla porta. Riaprì di scatto le palpebre,
puntando le iridi contro
la direzione del rumore. La paura per un attimo l’aveva
spinta a voler urlare.
Paura?
Lei non aveva paura
di niente!
Lei
era forte.
Lei
era combattiva.
Lei
era impertinente.
Lei
era indisponente.
Lei
era… ferita.
Le
piaghe che la
deturpavano però erano solo la facciata.
Dentro.
Era dentro che si
sentiva lacerata. Difficilmente sarebbe guarita. Difficilmente lo
avrebbe
mostrato, se fosse stata completamente conscia della
situazione.
Ormai
non
voleva neanche più provare a guarire.
L’ombra
che si stagliava
sulla soglia si rivelò ben presto un Gabor pronto a
ripulirla.
Una
brocca d’acqua pulita
e un panno tra le mani.
Con
aria di sfida sistemò
l’acqua sul piccolo tavolino al lato del letto, dove Deia
sedeva, e afferrò la
sedia, collocandola davanti agli occhi della giovane che seguivano
guardinghi i
suoi movimenti.
La
ragazza sarebbe
volentieri scoppiata a ridere, di fronte ad un’espressione
come quella, ma
sarebbe risultata solo in preda alla follia, nella situazione in cui si
trovava.
Il
servo, infatti, si
muoveva lentamente, evitando gesti bruschi.
Sembrava
temesse di
spaventarla, come se, con un movimento di troppo, la ragazza sarebbe
tornata la
tigre che conosceva e gli sarebbe saltata alla gola.
E
se da una parte lo
temeva, dall’altra lo sperava con tutte le sue forze.
Sempre
adagio versò
l’acqua nella ciotola di terracotta che la ragazza, come ogni
altra persona nel
castello, teneva nella stanza, immergendovi poi la pezza.
Deia
osservava i movimenti
contrariata, ma senza la minima intenzione di reagire.
Era
una sfida a chi
avrebbe ceduto per primo.
Il
ragazzo non le avrebbe
permesso di affrontare tutto quel qualunque-azione-spregevole-le-fosse-stata-riservata
da sola.
Naturalmente
continuava a
ripetersi che era solo dovuto al suo fortissimo senso della giustizia,
che lo
costringeva ad aiutare tutti.
Non
era perché gli faceva male vederla in stato
vegetativo.
La
ragazza non avrebbe mai
ammesso di aver bisogno di lui, né tantomeno di qualsiasi
altra persona.
Come
non aveva necessitato di un marito alla morte del padre, come non aveva
necessitato di una figura femminile alla morte della madre.
Lei
era forte.
E
ferita.
Ma
era forte.
Così
non appena quella
mano fece per ripulirla, la ragazza si ritrasse, allontanando il
braccio del
ragazzo con la mancina.
-Non ho alcuna intenzione di restare a guardarti
mentre sei ricoperta di
sangue dalla testa ai piedi.
La
voce calda del ragazzo
era uscita a stento dai denti stretti convulsamente, come a reprimere
un
qualche istinto che l’avrebbe fatto sembrare un mostro.
E,
in effetti, era così.
Se
non voleva farsi pulire
con una pezza, allora le avrebbe direttamente rovesciato
l’acqua addosso, o
l’avrebbe buttata nel pozzo. Magari avrebbe reagito!
-Non credo di averti mai chiesto di restare.
Rispose
Deia con calma.
Gabor
aprì leggermente le
labbra, colpito da una risposta del genere. Ma
allora ci sei ancora lì sotto…
-Sono solito aiutare le persone anche senza una
loro richiesta scritta.
Rispose
sarcastico,
tornando a bagnare la pezza per poi porgerla alla giovane.
Capiva
perché si era
ritratta. Per un attimo aveva dimenticato che la ragazza che conosceva
odiava
ogni tipo di contatto fisico.
Non
aveva forse sofferto quando aveva dovuto
mostrargli i palmi quando implorava un lavoro?
Ricordava
perfettamente come non
aveva esitato a troncare quel contatto nel più sbrigativo
dei modi.
Era
più che logico,
allora, che in una situazione del genere, non volesse essere toccata
nemmeno
per un’offerta di aiuto.
Trattenne
un sospiro
quando la vide afferrare la pezza e passarsela sul volto.
I
tocchi erano delicati,
come se ogni centimetro ancora le dolesse.
Gli
occhi lo sfidavano,
nonostante tutto, ancora spenti.
Il
labbro tumefatto si
tendeva, a reprimere il dolore quando arrivava.
Ci
volle un po’ prima che
l’acqua cristallina diventasse sporca, e che la ragazza
tornasse un po’ più
linda.
In
tutto quel tempo, Gabor
aveva osservato la ragazza, aspettando risposte a domande che non aveva
ancora
posto, incrociando le braccia sullo schienale di una sedia che lo
accoglieva
scorrettamente, ma comodamente.
Il
ragazzo raramente
sedeva composto.
Quando
la vide abbandonare
la pezza nella ciotola, il ragazzo parlò di nuovo.
-Ora, dammi la mano.
Deia
lo fissò. O meglio,
fissò la mano che lui gli porgeva, cercando di capire cosa
avesse in mente.
Intimamente
titubante, porse la mancina al ragazzo, che la guardò
inarcando un
sopracciglio.
-L’altra.
Scandì
freddo.
Aveva
notato come la
destra fosse rimasta nascosta e inutilizzata per tutto il tempo dietro
la
schiena della ragazza.
Se
quella non fosse stata
la sua mano principale, probabilmente non si sarebbe sconvolto
più di tanto.
L’aveva
vista più volte saggiare la qualità di una lama,
roteandola e fendendo l’aria,
con la stessa mano che non aveva utilizzato per ripulirsi.
La
vide assottigliare lo
sguardo, ma porgergliela senza opporre altra resistenza. Ormai aveva
capito che
le parole “Gabor” e
“Arrendersi” non andavano d’accordo.
Le
dita, solitamente
scheletriche, erano gonfie, storte e violacee. Il pollice era,
però, ancora
intatto.
Sembravano
quasi essere
state stritolate.
Il
ragazzo parve
soppesarle, poi le si rivolse.
-Adesso mi toccherà affilarle da solo
quelle spade.
Deia
spalancò la bocca.
Le
sue dita erano
martoriate, e lui si preoccupava della mole di lavoro in più?
-Oh! Scusami tanto se non posso aiu…-
Non
terminò la frase
perché un dolore ben peggiore di quello che le aveva
distrutto la mano, stava
partendo dalle dita avviluppate nella morsa del ragazzo.
L’aveva
distratta solo
per far tornare le dita della giovane nella loro posizione naturale, ma
le
stava comunque facendo del male.
Deia
non era riuscita a
trattenere l’urlo, né le lacrime che le bruciavano
gli occhi.
Scattò
in piedi,
strappando il palmo da quello del ragazzo e dando un calcio alla sua
sedia,
facendola pericolosamente barcollare.
Gli
voltò poi le spalle,
per nascondere il volto rigato.
Che grandissimo idiota! Un fottuto bastardo!
-Ecco cosa sei! Un fottuto figlio di p…
Ma
Gabor non ascoltava i
pensieri della ragazza che, inconsciamente, erano stati pronunciati.
Lui
gongolava felice sulla
sedia, guardandola imprecare contro la sua persona.
Magari
non era vero che si
era spenta. Sarebbe stato molto più semplice del previsto.
Iniziò
a ridacchiare,
osservando l’improvvisa isteria che di solito la colpiva
quando lui la faceva
infuriare.
Al
suono della sua risata
soffocata, Deia si girò sconvolta verso di lui, il volto
arrossato, le labbra
contratte e gli occhi che potevano incenerirlo.
La vide affannarsi alla ricerca
di qualcosa di sufficientemente grande e pesante da lanciargli in
testa, gli
occhi spalancati e furiosi.
Bloccò
la risata,
guardandola ancora rallegrato.
-Bentornata!
Esclamò,
allargando le
braccia e alzandosi.
La
ragazza lo guardò con
sguardo interrogativo, fissando poi la propria mano che stringeva la
brocca che
era pronta a tirargli contro.
Sospirò.
Un sorriso mezzo
abbozzato e triste a incurvarle le labbra.
Non
sarebbe tornata la
stessa.
Fingere
di esserlo, però,
non doveva essere difficile. No?
-Sparisci.
Borbottò,
tornando a
sedersi sul letto e portando i capelli indietro.
Il
ragazzo nascose un
sorriso, premurandosi di prendere la pezza e l’acqua sporca.
Le braci non sono ancora del tutto spente, per
fortuna.
La
sensazione di intima
vittoria durò poco.
Chiudendosi la porta alle
spalle, gli parve di vederla tremare, poi nascondersi di nuovo nel suo
limbo
fatto di mura grigie e porte chiuse.
ANGOLO
AUTRICE
Chiedo nuovamente scusa per l'enorme
ritardo (quasi un mese, porca puzzola!) e prometto che
aggiornerò mooolto più puntualmente,
anche se in effetti non ho ancora deciso un giorno.
Il 5 capitolo è
già in elaborazione e gradirei ( leggasi come : dovete!) che
lasciaste qualche commento, magari, che ne so, cliccando su quel bel
rettangolino infondo al testo dove c'è scritto "invia
recensione".
Per farmi perdonare, comunque, vi
lascio i "volti" di Gab (magari con meno barba e meno capelli XD) e De, o almeno, come più o meno
dovreste immaginarveli u.u
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Capitolo 5 *** Come pietra. ***
La guarigione è un processo molto lungo.
Alcune ferite, anche se affidate ai migliori guaritori, impiegavano mesi o anni per rimarginarsi completamente. Altre non si sarebbero mai chiuse.
Per queste nessuno poteva porre rimedio, poiché la maggior parte non erano visibili. Perché anche se un volto appariva deturpato, non erano le lesioni esterne a pesare di più.
Un labbro spaccato poteva far notare a un osservatore attento che sopire la propria indole ribelle richiedeva enormi sforzi.
Un occhio tumefatto poteva ricordare che far finta di non vedere non era sempre possibile per un animo giusto.
Delle dita slogate potevano far capire che controllare il proprio corpo poteva essere difficile.
Alcune guarigioni erano veloci, alcune molto lente, altre ancora altalenanti.
Com’era possibile che una persona si sentisse tranquilla e sana e che un attimo dopo si sentisse demoralizzata e a pezzi?
Non era semplice risvegliarsi dal torpore dello shock. Era come venire alla vita di nuovo.
La stessa sensazione di rifiuto.
Come poteva essere bella una situazione così confusionaria, piena e luminosa -talmente luminosa da far dolere gli occhi-?
Cosa c’era di così bello nell’avvertire il proprio corpo? Non era come sentirsi schiacciati da una forza invisibile, in grado di rendere tutto troppo pesante per una massa fatta di carne e ossa?
Era così che ci si sentiva da piccoli, appena usciti dal ventre materno, scaraventati nella realtà? Come se si dovesse prima capire come si dovesse fare uno o l’altro movimento, per evitare di cadere e farsi del male.
Deia si sentiva una stupida.
Sdraiata nel suo giaciglio, al buio della sua piccola stanza, si osservava le mani.
Muoveva lentamente ogni singolo dito, come ad accertarsi che fosse realmente lì, davanti a lei, pronto a rispondere a qualsiasi suo comando.
E se la mano sinistra le sembrava completamente ubbidiente, la destra si prendeva gioco di lei, rispondendole, ma causandole un dolore indescrivibile.
Digrignò i denti, non osando emettere alcun suono.
In quel mese si era abituata a vivere in una stanza isolata, dove nessuno poteva sentirla.
Tutte le stanze del suo corridoio erano libere. I servitori che si trovavano nel castello da più tempo erano alloggiati vicino alle cucine. Lei vicino le stalle.
All’inizio non aveva avuto da ribattere nell’essere lasciata sola in quel corridoio.
Avrebbe avuto più privacy, più libertà, più spazio.
Ma quelli che lei riteneva pregi si erano trasformati in nemmeno mezz’ora dei difetti enormi.
Non sarebbe successo nulla se la sua camera si fosse trovata in luoghi più trafficati.
Lei lo sapeva. Anche Gabor.
Era per questo che dopo averla trovata in quelle condizioni, aveva provveduto a trasferire quattro persone in quell’ala.
Deia si sentiva presa in giro.
Ogni tanto qualcuno bussava alla sua stanza, con la chiara scusa di impicciarsi dei suoi affari.
Non faceva entrare nessuno.
Un paio di volte aveva anche tentato di sbarrarsi dentro. Con la sola conseguenza di sentirsi schiacciare da quelle quattro mura e di ritrovarsi a spalancare di corsa la porta alla ricerca di aria.
“Non starai mai più da sola, tranquilla.”
Gabor e le sue genialate.
Lei amava stare da sola! Con suo orrore, però, aveva capito che da quella fatidica notte ne aveva il terrore.
Rifugiata nella sua stanza, infatti, nonostante l’assenza di una seconda persona, sentiva le voci dei suoi nuovi vicini riempire l’aria.
Le risate che ogni tanto spezzavano l’aria la facevano rilassare.
Se avesse gridato, l’avrebbero sentita.
Come succedeva ogni notte da una settimana, ovvero dal giorno.
Quante volte volti preoccupati, nel giro di otto ore di oscurità si erano riversate di fretta nella sua stanza, con gli occhi assonnati e i vestiti da notte, per trovarla avvolta dalle lenzuola ruvide che si contorceva nel disperato tentativo di scrollarsi mani invisibili di dosso?
Quante volte era stata vittima di quelle umiliazioni?
Quante volte era stata costretta a svegliarsi e a scusarsi?
Quante volte aveva tentato di rimanere sveglia?
Troppe.
Si alzò a fatica dal letto di paglia e si osservò nella ciotola d’acqua pulita che le aveva portato la levatrice.
L’anziana donna era stata una delle persone ad essere spostata nella sua ala ed era quella che vantava la camera adiacente alla sua.
Naturalmente era stata una mossa strategica di Gabor.
“È stata lei a crescermi. Mi fido di lei perché so che si prenderà cura di te come ha fatto con me.”
Era convinto che sentendosi amata si sarebbe ripresa. O che si sarebbe confidata.
Non la conosceva affatto.
Lo sguardo di pietà che quella donna le rivolgeva la faceva sentire anche peggio, come a ricordarle che quello che aveva vissuto – come se lei avesse saputo- non era colpa sua.
Lo specchio d’acqua le mostrò le ferite quasi del tutto guarite.
Il labbro, nonostante fosse ancora spaccato, si era notevolmente sgonfiato grazie alle pomate che la donna e Gabor le avevano portato.
Stessa cosa per l’occhio, ormai contornato da un alone giallo che indicava il riassorbimento dell’ematoma.
Immerse le mani nell’acqua fredda e le chiuse a formare una piccola conca, per poter poi buttare l’acqua raccolta sul viso.
Si sentì subito rinvigorita dal pizzicore che il freddo le causava.
Afferrò poi una delle vesti a maniche lunghe di cui era provvista e si vestì.
Se Gabor fosse entrato lei doveva sembrare completamente in grado di poter tornare a lavoro.
Ma il ragazzo non poteva permettersi di farle una visita.
Con la ragazza ferita e auto-segregatasi nella sua camera, il lavoro nell’armeria era troppo per lui e pur di non far insospettire Atili tanto da farlo scendere in quel forno, doveva svolgere il suo lavoro al meglio e con velocità maggiore.
E come se il grande Lord sospettasse qualcosa, le richieste erano aumentate anche da parte dei soldati minori.
Sapeva che la ragazza fremeva dalla voglia di tornare a rendersi utile, forse non per motivi totalmente altruistici, ma comunque per fare il suo lavoro.
Si era sempre rifiutato in quei giorni di farla tornare.
Primo perché voleva che si riprendesse.
Secondo perché se il Lord o qualcun altro l’avessero vista, le domande sarebbero sorte subitanee.
Perciò, nonostante la giovane gli avesse offerto una mano, si era trovato a strisciare ai piedi dello stalliere.
Frid.
In quel momento, sommerso da spade e sudore, sentiva che avrebbe dato la vita per quel ragazzo che lo stava aiutando.
Lo stesso ragazzo dal volto rotondo, lo sguardo buono e color nocciola che entrava con due elmi a coprirgli malamente i capelli castani e tre cotte di maglia che gli pesavano sulle braccia.
Con un grugnito Frid buttò tutto sul tavolo di legno e si lasciò cadere per terra.
-Questo lavoro non fa per me.-
- Già, tu sei più tipo da animali.-rispose con un mezzo sorriso l’altro, continuando a battere il ferro rovente che aveva di fronte.
-Ancora non capisco perché preferisci me a quello splendore di ragazza.- sbuffò lo stalliere alzandosi di nuovo, facendo perno con le braccia.
Si voltò poi con tanto d’occhi a guardarlo, come colpito da una verità folgorante.
Gabor aveva perciò smesso di battere la lama e l’aveva buttata nel secchio d’acqua, girandosi ad osservarlo senza alcuna espressione sul viso.
-Gab… credevo piacessero anche a te le donne!- esclamò scandalizzato per poi chinarsi sotto al tavolo per nascondersi della pezza che il ragazzo gli aveva lanciato.
-E io che pensavo ti piacessero le giumente!- rispose stizzito.
Come aveva pensato di dare la vita per quell’idiota?
Frid, ridendo, riemerse dal tavolo.
Doveva tanto a Gabor.
Lo aveva salvato diverse volte dalle punizioni che il Lord era solito elargire. Ogni volta si era fatto frustare al posto suo.
Probabilmente definirlo amico era sbagliato, ma lui lo riteneva tale.
Quando ad undici anni si era ritrovato nelle stalle del castello, Gabor lo aveva aiutato ad ambientarsi, lo aveva supportato e lo aveva consolato.
-Non piangere! Se piangi Lui ne sarà felice!- Un bambino di nove anni, con occhi e capelli scuri, gli asciugava le lacrime con sguardo freddo.
Era più piccolo di lui, ma sembrava nascondere dietro lo sguardo anni e anni di esperienza.
-Va bene…- annuì, smettendo di lacrimare.
- Ma… resterai qui, nel castello, con me Gab?- un Frid in miniatura improvvisamente timido, con gli occhi ancora rossi di pianto.
- Io non me ne vado.
Il ragazzo tornò serio, appoggiandosi al tavolo e osservando il moro passare a lucidare un elmo.
-Dov’è lei?-
Vide Gabor bloccarsi nell’atto dello strofinare la spazzola.
-Nella sua stanza.-
-Intendevo: perché non è qui?-
-Perché non può.-
Frid fece uno scatto e gli si portò dinanzi. Quando si comportava in quel modo sembrava il bambino che non era mai stato.
-Non prendermi in giro! Sono giorni che non la vedo! Cosa le è successo?-
Il moro osservò per qualche minuto il ragazzo di fronte a lui, rimanendo immobile.
Sembrava seriamente preoccupato. Distrattamente se ne chiese il motivo.
- Si è fatta male alla mano destra.- alzò le spalle con gesto indifferente e tornò alla sua occupazione.
Era una mezza verità, infondo.
Non poteva lavorare perché aveva le dita slogate. Che poi lui voleva che rimanesse al sicuro era un altro paio di maniche.
-Quindi è a riposo? Perché non la mandi dalla signora? Una delle sue domestiche è malata.-
Gabor scattò in piedi.
Non voleva parlare di Deia o della signora.
Erano le due donne che al momento odiava di più.
-Portava via quelle spade e poi tornatene alle stalle. E chiudi la porta.
Senza aggiungere altro, uscì.
Con passi veloci raggiunse il corridoio interessato. In quella parte del castello non girava davvero mai nessuno!
Un senso di vuoto allo stomaco gli ricordò che avrebbe dovuto prevederlo.
Erano un paio di giorni ormai che quegli improvvisi vuoti lo colpivano, provocandogli una gran nausea.
Colpa.
Si sentiva in colpa.
La odiava per quello.
Le aveva detto di stare attenta. Era logico che si riferisse anche al non andare in giro da sola di notte per corridoi dimenticati persino da Dio.
Infilò una mano nella casacca e portò fuori il crocifisso di legno che portava al collo da quando era piccolo.
“Dammi la forza.” Con un bacio sul pezzo di legno terminò la sua breve preghiera, prima di lasciar ricadere la collana e di bussare alla porta.
Prima che gli giungesse risposta, l’aprì.
-Ciao.-
Odiava indossare quei vestiti.
Quando suo padre era a casa poteva girare tranquillamente con abiti maschili, stessa cosa quando si trattava di lavorare nell’armeria.
Aveva l’obbligo, però, di indossare vestiti da “donna”- come li aveva definiti Gabor- ogni volta non lavorasse.
Gabor era andato a trovarla solo due volte da quando l’aveva trovata e mai aveva avuto il piacere di vederle indossare uno degli abiti da domestica. Fino a quel momento, quando aprendo la porta, la voce della ragazza, come provenente dall’oltretomba lo aveva salutato.
Lo sguardo afflitto, i capelli sciolti e arruffati, il vestito verde pallido e rovinato, il corpetto messo male.
Si trattenne dal ridere. Con molta difficoltà.
-Oh. Mi scusi, cercavo l’aiutante del fabbro!- e fece per uscire.
La ragazza sospirò.
-Mi sento già abbastanza ridicola. Per favore, evita.
Il ragazzo allora le sorrise, chiudendosi la porta alle spalle e sedendosi come suo solito sulla sedia mezza rotta.
-Come stai?
- Bene, non vedi?-la ragazza fece una mezza giravolta su se stessa, allargando le braccia.
Ogni volta la stessa storia. Entrava lì dentro per sapere come stava, poi faceva qualche domanda di routine, e se ne riandava, dicendo che ancora non poteva tornare a lavorare.
In piedi, attese che il ragazzo formulasse la solita “Hai mangiato oggi?”.
-Cosa ti è successo?-
Le mancò il respiro.
Gli occhi di Gabor erano fermi. Questa volta non avrebbe accettato il silenzio come risposta.
Rimasero a fissarsi come quel giorno in cui l’aveva trovata.
L’oscurità degli occhi del ragazzo fece vacillare la giovane, i cui occhi grigi non brillavano più come argento fuso.
Come pietra.
-Sono caduta.-
Sussurrò impercettibilmente la ragazza, portando gli occhi a fissare il muro.
Gabor aveva sentito perfettamente, ma la rabbia che avvertiva montargli dentro di fronte quella prova di sfiducia gli fece stringere i pugni.
-Come, scusa?-chiese a denti stretti.
-Sono caduta.- stavolta lo fissava negli occhi, consapevole della sua menzogna ma fiera di averla detta.
Gabor perse la pazienza e prima di rendersene conto era scattato in piedi rovesciando la sedia per terra.
Le si era avvicinato troppo, e Deia, improvvisamente spaventata, arretrò con le braccia in posizione di difesa.
Non perdeva mai la calma. Mai. Ma essere preso in giro in quel modo da lei lo aveva fatto imbestialire.
Lui voleva aiutarla e lei lo respingeva.
Le afferrò il polso della mano destra.
-Ti sembro stupido?Questi graffi te li hanno fatti le scale?-e le alzò la manica, mostrando solchi ancora rossi lungo gli avambracci.
- E questo? Ti sei sgozzata con i tuoi capelli?- chiese passandole rude un dito sul taglio del collo.
Quei movimenti non gli appartenevano. Era sempre così posato e delicato con chiunque che si sorprese nel sentire i tremiti attraversare il corpo della ragazza, che con occhi sbarrati, osservava la mano sul proprio polso.
Gabor allentò la presa, trasformando la morsa in una stretta più dolce, così come la voce.
-E queste? Come te le saresti slogate?-portò la mano libera a chiuderle le dita violacee sul palmo.
Stavolta era stato più delicato. Lo sapeva e si vergognava di come aveva tirato fuori il suo lato peggiore.
Tornò a guardarla negli occhi e un tremito lo percorse.
L’aveva fatta piangere.
Gli occhi più fieri che avesse mai visto, da spenti erano diventati tristi, per colpa sua.
La ragazza con sguardo annebbiato, come circondata da fumo, liberò con uno scatto il polso e indietreggiò.
-Cosa vuoi che ti dica?-chiese tra i singhiozzi che avevano iniziato a scuoterla.
Aveva paura di Gabor. Di Gab. Lo stesso che l’aveva aiutata. Lo stesso che l’aveva accolta. Lo stesso che la fissava tremando.
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Capitolo 6 *** La via più facile. ***
La via più facile
Non
piangere, stupida!
Smettila!
Chiuse
gli occhi, tentando di scacciare le lacrime che
minacciavano di uscire. Ancora.
Era umiliata. Piangere non era il suo modo di sfogarsi
preferito. Preferiva prendere a martellate una spada ancora rovente, o
urlare.
E invece, vergogna delle vergogne, era inchiodata davanti al ragazzo,
con le
braccia avvolte attorno al busto, scosso dai singhiozzi, e con le
guance
rigate.
Stentava a riconoscersi.
Se avesse assistito ad una scena del genere, avrebbe preso a
schiaffi la ragazza piangente senza pensarci due volte. Mostrarsi
debole non
portava mai nulla di buono, specialmente ad una donna sola. Come era
lei.
Quando riaprì gli occhi, finalmente erano asciutti,
nonostante i singhiozzi ancora la scuotessero.
Gabor, dal
canto suo, continuava a tremare e per la prima
volta lo vide abbassare lo sguardo.
Forse
sei davvero
diventato insensibile. Non avresti mai detto una cosa del genere,
idiota.
Non ho bisogno di
sentirmi peggio di come mi sento già.
Nemmeno lei…
Il
ragazzo portò una mano a coprirsi il volto, sperando che
quel gesto rendesse meno evidente il suo tremito interiore.
Da quando il suo corpo e la sua mente avevano deciso di
agire seguendo vie diverse? Il primo sembrava convinto a seguire i suoi
istinti
animaleschi, alzando le mani e lasciandosi andare a gesti di debolezza.
La
seconda, invece, sembrava intenzionata a farlo sentire ancora peggio,
rimproverandogli il poco tatto dimostrato.
Doveva calmarsi, assolutamente. Non poteva permettersi altre
scene come quella appena vissuta.
Aprì leggermente le labbra, lasciando entrare una gran
quantità di ossigeno, e per poi espirare lentamente.
Sentì chiaramente i suoi battiti rallentare. Dietro la sua
stessa mano ricostruì la maschera di compostezza ormai
troppo radicata in lui.
Nello scoprire nuovamente il volto, incrociò lo sguardo non
più lacrimoso della ragazza.
-La verità è chiedere
troppo?-
Rispose
alla domanda che Deia gli aveva precedentemente
rivolto, sperando di non forzare troppo la mano.
Deia sospirò impercettibilmente, puntando lo sguardo sul
petto del ragazzo, proprio dove sapeva essere la sua immancabile croce.
Avrebbe
riso. Lo aveva sempre biasimato per quella sua fede cieca in quella
religione che a suo avviso non aveva fatto altro
che male. A partire da sua madre.
Eppure in
quel momento, lo invidiava.
Scosse la testa, abbassando la manica che il ragazzo aveva
poco prima sollevato.
-Non sono pronta a
dirla ad alta voce. -
Era
stato poco più di un sussurro, sebbene dovesse apparire
come una frase sprezzante.
-Ho bisogno di
dimenticare. Per favore.-
Aggiunse,
tornando a guardarlo negli occhi.
Un brivido attraversò la schiena martoriata del ragazzo.
Ricordò il primo giorno in cui l’aveva vista.
Aveva pensato
che non avrebbe mai chiesto pietà, né implorato,
eppure era stato lui a
costringerla a farlo.
Gabor abbassò – per la seconda volta- lo sguardo,
chiudendo
gli occhi.
E capì cosa fare
Si schiarì la voce, tentando di scacciare quel groppo che
gli impediva di respirare e parlare liberamente.
-Allora credo che
dovresti concentrarti su altro. Domani torni a lavorare. Una delle
domestiche
della signora sta male, devi sostituirla.-
Per
un attimo le era sembrata sospirare dal sollievo, ma
alla parola signora e sostituirla, si era nuovamente irrigidita.
-
Ma… l’armeria? Da
solo non puoi farcela e io so…-
-
Frid mi sta
aiutando. E per quanto capace tu possa essere, con quella mano non puoi
fare
proprio nulla. Ma se si tratta di rifare un letto e portare cibo, non
dovresti
avere problemi.-
E proprio
mentre terminava la frase, si rese conto che la
ragazza avrebbe dovuto indossare abiti prettamente femminili. Di
problemi ne
avrebbe avuti, eccome!
Il silenzio scese di nuovo ad opprimerli in quel buco di
stanza, costringendoli a fissarsi di nuovo, in una tensione sempre
più densa.
Gli avvenimenti di poco prima ancora ad echeggiare nelle pareti.
Dillo! Sono solo due
parole!
Gabor
aprì leggermente la bocca, pronto a parlare, ma
guardando quegli occhi feriti, si ritrovò a boccheggiare
alla ricerca di aria.
Come poteva scusarsi con una sola, banalissima, frase?
Ma sarebbe stato meglio di niente, no? Almeno,
nell’osservare quel segno rosso che le avvolgeva il polso,
semicoperto dalla
stoffa della manica, si sarebbe sentito meno…pessimo.
Decise di rivolgerle un cenno del capo, per congedarsi, ma
una volta pronto a chiudere la porta, si fermò. La
sensazione di malessere che
gli aveva afferrato lo stomaco non voleva sparire, anzi.
- Spero mi
perdonerai.-
Deia
ebbe appena il tempo di recepire la frase, che era già
scomparso dietro la porta.
Ripercorse velocemente i corridoi, continuando a passarsi
le
mani tra i capelli cortissimi e maledicendosi per la sua scenata.
Forse era davvero troppo tempo che viveva in quel castello.
Forse doveva andarsene. Forse poteva ritirarsi in un monastero. Forse
avrebbe
smesso di sopportare cattiverie.
- Gabor? GABOR!-
Il
ragazzo sussultò, voltandosi di scatto verso il corridoio
che aveva appena percorso.
Una signora dai capelli tendenti al grigio, con il volto
dolce ma atteggiato a severo e le mani sporche di cenere, lo fissava
tra il
contrariato e il divertito.
-
Temevo fossi
diventato sordo!-
Gli
si avvicinò scuotendo la testa. Il giovane mosse
istintivamente qualche passo verso di lei, finché non le si
ritrovò a pochi
centimetri di distanza. Preso com’era dalle sue
elucubrazioni, non si era
accorto della sua presenza.
-
Ero sovrappensiero,
perdonatemi.-
Un
lampo di preoccupazione e di affetto incondizionato
attraversò gli occhi azzurri della donna.
Portò una mano ad accarezzare il volto serio del ragazzo,
come aveva fatto per quasi vent’anni.
-Qual è il problema?-
Il
ragazzo andò incontro alla mano, quasi abbandonandovisi
contro. A volte il tocco di una madre valeva
più di mille incoraggiamenti.
Chiuse gli occhi, assaporando appieno l’aroma di lavanda che
emanava la levatrice. A volte una seconda
madre può fare molto più della vera.
-Continua ad urlare,
non è vero?-
Rispondere
con una domanda era decisamente più semplice.
La donna strinse le labbra, lasciandogli un buffetto sulla guancia,
per poi ritrarre la mano.
- Mi chiedo come non
abbia fatto a perdere la voce… Povera ragazza.-
-Se
ti sentisse…-
A
Gabor scappò un sorrisetto mentre, infastidito
dall’improvvisa mancanza di contatto, appoggiava la fronte
sulla spalla della
donna, notevolmente più bassa di lui.
La donna si irrigidì leggermente. Erano rari i momenti in
cui
si lasciava andare e gli ultimi che riusciva a ricordare erano quelli
in cui
non raggiungeva i sei anni di vita. Gli circondò le spalle
con le braccia,
accarezzandole lentamente, come quando le si stringeva addosso
chiedendole
perché non potesse andare dalla sua vera
mamma.
-
Perché? –
-Mi dispiace, tesoro.
Non lo so.-
Mentirgli era più
facile, di fronte a quegli occhioni scuri e bagnati dalle lacrime.
- Ma io voglio stare
con lei… Anche tu sei la mia mamma, ma io voglio lei!-
Faceva male vederlo
soffrire così. In cinque anni non le aveva mai causato
problemi. L’unico
capriccio che si era riconosciuto, lei non poteva concederglielo.
Il
suo ricordo venne interrotto dalle mani del ragazzo che,
delicate, sciolsero le sue intrecciate.
Gli riservò un’ultima carezza, a cui rispose con
uno dei
sorrisi più dolci e rari che concedeva.
-Non colpevolizzarti,
non potevi saperlo.-
Gabor
la osservò aggrottando leggermente le sopracciglia. Non illuderti, sai che è colpa tua.
La sua coscienza non voleva lasciarlo stare.
Sarebbe stato decisamente meno faticoso darle contro, se
avesse avuto la certezza che si sbagliava. Perché lui aveva
avvertito che
qualcosa non quadrava. L’aveva anche avvertita, lasciandola
però sola.
-Da domani sostituirà
la ragazza che sta male, ditele quali saranno i suoi compiti, per
favore.
Le fece un
cenno col capo per poi voltarsi e continuare per
la sua strada. Per sua fortuna nessuno si era mai messo in testa di
seguirlo
quando spariva. Si sarebbe rivelato troppo sconvolgente per chiunque.
Mentre la donna eseguiva quello che le era stato chiesto, il
ragazzo raggiungeva una porta di legno scuro, finemente intagliata con
rami
argentati che partivano dalla maniglia e si allargavano su tutta la
tavola. Era
chiaramente molto antica. Il legno sembrava schiarito ad altezza
d’uomo, come
se colpito più e più volte da una mano, mentre
alcuni rami erano sbiaditi alle
estremità.
Il ragazzo non si fermò a bussare o a chiedere il permesso,
ma si premurò di fare quanto più rumore possibile
nell’avvicinarsi all’uscio.
Dall’interno della stanza non arrivò alcuno
rumore, segno
che chiunque si trovasse all’interno, dava il permesso al
ragazzo di entrare.
L’interno non era molto illuminato, solo una candela su uno
scrittoio rischiarava l’ambiente, colorato dal rosso scuro e
dall’argento.
Una figura femminile era seduta su una bergere, rivolta
verso lo stesso scrittoio su cui erano accatastati libri e fogli vari.
-Ti sei ricordato di
me, allora.
-A
quanto pare…
Rispose
lui atono. Dalla postura rigida e dal volto
indifferente era chiaro come il sole che non era affatto una visita di
piacere.
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