Non come vorresti

di berlinene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I, cap.1 ***
Capitolo 2: *** Parte I, cap.2 ***
Capitolo 3: *** Parte I, Epilogo ***
Capitolo 4: *** Parte II, cap. 1 ***
Capitolo 5: *** Parte II, cap. 2 ***
Capitolo 6: *** Finale ***



Capitolo 1
*** Parte I, cap.1 ***


Eccomi qua. È passato davvero troppo tempo dall’ultima volta che ho pubblicato e mi mancava. Ma ho attraversato un lungo periodo di mancanza di tempo-voglia-ispirazione che, per fortuna, adesso sembra volgere al termine. Ed è dunque venuto il momento di sistemare alcune cosette che da tanto, troppo tempo stazionano nel mio hard disk.

Prima di tutto questa storia. Si tratta del seguito di “Un’altra possibilità” anche se in realtà è nata prima. Anzi, a voler essere precisi, prima è nata la seconda parte di questa storia, poi “UAP” quindi quello che, se vorrete, andrete a leggere adesso. Non che questo abbia importanza, era per farvi capire quanto contorto possa essere il mio cervello.P

Quello che –spero- vi interessi è che Yasu è tornata in Giappone insieme a Katagiri, prima di tutto per chiarire con Ken. Ma affrontare il passato non è mai semplice, non è mai indolore.

Yasu Wakabayashi\Irene Price è il mio pg originale per eccellenza che trovate in tutte le storie della serie “Il diario di Irene Price genera storie”, sorella gemella di Genzo e fidanzata di Ken, con cui ha frequentato la Toho. In questa miniserie formata essenzialmente da “Un’altra possibilità” e dalla FF che segue, Ken però ha… ehm… cambiato sponda e lei, durante un soggiorno in Inghilterra, si è molto avvicinata a Katagiri…

Credo che con questo possiate godervi la FF anche senza leggere le altre citate… se poi vi avrò un po’ incuriosito, beh, spero che prima o poi ve le andrete a leggere e mi farete sapere cosa ne pensate:)

Ma ciancio alle bande, cominciamo!!!!

 

PARTE I, cap. 1

Il rumore dei tacchi – bassi ma comunque non tacchetti – sulle pietre del sentiero che portava al J-Village le fece uno strano effetto, un brivido le percorse la schiena e forse vacillò anche leggermente perché il braccio di Katagiri, discreto, corse a cingerle la vita, come a sostenerla. Ma fu solo un attimo: l’uomo la sciolse subito da quel fugace abbraccio, non senza poggiarle prima una delicata carezza sulla schiena. Poi tornò a camminare al suo fianco, a una distanza che gli permettesse di esserle vicino senza, tuttavia, dare adito a sospetti. Yasu gli sorrise brevemente, poi la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Uno spazio fra la recinzione e la struttura in cemento del cancello, lo sapeva, permetteva di vedere il campo di allenamento. Dai suoni che giungevano in lontananza, capiva che c’era qualcuno. Si avvicinò alla recinzione, rallentando il passo: dalla sottile feritoia vedeva tante figurine lontane, apparentemente uguali, ma non certo ai suoi occhi. Bastava, infatti, un piccolo particolare per associare a ognuna uno dei nomi a lei cari.
Ancora una volta Katagiri si avvicinò, stavolta le mise le mani sulle spalle e le sussurrò: “Wakashimazu non c’è, puoi smettere di cercarlo…”.
Yasu arrossì e abbassò la testa. Poi si guardò attorno, ma, naturalmente, non c’era nessuno in vista, altrimenti Munemasa non l’avrebbe toccata così. Chiuse gli occhi, assaporando quel contatto… solo pochi giorni prima, a Parigi, non se ne sarebbe neppure accorta, ma ora, lì, in Giappone, davanti al cancello del J-Village, le cose stavano diversamente.
“Aveva di nuovo dei fastidi alla spalla e non poteva allenarsi” spiegò Katagiri, “così ne ha approfittato per andare qualche giorno a casa, è qui vicino e…”
“Lo so” tagliò corto Yasu.
“L’ho saputo solo stamattina, più tardi se vuoi…”
“Più tardi deciderò cosa fare” disse lei, con un sorriso. “Non ci pensare. Adesso siamo qui per la riunione, no?” lentamente, staccò le mani di lui dalle proprie spalle, carezzandole nel farlo. Sorridendo, gli sistemò amorevolmente la giacca e la cravatta, anche se, come al solito, non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Varcarono il cancello e proseguirono lungo il vialetto, fino alla grande vetrata d’ingresso. La hall era immensa e deserta, come sempre. Sulla sinistra, un lungo corridoio portava a varie stanze per riunioni e conferenze stampa. Sulla destra, invece, c’erano gli ambulatori e le scale che conducevano al piano superiore e alle camere. 
Munemasa la guidò verso una delle sale riunioni. Era come Yasu la ricordava. Spaziosa, arredata in modo spartano: giusto un lungo tavolo circondato da sedie nel centro e dei divanetti sulle pareti di fondo. Una serie di grandi finestre sul muro opposto alla porta illuminava l’ambiente. Il riverbero del sole esterno l’abbagliò un attimo e le occorse qualche secondo per distinguere le persone che occupavano la stanza.
“Bene” disse sbrigativo Munemasa, “credo non ci sia bisogno di presentazioni…”
Yasu annuì decisa.
Tatsuo Mikami spense la sigaretta e chiuse la finestra presso la quale stava fumando, non prima di aver rilasciato all’esterno l’ultima boccata di fumo. Si avvicinò con un sorriso formale, ma non privo di un certo calore.
“Sì, io e la signorina ci conosciamo piuttosto bene”. Allungò un braccio, indeciso fra una stretta di mano e un abbraccio… alla fine optò per un’affettuosa pacca sulla spalla.
“Certo” aggiunse Minato Gamo, togliendo i piedi dal tavolo e recuperando un contegno. Al contrario di Mikami e Katagiri non indossava un completo, ma una felpa e dei jeans. “Come scordarsi…”
Intanto Kozo Kira si era alzato dal divanetto e li aveva raggiunti, scrutandola con attenzione, come non si rammentasse. Incredibilmente anche lui era in giacca e cravatta.
“Mi spiace contraddirti e interromperti Gamo, ma io temo di aver dimentica-” si interruppe.
“Mi spezza il cuore così, mister” ridacchiò lei, “credevo di essere stata la sua allieva migliore”.
“Yasu? Yasu Wakabayashi?” esclamò Kira, avvicinandosi per squadrarla meglio. “Dove hai messo la ranocchietta tutta gambe?”
“Sotto il tailleur” sussurrò lei, strizzandogli un occhio.
“Bene” intervenne Katagiri col suo solito tono formale, vogliamo cominciare?”

****

 La riunione è stata piuttosto breve, giusto il tempo di dividersi i compiti. Con mio grande stupore ho scoperto che il primo allenatore della Nazionale è Kozo Kira, mentre Gamo e Mikami lo coadiuveranno in qualità rispettivamente di preparatore atletico e allenatore dei portieri, ma gireranno anche il Paese alla ricerca  di nuovi talenti. Munemasa ha chiarito che io ero lì solo in qualità di sua segretaria, interprete e addetta alle public relation. Tuttavia, nonostante io abbia detto esplicitamente di aver interrotto i miei studi di medicina e fisioterapia, probabilmente per sempre, mi hanno strappato la promessa di sopperire in caso di assenza del medico che si divide fra lì e l’ospedale.
Beh, lo facevo a sedici anni, non credo di essermi così rimbambita.
Finita la riunione, ho comunicato a Munemasa la mia decisione di andare a trovare Ken, ma ho declinato la sua offerta di accompagnarmi: un autobus porta quasi direttamente dal J-Village a casa Wakashimazu. Lo avevo preso tante volte, quando io e Ken stavamo insieme: approfittavamo della vicinanza per goderci qualche scappatella. Sorrido al pensiero.
Che strano salirci di nuovo… dopo essere stata tanti mesi lontana a rimuginare sulla fine della nostra storia e sulla scoperta di Ken della propria omosessualità… chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio quel vecchio autobus “galeotto” a darmi modo, infine, di rivedere Ken e di chiarire fra noi una volta per tutte?
Un dolore sordo e lacerante si impossessa del mio cuore non appena salgo sul bus, sono troppo impegnata a ricordarmi come si fa a respirare per accorgermi che qualcuno si siede accanto a me.
“Tutto bene?” la voce è gentile e brusca al contempo, e familiare.
“Sì, Kira-sama” rispondo io, dandomi un contegno.
“Per quel che vale,” attacca lui dopo un attimo di silenzio, “mi è dispiaciuto, voglio dire, te e Ken… sembravate così…”esita.
“Grazie” sorrido, togliendolo dall’imbarazzo. “Io, invece,” proseguo e divago, “sono molto contenta per lei, CT della Nazionale! Sono sicura che farà un ottimo lavoro. E  l’abito elegante le dona moltissimo!”
“Eh, eh grazie… diciamo che sto cercando di migliorarmi… e anche… di bere un po’ meno”.
“Le farà bene. Dunque, abita ancora a Meiwa?”.
“Come? Ah, beh, sì” risponde. “E tu, dove vai?”
“A trovare Ken, a vedere come sta”.
“Già, quella maledetta spalla continua a dargli fastidi, eppure stava meglio quando te ne occupavi tu, magari potresti-”
Scuoto con decisione la testa. “Glielo ho detto prima, ho chiuso con la medicina e simili e lui lo sa benissimo cosa
dovrebbe fare. Vado a trovare un… amico” concludo, con una sicurezza che non provo.
“Scusami non…”
“Si figuri” sorrido, alzandomi. “La mia fermata. A presto, Kira-san”.
“Buona serata” mi augura educatamente. Ma è anche un saluto accorato e sincero, quasi paterno, e benché dentro di me pensi “Buona serata un cazzo”,  me lo tengo per me e mi limito a ringraziarlo.
Scesa dal bus, costringo le mie gambe a ripercorrere quella strada ben nota, dritto fino al tempio e poi a sinistra, lungo il fiume, fino a una casetta solitaria con annesso dojo di Karate. Mi soffermo un attimo sull’altro lato della strada e  scorgo, sulla porta del dojo, alcuni ragazzi che, finita la lezione, si congedano con un inchino. Intravedo Wakashimazu-sama:  l’istinto è di nascondermi, perché a lui non sono mai andata a genio, ma lo vedo rientrare in palestra e, quindi, punto dritto verso il cancello d’ingresso della casa. Il giardino è curatissimo e colorato, i fiori della signora Wakashimazu sono sempre bellissimi.
Quando, finalmente, trovo il coraggio di suonare, è lei che viene ad aprirmi. È sempre vestita con abiti tradizionali, anche in casa. Ha qualche ruga in più, ma lo stesso sorriso dolce e materno. E gli occhi Ken.
“Buonasera, desidera?”chiede cortese, affacciandosi alla porta.
“Signora sono…”
“Kamisama” esclama, affrettandosi lungo il vialetto e spalancando il cancello. Evidentemente il mio aspetto è cambiato, ma la voce no. Esita un attimo, poi mi abbraccia.
“Bambina mia” mormora, stringendomi a sé. Profuma di zenzero e rosa. Sono così emozionata che ho voglia di piangere.
“Yasuko, tesoro, come stai?...
(…ebbene sì, può chiamarmi col nome per intero senza farmi incazzare, è così dolce, detto da lei)
“…Sei… diversa… i capelli…”
(sì, lo so, sono ingrassata e ho i capelli in fase di ricrescita e siccome, al contrario di  praticamente tutte le mie connazionali, li ho mossi, stanno malissimo.)
“… Ken mi ha detto che sei stata in Europa… sei stata dai tuoi genitori? Chissà la tua mamma com’era contenta di averti con sé!”
(...Uhhh, non sa quanto…)
“… A me sei mancata tanto…”
(…anche a me…)
“… Ma, ti prego entriamo in casa, ti faccio del tè”
(…ebbene sì, se lo fa lei, la Mamma delle Mamme, io bevo pure il tè giapponese.)

La casa di Ken sa di buono, c’è sempre una pentola sul fuoco in cui qualcosa sobbolle, un odore sempre diverso e sempre delizioso.
La vedo sollevarsi in punta di piedi per raggiungere il prezioso servito da tè che tiene in una vetrinetta, perché la mamma di Ken, a differenza di lui, è bassina.
“Non si incomodi, la prego… le tazze di sempre andranno bene”.
“Uh quelle… me ne sono rimaste sì e no tre, quella peste di Haruki le ha rotte tutte”
Il nipotino di Ken. Ricordo quando nacque… sarà grande ora.
“… e poi voglio usare queste tazze qua, nessuna occasione è più speciale della mia bambina che torna a farmi visita…”. Mi porge un vassoio con quattro tazze. “Ci sistemiamo in giardino, che dici? È una così bella giornata…”
Annuisco, prendo il vassoio e lo porto sul tavolino fuori, mentre lei prepara il tè in cucina. L’aria è tiepida e profumata. Dovrei sedermi ad aspettare, ma proprio non ci riesco e mi metto a gironzolare per il giardino. Quando mi volto verso la palestra, lui è lì.
Occhi chiusi e gesti lenti…-  il ricordo della prima volta che lo vidi allenarsi, nel giardino di casa mia, mi colpisce, diretto allo stomaco come un Kamisori shot quando Soda non è esattamente in vena di cortesie. Come allora, mi sembra la danza più bella del mondo, che ha dentro l’essenza stessa di Ken, la sua forza, la sua fragilità.
Sono sicura di non aver fatto il minimo rumore, eppure lui si volta di scatto e guarda nella mia direzione. Troppo lontani per discernerli, sento tuttavia la carezza dei suoi occhi neri su di me.  Scompare oltre la porta della stanza per riapparire nel vano dell‘ingresso principale e corrermi incontro, in keikoji e a piedi nudi. Si sofferma un attimo guardandomi, incredulo, come fossi un fantasma, poi mi abbraccia. Mi stringe forte ma… è un abbraccio, come dire… rigido: la sua guancia non si appoggia sui miei capelli, le sue mani non mi carezzano la schiena, la mia testa non si rifugia, come al solito, nell’incavo della sua clavicola, ma resta immobile e rigida, come il resto del mio corpo e del suo, come il mio sguardo, ancora fisso sulla finestra ora vuota.
“Do… dovresti stare a riposo” mormoro, mentre quello strano abbraccio si scioglie. Quando sono nervosa, mi vengono sempre in mente le cose più inutili.
“Sì,
mister”risponde lui, con un mezzo sorriso. “Sapendo che eri a migliaia di chilometri, pensavo di farla franca”. Il tono era un misto di rimprovero e ironia, la voce vibrava di emozione.
“E invece sono qui”. Lapalissiano. “Sono arrivata ieri e resto per tutto il tempo del ritiro, intanto. Poi vedremo”.
“Riprendi la tua posizione al J-Village?”
“Non proprio, mi occuperò di altro”.

La signora Wakashimazu ci chiama per il tè.
“Yasu, lo so, dobbiamo parlare, ma questo non è il momento più adatto…”si affretta a sussurrare.
“No, e comunque sono venuta in autobus e fra un’oretta devo tornare al J-Village…”
“Che ne dici di cenare insieme domani sera? Magari poi ti fermi qui a dormire…”
“No, vengo in auto e passo a prenderti”.
“Perfetto e…” esita, “Yasu ti prego di… coi miei insomma… mio padre non sa…”.
“Capito”
Avrei giurato di non poterci riuscire, eppure ho mantenuto, durante il tè, un perfetto autocontrollo, rispondendo educatamente alle domande circa il mio soggiorno in Europa, grata che il discorso si mantenesse su quell’argomento, cercando di ignorare lo sguardo della signora che passava da Ken a me e viceversa e il sorriso che lo accompagnava. Ed evitando gli occhi severi del padre, che ci aveva raggiunto dopo un po’ e sorseggiava il tè in disparte, senza prendere parte alla conversazione, guardandoci con un sopracciglio inarcato. Dopo circa un’ora, mi sono alzata, spiegando che avevo l’autobus, ho salutato tutti e confermato l’appuntamento con Ken per le 19 di domani, quindi mi sono avviata verso la fermata dell’autobus.
Con mio grande stupore, vengo raggiunta dal padre di Ken.
“Wakabayashi” mi chiama “solo un momento”.
Mi volto, curiosa: “Cosa succede?”
“Io…” È la prima volta che sento incertezza nella sua voce. Forse è anche la prima volta che lo guardo bene in volto, mi viene da sorridere perché la piega della bocca è esattamente quella di Ken quando deve dire qualcosa che non vuole tipo “Mi dispiace”, “Ho sbagliato”, “Ho preso X goal”.
Raddrizza la schiena, recuperando la sua solita espressione decisa e severa.
“Io credo di doverti chiedere scusa. Ho sempre osteggiato la vostra relazione, ho detto mille volte a Ken che non eri la persona giusta per lui, solo perché
io volevo per lui qualcosa di diverso… proprio come quando volevo che lasciasse il calcio per il karate. Perdona la mia schiettezza, ma non ti nascondo che sono stato felice quando ho saputo che vi eravate lasciati. Ma poi ho saputo che tu te ne eri andata, e ho visto Ken rinchiudersi in se stesso, l’ho visto nervoso e triste… e ho capito che mi sbagliavo… e sono contento che sei tornata e ti prometto che non mi metterò più in mezzo. Non commetterò una terza volta l’errore di impedire a mio figlio di seguire il suo cuore…”.
Ho vacillato, credo. Io, che ho sempre (troppe) parole per tutto, non so descrivere appieno la sensazione che mi ha dato vedere quell’omone severo, forte e fiero, contorcersi quelle mani che potrebbero uccidere e accennare un inchino, scusandosi umilmente. L’autobus stava arrivando, costringendomi a rispondere immediatamente, ma dandomi altresì la possibilità di scomparire subito dopo.
“Wakashimazu-san” ho detto, sfiorandogli un braccio. “Non si deve scusare né tantomeno sentire in colpa. Quel che è accaduto non è assolutamente colpa sua…anzi… aveva ragione lei… probabilmente è stato l’unico che ci ha visto giusto fin dal principio… Io davvero non sono la persona giusta per Ken… alla fine lo abbiamo capito anche noi. Se sono tornata è solo perché avevamo reagito troppo male e per recuperare un rapporto, quantomeno di amicizia… Perché non è tutto da buttare, ecco”.
L’ho detto tutto d’un fiato, poi con un inchino, sono scappata a nascondermi sull’autobus. Sprofondata in un sedile, in fondo all’abitacolo provvidenzialmente deserto ho pianto, pianto, pianto.

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Parte I, cap.2 ***


Sono stanchissima e in partenza per un tour de force... ma questa storia ha già atteso troppo quindi vi lascio un capitolino al volo.

Arrivederci alla prossima settimana!,

Grazie a Mela, Sumire 90 e FlaR per il loro apprezzamento!

PARTE I, cap. 2

La bocca di Munemasa Katagiri si piegò, accennando un sorriso amaro, alla vista di Yasu che, per l’ennesima volta, controllava di nascosto l’orologio.
“Sono le 17.30” disse l’uomo alla ragazza. “Puoi andare, finiremo domani”.
“Sicuro?” chiese lei educatamente, anche se intanto si era alzata e stava già riordinando la scrivania alla bell’e meglio.
Lui annuì e si avvicinò alla finestra, fingendo di guardare fuori. In realtà voleva semplicemente non vederla tradire quei gesti di impazienza, anche perché era conscio dei suoi tentativi di dissimularli -ma è così giovane, pensava, non è facile dominare le emozioni, alla sua età. Avrebbe trovato quei tentativi addirittura divertenti, al pari dei gesti infantili che ogni tanto le sfuggivano, se solo non gli avessero fatto tanto male.
“Allora prendo la macchina, stasera, va bene?” chiese Yasu.
“Ah già” rispose lui, continuando la farsa che andava avanti da tutto il pomeriggio, ossia che l’evento previsto per la serata non rappresentasse niente di particolare. “Vai a cena con Wakashimazu, stasera”.
“Sì” rispose lei laconica. Raccolse le sue cose e rimase ferma di fronte a lui.
“Puoi andare” le fece notare Katagiri.
“Ehm… Munemasa?”
“Sì?”
“Le chiavi della macchina le hai tu”.
“Ah, giusto” sorrise nervosamente della propria dimenticanza, porca miseria aveva proprio la testa altrove!
Fece scivolare la chiave della macchina che aveva preso a noleggio nelle mani della ragazza, lei la afferrò e si diresse verso la porta. Poggiò la mano sulla maniglia.
“Munemasa…” sussurrò di nuovo. “Mi hai chiesto tu di farlo… e, comunque, non hai niente di cui preoccuparti”.
“Lo so” rispose lui. Ed era vero: sapeva di non aver nulla da temere, sapeva di essere stato lui a chiederle di chiarire la situazione col suo ex… razionalmente sapeva quelle cose… era la sua parte irrazionale, quella che proprio grazie a Yasu aveva ricominciato a vivere, a farlo impazzire di… beh… gelosia. “La prossima volta, però, uscirai con me”.
“Non sai quanto mi piacerebbe… però bisogna cominciare fin d’ora a pensare a cosa dire al signor Mikami!”
Risero entrambi, anche se con poca convinzione, poi Yasu si avviò verso la propria stanza.
 

Scegliere cosa indossare non era facile: non voleva essere troppo elegante, ma nemmeno troppo sportiva… insomma era cambiata, cresciuta, ma era sempre lei. Voleva che le sue nuove forme risaltassero, ma non sfacciatamente. Doveva studiare l’abbigliamento con cura, ma la scelta doveva apparire naturale, quasi casuale. E poi non sapeva dove sarebbero andati…
Comunque, dopo averci pensato su tutto il giorno (e anche la notte precedente, a onor del vero), Yasu aveva infine deciso di indossare un tubino nero, con giacca e stivali in tinta e calze a righe sui toni del grigio, per sdrammatizzare. Odiò vieppiù i suoi capelli, infine decise di raccoglierli in una minuscola coda, tenuta su a viva forza da una serie di mollette. Completò tutto con degli orecchini a cerchio poco vistosi e con un ciondolo regalatole da Ken anni prima, e giusto un tocco di eye liner.
Infilò portafogli, telefono e chiavi in una minuscola borsa nera e scivolò fuori dal J-Village, usando degli opportuni corridoi di servizio. Riuscì così a non incrociare nessuno, a parte un paio di donne delle pulizie.
Il motore della spider nera cantò sotto di lei. Munemasa aveva gli stessi gusti di suo fratello Ichirou in fatto di macchine. Per parte sua, Yasu, pur riconoscendone la bellezza, aveva nostalgia della piccola Yaris rossa, abbandonata da anni nel garage della villa di Nankatsu. Chissà se si sarebbe mai rimessa in moto…
Uscì dal parcheggio e imboccò la via per Meiwa. Non aveva fatto che pochi metri quando scorse la fermata dell’autobus. Notò con sorpresa che c’era qualcuno lì ad aspettare.
Takeshi Sawada.
L’istinto fu di tirare dritto. Tanto non l’avrebbe riconosciuta. Ma poi pensò che, se era tornata per rimettere a posto le cose, dare un passaggio a Takeshi poteva essere un ottimo modo per iniziare: infondo casa sua era a un paio di isolati da quella di Ken.
Infondo, anche se ora stava insieme al suo ex, Takeshi era stato uno dei suoi migliori amici.
Inchiodò e innestò la retro. Vide il ragazzo ritrarsi, un po’ spaventato dalla strana manovra della macchina sconosciuta.
“Tranquillo, Takeshi, sono io” si palesò Yasu, abbassando il finestrino oscurato. “Serve un passaggio fino a Meiwa?”.
“Ya-chan!” esclamò il ragazzo, mentre un sorriso enorme gli illuminava la faccia rotonda. La luce si spense in fretta: “Cioè Yasuko, ciao” Aprì la portiera e si sedette. Il vecchio Sawada le si sarebbe buttato al collo stringendola forte. Questo se ne stava seduto rigidamente, lo sguardo fisso in avanti, torcendosi le mani in grembo.
La ragazza cercò di rivolgergli un sorriso rassicurante, poi inserì la marcia e partì.
“E’ questa la tua macchina?” chiese Sawada, guardandosi intorno dubbioso.
“In realtà l’ha presa a noleggio Mune- ehm, il signor Katagiri e me l’ha gentilmente prestata per stasera”.
“Ah”.
Seguirono alcuni momenti di silenzio imbarazzato. Sembrava di sentire i due cervelli lavorare alacremente alla ricerca di un qualsiasi argomento consono.
“Erano tutti molto felici di rivederti, sai?” disse infine Takeshi.
“Già” sorrise lei ripensando alla calorosa accoglienza che i ragazzi le avevano riservato quella mattina… si era quasi commossa.
Ridendo, ricordarono gli abbracci gioiosi di Taki, Teppei, Takasugi e Izawa, suoi amici fin dalle elementari, l’abbraccio da polpo del solito Soda, le calorose strette di mano di Tsubasa, Misaki, Misugi e Matsuyama. Infine Jito che l’aveva sollevata come un fuscello, scaraventandola nelle braccia di Kojiro, il quale, in un esilarante mix di affetto profondo e imbarazzo, l’aveva afferrata e stretta brevemente fra le braccia. Takeshi si era limitato a salutarla da lontano.
“Finalmente ho conosciuto Aoi” osservò Yasu. “È davvero una sagoma come avevo sentito dire”. Le risate di entrambi riempirono il basso abitacolo della spider, ricordando la buffa performance di Shingo Aoi. All’inizio non aveva neppure notato l’ingresso di Yasu nella palestra: aveva continuato a chiacchierare a macchinetta con Sano, col quale stava facendo l’esercizio. Preso dalla foga del discorso, si era accorto solo con qualche attimo di ritardo che non solo Mitsuru non era più vicino a lui, ma che tutti quanti si erano alzati ed erano andati ad assieparsi verso la porta. “Che succede?” aveva chiesto svagato, “fatemi vedere!” aveva protestato, di fronte al muro di giocatori, quasi tutti più alti di lui. Lesto, come lo era in campo, si era insinuato fra i compagni fino a trovarsi di fronte a Yasu, che lo aveva guardato con un sorriso.
“Tu sei il famoso Shingo Aoi, piacere”.
“Piacere mio” aveva mormorato il ragazzo, arrossendo e accennando un timido inchino. “Tu chi sei?”
“E’ Yasu Wakabayashi, capra” lo aveva rimproverato Nitta con uno scappellotto.
“Ah!!! La sorella di Genzo! Quella che stava con Ken e poi è andata via! Quella che faceva i massaggi!”
Yasu aveva annuito ridendo di gusto, mentre tutti si prendevano il volto fra le mani.

 
Parlando dei vari membri della nazionale, il breve tempo del tragitto verso casa di Ken era trascorso rapidissimo. Scorsero il cancello di casa Wakashimazu e Ken appoggiato al muro.
Vedendo la macchina fermarsi, Ken si avvicinò.
“Ah!” esclamò stupito, vedendoli scendere. “Siete… venuti insieme?”.
“Sì” lo informò Takeshi, “mi ha visto alla fermata del bus e mi ha dato un passaggio”.
“E’ stato gentile da parte tua” sussurrò Ken, carezzando la spalla di Yasu. “Lo sai, sì, che sei uno schianto, con questo vestito?”
La ragazza deglutì: se lei era uno schianto, lui era un dio. Bellissimo in camicia bianca, jeans scuri e scarpe eleganti: il ricordo del loro primo appuntamento le mozzò il respiro.
Mentre lei non riusciva a non fissare il portiere, lo sguardo di lui era passato alla la macchina.
“Gran bel gioiellino, complimenti…”
Yasu stava per rispiegare la storia del noleggio, ma le parole successive di Ken la colpirono come un macigno fra capo e collo.
“…ma in tre non ci stiamo”.
La ragazza non riuscì ad articolare niente, né una protesta, né una domanda, il dialogo che procedeva fra i due calciatori, lo sentiva provenire come da lontano.
“Prenderemo la mia” diceva Ken.
“Ma tu non puoi guidare con quella spalla! E io non ho ancora la patente!”
“Faremo guidare Yasu, se per lei va bene…Eh, piccola?”
“Eh?” si risvegliò lei, sentendosi chiamata in causa.
“Puoi guidare tu la mia macchina?” le ripeté Ken.
“Sì, certo…” balbettò in risposta. “Scusa non sapevo venisse anche lui” disse infine, pentendosi della nota di disprezzo messa su quel pronome, nell’istante stesso in cui lo pronunciava.
“Ma sì” suggerì timidamente Takeshi. “Andate voi due. Avrete tante cose da dirvi e…”
“No” lo interruppe Ken. “Voglio che venga anche tu”.
Sawada cercò gli occhi di Yasu, ma lei li volse con decisione altrove.
Il ristorante scelto da Ken era molto bello, tradizionale, ma arredato con gusto moderno. Aveva riservato una saletta privata dove cameriere precise, silenziose ed eteree come le geishe dei tempi antichi, collocarono con grazia diversi assaggi di cibi per poi lasciare soli gli ospiti, come da essi esplicitamente richiesto.
Yasu, Ken e Takeshi si accomodarono su dei cuscini disposti attorno al tavolo, piluccando assaggi dell’ottimo cibo, accompagnato da una conversazione pacata circa le novità al J-Village, le avventure europee di Yasu e quelle degli altri nei rispettivi club, e innaffiato da una discreta quantità di sakè.
Yasu stava bene: se non ci pensava troppo, le sembrava di essere tornata a scuola. Eppure sentiva anche le parole non dette permeare l’aria, simili a scosse di energia elettrica.
L’alcol e la stanchezza ebbero presto la meglio su Sawada, che si addormentò beato sui cuscini, o almeno così volle lasciare intendere.
Ken e Yasu si scambiarono un’occhiata d’intesa, accompagnata da un sorriso.
“Andiamo a prendere una boccata d’aria?” suggerì il portiere, alzandosi e porgendo la mano a Yasu, che annuì emozionata. Si lasciò condurre, attraverso la portafinestra verso il piccolo e curatissimo giardino, anch’esso, come la saletta, riservato a loro.
Era una notte di tarda primavera, una brezza tiepida e profumata carezzava il viso. Yasu non aveva messo le ciabatte e rabbrividì leggermente sentendo l’erba fresca sotto i piedi, lasciandosi sfuggire un mugolio di piacere.
La mano grande e calda di Ken le avvolgeva ancora le dita. Il suo profilo, la sua voce che raccontava della scorsa stagione in J-league, erano familiari, come le canzoni di un cd ascoltato tante volte che, finita una traccia, inizi a cantare quella successiva ancor prima che parta.
La condusse vicino a un minuscolo laghetto e si sedettero sui grandi ciottoli bianchi che lo delimitavano.
“Cosa volevi dirmi, senza Takeshi?” chiese Ken, dopo qualche attimo di silenzio.
“Ma niente, avevo frainteso le tue intenzioni, ecco… ma infondo hai ragione tu… stare una serata io e te da soli sarebbe stato come riscaldare una minestra che comunque è da buttare…”
“Non è tutto da buttare” intervenne lui, aggrottando le sopracciglia.
Yasu ebbe un attimo di esitazione, in cui credé che Ken l’avesse sentita parlare col padre, ma poi capì che, semplicemente, la pensavano alla stessa maniera.
Come prima succedeva tanto spesso.
Suo malgrado, un sorriso le sbocciò sulle labbra. Allungò una mano a sfiorare il pelo dell’acqua e le ninfee che galleggiavano sopra.
“Io, invece, avrei mille cose da dirti…” proseguì lui, lo sguardo rivolto al laghetto, “non sai quante ne ho pensate in questi mesi… se tenessi un diario come fai tu, avrei scritto una specie di enciclopedia”
“Non lo tengo più, il diario”.
“Uh? Peccato…”
Silenzio.
“E invece tu…” chiese a un tratto Yasu. “Cosa mi volevi dire con Sawada?”
“Volevamo dirti che ci sei mancata tanto e che ti vogliamo bene, e…”
La mano di Yasu si strinse a pugno, ma l’acqua ne fuggì via subito.
“Smettila con questo “noi”, non ha senso…”
“Certo che ha senso.” Il tono era quasi offeso. “Noi siamo…”
“Lo so cosa siete, cazzo!Solo… credevo che stasera fosse per parlare, un’ultima volta, di quello che eravamo tu e io…”
“Yasu…” Ken tentava di controllarsi, ma faceva fatica. “Lo capisci che non c’è più niente da dire? Ti ho fatto male, lo so, e ti chiedo scusa. Ma non l’ho fatto apposta, se avessi potuto te l’avrei risparmiato… Kamisama, Yasu sei la prima e credo sarai l’unica donna che io abbia mai amato. E ti amo ancora, solo non come tu vorresti…”
Yasu si alzò di scatto. Lui stava dicendo esattamente quello che lei sperava: in fondo, la sua più grande paura era di scoprire che la loro storia non fosse stata altro che una menzogna e che lui non l’avesse mai amata come diceva. Ora sapeva che non era vero e una parte di lei, si sentì tanto leggera da pensare che, alzandosi da quel sasso, avrebbe spiccato il volo.
Ma l’altra parte ribolliva di rabbia e voleva vendetta. E fu quest’ultima a spingerle la voce lungo la gola e attraverso i denti serrati.
“Finiscila con queste cazzo di frasi da film, non leniranno mai il male che mi hai fatto! Anche io ti ho amato, ma ora ti odio”.
Gli occhi di Ken, ora rivolti a Yasu, fiammeggiarono.
“Bene. Ti sei fatta migliaia di chilometri per venirmi a dire questo? Allora siamo a posto, no?” ringhiò, alzandosi in piedi.
“Non è tutto. Volevo anche dirti che ho un altro, quindi esci dalla mia vita!” gli sputò contro lei, prossima alle lacrime.
“Consideralo già fatto”. A rapide e grandi falcate il portiere tornò nella stanza, afferrò la propria giacca e raccolse le chiavi che Yasu aveva appoggiate vicino alla borsa. Quindi uscì, quasi di corsa, dal ristorante.
Sawada si alzò di scatto non appena la porta si chiuse, guardò un attimo Yasu, poi si fiondò a sua volta fuori dal ristorante. Il rombo del SUV di Ken risuonò non distante, e si allontanò. Di lì a poco Sawada ricomparve sulla porta, Yasu, intanto, era tornata dentro e adesso stringeva fra le mani tremanti un generoso bicchiere di sakè.
“Non sono riuscito a fermarlo…”
“Lascia perdere, paghiamo e facciamoci chiamare un taxi…” disse lei brusca.
“Tu risolvi tutto così, vero? Paghi e pensi per te… Ken era furioso e un po’ alticcio, senza contare che la spalla gli dà fastidio per guidare, e tu lo lasci andare così?”
Yasu guardò Takeshi, il suo piccolo amico, il più giovane eppure il più saggio, sì, era sempre stato così… eppure… ora era anche uno sconosciuto. Uno sconosciuto che se la faceva col suo ex.
“Cosa credi, che io sia tranquilla?” squittì Yasu, ben decisa a non dargli la ragione che meritava.
“Tu, tu, tu, Yasuko Wakabayashi ti sei mai accorta che ci sono anche gli altri? Che hai messo in pericolo Ken…”
“Ma va, non fare il menagramo…”
“Se gli succede qualcosa, è colpa tua!”
Yasu rispose solo con un gesto stizzito della mano e andò alla cassa per pagare e far chiamare il taxi.
Di lì a poco, la ragazza ricomparve sulla porta della saletta privata.
“C’è il taxi, vuoi un passaggio, Sawada?” disse atona.
Il giovane centrocampista la seguì senza rispondere, mordendosi le unghie col cellulare all’orecchio.
“Non risponde” piagnucolò per l’ennesima volta, una volta nella vettura.
“Ah, può farlo anche per una settimana, te lo dico per esperienza, rassegnati”.
“Ma lo sto chiamando io, mica è arrabbiato con me, è arrabbiato con te!”
Yasu si morse le labbra. Stava per rispondere, quando la vista di un riverbero blu di lampeggianti le fece morire le parole in bocca. Salendo praticamente in braccio a Takeshi, si avvicinò al vetro.
Non c’erano dubbi: la macchina semidistrutta di traverso alla strada era quella di Ken.
“Si fermi” sussurrò, atterrita.
“Prego?” chiese il tassista.
“Si fermi!” gridò Takeshi, catapultandosi fuori dal veicolo ancor prima che si arrestasse completamente.

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Capitolo 3
*** Parte I, Epilogo ***


La brevissima chiusa di questa prima parte, che è tale solo perchè quella che verrà sarà strutturata in modo un po' diverso, benchè la storia sia unica.
Grazie a chi legge e chi commenta... Devo dire che mi avete fatto venir voglia di uno spinoff col pov di Munemasa... che, davvero, poverino, è un po' messo da parte... anche se credo che sia la cosa più "adulta" da fare in questo frangente, e quindi da lui, in contrasto con le emozioni ancora "adolescenziali" degli altri... mah, vedremo!
Grazie ancora e a presto!

nene


Parte I - Epilogo

Stavano già caricando Ken sull’ambulanza. Ho un attimo di nausea alla vista del lenzuolo imbrattato di sangue.
Se gli succede qualcosa, è colpa tua – le parole di Takeshi mi rimbombano in testa mentre lui, pratico come sempre, si è avvicinato all’ambulanza e parla coi paramedici. Vedo il barelliere scuotere la testa e Takeshi insistere, finché, l’uomo non gli fa segno di salire. Mi avvicino a mia volta, ma il portellone si chiude e Takeshi mi dice solo di seguirli col taxi, la sicurezza nelle parole in netto contrasto con l’espressione spaventata degli occhi
La strada è buia e la brezza tiepida adesso mi pare gelida o, forse, sono io che tremo per la rabbia, la paura e tutto il resto. Mi scuote il suono del cellulare che mi avvisa dell’arrivo di un messaggio. Mio fratello. Mi scrive di essere appena sbarcato e se qualcuno può andarlo a prendere.
Mi ero completamente dimenticata di Genzo. Mi risolvo di chiamare Munemasa e raccontargli tutto.
Naturalmente rimane shockato dalla notizia dell’incidente di Ken, ma si sforza di non perdere la calma e fa di tutto per infonderne a me. Mi dice che sarebbe andato lui a prendere Genzo in aeroporto e poi ci avrebbero raggiunti.
“Cerca di stare calma, e vai da lui” conclude.
Rannicchiata in un angolo del sedile posteriore del taxi, il mio cuore è tormentato per la salute di Ken, mi sento in colpa e continuo a pensare all’ultima cosa che gli ho detto: “ti odio”. Non è vero, cazzo, non è vero: lo amo ancora, disperatamente. Mentre non riuscirò mai, ad amare Munemasa nello stesso modo solido e disinteressato con cui lui ama me, tanto da togliermi dai guai e dirmi di correre al capezzale dell’ex di cui sono ancora innamorata.
Corro a perdifiato lungo i corridoi dell’ospedale. Finché non sento la voce di Takeshi. Fatico a riconoscerla, perché non lo avevo sentito praticamente mai così arrabbiato e capisco che sta discutendo con qualcuno che non vuole dargli notizie sulla salute di Ken. Mi fermo dietro un angolo, alla ricerca di una qualche soluzione… se solo fossi ancora iscritta alla facoltà di medicina, col tesserino potrei… poi mi viene un’idea: mi tolgo gli orecchini e infilo uno dei cerchi all’anulare della mano destra. Poi li raggiungo.
“Yasu!” Takeshi, il volto rigato di lacrime, evidentemente lieto di vedermi.
“Signora” mi saluta il medico con un inchino. “Stavo spiegando al signore, che non siamo autorizzati a fornire notizie a chi non è parente del paziente… lei è…?”
“La moglie” affermo io, mostrando l’orecchino al dito, pregando che non si vedesse il fermaglio.
“Veramente non ci risulta che il signor Wakashimazu sia sposato”
“Beh, lo saremo fra qualche giorno…” recito io. “Mi perdoni ma per me è come se lo fossimo già… anche se ora forse…” fingo un pianto che poi tanto finto non è. “Non so se capisce… per me è stato il mio sposo fin dal primo momento, abbiamo anche lo stesso gruppo sanguigno, se non è destino questo, lei mi capisce”.
Se la situazione non fosse stata davvero drammatica, io e Takeshi ci saremmo ammazzati dalle risate. Dicevo sempre a Ken che lui era più che la mia anima gemella perché, a differenza del mio “vero” gemello, avevamo lo stesso gruppo sanguigno. E lui mi diceva che ero patetica.
“Veramente?” fa a un tratto il medico.
“Cosa?” ribatto io. Avevo detto così tante cavolate che…
“Lei ha veramente lo stesso gruppo sanguigno del signor Wakashimazu?”
“Sì, certo”.
“Allora mi segua”.
Mi afferra per un braccio e mi trascina oltre l’agognata porta.
Riesco solo a scambiarmi con Takeshi un ultimo sguardo. Mi sorride e mi fa “ok” col pollice, eppure nei suoi occhi c’è rabbia.

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Capitolo 4
*** Parte II, cap. 1 ***


Ecco la Seconda Parte, che mi piace definire così perché narrata diversamente dalla Prima. Si tratta della parte più "antica" della miniserie con Yasu e Munemasa, in realtà quella da cui, poi, è nato tutto.
Buona Lettura!

@Mel: c'è una chicca per te che ti farà scompisciare.

@Rel: ce n'è una anche per te, mi ci hai costretto XD... scherzo mi ha fatto piacerissimo! Il minimo per quanto ti ho stressato con 'sta FF^^




Parte II, cap. 1


La mano e la fronte poggiati al vetro, Yasu osserva la sacca di sangue, il suo sangue, e vede, o le pare di vedere, anche da quella distanza, le gocce stillare lente, a una a una, lungo il tubicino fino all’ago e al braccio inerte del ragazzo disteso sul lettino.
Le dita si contraggono senza afferrare niente, provocando solo un leggero stridio di unghie sul vetro. Si rende conto di invidiare con tutta se stessa quelle gocce che sarebbero arrivate al cuore di Ken, loro. Cerca di aggrapparsi al pensiero che, così, qualcosa di suo sarebbe stato per sempre parte di lui, ma non lo trova per niente consolatorio. Forse perché al fianco di Ken, adesso come in futuro, ci sarebbe stata un’altra persona. E lo stesso, forse, sarebbe stato per lei, ma tutto era ancora così confuso. A Parigi era stato facile abbandonarsi alla storia con  Munemasa, ma tornare in Giappone, ritrovare Ken e tutti i luoghi, i profumi, le persone che avevano fatto parte della loro storia… rendeva le cose maledettamente difficili. E Munemasa era così distaccato…
Yasu si stringe le braccia attorno al corpo, alla ricerca di un abbraccio che nessuno sembra poterle dare, lentamente, stacca la fronte dal vetro e osserva la propria immagine incorporea riflessa nella lastra trasparente. Bella, non lo era mai stata ma ora, coi capelli arruffati, il volto pallido e profonde borse sotto gli occhi, fa quasi spavento. Invece lui, anche dopo il brutto incidente, lui, prostrato e pallido, disteso in quel letto, non riesce a non essere comunque bellissimo… troppo bello per lei… troppo…
Per tutti gli anni delle superiori lui era stato il suo tutto: il compagno di scuola, l’amico, l’amante, persino il fratello, quando Genzo era lontano, il primo amore, il primo bacio, la Prima Volta, la prima sbronza, la prima canna; insieme avevano studiato, bigiato la scuola, si erano allenati, avevano litigato, si erano presi cura l’uno dell’altra, avevano imparato a conoscersi meglio di chiunque altro. O almeno così Yasu aveva sempre creduto.
Adesso, si rende conto di quanto in quegli anni la sua felicità fosse stata troppo perfetta, come un vetro talmente pulito e intatto, che non lo vedi. E ci sbatti contro. Allora compare una crepa, prima sottile, poi sempre più ampia e solo in quel momento ti accorgi della sua esistenza, un istante prima che vada in mille pezzi.
La crepa era apparsa in quel terribile giorno in cui Ken aveva abbandonato. Aveva abbandonato la nazionale, lei e tutto quello che lui era stato fino ad allora.
Si rivede in piedi di fronte alla porta dell’ufficio di Mikami, nell’atto di bussare. Ormai, nella sua mente, aveva ripercorso tante volte quegli istanti, che le si dipanano davanti come un film. Vede la sua mano alzarsi e fermarsi, sentendo delle grida provenire dall’interno.

Urlavano tanto, che udivo distintamente le parole di Ken, proprio lui che non alzava mai la voce: “Lascerò la nazionale giovanile, non voglio essere un rimpiazzo temporaneo…io alle eliminatorie e Wakabayashi al campionato… mi sembra una presa per i fondelli! Io non sono il cane al guinzaglio di Wakabayashi!”
Seguì uno schianto terribile, la scrivania che andava in pezzi sotto un suo possente colpo, seppi in seguito. I suoi passi che si avvicinavano alla porta mi fecero trasalire. Arretrai un po’, per dare l’idea di star arrivando solo in quel momento.
Quando Ken uscì, stentai a riconoscerlo, tanto il suo viso era stravolto dalla rabbia e gli occhi accesi di una luce che non avevo mai vista. Si arrestò vedendomi, mi sforzai di salutarlo come se nulla fosse, stava a lui parlare. Facemmo ancora alcuni passi nelle rispettive direzioni, ci incrociammo e oltrepassammo. Il mio cuore era praticamente fermo quando, un attimo dopo, con voce tremante lui disse che mi voleva parlare.
Poco dopo nella mia stanza si svolse una scena paradossale. Lo ascoltavo come in trance, dandomi pizzicotti tanto forti nelle gambe che il giorno dopo mi spuntarono dei lividi: non riuscivo a credere che stesse accadendo davvero.
Ken raccontò di aver udito Mikami parlare al telefono con Genzo e promettergli la maglia da titolare al campionato mondiale. Mentre lui sarebbe stato schierato solo nelle fasi eliminatorie.
Mikami non me lo aveva mai detto chiaramente, né tantomeno mio fratello, ma un po’ me l’ero immaginato, che i piani fossero quelli. Tuttavia, avevo fiducia che Ken si sarebbe dimostrato più che all’altezza durante le eliminatorie e che, allora, se ne sarebbe potuto discutere. Tanto più che i polsi di Genzo erano ancora in brutte condizioni e non c’erano certezze sui tempi di guarigione. Insomma, era tutto da vedere: avevo fiducia nelle qualità del mio ragazzo e sapevo che avrebbe saputo mettere una bella ipoteca sul ruolo da titolare di mio fratello, guadagnandoselo sul campo, da grande combattente qual era.
Invece lui non aveva riposto nessuna fiducia in me. Non aveva provato a parlarmi per prima, quasi non considerasse rilevante il mio ruolo di assistente dell’allenatore. Ma, soprattutto, non si era confidato con la sua ragazza e amica. Certo, avevo notato che da un po’ di tempo Ken era più distante, ma lo avevo imputato allo stress della competizione: avevo imparato che durante i ritiri era bene stargli alla larga… in tanti anni insieme si impara anche questo.
Avevo creduto fosse uno dei “bassi” che sempre esistono nelle relazioni… ma mi ero sbagliata di grosso.
Ken aveva qualcosa e, per la prima volta, non ero stata capace di capirlo…
Mi raccontò quello che avevo già sentito da sola, e lo fece senza guardarmi negli occhi, standomi di fronte, a due metri buoni dal letto su cui, più che seduta, ero accasciata.
Coprì la distanza che ci separava con una lunga falcata e mi si accucciò davanti, cercando il mio sguardo fisso a terra.
“Vado a Yokohama, accetto la proposta dei Flügels…” inspirò profondamente, accennando un sorriso “sei la prima a cui l’ho detto… e vorrei che rimanessi la sola a saperlo…”
La prima e la sola… se solo allora lo avessi saputo, cosa avrebbero poi significato quelle parole…
Eppure anche in quel momento mi fecero male… avrei voluto saperlo prima, ma prima che diventasse una decisione presa, avrei voluto che lui si fidasse di me, che mi confidasse le sue pene invece di limitarsi a comunicarmi le sue risoluzioni.
Ma non glielo dissi, la voce non venne. Deglutii a vuoto.
“Nell’accordo, è compreso l’alloggio… avrò un appartamento tutto mio… puoi venire anche tu, se vuoi…”
“Il problema è se lo vuoi tu” sibilai, secca, ma con un filo di voce.
Il ragazzo trasalì. Sembrò riflettere un attimo, poi chiuse gli occhi e mi afferrò le mani: “Vieni con me” sussurrò.
Ma non c’era convinzione nella sua voce, non c’era il velluto che ero abituata a sentirci.
Lo fissai un attimo, inginocchiato davanti a me, maledettamente bello. Me lo ero immaginato tante volte così, ma aveva un anello in mano e tutt’altre cose da dirmi. Cercai di scacciare quella stupida fantasia da femminucce, ma più lo guardavo e più era il mio principe. Combattei contro il rossore che voleva salirmi alle guance e contro le lacrime che, invece, puntavano decise ai miei occhi. Mi alzai di scatto, offrendogli le spalle.
“Non è così facile, Wakashimazu. Mi sono presa degli impegni… ho degli obblighi verso Mikami, verso la squadra…” dissi, col preciso intento di fargli male. E mi voltai per vedere se il colpo era andato a segno.
Vidi la sua mascella serrarsi, i muscoli del collo tendersi e i pugni stringersi. Un fremito gli attraversò il corpo mentre a fior di labbra ripeteva “Vieni con me”. Ma quello era solo ciò che si imponeva di dire.
I suoi occhi dicevano: “Lasciami andare”.
E io lo amavo troppo per non dargli quello che silenziosamente mi chiedeva.
“Vattene” scandii e la voce uscì come un ringhio sommesso.
Lui mi fissò e nel suo sguardo c’erano tristezza, stupore e… sollievo. Poi in silenzio, se ne andò.
Sentii le gambe cedere e mi trovai carponi a fissare le assi del pavimento e le dita che vi poggiavano… mi stupii che non fossero piene di sangue perché avevo la sensazione precisa di essermici strappata il cuore, con quelle mani.
In corridoio, le grida dei ragazzi, il rumore di una pallonata.
Ma io vedevo solo una macchia allargarsi sul pavimento, nel punto dove le lacrime cadevano silenziose.

Da quel momento in poi la crepa si era allargata sul vetro, diramandosi attraverso una serie di eventi spiacevoli, dal malore di Mikami, all’avvento di Gamo con il conseguente allontanamento dalla Nazionale di Hyuga, Misaki, Jito, Nitta, Soda e dei Tachibana, e di Yasu stessa dallo staff. Certo, ci fu la gioia della vittoria del World Youth, ma dalla tribuna non era la stessa cosa. Infine il matrimonio di Sanae e Tsubasa, dopo il quale tutto andò davvero in pezzi.

Invidiavo profondamente Yuzo: una frattura alla gamba gli aveva impedito di partecipare a quel nefasto evento. Io me le sarei volentieri spezzate tutte e due, le gambe, piuttosto che prendervi parte. Sebbene nel corso degli anni molte divergenze si fossero appianate e, tramite il gruppo di tifosi della nazionale, ci fossimo persino riavvicinate, un’incompatibilità  quasi fisiologica mi divideva dalla Nakazawa.
Le mani mi tremavano di rabbia, tanto che non riuscivo ad agganciare il sobrio girocollo che avevo deciso di indossare. Sentii le mani grandi ma delicate di mio fratello venirmi in soccorso.
“Cosa c’è?” mi chiese, sollecito ma un po’ spazientito.
“C’è che quella ci godrà un sacco, a vedermi al suo matrimonio al braccio di mio fratello”.
“Mi sa che ti dai troppa importanza” mi rimproverò, aspro. “Credo che Sanae abbia ben altro per la testa che vedere con chi sei tu. Piuttosto… preparati, perché sicuramente ci sarà anche lui. Sei riuscita abilmente a dribblarlo alla festa per la vittoria, ma non potrai farlo in eterno. Tanto più che io devo averci a che fare e, sinceramente, tutti questi misteri mi mettono in difficoltà. Io credo che dovreste chiarirvi, una volta per tutte”.
“Cosa c’è di non chiaro? Non mi vuole più, ecco tutto” risposi, serrando gli occhi per impedire alle lacrime di uscire e rovinare il trucco.
“E non vuoi sapere perché?”
“Perché?” gli feci eco. “Cambierebbe qualcosa?” ringhiai, allontanandomi dal tocco caldo delle mani di Genzo, che mi accarezzavano le spalle lasciate scoperte dall’elegante abitino da cerimonia.
“Kamisama, Yasu, siete stati insieme un sacco di anni, lasci che finisca così, senza neanche sapere il perché? Eppoi eravate anche amici, no? Buttate via tutto in questo modo? Mi chiedo cosa ho fatto di male io, per avere a che fare con due teste dure del vostro calibro! Ti aspetto giù, muoviti.” Concluse, uscendo a grandi passi dalla stanza.
Con un gesto rabbioso mi asciugai le lacrime e riaggiustai il trucco. Sistemai i capelli tirandoli all’indietro e cercai la mia immagine nello specchio: nonostante lo sguardo severo, si vedeva che avevo pianto. Passerà anche questa, mi ripetevo.

Sanae non infierì affatto come mi aspettavo. Evitò di lanciare il bouquet nella mia direzione e di accompagnare il gesto con prevedibili battute circa la mia abilità nel bloccarlo. Aveva avuto persino la delicatezza di assegnarmi un posto al tavolo dei vecchi compagni della Nankatsu e non assieme all’ex gruppo Toho. Forse mi sbagliavo sul conto della neo signora Ozora, forse lei era riuscita ad andare avanti nella sua vita e a chiudere col passato, lei. O forse aveva ragione Genzo e Sanae aveva semplicemente di meglio a cui pensare.
Le battute idiote di Ryo e i suoi esilaranti battibecchi con Yukari, si rivelarono un ottimo diversivo. Quando i tavoli furono spostati, poi, Mamoru, Hajime e Teppei si dettero il cambio per farmi ballare. Dopo quasi un’ora di ballo ero stanchissima e accaldata e, alla ricerca di qualcosa da bere, mi imbattei in Misugi che sorseggiava una bibita, pensieroso. Osservava Yayoi che si era allontanata per andare a salutare la sposa e le altre amiche di sempre Kumi, Yoshiko, Yukari.
“Chi osa abbandonare un principe di fronte al tavolo dei rinfreschi?” dissi, interrompendo evidentemente i suoi pensieri e facendolo sussultare.
“Oh, Yasu, sei tu. Eh, che ci vuoi fare… ultimamente sta molto più con me che con le sue amiche e le mancano…”
“Già, immagino” risposi con un tono più sarcastico di quanto volessi.
Mi guardò e sorrise: “Lo so. Non ti sono mai andate troppo a genio, sei diversa, tu…”
“Già” ammisi, ridendo a mia volta. “Peccato che essere diverse non paga…”
“Che vuoi dire?”
“Che sono le brave ragazze quelle che alla fine sposano il principe…”
Jun non rispose subito. Si voltò verso di me, guardandomi con quei suoi intensi occhi color nocciola. Misugi non è mai stato il mio tipo, ma non posso negare che sia davvero affascinante come dicono. E poi ha quell’eleganza innata che ti mette un po’ in soggezione. Per un attimo, l’indecisione distorse i bei tratti del volto, poi un sorriso molto dolce si dipinse sulle labbra disegnate.
“Tu sei una bravissima ragazza, solo forse… un po’ meno trasparente di altre. Non ti crucciare, sii te stessa e vedrai, ci sono più principi di quanti pensi…”
Arrossii e rimasi un attimo perplessa… cosa voleva dire? Ma proprio in quel momento, qualcuno mi sfiorò la spalla per attirare la mia attenzione: Kojiro.
 “La Wakabayashi femmina stasera sembra una femmina davvero e non si ricorda più dei suoi vecchi compagni di bagordi?”
“Ci mancherebbe”, sorrisi. Ci congedammo da Jun, scusandoci brevemente e ci avviammo verso il giardino. Kojiro mi porse educatamente il braccio, che afferrai sgranando gli occhi. Forse ero davvero io ad avere un’idea troppo negativa delle persone: quella sera tutti superavano le mie aspettative.
“Sei… sei proprio carina questa sera, se posso dirlo” bofonchiò, senza guardarmi negli occhi. “Lo hanno notato tutti al nostro tavolo”. Si bloccò, come rendendosi conto di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Ho saputo che ti vedi con una ragazza…” tentai di venirgli in soccorso, anche se l’effetto fu solo quello di farlo arrossire ulteriormente.
“Sì, Maki… è una tipa a posto, ti piacerebbe”
“Ne sono sicura”.
“Potremmo uscire tutti insieme qualche volta…”
Rispondo con sorriso amaro, accompagnato da un sospiro.
“Eri una di noi, ci manchi” incalzò Kojiro.
“Mi mancate anche voi, ma…”
“Ma non ti va di vedere me” dal buio del giardino, si materializzò la figura inconfondibile di Ken Wakashimazu. Bellissimo nel completo scuro che indossava.
“Cos’è un agguato?”osservai, cercando di ostentare indifferenza e ignorare il profumo di lui che già mi solleticava le narici. “E comunque non è esatto. Sei tu che non vuoi vedere me, credo”.
“Ti sbagli” rispose, allungando una mano per carezzarmi il viso. Il mio cuore batteva a mille e quando la mano grande di Ken mi sfiorò la guancia, smisi di respirare. Per un attimo credei che sarei caduta a terra come un sacco di patate. Una lacrima scese rapida e lui la asciugò con il pollice. Poi mi fece scivolare le dita dietro al collo e mi attrasse gentilmente a sé. Mossi alcuni passi incerti, poi mi lasciai avvolgere da quell’abbraccio tanto familiare, dal profumo dei suoi capelli e del suo corpo. Forse era da vili, forse mancavo di rispetto a me stessa, ma sarebbe bastata una parola, e quegli ultimi mesi li avrei semplicemente dimenticati, avremmo ripreso da dove eravamo rimasti. “Non sai quanto ho pensato a te”, mi sussurrava adesso. “Quanto mi è mancata la tua presenza, piccolina mia”.

Yasu sussulta, sentendosi toccare una spalla. Si asciuga rapidamente le lacrime. La mano che l’aveva toccata sale a sfiorarle la guancia. Si trova a fissare due occhi uguali a quelli aveva visti riflessi nel vetro. Questi però non sono tristi, ma severi.
“Non dovresti stare qui, dovresti riposarti”.
“Mi riposerò in aereo, Genzo, non occorre che vieni a salvarmi ogni volta”.
“In aereo?” chiede lui, ignorando il resto della frase.
“Andiamo in Germania, prima possibile”.
“Yasu, hai passato dei giorni terribili, chissà quant’è che non dormi… non sei nelle condizioni di fare un viaggio intercontinentale… e poi…” Si gratta la nuca, a disagio e guarda Ken, al di là del vetro. “Non vuoi aspettare che si riprenda… non vuoi… salutarlo?”
Yasu scuote la testa, mordendosi il labbro inferiore. Inspira e con voce ferma dice: “Nein, ich will nach Hause”.
“Va bene, ma a Nankatsu. Starai un po’ lì e poi ripartiremo per la Germania. Anche perché io, a questo punto, dovrò trattenermi al ritiro”.

****
Allora il cap è anche abbastanza lungo, denso e flashbackoso, ma non vi ho dato alcuna "notizia confortante" su Ken (mi spiace sissi!). Quanto a Mune... diciamo che anche in questo caso... chi leggerà, vedrà.
Grazie a tutti i lettori, i recensori, i seguitori e i preferenti... e anche a chi legge zitto zitto :)

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Capitolo 5
*** Parte II, cap. 2 ***


Eccoci qua, incredibile ma trovo il tempo per aggiornare... Siccome nelle varie stesure e correzioni ho cambiato mooolte volte i tempi verbali, spero di non averne scazzato qualcuno, a dispetto delle millemila riletture! Nel caso, grazie per volermelo segnalare. Grazie.


Parte II cap 2

“Non sarei mai dovuta tornare” singhiozza. Distoglie lo sguardo da Ken e da Takeshi che gli siede accanto e, appoggiandosi al braccio del fratello, si lascia condurre in stanza. Tornare alla villa di Nankatsu è un pensiero tutt’altro che consolante.

Il tavolo dentro il gazebo era coperto da una finissima tovaglia di lino, semplice ma di gusto, sopra, un vaso con dei fiori freschi e un vassoio di muffin caldi, che spargevano un odore delizioso, abbastanza intenso da vincere quello del giardino. In piena primavera, il parco attorno a villa Wakabayashi era uno spettacolo sontuoso e i ciliegi in fiore sulla collina completavano il quadretto.
“Se mai mi sposerò” avevo detto una volta a Nanny, “sarà qui, in primavera”.
Sono pronta a scommettere che la mia tata abbia pensato a quello mentre ornava la tavola: aveva persino sparso a bella posta petali di ciliegio nel gazebo. Si ricordava sempre tutto e, infatti, sulla tavola fumavano un perfetto tè verde giapponese per Ken e tè inglese e latte per me. E, naturalmente, i muffin al cioccolato, la segreta passione occidentale di Ken: era capace di mangiarsene anche quattro a colazione!
Eppure, quel pomeriggio, non li stava degnando di uno sguardo, già da alcuni minuti girava pensoso il cucchiaino nel tè che, tuttavia, non aveva zuccherato.
Appena arrivato, ci eravamo scambiati un saluto formale, poi si era lasciato prendere per mano e guidare verso il gazebo. Le sue bella dita affusolate rimasero quasi inerti fra le mie. Si era seduto e si era guardato attorno, quindi aveva detto con un sorriso forzato: “è bellissimo, qui”. Mi sono limitata ad annuire e servire il tè, dimenticando di fare una buona metà delle cose che sua madre, a suo tempo, mi aveva insegnato.
Al matrimonio di Sanae e Tsubasa ci eravamo promessi di organizzare un incontro e ora era arrivato il momento. Una parte di me non aveva mai smesso di sperare che Ken si gettasse ai miei piedi chiedendomi scusa, ma sapevo che non era venuto a fare quello. Ma neanche credevo volesse “solo spiegare” come diceva Genzo. In realtà, Ken quel giorno doveva dirmi una cosa enorme e terribile e, col senno di poi, ho capito benissimo il suo imbarazzo.
Ma in quel gazebo io ero solo curiosa, all’inizio.
Alla fine, invece, credo, gridai, perché Nanny e metà della servitù accorsero preoccupati. Nanny mi prese per mano e mi portò nella mia stanza, mentre il maggiordomo, fermo ma gentile, accompagnava Ken all’uscita. L’inflessibile Karate Keeper piangeva a vite tagliata e continuava a ripetere che gli dispiaceva e che avrebbe voluto risparmiarmi tutto quel dolore, e che per sempre sarei rimasta per lui l’unica e la sola…
Ma niente di quello che diceva poteva più tangermi, non dopo che mi aveva confessato di essersi scoperto omosessuale.
E di stare insieme a Takeshi Sawada.

 Yasu si sente la mente completamente vuota, mentre raccoglie le sue poche cose in una busta. Le tremano le mani. “È la stanchezza” dice, mentendo a se stessa e a suo fratello che la guarda preoccupata.
“Forse dovresti restare e farti visitare” le suggerisce lui, la voce ferma come sempre, ma dolce come non mai.
Yasu nota la stessa identica sfumatura in quella di Munemasa Katagiri che intanto si è materializzato sulla soglia, annunciando che una macchina li aspettava giù.
“La ringrazio signor Katagiri” dice Genzo, formale, accennando un inchino. “Potevamo prendere un taxi, non vorremmo creare alcun disturbo…”
“Nessun disturbo… Genzo” dice l’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. “E poi dovreste ringraziare la Federazione, che vi ha messo a disposizione la macchina!”. Quindi si avvicina a Yasu per prenderle la busta dalle mani. La guarda preoccupato, le mette una mano sula spalla poi, arrossendo, si decide ad abbracciarla. Si stupisce della forza con cui lei lo stringe a sua volta.
“Vedrai che si concluderà tutto per il meglio…” le sussurra, “adesso devi solo pensare a riposarti. Fra qualche giorno, se vuoi, ti vengo a trovare a Nankatsu, ok?”
Yasu annuisce debolmente, avrebbe voluto ringraziarlo per tutto quello che stava facendo e sopportando per lei, ma proprio in quel momento, dei passettini leggeri risuonano per il corridoio e ancora prima che la figura esile di Takeshi Sawada si affacci, Yasu sapeva che era lui. Conosce bene quel modo di camminare. Li ha sentiti mille volte, quei passettini, lungo il corridoio del dormitorio del Toho. Ogni volta che trascorrevano la serata a vedere un film dell’orrore, puntualmente, la notte, lui bussava alla sua stanza e poi dormivano insieme…
“Ya-chan” per un attimo crede che anche quel richiamo venga dai suoi ricordi. Invece, Takeshi ha appena parlato. E ora si morde le labbra, pentito.
Un’espressione seria è dipinta sul visetto pallido, mentre dice atono: “Ha chiesto di te, Yasuko”.
Per un attimo pensa che sarebbe semplicemente svenuta. Poi, però, le immagini davanti ai suoi occhi tornano nitide e le gambe - meraviglia!- si muovono. Evita accuratamente lo sguardo delle altre tre persone presenti nella stanza, perché ognuna di loro, per motivi diversi, avrebbe tentato di fermarla.
Invece le gambe, di nuovo forti, la portano in due ampie falcate fino al corridoio, lungo il quale si mettono a correre. Quei pochi metri bastano a farle venire il fiatone e deve appoggiarsi un attimo alla porta, per aspettare che il mondo smetta di girarle attorno, prima di entrare.
Una volta nella stanza si ferma ad alcuni metri dal letto. Ken ha gli occhi chiusi, la testa reclinata su di un lato, i capelli umidi di sudore sul volto pallido. Bello. Da far male. Dorme, forse non l’ha vista… può ancora andarsene, a Nankatsu o, magari, dall’altra parte del mondo. Si volta e mette la mano sulla maniglia.
“Piccolina mia” la voce è flebile e arrochita, ma il cuore di Yasu la riconosce subito e perde un battito.
“Non volevo disturbarti” mormora lei, facendo uno sforzo immane per controllarsi.
“Ho chiesto io di vederti”.
“Perché”.
“Avvicinati”.
Yasu si avvicina al letto stiracchiando un sorriso, le mani rigidamente dietro la schiena.
“Mi hanno detto che questa è roba tua” dice serio, alzando debolmente la mano per indicare la sacca di sangue appesa là sopra.
“Sì, pare fosse l’ultima risorsa…” fa lei, in tono apparentemente serio.
“Davvero?” chiede lui preoccupato.
“Sì. Hanno detto che se non ci riesce il sangue Wakabayashi a trasformarti in un portiere decente, non ci sono davvero speranze…” dichiara lei soffocando le risa.
“’fanculo” risponde Ken, ma, a sua volta, non riesce a trattenere una risata, che però gli scatena un forte attacco di tosse.
“Oddio, scusa… volevo solo sdrammatizzare un po’…” si giustifica lei, porgendogli un bicchiere d’acqua.
“È che ho… la gola… secca” balbetta lui, tossendo.
Yasu gli avvicina un bicchiere alle labbra sostenendogli la testa, e lo aiuta a bere qualche sorso d’acqua.
Calmata la tosse, Ken si distende: sembra spossato.
Silenzio.
Il ragazzo tenta di tirarsi su ma, con una smorfia di dolore, desiste.
“Ehilà, piano” sorride Yasu, sollecita, attivando il dispositivo per far alzare il letto. “Meglio?” chiede, una volta trovata la posizione che le sembra migliore.
Ken annuisce debolmente. “Peggio che dopo essere stati investiti da un camion” mormora, sorridendo a fatica. “E lo dico per esperienza”.
“O forse sei tu che sei invecchiato” ridacchia Yasu, prendendogli distrattamente una mano.
Lui risponde a quella stretta con tutta la forza che ha e la guarda negli occhi, improvvisamente serio.
“Avrò bisogno di te”.
Per un lunghissimo attimo, Yasu spera che sia successo davvero come in quei film, in cui uno batte la testa e si scorda un pezzo del passato. Desidera intensamente che Ken l’abbia battuta abbastanza forte da cancellare quegli ultimi, dolorosissimi mesi.
Ma la testa, riflette, non l’aveva battuta affatto.
“…anche Takeshi dice…” Yasu si è persa tutto il discorso del ragazzo, ma a quel nome sussulta. Si alza di scatto, serrando le labbra. Il primo istinto è stato di urlare che quel nome non lo vuole sentire e che lei se ne andava, per sempre, addio. Ma si volta e lo vede così pallido e indifeso e nei suoi occhi c’è… affetto, amore, e lei non riesce a sopportarlo. Si morde la lingua, fa un lungo sospiro e sforzandosi di sorridere dice: “Avrai tante persone che si prenderanno cura di te, vedrai”.
“Ma non tu”.
Ancora un sospiro, ancora trattiene la voce e le lacrime. Il “no” in risposta giunge strozzato. “Lasciami andare” lo prega infine.
“Lo pensi anche tu, no, che non è tutto da buttare… che ci sono state cose belle fra noi… e che non dobbiamo-”
“Ma non lo vedi?” le lacrime infine prorompono e anche la voce, finalmente, si libera in un grido. “Finisce sempre che qualcuno si fa male! E io non voglio! Quelle cose belle, ce le terremo sempre nel cuore ma noi… evidentemente il Giappone non è abbastanza grande per noi… anzi, ripensandoci, non c’è più alcun noi”.
Il volto di Ken si fa, se possibile, più pallido e il suo respiro affannoso. Le macchine a cui è collegato cominciano a suonare.
“Ke-chan” preoccupata, Yasu torna al suo fianco.
Gli prende la mano e lui apre gli occhi, mentre il respiro si acquieta. E’ lui stesso a fare cenno all’infermiera sopraggiunta che è tutto ok.
Yasu sorride e tira un sospiro di sollievo, accarezzandogli i capelli. “Non fare lo stupido come al tuo solito…”
“Yasu…” mormora.
“Non ti affaticare, se hai qualcosa da dirmi, lo farai poi. Adesso ti lascio riposare…”
“Allora non andrai via…”
La ragazza ha un attimo di esitazione.
“Ascoltami ti prego… se te ne vai… c’è qualcosa che devo dirti, prima”.
Yasu si siede di nuovo, in ascolto.
“Perdonami per tutto il male che ti ho fatto. Se avessi potuto evitartelo… proprio a te, che amo più di ogni altra cosa ma, sfortunatamente… non nel modo che vorresti”.
Assapora di nuovo quelle parole, come fossero le prime ciliegie della stagione, forse un po’ aspre, ma buone e… attese. Poi gli rammenta: “Me lo avevi, già detto, ricordi? Prima di…”
“Sì ma con tutto quello che è successo stasera…”
“Tranquillo. Non dimentico delle parole che aspetto di sentire da mesi”.
“E io da mesi desideravo dirtele… ma ora basta. Non parlerò più, Mi limiterò ad ascoltare. Raccontami del tuo nuovo amore”.

Ora capite perchè fra gli addetti ai lavori questa FF è nota come "La TraGGedia"... Dite la verità, da me non ve l'aspettavate XD
A presto e grazie a tutti!!!

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Capitolo 6
*** Finale ***


“Raccontami del tuo nuovo amore” le dice Ken, sorridendo debolmente.
“Io non…”
“Non era per questo che mi avevi cercato?” chiede con voce sommessa e dolcissima.
“Sì, per dimostrarti che stavo bene anche senza di te… o forse sarebbe meglio dire… per sbattertelo in faccia… Forse mi sono sbagliata a pensare di averti dimenticato” risponde Yasu confusa, alzandosi e allontanandosi per nascondere il leggero rossore che le è salito al viso. Ma Ken la trattiene per un braccio. La presa è sorprendentemente salda.
“Smettila” la rimbrotta sorridendo.“Non ti permetterei mai di dimenticarti di me… e non cambiare discorso… voglio sapere chi è! Lo conosco?”.
“Ehm… in realtà… sì” ammette.
Gli occhi di Ken si spalancano per la sorpresa. “Ma dai? È un nostro compagno di squadra?”
“Nostro? Mica gioco con te! Ma hai battuto davvero la testa? Ricordi quello è l’altro Wakabayashi…”
“Sì, quello che sarà gelosissimo di chiunque sia questo fortunato giocatore… dai, chi è?”
Adesso Yasu ha una voglia matta di giocare con la segreta natura curiosa nonché pettegola di Ken. Neanche tanto segreta.
“Indovina…” scandisce dunque, guardandolo di sottecchi.
“Eddai, Yasu” mugola lui, buttandola poi sul patetico, “sto male non mi devo sforzare troppo”.
“Seh, il cervello te lo puoi sforzare… una volta tanto”.
“Ma quanto sei simpatica, ah già dimenticavo che è una dote di famiglia” replica sornione. Poi sospira, sistemandosi in posizione seduta. “E va bene… vediamo… Kojiro purtroppo per te non è più sulla piazza… non fare quella faccia, lo sanno anche i muri che ti è sempre piaciuto. Vediamo… Izawa? Il primo amore non si scorda mai…”
“Ma, smettila! No!”
“Nitta?”
“Ma no! Non è più piccolo, anzi…”
“Jito?????”
“Intendo più grande non più grosso”
“Non Soda.”
“Oh, mio Dio no!Non sono ancora così-”
“… Katagiri?!?” C’è vivo stupore nella sua voce.
Yasu trasalisce, come cavolo…?
“Che ci fa qua il signor Katagiri?” prosegue Ken, indicando l’uomo che per un attimo era comparso al di là del vetro.
“È venuto a vedere come stavi, mi sembra normale…” balbetta Yasu, fissando il pavimento.
“Allora perché guardava te?” prosegue con tono inquisitorio e decisamente allusivo.
“Ma che ne sai, ha su gli occhiali-”
“Lo so. Ma ha la stessa faccia di Takeshi, nel vederci parlare e ridere così fra noi…” Ken fa una pausa, sbattendo le palpebre, pensoso. Scruta Yasu mordicchiandosi un labbro, gli occhi ridotti a fessure.  “È lui, vero, Yasu? È qui per te, non per me” conclude soddisfatto della sua deduzione. Non è una domanda, la sua.
Yasu guarda Ken. Lui le sorride, con quel suo sorriso raro e dolcissimo, come l’uva a ottobre. Gli occhi neri e profondi la fissano, come se potessero leggerle dentro e allora lei annuisce appena, e sorride, imbarazzata.
“Ah, piccolina mia… le cose semplici mai, eh?”
Vorrebbe rispondergli che con lui era stato semplicissimo, una volta superata la faida infantile Nankatsu-Toho.
“M’immagino tuo fratello…” prosegue lui, un po’ ridacchiando, un po’ tossendo. “Quasi quasi preferiva me…”
“Puoi dirlo forte… non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma era felice che stessi con te. Ora che sospetta di Munemasa mi ha fatto una testa così in differita… mi immagino adesso che è qui”.
“So che non ho più il diritto di dirlo… ma un po’ lo capisco… Il signor Katagiri è…”
“Grande? Vecchio? Sfregiato? Un dirigente della nazionale? O c’è qualcosa che non so?” chiede Yasu, un po’ alterata.
“Non ti incazzare subito… è normale che chi ti vuole bene si preoccupi per te…”
“Preoccupatevi quando sto male, non quando sono felice…” Si rabbuia, incrociando decisa le braccia sul petto.
“Beh, certo se sei felice, allora va bene così…” le sussurra, carezzandole un braccio, come per calmarla.
“Certo,” sospira lei, “in Europa tutto sembrava più semplice ma… credo di sì”
“Se c’è qualcosa che posso fare-”
La porta si apre, interrompendolo e un’infermiera entra nella stanza.
“Credo che adesso dovrebbe riposarsi, signor Wakashimazu” dice, guardando accigliata la cartella, poi alza la testa e osserva i due ragazzi. Ken è seduto e il suo aspetto pare decisamente migliorato. La donna sorride, distendendo la fronte: “Ma vedo che la compagnia della sua futura sposa non ha fatto che giovarle…”
Ken guarda stupito la donna e Yasu  evita accuratamente i suoi occhi indagatori, mostrando all’improvviso un profondo interesse per la porta del bagno.
“Adesso verrà il dottore” conclude l’infermiera, lasciando la stanza. “Dovrebbe uscire, signora, così vi riposerete entrambi”.
“Grazie, signora Sasaki, può andare, ci penso io” interviene il medico, entrando e lasciando passare l’infermiera. Il dottore è parecchio giovane, più o meno l’età dei due ragazzi.
“Allora è vero, Yasu, sei proprio tu!” esclama il medico stupito, non appena alza lo sguardo.
“Kirou? O dovrei dire il dottor Shibata?” chiede divertita Yasu, riconoscendo uno dei suoi vecchi compagni di università. Uno di quelli che era rimasto più sconvolto, quando lei aveva lasciato gli studi.
“Eeeh, quasi, sto facendo il tirocinio! Quando ho visto il nome sulla cartella non potevo crederci! Sei tornata? E sei ancora circondata da calciatori famosi! Anzi, convolerai presto a giuste nozze, dico bene?”
“Diciamo che volevo informazioni sulla sua salute e…”
“Capito, non ti preoccupare, anche io trovo stupida questa storia di informare solo i parenti. Se state ancora insieme dopo tanti anni, a parer mio, ne hai tutto il diritto. Bene, bene…” prosegue, avvicinandosi a Ken. “Vedo che si sente meglio… cosa non fa l’amore, eh? A quanto pare la dottoressa Wakabayashi non ha perso il suo tocco… era una delle migliori del nostro corso!”
“Lo so” ribatte Ken, prima che Yasu possa dire qualcosa. “Sono sempre stato uno dei suoi pazienti più assidui.” Continua, stringendole la mano e guardandola con occhi dolci e sornioni. “E come vede resta per me la migliore cura… davvero un peccato, che abbia abbandonato gli studi”.
“Ecco bravo, glielo dica. Magari riesce a convincerla, io glielo avrò ripetuto mille volte”. Poi, all’improvviso, si fa pensieroso, poi dichiara: “Avrei un’idea”.
Gli altri due lo guardano con aria interrogativa.
“A me servono letti e il signor Wakashimazu è giovane, forte e ha superato brillantemente la crisi. Adesso si tratterebbe solo di riposare e controllare le medicazioni. E io credo che riposerebbe molto meglio nell’infermeria del J-Village che qui, quanto alle medicazioni, puoi pensarci tu, no, Yasu?”
“Mi sembra un’ottima idea” sentenzia Ken, senza porre tempo in mezzo.
La ragazza  guarda entrambi sgranando gli occhi e finalmente riesce a intervenire: “Ma siete impazziti?”
“Andiamo Yasu, sei perfettamente in grado di occupartene. E comunque il dottor Kudo, che viene al J-Village è un mio amico e ti supervisionerà. Magari ti tornerà davvero la voglia di riprendere…”
A Yasu basta guardarli negli occhi per capire di non aver scelta. E, in fondo… l’idea di tornare a occuparsi delle cure dei ragazzi non le dispiace affatto…

**********************

Caro Diario,
oggi, finalmente, Ken si è tolto i punti e da domani riprenderà ad allenarsi. Il periodo di riposo ha giovato anche alla sua spalla e credo che tornerà presto in forma perfetta. A supervisionare l’operazione c’era Kirou, che casualmente sostituiva il dott. Kudo. Ancora adesso non so chi è stato il più pazzo, se io che ho accettato la folle proposta di Kirou, Kirou stesso che poteva rimetterci la carriera o Ken che si è prestato come cavia.
Non lo so.
Però avevano ragione.
Da tempo non mi sentivo a mio agio come in questi ultimi giorni nell’infermeria del J-Village. Lo hanno notato tutti, Munemasa e Takeshi compresi. All’inizio nessuno dei due sembrava entusiasta all’idea che io e Ken dovessimo trascorrere tanto tempo insieme. Poi ritrovarsi la sera tutti e quattro nella stanzetta dell’infermeria, è diventata quasi un’abitudine.

In quella stanza, sono guarite molte ferite, oltre a quella provocata dall’incidente al mio ex.

Ecco, intanto, la mia lingua e le mie mani riescono a pronunciare e scrivere questa formula “il mio ex”, non lo avevano mai fatto prima.
Ci siamo guardati, io e il mio ex, negli occhi, a lungo, tante volte, come forse non facevamo da prima che lui andasse ai Flügels.
Ci siamo presi la mano, fatti qualche carezza, abbracciati un po’.
Abbiamo parlato tanto, persino ricordando momenti che appartengono solo a noi, sentirli raccontare dalla sua voce pacata e vedere i suoi occhi ridere e commuoversi nel farlo, me li ha come restituiti, verità, non illusione, un passato nostro, che nessuno ci porterà mai via.
Ken, la sua voce, le sue mani, i suoi capelli, ogni sua cellula, hanno avuto l’effetto di un veleno, che, preso in piccole dosi, ogni giorno, con costanza, accettando anche la sofferenza che può dare, alla fine non fa più male. E come tutto ciò che non ti uccide, ti rende più forte.
Sono felice di aver recuperato il rapporto con Ken: c’è qualcosa di profondo che ci unisce e questo non è da buttare, ma da coltivare. Non sarà facile, ma ci proveremo.

Anche con Takeshi le cose stanno migliorando, lentamente, ma ne sono comunque contenta. L’affetto che ci lega, il trascorso quasi da sorella maggiore e fratellino, più che da amici, che ci ha legato a lungo, l’abitudine mia di fare appello alla sua ingenuità e alla sua saggezza, la fiducia con cui si rivolgeva a me per i dubbi più disparati, cozzano drammaticamente con la sottile irrazionale gelosia che lui ha del mio passato e io del suo futuro. Le ferite del mostro dagli occhi verdi (1), non guariscono mai de tutto, credo. Ma a un dolore ci si può anche abituare e, un bel giorno, credere di non sentirlo più.

Munemasa, che i dolori della vita li conosce, ha sofferto in silenzio in quelle ore terribili, dandomi tutta la forza e la fiducia di cui avevo bisogno. Credo si chiami Amore. Lo scrivo con la lettera A grande perché, credo, questo sia l’amore dei grandi, diverso dall’amore fra ragazzi, fatto di impazienza, curiosità, novità, sentimenti forti, totali, travolgenti. Munemasa sa aspettare, sa trattenere i suoi sentimenti, persino metterli da parte, se è necessario, e riservare la passione per le emozioni e i momenti che la meritano davvero. Come quando mi ha abbracciato in ospedale, il primo abbraccio in terra giapponese, e poi quando siamo tornati dall’ospedale…
Dio, se ci penso ho ancora i brividi. Mi ha accompagnato alla mia stanza e sono andata a farmi la doccia. Ero convinta che se ne fosse andato, invece… quasi mi sono spaventata quando l’ho trovato ancora seduto sul mio letto, i gomiti poggiati sulle ginocchia e gli occhiali in mano.
L’ho visto alzare la testa e il suo pomo d’Adamo è scattato, mentre mi guardava.
Imbarazzante. È più forte di me non riesco a considerare che il mio corpo possa fare quell’effetto…
Insomma… ha appoggiato gli occhiali sul comodino, si è alzato in piedi e mi si è avvicinato, ha allungato la mano verso il mio seno per sciogliere il nodo che tratteneva il telo da bagno. Ha fermato la mano e mi ha guardata.
“Se non te la senti, se sei stanca o non ti senti bene…”
Ma gli ho garantito che sarei stata benissimo. E non mi sbagliavo.

Altra cosa importante. Riprendo gli studi di Medicina e Munemasa mi appoggia in pieno. Lo ha anche annunciato durante una riunione con Mikami, Gamo e Kira. Ovviamente tutti si sono complimentati con me, ma la notizia non ha suscitato tanto scalpore, non come la dichiarazione che Katagiri ha fatto poco dopo. “È giusto che sappiate anche che sono innamorato della signorina Wakabayashi e spero di sposarla quanto prima.”.
Credo che la faccia di Gamo in quel momento non me la scorderò MAI.
E, per inciso, nemmeno quella di Mikami quando, finita la riunione, mi ha detto che “se non trovo di meglio” lui “non avrebbe problemi” ad accompagnarmi all’altare.
Finalmente, sono di nuovo nel luogo che più mi appartiene.
E ringrazio Kamisama per aver dato a me e non solo un’altra possibilità di essere felice.

W. Yasu



Note:

(1)    È una citazione di Otello (Atto 3, scena 3) di Shakespeare:
Iago: O, beware, my lord, of jealousy; it is the green-ey'd monster, which doth mock the meat it feeds on. [Oh! guardati, mio signore, dalla gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che irride la carne di cui si nutre].

Sound track e altri deliri

Skunk Anansie – You Follow me Down

 
Sebbene non abbia mai capito a fondo questa canzone (e la traduzione ivi proposta certo non aiuta) da quando ho in mente questa storia, ogni volta che sento la meravigliosa voce di Skin gridare “’cause I don’t want you to forgive me” pensavo al dilemma interiore di Ken e mi venivano i brividi…

Marco Masini – Abbracciami

Lo stesso dicasi per questa canzone… non l’avevo esattamente presente, eppure riascoltandola, l’altro giorno, mi è sembrato che riecheggiasse perfettamente il “tono” della separazione di Yasu e Ken, non qualcosa di violento, con liti, tradimenti, piatti che volano… non un cazzotto violento in faccia, ma un dolore sottile che ti lacera dentro, la lenta ma inesorabile consapevolezza che non sarà mai più…

…difendimi, come quel figlio che non cresceremo mai…
…abbracciami perché stanotte è freddo come non è stato mai…
… perché domani è adesso e adesso te ne vai…
…ricordati, che in questo perderci esistiamo solo noi…

Adoro questo concetto che il lasciarsi, quasi come fare l’amore, riguarda solo loro…
Ok, sono andata…

Sempre di Masini, potrei nominare anche “Errori” (una canzone meravigliosa, che cito sempre quando spiego la mia predilezione per Ken, perché preferisco chi fa più errori . Analogo messaggio si trova in “Tutti i miei sbagli” dei Subsonica che mi premeva altrettanto citare in questa sede (Tu sai difendermi e farmi male, ammazzarmi e ricominciare… sei tutti i miei sbagli…).
Si sa che io ho un amore particolare per i personaggi che sbagliano, non per niente in qualsiasi storia sono sempre più attratta dai comprimari deboli e fallaci o dagli antagonisti stessi, che non dai protagonisti perfetti. Credo che gli errori, gli sbagli siano il vero elemento fondante della nostra esistenza: le scelte giuste si dimenticano, gli errori sono quelli che si ricordano e che ci danno le lezioni più importanti… sono la differenza fra il bene e il male (perché errare è umano ma perseverare [nell’errore] è diabolico) o addirittura baluardo del libero arbitrio (ho letto su FB questa frase che mi ha colpito, che diceva che se compi due volte lo stesso errore, questo non è più uno sbaglio ma una scelta). Per tornare a bomba, è evidente che la storia fra Ken e Yasu sia stata, col senno di poi, un “errore” ma forse uno che era necessario commettere, che è stato pure bello commettere e che ha dato tanto a entrambi. Tanto dolore sì, ma anche tanta gioia.
E tutto questo quel bastardo lui non me l’aveva detto che si soffre come un cane quando se ne va l’effetto… ma cosa vuoi più da un amore che fa piangere e incazzare ma che in fondo fa soltanto il suo bellissimo mestiere dice Masini in un’altra canzone che, nella mia mente, ha accompagnato questa storia… (Ebbene sì essendo che non sono mai stata lasciata, mi sono fatta inspirare da Marchino che, invece, pare se ne intenda XD)… la canzone in questione è “Il bellissimo mestiere” cui aggiungerei “Lasciaminonmilasciare”…
Adoro quest’idea che l’amore sia “bello anche se fa male” (sì come la guerra di “Generale”) e che anche se finisce, anzi, di più, anche se non si concretizza mai, comunque dà forza, comunque vale la pena di viverlo, comunque è qualcosa che in qualche strano modo ti unirà per sempre.
Ok smetto di dire cose melense, di citare Masini e di scrivere commenti finali più lunghi della FF stessa.

Grazie per aver seguito questa mia travagliatissima FF. Non credo che scriverò mai più di Yasu e Kata… mi piacciono insieme ma separare Yasu da Ken è davvero doloroso. Forse al limite il famoso spinoffino con Kata’s POV…
Ma è anche vero che nene non dovrebbe “mai dire mai” onde non incorrere in incresciosi ripensamenti.
Grazie a tutti quelli che hanno detto che i miei personaggi sono realistici è una cosa che mi riempie d’orgoglio e mi fa fare la ruota come un pavone... o una vera Wakavbayashi.
Ok, grazie, grazie davvero a tutte. Soprattutto a releuse che di questa storia ha subito tutte le alterne vicende.


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