Non come vorresti di berlinene (/viewuser.php?uid=50434)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I, cap.1 ***
Capitolo 2: *** Parte I, cap.2 ***
Capitolo 3: *** Parte I, Epilogo ***
Capitolo 4: *** Parte II, cap. 1 ***
Capitolo 5: *** Parte II, cap. 2 ***
Capitolo 6: *** Finale ***
Capitolo 1 *** Parte I, cap.1 ***
Eccomi
qua. È passato davvero troppo
tempo dall’ultima volta che ho pubblicato e mi mancava. Ma ho
attraversato un
lungo periodo di mancanza di tempo-voglia-ispirazione che, per fortuna,
adesso
sembra volgere al termine. Ed è dunque venuto il momento di
sistemare alcune
cosette che da tanto, troppo tempo stazionano nel mio hard disk.
Prima
di tutto questa storia. Si
tratta del seguito di “Un’altra
possibilità” anche se in
realtà è nata prima.
Anzi, a voler essere precisi, prima è nata la seconda parte
di questa storia,
poi “UAP” quindi quello che, se vorrete, andrete a
leggere adesso. Non che
questo abbia importanza, era per farvi capire quanto contorto possa
essere il
mio cervello.P
Quello
che –spero- vi interessi è che
Yasu è tornata in Giappone insieme a Katagiri, prima di
tutto per chiarire con
Ken. Ma affrontare il passato non è mai semplice, non
è mai indolore.
Yasu
Wakabayashi\Irene Price è il mio
pg originale per eccellenza che trovate in tutte le storie della serie
“Il
diario di Irene Price genera storie”, sorella
gemella di Genzo e fidanzata di
Ken, con cui ha frequentato la Toho. In questa
miniserie formata essenzialmente da “Un’altra
possibilità” e dalla FF che segue, Ken
però ha… ehm… cambiato sponda e lei,
durante
un soggiorno in Inghilterra, si è molto avvicinata a
Katagiri…
Credo
che con questo possiate godervi
la FF anche senza leggere le altre citate… se poi vi
avrò un po’ incuriosito,
beh, spero che prima o poi ve le andrete a leggere e mi farete sapere
cosa ne
pensate:)
Ma ciancio alle
bande, cominciamo!!!!
PARTE
I, cap. 1
Il
rumore dei tacchi – bassi ma comunque non tacchetti
– sulle pietre del sentiero che portava al
J-Village le fece uno strano
effetto, un brivido le percorse la schiena e forse vacillò
anche leggermente
perché il braccio di Katagiri, discreto, corse a cingerle la
vita, come a
sostenerla. Ma fu solo un attimo: l’uomo la sciolse subito da
quel fugace
abbraccio, non senza poggiarle prima una delicata carezza sulla
schiena. Poi
tornò a camminare al suo fianco, a una distanza che gli
permettesse di esserle
vicino senza, tuttavia, dare adito a sospetti. Yasu gli sorrise
brevemente, poi
la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Uno spazio fra la recinzione
e la
struttura in cemento del cancello, lo sapeva, permetteva di vedere il
campo di
allenamento. Dai suoni che giungevano in lontananza, capiva che
c’era
qualcuno. Si avvicinò alla recinzione, rallentando il passo:
dalla sottile
feritoia vedeva tante figurine lontane, apparentemente uguali, ma non
certo ai
suoi occhi. Bastava, infatti, un piccolo particolare per associare a
ognuna uno
dei nomi a lei cari.
Ancora
una volta Katagiri si avvicinò, stavolta le mise le mani
sulle spalle e le
sussurrò: “Wakashimazu non
c’è, puoi smettere di
cercarlo…”.
Yasu
arrossì e abbassò la testa. Poi
si guardò attorno, ma, naturalmente, non c’era
nessuno in
vista, altrimenti Munemasa non l’avrebbe toccata
così. Chiuse gli occhi,
assaporando quel contatto… solo pochi giorni prima, a
Parigi, non se ne sarebbe
neppure accorta, ma ora, lì, in Giappone, davanti al
cancello del J-Village, le
cose stavano diversamente.
“Aveva
di nuovo dei fastidi alla spalla e non poteva allenarsi”
spiegò Katagiri, “così
ne ha approfittato per andare qualche giorno a casa, è qui
vicino e…”
“Lo
so” tagliò corto Yasu.
“L’ho
saputo solo stamattina, più tardi se
vuoi…”
“Più
tardi deciderò cosa fare” disse lei, con un
sorriso. “Non ci pensare. Adesso
siamo qui per la riunione, no?” lentamente, staccò
le mani di lui dalle proprie
spalle, carezzandole nel farlo. Sorridendo, gli sistemò
amorevolmente la giacca
e la cravatta, anche se, come al solito, non ce ne sarebbe stato alcun
bisogno.
Varcarono
il cancello e proseguirono lungo il vialetto, fino alla grande vetrata
d’ingresso. La hall era immensa e deserta, come sempre. Sulla
sinistra, un
lungo corridoio portava a varie stanze per riunioni e conferenze
stampa. Sulla
destra, invece, c’erano gli ambulatori e le scale che
conducevano al piano
superiore e alle camere.
Munemasa
la guidò verso una delle sale riunioni. Era come Yasu la
ricordava. Spaziosa,
arredata in modo spartano: giusto un lungo tavolo circondato da sedie
nel
centro e dei divanetti sulle pareti di fondo. Una serie di grandi
finestre sul
muro opposto alla porta illuminava l’ambiente. Il riverbero
del sole esterno
l’abbagliò un attimo e le occorse qualche secondo
per distinguere le persone
che occupavano la stanza.
“Bene”
disse sbrigativo Munemasa, “credo non ci sia bisogno di
presentazioni…”
Yasu
annuì decisa.
Tatsuo
Mikami spense la sigaretta e chiuse la finestra presso la quale stava
fumando,
non prima di aver rilasciato all’esterno l’ultima
boccata di fumo. Si avvicinò
con un sorriso formale, ma non privo di un certo calore.
“Sì,
io e la signorina ci conosciamo piuttosto bene”.
Allungò un braccio, indeciso
fra una stretta di mano e un abbraccio… alla fine
optò per un’affettuosa pacca
sulla spalla.
“Certo”
aggiunse Minato Gamo, togliendo i piedi dal tavolo e recuperando un
contegno.
Al contrario di Mikami e Katagiri non indossava un completo, ma una
felpa e dei
jeans. “Come scordarsi…”
Intanto
Kozo Kira si era alzato dal divanetto e li aveva raggiunti, scrutandola
con
attenzione, come non si rammentasse. Incredibilmente anche lui era in
giacca e
cravatta.
“Mi
spiace contraddirti e interromperti Gamo, ma io temo di aver
dimentica-” si
interruppe.
“Mi
spezza il cuore così, mister” ridacchiò
lei, “credevo di essere stata la sua
allieva migliore”.
“Yasu? Yasu Wakabayashi?” esclamò Kira,
avvicinandosi per squadrarla meglio. “Dove hai messo la
ranocchietta tutta
gambe?”
“Sotto il tailleur” sussurrò lei,
strizzandogli un
occhio.
“Bene”
intervenne Katagiri col suo solito tono formale, vogliamo
cominciare?”
****
La riunione è
stata piuttosto breve, giusto il
tempo di dividersi i compiti. Con mio grande stupore ho scoperto che il
primo
allenatore della Nazionale è Kozo Kira, mentre Gamo e Mikami
lo coadiuveranno
in qualità rispettivamente di preparatore atletico e
allenatore dei portieri,
ma gireranno anche il Paese alla ricerca
di nuovi talenti. Munemasa ha chiarito che io ero
lì solo in qualità di
sua segretaria, interprete e addetta alle public relation. Tuttavia,
nonostante
io abbia detto esplicitamente di aver interrotto i miei studi di
medicina e
fisioterapia, probabilmente per sempre, mi hanno strappato la promessa
di
sopperire in caso di assenza del medico che si divide fra lì
e l’ospedale.
Beh, lo facevo a sedici anni, non
credo di essermi così rimbambita.
Finita la riunione, ho comunicato a
Munemasa la mia decisione di andare a trovare Ken, ma ho declinato la
sua
offerta di accompagnarmi: un autobus porta quasi direttamente dal
J-Village a
casa Wakashimazu. Lo avevo preso tante volte, quando io e Ken stavamo
insieme:
approfittavamo della vicinanza per goderci qualche scappatella. Sorrido
al
pensiero.
Che strano salirci di nuovo… dopo
essere stata tanti mesi lontana a rimuginare sulla fine della nostra
storia e
sulla scoperta di Ken della propria
omosessualità… chi l’avrebbe mai detto
che
sarebbe stato proprio quel vecchio autobus
“galeotto” a darmi modo, infine, di
rivedere Ken e di chiarire fra noi una volta per tutte?
Un dolore sordo e lacerante si impossessa
del mio cuore non appena salgo sul bus, sono troppo impegnata a
ricordarmi come
si fa a respirare per accorgermi che qualcuno si siede accanto a me.
“Tutto bene?” la voce è gentile e
brusca al contempo, e familiare.
“Sì, Kira-sama” rispondo io, dandomi
un contegno.
“Per quel che vale,” attacca lui dopo
un attimo di silenzio, “mi è dispiaciuto, voglio
dire, te e Ken… sembravate
così…”esita.
“Grazie” sorrido, togliendolo
dall’imbarazzo. “Io, invece,” proseguo e
divago, “sono molto contenta per lei,
CT della Nazionale! Sono sicura che farà un ottimo lavoro. E
l’abito
elegante le dona moltissimo!”
“Eh, eh grazie… diciamo che sto
cercando di migliorarmi… e anche… di bere un
po’ meno”.
“Le farà bene. Dunque, abita ancora a
Meiwa?”.
“Come? Ah, beh, sì” risponde.
“E tu,
dove vai?”
“A trovare Ken, a vedere come sta”.
“Già, quella maledetta spalla continua
a dargli fastidi, eppure stava meglio quando te ne occupavi tu, magari
potresti-”
Scuoto con decisione la testa. “Glielo
ho detto prima, ho chiuso con la medicina e simili e lui lo sa
benissimo cosa dovrebbe fare. Vado a trovare un…
amico” concludo,
con una sicurezza che non provo.
“Scusami
non…”
“Si figuri” sorrido, alzandomi. “La
mia fermata. A presto, Kira-san”.
“Buona serata” mi augura educatamente.
Ma è anche un saluto accorato e sincero, quasi paterno, e
benché dentro di me
pensi “Buona serata un cazzo”, me
lo
tengo per me e mi limito a ringraziarlo.
Scesa dal bus, costringo le mie gambe
a ripercorrere quella strada ben nota, dritto fino al tempio e poi a
sinistra,
lungo il fiume, fino a una casetta solitaria con annesso dojo di
Karate. Mi
soffermo un attimo sull’altro lato della strada e scorgo, sulla porta del
dojo, alcuni ragazzi
che, finita la lezione, si congedano con un inchino. Intravedo
Wakashimazu-sama:
l’istinto
è di nascondermi, perché a lui
non sono mai andata a genio, ma lo vedo rientrare in palestra e,
quindi, punto
dritto verso il cancello d’ingresso della casa. Il giardino
è curatissimo e
colorato, i fiori della signora Wakashimazu sono sempre bellissimi.
Quando, finalmente, trovo il coraggio
di suonare, è lei che viene ad aprirmi. È sempre
vestita con abiti
tradizionali, anche in casa. Ha qualche ruga in più, ma lo
stesso sorriso dolce
e materno. E gli occhi Ken.
“Buonasera, desidera?”chiede cortese,
affacciandosi alla porta.
“Signora sono…”
“Kamisama” esclama, affrettandosi
lungo il vialetto e spalancando il cancello. Evidentemente il mio
aspetto è
cambiato, ma la voce no. Esita un attimo, poi mi abbraccia.
“Bambina mia” mormora, stringendomi a
sé. Profuma di zenzero e rosa. Sono così
emozionata che ho voglia di piangere.
“Yasuko, tesoro, come stai?...
(…ebbene sì, può chiamarmi col nome
per intero senza farmi incazzare, è così dolce,
detto da lei)
“…Sei… diversa… i
capelli…”
(sì, lo so, sono ingrassata e ho i
capelli in fase di ricrescita e siccome, al contrario di praticamente tutte le mie
connazionali, li ho
mossi, stanno malissimo.)
“… Ken mi ha detto che sei stata in
Europa… sei stata dai tuoi genitori? Chissà la
tua mamma com’era contenta di
averti con sé!”
(...Uhhh, non sa quanto…)
“… A me sei mancata tanto…”
(…anche a me…)
“… Ma, ti prego entriamo in casa, ti
faccio del tè”
(…ebbene sì, se lo fa lei, la Mamma
delle Mamme, io bevo
pure il tè giapponese.)
La casa di Ken sa di buono,
c’è sempre
una pentola sul fuoco in cui qualcosa sobbolle, un odore sempre diverso
e
sempre delizioso.
La vedo sollevarsi in punta di piedi
per raggiungere il prezioso servito da tè che tiene in una
vetrinetta, perché
la mamma di Ken, a differenza di lui, è bassina.
“Non si incomodi, la prego… le tazze di sempre
andranno bene”.
“Uh quelle… me ne sono rimaste sì e no
tre, quella peste di Haruki le ha rotte tutte”
Il nipotino di Ken. Ricordo quando
nacque… sarà grande ora.
“… e poi voglio usare queste tazze
qua, nessuna occasione è più speciale della mia
bambina che torna a farmi
visita…”. Mi porge un vassoio con quattro tazze.
“Ci sistemiamo in giardino,
che dici? È una così bella
giornata…”
Annuisco, prendo il vassoio e lo porto
sul tavolino fuori, mentre lei prepara il tè in cucina.
L’aria è tiepida e
profumata. Dovrei sedermi ad aspettare, ma proprio non ci riesco e mi
metto a
gironzolare per il giardino. Quando mi volto verso la palestra, lui
è lì.
Occhi chiusi e gesti lenti…-
il ricordo della prima volta che lo vidi
allenarsi, nel giardino di casa mia, mi colpisce, diretto allo stomaco
come un
Kamisori shot quando Soda non è esattamente in vena di
cortesie. Come allora,
mi sembra la danza più bella del mondo, che ha dentro
l’essenza stessa di Ken,
la sua forza, la sua fragilità.
Sono sicura di non aver fatto il
minimo rumore, eppure lui si volta di scatto e guarda nella mia
direzione.
Troppo lontani per discernerli, sento tuttavia la carezza dei suoi
occhi neri
su di me. Scompare
oltre la porta della
stanza per riapparire nel vano dell‘ingresso principale e
corrermi incontro, in
keikoji e a piedi nudi. Si sofferma un attimo guardandomi, incredulo,
come
fossi un fantasma, poi mi abbraccia. Mi stringe forte ma…
è un abbraccio, come
dire… rigido: la sua guancia non si appoggia sui miei
capelli, le sue mani non
mi carezzano la schiena, la mia testa non si rifugia, come al solito,
nell’incavo
della sua clavicola, ma resta immobile e rigida, come il resto del mio
corpo e
del suo, come il mio sguardo, ancora fisso sulla finestra ora vuota.
“Do… dovresti stare a riposo” mormoro,
mentre quello strano abbraccio si scioglie. Quando sono nervosa, mi
vengono
sempre in mente le cose più inutili.
“Sì, mister”risponde lui, con un mezzo sorriso.
“Sapendo che eri a migliaia di chilometri, pensavo di farla
franca”. Il tono
era un misto di rimprovero e ironia, la voce vibrava di emozione.
“E invece sono
qui”. Lapalissiano.
“Sono arrivata ieri e resto per tutto il tempo del ritiro,
intanto. Poi
vedremo”.
“Riprendi la tua posizione al
J-Village?”
“Non proprio, mi occuperò di altro”.
La
signora Wakashimazu ci chiama per il tè.
“Yasu, lo so, dobbiamo parlare, ma
questo non è il momento più
adatto…”si affretta a sussurrare.
“No, e comunque sono venuta in autobus
e fra un’oretta devo tornare al
J-Village…”
“Che ne dici di cenare insieme domani
sera? Magari poi ti fermi qui a dormire…”
“No, vengo in auto e passo a
prenderti”.
“Perfetto e…” esita, “Yasu ti
prego
di… coi miei insomma… mio padre non
sa…”.
“Capito”
Avrei giurato di non poterci riuscire,
eppure ho mantenuto, durante il tè, un perfetto
autocontrollo, rispondendo
educatamente alle domande circa il mio soggiorno in Europa, grata che
il
discorso si mantenesse su quell’argomento, cercando di
ignorare lo sguardo
della signora che passava da Ken a me e viceversa e il sorriso che lo
accompagnava. Ed evitando gli occhi severi del padre, che ci aveva
raggiunto
dopo un po’ e sorseggiava il tè in disparte, senza
prendere parte alla
conversazione, guardandoci con un sopracciglio inarcato. Dopo circa
un’ora, mi
sono alzata, spiegando che avevo l’autobus, ho salutato tutti
e confermato
l’appuntamento con Ken per le 19 di domani, quindi mi sono
avviata verso la
fermata dell’autobus.
Con mio grande stupore, vengo
raggiunta dal padre di Ken.
“Wakabayashi” mi chiama “solo un
momento”.
Mi volto, curiosa: “Cosa succede?”
“Io…” È la prima volta che
sento
incertezza nella sua voce. Forse è anche la prima volta che
lo guardo bene in
volto, mi viene da sorridere perché la piega della bocca
è esattamente quella
di Ken quando deve dire qualcosa che non vuole tipo “Mi
dispiace”, “Ho
sbagliato”, “Ho preso X goal”.
Raddrizza la schiena, recuperando la
sua solita espressione decisa e severa.
“Io credo di doverti chiedere scusa.
Ho sempre osteggiato la vostra relazione, ho detto mille volte a Ken
che non
eri la persona giusta per lui, solo perché io volevo per lui qualcosa di diverso…
proprio come quando volevo che
lasciasse il calcio per il karate. Perdona la mia schiettezza, ma non
ti
nascondo che sono stato felice quando ho saputo che vi eravate
lasciati. Ma poi
ho saputo che tu te ne eri andata, e ho visto Ken rinchiudersi in se
stesso,
l’ho visto nervoso e triste… e ho capito che mi
sbagliavo… e sono contento che
sei tornata e ti prometto che non mi metterò più
in mezzo. Non commetterò una
terza volta l’errore di impedire a mio figlio di seguire il
suo cuore…”.
Ho vacillato, credo.
Io, che ho sempre
(troppe) parole per tutto, non so descrivere appieno la sensazione che
mi ha
dato vedere quell’omone severo, forte e fiero, contorcersi
quelle mani che
potrebbero uccidere e accennare un inchino, scusandosi umilmente.
L’autobus
stava arrivando, costringendomi a rispondere immediatamente, ma dandomi
altresì
la possibilità di scomparire subito dopo.
“Wakashimazu-san”
ho detto,
sfiorandogli un braccio. “Non si deve scusare né
tantomeno sentire in colpa.
Quel che è accaduto non è assolutamente colpa
sua…anzi… aveva ragione lei…
probabilmente è stato l’unico che ci ha visto
giusto fin dal principio… Io
davvero non sono la persona giusta per Ken… alla fine lo
abbiamo capito anche
noi. Se sono tornata è solo perché avevamo
reagito troppo male e per recuperare
un rapporto, quantomeno di amicizia… Perché non
è tutto da buttare, ecco”.
L’ho
detto tutto d’un fiato, poi con
un inchino, sono scappata a nascondermi sull’autobus.
Sprofondata in un sedile,
in fondo all’abitacolo provvidenzialmente deserto ho pianto,
pianto, pianto.
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Capitolo 2 *** Parte I, cap.2 ***
Sono stanchissima e in partenza
per un tour de force... ma questa storia ha già atteso
troppo quindi vi lascio un capitolino al volo.
Arrivederci alla prossima
settimana!,
Grazie a Mela, Sumire 90 e FlaR
per il loro apprezzamento!
PARTE I, cap. 2
La bocca di Munemasa Katagiri si
piegò, accennando
un sorriso amaro, alla vista di Yasu che, per l’ennesima
volta, controllava di
nascosto l’orologio.
“Sono le 17.30” disse
l’uomo alla ragazza. “Puoi andare,
finiremo domani”.
“Sicuro?” chiese lei educatamente, anche se intanto
si era alzata e stava già riordinando la scrivania alla
bell’e meglio.
Lui annuì e si avvicinò alla finestra, fingendo
di
guardare fuori. In realtà voleva semplicemente non vederla
tradire quei gesti
di impazienza, anche perché era conscio dei suoi tentativi
di dissimularli -ma è
così giovane, pensava,
non è facile dominare le emozioni, alla sua
età. Avrebbe trovato quei tentativi addirittura
divertenti, al pari dei
gesti infantili che ogni tanto le sfuggivano, se solo non gli avessero
fatto
tanto male.
“Allora prendo la macchina, stasera, va bene?”
chiese Yasu.
“Ah già” rispose lui, continuando la
farsa che
andava avanti da tutto il pomeriggio, ossia che l’evento
previsto per la serata
non rappresentasse niente di particolare. “Vai a cena con
Wakashimazu,
stasera”.
“Sì” rispose lei laconica. Raccolse le
sue cose e
rimase ferma di fronte a lui.
“Puoi andare” le fece notare Katagiri.
“Ehm… Munemasa?”
“Sì?”
“Le chiavi della macchina le hai tu”.
“Ah, giusto” sorrise nervosamente della propria
dimenticanza, porca miseria aveva proprio la testa altrove!
Fece scivolare la chiave della macchina che aveva
preso a noleggio nelle mani della ragazza, lei la afferrò e
si diresse verso la porta. Poggiò
la
mano sulla maniglia.
“Munemasa…” sussurrò di
nuovo. “Mi hai chiesto tu
di farlo… e, comunque, non hai niente di cui
preoccuparti”.
“Lo so” rispose lui. Ed era vero: sapeva di non
aver nulla da temere, sapeva di essere stato lui a chiederle di
chiarire la
situazione col suo ex… razionalmente
sapeva quelle cose… era la sua parte irrazionale, quella che
proprio grazie a
Yasu aveva ricominciato a vivere, a farlo impazzire di…
beh… gelosia. “La
prossima volta, però, uscirai con me”.
“Non sai quanto mi piacerebbe… però
bisogna
cominciare fin d’ora a pensare a cosa dire al signor
Mikami!”
Risero entrambi, anche se con poca convinzione,
poi Yasu si avviò verso la propria stanza.
Scegliere cosa indossare non era
facile: non
voleva essere troppo elegante, ma nemmeno troppo sportiva…
insomma era cambiata,
cresciuta, ma era sempre lei. Voleva che le sue nuove forme
risaltassero, ma
non sfacciatamente. Doveva studiare l’abbigliamento con cura,
ma la scelta
doveva apparire naturale, quasi casuale. E poi non sapeva dove
sarebbero
andati…
Comunque, dopo averci pensato su tutto il giorno
(e anche la notte precedente, a onor del vero), Yasu aveva infine
deciso di
indossare un tubino nero, con giacca e stivali in tinta e calze a righe
sui
toni del grigio, per sdrammatizzare. Odiò vieppiù
i suoi capelli, infine decise
di raccoglierli in una minuscola coda, tenuta su a viva forza da una
serie di
mollette. Completò tutto con degli orecchini a cerchio poco
vistosi e con un
ciondolo regalatole da Ken anni prima, e giusto un tocco di eye liner.
Infilò portafogli, telefono e chiavi in una
minuscola borsa nera e scivolò fuori dal J-Village, usando
degli opportuni
corridoi di servizio. Riuscì così a non
incrociare nessuno, a parte un paio di
donne delle pulizie.
Il motore della spider nera cantò sotto di lei.
Munemasa aveva gli stessi gusti di suo fratello Ichirou in fatto di
macchine.
Per parte sua, Yasu, pur riconoscendone la bellezza, aveva nostalgia
della
piccola Yaris rossa, abbandonata da anni nel garage della villa di
Nankatsu.
Chissà se si sarebbe mai rimessa in moto…
Uscì dal parcheggio e imboccò la via per Meiwa.
Non aveva fatto che pochi metri quando scorse la fermata
dell’autobus. Notò con
sorpresa che c’era qualcuno lì ad aspettare.
Takeshi Sawada.
L’istinto fu di tirare dritto. Tanto non l’avrebbe
riconosciuta. Ma poi pensò che, se era tornata per rimettere
a posto le cose,
dare un passaggio a Takeshi poteva essere un ottimo modo per iniziare:
infondo
casa sua era a un paio di isolati da quella di Ken.
Infondo, anche se ora stava insieme al suo ex, Takeshi
era stato uno dei suoi migliori amici.
Inchiodò e innestò la retro. Vide
il ragazzo
ritrarsi, un po’ spaventato dalla strana manovra della
macchina sconosciuta.
“Tranquillo, Takeshi, sono io” si palesò
Yasu,
abbassando il finestrino oscurato. “Serve un passaggio fino a
Meiwa?”.
“Ya-chan!” esclamò il ragazzo, mentre un
sorriso
enorme gli illuminava la faccia rotonda. La luce si spense in fretta:
“Cioè
Yasuko, ciao” Aprì la portiera e si sedette. Il
vecchio Sawada le si sarebbe
buttato al collo stringendola forte. Questo se ne stava seduto
rigidamente, lo
sguardo fisso in avanti, torcendosi le mani in grembo.
La ragazza cercò di rivolgergli un sorriso
rassicurante, poi inserì la marcia e partì.
“E’ questa la tua macchina?” chiese
Sawada,
guardandosi intorno dubbioso.
“In realtà l’ha presa a noleggio Mune-
ehm, il
signor Katagiri e me l’ha gentilmente prestata per
stasera”.
“Ah”.
Seguirono alcuni momenti di silenzio imbarazzato.
Sembrava di sentire i due cervelli lavorare alacremente alla ricerca di
un
qualsiasi argomento consono.
“Erano tutti molto felici di rivederti, sai?”
disse infine Takeshi.
“Già” sorrise lei ripensando alla
calorosa
accoglienza che i ragazzi le avevano riservato quella
mattina… si era quasi
commossa.
Ridendo, ricordarono gli abbracci gioiosi di Taki,
Teppei, Takasugi e Izawa, suoi amici fin dalle elementari,
l’abbraccio da polpo
del solito Soda, le calorose strette di mano di Tsubasa, Misaki, Misugi
e
Matsuyama. Infine Jito che l’aveva sollevata come un
fuscello, scaraventandola
nelle braccia di Kojiro, il quale, in un esilarante mix di affetto
profondo e
imbarazzo, l’aveva afferrata e stretta brevemente fra le
braccia. Takeshi si
era limitato a salutarla da lontano.
“Finalmente ho conosciuto Aoi” osservò
Yasu. “È
davvero una sagoma come avevo sentito dire”. Le risate di
entrambi riempirono
il basso abitacolo della spider, ricordando la buffa performance di
Shingo Aoi.
All’inizio non aveva neppure notato l’ingresso di
Yasu nella palestra: aveva
continuato a chiacchierare a macchinetta con Sano, col quale stava
facendo
l’esercizio. Preso dalla foga del discorso, si era accorto
solo con qualche
attimo di ritardo che non solo Mitsuru non era più vicino a
lui, ma che tutti
quanti si erano alzati ed erano andati ad assieparsi verso la porta.
“Che
succede?” aveva chiesto svagato, “fatemi
vedere!” aveva protestato, di fronte
al muro di giocatori, quasi tutti più alti di lui. Lesto,
come lo era in campo,
si era insinuato fra i compagni fino a trovarsi di fronte a Yasu, che
lo aveva
guardato con un sorriso.
“Tu sei il famoso Shingo Aoi, piacere”.
“Piacere mio” aveva mormorato il ragazzo,
arrossendo e accennando un timido inchino. “Tu chi
sei?”
“E’ Yasu Wakabayashi, capra” lo aveva
rimproverato
Nitta con uno scappellotto.
“Ah!!! La sorella di Genzo! Quella che stava con
Ken e poi è andata via! Quella che faceva i
massaggi!”
Yasu aveva annuito ridendo di gusto, mentre tutti
si prendevano il volto fra le mani.
Parlando dei vari membri della nazionale, il breve
tempo del tragitto verso casa di Ken era trascorso rapidissimo.
Scorsero il
cancello di casa Wakashimazu e Ken appoggiato al muro.
Vedendo la macchina fermarsi, Ken si avvicinò.
“Ah!” esclamò stupito, vedendoli
scendere. “Siete…
venuti insieme?”.
“Sì” lo informò Takeshi,
“mi ha visto alla fermata
del bus e mi ha dato un passaggio”.
“E’ stato gentile da parte tua”
sussurrò Ken,
carezzando la spalla di Yasu. “Lo sai, sì, che sei
uno schianto, con questo
vestito?”
La ragazza deglutì: se lei era uno schianto, lui
era un dio. Bellissimo in camicia bianca, jeans scuri e scarpe
eleganti: il
ricordo del loro primo appuntamento le mozzò il respiro.
Mentre lei non riusciva a non fissare il portiere,
lo sguardo di lui era passato alla la macchina.
“Gran bel gioiellino, complimenti…”
Yasu stava per rispiegare la storia del noleggio,
ma le parole successive di Ken la colpirono come un macigno fra capo e
collo.
“…ma in tre non ci stiamo”.
La ragazza non riuscì ad articolare niente, né
una
protesta, né una domanda, il dialogo che procedeva fra i due
calciatori, lo sentiva
provenire come da lontano.
“Prenderemo la mia” diceva Ken.
“Ma tu non puoi guidare con quella spalla! E io
non ho ancora la patente!”
“Faremo guidare Yasu, se per lei va bene…Eh,
piccola?”
“Eh?” si risvegliò lei, sentendosi
chiamata in
causa.
“Puoi guidare tu la mia macchina?” le
ripeté Ken.
“Sì, certo…”
balbettò in risposta. “Scusa non
sapevo venisse anche lui” disse infine, pentendosi della nota
di disprezzo
messa su quel pronome, nell’istante stesso in cui lo
pronunciava.
“Ma sì” suggerì timidamente
Takeshi. “Andate voi
due. Avrete tante cose da dirvi e…”
“No” lo interruppe Ken. “Voglio che venga
anche
tu”.
Sawada cercò gli occhi di Yasu, ma lei li volse
con decisione altrove.
Il ristorante scelto da Ken era molto bello,
tradizionale, ma arredato con gusto moderno. Aveva riservato una
saletta
privata dove cameriere precise, silenziose ed eteree come le geishe dei
tempi
antichi, collocarono con grazia diversi assaggi di cibi per poi
lasciare soli
gli ospiti, come da essi esplicitamente richiesto.
Yasu, Ken e Takeshi si accomodarono su dei cuscini
disposti attorno al tavolo, piluccando assaggi dell’ottimo
cibo, accompagnato
da una conversazione pacata circa le novità al J-Village, le
avventure europee
di Yasu e quelle degli altri nei rispettivi club, e innaffiato da una
discreta
quantità di sakè.
Yasu stava bene: se non ci pensava troppo, le
sembrava di essere tornata a scuola. Eppure sentiva anche le parole non
dette
permeare l’aria, simili a scosse di energia elettrica.
L’alcol e la stanchezza ebbero presto la meglio su
Sawada, che si addormentò beato sui cuscini, o almeno
così volle lasciare
intendere.
Ken e Yasu si scambiarono un’occhiata d’intesa,
accompagnata da un sorriso.
“Andiamo a prendere una boccata d’aria?”
suggerì
il portiere, alzandosi e porgendo la mano a Yasu, che annuì
emozionata. Si
lasciò condurre, attraverso la portafinestra verso il
piccolo e curatissimo
giardino, anch’esso, come la saletta, riservato a loro.
Era una notte di tarda primavera, una brezza
tiepida e profumata carezzava il viso. Yasu non aveva messo le ciabatte
e
rabbrividì leggermente sentendo l’erba fresca
sotto i piedi, lasciandosi
sfuggire un mugolio di piacere.
La mano grande e calda di Ken le avvolgeva ancora
le dita. Il suo profilo, la sua voce che raccontava della scorsa
stagione in
J-league, erano familiari, come le canzoni di un cd ascoltato tante
volte che,
finita una traccia, inizi a cantare quella successiva ancor prima che
parta.
La condusse vicino a un minuscolo laghetto e si
sedettero sui grandi ciottoli bianchi che lo delimitavano.
“Cosa volevi dirmi, senza Takeshi?” chiese Ken,
dopo qualche attimo di silenzio.
“Ma niente, avevo frainteso le tue intenzioni,
ecco… ma infondo hai ragione tu… stare una serata
io e te da soli sarebbe stato
come riscaldare una minestra che comunque è da
buttare…”
“Non è tutto da buttare” intervenne lui,
aggrottando le sopracciglia.
Yasu ebbe un attimo di esitazione, in cui credé
che Ken l’avesse sentita parlare col padre, ma poi
capì che, semplicemente, la
pensavano alla stessa maniera.
Come prima succedeva tanto spesso.
Suo malgrado, un sorriso le sbocciò sulle labbra.
Allungò una mano a sfiorare il pelo dell’acqua e
le ninfee che galleggiavano
sopra.
“Io, invece, avrei mille cose da dirti…”
proseguì
lui, lo sguardo rivolto al laghetto, “non sai quante ne ho
pensate in questi
mesi… se tenessi un diario come fai tu, avrei scritto una
specie di
enciclopedia”
“Non lo tengo più, il diario”.
“Uh? Peccato…”
Silenzio.
“E invece
tu…” chiese a un tratto Yasu. “Cosa mi
volevi dire con Sawada?”
“Volevamo dirti che ci sei mancata tanto e che ti
vogliamo bene, e…”
La mano di Yasu si strinse a pugno, ma l’acqua ne
fuggì via subito.
“Smettila con questo “noi”, non ha
senso…”
“Certo che ha senso.” Il tono era quasi offeso.
“Noi siamo…”
“Lo so cosa siete, cazzo!Solo… credevo che stasera
fosse per parlare, un’ultima volta, di quello che eravamo tu e io…”
“Yasu…” Ken tentava di controllarsi, ma
faceva
fatica. “Lo capisci che non c’è
più niente da dire? Ti ho fatto male, lo so, e
ti chiedo scusa. Ma non l’ho fatto apposta, se avessi potuto
te l’avrei
risparmiato… Kamisama, Yasu sei la prima e credo sarai
l’unica donna che io
abbia mai
amato. E
ti amo ancora, solo non come tu vorresti…”
Yasu si alzò di scatto. Lui stava dicendo
esattamente quello che lei sperava: in fondo, la sua più
grande paura era di
scoprire che la loro storia non fosse stata altro che una menzogna e
che lui
non l’avesse mai amata come diceva. Ora sapeva che non era
vero e una parte di
lei, si sentì tanto leggera da pensare che, alzandosi da
quel sasso, avrebbe
spiccato il volo.
Ma l’altra parte ribolliva di rabbia e voleva
vendetta. E fu quest’ultima a spingerle la voce lungo la gola
e attraverso i
denti serrati.
“Finiscila con queste cazzo di frasi da film, non
leniranno mai il male che mi hai fatto! Anche io ti ho amato, ma ora ti
odio”.
Gli occhi di Ken, ora rivolti a Yasu,
fiammeggiarono.
“Bene. Ti sei fatta migliaia di chilometri per
venirmi a dire questo? Allora siamo a posto, no?”
ringhiò, alzandosi in piedi.
“Non è tutto. Volevo anche dirti che ho un altro,
quindi esci dalla mia vita!” gli sputò contro lei,
prossima alle lacrime.
“Consideralo già fatto”. A rapide e
grandi falcate
il portiere tornò nella stanza, afferrò la
propria giacca e raccolse le chiavi
che Yasu aveva appoggiate vicino alla borsa. Quindi uscì,
quasi di corsa, dal
ristorante.
Sawada si alzò di scatto non appena la porta si
chiuse, guardò un attimo Yasu, poi si fiondò a
sua volta fuori dal ristorante.
Il rombo del SUV di Ken risuonò non distante, e si
allontanò. Di lì a poco
Sawada ricomparve sulla porta, Yasu, intanto, era tornata dentro e
adesso
stringeva fra le mani tremanti un generoso bicchiere di sakè.
“Non sono riuscito a fermarlo…”
“Lascia perdere, paghiamo e facciamoci chiamare un
taxi…” disse lei brusca.
“Tu risolvi tutto così, vero? Paghi e pensi per
te… Ken era furioso e un po’ alticcio, senza
contare che la spalla gli dà
fastidio per guidare, e tu lo lasci andare così?”
Yasu guardò Takeshi, il suo piccolo amico, il più
giovane eppure il più saggio, sì, era sempre
stato così… eppure… ora era anche
uno sconosciuto. Uno sconosciuto che se la faceva col suo ex.
“Cosa credi, che io sia tranquilla?”
squittì Yasu,
ben decisa a non dargli la ragione che meritava.
“Tu, tu, tu, Yasuko Wakabayashi ti sei mai accorta
che ci sono anche gli altri? Che hai messo in pericolo
Ken…”
“Ma va, non fare il menagramo…”
“Se gli succede qualcosa, è colpa tua!”
Yasu rispose solo con un gesto stizzito della mano
e andò alla cassa per pagare e far chiamare il taxi.
Di lì a poco, la ragazza ricomparve sulla porta
della saletta privata.
“C’è il taxi, vuoi un passaggio,
Sawada?” disse
atona.
Il giovane centrocampista la seguì senza
rispondere, mordendosi le unghie col cellulare all’orecchio.
“Non risponde” piagnucolò per
l’ennesima volta,
una volta nella vettura.
“Ah, può farlo anche per una settimana, te lo dico
per esperienza, rassegnati”.
“Ma lo sto chiamando io, mica è arrabbiato con me,
è arrabbiato con te!”
Yasu si morse le labbra. Stava per rispondere,
quando la vista di un riverbero blu di lampeggianti le fece morire le
parole in
bocca. Salendo praticamente in braccio a Takeshi, si
avvicinò al vetro.
Non c’erano dubbi: la macchina semidistrutta di
traverso alla strada era quella di Ken.
“Si fermi” sussurrò, atterrita.
“Prego?” chiese il tassista.
“Si fermi!” gridò Takeshi,
catapultandosi fuori
dal veicolo ancor prima che si arrestasse completamente.
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Capitolo 3 *** Parte I, Epilogo ***
La
brevissima chiusa di questa prima parte, che è tale solo
perchè quella che verrà sarà
strutturata in modo un po' diverso, benchè la storia sia
unica.
Grazie a chi legge e chi commenta... Devo dire che mi avete fatto venir
voglia di uno spinoff col pov di Munemasa... che, davvero, poverino,
è un po' messo da parte... anche se credo che sia la cosa
più "adulta" da fare in questo frangente, e quindi da lui,
in contrasto con le emozioni ancora "adolescenziali" degli altri...
mah, vedremo!
Grazie ancora e a presto!
nene
Parte I
- Epilogo
Stavano
già
caricando Ken sull’ambulanza. Ho un attimo di nausea alla
vista del lenzuolo
imbrattato di sangue.
Se gli succede qualcosa,
è colpa tua – le parole
di Takeshi mi rimbombano in
testa mentre lui, pratico come sempre, si è avvicinato
all’ambulanza e parla
coi paramedici. Vedo il barelliere scuotere la testa e Takeshi
insistere,
finché, l’uomo non gli fa segno di salire. Mi
avvicino a mia volta, ma il
portellone si chiude e Takeshi mi dice solo di seguirli col taxi, la
sicurezza
nelle parole in netto contrasto con l’espressione spaventata
degli occhi
La
strada è
buia e la brezza tiepida adesso mi pare gelida o, forse, sono io che
tremo per
la rabbia, la paura e tutto il resto. Mi scuote il suono del cellulare
che mi
avvisa dell’arrivo di un messaggio. Mio fratello. Mi scrive
di essere appena
sbarcato e se qualcuno può andarlo a prendere.
Mi ero
completamente dimenticata di Genzo. Mi risolvo di chiamare Munemasa e
raccontargli tutto.
Naturalmente rimane
shockato dalla notizia dell’incidente di Ken, ma si sforza di
non perdere la
calma e fa di tutto per infonderne a me. Mi dice che sarebbe andato lui
a
prendere Genzo in aeroporto e poi ci avrebbero raggiunti.
“Cerca di
stare calma, e vai da lui” conclude.
Rannicchiata
in un angolo del sedile posteriore del taxi, il mio cuore è
tormentato per la
salute di Ken, mi sento in colpa e continuo a pensare
all’ultima cosa che gli ho
detto: “ti odio”. Non è vero, cazzo, non
è vero: lo amo ancora, disperatamente.
Mentre non riuscirò mai, ad amare Munemasa nello stesso modo
solido e
disinteressato con cui lui ama me, tanto da togliermi dai guai e dirmi
di
correre al capezzale dell’ex di cui sono ancora innamorata.
Corro a
perdifiato lungo i corridoi dell’ospedale. Finché
non sento la voce di Takeshi.
Fatico a riconoscerla, perché non lo avevo sentito
praticamente mai così
arrabbiato e capisco che sta discutendo con qualcuno che non vuole
dargli
notizie sulla salute di Ken. Mi fermo dietro un angolo, alla ricerca di
una
qualche soluzione… se solo fossi ancora iscritta alla
facoltà di medicina, col
tesserino potrei… poi mi viene un’idea: mi tolgo
gli orecchini e infilo uno dei
cerchi all’anulare della mano destra. Poi li raggiungo.
“Yasu!”
Takeshi, il volto rigato di lacrime, evidentemente lieto di vedermi.
“Signora” mi saluta
il medico con un inchino. “Stavo spiegando al signore, che
non siamo
autorizzati a fornire notizie a chi non è parente del
paziente… lei è…?”
“La moglie”
affermo io, mostrando l’orecchino al dito, pregando che non
si vedesse il
fermaglio.
“Veramente non
ci risulta che il signor Wakashimazu sia sposato”
“Beh, lo
saremo fra qualche giorno…” recito io.
“Mi perdoni ma per me è come se lo
fossimo già… anche se ora
forse…” fingo un pianto che poi tanto finto non
è.
“Non so se capisce… per me è stato il
mio sposo fin dal primo momento, abbiamo
anche lo stesso gruppo sanguigno, se non è destino questo,
lei mi capisce”.
Se la
situazione non fosse stata davvero drammatica, io e Takeshi ci saremmo
ammazzati dalle risate. Dicevo sempre a Ken che lui era più
che la mia anima
gemella perché, a differenza del mio
“vero” gemello, avevamo lo stesso gruppo
sanguigno. E lui mi diceva che ero patetica.
“Veramente?”
fa a un tratto il medico.
“Cosa?”
ribatto io. Avevo detto così tante cavolate che…
“Lei ha
veramente lo stesso gruppo sanguigno del signor Wakashimazu?”
“Sì, certo”.
“Allora mi
segua”.
Mi afferra per
un braccio e mi trascina oltre l’agognata porta.
Riesco solo a scambiarmi con
Takeshi un ultimo sguardo. Mi sorride e mi fa “ok”
col pollice, eppure nei suoi
occhi c’è rabbia.
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Capitolo 4 *** Parte II, cap. 1 ***
Ecco
la Seconda Parte, che mi piace definire così
perché narrata diversamente dalla Prima. Si tratta della
parte più "antica" della miniserie con Yasu e Munemasa, in
realtà quella da cui, poi, è nato tutto.
Buona
Lettura!
@Mel:
c'è una chicca per te che ti farà scompisciare.
@Rel:
ce n'è una anche per te, mi ci hai costretto XD... scherzo
mi ha fatto piacerissimo! Il minimo per quanto ti ho stressato con 'sta
FF^^
Parte II, cap. 1
La mano e la fronte poggiati al vetro, Yasu osserva la sacca di sangue,
il suo sangue, e vede, o le pare di vedere, anche da quella distanza,
le gocce stillare lente, a una a una, lungo il tubicino fino
all’ago e al braccio inerte del ragazzo disteso sul lettino.
Le dita si contraggono senza afferrare niente, provocando solo un
leggero stridio di unghie sul vetro. Si rende conto di invidiare con
tutta se stessa quelle gocce che sarebbero arrivate al cuore di Ken,
loro. Cerca di aggrapparsi al pensiero che, così, qualcosa
di suo sarebbe stato per sempre parte di lui, ma non lo trova per
niente consolatorio. Forse perché al fianco di Ken, adesso
come in futuro, ci sarebbe stata un’altra persona. E lo
stesso, forse, sarebbe stato per lei, ma tutto era ancora
così confuso. A Parigi era stato facile abbandonarsi alla
storia con Munemasa, ma tornare in Giappone, ritrovare Ken e
tutti i luoghi, i profumi, le persone che avevano fatto parte della loro
storia… rendeva le cose maledettamente difficili. E Munemasa
era così distaccato…
Yasu si stringe le braccia attorno al corpo, alla ricerca di un
abbraccio che nessuno sembra poterle dare, lentamente, stacca la fronte
dal vetro e osserva la propria immagine incorporea riflessa nella
lastra trasparente. Bella, non lo era mai stata ma ora, coi capelli
arruffati, il volto pallido e profonde borse sotto gli occhi, fa quasi
spavento. Invece lui, anche dopo il brutto incidente, lui, prostrato e
pallido, disteso in quel letto, non riesce a non essere comunque
bellissimo… troppo bello per lei…
troppo…
Per tutti gli anni delle superiori lui era stato il suo tutto: il
compagno di scuola, l’amico, l’amante, persino il
fratello, quando Genzo era lontano, il primo amore, il primo bacio, la
Prima Volta, la prima sbronza, la prima canna; insieme avevano
studiato, bigiato la scuola, si erano allenati, avevano litigato, si
erano presi cura l’uno dell’altra, avevano imparato
a conoscersi meglio di chiunque altro. O almeno così Yasu
aveva sempre creduto.
Adesso, si rende conto di quanto in quegli anni la sua
felicità fosse stata troppo perfetta, come un vetro talmente
pulito e intatto, che non lo vedi. E ci sbatti contro. Allora compare
una crepa, prima sottile, poi sempre più ampia e solo in
quel momento ti accorgi della sua esistenza, un istante prima che vada
in mille pezzi.
La crepa era apparsa in quel terribile giorno in cui Ken aveva
abbandonato. Aveva abbandonato la nazionale, lei e tutto quello che lui
era stato fino ad allora.
Si rivede in piedi di fronte alla porta dell’ufficio di
Mikami, nell’atto di bussare. Ormai, nella sua mente, aveva
ripercorso tante volte quegli istanti, che le si dipanano davanti come
un film. Vede la sua mano alzarsi e fermarsi, sentendo delle grida
provenire dall’interno.
Urlavano tanto, che
udivo distintamente le parole di Ken, proprio lui che non alzava mai la
voce: “Lascerò la nazionale giovanile, non voglio
essere un rimpiazzo temporaneo…io alle eliminatorie e
Wakabayashi al campionato… mi sembra una presa per i
fondelli! Io non sono il cane al guinzaglio di Wakabayashi!”
Seguì uno
schianto terribile, la scrivania che andava in pezzi sotto un suo
possente colpo, seppi in seguito. I suoi passi che si avvicinavano alla
porta mi fecero trasalire. Arretrai un po’, per dare
l’idea di star arrivando solo in quel momento.
Quando Ken
uscì, stentai a riconoscerlo, tanto il suo viso era
stravolto dalla rabbia e gli occhi accesi di una luce che non avevo mai
vista. Si arrestò vedendomi, mi sforzai di salutarlo come se
nulla fosse, stava a lui parlare. Facemmo ancora alcuni passi nelle
rispettive direzioni, ci incrociammo e oltrepassammo. Il mio cuore era
praticamente fermo quando, un attimo dopo, con voce tremante lui disse
che mi voleva parlare.
Poco dopo nella mia
stanza si svolse una scena paradossale. Lo ascoltavo come in trance,
dandomi pizzicotti tanto forti nelle gambe che il giorno dopo mi
spuntarono dei lividi: non riuscivo a credere che stesse accadendo
davvero.
Ken raccontò
di aver udito Mikami parlare al telefono con Genzo e promettergli la
maglia da titolare al campionato mondiale. Mentre lui sarebbe stato
schierato solo nelle fasi eliminatorie.
Mikami non me lo aveva
mai detto chiaramente, né tantomeno mio fratello, ma un
po’ me l’ero immaginato, che i piani fossero
quelli. Tuttavia, avevo fiducia che Ken si sarebbe dimostrato
più che all’altezza durante le eliminatorie e che,
allora, se ne sarebbe potuto discutere. Tanto più che i
polsi di Genzo erano ancora in brutte condizioni e non
c’erano certezze sui tempi di guarigione. Insomma, era tutto
da vedere: avevo fiducia nelle qualità del mio ragazzo e
sapevo che avrebbe saputo mettere una bella ipoteca sul ruolo da
titolare di mio fratello, guadagnandoselo sul campo, da grande
combattente qual era.
Invece lui non aveva
riposto nessuna fiducia in me. Non aveva provato a parlarmi per prima,
quasi non considerasse rilevante il mio ruolo di assistente
dell’allenatore. Ma, soprattutto, non si era confidato con la
sua ragazza e amica. Certo, avevo notato che da un po’ di
tempo Ken era più distante, ma lo avevo imputato allo stress
della competizione: avevo imparato che durante i ritiri era bene
stargli alla larga… in tanti anni insieme si impara anche
questo.
Avevo creduto fosse uno
dei “bassi” che sempre esistono nelle
relazioni… ma mi ero sbagliata di grosso.
Ken aveva qualcosa e,
per la prima volta, non ero stata capace di capirlo…
Mi raccontò
quello che avevo già sentito da sola, e lo fece senza
guardarmi negli occhi, standomi di fronte, a due metri buoni dal letto
su cui, più che seduta, ero accasciata.
Coprì la
distanza che ci separava con una lunga falcata e mi si
accucciò davanti, cercando il mio sguardo fisso a terra.
“Vado a
Yokohama, accetto la proposta dei
Flügels…” inspirò
profondamente, accennando un sorriso “sei la prima a cui
l’ho detto… e vorrei che rimanessi la sola a
saperlo…”
La prima e la
sola… se solo allora lo avessi saputo, cosa avrebbero poi
significato quelle parole…
Eppure anche in quel
momento mi fecero male… avrei voluto saperlo prima, ma prima
che diventasse una decisione presa, avrei voluto che lui si fidasse di
me, che mi confidasse le sue pene invece di limitarsi a comunicarmi le
sue risoluzioni.
Ma non glielo dissi, la
voce non venne. Deglutii a vuoto.
“Nell’accordo,
è compreso l’alloggio… avrò
un appartamento tutto mio… puoi venire anche tu, se
vuoi…”
“Il problema
è se lo vuoi tu” sibilai, secca, ma con un filo di
voce.
Il ragazzo
trasalì. Sembrò riflettere un attimo, poi chiuse
gli occhi e mi afferrò le mani: “Vieni con
me” sussurrò.
Ma non c’era
convinzione nella sua voce, non c’era il velluto che ero
abituata a sentirci.
Lo fissai un attimo,
inginocchiato davanti a me, maledettamente bello. Me lo ero immaginato
tante volte così, ma aveva un anello in mano e
tutt’altre cose da dirmi. Cercai di scacciare quella stupida
fantasia da femminucce, ma più lo guardavo e più
era il mio principe. Combattei contro il rossore che voleva salirmi
alle guance e contro le lacrime che, invece, puntavano decise ai miei
occhi. Mi alzai di scatto, offrendogli le spalle.
“Non
è così facile, Wakashimazu. Mi sono presa degli
impegni… ho degli obblighi verso Mikami, verso la
squadra…” dissi, col preciso intento di fargli
male. E mi voltai per vedere se il colpo era andato a segno.
Vidi la sua mascella
serrarsi, i muscoli del collo tendersi e i pugni stringersi. Un fremito
gli attraversò il corpo mentre a fior di labbra ripeteva
“Vieni con me”. Ma quello era solo ciò
che si imponeva di dire.
I suoi occhi dicevano:
“Lasciami andare”.
E io lo amavo troppo per
non dargli quello che silenziosamente mi chiedeva.
“Vattene”
scandii e la voce uscì come un ringhio sommesso.
Lui mi fissò
e nel suo sguardo c’erano tristezza, stupore e…
sollievo. Poi in silenzio, se ne andò.
Sentii le gambe cedere e
mi trovai carponi a fissare le assi del pavimento e le dita che vi
poggiavano… mi stupii che non fossero piene di sangue
perché avevo la sensazione precisa di essermici strappata il
cuore, con quelle mani.
In corridoio, le grida
dei ragazzi, il rumore di una pallonata.
Ma io vedevo solo una
macchia allargarsi sul pavimento, nel punto dove le lacrime cadevano
silenziose.
Da quel momento in poi la crepa si era allargata sul vetro, diramandosi
attraverso una serie di eventi spiacevoli, dal malore di Mikami,
all’avvento di Gamo con il conseguente allontanamento dalla
Nazionale di Hyuga, Misaki, Jito, Nitta, Soda e dei Tachibana, e di
Yasu stessa dallo staff. Certo, ci fu la gioia della vittoria del World
Youth, ma dalla tribuna non era la stessa cosa. Infine il matrimonio di
Sanae e Tsubasa, dopo il quale tutto andò davvero in pezzi.
Invidiavo profondamente
Yuzo: una frattura alla gamba gli aveva impedito di partecipare a quel
nefasto evento. Io me le sarei volentieri spezzate tutte e due, le
gambe, piuttosto che prendervi parte. Sebbene nel corso degli anni
molte divergenze si fossero appianate e, tramite il gruppo di tifosi
della nazionale, ci fossimo persino riavvicinate,
un’incompatibilità quasi fisiologica mi
divideva dalla Nakazawa.
Le mani mi tremavano di
rabbia, tanto che non riuscivo ad agganciare il sobrio girocollo che
avevo deciso di indossare. Sentii le mani grandi ma delicate di mio
fratello venirmi in soccorso.
“Cosa
c’è?” mi chiese, sollecito ma un
po’ spazientito.
“C’è
che quella ci godrà un sacco, a vedermi al suo matrimonio al
braccio di mio fratello”.
“Mi sa che ti
dai troppa importanza” mi rimproverò, aspro.
“Credo che Sanae abbia ben altro per la testa che vedere con
chi sei tu. Piuttosto… preparati, perché
sicuramente ci sarà anche lui. Sei riuscita abilmente a
dribblarlo alla festa per la vittoria, ma non potrai farlo in eterno.
Tanto più che io devo averci a che fare e, sinceramente,
tutti questi misteri mi mettono in difficoltà. Io credo che
dovreste chiarirvi, una volta per tutte”.
“Cosa
c’è di non chiaro? Non mi vuole più,
ecco tutto” risposi, serrando gli occhi per impedire alle
lacrime di uscire e rovinare il trucco.
“E non vuoi
sapere perché?”
“Perché?”
gli feci eco. “Cambierebbe qualcosa?” ringhiai,
allontanandomi dal tocco caldo delle mani di Genzo, che mi
accarezzavano le spalle lasciate scoperte dall’elegante
abitino da cerimonia.
“Kamisama,
Yasu, siete stati insieme un sacco di anni, lasci che finisca
così, senza neanche sapere il perché? Eppoi
eravate anche amici, no? Buttate via tutto in questo modo? Mi chiedo
cosa ho fatto di male io, per avere a che fare con due teste dure del
vostro calibro! Ti aspetto giù, muoviti.”
Concluse, uscendo a grandi passi dalla stanza.
Con un gesto rabbioso mi
asciugai le lacrime e riaggiustai il trucco. Sistemai i capelli
tirandoli all’indietro e cercai la mia immagine nello
specchio: nonostante lo sguardo severo, si vedeva che avevo pianto.
Passerà anche questa, mi ripetevo.
Sanae non
infierì affatto come mi aspettavo. Evitò di
lanciare il bouquet nella mia direzione e di accompagnare il gesto con
prevedibili battute circa la mia abilità nel bloccarlo.
Aveva avuto persino la delicatezza di assegnarmi un posto al tavolo dei
vecchi compagni della Nankatsu e non assieme all’ex gruppo
Toho. Forse mi sbagliavo sul conto della neo signora Ozora, forse lei
era riuscita ad andare avanti nella sua vita e a chiudere col passato,
lei. O forse aveva ragione Genzo e Sanae aveva semplicemente di meglio
a cui pensare.
Le battute idiote di Ryo
e i suoi esilaranti battibecchi con Yukari, si rivelarono un ottimo
diversivo. Quando i tavoli furono spostati, poi, Mamoru, Hajime e
Teppei si dettero il cambio per farmi ballare. Dopo quasi
un’ora di ballo ero stanchissima e accaldata e, alla ricerca
di qualcosa da bere, mi imbattei in Misugi che sorseggiava una bibita,
pensieroso. Osservava Yayoi che si era allontanata per andare a
salutare la sposa e le altre amiche di sempre Kumi, Yoshiko, Yukari.
“Chi osa
abbandonare un principe di fronte al tavolo dei rinfreschi?”
dissi, interrompendo evidentemente i suoi pensieri e facendolo
sussultare.
“Oh, Yasu, sei
tu. Eh, che ci vuoi fare… ultimamente sta molto
più con me che con le sue amiche e le
mancano…”
“Già,
immagino” risposi con un tono più sarcastico di
quanto volessi.
Mi guardò e
sorrise: “Lo so. Non ti sono mai andate troppo a genio, sei
diversa, tu…”
“Già”
ammisi, ridendo a mia volta. “Peccato che essere diverse non
paga…”
“Che vuoi
dire?”
“Che sono le
brave ragazze quelle che alla fine sposano il
principe…”
Jun non rispose subito.
Si voltò verso di me, guardandomi con quei suoi intensi
occhi color nocciola. Misugi non è mai stato il mio tipo, ma
non posso negare che sia davvero affascinante come dicono. E poi ha
quell’eleganza innata che ti mette un po’ in
soggezione. Per un attimo, l’indecisione distorse i bei
tratti del volto, poi un sorriso molto dolce si dipinse sulle labbra
disegnate.
“Tu sei una
bravissima ragazza, solo forse… un po’ meno
trasparente di altre. Non ti crucciare, sii te stessa e vedrai, ci sono
più principi di quanti pensi…”
Arrossii e rimasi un
attimo perplessa… cosa voleva dire? Ma proprio in quel
momento, qualcuno mi sfiorò la spalla per attirare la mia
attenzione: Kojiro.
“La
Wakabayashi femmina stasera sembra una femmina davvero e non si ricorda
più dei suoi vecchi compagni di bagordi?”
“Ci
mancherebbe”, sorrisi. Ci congedammo da Jun, scusandoci
brevemente e ci avviammo verso il giardino. Kojiro mi porse
educatamente il braccio, che afferrai sgranando gli occhi. Forse ero
davvero io ad avere un’idea troppo negativa delle persone:
quella sera tutti superavano le mie aspettative.
“Sei…
sei proprio carina questa sera, se posso dirlo”
bofonchiò, senza guardarmi negli occhi. “Lo hanno
notato tutti al nostro tavolo”. Si bloccò, come
rendendosi conto di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Ho saputo che
ti vedi con una ragazza…” tentai di venirgli in
soccorso, anche se l’effetto fu solo quello di farlo
arrossire ulteriormente.
“Sì,
Maki… è una tipa a posto, ti piacerebbe”
“Ne sono
sicura”.
“Potremmo
uscire tutti insieme qualche volta…”
Rispondo con sorriso
amaro, accompagnato da un sospiro.
“Eri una di
noi, ci manchi” incalzò Kojiro.
“Mi mancate
anche voi, ma…”
“Ma non ti va
di vedere me” dal buio del giardino, si
materializzò la figura inconfondibile di Ken Wakashimazu.
Bellissimo nel completo scuro che indossava.
“Cos’è
un agguato?”osservai, cercando di ostentare indifferenza e
ignorare il profumo di lui che già mi solleticava le narici.
“E comunque non è esatto. Sei tu che non vuoi
vedere me, credo”.
“Ti
sbagli” rispose, allungando una mano per carezzarmi il viso.
Il mio cuore batteva a mille e quando la mano grande di Ken mi
sfiorò la guancia, smisi di respirare. Per un attimo credei
che sarei caduta a terra come un sacco di patate. Una lacrima scese
rapida e lui la asciugò con il pollice. Poi mi fece
scivolare le dita dietro al collo e mi attrasse gentilmente a
sé. Mossi alcuni passi incerti, poi mi lasciai avvolgere da
quell’abbraccio tanto familiare, dal profumo dei suoi capelli
e del suo corpo. Forse era da vili, forse mancavo di rispetto a me
stessa, ma sarebbe bastata una parola, e quegli ultimi mesi li avrei
semplicemente dimenticati, avremmo ripreso da dove eravamo rimasti.
“Non sai quanto ho pensato a te”, mi sussurrava
adesso. “Quanto mi è mancata la tua presenza,
piccolina mia”.
Yasu sussulta, sentendosi toccare una spalla. Si asciuga rapidamente le
lacrime. La mano che l’aveva toccata sale a sfiorarle la
guancia. Si trova a fissare due occhi uguali a quelli aveva visti
riflessi nel vetro. Questi però non sono tristi, ma severi.
“Non dovresti stare qui, dovresti riposarti”.
“Mi riposerò in aereo, Genzo, non occorre che
vieni a salvarmi ogni volta”.
“In aereo?” chiede lui, ignorando il resto della
frase.
“Andiamo in Germania, prima possibile”.
“Yasu, hai passato dei giorni terribili, chissà
quant’è che non dormi… non sei nelle
condizioni di fare un viaggio intercontinentale… e
poi…” Si gratta la nuca, a disagio e guarda Ken,
al di là del vetro. “Non vuoi aspettare che si
riprenda… non vuoi… salutarlo?”
Yasu scuote la testa, mordendosi il labbro inferiore. Inspira e con
voce ferma dice: “Nein, ich will nach Hause”.
“Va bene, ma a Nankatsu. Starai un po’
lì e poi ripartiremo per la Germania. Anche
perché io, a questo punto, dovrò trattenermi al
ritiro”.
****
Allora
il cap è anche abbastanza lungo, denso e flashbackoso, ma
non vi ho dato alcuna "notizia confortante" su Ken (mi spiace sissi!).
Quanto a Mune... diciamo che anche in questo caso... chi
leggerà, vedrà.
Grazie
a tutti i lettori, i recensori, i seguitori e i preferenti... e anche a
chi legge zitto zitto :)
|
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Capitolo 5 *** Parte II, cap. 2 ***
Eccoci
qua, incredibile ma trovo il tempo per aggiornare... Siccome nelle
varie stesure e correzioni ho cambiato mooolte volte i tempi verbali,
spero di non averne scazzato qualcuno, a dispetto delle millemila
riletture! Nel caso, grazie per volermelo segnalare. Grazie.
Parte II cap 2
“Non
sarei mai dovuta tornare” singhiozza. Distoglie lo sguardo da
Ken e da Takeshi che gli siede accanto e, appoggiandosi al braccio del
fratello, si lascia condurre in stanza. Tornare alla villa di Nankatsu
è un pensiero tutt’altro che consolante.
Il
tavolo dentro il gazebo era coperto da una finissima tovaglia di lino,
semplice ma di gusto, sopra, un vaso con dei fiori freschi e un vassoio
di muffin caldi, che spargevano un odore delizioso, abbastanza intenso
da vincere quello del giardino. In piena primavera, il parco attorno a
villa Wakabayashi era uno spettacolo sontuoso e i ciliegi in fiore
sulla collina completavano il quadretto.
“Se
mai mi sposerò” avevo detto una volta a Nanny,
“sarà qui, in primavera”.
Sono
pronta a scommettere che la mia tata abbia pensato a quello mentre
ornava la tavola: aveva persino sparso a bella posta petali di ciliegio
nel gazebo. Si ricordava sempre tutto e, infatti, sulla tavola fumavano
un perfetto tè verde giapponese per Ken e tè
inglese e latte per me. E, naturalmente, i muffin al cioccolato, la
segreta passione occidentale di Ken: era capace di mangiarsene anche
quattro a colazione!
Eppure,
quel pomeriggio, non li stava degnando di uno sguardo, già
da alcuni minuti girava pensoso il cucchiaino nel tè che,
tuttavia, non aveva zuccherato.
Appena
arrivato, ci eravamo scambiati un saluto formale, poi si era lasciato
prendere per mano e guidare verso il gazebo. Le sue bella dita
affusolate rimasero quasi inerti fra le mie. Si era seduto e si era
guardato attorno, quindi aveva detto con un sorriso forzato:
“è bellissimo, qui”. Mi sono limitata ad
annuire e servire il tè, dimenticando di fare una buona
metà delle cose che sua madre, a suo tempo, mi aveva
insegnato.
Al
matrimonio di Sanae e Tsubasa ci eravamo promessi di organizzare un
incontro e ora era arrivato il momento. Una parte di me non aveva mai
smesso di sperare che Ken si gettasse ai miei piedi chiedendomi scusa,
ma sapevo che non era venuto a fare quello. Ma neanche credevo volesse
“solo spiegare” come diceva Genzo. In
realtà, Ken quel giorno doveva dirmi una cosa enorme e
terribile e, col senno di poi, ho capito benissimo il suo imbarazzo.
Ma
in quel gazebo io ero solo curiosa, all’inizio.
Alla
fine, invece, credo, gridai, perché Nanny e metà
della servitù accorsero preoccupati. Nanny mi prese per mano
e mi portò nella mia stanza, mentre il maggiordomo, fermo ma
gentile, accompagnava Ken all’uscita.
L’inflessibile Karate Keeper piangeva a vite tagliata e
continuava a ripetere che gli dispiaceva e che avrebbe voluto
risparmiarmi tutto quel dolore, e che per sempre sarei rimasta per lui
l’unica e la sola…
Ma
niente di quello che diceva poteva più tangermi, non dopo
che mi aveva confessato di essersi scoperto omosessuale.
E
di stare insieme a Takeshi Sawada.
Yasu
si sente la mente completamente vuota, mentre raccoglie le sue poche
cose in una busta. Le tremano le mani. “È la
stanchezza” dice, mentendo a se stessa e a suo fratello che
la guarda preoccupata.
“Forse
dovresti restare e farti visitare” le suggerisce lui, la voce
ferma come sempre, ma dolce come non mai.
Yasu
nota la stessa identica sfumatura in quella di Munemasa Katagiri che
intanto si è materializzato sulla soglia, annunciando che
una macchina li aspettava giù.
“La
ringrazio signor Katagiri” dice Genzo, formale, accennando un
inchino. “Potevamo prendere un taxi, non vorremmo creare
alcun disturbo…”
“Nessun
disturbo… Genzo” dice l’uomo, dandogli
una pacca sulla spalla. “E poi dovreste ringraziare la
Federazione, che vi ha messo a disposizione la macchina!”.
Quindi si avvicina a Yasu per prenderle la busta dalle mani. La guarda
preoccupato, le mette una mano sula spalla poi, arrossendo, si decide
ad abbracciarla. Si stupisce della forza con cui lei lo stringe a sua
volta.
“Vedrai
che si concluderà tutto per il meglio…”
le sussurra, “adesso devi solo pensare a riposarti. Fra
qualche giorno, se vuoi, ti vengo a trovare a Nankatsu, ok?”
Yasu
annuisce debolmente, avrebbe voluto ringraziarlo per tutto quello che
stava facendo e sopportando per lei, ma proprio in quel momento, dei
passettini leggeri risuonano per il corridoio e ancora prima che la
figura esile di Takeshi Sawada si affacci, Yasu sapeva che era lui.
Conosce bene quel modo di camminare. Li ha sentiti mille volte, quei
passettini, lungo il corridoio del dormitorio del Toho. Ogni volta che
trascorrevano la serata a vedere un film dell’orrore,
puntualmente, la notte, lui bussava alla sua stanza e poi dormivano
insieme…
“Ya-chan”
per un attimo crede che anche quel richiamo venga dai suoi ricordi.
Invece, Takeshi ha appena parlato. E ora si morde le labbra, pentito.
Un’espressione
seria è dipinta sul visetto pallido, mentre dice atono:
“Ha chiesto di te, Yasuko”.
Per
un attimo pensa che sarebbe semplicemente svenuta. Poi,
però, le immagini davanti ai suoi occhi tornano nitide e le
gambe - meraviglia!- si muovono. Evita accuratamente lo sguardo delle
altre tre persone presenti nella stanza, perché ognuna di
loro, per motivi diversi, avrebbe tentato di fermarla.
Invece
le gambe, di nuovo forti, la portano in due ampie falcate fino al
corridoio, lungo il quale si mettono a correre. Quei pochi metri
bastano a farle venire il fiatone e deve appoggiarsi un attimo alla
porta, per aspettare che il mondo smetta di girarle attorno, prima di
entrare.
Una
volta nella stanza si ferma ad alcuni metri dal letto. Ken ha gli occhi
chiusi, la testa reclinata su di un lato, i capelli umidi di sudore sul
volto pallido. Bello. Da far male. Dorme, forse non l’ha
vista… può ancora andarsene, a Nankatsu o,
magari, dall’altra parte del mondo. Si volta e mette la mano
sulla maniglia.
“Piccolina
mia” la voce è flebile e arrochita, ma il cuore di
Yasu la riconosce subito e perde un battito.
“Non
volevo disturbarti” mormora lei, facendo uno sforzo immane
per controllarsi.
“Ho
chiesto io di vederti”.
“Perché”.
“Avvicinati”.
Yasu
si avvicina al letto stiracchiando un sorriso, le mani rigidamente
dietro la schiena.
“Mi
hanno detto che questa è roba tua” dice serio,
alzando debolmente la mano per indicare la sacca di sangue appesa
là sopra.
“Sì,
pare fosse l’ultima risorsa…” fa lei, in
tono apparentemente serio.
“Davvero?”
chiede lui preoccupato.
“Sì.
Hanno detto che se non ci riesce il sangue Wakabayashi a trasformarti
in un portiere decente, non ci sono davvero
speranze…” dichiara lei soffocando le risa.
“’fanculo”
risponde Ken, ma, a sua volta, non riesce a trattenere una risata, che
però gli scatena un forte attacco di tosse.
“Oddio,
scusa… volevo solo sdrammatizzare un
po’…” si giustifica lei, porgendogli un
bicchiere d’acqua.
“È
che ho… la gola… secca” balbetta lui,
tossendo.
Yasu
gli avvicina un bicchiere alle labbra sostenendogli la testa, e lo
aiuta a bere qualche sorso d’acqua.
Calmata
la tosse, Ken si distende: sembra spossato.
Silenzio.
Il
ragazzo tenta di tirarsi su ma, con una smorfia di dolore, desiste.
“Ehilà,
piano” sorride Yasu, sollecita, attivando il dispositivo per
far alzare il letto. “Meglio?” chiede, una volta
trovata la posizione che le sembra migliore.
Ken
annuisce debolmente. “Peggio che dopo essere stati investiti
da un camion” mormora, sorridendo a fatica. “E lo
dico per esperienza”.
“O
forse sei tu che sei invecchiato” ridacchia Yasu,
prendendogli distrattamente una mano.
Lui
risponde a quella stretta con tutta la forza che ha e la guarda negli
occhi, improvvisamente serio.
“Avrò
bisogno di te”.
Per
un lunghissimo attimo, Yasu spera che sia successo davvero come in quei
film, in cui uno batte la testa e si scorda un pezzo del passato.
Desidera intensamente che Ken l’abbia battuta abbastanza
forte da cancellare quegli ultimi, dolorosissimi mesi.
Ma
la testa, riflette, non l’aveva battuta affatto.
“…anche
Takeshi dice…” Yasu si è persa tutto il
discorso del ragazzo, ma a quel nome sussulta. Si alza di scatto,
serrando le labbra. Il primo istinto è stato di urlare che
quel nome non lo vuole sentire e che lei se ne andava, per sempre,
addio. Ma si volta e lo vede così pallido e indifeso e nei
suoi occhi c’è… affetto, amore, e lei
non riesce a sopportarlo. Si morde la lingua, fa un lungo sospiro e
sforzandosi di sorridere dice: “Avrai tante persone che si
prenderanno cura di te, vedrai”.
“Ma
non tu”.
Ancora
un sospiro, ancora trattiene la voce e le lacrime. Il
“no” in risposta giunge strozzato.
“Lasciami andare” lo prega infine.
“Lo
pensi anche tu, no, che non è tutto da buttare…
che ci sono state cose belle fra noi… e che non
dobbiamo-”
“Ma
non lo vedi?” le lacrime infine prorompono e anche la voce,
finalmente, si libera in un grido. “Finisce sempre che
qualcuno si fa male! E io non voglio! Quelle cose belle, ce le terremo
sempre nel cuore ma noi… evidentemente il Giappone non
è abbastanza grande per noi… anzi, ripensandoci,
non c’è più alcun noi”.
Il
volto di Ken si fa, se possibile, più pallido e il suo
respiro affannoso. Le macchine a cui è collegato cominciano
a suonare.
“Ke-chan”
preoccupata, Yasu torna al suo fianco.
Gli
prende la mano e lui apre gli occhi, mentre il respiro si acquieta.
E’ lui stesso a fare cenno all’infermiera
sopraggiunta che è tutto ok.
Yasu
sorride e tira un sospiro di sollievo, accarezzandogli i capelli.
“Non fare lo stupido come al tuo solito…”
“Yasu…”
mormora.
“Non
ti affaticare, se hai qualcosa da dirmi, lo farai poi. Adesso ti lascio
riposare…”
“Allora
non andrai via…”
La
ragazza ha un attimo di esitazione.
“Ascoltami
ti prego… se te ne vai… c’è
qualcosa che devo dirti, prima”.
Yasu
si siede di nuovo, in ascolto.
“Perdonami
per tutto il male che ti ho fatto. Se avessi potuto
evitartelo… proprio a te, che amo più di ogni
altra cosa ma, sfortunatamente… non nel modo che
vorresti”.
Assapora
di nuovo quelle parole, come fossero le prime ciliegie della stagione,
forse un po’ aspre, ma buone e… attese. Poi gli
rammenta: “Me lo avevi, già detto, ricordi? Prima
di…”
“Sì
ma con tutto quello che è successo
stasera…”
“Tranquillo.
Non dimentico delle parole che aspetto di sentire da mesi”.
“E
io da mesi desideravo dirtele… ma ora basta. Non
parlerò più, Mi limiterò ad ascoltare.
Raccontami del tuo nuovo amore”.
Ora
capite perchè fra gli addetti ai lavori questa FF
è nota come "La TraGGedia"... Dite la verità, da
me non ve l'aspettavate XD
A
presto e grazie a tutti!!!
|
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Capitolo 6 *** Finale ***
“Raccontami
del tuo nuovo amore” le dice Ken, sorridendo debolmente.
“Io
non…”
“Non
era per questo che mi avevi cercato?” chiede con voce
sommessa e dolcissima.
“Sì,
per dimostrarti che stavo bene anche senza di te… o forse
sarebbe meglio dire… per sbattertelo in faccia…
Forse mi sono sbagliata a pensare di averti dimenticato”
risponde Yasu confusa, alzandosi e allontanandosi per nascondere il
leggero rossore che le è salito al viso. Ma Ken la trattiene
per un braccio. La presa è sorprendentemente salda.
“Smettila”
la rimbrotta sorridendo.“Non ti permetterei mai di
dimenticarti di me… e non cambiare discorso…
voglio sapere chi è! Lo conosco?”.
“Ehm…
in realtà… sì” ammette.
Gli
occhi di Ken si spalancano per la sorpresa. “Ma dai?
È un nostro compagno di squadra?”
“Nostro?
Mica gioco con te! Ma hai battuto davvero la testa? Ricordi quello
è l’altro Wakabayashi…”
“Sì,
quello che sarà gelosissimo di chiunque sia questo fortunato
giocatore… dai, chi è?”
Adesso
Yasu ha una voglia matta di giocare con la segreta natura curiosa
nonché pettegola di Ken. Neanche tanto segreta.
“Indovina…”
scandisce dunque, guardandolo di sottecchi.
“Eddai,
Yasu” mugola lui, buttandola poi sul patetico, “sto
male non mi devo sforzare troppo”.
“Seh,
il cervello te lo puoi sforzare… una volta tanto”.
“Ma
quanto sei simpatica, ah già dimenticavo che è
una dote di famiglia” replica sornione. Poi sospira,
sistemandosi in posizione seduta. “E va bene…
vediamo… Kojiro purtroppo per te non è
più sulla piazza… non fare quella faccia, lo
sanno anche i muri che ti è sempre piaciuto.
Vediamo… Izawa? Il primo amore non si scorda
mai…”
“Ma,
smettila! No!”
“Nitta?”
“Ma
no! Non è più piccolo, anzi…”
“Jito?????”
“Intendo
più grande non più grosso”
“Non
Soda.”
“Oh,
mio Dio no!Non sono ancora così-”
“…
Katagiri?!?” C’è vivo stupore nella sua
voce.
Yasu
trasalisce, come cavolo…?
“Che
ci fa qua il signor Katagiri?” prosegue Ken, indicando
l’uomo che per un attimo era comparso al di là del
vetro.
“È
venuto a vedere come stavi, mi sembra normale…”
balbetta Yasu, fissando il pavimento.
“Allora
perché guardava te?” prosegue con tono
inquisitorio e decisamente allusivo.
“Ma
che ne sai, ha su gli occhiali-”
“Lo
so. Ma ha la stessa faccia di Takeshi, nel vederci parlare e ridere
così fra noi…” Ken fa una pausa,
sbattendo le palpebre, pensoso. Scruta Yasu mordicchiandosi un labbro,
gli occhi ridotti a fessure. “È lui,
vero, Yasu? È qui per te, non per me” conclude
soddisfatto della sua deduzione. Non è una domanda, la sua.
Yasu
guarda Ken. Lui le sorride, con quel suo sorriso raro e dolcissimo,
come l’uva a ottobre. Gli occhi neri e profondi la fissano,
come se potessero leggerle dentro e allora lei annuisce appena, e
sorride, imbarazzata.
“Ah,
piccolina mia… le cose semplici mai, eh?”
Vorrebbe
rispondergli che con lui era stato semplicissimo, una volta superata la
faida infantile Nankatsu-Toho.
“M’immagino
tuo fratello…” prosegue lui, un po’
ridacchiando, un po’ tossendo. “Quasi quasi
preferiva me…”
“Puoi
dirlo forte… non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma era
felice che stessi con te. Ora che sospetta di Munemasa mi ha fatto una
testa così in differita… mi immagino adesso che
è qui”.
“So
che non ho più il diritto di dirlo… ma un
po’ lo capisco… Il signor Katagiri
è…”
“Grande?
Vecchio? Sfregiato? Un dirigente della nazionale? O
c’è qualcosa che non so?” chiede Yasu,
un po’ alterata.
“Non
ti incazzare subito… è normale che chi ti vuole
bene si preoccupi per te…”
“Preoccupatevi
quando sto male, non quando sono felice…” Si
rabbuia, incrociando decisa le braccia sul petto.
“Beh,
certo se sei felice, allora va bene
così…” le sussurra, carezzandole un
braccio, come per calmarla.
“Certo,”
sospira lei, “in Europa tutto sembrava più
semplice ma… credo di sì”
“Se
c’è qualcosa che posso fare-”
La
porta si apre, interrompendolo e un’infermiera entra nella
stanza.
“Credo
che adesso dovrebbe riposarsi, signor Wakashimazu” dice,
guardando accigliata la cartella, poi alza la testa e osserva i due
ragazzi. Ken è seduto e il suo aspetto pare decisamente
migliorato. La donna sorride, distendendo la fronte: “Ma vedo
che la compagnia della sua futura sposa non ha fatto che
giovarle…”
Ken
guarda stupito la donna e Yasu evita accuratamente i suoi
occhi indagatori, mostrando all’improvviso un profondo
interesse per la porta del bagno.
“Adesso
verrà il dottore” conclude l’infermiera,
lasciando la stanza. “Dovrebbe uscire, signora,
così vi riposerete entrambi”.
“Grazie,
signora Sasaki, può andare, ci penso io”
interviene il medico, entrando e lasciando passare
l’infermiera. Il dottore è parecchio giovane,
più o meno l’età dei due ragazzi.
“Allora
è vero, Yasu, sei proprio tu!” esclama il medico
stupito, non appena alza lo sguardo.
“Kirou?
O dovrei dire il dottor Shibata?” chiede divertita Yasu,
riconoscendo uno dei suoi vecchi compagni di università. Uno
di quelli che era rimasto più sconvolto, quando lei aveva
lasciato gli studi.
“Eeeh,
quasi, sto facendo il tirocinio! Quando ho visto il nome sulla cartella
non potevo crederci! Sei tornata? E sei ancora circondata da calciatori
famosi! Anzi, convolerai presto a giuste nozze, dico bene?”
“Diciamo
che volevo informazioni sulla sua salute e…”
“Capito,
non ti preoccupare, anche io trovo stupida questa storia di informare
solo i parenti. Se state ancora insieme dopo tanti anni, a parer mio,
ne hai tutto il diritto. Bene, bene…” prosegue,
avvicinandosi a Ken. “Vedo che si sente meglio…
cosa non fa l’amore, eh? A quanto pare la dottoressa
Wakabayashi non ha perso il suo tocco… era una delle
migliori del nostro corso!”
“Lo
so” ribatte Ken, prima che Yasu possa dire qualcosa.
“Sono sempre stato uno dei suoi pazienti più
assidui.” Continua, stringendole la mano e guardandola con
occhi dolci e sornioni. “E come vede resta per me la migliore
cura… davvero un peccato, che abbia abbandonato gli
studi”.
“Ecco
bravo, glielo dica. Magari riesce a convincerla, io glielo
avrò ripetuto mille volte”. Poi,
all’improvviso, si fa pensieroso, poi dichiara:
“Avrei un’idea”.
Gli
altri due lo guardano con aria interrogativa.
“A
me servono letti e il signor Wakashimazu è giovane, forte e
ha superato brillantemente la crisi. Adesso si tratterebbe solo di
riposare e controllare le medicazioni. E io credo che riposerebbe molto
meglio nell’infermeria del J-Village che qui, quanto alle
medicazioni, puoi pensarci tu, no, Yasu?”
“Mi
sembra un’ottima idea” sentenzia Ken, senza porre
tempo in mezzo.
La
ragazza guarda entrambi sgranando gli occhi e finalmente
riesce a intervenire: “Ma siete impazziti?”
“Andiamo
Yasu, sei perfettamente in grado di occupartene. E comunque il dottor
Kudo, che viene al J-Village è un mio amico e ti
supervisionerà. Magari ti tornerà davvero la
voglia di riprendere…”
A
Yasu basta guardarli negli occhi per capire di non aver scelta. E, in
fondo… l’idea di tornare a occuparsi delle cure
dei ragazzi non le dispiace affatto…
**********************
Caro
Diario,
oggi, finalmente,
Ken si è tolto i punti e da domani riprenderà ad
allenarsi. Il periodo di riposo ha giovato anche alla sua spalla e
credo che tornerà presto in forma perfetta. A supervisionare
l’operazione c’era Kirou, che casualmente
sostituiva il dott. Kudo. Ancora adesso non so chi è stato
il più pazzo, se io che ho accettato la folle proposta di
Kirou, Kirou stesso che poteva rimetterci la carriera o Ken che si
è prestato come cavia.
Non lo so.
Però
avevano ragione.
Da tempo non mi
sentivo a mio agio come in questi ultimi giorni
nell’infermeria del J-Village. Lo hanno notato tutti,
Munemasa e Takeshi compresi. All’inizio nessuno dei due
sembrava entusiasta all’idea che io e Ken dovessimo
trascorrere tanto tempo insieme. Poi ritrovarsi la sera tutti e quattro
nella stanzetta dell’infermeria, è diventata quasi
un’abitudine.
In quella stanza,
sono guarite molte ferite, oltre a quella provocata
dall’incidente al mio ex.
Ecco, intanto, la
mia lingua e le mie mani riescono a pronunciare e scrivere questa
formula “il mio ex”, non lo avevano mai fatto
prima.
Ci siamo guardati,
io e il mio ex, negli occhi, a lungo, tante volte, come forse non
facevamo da prima che lui andasse ai Flügels.
Ci siamo presi la
mano, fatti qualche carezza, abbracciati un po’.
Abbiamo parlato
tanto, persino ricordando momenti che appartengono solo a noi, sentirli
raccontare dalla sua voce pacata e vedere i suoi occhi ridere e
commuoversi nel farlo, me li ha come restituiti, verità, non
illusione, un passato nostro, che nessuno ci porterà mai via.
Ken, la sua voce,
le sue mani, i suoi capelli, ogni sua cellula, hanno avuto
l’effetto di un veleno, che, preso in piccole dosi, ogni
giorno, con costanza, accettando anche la sofferenza che può
dare, alla fine non fa più male. E come tutto ciò
che non ti uccide, ti rende più forte.
Sono felice di
aver recuperato il rapporto con Ken: c’è qualcosa
di profondo che ci unisce e questo non è da buttare, ma da
coltivare. Non sarà facile, ma ci proveremo.
Anche con Takeshi
le cose stanno migliorando, lentamente, ma ne sono comunque contenta.
L’affetto che ci lega, il trascorso quasi da sorella maggiore
e fratellino, più che da amici, che ci ha legato a lungo,
l’abitudine mia di fare appello alla sua ingenuità
e alla sua saggezza, la fiducia con cui si rivolgeva a me per i dubbi
più disparati, cozzano drammaticamente con la sottile
irrazionale gelosia che lui ha del mio passato e io del suo futuro. Le
ferite del mostro dagli occhi verdi (1), non guariscono mai de tutto,
credo. Ma a un dolore ci si può anche abituare e, un bel
giorno, credere di non sentirlo più.
Munemasa, che i
dolori della vita li conosce, ha sofferto in silenzio in quelle ore
terribili, dandomi tutta la forza e la fiducia di cui avevo bisogno.
Credo si chiami Amore. Lo scrivo con la lettera A grande
perché, credo, questo sia l’amore dei grandi,
diverso dall’amore fra ragazzi, fatto di impazienza,
curiosità, novità, sentimenti forti, totali,
travolgenti. Munemasa sa aspettare, sa trattenere i suoi sentimenti,
persino metterli da parte, se è necessario, e riservare la
passione per le emozioni e i momenti che la meritano davvero. Come
quando mi ha abbracciato in ospedale, il primo abbraccio in terra
giapponese, e poi quando siamo tornati
dall’ospedale…
Dio, se ci penso
ho ancora i brividi. Mi ha accompagnato alla mia stanza e sono andata a
farmi la doccia. Ero convinta che se ne fosse andato,
invece… quasi mi sono spaventata quando l’ho
trovato ancora seduto sul mio letto, i gomiti poggiati sulle ginocchia
e gli occhiali in mano.
L’ho
visto alzare la testa e il suo pomo d’Adamo è
scattato, mentre mi guardava.
Imbarazzante.
È più forte di me non riesco a considerare che il
mio corpo possa fare quell’effetto…
Insomma…
ha appoggiato gli occhiali sul comodino, si è alzato in
piedi e mi si è avvicinato, ha allungato la mano verso il
mio seno per sciogliere il nodo che tratteneva il telo da bagno. Ha
fermato la mano e mi ha guardata.
“Se non
te la senti, se sei stanca o non ti senti bene…”
Ma gli ho
garantito che sarei stata benissimo. E non mi sbagliavo.
Altra cosa
importante. Riprendo gli studi di Medicina e Munemasa mi appoggia in
pieno. Lo ha anche annunciato durante una riunione con Mikami, Gamo e
Kira. Ovviamente tutti si sono complimentati con me, ma la notizia non
ha suscitato tanto scalpore, non come la dichiarazione che Katagiri ha
fatto poco dopo. “È giusto che sappiate anche che
sono innamorato della signorina Wakabayashi e spero di sposarla quanto
prima.”.
Credo che la
faccia di Gamo in quel momento non me la scorderò MAI.
E, per inciso,
nemmeno quella di Mikami quando, finita la riunione, mi ha detto che
“se non trovo di meglio” lui “non avrebbe
problemi” ad accompagnarmi all’altare.
Finalmente, sono
di nuovo nel luogo che più mi appartiene.
E ringrazio
Kamisama per aver dato a me e non solo un’altra
possibilità di essere felice.
W. Yasu
Note:
(1)
È una citazione di Otello (Atto 3, scena 3) di
Shakespeare:
Iago: O,
beware, my lord, of jealousy; it is the green-ey'd monster, which doth
mock the meat it feeds on. [Oh! guardati, mio signore, dalla gelosia:
è il mostro dagli occhi verdi che irride la carne di cui si
nutre].
Sound track e altri
deliri
Skunk
Anansie – You Follow
me Down –
Sebbene non abbia
mai capito a fondo questa canzone (e la traduzione ivi proposta certo
non aiuta) da quando ho in mente questa storia, ogni volta che sento la
meravigliosa voce di Skin gridare “’cause I
don’t want you to forgive me” pensavo al dilemma
interiore di Ken e mi venivano i brividi…
Marco Masini
– Abbracciami
Lo stesso dicasi per
questa canzone… non l’avevo esattamente presente,
eppure riascoltandola, l’altro giorno, mi è
sembrato che riecheggiasse perfettamente il “tono”
della separazione di Yasu e Ken, non qualcosa di violento, con liti,
tradimenti, piatti che volano… non un cazzotto violento in
faccia, ma un dolore sottile che ti lacera dentro, la lenta ma
inesorabile consapevolezza che non sarà mai
più…
…difendimi,
come quel figlio che non cresceremo mai…
…abbracciami
perché stanotte è freddo come non è
stato mai…
…
perché domani è adesso e adesso te ne
vai…
…ricordati,
che in questo perderci esistiamo solo noi…
Adoro questo
concetto che il lasciarsi, quasi come fare l’amore, riguarda
solo loro…
Ok,
sono andata…
Sempre di Masini,
potrei nominare anche “Errori”
(una canzone meravigliosa, che cito sempre quando spiego la mia
predilezione per Ken, perché preferisco chi fa più
errori . Analogo messaggio si trova in “Tutti i
miei sbagli” dei Subsonica che mi premeva
altrettanto citare in questa sede (Tu
sai difendermi e farmi male, ammazzarmi e ricominciare… sei
tutti i miei sbagli…).
Si
sa che io ho un amore particolare per i personaggi che sbagliano, non
per niente in qualsiasi storia sono sempre più attratta dai
comprimari deboli e fallaci o dagli antagonisti stessi, che non dai
protagonisti perfetti. Credo che gli errori, gli sbagli siano il vero
elemento fondante della nostra esistenza: le scelte giuste si
dimenticano, gli errori sono quelli che si ricordano e che ci danno le
lezioni più importanti… sono la differenza fra il
bene e il male (perché errare è umano ma
perseverare [nell’errore] è diabolico) o
addirittura baluardo del libero arbitrio (ho letto su FB questa frase
che mi ha colpito, che diceva che se compi due volte lo stesso errore,
questo non è più uno sbaglio ma una scelta). Per
tornare a bomba, è evidente che la storia fra Ken e Yasu sia
stata, col senno di poi, un “errore” ma forse uno
che era necessario commettere, che è stato pure bello
commettere e che ha dato tanto a entrambi. Tanto dolore sì,
ma anche tanta gioia.
E tutto questo quel bastardo lui
non me l’aveva detto che si soffre come un cane quando se ne
va l’effetto… ma cosa vuoi più da un
amore che fa piangere e incazzare ma che in fondo fa soltanto il suo
bellissimo mestiere dice Masini in un’altra
canzone che, nella mia mente, ha accompagnato questa storia…
(Ebbene sì essendo che non sono mai stata lasciata, mi sono
fatta inspirare da Marchino che, invece, pare se ne intenda
XD)… la canzone in questione è “Il
bellissimo mestiere” cui aggiungerei
“Lasciaminonmilasciare”…
Adoro
quest’idea che l’amore sia “bello anche
se fa male” (sì come la guerra di
“Generale”) e che anche se finisce, anzi, di
più, anche se non si concretizza mai, comunque dà
forza, comunque vale la pena di viverlo, comunque è qualcosa
che in qualche strano modo ti unirà per sempre.
Ok
smetto di dire cose melense, di citare Masini e di scrivere commenti
finali più lunghi della FF stessa.
Grazie per aver
seguito questa mia travagliatissima FF. Non credo che
scriverò mai più di Yasu e Kata… mi
piacciono insieme ma separare Yasu da Ken è davvero
doloroso. Forse al limite il famoso spinoffino con Kata’s
POV…
Ma
è anche vero che nene non dovrebbe “mai dire
mai” onde non incorrere in incresciosi ripensamenti.
Grazie
a tutti quelli che hanno detto che i miei personaggi sono realistici
è una cosa che mi riempie d’orgoglio e mi fa fare
la ruota come un pavone... o una vera Wakavbayashi.
Ok,
grazie, grazie davvero a tutte. Soprattutto a releuse che di questa
storia ha subito tutte le alterne vicende.
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