Paura e onore

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


I
I

Paura e onore

Un motivetto da usignolo si sparse nell’aria, scandito dalle labbra strette di una figura. Camminava scanzonata, qualche passo avanti a noi, quasi stesse facendo una scampagnata. Le suole delle sue costose scarpe di vernice battevano il ritmo sul selciato inumidito dalla guazza. Scarpe inadatte ad una notte di duelli. Apriva e chiudeva il mantello, fingendo fossero le ali di una creatura possente e temibile. Ne indossava uno lungo fino a terra, di broccato nero. Quella stoffa era magnifica quanto inadatta ad un mantello da battaglia, il che testimoniava solo che razza di egocentrico e leccapiedi fosse: l’aveva scelta solo per assecondare il gusto di Lord Voldemort per le cose belle e preziose. Gusto che disapprovavo, in quel frangente, come molti dei miei compagni. Incutere timore con un aspetto minaccioso, che dichiarasse il nostro status di Purosangue, era un conto. Volersi arrabattare tra crinoline e orpelli da donnicciole, un altro.
«Non ti piace, non è così?» rantolò una vocina.
Abbassai appena lo sguardo su Alecto che caracollava al mio fianco. Il fisico grassoccio e le voluminose sottogonne le impedivano di tenere il nostro passo mentre avanzavamo lungo la via fiocamente illuminata.
«Esatto» risposi sintetico.
Per me, parlare di Regulus Black, era piacevole quanto essere conteso fra le zanne di due Ungari Spinati digiuni da un secolo. Di tutti i Mangiamorte che avevo avuto la sorte di conoscere, era certamente quello che meno sopportavo. O meglio, era quello che odiavo sopra ogni altra cosa. Persino quello sciagurato Mezzosangue di Severus Piton mi riusciva più accettabile: almeno era un mago che sapeva il fatto suo. Era abile, capace, determinato; uno che stava cercando con ogni mezzo di redimere le lordure del proprio sangue. Col suo impegno si era guadagnato il mio rispetto. Black no.
Black era solo un gran chiacchierone dalle maniere accattivanti, bella presenza e poca sostanza.
«Ottima serata per una caccia, vero?» canticchiò.
«Alza la voce, cuginetto» lo incitò Bellatrix, prendendolo sottobraccio. «Canta! Grida! Dì a tutti gli indegni che sta per compiersi il loro destino!»
Levarono insieme il braccio, pronunciando l’incantesimo. Un alone verde, nebuloso e impreciso, tinse la notte. Il grande teschio si delineò nella volta celeste in pochi istanti, inghiottendo la luce della luna. L’ordinata schiera delle abitazioni sembrò essere sprofondata sul fondo di una palude melmosa.
«Laggiù» indicò lei con un sospiro folle.
Nella casa a metà dell’isolato c’erano due luci accese, entrambe a piano terra. Una si spense in quello stesso istante e così molte altre dietro le finestre circostanti, puntualizzando in maniera inequivocabile che la nostra presenza era nota.  
«Andiamo!» rise eccitato Black, trascinandosi dietro la cugina in una corsa a perdifiato fino alla porta.
Due adulti che facevano giochi da bambini.
Quando li raggiungemmo, stavano ancora riprendendo fiato. L’altra luce all’interno della casa si era abbassata, mutandosi in un tremulo baluginio.
«Edwards» lesse distrattamente il novellino sulla targa d’ottone, ripetendolo più volte.
Le sua espressione interrogativa non mi sfuggì. Doveva ricordargli qualcuno, ma poco importava.
«È solo un nome, Regulus» sibilò mollemente Bellatrix. «Non ci riguarda. Sono le loro azioni che veniamo a punire!»
Ci dividemmo: le donne si Smaterializzarono al piano superiore mentre a noi era affidata l’irruzione dagli ingressi su strada.
«Prego, messere. A voi il retro» schernì aspramente Avery, battendo una mano sulla spalla del ragazzo.
Questi fece una smorfia azzardando una protesta, subito messa a tacere. Indossata la maschera, svanì con fare teatrale. Almeno su quello, eravamo concordi: non poteva dirigere l’attacco alla sua prima uscita. Doveva accontentarsi di badare ad eventuali vie di fuga.
«Imbecille» mormorai, scrutando intorno in cerca di segnali d’allarme.
Eravamo vicini alle dimore di alcuni Auror, sarebbe bastato poco per far capire loro dove ci trovavamo con esattezza e mandare a monte l’operazione. La dea bendata ci assistette, nascondendo il duello dietro l’omertà dei vicini. La famiglia si era rintanata in una stanzetta malamente Occultata. Trovarli fu semplice, altrettanto ridurli al silenzio eterno, nonostante l’angusto spazio in cui eravamo costretti a duellare. Disarmammo l’uomo ed eravamo pronti a dargli il colpo di grazia, quando Black ci raggiunse, scansandoci in malo modo. Tendeva il braccio in avanti, pronto a scagliare l’Anatema. Avrebbe meritato di riceverne uno a sua volta per quel gesto da spaccone, ma, all’improvviso, abbassò la bacchetta.
«Cal?» chiamò, sollevando la maschera perché quello potesse vederlo in faccia.
Per un istante meditai di ucciderlo insieme a quell’altro. Mostrarsi era un’assurda leggerezza. Preferivamo proteggere le nostre identità, in attesa del giorno in cui i nostri avversari avrebbero ceduto definitivamente le armi. Solo Bellatrix combatteva senza maschera, talmente era sicura di non dare scampo alle sue vittime.
«Calvin, sei proprio tu?»
A giudicare dal tono, doveva conoscere il mago nascosto sotto i lividi e gli abiti laceri.
«R-Regulus… B… B-Black?» balbettò quello, strabuzzando gli occhi prima di accennare un sorrisetto smunto e tremante.
Un lampo di speranza lo illuminò. Ruotò lo sguardo su di noi, per riportarlo su Black. Gli si gettò ai piedi, singhiozzando terrorizzato. Pareva incredulo di tanta fortuna e lo supplicava, gemendo sull’orlo sporco del broccato.
«Aiutami… t-ti prego! Tu… noi s-siamo amici! Diglielo… diglielo! Non voglio… morire! Danielle… i bambini… loro… t-ti prego, Regulus!»
Quelle parole si abbatterono su Black con la violenza di un Cruciatus. Un vago stordimento lo colpì, facendolo ondeggiare.
«Ecco,» pensai con orgoglio e disgusto, «sta cominciando».
Ero sempre stato diffidente nei confronti di quel ragazzino, la sua boria m’insospettiva. Non ne avevo mai fatto mistero, ma nessuno si era schierato dalla mia parte. La convinzione che l’erede di Orion Black fosse degno di stima e fiducia era talmente radicata che le mie rimostranze passavano per ridicoli sfoghi d’invidia. Invidia per il suo antico blasone completamente anglosassone - noi Lestrange eravamo in parte Normanni di Avranches -, invidia per la sua innata eleganza, per la sua raffinatezza, per la sua conturbante adolescenza - al suo confronto, sembravo molto più vecchio, nonostante ci dividessero solo quattro anni -. Ora però, la conferma delle mie proteste appariva fondata: Black titubava.
«Che significa? Io conosco questa persona, era il mio capitano di quidditch. È un Purosangue quanto noi! E appartiene a Serpeverde! Non può aver commesso nulla contro…» strillò, frapponendosi a braccia spalancate.
«Le sue colpe sono gravi. Non possono essere tollerate» spiegò distrattamente la Carrow.
Un rapido sguardo corse fra i due che avevo di fronte. Incertezza, paura, domande non esternate. E ricordi. Ognuno si stava aggrappando alla speranza di corrispondere ancora all’immagine presente nella mente dell’altro. Pregavano di avere la ragione dalla loro, invocavano i grandi maghi affinché si trattasse solo di un errore, imploravano per una via d’uscita.
«No. No! Vi sbagliate…» insisté, scuotendo il capo con forza. «Garantisco io per lui! Giuro che non è come pensate! Siete in errore! Devono averci dato informazioni sbagliate, non c’è altra spiegazione!»
Ci furono sguardi di aperta derisione. Credeva davvero quel piccolo incapace, di poter redimere quel traditore con le sole parole? Che garanzie poteva fornire, a sostegno della sua totale ed incondizionata redenzione, quando le tracce del suo disonore erano evidenti in tutta la stanza? E pensava davvero che fossimo pronti ad uccidere qualcuno che avrebbe potuto tornarci utile? Qualcuno che avrebbe potuto essere stato soggiogato suo malgrado? Illuso! Stupido idealista! Noi conoscevamo perfettamente le colpe vergognose di chi stava difendendo.
«Diglielo! Diglielo, Calvin! Questa è una famiglia di Purosangue, come le nostre! Danielle è una Purosangue! Me l’hai detto tante volte, Calvin! Digli che si sbagliano!»
Il traditore tremò, scosso. Chinò il capo e smise di stringere le caviglie di Black, indietreggiando nell’angolo della stanza. Il peso del suo peccato era evidente, chiunque se ne sarebbe accorto. Anche il suo sciocco difensore.
«No… Calvin… non puoi…» biascicò sconvolto.
Che immagine splendida. Sorrisi dietro la maschera, sentendo il petto riempirsi d’orgoglio per me, che mai avevo esitato.
Dubbi, timori, paure, distorcevano i lineamenti delicati in una smorfia indecifrabile.
«Non avresti capito… non l’avresti accettata… Ho dovuto mentire» ammise infine, girando la testa, il volto rigato di lacrime. «Io l’amavo, ma tu davi più importanza al suo sangue che alla sua persona…»
Black fece altrettanto e fu allora che li vide: il corpo di una donna e di due bambini. Giacevano faccia a terra, aggrovigliati e scomposti, l’uno sull’altro.
Approfittai della sua distrazione per lanciare l’Avada Kedavra. Il corpo del reietto cadde in avanti come un sacco vuoto, rumoreggiando pesantemente sul pavimento.
«Quest’ignobile rifiuto aveva sposato una lurida Nata Babbana e ci aveva figliato! Schifoso maledetto!» sibilò Avery, prendendo a calci il cadavere.
Era il più disgustato di tutti noi: lui e quel mentecatto erano imparentati, anche se alla larga. Nessuno di noi avrebbe potuto sopportare l’onta di annoverare simili abomini nel proprio albero genealogico. Meglio liberarsi di una macchia tanto ingiuriosa. Black avrebbe dovuto capirlo meglio di chiunque altro.
«Oh, povero il mio cuginetto, Regulus!» lo canzonò ironica Bellatrix, giocherellando con i suoi capelli come avrebbe fatto una sorella maggiore o una madre. «Davvero credevi che ci fossimo sbagliati?»
Il ragazzo alzò lo sguardo inorridito su di lei che sorrideva affabile.
«Noi non sbagliamo mai» conclusi.


Questa storia ha partecipato al "Il mio miglior nemico/La mia migliore nemica" indetto da Maeve_ e Mizar19, classificandosi prima. Riporterò il giudizio ottenuto al termine del capitolo conclusivo.

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Capitolo 2
*** II ***


II
II

paura e onore

Camminavo svelto lungo il vialetto dell’ingresso. L’umidità della notte aderiva alla maschera, rendendola gelida e viscida. La sentivo sposarsi sugli zigomi, sulla fronte, sul mento, trattenuta a malapena da quel che restava di un Adesivo.
Desideravo solo poter mettere piede in casa, levarmi le vesti da battaglia e sedermi accanto alla vetrata, sorseggiando un cordiale mentre la mia Elanor si prendeva cura di me. Le avrei raccontato del duello con l’Auror, sbucato all’improvviso per contrastarci; delle molte vite mietute e delle parole di lode di Lord Voldemort per la nostra nottata di caccia. Lei avrebbe ascoltato rapita, seduta sulle mie ginocchia, provvedendo a mantenere pieno il bicchiere fino all’ora in cui ci saremmo coricati. Accennai un sorriso, subito cancellato dal rumore di un passo strascicato.
Dietro di me arrancava il ragazzino, col respiro strozzato e l’andatura incerta. Stava curvo in avanti, rattrappito sotto ad un mantello fattosi improvvisamente troppo grande e pesante. La stoffa strisciava per terra, imbrattandosi di polvere e sporcizia. La sua maschera sporgeva in bilico fra le pieghe del manto, precipitando a terra di quando in quando. Ogni volta che l’aveva persa, aveva impiegato interi minuti per raccoglierla ed infilarla di nuovo in quella tasca troppo stretta. Ormai era malridotta quanto le sue vesti. Era privo di dignità.
Non avevo mai visto tanta mancanza di rispetto verso le nostre insegne. Nessun Mangiamorte degno di quel titolo avrebbe osato mostrare una simile trascuratezza prima e, soprattutto, dopo una notte di combattimenti. Ci saremmo vergognati di quell’aspetto da accattone Babbano. L’essere un Mangiamorte significava mettere in chiaro la superiorità del nostro sangue sugli indegni, in ogni modo, con ogni mezzo. Incluso l’aspetto.
Dover portare a casa mia un marmocchio piagnucoloso, con la tunica bagnata di piscio e chiazzata di sangue e vomito, mi mandava in bestia. L’aver quasi rotto il naso a Lucius, che se la ghignava allegramente in un angolo, non mi aveva dato alcun sollievo, così come non l’avevano sortito le rassicurazioni di mio fratello riguardo “l’onore di offrire ospitalità ad un rampollo Purosangue, sì caro al Maestro”.
Per chi mi avevano preso? Per una balia, forse? Black non sapeva badare a sé stesso e dovevo sentirmi obbligato a pensarci io? Ridicolo, semplicemente ridicolo. Aveva una famiglia, che badassero loro a lui!
E poi, cos’aveva di tanto speciale? Era solo un borioso viziato che guardava tutti dall’alto in basso peggio di Narcissa, capace solo di profondersi in montagne di belle parole, bei modi, galanterie leziose che potevano abbindolare le donne. Aveva dimostrato chiaramente quanto poco valesse in battaglia. Sguardo perso, mano tremante, ginocchia cedevoli. Inutile. Dannoso. Pericoloso. Ecco cos’era: pericoloso. Ciascuno di noi Mangiamorte rappresentava un pericolo per Mezzosangue, Nati Babbani e Babbani, non per gli altri accoliti. Lui invece era un pericolo per tutti. Amici e nemici. Far affidamento su una bacchetta insicura era da sconsiderati. Perché gli avevano permesso di ricevere il Marchio? Sarebbe stato molto meglio lasciarlo a farneticare nella sua soffice bambagia, servito e riverito dai suoi stupidi elfi, lontano da noi e dalla nostra guerra.
Ad un tratto lo udii incespicare e cadere. Non mi voltai, né rallentai il passo, ma dopo pochi metri fui costretto ad arrestarmi. Stava rimettendo, contorcendosi a terra. Avrei voluto sapere cosa stesse spargendo sulla ghiaia, visto che aveva vomitato subito dopo la morte del suo “amico” e un altro paio di volte in un angolo della cripta dove ci eravamo riuniti dopo l’attacco. Milord aveva assistito con un sogghigno malevolo a quell’increscioso spettacolo, per poi avvicinarlo. Gli aveva parlato sottovoce, perché il discorso restasse fra loro due soli. Poco importava cosa gli avesse detto, dubito si trattasse d’incoraggiamenti o condoglianze per la sua perdita.
Tornai suoi miei passi, la mano serrata con forza sulla bacchetta. La mia voce attraversò la maschera, assumendo una sfumatura metallica e tagliente.
«Alzati» intimai disgustato.
Lui rimase accucciato, biascicando qualcosa contro i sassolini pallidi quanto la sua faccia. Era una sorta di minuscolo grumo nero e frignante, scosso dalla tosse e dai singulti. Repressi a fatica l’istinto di prenderlo a calci lì dov’era, sfogando la mia collera sulle frasche di un cespuglio poco lontano. Mi rifiutai d’imbrattare ulteriormente gli stivali e di sprecare anche un solo briciolo di magia per punire una creatura più infima persino di un elfo domestico.
«Alzati!» ordinai, più arrabbiato.
Black dondolò sulle ginocchia, scosso dai singhiozzi. Le sue frasi erano un miscuglio di sillabe prive di senso e di suoni. Mi ricordarono un cerbiatto che avevo ucciso la primavera precedente: per un caso fortuito l’avevo ferito di striscio e questi era riuscito a fuggire per un po’, prima d’accasciarsi ed invocare soccorso disperatamente. Era stato un piacere zittirlo.
Le dita accarezzarono il legno di quercia, desideroso di ripetersi, ma l’ossequio alle richieste di mio fratello mi frenava. E dietro a queste, c’erano gli occhi venefici di Lord Voldemort, che impedivano alla mia gola di proferire l’incantesimo ferale.
«Ho detto alzati!» gridai.
Finalmente riuscì a raddrizzare la schiena, ma rimase inginocchiato, le braccia che ciondolavano inerti lungo i fianchi. Piangeva ancora. Dove Merlino trovava tutta quell’acqua e la voglia di continuare a disperarsi?
«Come avete potuto… lui… lui poteva…» balbettò con voce rotta.
I miei occhi divennero due fessuro gelide dietro le orbite vuote della maschera.
«Cosa? Esserci utile? Non capisci nulla, stupido idiota!»
Black scosse con forza il capo, facendo oscillare quella deliziosa chioma corvina per cui tante sue amichette di Hogwarts avevano spasimato e provato invidia. Forse non possedeva il fascino del reietto di famiglia, ma ne condivideva l’impronta estetica.
«Era solo un verme. Da schiacciare e sprofondare nella melma da cui proveniva».
«Era mio amico!» gridò, scattando in piedi.
Arretrai di un passo, squadrandolo con ribrezzo mentre ricadeva floscio e affondava le mani nella ghiaia. Non era solo la mancanza di decenza nel suo comportamento o il moccio che gli colava sulle labbra mescolato alle lacrime, era soprattutto la sua insensata ottusità ad infastidirmi.
Ero sicuro che, dopo quella notte, i miei compagni e Milord avrebbero prestato attenzione alle mie rimostranze, convenendo che il giovane Black andava tenuto lontano dalla mischia e, se possibile, anche dai nostri affari in generale. Lo avremmo rispedito dalla sua vociante mammina, a nascondersi nella sua stanza e a maledirsi per non essere un uomo bensì l’esempio del disonore.
«Non dovevate… potevamo salvarlo… lui… Calvin…»
S’interruppe, tirando poco elegantemente su col naso. Un fremito di gioia mi percorse. Vedevo la sua algida immagine sgretolarsi: l’affascinante e presuntuoso Purosangue che piegava i cuori delle dame e le simpatie dei nobiluomini spariva rapido, lasciando il posto ad una creatura insignificante. Avevo sempre odiato il modo in cui la sua sola presenza riuscisse a calamitare su di sé sguardi e pensieri. Non che abbia mai invidiato lo charme della sua casata - noi Lestrange non abbiamo tratti di pari eleganza e avvenenza -, ma preferivo la sostanza all’involucro. E quella notte, vedevo confermata la mia teoria, dato che in quella scatola non c’era assolutamente nulla.
Sollevai la maschera, perché potesse vedermi bene in faccia mentre lo deridevo.
Aveva gli occhi lucidi e dilatati dall’orrore al punto tale da sembrare molto più grandi del normale. Qualunque strega si sarebbe sciolta in lacrime di commozione, correndo ad abbracciarlo e confortarlo. Un giovane mago provato oltre misura dall’impatto con un mondo che credeva ben diverso, quasi idilliaco, se visto da dietro le finestre di Grimmauld Place. Persino Bellatrix, che notoriamente disapprovava strepiti e piagnistei - sia che si trattasse di vittime o Magiamorte - aveva avuto un moto d’incertezza nel vederlo in quelle condizioni. Non si poteva certo assistere ad uno spettacolo del genere e restare insensibili. No, su questo concordavo. Ero totalmente disgustato dalla mancanza di spina dorsale di quel rammollito e godevo di ogni istante della sua prostrazione.
Un basso uggiolio mi fece voltare. Lungo il viale avanzava zoppicando una sagoma bianca. Era uno dei nostri levrieri russi, Norios. La pelliccia, un tempo soffice, ora si sfaldava in batuffoli disordinati che ondeggiavano con ritmo impari ad ogni passo. Avevo pensato di abbatterlo, ma lo strenuo attaccamento alla vita che aveva mostrato mi avevano portato a cambiare idea. Inoltre, mia moglie diceva con orgoglio che le cicatrici sul muso e sul fianco gli conferivano un’aria nobile e solenne.
Norios sedette al mio fianco, levando al cielo il muso affusolato. Il torace magro si gonfiava e  contraeva ad un ritmo identico a quello dei polmoni di Black. Tuttavia, l’ansare spasmodico di Norios era una gioia per i miei occhi, perché testimoniava la smisurata estensione della sua fedeltà nei confronti del padrone che l’aveva graziato. Nei patetici rantoli di Black non scorgevo alcunché.
Allungai la mano sul capo dell’animale, che scodinzolò adorante.
«Questo cane è vecchio e stanco, ha un’anca distrutta da una zuffa con un cinghiale. Non riesce neppure ad acchiappare un Vermicolo e i suoi morsi non fanno alcun danno. Eppure vale molto più di te, stupido ragazzino. Lui sa cos’è l’onore» conclusi, calciandogli addosso la ghiaia.

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Capitolo 3
*** III ***


III
III

pauraeonore

«Rabastan?» chiamò una voce assonnata.
Ebbi a malapena il tempo di distogliere lo sguardo dall’avanzo di mago che oltrepassava la soglia, che Elanor apparve nell’atrio. Indossava una lunga vestaglia color avorio, che le ondeggiava attorno leggiadra. Quante volte quell’immagine aveva rasserenato il mio animo quando tornavo da una cruenta missione? La mia donna, mia moglie, che mi si faceva incontro con lo sguardo trepidante per la lunga attesa ansiosa. Il suo sorriso, le sue mani, le sue parole, le sue premure. Ogni cosa per sollevarmi dal pantano ferale in cui sguazzavo dopo il calar del sole.
Mi chinai a baciarla, stando ben attento che le vesti, imbrattate di sangue e lacrime delle mie vittime, non intaccassero il suo etereo candore.
«Che succede, mio buon signore?» chiese, scrutando con preoccupazione la sagoma deforme che mi ero trascinato dietro.
Se ne stava appoggiato ad un mobile, smunto e maleodorante. Due dei nostri elfi domestici si erano Materializzati in un angolo e scambiavano commenti sottovoce, premurandosi, da decerebrati quali erano, di additare il nuovo venuto con sdegno e pesante sarcasmo. Per una volta condividevo il loro infimo pensiero.
«Black si è sentito male e me l’hanno affidato per stanotte» spiegai irritato. «Non vogliono che vada a casa. Temono la sfuriata di Walburga, neanche fosse quella del Maestro dopo un fallimento. Codardi» soggiunsi a denti stretti.
Lei si staccò dal mio fianco con un’espressione indecifrabile, che mai le avevo veduto.
«Sii il benvenuto in casa nostra, Regulus Arcturus Black» salutò pacata, avvicinandosi a quella creatura immonda. «Vieni, sarai stanco. Tarocher, presto, porta via le vesti del signor Black e del padrone. Nubrig, dagli una mano e poi porta qualcosa dalle cucine. Sbrigati».
Black tentò debolmente di opporsi, ma era troppo ruffiano per declinare le gentili cortesie di mia moglie. Schifoso approfittatore. Per un istante prese corpo nella mia mente la balzana idea che si trattasse di una patetica buffonata, ordita al solo scopo di metter piede in casa mia. La gelosia morse furibonda, iniettandomi il suo fatale veleno nelle vene. Tentai di scacciarla, ma non fece che agitarsi nelle mie viscere, mentre li seguivo entrambi nel salone. Elanor lo conduceva per mano, incantevole quanto una vergine con un giovane unicorno.
Gettammo le vesti da Mangiamorte agli elfi. Provai un discreto sollievo nel respirare liberamente il familiare profumo della mia dimora, scevro dal lezzo di morte che per troppo tempo mi aveva afflitto. Dalle cucine erano stati portati dei cornish pasty, pancacke, roast beef, formaggio, scones e fette di torta. Aspettarsi un po’ di criterio da quegli sgorbi di elfi domestici era davvero troppo, tuttavia la tensione ed il nervosismo che portavo addosso m’impedirono di prendermela con loro.
Elanor sedette accanto al nostro sgradito ospite, prendendogli una mano per cercare di rincuorarlo. Il sangue ribollì furioso nelle vene. Come poteva quel moccioso meritare le attenzioni della mia sposa?
«Mi dispiace che la tua prima caccia sia stata tanto dura, Regulus caro» lo consolò, posandogli una mano sulla spalla. «Vedrai che la prossima andrà meglio. Imparerai ad essere un degno servitore di Milord e renderai fieri i tuoi genitori con le tue azioni».
Lui però non l’ascoltava. Smarrito nei propri, sciocchi pensieri, tremava.
«Era un mio amico… hanno ucciso un mio amico…» singhiozzò, guardandomi sconvolto. «Perché? Lui… che colpa aveva?»
«Ora calmati» disse Elanor, abbracciandolo con affetto. «Sono certa che vi sia una spiegazione».
Sgranai gli occhi, esterrefatto. La fronte di Black che le poggiava sulla spalla, le dita intrecciate alle sue. A me solo erano stati riservati quei gesti. Nessun altro ne aveva goduto ed ora, questo bellimbusto tutto chiacchiere e lacrimoni, riusciva ad appropriarsi quanto mi spettava di diritto? Come osava?
«Ha sposato un’impura. Feccia Nata Babbana» sputai.
«Danielle era in gamba. Una delle migliori streghe che avessi conosciuta. Era bravissima» si oppose debolmente.
Elanor mi precedette, impedendomi d’intervenire.
«Regulus, non sempre la realtà è come ci appare» spiegò, sollevandogli il volto perché la guardasse negli occhi. «Molti veli nascondono le imperfezioni della vita al nostro sguardo. Sta a noi imparare a scoprire per tempo cosa celino, prima che sia tardi».
«Ma Calvin…»
«Ti ha mentito. Lo ha ammesso lui stesso» lo zittii stizzito.
Si ostinava ancora a voler difendere un traditore del proprio sangue? Un bugiardo?
«Io… io credevo… non è giusto…» pigolò, rannicchiandosi sulle ginocchia. «Perché uccidiamo altri maghi? Altri come noi?»
«Perché ci hanno traditi!» ruggii. «Il tuo caro amico era un corrotto! Ha insozzato la purezza della magia che viveva in lui, mescolandosi a quella gentaglia!»
Sostenne il mio sguardo furioso con il suo da cucciolo spaurito, quasi cercasse di convincermi che fossi in errore.
«Ho sempre pensato che Danielle fosse come noi. Era abile, forte, intelligente. Niente lasciava intendere che non fosse Purosangue» si giustificò.
«Ti sei fatto abbindolare come l’imbecille che sei!»
«Rabastan, ti prego, calmati» mi redarguì Elanor, severa. «Regulus è molto confuso. Fatica a comprendere quanto gli è accaduto. Urlare non lo aiuterà».
Obbedii controvoglia, prendendo a camminare per la stanza. Addentai la prima cosa che trovai nel vassoio, senza percepirne il sapore.
«Ma non capite? Quello che è morto era un Purosangue!» piagnucolò.
«E con questo?» domandai sprezzante.
Davvero quel ragazzino pensava di poter obbiettare a ciò che Milord ci chiedeva di fare? Era così cieco da non vedere ciò che aveva sempre avuto sotto al naso? Così ottuso da non capire che liberarci di quegli ibridi riprovevoli era la sola strada per riavere intatto il nostro potere?
«Era un Purosangue, Lestrange! Un Purosangue come noi! Cosa impedirà a Lui di farci la stessa cosa, quando non gli serviremo più?»
«Regulus,» intervenne Elanor, accarezzandogli i capelli, «noi non abbiamo di che temere. Non siamo solo dei Purosangue, ma appoggiamo la causa e ne condividiamo le idee. Milord non ci farebbe mai del male! Gli serviamo tanto quanto Lui serve a noi. È uno scambio reciproco».
Si rese conto che non le credeva, che rifiutava di prestare orecchio a chi si stava prendendo cura di lui. Ingrato.
«Vorresti forse che, un giorno, qualcuno ti costringesse a prendere per moglie una Mezzosangue? O peggio, una Nata Babbana?» gli domandò, inorridita.
«Perché non una Babbana, allora?» ringhiai, versando molto più liquore di quanto desiderassi. «Regulus, pensa al tuo sangue, al tuo nome, ai secoli che ha attraversato, divenendo sinonimo di purezza più di ogni altro! Il motto della tua famiglia non recita forse “Toujours pur”? Spezzeresti una grande dinastia, unendoti a gente indegna?»
«Io… no… non credo potrei… ma Calvin… ha detto… che l’amava».
Elanor gli fece una carezza carica di comprensione.
«Regulus, è molto difficile distinguere il vero amore da una malvagia malia. Nessun autentico Purosangue si unirebbe ad una Nata Babbana, a meno d’essere soggiogato o pazzo. Se il tuo amico non era sotto incantesimo, come hanno verificato, allora non era un buon amico. Ha dimostrato di non essere tuo pari. Ti ha mentito perché accettassi quella donna, perché avessi di lei un’immagine diversa. Quale amico chiederebbe tanto? Avrebbe dovuto essere sincero e chiedere il tuo aiuto per liberarsi dal sentimento che lo legava a lei».
La saggezza delle parole di mia moglie mi colpì. Riuscì persino a calmarmi e, per un istante, vidi Black sotto una luce diversa. Un ragazzo tradito, cresciuto sotto una campana di vetro, digiuno della vita. Potevo arrabbiarmi con il frutto acerbo di una famiglia in piena decadenza?
Sì, perché dopo il suo vantarsi e incensarsi, ci si sarebbe aspettati molto di più. Era l’ultimo edere maschio della sua casata, ero certo che Orion gli avesse illustrato cosa comportasse, quali doveri, quali oneri. Comportandosi a quel modo, stava rifiutando le sue responsabilità.
«Mettiti in testa una cosa, Black: sei voluto diventare a tutti i costi un Mangiamorte. Hai fatto impazzire tutti con la tua smania. Se non sei in grado di portare avanti il tuo compito, ucciditi e liberaci della tua inutile presenza. Non c’è posto tra di noi per quelli come te!»
Per ribadire il disprezzo che nutrivo nei suoi confronti, scagliai il bicchiere oltre la finestra aperta. Lo udii infrangersi nell’aiuola.
«Rabastan, non essere tanto duro».
La tenerezza che Elanor mostrava nei confronti di Black mi ferì. Diedi loro le spalle, fingendo di puntare lo sguardo su un punto imprecisato dell’orizzonte.
«Abbiamo una missione da compiere. Un obbiettivo» feci, stringendo il davanzale come se volessi sbriciolarlo. «Perseguirlo è difficile. Molti ostacoli si frappongono, ma superarli ci condurrà alla vittoria ed alla gloria. Milord ci indica un sentiero impervio e costellato di pericoli, che ci portano spesso a fare i conti con i nostri principi ed i nostri desideri. Nessuno di noi ha mai detto che sia facile eseguire gli ordini che riceviamo, che si prendano delle vite a cuor leggero. Quanti di loro potrebbero redimersi, passando dalla nostra parte? Quante valide bacchette potrebbero aiutarci? Ma hanno deciso di voltare le spalle alla giustizia. A noi. Al Maestro. E queste scelte si pagano. Sempre. E a caro prezzo. Ora chiediti, Black: sei pronto a combattere per un mondo migliore?»
Non avevo mai parlato tanto in vita mia.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV
IV

pauraeonore

«Tra poco la tisana farà effetto e Regulus farà una bella dormita» annunciò Elanor, entrando nella nostra camera da letto.
Attesi che si infilasse nel letto, scoprendomi nudo sotto le lenzuola. Per lei era un segnale chiarissimo: ero furioso. Odiavo coricarmi con indosso qualcosa che mi si sarebbe arrotolato attorno nel giro di pochi minuti, facendomi saltare definitivamente i nervi.
Parlai solo quando la sentii raggomitolarsi contro la mia schiena. Il suo respiro calmo riusciva ad acquietare un poco l’ira che covavo da ore.
«Perché l’hai accudito?»
Si sollevò, cercando di spiare le mie reazioni da dietro la spalla.
«Perché è un ospite» rispose tranquilla.
Il mio silenzio valse quanto un discorso del Ministro.
«Mio buon signore, ho voluto essere una diligente padrona di casa. Sarebbe scortese maltrattare un visitatore in quelle condizioni. E soprattutto, non vorrei mai incorrere nelle ire di una madre» si giustificò, sporgendosi.
Rimbrottai che si trattava di timori infondati. Non si poteva temere tanto quella donna, tutta strilli e vesti gonfie. Poteva far spavento a guardarla, di certo non poteva nuocere a chi era fedele al Maestro. Walburga Black era solamente un’isterica troppo piena di sé.
«Cerca di capirla. Regulus è il solo figlio che le rimane: riversa su di lui tutte le sue attenzioni e le sue speranze. Non biasimo i tuoi compagni, se hanno deciso di non rimandarlo a casa. Quella povera donna sarebbe morta di spavento».
Pur non avendo figli, riconobbi il tono materno della sua voce. Ma, alle mie orecchie, parlava una lingua sconosciuta.
Continuai a rimanere in silenzio. Perché quel ragazzino aveva il diritto di essere sostenuto e compatito? Perché c’era sempre qualcuno pronto ad allungare una mano per sorreggerlo ad ogni passo? Perché riusciva a guadagnare la stima di chiunque con un solo, insignificante gesto? A me non era stato concesso tanto. Mai. Avevo imparato a farmi valere con le mani, prima ancora che con la bacchetta. Lottavo giornalmente per raggiungere i miei traguardi e pagavo i miei errori. Perché non doveva essere così per lui?
«Non essere ostinato, Rabastan» disse Elanor, passandomi le dita fra i capelli.
«Già, di fare il libero pensatore se ne occupa Black» sbuffai.
Con la coda dell’occhio la vidi scuotere il capo, rassegnata e divertita. Io non vedevo nulla di spiritoso in tutta quella storia.
«Si è gettato nella mischia senza misurare le proprie forze. È debole, spaventato. Non è come te. Tu sei potente, indomito, senza paura. Potresti fargli da mentore, guidarlo. Renderlo migliore» propose.
«Non ci penso nemmeno» rimbrottai seccato.
«Faresti bella figura con Milord» mi bisbigliò all’orecchio, catturando la mia attenzione. «Pensaci: tu che istruisci a dovere Regulus, rendendolo un degno Mangiamorte, portandone in luce le potenzialità. Sai quanto Lui abbia in considerazione il ragazzo. Aiutarlo potrebbe spingere il Maestro a mantenere prima del tempo la sua parola» suggerì.
Mi volsi un poco, fissandola interrogativamente. Lord Voldemort non aveva mai saldato in anticipo un suo debito, per quanto ne sapessi. Tuttavia, dovevo ammettere che l’interesse che mostrava per quello scapestrato frignate era da non sottovalutare. Forse Elanor aveva ragione: per quanto trovassi ripugnante l’idea di divenire il tutore di Black, poteva essere un punto a nostro favore.
«Come ti vengono certe pensate?» domandai perplesso.
A volte sfoderava una perfidia ed un’arguzia inimmaginabile. Il suo aspetto fragile era una maschera migliore di quella da Mangiamorte.
«Voglio che Milord mantenga la promessa e mi guarisca» rispose decisa. «Voglio essere forte. Voglio smettere di vivere dietro a continue difese per timore che uno spiffero mi costringa a letto per settimane. E se posso aiutarti ad accelerare i tempi, lo farò con ogni mezzo. Per quanto non ne abbia molti da impiegare» ammise.
«È per questo che…»
Annuì. La parte dell’ospite affettuosa e comprensiva era stata solo una messinscena per entrare nelle grazie di quel marmocchio capriccioso. Ero orgoglioso della sua prontezza e della sottile abilità con cui aveva perseguito il suo fine. Anche se ciò mi metteva di fronte all’insensatezza delle mie reazioni.
«Questo però non significa che tu debba ignorare tuo marito» la rimproverai.
«Non ti ho ignorato, mio buon signore. Ho semplicemente rimandato ogni cosa a quando saremmo rimasti soli. Come ora» disse timidamente, accarezzandomi il torace.
Anche se eravamo sposati da tre anni, arrossiva ancora quando alludeva ai segreti del talamo.
«Mi lusinga sapere che sei geloso di me» mi stuzzicò.
Non poteva immaginare quanto la costatazione corrispondesse al vero e mi facesse infuriare. Sì, ero geloso. Geloso delle tenerezze immeritate di cui quel ragazzino aveva goduto al posto mio. Bisognoso o meno, si era appropriato senza il mio consenso di qualcosa che non gli spettava e che avrei riavuto. Subito.
«Nessuno deve toccarti oltre a me» ringhiai, sfilandole senza tanti complimenti la camicia da notte.
«Nessuno» sorrise, lasciando che cancellassi ogni traccia dell’abbraccio di Black con uno sguardo affamato.
La biancheria finì sul pavimento, miracolosamente integra. La figura diafana di Elanor catturò la luce della luna che entrava dalle finestre. La natura non le aveva concesso un fisico prorompente, bensì un corpo snello e sottile, gentile nelle forme. Quella visione mi fece impazzire di desiderio.
«Le tue mani sono mie» dissi, portandole al volto e coprendole di baci.
«Solo tue» confermò, muovendo le dita perché potessi ripulirla di ogni traccia dell’intruso.
«Queste braccia sono mie».
«Solo tue» ripeté dolcemente, sussultando man mano che salivo verso il suo volto.
Sentiva il calore dei nostri corpi che si avvicinavano, la mia forza che la investiva come un’onda.
«Questa bocca è mia» dichiarai, vicinissimo alle sue labbra dischiuse.
«Sì» ansimò tra un bacio e l’altro.
La misi a cavalcioni delle mie gambe. Guidai i suoi fianchi verso i miei, fingendomi irritato dalla falsa ritrosia con cui cercava di sottrarsi alle mie attenzioni. Rideva stringendosi le braccia al petto, agitandosi e tentando d’evitare il contatto. Si mostrava timida per farmi piacere. Sapeva quanto amassi quelle scaramucce amorose.
«Il tuo cuore… dimmi a chi appartiene» ripresi, posando le labbra sul suo seno.
«A te» replicò, inarcandosi per consentirmi di tracciare arcani arabeschi sul suo petto.
Chiusa fra le mie braccia, si sentiva protetta e senza via di fuga. Diceva spesso che i miei abbracci erano come le mura di una fortezza priva di porte: inespugnabili da ogni lato.
«La tua anima… di chi è, strega?» chiesi, stringendola con tanta forza da levarle il fiato.
Inspiravo l’aroma dolce della sua pelle accaldata, mescolato alle ultime note del profumo che aveva spruzzato sui vestiti e sui capelli.
«Tua, amore mio. Tua» ripeté, estasiata dal gioco.
Il suo cuore batteva rapido.
«Il tuo corpo» indagai, facendo scivolare una mano lungo la sua schiena e poi in basso, più giù. «Il tuo corpo, dimmi di chi è!»
«Tuo. È tuo, Rabastan» mormorò, tremando nel sentire il mio tocco che si faceva più insistente, fino ad oltrepassare il morbido confine del suo corpo.
Le diedi tregua per pochi attimi, il tempo di assaporare sulle dita quanto mi desiderasse.
La feci stendere, coprendola col mio corpo.
«Tu sei mia. Solo mia. Per sempre» decretai.
Elanor sorrise, sussurrando un assenso carico di passione.
Mia, mia, mia. Solamente mia. Era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare mentre la prendevo.
Avrei dovuto sapere mi sarei pentito della foga con cui la stavo amando. Ogni spinta, ogni morso, ogni stretta, avrebbe lasciato una traccia sul fragile corpo di mia moglie; lividi scuri che avrebbero impiegato giorni per scomparire. Una manciata di minuti d’intimità e piacere, di calore, di felicità coniugale, imbrattati dalla mia frustrazione. Avrei dovuto fermarmi.
Un gemito, più acuto e sofferente degli altri, mi risvegliò. Scorsi le sue labbra tese, gli occhi serrati con forza. Mi immobilizzai, sollevato sui gomiti. Non si era sottratta ai doveri coniugali, nonostante sapesse che potevo diventare violento quando ero arrabbiato. Aveva sopportato finché era stata in grado, solo per consentirmi di sfogare la mia gelosia, di sottolineare il mio possesso su di lei. Un gesto inutile. Inutile ed sciocco. Che bisogno avevo di rassicurazioni? Lei amava me.
«Elanor» chiamai sottovoce, colpevole.
Lei aprì gli occhi. Sorrise, ancora dolorante.
«Sto bene, mio buon signore. Non è nulla» ma una minuscola lacrima la tradì.
Buon signore un accidente. Mi sentii un verme. Amava una belva furiosa, che non aveva alcuna giustificazione per ciò che le stava facendo. Licantropi e Giganti erano creature immonde e senz’anima, animali su due gambe incapaci di reprimere la loro natura. Ed io, pur non essendo parte di quell’immonda genia, mi ero abbassato al loro livello, confondendo un ignobile istinto con un diritto sacrosanto.
Poggiai la fronte sulla sua, incapace di chiedere perdono.
«Non importa, Rabastan. Non importa» disse, prendendo il mio volto tra le mani.
Sapeva che non avrei mai ammesso ciò che provavo in quel momento, la mia vergogna per aver concesso ad un impulso mostruoso di sopraffarmi.
«Dimmi che sei almeno un po’ mio. Un poco mi basta. Voglio solo che tu non appartenga per intero alla tenebra» sussurrò, trattenendo un singhiozzo.
«Non appartengo a lei. Appartengo a te sola».

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Capitolo 5
*** V ***


V
V

pauraeonore

Aprii gli occhi quando l’alba aveva appena cominciato a tingere il cielo di rosa. Elanor dormiva sul mio petto, come ogni notte. Diceva di volermi difendere almeno i brutti sogni. E lo faceva davvero: da quando ero diventato un Mangiamorte, le mie notti erano sempre trascorse quiete e serene, anche dopo orribili battaglie. Era lei a soffrire di incubi spaventosi. E quella notte io mi ero trasformato in qualcosa di peggio.
Scostai una ciocca che le ricadeva sul collo, mettendo in mostra uno dei lividi che punteggiavano la sua pelle. Conoscevo bene la sua fragilità, eppure questo non aveva impedito che mi comportassi da idiota. Strinsi le palpebre, sperando che quel gesto potesse cancellare gli aloni bluastri dalla mia mente e dal suo corpo.
Era tutta colpa di Black. Sua, del suo essere un inutile codardo e un viscido approfittatore. Un Purosangue indegno, come suo fratello. Dopo tutto, qualcosa doveva accomunarli. Avrei dovuto ucciderlo, là, sul viale d’ingresso. O meglio ancora, durante il duello, facendolo passare per una vendetta di quell’Auror. Per una volta quegli schifosi traditori avrebbero potuto risultare essere utili e io mi ero lasciato sfuggire l’occasione. Ero stato uno stupido. Chi avrebbe mai potuto accusarmi della sua morte, con quella gentaglia nei paraggi? Un incantesimo fortunato, un lampo di rimbalzo, e mi sarei liberato di quell’essere noioso ed irritante. Lo avremmo onorato per qualche tempo quale il più giovane dei nostri caduti, per poi sostituirlo con nomi e gesta maggiormente degne di nota.
A quell’idea, un lieve compiacimento mi distese le labbra.
Con delicatezza, feci scivolare la mia sposa fra le lenzuola tiepide. La visita inattesa aveva scombussolato le nostre abitudini ed aveva bisogno di riposare ancora.
Mi alzai e mi vestii in fretta, cercando di non fare rumore, ma mentre mi avviavo alla porta, udii la sua voce.
«Sii un degno anfitrione, mio buon signore» mi redarguì dolcemente.
Le rivolsi un lieve cenno del capo, lasciando trasparire quanto pesasse ciò che mi chiedeva.
Black non era nella stanza che gli avevamo concesso di occupare. Doveva essersene andato da un pezzo, perché gli elfi di casa avevano già provveduto a rifare il letto. Ospite in casa mia, servito e riverito come un sovrano d’altri tempi e altrettanto maleducato. Tuttavia, ero pronto ad esultare per quell’insperata liberazione, quando l’abbaiare dei nostri levrieri mi richiamò ad una delle finestre. Digrignai i denti, presagendo la sua vista.
«Merlino, fa’ che si sia buttato di sotto e sia finito infilzato sulla bacchetta di François d’Argentan» sperai, pregustando l’immagine del fagotto sanguinolento che pendeva straziato sul braccio di pietra del grande stregone del Trecento.
Mi doleva rendere partecipe un illustre antenato di una simile vicenda, tanta grandezza non poteva essere piegata ad inconsapevole arma di vendetta.
Presi un profondo respiro, ripetendomi di restare calmo, a prescindere dallo scenario che si sarebbe presentato oltre il davanzale.
Le mie speranze furono disattese: Black era sulla terrazza, avvolto nella sua consueta aria tronfia e saccente, quella di chi ha la verità in tasca. Ed era vivo.
Lo detestavo per questo, per la sua ossessiva ricerca della verità. La inseguiva caparbiamente e finiva sempre col trovarla, la stanava con l’ostinazione di un segugio. E una volta che ne entrava in possesso, conservava gelosamente la propria conquista, nascondendola a chi era stato incapace di giungervi.
A me non interessava la verità. Non quella a parole, per lo meno. Le parole erano troppo facili da manipolare, travisare, rigirare con abile retorica. Erano false e traditrici. Per me contavano i fatti, espressione tangibile della realtà. La verità di Black si sfaldava nel vento, la mia era salda e monolitica. Non avevo il tempo di chiedermi se le promesse ricevute da Lord Voldemort per bocca di Rodolphus corrispondessero ad una qualche forma di astratta verità. Non m’importava se anziché un incantesimo da guaritore dei tempi antichi avrebbe usato un distillato noto a lui solo. Ciò che mi stava a cuore era vedere la mia dolce Elanor risanata dalla sua debolezza, dalla sua fragilità. Era per questo che il mio braccio non falliva, che la mia magia non veniva meno: perché ad un’azione ne corrispondesse un’altra, in uno scambio concreto ed equivalente. Ma era un pia illusione, pretendere che quel marmocchio capisse che si potesse combattere per un motivo diverso dalla propria gloria personale.
«Hai finito di piangerti addosso, Black?» domandai quando fui alle sue spalle.
Annuì lentamente, continuando a grattare il capo di uno dei nostri levrieri.
Non parlammo per parecchio tempo. Potrei dire d’aver contato la varietà delle sfumature del cielo, man mano che il sole ne prendeva possesso.
Elanor ci raggiunse per la colazione.
«Graziosa sciarpa, Lady Lestrange» disse lui, baciandole la mano.
Avvampai di collera, riuscendo a stento a dominarmi.
Elanor fece un leggero inchino, sfiorando la fascia di seta che le cingeva il collo.
«Grazie, Regulus» rispose gentilmente. «Temo che questa notte uno degli elfi domestici abbia lasciato aperta una finestra e il mio collo disapprova questa mancanza».
Mia moglie era troppo garbata per accusare Black d’essere la causa primaria del dolore che l’affliggeva. Da autentica nobildonna, sapeva mantenere il più stretto riserbo sugli errori del consorte, anche di fronte a chi li aveva indotti.
«Sono certo che vostro marito saprà punire il colpevole come si conviene, il suo senso di giustizia è noto nel mondo magico. Dico bene?» fece ingenuamente lui, voltandosi verso di me.
«Benissimo» ringhiai.
Dovetti ribadire a me stesso che non si trattava di un invito a porre fine alla sua vana esistenza in quello stesso istante. Erano solo banali convenevoli, atti a lusingare nella maniera più bieca i padroni di casa.
«Sapete, Lestrange? Ho ripensato a quel che avete detto e devo ammettere che avete ragione» esordì ad un tratto, mentre versava del tè con misurata noncuranza. «Sono stato davvero uno sconsiderato».
Lo guardai appena, facendogli segno di proseguire.
«Suvvia Regulus, non essere tanto duro con te stesso» tentò di rassicurarlo Elanor.
Black sorseggiò il tè, meditando qualche istante per enfatizzare quanto gli frullava in testa.
«No, Milady. Ho desiderato entrare nei Mangiamorte per capriccio, per sentirmi degno del mio nome e delle aspettative dei miei genitori. Volevo fossero orgogliosi di me e delle mie scelte» ammise. «Non doveva essere questo il mio obbiettivo. Avevo scelto di adattarmi ai pensieri degli altri, di annullare il mio io per assecondare un’immagine che non mi apparteneva. Bisogna che siano le nostre azioni a forgiare l’idea che gli altri hanno di noi, non viceversa».
Che razza di discorsi, tipici di chi era privo di spina dorsale. Sperava forse di trascinarmi dalla sua parte, parlando a quel modo? Sbagliava di grosso. La mia opinione su di lui restava pessima e peggiorava ad ogni sillaba.
«Ma ora so perché sono entrato a far parte delle schiere di Lord Voldemort. Finalmente ho capito» annunciò, battendo la mano aperta sul tavolo.
Feci una smorfia, indignato dall’improvvisa alterigia. La sera prima frignava e si disperava, ora faceva il baldanzoso. Non credevo alla sua sceneggiata, eppure aveva una luce indecifrabile nello sguardo che non mi piacque affatto. Era diverso da quello dello sbruffone che per due anni aveva partecipato alle nostre riunioni alzando la voce, lontano dal pedante ruffiano che tentava di accaparrarsi il posto alla sinistra di Lord Voldemort. Sembrava deciso, fiero, forte. E nonostante tutto, impaurito. Credeva di non darlo a vedere, nascondendosi dietro ai modi affettati e leziosi che gli erano propri, ma con me cascava male. Io lo conoscevo, l’avevo visto tante volte agli incontri ed alle feste. Dissimulava abilmente il fatto che ancora se la stava facendo sotto. Parole vuote le sue, usate per convincersi di avere delle chance.
«Farò il mio dovere e andrò fino in fondo, in un modo o nell’altro. Costi quel che costi» concluse, levando la tazza in un brindisi.
Non risposi. Mi limitai a terminare la colazione, forzando lo stomaco ad accogliere quanto masticavo con rabbia.
Erano solo i vaneggiamenti di un ragazzino viziato. Indovinavo cosa si celasse dietro a quelle parole: il desiderio di potere, di avere un nome, un peso nella vicenda. Avrebbe fatto come Lucius, scegliendo di mandare avanti altri a sporcarsi le mani. Era troppo per bene per abbassarsi a togliere di mezzo qualcuno con la propria bacchetta. Lurido ipocrita, suo padre gli aveva insegnato a dovere. Il motto di Orion Black era “sfrutta la situazione e godine il profitto”, tutti lo conoscevano. Mio padre invece mi aveva insegnato l’autentico valore del proprio operato, a prescindere dal rischio di insozzarsi le mani di persona. Era lo scotto che si doveva accettare di pagare per ottenere ciò che si desiderava.
Regulus Black non era in grado di guardare in faccia una vita che si spezzava. Era incapace di rimanere impassibile di fronte al dolore, almeno quanto era incapace di ignorare un’occasione per mettersi in mostra. Ed ero pronto a giurare che, in quel suo ego alla costante ricerca di conferme, si annidassero immagini di gloriosi trionfi in nome l’Oscuro Signore, ottenuti con incantesimi altrui.
O almeno, così ho sempre creduto.



Questa storia ha partecipato al "Il mio miglior nemico/La mia miglior nemica contest" indetto da Maeve_ e Mizar19, classificandosi prima. Ringrazio tantissimo i giudici, di cui riporto il giudizio qui sotto.

Prima classificata
Autore: ely_79
Titolo: Paura e onore
Giudizio di Mizar19
- Grammatica, lessico e sintassi: 9.5/10
- Stile: 10/10
- Caratterizzazione dei personaggi: 10/10
- Originalità: 15/15
- Punti bonus: 5/5
- Giudizio personale: 4.5/5

Totale: 54


Be’, come puoi evincere senza problemi dalla posizione in classifica, la tua storia è non solo ben architettata a livello strutturale e propriamente di svolgimento, ma anche corretta a livello grammaticale (ho segnato solo due virgole in croce, dunque nessun problema).Lo stile è adeguato, scorrevole, non sembra nemmeno una fanfiction ma pare proprio di star leggendo un vero e proprio libro! Dunque ti faccio i miei complimenti, hai maturato un ottimo stile. I personaggi sono caratterizzati così bene che mi pareva di vederli muovere e parlare qui davanti a me: l’idea di raccontare la vicenda dello sfortunato ultimogenito Black attraverso gli occhi di Rabastan Lestrange (e qua dovrei dare un’occhiata alla tua storia principale perché qualcosa non mi torna, come l’eterea figura della moglie su cui mi piacerebbe sapere qualcosa in più) è davvero originale, come potrai constatare anche dal punteggio assegnatoti! Uno dei passaggi che più ho apprezzato e mi ha colpito è stato l’omicidio di Calvin Edwards: il modo in cui Regulus rimane sconcertato di fronte alla crudeltà e all’efferatezza quando l’unica colpa è non avere il sangue puro (o aver osato contaminarlo). Significativa e molto espressionistica la scena del ritorno, quando Regulus avverte la maschera sudata contro il viso, non riesce a trattenerla, nemmeno nel mantello. Pare quasi una prefigurazione del personaggio stesso. Un generale non ho molto da dire, se non che è tutto perfetto e che ti sei pienamente meritata il primo posto!


Giudizio di Maeve_

Grammatica, lessico e sintassi: 9.5/10
Stile: 10/10
Originalità: 15/15
Caratterizzazione: 10/10
Punti bonus: 5
Gradimento personale: 5/5

Totale: 54.5/55

E’ davvero necessario che io commenti questi punteggi? Le uniche imperfezioni che posso farti notare riguardano la grammatica: non ho condiviso alcune scelte sulla punteggiatura e ho rilevato un errore di battitura in questa frase “[...]sarebbe bastano poco per far capire...” sicuramente volevi scrivere “bastato”. Sul resto non saprei davvero da dove partire: è un capolavoro dalla prima parola all’ultima. Hai uno stile ricco e personale, coinvolgente ed elaborato: è stato un colpo di genio l’idea di descrivere la prima missione di Regulus da Mangiamorte, ma ancor più lo è stato il narrarla tramite gli occhi di Rabastan Lestrange. Hai caratterizzato divinamente questo personaggio, a mio parere davvero complicato: hai tratteggiato con eleganza tutte le sfumature del suo carattere, riuscendo addirittura a far emergere sentimenti quali il senso di colpa verso Eleanor, un personaggio anche questo davvero singolare e ben approfondito. Il tuo Regulus mi ha davvero colpita: è fragile e al tempo stesso borioso e arrogante, ed è come se nel suo animo si possano già intravedere le crepe della famiglia Black. Non sei caduta in alcun cliché, riuscendo sempre a mantenere una certa coerenza lungo tutto l’asse narrativo. Non posso che farti i miei complimenti! Questa storia va dritta dritta tra le mie preferite!

Punteggio totale: 54.25/55

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