Violet Hill di Gaea (/viewuser.php?uid=49126)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***
Capitolo 10: *** Nove ***
Capitolo 11: *** Dieci ***
Capitolo 12: *** Undici ***
Capitolo 13: *** Dodici ***
Capitolo 14: *** Tredici ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prefazione ***
Nuova pagina 3
Autore (su EFP e sul forum): Gaea
Titolo: Violet Hill
Rating: Rosso
Genere: Malinconico, Erotico
Avvertimenti: Longfic, Femslash
Note d'autore: Questa storia doveva far parte di un concorso indetto sul
forum di EFP ma alla quale non ho fatto in tempo a partecipare. È a buon punto,
ma non è finita…lo dico per correttezza nei confronti di chi vorrà seguirla: non
posso assicurare aggiornamenti costanti e in tempi brevi.
Violet hill
PREFAZIONE
A volte mi accorgo di sentire una terribile mancanza dello Hampshire. Spesso
questo accade quando sento una risata particolarmente argentina, o quando
mangiando un'allodola arrosto penso al meraviglioso canto di questi uccelli, che
tanto mi era caro da bambina. Più sovente succede se, per sbaglio, passando
davanti alle cucine, avverto il profumo irresistibile della melassa e del
caramello.
È allo sbocciare della primavera, però, che la malinconia si fa più struggente,
quando tutto intorno a me resta grigio: alla mia vera casa il sole permetteva di
far vagare lo sguardo per miglia e miglia lungo la brughiera. E l'erica fioriva
rigogliosa, tingendo di rosa e lilla ogni cosa. Persino la collina. La nostra
collina viola.
Avevo dodici anni e la compostezza di un puledro selvaggio: alla morte di
mia madre, avvenuta tanti anni prima, mio padre prese tutta la famiglia e ci
fece trasferire nella tenuta di campagna, convinto così di assicurarci una
crescita più forte e sana. Quello di cui non aveva tenuto conto era che
l'assenza di restrizioni e regole di società, e pure di ragazze della mia età
con cui confrontarmi, mi avevano portata a fare amicizia con i figli dei nostri
servitori, tutti maschi, e a cercare di imitare mio fratello in tutto quello che
faceva, trovando in lui il modello con cui gareggiare. Se lui si arrampicava sul
melo in giardino, io scalavo il vecchio pino che si ergeva solitario dietro la
rimessa; se lui faceva a botte con i bambini più piccoli, io mi misuravo con i
miei coetanei, graffiando e mordendo come un gatto. E rientrando immancabilmente
in casa sfatta e sporca di fango, graffiata e pesta, tanto che la mia balia, la
mia dolce Sue, doveva riempire più e più volte la grande vasca di zinco prima di
rendermi nuovamente presentabile... per la disperazione di mio padre che tentava
inutilmente di farmi seguire da precettori privati e istitutrici, affinché io
divenissi, come mia madre, una vera Lady.
Fu una di quelle volte, mentre mio fratello Tom e io scendevamo con lo slittino
per la collina che segnava il confine delle nostre terre, che trovai il capanno.
Non era altro che una baracca d'assi in cui i cacciatori si riparavano nel caso
le battute di caccia andassero per le lunghe. Cosa che accadeva di rado: ai Lord
locali la caccia interessava più come modo per attirare l'attenzione di ragazze
in cerca di marito. E nella mia zona queste erano davvero poche.
Riparato dalle intemperie, mimetizzato con erba e frasche cosicché fosse
visibile solo a un occhio attento, era impossibile da trovare se già non si era
a conoscenza della sua posizione. Un nascondiglio perfetto che elessi a base dei
miei giochi: ci trascinai, nel tempo, coperte e cuscini che sistemai in una
panca impolverata. E libri, libri che amavo leggere e rileggere e su cui
fantasticavo. Nonostante il carattere da maschiaccio, amavo immaginarmi ben
vestita, al fianco di un uomo alto e forte, molto simile a mio padre a dire la
verità: sarei stata una perfetta padrona di casa, capace di stare accanto al suo
uomo non solo come dama del focolare, ma in veste di compagna alla pari. Mi
sorprende che amassi tanto le novelle romantiche...soprattutto alcune,
ambientate proprio nelle mie campagne. Adesso la vecchiaia mi fa sfuggire il
nome dell'autrice...una certa..non so, Autin, Austin. In ogni caso bevevo i suoi
scritti e chiedevo sempre a Tom di comprarmene di nuovi quando andava in città
con nostro padre per imparare il mestiere di avvocato. Quando, anni dopo,
ripresi in mano quei libri vi lessi solo il trionfo della mondanità e
l'abbruttimento di ogni velleità di libertà femminile. Ma all'epoca...chissà.
Forse notavo solo l'evolversi della storia verso l'immancabile lieto fine.
Ma il matrimonio è davvero il lieto fine? Oggi me lo chiedo. Oggi che sono
circondata dai miei figli e che la primogenita, Heather, ha dato alla luce il
mio terzo nipotino. Mio marito è mancato lo scorso mese.
Credo che sia stato questo a innescare i ricordi.
Ricordi di un tempo in cui sono stata felice, davvero felice. Un momento di
beatitudine che credevo, oh, credevo davvero avrebbe avuto un lieto fine.
E ora sono qui, su questa poltrona, a osservare il cielo di Londra prendere una
sfumatura leggermente più azzurra al di sopra della cappa di fumo nero che
sempre l'avvolge. Chiudo gli occhi, ripensando a quegli anni così fausti e
sventurati. A quegli occhi così particolari. Viola come il peccato, viola come
la collina. La nostra collina.
Mi avvicinavo alla piena maturità: il compito di mio fratello, scomparso mio
padre, era quello di assicurarmi il miglior partito possibile...
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Capitolo 2 *** Uno ***
Nuova pagina 3
1.
«Catherine Lyndon, torna immediatamente in casa!» urlava un’imponente donnone
dai capelli rossicci e dal ventre prominente. L’oggetto delle sue grida, una
ragazzina smilza con lunghi capelli neri e un mare di lentiggine sul viso e
sulle braccia pallide, proseguì la sua corsa. Le scarpe affondavano nel fango,
schizzando il bel vestito di mussola bianca. Non le interessava. Correva verso
il muretto che segnava i confini della terra di suo padre, verso la collina
ancora sporca dell’ultima nevicata. Grosse nuvole bianche solcavano il cielo
grigio, grossi sbuffi di vapore bianco mostravano la sua respirazione resa
febbrile dalla corsa. Andò avanti così finché le grida non furono un ricordo
lontano, poi iniziò a camminare a passo svelto. Saltò un piccolo canale nascosto
fra le erbacce, evitò alcune buche scavate dalle talpe. Si arrampicò brevemente
sulla collina, e per un attimo, da uno squarcio nella nebbia, la balia dalla
porta di casa ebbe la visione di un uccello bianco che volava verso la cima del
rilievo. Poi la foschia si ricompattò, cancellando l’immagine.
«Questa volta si caccerà davvero nei guai – bofonchiò la donna, tornando al
caldo del focolare – poco ma sicuro. E a chi toccherà sopportare le sue urla? A
me, sissignori, proprio a Sue Mirren, per servirvi». Si fermò in mezzo alla
stanza contemplando le proprie mani rosse e rovinate. Povera, povera bambina…
proprio così dovevano andare le cose?
Catherine intanto si rintanò in un rifugio di legno. Si coprì con alcune
coperte e iniziò a darsi da fare per accendere un piccolo fuocherello. Era
sempre pericoloso lasciare fiamme libere lì dentro – lo aveva imparato anni
prima rischiando di dare fuoco all’intera struttura. Ma la situazione era
estrema: se non si fosse scaldata e asciugata difficilmente avrebbero potuto
darla in sposa al figlio dei Lloyd l’anno successivo. In effetti, difficilmente
avrebbe visto che solo un giorno successivo. Le fiamme attaccarono presto
nonostante la legna umida e Kate trasse un sospiro di sollievo. Non sarebbe
potuta restare lì per molto, ma aveva bisogno di pensare. E soprattutto di
sfogarsi: con che diritto quell’uomo l’aveva venduta? Come gli era passato per
la mente di comportarsi così? Alcune parole estremamente volgari imparate dai
bimbi di strada negli anni della sua infanzia le attraversarono la mente. Era
destinata a un matrimonio di convenienza, e questo, arrivata ai sedici anni, era
un pensiero che poteva assimilare. Ma comunicarglielo così…quando tutto era già
sistemato! E poi con un uomo di vent’anni anni più di lei! Ricco, ma
notoriamente stupido, illetterato, tirchio! Gliel’avrebbe pagata. Eccome se
gliel’avrebbe pagata. Suo fratello questa volta non l’avrebbe passata liscia. E,
come se ciò non bastasse, quei supponenti ricconi di città si permettevano
perfino di inviare qualcuno per assicurarsi che Catherine fosse all’altezza
di Julian. Ridicolo.
Soffiando come un gatto si sdraiò accanto al cerchio di pietre che tratteneva
il fuoco, lasciandosi cullare dal rumore del vento. Mentre si assopiva le parve
di sentire come il rumore di zoccoli all’esterno, ma non se ne curò: la sua
famiglia la conosceva, l’avrebbero lasciata sbollire. E degli estranei non si
preoccupava: da anni usava quella baracca come rifugio e mai nessuno aveva
scoperto o si era preoccupato della sua esistenza. Il sonno la prese, portandola
in un mondo strano: suo fratello vestiva di trine e si atteggiava a gran donna,
mentre i servi, seduti su comode poltrone, bevevano the. Intanto lei, stava
china sullo scrittoio, a compilare file e file di numeri. Poi il sogno cambiò,
si ritrovò al freddo in mezzo alla brughiera, mentre cadeva la neve.
Stranamente, però, sentiva chiaramente il profumo dell’erica.
Si svegliò dolorante per aver dormito raggomitolata sul pavimento. Da una
fessura constatò che doveva essere quasi sera: la luce era sensibilmente
diminuita. Le braci lanciavano ombre rossastre sui muri, dando un aspetto
vagamente inquietante a quell’ambiente tanto famigliare. Stava per alzarsi in
tutta tranquillità quando un grugnito la paralizzò. Letteralmente. Con il cuore
in gola e la sensazione che tutto ciò che si trovava all’interno della sua
pancia si fosse liquefatto, si voltò. Qualcosa – qualcuno – dormiva avvolto in
una coperta, esattamente accanto a dove si trovava lei.
Urlò. Non ricordava di aver mai urlato tanto, nemmeno quando Joshua le aveva
infilato una rana nel vestito o quando suo fratello Tom le aveva dato fuoco alla
treccia…
…il fagotto si mosse, sedendo di soprassalto. Un viso delicato, soffici
labbra pallide, lunghi capelli biondi che in tempi migliori dovevano essere
ricci e che adesso parevano più un cespuglio di bosso.
«Che succede? Perché urli? È entrato un animale?» chiese anche lei con tono via
via più acuto e isterico. Si guardarono. Gli occhi sembravano pozzi neri
nell’ombra. Sempre osservando con diffidenza la sconosciuta, ma rassicurata
dall’aria fragile che dava l’impressione fosse facile tenerla ferma, Catherine
si alzò in piedi e accese alcune lampade a olio. Socchiuse gli occhi per
abituarli alla luce. La sconosciuta era vestita elegantemente, sebbene
sgualcita, la pelle bianchissima pareva seta. Non poteva essere una serva.
«Chi sei? Perché sei entrata qui? » le domandò Catherine cercando di dare
alla voce un tono feroce.
La sconosciuta si alzò, sollevando il mento con aria di sfida. «Mi chiamo
Heather Llloyd, figlia della più famosa famiglia di banchieri e assicuratori di
Londra, se hai intenzione di farmi del male sappi che la polizia di Londra verrà
qui e ti rinchiuderà nella Torre! ».
«Nessuno viene rinchiuso nella Torre da secoli – rispose sollevando un
sopracciglio – se tu fossi veramente chi dici di essere dovresti saperlo».
Colta in fallo, la bionda abbassò gli occhi arrossendo furiosamente:
probabilmente voleva proteggersi con quella scusa, pensando di avere davanti una
semplice paesana. Intanto Catherine pensava: Lloyd… una coincidenza?
«Non voglio farvi del male-
riprese in tono più gentile e cortese – però spiegatemi perché vi trovate in
questo capanno di caccia: i vostri genitori saranno preoccupati, non credete?».
«I miei genitori sono morti – disse Heather dopo una pausa – sono stati i miei
zii a mandarmi qui, mio cugino sposerà la proprietaria di queste terre fra
qualche mese…una selvaggia, mi hanno detto. Incapace di muoversi come conviene a
una Lady. Così sono stata mandata per tentare di affinarla abbastanza da non
fare brutta figura al matrimonio… anche se inizio a capire che, persa fra tutto
questo fango e queste piante e con tutti questi animali feroci, una ragazza non
possa certo dedicarsi alle buone maniere – proseguì arricciando il naso –
inoltre non mi sorprenderei di trovarla a pascolare gli animali. Povero cugino
Jul! Che triste fato…l’unione con lo studio però porterà grossi vantaggi a
entrambe le famiglie, e questo è l’importante. Quanto a me… Ero stanca di stare
al passo con i due servitori che mi accompagnavano, ho galoppato per un tratto
da sola e mi sono persa. Non puoi capire che paura ho avuto! Poi ho visto una
luce, mi sono avvicinata e attraverso la finestra ho visto una ragazza che
dormiva. Ero tanto stanca e spaventata! Sono entrata per scaldarmi…e devo
essermi assopita.»
Rialzò gli occhi, senza capire
la furia che riempiva quelli della mora. Quando alla fine questa parlò, lo fece
con un tono gelido che inizialmente la ferì: nessuno osava rivolgersi così a
lei!
«Siete davvero fortunata, Madame, si dà il caso che io abiti nella casa dei
Lyndon e che possa condurvici in pochi minuti. Perdonatemi, ma dovrete andare al
passo giacché io non ho con me una cavalcatura. E non credo che una selvaggia
come me, che sicuramente passa le giornate pascolando animali, possa permettersi
di salire in groppa con Vossignoria» e detto questo, calpestò le braci rimaste,
vi rovesciò dell’acqua e uscì, senza che Heather facesse alcunché per scusarsi.
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Capitolo 3 *** Due ***
Nuova pagina 1
I mesi passarono di una lunghezza estenuante, sia a causa
del freddo invernale che attanagliava la brughiera, sia per il gelo che regnava
in casa Lyndon: dopo il primo, burrascoso incontro, Kate aveva fatto di tutto
per mantenere le distanze da Heather, nonostante questa tentasse di coinvolgerla
in discussioni, giochi, racconti. La prima aveva, se possibile, acuito il
proprio caratteraccio, divenendo irascibile e nervosa, a tratti violenta sia a
parole sia con le mani; la seconda, insofferente alla natura e al freddo vento
che soffiava costantemente, passava le giornate accanto al caminetto,
rimpiangendo Londra con le sue belle feste, i teatri, i vestiti ricamati e la
moltitudine di ragazze di ottima educazione con cui intrattenersi, cosa che Kate
si guardava bene dal fare. Eppure tutte le volte che la osservava, Kate non
poteva non cogliere uno strano sguardo, un bagliore negli occhi della londinese
che non era in grado di interpretare, simile al modo in cui i monelli più poveri
della City osservavano la sua bella carrozza le volte che visitava la città.
«È insopportabile, sembra una povera reduce da qualche
malattia grave, ma la vedi? Bianca, fragile, malaticcia, gli occhi
febbricitanti… spero sia costituzione di famiglia, così il mio bel maritino
tirerà presto le cuoia» esclamò un giorno Kate aiutando la balia in cucina.
«Non dovreste parlare così, signorina- la ammonì lei,
puntandole addosso un grosso ditone accusatore ricoperto di zucchero – se la
signorina Heather vi sentisse passeremmo tutti grossi guai. E chi sentirebbe poi
vostro fratello? Su, tentate di fare amicizia: il suo giudizio sarà fondamentale
per la buona riuscita del matrimonio. E non è poi quello che sognavate? Un
marito, una vita agiata, figli da crescere e feste a volontà? Non vi sembra
perfetto?».
«Già – la voce amara venata di tristezza – perfetto…».
Continuò a aprire mandorle finché non le sembrò di averne
un mucchio sufficiente.
«Dici di buttarle ora?» «Sarebbe meglio aspettare ancora un
po’, ma se siete così impaziente… se verrà male sarà peggio per voi!».
Ignorando il commento della donna, Kate prese un grosso
mestolo e cominciò a mescolare le mandorle alla melassa bollente. Poi, facendo
attenzione, versò il liquido vischioso nello stampo imburrato, lo livellò per
bene e uscì: una volta freddato, il suo croccante sarebbe stato perfetto. Suo
fratello lo adorava…chissà, magari davanti a un bel pezzo sarebbe riuscita ad
addolcirlo un po’, non per evitare il matrimonio, ovvio, ma per lo meno per
togliersi dai piedi quell’insopportabile e petulante bambinetta…
Il croccante era una delle pochissime cose che Kate sapesse
cucinare. La madre era solita prepararlo da sé, per far contento suo padre che
ne era particolarmente ghiotto. Così, venuta a mancare la padrona di casa, Kate
si era assunta il compito di preparare ogni tanto quel semplicissimo dolce,
capace di sciogliere il cuore di Lord Lyndon e del figlio non tanto per il suo
sapore quanto per i ricordi che portava alla mente. Era per questo che mai
nessuno fra i servi e i bambini si era mai sognato di toccare lo stampo lasciato
a freddare nella cucina. Almeno fino ad allora.
Gli occhi strabuzzati, il volto livido, Kate contemplò il
tavolo dove la teglia, vuota, sembrava ricambiare lo sguardo. Una rabbia mai
provata prima le percorse il corpo. Chi aveva anche solo osato
toccare il suo croccante? Chi lo aveva portato via? Urlando richiamò in cucina
la servitù presente in casa quel giorno, interrogando tutti con un tono
tagliente che valeva più di mille minacce. Nessuno osò incrociare i suoi occhi.
“Chi ha preso il croccante? So che nessuno di voi oserebbe,
forse uno dei bambini? Jane, i tuoi figli sono forse entrati in casa?”
“Signorina Catherine, non oserebbero mai toccare un piatto
della cucina, lo sapete bene! Vi prego, credetemi, sono certa che non siano
stati loro…se volete posso chiamarli qui, vi confermeranno tutto”.
La rabbia le annebbiava il cervello, ma ebbe la prontezza
di spirito di non proseguire quell’inutile pantomima: sapeva che nessuno di loro
avrebbe mai toccato nulla. Ma allora, chi…?
Le si mozzò il fiato. Che fosse così semplice la soluzione?
Che davvero avesse osato?
“Dove si trova Miss Llyod?” domandò a denti stretti.
Presa fra la rabbia della padrona e la paura che, in ogni
caso, la figura di Heather incuteva, la servitù non seppe come rispondere. Alla
fine prevalse una qualche forma di fedeltà e una piccola sguattera, a servizio
fin dall’infanzia, si fece avanti a capo chino, tormentandosi le mani callose
“Signorina, la signorina Heather esce spesso in questi giorni, non le piace star
sola e adesso che c’è il sole cammina spesso sulla collina… credo che adesso
possa essere là. Se volete andrò a chiamarla e …”
“Non ce n’è bisogno. Andrò io”.
Solo la balia ebbe il coraggi di tentare di fermarla. Ma il
cipiglio della mora era tale che anche lei desistette. Rimase ancora una volta
sulla porta, contemplando la sua piccina camminare a passo di marcia nella
brughiera. Capiva il perché della sua rabbia, ma allo stesso tempo si stupiva,
una volta in più, della facilità con cui il suo animo sapeva accendersi: era un
croccante dopotutto, facilissimo da rifare… perché prendersela tanto?
Intanto Catherine aveva raggiunto il capanno e, incurante
delle fitte al fianco, vedendo un lume acceso, entrò come un intero battaglione
alla carica.
Probabilmente, se non fosse stata così furibonda, la scena
le sarebbe sembrata comica. Heather era rincantucciata in un angolo, il bel
vestito rosa pieno di polvere, gli stivaletti infangati, le mani sporche di
zucchero caramellato tanto quanto il bel visino. Dormiva. Nella destra stringeva
ancora un pezzo del suo appiccicoso tesoro. Appariva serena, per nulla turbata
dal furto appena commesso e questo infiammò ulteriormente l’animo già ferito di
Kate. Le fu addosso con un balzò, la tirò in piedi cominciando a strattonarla
energicamente.
“Ma chi credi di essere? Come ti sei permessa di prendere
qualcosa che non è tuo, come ti sei permessa di venire qui? Puoi essere ricca
quanto vuoi ma questa è casa mia e qui comando io, non certo una spocchiosa e
frivola bambinetta come te, e io non diventerò mai come te, mi hai sentita?
Piuttosto manderò a monte il matrimonio!” Ogni parola veniva sottolineata da uno
spintone, una sberla, colpi che la bionda annebbiata dal brusco risveglio
incassava tentando malamente di difendersi. L’ultimo strattone la mandò lunga e
distesa per terra, dove rimase ferma, immobile, in attesa di altre percosse.
Catherine la osservò, disgustata da lei quanto da se stessa. La rabbia la
bruciava ancora come la fiamma di una lanterna. Eppure si dominò.
“Cosa mi arrabbio a fare? Sei davvero solo una bambina.
Cosa sai tu della vita vera? Della sofferenza? Tu vivi di feste, concerti e bei
vestiti, senza divieti e restrizioni, viziata e coccolata. Come biasimare la tua
totale mancanza di rispetto?”. Heather alzò finalmente il viso, pallida e
furente. Si rialzò con insospettabile agilità, portandosi a un soffio dal viso
della coetanea. “Io non so niente del dolore? Io? Tu hai una famiglia che ti ha
amata, io sono cresciuta sola, in una casa dove niente è mai stato gratis, dove
ogni lusso dovevo guadagnarmelo, dove mi è sempre e costantemente stato
ricordato che ero viva e felice solo grazie alla carità del mio amato zio che
intanto è così ricco solo perché ha frodato mio padre che si è suicidato dopo il
fallimento, mia madre l’ha seguito poco dopo e i miei fratelli, tentando di
risanare il nome della famiglia, sono partiti per le colonie a est e la loro
nave è affondata. Nemmeno so se sono vivi. Ti basta come dolore? Ti basta come
vera vita? O reputi davvero che tu sola conosca la pena, perché passi le
giornate a razzolare con i porci? Sei davvero così egoista?”. Non prese nemmeno
fiato, sputò fuori quel grumo di disgrazie e sofferenza mentre grosse lacrime le
rigavano il viso. La rabbia di entrambe si sciolse insieme a quel pianto.
Kate sentì i respiri affannati dell’altra e si accorse di
quanto fossero vicine, così tanto da poter vedere ogni minuscola goccia
fermatasi fra le lunghe ciglia dell’altra. Dandosi mentalmente della sciocca,
sollevò una mano per asciugare le guance della ragazza. Quella chiuse gli occhi,
sospirando. Poi, di slancio, si gettò fra le braccia della mora, prendendole il
viso fra le mani e posando le labbra sulle sue. Fu questione di una attimo, o
forse di un secolo. Alla fine fu Kate a staccarsi, sorpresa. Un leggero aroma di
zucchero le rimase sulle labbra, come se la bocca di Heater ancora poggiasse
sulla sua. Senza riuscire a spiccicare una sola parola, la guardò voltarsi e
uscire, gli occhi rossi e gonfi, un timido sorriso sulle labbra.
Che diavolo significava? Ferma, in mezzo al vecchio
capanno, Kate si passò la lingua sulle labbra, sentendo il sapore del caramello,
il cuore che le batteva furioso nel petto. Poteva ancora sentire il fiato caldo
di Heater sul viso. Si sfiorò la bocca con il dita, incredula, senza capire cosa
fosse quel sentimento aveva così subitaneamente sostituito la rabbia. L’unico
pensiero sensato che riuscì ad articolare fu che si era sempre sbagliata. Gli
occhi di Heater non erano azzurri, come aveva fino ad allora pensato. Erano di
un intenso e luminoso violetto, fresco come l’erica fiorita di cui portava il
nome.
___________________________________________
un po' più lungo e forse troppo
pieno...ma credevo di dovermi far perdonare l'attesa!
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Capitolo 4 *** Tre ***
Nuova pagina 1
3.
Terrorizzata dall’idea di ritrovarsi sola con Heater in
mezzo alla campagna, Kate si avviò per il sentiero a passo insolitamente lento.
Vide una figuretta ammantata di viola svoltare a sinistra, e non poté
trattenersi dal ripensare agli occhi della ragazza. Erano così inquietanti e…
Oddio, sembrava un’eroina dei romanzi…eccola lì, a crearsi in testa strani
pensieri senza capo né coda! Si affrettò un poco: non esisteva che una sciocca
ragazzina, per quanto forse meno superficiale e allocca di quanto l’avesse
fin’ora reputata, le impedisse di scaldarsi accanto al fuoco! Per cosa poi, per
un innocuo bacetto?
Quella sera, a tavola, la londinese fu meno loquace del
solito: quando si trovava insieme a Tom tendeva a parlare molto, compensando con
l’impomatato gagà i silenzi patiti durante il giorno. Il ragazzo se ne accorse e
cercò in tutti i modi di mettere a suo agio l’ospite, chiacchierando amabilmente
degli argomenti più futili, ordinando che venissero serviti i piatti più
raffinati e cercando di rendere l’atmosfera il più aristocratica possibile. I
camerieri erano ossequiosi e l’anfitrione si rivolgeva alla giovane come se
fosse davvero una nobile, e non la nipote orfana di una ricca famiglia borghese.
Certo, lui possedeva un titolo…ma a che giova senza i necessari quattrini per
farlo fruttare? Così tentava di intervenire laddove la sorella non lo faceva,
cercando in tutti i modi di accattivarsi quella fanciulla bionda e altera venuta
dalla città.
Nonostante questo, Heather rimase muta e pensierosa per gran parte
della cena. Lo stesso fece Kate, stranamente impacciata, senza però che nessuno
lo notasse: tutti erano troppo impegnati nell’impresa di rallegrare colei che
avrebbe garantito la prosperità di casa Lyndon. Tutti, tranne la balia che, dal
suo cantuccio, osservava alternativamente i due visetti scrutarsi, per poi
volgere lo sguardo altrove, sobbalzando al minimo rumore. Non era colta né
istruita forse, ma conosceva le vie del mondo e già subodorava guai che avevano
ancora da venire. Dopo un rhubarb crumble* che nessuno parve davvero
apprezzare, nonostante gli sforzi eroici di Tom per presentarlo come l’ultima
moda londinese, i tre commensali si dispersero nelle varie stanze della casa.
Kate si lasciò cadere su una poltroncina, osservando il fuoco. Era così immersa
nei propri pensieri, e probabilmente in una certa sonnolenza, che non si accorse
della casa fattasi più silenziosa, né tantomeno del fuoco del camino oramai
ridotto a brace. Allo stesso modo non sentì il cigolio delle assi né il rumore
di passi che si avvicinavano. Quando qualcosa di fresco e profumato le sfiorò il
viso, lo spavento la fece scattare in piedi, rischiando di entrare nel
caminetto.
“Scusa, sembravi così pacifica… non ho saputo resistere -
si giustificò Heather senza che gli occhi tradissero il benché minimo dispiacere
– possiamo parlare un po’? Forse devo scusarmi per oggi… non avevo intenzione di
rubare, l’ho visto lì sul tavolo e ho creduto fosse lì per… beh…”.
“ Non siete a casa vostra màdame**, quindi dovreste avere la creanza di
chiedere rima di prendere una qualsiasi decisione – fu la replica stizzita –
non solo avete rovinato una sorpresa per mio fratello, siete anche penetrata nel
mio rifugio senza domandare a nessuno il permesso. Inoltre…”.
Probabilmente la tirata sarebbe proseguita ancora a lungo,
se la luce morente delle braci non avesse illuminato la bocca di Heather,
facendola sembrare lucida di zucchero, e provocando a Kate una fitta acuta allo
stomaco che non riuscì a identificare. Il sapore del caramello…le sembrava di
averlo ancora sulla punta della lingua. Distolse lo sguardo e tenendolo fisso
sulle braci riuscì a terminare il discorso, accettando le scuse a patto che la
bionda smettesse di agire in maniera così sconsiderata. “Non siete a casa
vostra, Heather. E nonostante sembri che voi qui abbiate un certo ascendente, in
virtù del patto che lega le nostre famiglie, io sono la padrona di casa e sono
io a decidere dove potete o non potete andare” terminò, sporgendo il labbro
inferiore. Heather, nella penombra, sorride di quel vezzo infantile. Rendeva
l’altra più umana e ancora più affascinante. Si sedette composta sulla poltrona
di Kate, continuando a sorridere. “Smettila di darmi del voi, ti prego. Mi fai
sentire così isolata… anche stasera…è come se tutti voi mi lasciaste nella mia
bolla di cristallo. Non potresti chiamarmi solo Heather? Lo so, non ti piaccio.
Non dico che dobbiamo diventare inseparabili e invitarci a bere il the quando
saremo vecchie, ma almeno rivolgerci la parola, ogni tanto…se non vuoi sposare
Jul, parlane con tuo fratello, smettila di dare la colpa a me! Io sono qui solo
per assicurarmi che tu sia sana, di bell’aspetto e … - abbassò gli occhi
stranamente imbarazzata – pura”
“Che cosa?! – ribattè scandalizzata la mora, mentre le guance si imporporavano e
il petto già iniziava ad alzarsi ed abbassarsi freneticamente – ma con quale
diritto vi permettete…loro…al diavolo tutti voi!”.
Si sedette di malagrazia, strappando un gemito alla sedia.
“ Oh, basta – sbottò la bionda, rivelando più carattere di
quanto non desse a vedere – insomma, lo sai come funziona, sai che queste cose
non c’entrano niente con l’amore e che è solo un contratto. Sei come un cavallo
di valore e tutti vogliono assicurarsi che tu valga davvero quanto
dovresti su carta. Se la cosa ti infastidisce scappa in un convento cattolico e
prendi i voti, o rintanati in città dove nessuno ti conosce e si vive di stenti.
La tua è una posizione privilegiata, ma qualche sacrificio dovrai pur farlo, no?
La purezza non è certamente l’aspetto più importante in un contratto di
matrimonio, di solito, ma Julian è testardo in queste cose. Comunque tranquilla,
se hai già perso la verginità troveremo un modo di ingannare mio cugino, basterà
che tu faccia un po’ di…”
“Io non ho assolutamente- la interruppe Kate – mai, non ho…ecco…io sono ancora…
ovviamente sono ancora pura! Non sono sposata e anche se so che adesso sembra
che sia à la mode – buttò lì in un francese un po’ raffazzonato – fare
dell’… esperienza prima, io non sono d’accordo. Non è così che sono stata
cresciuta” concluse in un gran rossore, chiedendosi come mai l’aria fosse così
calda.
“Se non è quello, di cosa hai paura? Non sei d’accordo col
matrimonio? O hai scelto di odiarmi così, per principio?” domandò inquisiva
Heather, nient’affatto toccata dall’evidente imbarazzo della mora.
“Non vi odio…forse solo un po’. Però sono d’accordo con il
matrimonio, o meglio, lo accetto. In realtà non è questo – ammise l’altra, dopo
un lungo silenzio – credo sia…invidia. O un po’ di gelosia. Voi siete tutto
quello che dovrei essere…quello che mia madre e mio padre avrebbero voluto
fossi, quello che Tom spera divenga per compiacere la vostra famiglia… ma
nonostante io lo voglia, non ci riesco, sai? Non riuscirei mai a rinunciare alle
corse nell’erba alta per un party esclusivo, o alla mia indipendenza per vestiti
di seta e alla libertà che respiro qui per qualsiasi mondanità londinese… suona
pretenzioso dirlo così. Ma per quanto possa ambire a essere una signora
dell’alta società, sono diversa. E tu…tu tutti i giorni, così delicata e
fragile, mi ricordi quello che dovrei essere, ma che non sarò. Capisci
perché ti odio? Non c’entra il tuo cognome, non c’entra il matrimonio, non del
tutto almeno, né la tua famiglia”. A quel termine Heater sobbalzò vistosamente.
A quanto pare la ferita del pomeriggio era ancora ben fresca.
Catherine era una ragazza irruente, impulsiva, a volte
persino prepotente. Ma certamente non era senza cuore. Ripensando al pomeriggio,
al dolore che aveva letto in quelle lacrime silenziose, si avvicinò alla bionda,
accarezzandole i capelli
“Fa male vero?Volete parlarmene? – chiese Kate nel tono più
dolce che le riuscì – volevo dire…ti va di parlarne? Adesso?”.
All’inizio la scrutò, diffidente. Ma il desiderio di
sfogarsi era evidentemente più forte…e poi c’era sempre quella strana scintilla
in fondo agli occhi, Kate era sicura di vederla, pur senza riuscire a
riconoscerla.
“ Conosci la mia famiglia. Sai che non siamo nobili, ma
abbiamo fatto fortuna. Il mio bisnonno un assicuratore di navi e così anche mio
nonno, anche mio padre e mio zio iniziarono così prima di…” la voce sfumò in un
bisbiglio, mentre le due teste si avvicinavano. La casa, scura e vuota, sembrò
zittirsi per ascoltare.
* rhubarb crumble è un tipico dolce inglese a base
di rabarbaro. Gli inglese adorano il rabarbaro…e ancora non ho capito il perché.
Qui la diffidenza è giustificata dal fatto che questo vegetale venne introdotto
in ambito alimentare solo agli inizi dell’Ottocento, che è poi all’incirca il
periodo in questione J
** l’accento è perché mi son resa conto che scrivere
semplicemente “madame” potrebbe essere inteso alla francese… e invece no, è
all’inglese, con l’accento sulla prima A J
e sono convinta che la mia prof di inglese sarebbe fiera di me.
E se state per dirmi “ehi, attenta, a volte hai scritto
dando del voi e a volte dando del tu”… beh, è intenzionale: è la lotta interiore
della ragazza beneducata contro la ragazza arrabbiata/emotivamente scomposta. Se
non vi piace, mi spiace ( ah ah, fatto la rima) ma a me garba assai!
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Capitolo 5 *** Quattro ***
Nuova pagina 1
4.
La storia non era poi così tragica come poteva essere
apparsa nel pathos della situazione. O, almeno, così parve a Kate, la quale si
guardò bene dall’esprimere un simile giudizio: dopotutto non l’aveva vissuta
sulla propria pelle. Il mondo degli affari londinese descritto da Heather era un
luogo oscuro e soffocante, pieno di insidie e trabocchetti e gente disposta a
tutto pur di guadagnare, persino a speculare sui fallimenti dei propri
famigliari. Così l’azienda di assicurazioni di famiglia, divisasi in due rami
trent’anni prima con l’ingresso in società dei due eredi maschi di Christopher
Lloyd, si era saldamente riunita nelle mani dell’ultimo discendente rimasto in
vita, Julian senior dopo che questi, approfittando di una serie di clamorosi
errori di giudizio del proprio fratello, aveva proposto di coprirne i debiti per
poi annetterne totalmente la società. Il colpo era stato brutale. Già gravato
dal peso dei fallimenti precedenti, Anthony Lloyd si era sparato nel proprio
studio quando la figlia minore aveva solo dodici anni. La moglie, attirata
dallo sparo, ne aveva rinvenuto il corpo.
Creatura debole e malaticcia, da cui Heather aveva ereditato la fragile
costituzione fisica, la signora Lloyd non era riuscita a sopportare l’onta della
perdita della società e del suicidio. Le sue mani candide e nervose mal si
adattavano ai lavori domestici e la sua indole neghittosa non le permetteva di
progettare un piano per uscire dall’incubo della miseria che le si prospettava
di fronte; non trovava la forza nemmeno di salvare i propri figli. Così si era
lasciata deperire, divenendo un’ennesima fonte di angustie per i tre giovani
che, invano, cercavano di rientrare nell’élite londinese. Quando anche la madre
era venuta a mancare, i due fratelli maschi avevano deciso di arruolarsi, sperando di
trovare fortuna in India dove, si diceva, c’erano costruzioni interamente d’oro
e smeraldi e rubini grandi quanto uova d’oca. Nessuna notizia era stata recapitata da loro negli ultimi tre anni. Lasciata sola, Heather aveva
dovuto giocoforza chiedere aiuto alla famiglia dello zio, troppo piccola per
provvedere da sola a se stessa. Lo zio l’aveva accolta, forse afflitto dal
rimorso per il fratello. L’afflizione era però presto passata e Heather aveva
imparato l’arte raffinata dell’inganno per sopravvivere in un modo che lei ritenesse essere consono al suo vecchio status: se la zia la mandava a
fare commissioni lei riusciva in qualche modo a tenere per sé parte della somma;
lasciava che i suoi morbidi capelli biondi uscissero ribelli dai cappellini e
comprava ciò che le serviva solo in negozi con giovani garzoni che, persi in
contemplazione dei suoi strani occhi viola, spesso le vendevano la merce a
prezzo ridotto, se non proprio gratuitamente. E poi le feste dove, leggera come
una farfalla, volteggiava con i giovani rampanti della City, concedendo all’uno
o all’altro un sorriso in funzione dei bei regali che loro potevano offrirle,
senza disdegnare nemmeno i più attempati, spesso con un portafoglio assai meglio
fornito. Persino lo zio si era accorto di queste sue capacità e aveva iniziato a
portarla con sé ai banchetti e alle feste, dove Heather aveva il compito di
ammorbidire i possibili clienti e mostrare agli avversari la clemenza e la bontà
del ricco zio.
Odiava quei ricevimenti.
Le occhiate lascive degli uomini non la innervosivano, il
suo corpo e la sua testa erano tutto ciò che possedeva e faceva in modo che le
fruttassero il massimo guadagno. Quello che realmente detestava era fingere la
parte della nipote adorante, quando tutto ciò che sognava la notte era infilare
nel cuore dello zio uno dei lunghi coltelli che il maggiordomo usava per
tagliare gli arrosti.
C’erano delle cose positive, però. La zia Anne, una donna
delicata e pallida, più autoritaria della sua defunta madre, cui Heather copiava
le pose da donna già annoiata da tutto; i lussi, i profumi, i bei vestiti; Sarah
e Beth, due ragazze che studiavano francese con lei e che le avevano insegnato
tutto sull’amore e sul potere che una donna può esercitare; infine Jul, il suo
bel cugino. Aveva vent’anni più di lei, eppure sembrava ancora un ragazzo.
Calmo, dolce, aveva un buon spirito dell’umorismo ma, soprattutto, sapeva di
essere un grosso ignorante che aveva sempre preferito cavalcare e bere piuttosto
che studiare. Questa consapevolezza gli permetteva ora, ormai adulto, di trovare
piacere non solo nelle attività che tutti i suoi coetanei prediligevano – andare
a caccia in campagna, a bere nelle taverne e a puttane nell’East End – ma anche
nell’ascoltare sua cugina studiare o leggere ad alta voce, chiedendole di
spiegargli in maniera semplice tutte quelle cose che in gioventù aveva
disdegnato.
Mentre la bionda proseguiva nel suo racconto, Catherine si
accorse che tutto ciò che sapeva del suo futuro sposo era legato a ciò che il
fratello, negli anni, le aveva riferito. Erano quasi due mesi che la londinese
viveva sotto il suo tetto e mai le era venuto in mente di chiederle qualcosa
riguardo Julian. Così, persa nelle sue elucubrazioni e nella contemplazione
della sua immensa idiozia, non si accorse immediatamente che Heather si era
zittita, avvicinandosi a lei.
“Era tanto che non mi permettevo di parlare così apertamente con qualcuno –
bisbigliò appoggiando le mani ai braccioli della poltrona della mora – volevo
ringraziarti di avermi ascoltato. Sai, nonostante tu mi abbia presa in antipatia
fin da subito, io ho capito presto che mi andavi a genio. Assomigli tanto a mio
padre…quello che l’ha ucciso davvero è stato perdere la sua indipendenza, l’ho
capito solo poco tempo fa. Tu sei uguale a lui: stessa forza, stessa dolcezza…
però lui aveva gli occhi chiari, mentre i tuoi sono così scuri…”. Il tono si
assottigliò via via che le parole fluivano dalle sue labbra. Alzò una mano, per
togliere i capelli dal viso della mora che continuava a guardarla imbambolata,
chiedendosi cosa stesse per succedere, ancora una volta. La bionda si chinò su
lei, a un soffio dalla sua bocca.
“Grazie, Catherine Lyndon. Buonanotte”.
Si rialzò e guardò per un attimo le ultime braci nel
camino. La luce creò dei riflessi rossastri sui suoi occhi. Sorrise, un sorriso
biricchino che mozzò quel poco del respiro che Kate era riuscita chissà dove a
recuperare.
Poi, dopo una mezza riverenza, uscì dalla stanza e salì i
gradini verso le stanze al piano superiore. Il cigolio della porta che si
chiudeva segnò la fine del racconto e di quella strana serata.
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Capitolo 6 *** Cinque ***
Era primo mattino e sul prato di
AVVERTENZE:
se non l’avete letto all’inizio, questa storia è un
FEMSLASH, ovvero viene narrata una storia di
amore omosessuale fra donne. E da ora in poi potrà essere anche
esplicita, contrariamente ai capitoli precedenti che erano molto più
introduttivi. Quindi, se credete che la cosa possa turbarvi, smettete di
leggere. Il rating è rosso apposta! Detto questo, si va in
scena.
5.
Era primo mattino e sul prato dietro la
casa la rugiada faceva risplendere ogni filo d’erba. Il sole era sorto per metà,
una palla rossa in un mare di nuvole bianche e rosa. C’era odore di primavera
nell’aria. Kate stava seduta sul ramo più basso di uno dei tassi che
delimitavano la strada. Amava quelle piante. Sorpresa dal caldo della mattinata,
decise di bagnarsi al laghetto di sua proprietà: sicuramente a quell’ora nessuno
l’avrebbe disturbata. E l’acqua sarebbe stata deliziosamente gelida. Si
incamminò, coprendo la distanza in pochi secondi. La leggera tunica si seta si
increspava con la brezza, mettendo a nudo le braccia pallide e le gambe
altrettanto chiare. Era strano indossare della seta: così leggera, così morbida…
ricordava solo un vestito di sua madre fatto di quella stoffa così pregiata e
inusuale in quei territori. Sembrava di ricevere una lunga, dolce carezza su
tutto il corpo. Un'allodola cantò forte. Il sole si rifletteva sull’acqua,
illuminando la conca in cui si trovava e accecando momentaneamente la ragazza.
Socchiudendo gli occhi, poté finalmente distinguere qualcosa. Ma ciò che vide,
glieli fece spalancare per lo stupore: non era sola.
Già in acqua, girata di spalle, Heather si stava bagnando i lunghi ricci biondi.
Il sole illuminava delicatamente la sua pelle, effondendovi sopra un velo
rosato.
Lo stomaco di Kate si richiuse violentemente. Voleva toccare quella pelle.
Voleva accarezzare quei capelli bagnati, pettinarli fino a renderli morbidi.
Voleva fare il bagno con lei, ridere insieme, lasciare che lei la carezzasse
come la stoffa dell’abito già stava facendo. Voleva baciarla e sentire sulle sue
labbra ancora sapore di caramello. Si avvicinò, attirando l’attenzione della
bionda. Questa si girò restando immersa, senza dar nessun segno di vergogna. Le
sorrise, aprendo le braccia, invitandola a raggiungerla, i seni alti e sodi, i
capezzoli rosati e induriti dal freddo. Nemmeno si rese conto di essersi
spogliata: Kate si trovò con l'acqua già alle ginocchia, nuda, senza sentirne il
freddo né i sassi aguzzi sotto i piedi, solo un delizioso tepore su tutto il
corpo. Lasciò che Heather la cingesse fra le sue braccia, portandola verso il
centro del laghetto. L'abbracciò di rimando, ridendo forte. L'intera situazione
era così naturale: insieme e nude, felici senza un'apparente ragione.
Dopo l'abbraccio e le risa, un bacio sembrò il gesto più normale del mondo.
Kate lasciò che la sua curiosità si placasse accostando la bocca a quella di
Heather. Incredibilmente, il sapore zuccherino era ancora chiaramente
percepibile. Sentì la lingua dell'altra scorrere lenta sul labbro inferiore,
invitandola ad aprire la bocca. Così fece e la sensazione che ne ricavò fu
incredibile e incomprensibile. Affondò le mani nei suoi capelli, seguendone i
riccioli dorati, attirandola più vicina. Si sentiva libera, leggera, priva del
peso e dalle pastoie che la vita di casa le poneva. Continuarono a baciarsi
lasciandosi cullare dall'acqua, accarezzandosi là dove di solito non sarebbe
stato permesso dai molti strati di vestiti. Catherine percepì le dita delicate
di Heather sui seni che galleggiavano mollemente: le seguì, mentre ne seguivano
il profilo e si soffermavano sui capezzoli inturgiditi, con un fremito di
piacere.
Essere oggetto di quelle attenzioni non le bastava: voleva sentire Heather
ridere delle sue carezze, voleva vedere i suoi occhi socchiudersi per l'estasi.
La accarezzò e baciò più e più volte, e pensando all'espressione di gioia
stupita delle donne quando allattavano i propri figli, succhiò leggermente là
dove la carne era più rosa. Dopotutto il loro comportamento sembrava in tutto e
per tutto quello di piccoli bambini, protetti in un mondo loro proprio,
incantato e ovattato. Come neonate anche loro esploravano un universo tutto
nuovo, di sensazioni e sensi e emozioni fino ad allora taciute. Le mani di
Heather continuarono a seguire il corpo della compagnia, toccando il triangolo
di riccioli scuri fra le sue gambe, osservandola con lo stesso sorriso malizioso
della sera precedente. Fu troppo.
Catherine si sentì esplodere, sentì un enorme calore nascerle nel ventre per
propagarsi come fuoco in tutto il corpo. Gridò.
"Signorina Catherine! State bene? Cosa
succede?" Sue Mirren irruppe nella stanza. La sua bambina era nel letto, le
coperte completamente abbandonate in un angolo, gli occhi spalancati e
stravolti.
"Ch-che succede?" le domandò quella di rimando, la mente ancora annebbiata.
La balia la scrutò con attenzione. Il volto arrossato, il petto che si alzava ed
abbassava ancora affannoso, labbra e fronte imperlate di sudore. Febbre? O un
genere molto più pericoloso di malattia? La saggezza popolare le suggeriva
quest'ultima risposta. Ma come curarne la sua piccina? Proprio ora doveva
accaderle, passerotto, ora che il suo destino era segnato e il matrimonio certo!
Restava però un dubbio, che fece aggrottare ll'ampia fronte della donna. Scacciò
i pensieri con un movimento della mano mentre, contemporaneamente, si sedeva sul
bordo del letto. Lì accolse la giovane fra le braccia e, dopo essersi rassettata
la pesante camicia da notte di flanella verde, la strinse forte.
"Niente bambina, un brutto sogno. Chiudi gli occhi ora, non temere nulla". E
quando quella lasciò che le palpebre si richiudessero, Sue iniziò a canticchiare
una vecchia ballata, una storia d'amore e dolore, di un incontro impossibile fra
due anime gemelle che, però, il tempo e il mondo volevano a tutti i costi
dividere. E mentre cantava si domandò, per un istante, come sarebbe andata a
finire se, invece che venir separati, i due giovani della canzone avessero avuto
la possibilità di vivere, crescere e invecchiare insieme.
__________
è mooolto Harmony, lo so. Chiedo venia a
tutte quelle che reputeranno rovinato quello che ho scritto fin'ora: sembra che
l'aria di mare faccia male alla mia Musa
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Capitolo 7 *** Sei ***
Nuova pagina 1
6.
Heather.
Accade spesso che i sogni siano ben lontani dalla realtà dei fatti. Se Kate
avesse raccontato anche solo i pochi frammenti strappati all’oblio della sua
avventura notturna– acqua fresca e un imbarazzante calore fra le gambe – a
Heather, quella avrebbe probabilmente scosso la testa divertita. Non era così
che andavano le cose o, per lo meno, mai così erano andate per lei.
Il
sesso era potere, anzi, era il potere, che gli uomini esercitavano a loro
piacimento in quanto maschi. Le donne, passive figure da focolare, immerse in un
ideale di purezza e inviolabilità, ne erano escluse: quello che si consumava nei
talami nuziali non era amore, ma pura e semplice procreazione, come era giusto
che fosse, come diceva la Bibbia. E per tutto il resto…beh, per tutto il resto
c’era l’East End. O la Francia. Le nuove ed esotiche donne che la Compagnia*
importava insieme a seta e the. E quei focosi giochi fra maschi in cui qualche
nobile poteva indulgere, sempre però temendo l’accusa infamante di sodomia...
Heather avrebbe anche potuto spiegare che nonostante il timore del castigo
divino, molte donne si consolavano della scarsa considerazione dei mariti fra
loro…creando circoli, parlando, bevendo litri e litri di the. E lasciandosi poi
andare a qualche carezza… Nessuno ne parlava. O meglio, pensò Heather uscendo
dal letto, mentre voluttuosamente si stiracchiava nella luce del sole, alcuni
dottori proponevano cure contro certe pericolosissime patologie isteriche
femminili…ma quale marito avrebbe mai ammesso che la propria donna o la propria
figlia potesse indulgere in simili attività? Un sorriso le increspò le labbra.
Sarebbe come ammettere di non avere il controllo sulla propria casa.... forse
perché il tempo viene passato in qualche bettola a Whitechapel... no, mai, è
inconcepibile per loro!
Invece simili attività avvenivano, eccome, spesso addirittura sotto l’occhio
spento di qualche precettrice annoiata. Le lezioni di francese che suo zio le
pagava, oltre a quelle di musica e ricamo, erano perfette occasioni per
conoscere ragazze, spesso più spudorate e annoiate di lei, pronte a sottostare
alle regole di nuovi giochi. Certe volte bastava una festicciola innocua, in cui
gli uomini si perdevano a banchettare e a ruttare, mentre alle ragazze non
restava che divertirsi da sole in pista. E al calar della sera, quando lo zio
usciva con Jul, i maschi poltrivano davanti a un brandy e la servitù stava
discretamente fuori servizio…
Era
una partita che sapeva giocare bene, trovando molta più soddisfazione nei
morbidi baci femminili piuttosto che nelle lascive mani maschili: se gli ultimi
tentavano sempre di infilare le mani sotto le sue gonne, la prime quasi mai
scendevano al di sotto del seno, fasciato ad arte dall’abito. Ben poco amore
trovava in lei il genere maschile: escluso il cugino e i fratelli, aveva sempre
e solo conosciuto uomini che, dietro la facciata di rispetto per il suo status,
non potevano impedirsi di immaginarla nuda, intenti a sodomizzarla come una
comune prostituta, strappandole abito e dignità. Razionalmente non poteva dare
torto a quegli individui:
l’atteggiamento dello zio e il modo in cui la usava non potevano certo
migliorare la sua fama. Perfino ora le veniva chiesto di abbindolare il fratello
della futura sposa affinché le condizioni del matrimonio venissero a delinearsi
in maniera più conveniente per la famiglia Lloyd.
Ma
non pensava certo di trovare
un diversivo così piacevole al suo lavoro…
Le
spiaceva un po’ comportarsi così con Kate. Lei era così…adorabile. Si
credeva forte e indomita, assolutamente libera dai vincoli sociali, cresciuta
selvaggiamente fuori dalla cappa che opprimeva le donne di città. Eppure era
così totalmente fragile, ignorava qualsiasi tipo di inganno, non era abile
nemmeno a nascondere la propria vera natura dietro ad una maschera. Nessuna
civetteria, nessuna aria mondana…così totalmente diversa da qualunque altra
donna dell’aristocrazia! Le riflessioni continuarono durante le rapide abluzioni
e la scelta degli abiti. Con divertimento si accorse del mutamento avvenuto
perfino in sé: dopo mesi di campagna, gli abiti e i corsetti decorati giacevano
abbandonati in fondo alla cassapanca, a vantaggio di vestiti che, fino a poche
settimane prima, non avrebbe indossato nemmeno sotto tortura. Eppure a Kate
piacevano. Lo capiva dal modo in cui si scostava quando, casualmente, si
toccavano, e dal suo sguardo indagatore e imbarazzato a un tempo.
Le
ricordava se stessa più di una vita fa, non più di una settimana dopo la morte del padre,
quando una
delle numerose zie sbucate fuori per il funerale le aveva donato uno splendido
specchio chiedendole il favore di dormire con lei, molto freddolosa e piena di
acciacchi.
Il
dopo era stato doloroso, pieno di vergogna, ma anche di una sottile tensione e
di un'attrazione successiva che la fecero star ancora più male. Era lì che aveva
scoperto l’altra faccia della vita mondana, quella più sordida dei bordelli e
più taciuta della dipendenza da oppio.
Se solo i preti sapessero cosa fanno le donne caritatevoli delle loro
parrocchie…
“Signorina Lllyod! Venite! Presto!”
“Signorina, mio dio, perché non ci avete avvertito che avremmo avuto visite?
Avremmo sistemato la villa!”
Una
ridda di voci bloccò Heather e il suo divagare. Cosa diavolo…?
Indossò velocemente l’abito, senza curarsi troppo della servitù che correva qua
e là come formiche in un nido calpestato. Scese le scale e trovò un ossequioso
padrone di casa che attendeva all’ingresso, mentre un uomo con una leggera
calvizie varcava la porta.
“Buona giornata Lord Lyndon, spero di non arrecarvi troppo disturbo. È da
qualche tempo che non ricevo notizie da queste terre e, trovandomi di passaggio,
ho deciso di allungare il viaggio di ritorno verso la capitale e passare qui… mi
auguro che la mia presenza non sia di fastidio”.
Prima ancora che Tom potesse ribattere alzò lo sguardo, puntando i suoi occhi
canzonatori su Heather.
“Buongiorno cugina! Iniziavo a preoccuparmi: dopo tante vostre missive, un
periodo di silenzio così lungo iniziava a impensierirmi. Vi trovo…- si fermò,
scrutando divertito il suo aspetto trasandato – diversa. Sembra che
l’aria di campagna vi faccia bene”.
“Jul!” poté solo rispondere la londinese, scendendo di corsa e buttandosi al
collo dell’amato cugino.
Allora, questo è Julian Llyod? Sarà costui mio marito? Pensava Kate,
appoggiata alla cornice della porta, stranamente infastidita dalle mani
dell’uomo che carezzavano delicatamente i boccoli biondi della cugina.
__________________________________
ho
un'ammissione da fare. Tralasciando la discontinuità degli aggiornamenti - me ne
scuso- e la lentezza della storia - me ne rendo conto anche io e non mi piace,
ma è così che mi sta venendo fuori...- qui si arriva a un punto cruciale, dove
il mio bellissimo canovaccio si biforca: la storia può proseguire per taaaanti
capitoli oppure subire una decisa accelerata e chiudersi nel giro di altri
cinque.
Ammetto che la versione più lunga è quella che mi piace di più e so che da brava
"scrittrice" dovrei scrivere per me stessa, per la Musa, ecc...
Non
diciamoci balle, non è così: ciò che scriviamo per noi stessi resta in un
cassetto a prender polvere, ripreso di tanto in tanto; tutto quello che finisce
qui è perchè serve magari anche solo il parere che ti dica "guarda che sei
andata notevolmente peggiorando con lo stile, datti una raddrizzata".
Ecco.
Vale la pena lo sforzo di scrivere altri capitoli? Questa storia, la vale?
Io
inizio ad averne dubbi. So che Ely commenterà - santissima ragazza, lo fa
sempre. Ma mi chiedo se le altre 15 seguaci e uhm X ricordate e 3 preferite la
pensino uguale. O se abbiano messo la storia perchè il titolo ispirava, per poi
dimenticarsene...come fosse in un cassetto.
Se
mi farete sapere, grazie. Altrimenti...vedrò l'umore dopo gli esami. Sperando
passi 'sta delusione cosmica.
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Capitolo 8 *** Sette ***
Nuova pagina 1
Avviso: dopo lo sfogo dell'altra volta (non voleva essere un'imposizione, me
ne scuso, ma ero in alto mare con gli esami e mi chiedevo quanto valesse la pena
mettere energie in questa storia) mi sono resa conto che, effettivamente,
l'aggiornamento così irregolare non è una bella cosa: quindi volevo solo dire
che d'ora in poi aggiornerò in maniera abbastanza regolare, ogni 2/3 settimane
al massimo.
Sperando di far contento chi segue :) ah, c'è un piccolo riassunto interno
alla storia, giusto per riprendere il filo!
7.
“Non osate scappare come al vostro solito signorinella!
Fermatevi qui!”.
Sembrava non fosse passato molto tempo dall’inverno scorso,
quando Catherine era sfuggita alla rabbia nei confronti del fratello
rifugiandosi nel suo vecchio, rovinato e accogliente capanno da caccia dietro la
collina. Invece erano trascorsi i mesi, le giornate si erano allungate e la
brughiera risplendeva di fascino e vita: ovunque un manto lilla copriva rocce e
rilievi, mentre le api ronzavano oziose, invitando con il loro canto a fermarsi
nell’erba a riposare. Anche Catherine era cambiata: la ragazza scontrosa e
caparbia che non aveva perdonato alla sua sofisticata ospite certe uscite poco
gentili - e che certo non dimenticava che il motivo che l’aveva spinta a
lasciare Londra era quello di civilizzare lei e la sua tenuta – aveva,
nelle ultime settimana, appianato il proprio carattere, mostrando quando solare
e generosa potesse essere sotto la dura scorza iniziale. Chiacchierando con
Heather aveva scoperto le gioie del confrontarsi con un’altra ragazza: era bello
parlare dei libri letti e passare il tempo creando piccole aiuole con i fiori,
facendo progetti per migliorare esteticamente la fin troppo trascurata magione e
lasciandosi andare a confidenze a cui nessun orecchio maschile si sarebbe
prestato. Dopo l’increscioso incidente di febbraio aveva deciso di insegnare
alla londinese quel poco di cucina che la madre e la balia le avevano permesso
di apprendere: l’altra, abituata a lasciar fare alle cuoche, aveva scoperto il
gusto del realizzare qualcosa con le proprie mani e del vedere i sorrisi sulle
facce dei monelli della zona quando venivano chiamati a giudicare i biscotti più
buoni. I bambini non erano certo le loro uniche cavie: Julian, promesso marito
di Catherine e cugino adorato di Heather, dopo l’iniziale e fulminea visita a
sorpresa, aveva preso l’abitudine di passare i fine settimana a casa Lyndon,
passeggiando con le due ragazze e divertendosi a cacciare piccole prede che poi
presentava puntualmente a tavola. Tutto ciò non poteva non deliziare Tom, che
aveva perciò deciso di organizzare una grande serata danzante per festeggiare
l’amicizia creatasi fra la sua famiglia e quella dei due londinesi.
Proprio questa idea – a suo giudizio geniale – aveva
scatenato l’ira della sorella, per troppo tempo rimasta sopita. La sua reazione
era stata la solita: dopo aver dato sfogo ad un turpiloquio degno di qualsiasi
faccendiere cittadino, aveva indossato gli stivali e si era avviata a passo di
marcia verso il suo capanno, per pensare. Non aveva fatto i conti con la balia
che, questa volta, invece di rimanere con le mani in mano aveva afferrato un
lungo bastone e sbarrava il passo alla ragazza con fare minaccioso. Il viso già
di per sé arrossato era chiazzato d’ombra laddove la fuliggine l’aveva sporcata:
durante il litigio nel soggiorno stava pulendo il camino, in attesa della coppia
di galli cedroni che il signor Lloyd aveva promesso per la cena. Gli abiti da
lavoro erano logori e strappati. L’impressione finale era vagamente
terrificante.
“Devo uscire da qui Sue e non sarai tu a impedirmelo.
Lasciami passare” Rispose la mora, tentando di sgusciare oltre il corpo del
donnone, senza riuscirvi.
“Stammi bene a sentire – le intimò quest’ultima, lasciando
cadere a terra il bastone e sollevando il viso della ragazza con un’enorme mano
– non permetterò che il tuo caratteraccio faccia fare una cattiva figura a tuo
fratello. Io stessa non sono contenta di dover passare tutta la prossima
settimana a cucinare per chissà quanti nobili con la puzza sotto il naso. Eppure
lo farò, nonostante abbia ancora la potestà di dare un bello schiaffone al suo
bel sederino. E sai perché? – Catherine cercò di muovere la testa in segno di
diniego, ma la mano la teneva saldamente per il mento, bloccandola – perché
questo è il mio ruolo. E il TUO ruolo è essere una perfetta padrona di casa come
hai dimostrato di saper essere in queste ultime settimane. E sarai bella,
elegante e raffinata come la tua defunta madre sarebbe stata. Sono stata chiara,
Catherine Lyndon, o è il tuo sederino che vuole ricevere una rinfrescata di
memoria? E ora, signorina – disse a voce improvvisamente più alta, lasciandola
andare e girandosi verso il camino – dovreste proprio chiedere a vostro fratello
di permettere a voi e alla signorina Heather di andare a Londra per trovare una
toeletta adeguata. Non vorrete partecipare al ballo conciata con i vostri soliti
abiti, spero!”
Senti chi parla avrebbe voluto ribattere Kate ancora
furiosa, occhieggiando gli abiti rattoppati della balia. Poi sospirò e si girò
verso la londinese che, ferma sulla soglia, sogghignava.
“Tranquilla Sue, non dovete diventare formale solo perché
sono qui. Ammetto che potrebbe essere uno spettacolo divertente vedervi
acciuffare Catherine…sembrate essere l’unica a riuscire a instillare un minimo
di buonsenso nella sua testaccia”.
Il ghigno che comparì contemporaneamente sul viso suo e
della balia fece rabbrividire Kate: quelle due stavano entrando troppo in
sintonia. Troppo, troppo, troppo…
“In ogni caso sono d’accordo con Sue: che ne dici?
Chiediamo a mio cugino di accompagnarci a Londra, domani? Poi potremmo rimanere
dai miei zii fino al prossimo venerdì e tornare qui ancora con lui prima della
festa! Vedrai, ci divertiremo!”
Improvvisamente a corto di parole, Kate fece un cenno con
il capo, difficile capire se fosse un sì convinto o se, semplicemente, si fosse
resa conto di trovarsi in una situazione senza vie d’uscita. La festa, i
vestiti, la folla….le girava la testa al solo pensiero. Però Sue aveva ragione:
doveva mostrarsi all’altezza della situazione, come sua madre avrebbe voluto.
“Va bene, va bene. Sì, non ostacolerò la festa. Sì, andrò a
Londra domani. Sì, spenderò un mucchio di soldi per vestiti e belletti che non
userò mai più, perché sarebbe disdicevole utilizzarli ad una seconda festa…cosa
che io invece troverei normalissima, ma non conta. Siete soddisfatte? O questo
agguato deve strapparmi altre promesse?” chiese con tono fintamente scontroso,
mentre la balia le allungava un biscotto con uva passa. Nessuno rispose, a meno
di non voler considerare una risposta l’improvvisa risata di Heather, che a sua
volta si avvicinò per rubare un biscotto.
La serata fu un gran fermento: Catherine dovette rifare il
baule da viaggio almeno cinque volte. La prima volta mancava uno scialle
elegante per un’eventuale serata a teatro, la seconda Heather pretese che
tirasse fuori tutto per sistemarlo in maniera più ordinata, approfittandone per
dare un’occhiata agli abiti scelti e per togliere quelli, a suo parare, più
brutti. Poi fu la volta di Sue che volle dire la sua e di Tom che arrivò proprio
nel momento in cui la sorella chiudeva il coperchio, esigendo che il denaro che
le affidava per le spese venisse posto in fondo al baule, dove sarebbe stato più
difficile arrivare. Alla fine, stanca e per la prima volta insoddisfatta del
proprio guardaroba, Kate si trascinò al piano di sotto. La tavola era già
apparecchiata e l’odore dell’arrosto con le verdure si spandeva per tutto il
piano. Tom era nello studio a sistemare alcune carte che avrebbe affidato a
Catherine e Heather era nella sua camera a lottare contro il suo baule. Sue era
in cucina con le cameriere, il resto della servitù già a casa.
“Sembrate stanca”. La voce di Julian la fece trasalire:
sapeva che sarebbe stato loro ospite a cena, non si immaginava di trovarselo
davanti adesso. Si girò a guardarlo. Il naso rubizzo denunciava il suo debole
per l’alcol e la calvizie denunciavano il suo essere oltre i trent’anni. Eppure
il viso dalla mascella forte, il mento volitivo e gli occhi – due
straordinariamente espressivi occhi grigi – lo facevano sembrare più giovane e
bello. Era stato proprio questo contrasto a colpirla la prima volta che l’aveva
visto – questo, e una punta di gelosia nel vedere l’intimità con cui trattava
Heather. Poi, durante le passeggiate fatte insieme, aveva avuto modo di
scontrarsi con la sua visione maschio-centrica della vita, ma anche di
apprezzarne la diplomazia e la capacità di mettere in discussione le proprie
certezze. Durante quelle chiacchierate, però, c’era sempre stata Heather a
moderare entrambi gli animi, inclini ad infiammarsi con estrema facilità: questa
era la prima volta che Catherine e Julian si trovavano soli, insieme.
“In effetti un po’ lo sono – rispose dopo una piccola pausa
– non sono avvezza ai viaggi a Londra, sono alcuni anni che manco dalla
capitale. Inoltre, da ragazza, le mie visite si riducevano a brevi incontri con
i parenti, passavo gran parte del tempo alla Camera dei Lord attendendo mio
padre o nel suo ufficio… raramente ho partecipato a feste o sono andata a
teatro. Tutte cose che, invece, vostra cugina sembra voglia farmi gustare in
abbondanza”.
L’ultima affermazione le uscì con un tono fra l’esasperato
e il divertito, cosa che Jul non mancò di notare. Sapeva che il loro matrimonio
sarebbe stato di convenienza – le casse della famiglia Lyndon iniziavano a
languire, mentre le finanze della famiglia Lloyd non erano mai state più solide,
sebbene non avessero un titolo con cui pavoneggiarsi; quel matrimonio avrebbe
permesso di colpire due uccelli con una sola pietra*…eppure non poteva non
sentirsi contento del Fato toccatogli: Catherine era giovane e bella, sana e con
un ottimo senso dell’umorismo: sarebbe stata una buona moglie. Certo, era
indisciplinata e il suo ingresso in società poteva essere un disastro…ma che
gusto ci sarebbe stato, senza un po’ di pepe ad animare la sfida? Le sorrise,
perdendo in un istante almeno dieci anni. Un leggero imbarazzo calò fra loro
insieme al silenzio: Kate non era abituata a stare con uomini, ad eccezione dei
servi e del fratello, e similmente Julian, cresciuto in un college maschile ed
avvezzo a trattare solo con serve, parenti o prostitute; Catherine non rientrava
in nessuno dei tre campi, nonostante molti suoi amici già sposati trattassero le
mogli alla stregua di sguattere. Alla fine fu di nuovo la ragazza a prendere la
parola. “So che i miei discorsi potrebbero sembrarvi stravaganti, dopotutto
siete abituato a compagnie molto più sofisticate…spero di non avervi dato motivo
di dubitare della mia volontà di divenire vostra moglie: vedrete, imparerò
presto a destreggiarmi in società e non avrete da temere che possa farvi
sfigurare. Forse la mia casa sta decadendo, ma resto pur sempre una Lady”. Quel
discorso così diretto, sincero ed appassionato fece molto piacere al giovane. Si
avvicinò a Catherine, sorridendo ancora una volta davanti alle sue guance
divenute scarlatte. Le prese la mano, stringendola dolcemente. “Non ho dubbi che
voi siate una vera Lady, forse lo siete perfino più di quelle che si
pavoneggiano del loro titolo per la città” le disse, mentre, chinandosi, portava
la mano di lei al viso, sfiorandone il dorso con le labbra. Si rialzò e sembrò
per un attimo che volesse venirle ancora più vicino. La voce di Tom dall’ufficio
che chiedeva a qualcuno di mandargli la sorella fece sobbalzare entrambi. Julian
accennò un altro inchino “Sembra che qualcun altro vi desideri, Catherine. Spero
ardentemente che a Londra avremo modo di parlare ancora, magari a quattr’occhi.
Avete un carattere più affascinante di quanto la mia cuginetta si sia lasciata
sfuggire nelle sue lettere”. Imbarazzata, Kate annuì per scivolare poi fuori
dalla stanza, Quando passò accanto a Julian, sentì la sua mano sfiorarle la
pelle del braccio, provocandole un brivido per tutto il corpo.
Nella sua mente rivide brani dei libri più amati e
l’agitazione delle protagoniste ed il fermento provocato in loro da un semplice
contatto con l’uomo che si rivelava essere il loro Principe Azzurro. Era quello
l’amore?
Questo pensiero la portò ad una altro, che tentò di
scacciare mentre sorrideva umile al fratello. E allora, i brividi che mi
provoca Heather che cosa sono?
* To kill two birds with on a stone : è la versione
inglese dei nostri piccioni presi con una sola fava !
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Capitolo 9 *** Otto ***
Nuova pagina 1
8.
Il viaggio in carrozza fu lungo e difficile. Il terreno
accidentato rese scomodo il tragitto, tanto che si dovettero fare frequenti
soste. “Sapevo che sarebbe stato meglio legare il baule dietro la carrozza!” si
lamentò Kate, poggiando le mani sui fianchi e stiracchiandosi in maniera
vistosa, lasciando stupito Julian che era abituato a tutta un’altra rigidità
nei modi.
“Se l’avessimo legato dietro a quest’ora sarebbe fradicio,
sarà forse mezz’ora che ha smesso di piovere! Non avrei mai permesso che i miei
vestiti si rovinassero!” “Avremmo potuto coprirli con una cerata!” “Solo perché
tu hai abiti rozzi che possono rovinarsi, non vuol dire che io possa voler
rischiare di sciupare i miei!” “Ah, certo, ora i miei abiti sono rozzi, l’altra
sera dicevi che sarebbero andati benissimo!” “Era per non demoralizzarti!
Andiamo Kate, non ci sono pizzi né merletti, sembri una contadina!”. Quel
battibeccare era iniziato appena lasciata casa Lyndon: Julian, dopo aver tentato
di resistere stoicamente alcuni minuti, si era dato alla fuga, sedendosi a
cassetta con il cocchiere. Certo, doveva sopportare la pioggia: meglio quella
del rischio di finire stritolato fra bauli e cappelliere. O di essere dilaniato
da quelle due tigri inferocite…
“Contadina io? Ha parlato Vostra Altezza! Se sembro una
contadina, prova a guardarti bene ora!” e, sotto gli occhi ingranditi dallo
stupore di Jul e del vetturino, si chinò a raccogliere una manciata di fango,
lanciandola poi sull’abito rosa dell’amica. L’urlo di questa avrebbe potuto
svegliare i morti dalle loro tombe. Ratta, si chinò a sua volta, ignorando lo
schifo che le provocava toccare quella melma tanta era la rabbia. Ovviamente,
però, non aveva la mira di Kate, abituata a lanciare sassi agli animali durante
l’infanzia da monella: beccò di striscio una delle maniche. Insoddisfatta,
chiuse gli occhi e poggiò le mani in vita come suo solito…prima di accorgersi
del grossolano errore. Kate scoppiò a ridere, vedendo le ampie macchie brune che
si allargavano sulla stoffa e presto la seguì anche Julian. Il cocchiere abbozzò
un sorriso, prima di rendersi conto del rischio che correva e di tornare serio
e compito.
“Desiderate cambiarvi ora, signorina?”
L’onta era troppa. Davvero troppa. Forse la Heather di
qualche mese prima si sarebbe messa a strillare, fingendo di star male per
attirare l’attenzione del cugino e minacciando di far fustigare quella
scostumata di Catherine. Adesso la vergogna, piano piano, si trasformò in
ilarità e così si trovò anche lei, come gli altri, a ridere a crepapelle. Alcuni
raggi di sole scelsero proprio quel momento per fare capolino fra le foglie
delle betulle, illuminando i visi dei ragazzi. “Oh, avanti, ripartiamo, non
arriveremo mai se continuiamo con questo ritmo” disse Julian, ritrovando la
compostezza. Le due ragazze acconsentirono, continuando a ridacchiare. Una volta
chiuse dentro la carrozza, al riparo da sguardi indiscreti, Heather chiese
all’altra di aiutarla a cambiarsi. Non furono certo manovre facili, ma alla fine
riuscirono nell’impresa, nonostante qualche botta dovuta al continuo sbattere
contro i bauli e il rischio di vedersi amputate le dita delle mani dai pesanti
coperchi. Per non parlare della chiusura del corsetto… Alla fine la bionda
osservò con occhio critico la compagna “Quella manica è sporca, non posso farti
presentare ai miei zii così. Coraggio, cambiati anche tu”. Kate arrossì “Non
posso, sai anche tu che ho portato pochi abiti, prevedendo di comprarne di
nuovi…se mi cambiassi ora, non potrei più farlo per la cena”. “Beh, non credo
sarà difficile prestarti qualcosa di mio, no?”. Se quelle di prima erano
sembrate operazioni complicate, queste parvero vere e proprie manovre di guerra.
Ringraziarono entrambe il cielo di essere sole all’interno della carrozza: non
solo non si sarebbero potute spogliare in presenza di Jul, ma nemmeno avrebbero
avuto lo spazio necessario per i movimenti.
La concentrazione era tale che non poterono notare uno
strano luccichio proveniente dai finestrini, lasciati con le cortine alzate.
Vedendole vestite, Julian si risistemò soddisfatto lo specchio nel taschino: era
un trucco che aveva usato altre volte e non lo tradiva mai. Bastava allungare un
poco il braccio, guardare con la coda dell’occhio…e godersi spettacoli a volte
memorabili. Come quella coppia di amici lo scorso anno, chiusi in carrozza con
tre prostitute… Continuò a sorridere, mentre il cocchiere lo scrutava con
simulata indifferenza. “Spettacolo gradevole, signore?” “Tu non immagini Louis.
Tu non immagini affatto” rispose questi, ripensando agli scorci di pelle
candida, alle spalle nude contornate da ciocche nere che erano rimasti impressi
nella sua retina.
Il paesaggio cambiò in modo repentino. La campagna lasciò
spazio a case sempre più grigie e ravvicinate, finché non divennero palazzi
alti, quasi ammonticchiati gli uni sugli altri. Kate represse un brivido,
guardando dal finestrino: non poteva proprio sopportare quella visione
desolante. Amava troppo la sua campagna…solo ora, riflettendoci, si rendeva
conto che sposando un Lloyd avrebbe dovuto dire addio per sempre alla sua vita
pressoché rurale. Inoltre Tom avrebbe sicuramente venduto la magione per
trasferirsi in centro… tutto il suo mondo stava per crollare come un castello di
carte e lei non poteva fare niente per impedirlo. Heather le strinse la mano,
sorridendo incoraggiante, quasi percepisse i suoi pensieri. “Manca poco ormai.
Mia zia ti adorerà, non può essere diversamente…mio zio vedrà in te solo il
titolo e nient’altro, ma se starai tranquilla e frenerai un po’ la lingua vedrai
che non ci saranno sorprese. Dopo le presentazioni ho pensato di portarti a
conoscere le ragazze con cui studio francese, te le ricordi, vero? Così avremo
modo di scappare e prepararci per la cena” concluse, strizzandole l’occhio.
“Tu starai con me, vero? Non mi lascerai da sola in qualche
negozio a dibattermi fra trine e merletti mentre tu ti pavoneggi con i tuoi
amici, vero?” nonostante le parole poco lusinghiere, il tono mostrava tutta
l’apprensione che Kate sentiva. “Ovviamente. E poi io non mi pavoneggio: non ne
ho bisogno, sono sempre gli altri a mettermi al centro dell’attenzione!”.
Quest’ultima osservazione sollevò tante e tali proteste
che le due non si accorsero di essersi inoltrate nei quartieri alti della City,
dove le case erano molto più grandi e distanziate, le architetture armoniose, i
marmi bianchi che lasciavano filtrare aria e luce. Se luce si poteva definire
quella foschia…
“Se le Vostre Altezze vogliono scendere, il Vostro umile
servitore non attende che permetterVi di farlo” disse un ironico Julian aprendo
la portiera. Mentre la cugina lo sorpassava con sussiego, non poté impedirsi di
fissare Catherine, così diversa senza i comodi abiti che indossava sempre a casa
propria. Ora, con un abito di taffetà turchino ed il mantello bianco ricamato
che Heather le aveva prestato, sembrava una vera e propria lady, pronta per il
teatro, più che ad una semplice colazione. “Qualcosa non va, Julian? Sono forse
sporca sul viso?” domandò la ragazza appoggiandosi al suo braccio per scendere,
imbarazzata dal suo sguardo penetrante.
“Al contrario Catherine, siete incantevole” rispose lui
sottovoce, pilotandola al sicuro sul selciato.
“È tutto così strano…mi sento una di quelle eroine dei
romanzi. Ho sempre fantasticato sulle loro avventure” proseguì lei, continuando
a sussurrare.
“Oh, ma voi non siete in una di quelle fantasticherie,
Catherine, questo è tutto reale” e la lasciò con un baciamano, per recarsi nello
studio del padre. Le due ragazze, lasciati i bagagli all’ingresso, vennero fatte
entrare nella sala da pranzo apparecchiata. Fu davvero una colazione
imbarazzante. Dopo averla ricevuta con tutti gli onori, Mr. Lloyd parve
dimenticarsi di lei e si ritirò nell’ufficio per discutere di qualcosa col
figlio. Al contrario Mrs. Lloyd continuava ad interrogarla sulla sua vita,
chiedeva notizie della madre, bersagliandola di occhiate che fecero perdere
l’appetito alla povera ragazza. Inoltre, Bonnie, una curiosa scimmietta che il
signor Lloyd aveva fatto portare in casa come animaletto da compagnia, non fece
che saltare per la stanza, piombandole in grembo mentre mangiava e tirandole i
capelli. Non poté trattenere un sospiro di sollievo quando, alzatisi da tavola,
tutti se ne andarono per i fatti propri, inclusa Heather, reclamata dalla sarta
di casa per sistemare alcuni vestiti. Catherine, lasciata sola e libera di
girare per la grande casa, prese a curiosare qua e là per l’ampio salone,
fermandosi ad osservare i ricchi tappeti che coprivano il pavimento di marmo,
fischiettando fra sé.
“Sete convinta che fischiare sia degno di una donna di
classe?” le chiese Julian spuntando all’improvviso dietro di lei. “Per l’amor di
Dio, mi avete spaventata a morte!” lo accolse la mora, il tono di voce scosso.
“Non volevo, ve lo assicuro: i miei genitori sono persone
molto indaffarate e mia cugina temo avrà da fare per qualche ora ancora. Mi
chiedevo se vi andasse di fare una passeggiata con me, per passare il tempo”.
“Non credo sia il caso – rispose lei guardando altrove –
forse da noi in campagna si è più elastici, ma non credo che farmi vedere al
vostro braccio in giro per la città potrebbe giovarmi. Non siamo ancora
ufficialmente fidanzati e…” la voce le mancò, mentre arrossiva, senza un vero
perché. Si guardò intorno, sperando che nessuno fosse nei dintorni e poi si
avvicinò all’uomo che le parlava. “Voi avete sempre fatto una vita piuttosto
libertina, o così ho sentito dire. Siete sicuro di volervi sposare? O lo fate
solo perché ve lo impone vostro padre? – chiese, divenendo se possibile ancora
più scarlatta – non intendo unirvi a me personalmente, vorrei solo sapere se è
qualcosa che desiderate fare, o se è solo un’imposizione. Tutto qui. Forse ho
letto troppi romanzi, ma credo che il matrimonio debba essere almeno un po’
voluto, anche se poi non si sta con la persona che si ama, magari”.
“È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in
possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie *” rispose
lui a occhi chiusi, le mani dietro la schiena come un bambino che reciti a
memoria la sua lezione. Kate aprì la bocca sbigottita e Julian, riaprendo gli
occhi, poté godersi compiaciuto la sua sorpresa. “Non so se voglio sposarmi –
rispose poi, facendosi serio – soprattutto, ammetto che il nostro matrimonio è
voluto da mio padre, io nemmeno sapevo della vostra esistenza fino a qualche
mese fa. È pura convenienza o, almeno, dovrebbe esserlo. Ma adesso che vi ho
conosciuta Catherine, non posso fare a meno di apprezzarvi. Non so se sia
amore…non mi sono mai innamorato, non ne ho mai avuto bisogno. Però so che vi
stimo molto, mi diverte la vostra indole ribelle e la vostra intelligenza. Non
ho mai amato leggere, non ne faccio mistero, so di poter offrire una ben scarsa
conversazione. Ho solo tentato di colmare questa lacuna e, vi dirò, in effetti
quei romanzi non sono poi tanto male. E nemmeno voi, Catherine, al contrario
siete sempre più affascinante”. Il discorso, divenuto via via più accalorato non
sortì l’effetto sperato: Bonnie, arrampicatasi sull’imponente lampadario di
cristallo, tendeva le zampine cercando di rubare il cappello dell’uomo,
calamitando l’attenzione di Kate che non potè non ridere delle buffe smorfiette
dell’animale. Abbassando poi lo sguardo e vedendo il viso dell’altro rimasto di
sasso, si riprese abbastanza da indicare l’alto con un dito permettendo a Julian
di riafferrare il cappello prima che potesse essere rubato.
La risata repressa
della ragazza lo portò a sorridere a sua volta, mentre si avvinava portandosi a
pochi centimetri da lei. Istintivamente avrebbe voluto prenderla lì, baciarla,
portarla nella sua camera e toccare quel giovane corpo che aveva solo potuto
spiare dalla carrozza. Si trattenne, ricordandosi davanti a chi si trovava,
sopraffatto da un miscuglio di desiderio e tenerezza che quella giovane, così
giovane da poter essere sua figlia, gli ispirava. Sollevò la mano, carezzandole
il profilo con il dorso, dolcemente. La reazione di lei lo lasciò basito:
afferrata la sua mano, Catherine la strinse forte e si sporse sulle punte per
poggiare le labbra sulle sue. Arrossì per l’ennesima volta, stupita essa stessa
per l’audacia del suo gesto. “Nemmeno io ero soddisfatta della scelta della mia
famiglia, Mr. Lloyd, ma forse inizio a ricredermi”. Rimasero a fissarsi,
tenendosi per mano. “Catherine, datti una rinfrescata, dobbiamo andare a
lezione e non ho intenzione di presentarti alle mie amiche conciata in questo
modo” sibilò Heather dalle scale, acida. Scese velocemente e si frappose tra i
due, tirando l’amica per la manica. “Dai su, devo sistemarti i capelli e
spiegarti cosa dire, non vuoi assolutamente apparire provinciale, vero?” e la
trascinò via, incurante del lampo d’ira passato negli occhi del cugino. Sapeva
di aver interrotto qualcosa…e ne era ben felice. Ma non poté impedire alla
propria - seppur debole, bisogna ammetterlo - coscienza di farsi largo fra i
vari pensieri, portandola a chiedersi quanto si sarebbe fatta male quando, alla
fine, immancabilmente, Catherine avrebbe scelto Julian e non lei. |
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Capitolo 10 *** Nove ***
Nuova pagina 1
9.
“Ci saranno molte ragazze a lezione?” chiese Kate, divenuta
timida fuori dal proprio regno.
“Circa una decina, ma noi siederemo in fondo, così
Monsieur Richard non ci chiamerà, stai tranquilla. Certo, se vorrai potrai
leggere, ma non sei obbligata a seguire…sii te stessa e non preoccuparti, penso
a tutto io”. Scesero dalla carrozza ed entrarono in un edificio di pietra
grigia, anonimo quanto tutti gli altri, tranne per la folla di signori e
signorine che salivano la breve scalinata. Kate tentò di sorridere all’amica,
senza riuscirvi: nonostante le sue rassicurazioni, quell’impatto con la vera
società londinese, non quella rarefatta dei balli e delle sale da the, la
terrorizzava più dei topi, dei ragni e delle altre bestie che tanto avevano
inquietato Heather in campagna. Salirono anche loro, dopo un lungo corridoio
finalmente la classe. Nel momento in cui mise piede in aula, Catherine arrossì
vistosamente. Tutti i presenti – circa una dozzina di ragazze elegantissime,
piene di nastri e gale, ferme in pose piene di sussiego ed importanza, ed il
loro docente – si erano voltati per osservarla.
Non guardano te, stupida, guardano Heather, è molto che
non si fa vedere, saranno curiose tentò di dirsi, ma era innegabile che
l’oggetto della loro attenzione fosse proprio lei. Un imbarazzante silenzio
permeava la stanza. Heather salutò qualche conoscente, sorrise con sufficienza
alle risposte fornite alle sue domande e si sedette, trascinando l’amica con sé.
Questo sembrò spezzare l’incantesimo: subito tutte ripresero a chiacchierare
animatamente fra loro, ignorando la mano che Kate aveva volenterosamente
allungato alle due ragazze più vicine a sé per salutarle. Monsieur iniziò
a spiegare un brano di francese. Le ragazze continuarono a cicalare come se
niente fosse e l’uomo, sospirando rassegnato, si limitò ad illustrare brevemente
gli accadimenti alle poche fanciulle interessate e sedute in prima fila. La zona
in cui era seduta Kate sembrava il centro di tutta la gazzarra: venivano
scambiati sacchetti colmi di dolciumi e arance, le ragazze parlavano senza posa
dei loro cavalieri ai balli e delle amiche così fortunate da essere già sposate.
Alcuni misteriosi bigliettini passavano di mano in mano, senza però mai arrivare
alla nuova arrivata.
Ci volle quasi un’intera ora prima che un’allieva, Sarah,
decidesse di degnare Catherine della propria attenzione: le chiese notizie del
luogo dal quale veniva e della sua famiglia. Quando sentì del titolo nobiliare
di suo padre, si affrettò a mostrarsi piena di gentilezza ed interesse,
informandosi su cosa amasse fare e dirottando la conversazione generale sui
romanzi sentimentali che, sorprendentemente, entrambe amavano. Indecisa se
essere divertita da quella palese ipocrisia od esserne disgustata, Catherine si
girò verso l’unica amica che avesse in quella città, ma non la trovò.
Approfittando della sua distrazione, Heather si era appartata in un angolo della
stanza con altre due fanciulle. Una, castana, era degna di nota solo per la
quantità esagerata di anelli e bracciali che ornavano le sue mani; per il resto,
era del tutto scialba. L’altra invece calamitò l’interesse di Catherine, che si
affrettò a chiederne il nome alla sua vicina.
“Quella con l’abito di taffettà turchese? Quella è
Elizabeth. È davvero una ragazza a modo, ottima musicista, dopo potrai ammirare
la sua maestria al piano – cinguettò quella in risposta, cambiando, poi,
improvvisamente umore – se però devo essere onesta… ecco, diciamo che non credo
dovresti andare al di là della semplice cortesia. Ha un carattere abbastanza
ombroso”. Sconvolta da quell’inaspettata sincerità, Catherine concentrò ancora
di più l’attenzione sulla quella figura dai capelli corvini, la carnagione
insolitamente scura.
“È spagnola – proseguì Sarah – o meglio, sua madre lo è. Il
padre è il colonnello McCarter, certamente avrai sentito parlare delle terre che
possiede nel Devonshire”.
“Certamente” concordò Kate, senza in realtà aver ascoltato
una singola parola. Elizabeth si era girata e la stava fissando. Era ammaliante.
Prima ancora di accorgersene, Catherine si alzò e si unì al terzetto. Elizabeth
non aveva smesso di fissarla, né aveva abbandonato la posa languida con cui si
era appoggiata al muro. “Lady Lindon, è un piacere conoscervi” si presentò
l’altra, accennando un inchino. Catherine sorrise e rispose con molta
affabilità. Heather sembrava preoccupata. Elizabeth la ignorò, semplicemente.
Continuò a discorrere con le altre due dei ragazzi del collegio di fronte –
ragazzi che sembrava conoscere approfonditamente – e dello studio di modista che
aveva visitato il giorno prima.
“Ho comprato un cappellino assolutamente delizioso, coperto
di pizzo delle Fiandre… pensavo di usarlo al ballo di stasera. Voi ci sarete,
lady Lindon?”. Messa improvvisamente al centro dell’attenzione, Kate si sentì
impacciata. “Non credo avrò la possibilità, questa sera…” “Abbiamo già un altro
programma, Julian accompagnerà me e Catherine a teatro”. “Delizioso,
assolutamente delizioso… e dopo chi vi accompagnerà, quando Julian si
accompagnerà alle sue usuali compagne?” il ghigno rimarcò il carattere
pungente della battuta, se ve ne fosse stato il bisogno. Catherine strinse gli
occhi, sentendo l’irritazione per quella ragazza eguagliare il fascino che
esercitava. “Non mi mischierò con gente che critica in maniera così villana
persone non presenti. Julian Lloyd è un uomo di rara urbanità, deciso e
cordiale, non permetterò a una frivola ragazza di insultarlo così palesemente in
mia presenza. Dovreste vergognarvi. Heather, andiamocene da qui, facciamo una
passeggiata: sarò pure una provinciale, ma mi sono stati insegnati
rispetto e decoro. A quanto pare, fra le varie mode londinesi, queste passano
inosservate”.
Heather sorrise. Elizabeth parve assai stupita che qualcuno
osasse pronunciarsi contro un suo parere. Osservò la nuova arrivata con maggiore
interesse e, all’improvviso, sorrise. “Certo, sono stata una sciocca. Vi prego
di perdonarmi se ho urtato la vostra sensibilità. D’altra parte una donna come
voi saprà che un uomo ha certe necessità… che anche le donne hanno. Per
questo vi invitavo alla festa di stasera, lì potrete vedere molte cose che
giudicherete di sicuro affascinanti… siete proprio sicure di non poter venire?
Magari dopo il teatro? La mancanza di Heather sarebbe un grande dolore, per
tutte noi”.
Un repentino silenzio gelò la stanza. Sembrava che persino
l’insegnante stesse origliando quella conversazione. Heather abbassò lo sguardo,
imbarazzata. Elizabeth sorrise. “Ma cose, Heather, tu che arrossisci! Qualche
mese fa ti ho vista con Trix e non stavi certo giocando a twist, ma eri
imperturbabile!”. Risatine. La castana piena di anelli – Jane, che nome
insignificante – non aveva trovato modo migliore di intervenire che interrompere
il discorso con quella risata inopportuna. Heather aveva gli occhi lucidi.
“Andiamo”. Catherine la prese per mano e ripercorsero a ritrovo la strada fatta
poco più di un’ora prima. Si avviarono a piedi, la carrozza non le aspettava
certo lì a quell’ora. Il tempo, il moto e l’aria pungente giovarono a Heather,
che ritrovò la propria compostezza, ma non l’allegria che aveva caratterizzato
il suo temperamento sin dall’arrivo nella capitale. Attraversando le strade
videro ogni genere di spettacolo: gente che chiedeva l’elemosina, donne che
vendevano ogni genere di mercanzia, il loro corpo incluso, bambini sporchi che
correvano di qua e di là. Decine di carrozze si susseguivano su strade piene di
pozzanghere e sporcizia. Tanto erano immacolate le facciate delle case, tante
appariva sordido e grigio il contesto in cui si trovavano.
“Giornata sgradevole, non trovi? Non so davvero come potrò
abituarmi a questo clima, dopo aver sposato Julian… a meno che non sia clemente
ed acconsenta a prendere dimora nello Hampshire. Non troppo sulla costa, però,
ci sono troppe persone inopportune, soprattutto nei mesi estivi… sarebbe bello
acquistare una tenuta vicina a quella di mio fratello. Non credi? Potremmo
viverci tutti insieme, in primavera, quando l’erica fiorisce. Ti è piaciuta
l’erica in fiore, no?”. Ogni tentativo di conversare cadeva nel vuoto.
Camminarono in silenzio per una buona mezz’ora, addentrandosi nella City.
Arrivate vicino alla residenza dei Lloyd, Kate prese coraggio e si decise a fare
le domande che le ronzavano in testa sin dal momento in cui avevano lasciato la
scuola.
“Heather… fermati. Spiegami cosa voleva dire quella
ragazza. Perché parlare di… delle necessità maschili di Julian davanti a
me? Perché è stata così sgarbata? E cosa intendeva quando – non trovò le parole
– ha alluso a te?”.
Quando la bionda alzò il viso a Catherine parve di essere
tornata indietro nel tempo: gli occhi violetti erano gelidi, distanti, le labbra
contratte in una smorfia. “Lo fa perché è una ragazza malevola, perché è
invidiosa di tutto e tutte. Ignorala, quando parla di Julian: prima di
accordarsi con tuo fratello, c’era l’impegno non scritto di farglielo sposare. E
poi le piaci, questo complica tutto – proseguì abbassando la voce – per questo
non andremo alla sua festa”. “Le piaccio? – domandò incredula l’altra – com’è
possibile?”. “Sei la novità, Kate – lo sguardo le si addolcì – sei nuova e
bella, qualcosa di insolito che si comporta in maniera esotica, ai loro occhi.
Non sei la solita damina dedita al ricamo, impegnata a parlottare alle spalle di
tutte le altre. Sei forte, sei volitiva. Le hai fatto capire che no ti saresti
lasciata mettere i piedi in testa. Come potrebbe non innamorarsi di te?”
l’ultima frase fu solo un sussurro. “Oh, ti prego, non parliamone più!” proseguì
Heather, vedendo l’altra aprire la bocca per ribattere. Catherine l’assecondò.
Una ridda di pensiero, però, le vorticavano in testa. C’era una domanda a cui
l’amica non aveva risposto, una domanda che diventava ancora più importante alla
luce delle sue rivelazioni. Una domanda tanto importante per Kate, che…
“Hai ragione – bisbigliò a sua volta, quasi che il solo
alzare la voce rischiasse di spezzare il fragile equilibrio raggiunto – non
parliamone più. Su, forza, portaci a casa. Dobbiamo pensare alla mise più
adatta per il teatro. E magari anche per dopo si disse in cuor suo, ben
decisa a capire una volta per tutte cosa le nascondesse l’amica.
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Capitolo 11 *** Dieci ***
Nuova pagina 1
Volevo farmi perdonare per l’immenso buco dovuto a vacanze
e esami. È mooolto più lungo del solito :)
enjoy!
__________________________
10.
“ Kate, svegliati, ti prego, svegliati! Apri gli occhi
Catherine… Catherine Lyndon, svegliatevi immediatamente!” L’ultimo appello, dato
in concomitanza a un potente schiaffo, sembrò sortire un certo effetto. Kate
batté gli occhi e, lentamente, sembrò tornare in sé. Si trovò davanti il viso
sfocato dell’amica, ma poté comunque notare quanto fosse scarmigliata, il viso
arrossato e gli occhi gonfi di chi sta per piangere o ha già pianto.
“Oh, grazie a Dio!” proruppe Heather in un singhiozzo,
abbracciandola stretta. Catherine non capì: cos’era successo? Ricordava il
teatro, la vicinanza dell’amica, le sue spiegazioni, la decisione di andare alla
festa di Elizabeth per affrontarla e obbligarla a smettere il suo ricatto.
Arrivata alla festa… i colori, i profumi… poi, più nulla. Le doleva la testa. Se
la toccò, ritraendo ben presto la mano sentendo un grosso bernoccolo: era sporca
di sangue, poche tracce già pressoché seccatesi. “Heather… cos’è successo?”
“Heather, cos’è successo?”. Rientrate in casa, dopo aver
affidato alla servitù i soprabiti sporchi e inumiditi da una pioggia lieve e
nervosa, le due ragazze si erano dedicate all’operazione più delicata: abbinare
le decine di abiti e accessori, in modo da combinare la mise perfetta.
Heather si era via via tranquillizzata, tornando sorridente e serena. Fu proprio
mentre avvicinava alcune rose di crespo ad un cappellino per studiarne l’effetto
complessivo che Catherine decise di sferrare il suo attacco.
“A cosa ti riferisci?” rispose la bionda, senza spostare lo
sguardo dall’effetto che i delicati petali bianchi creavano sulla stoffa blu.
“Mi riferisco a te e Elizabeth. È evidente che qualsiasi cosa intendesse oggi…
non voleva tanto colpire me, quanto fare uno sgarbo a te. La giustificazione che
mi hai dato può forse spiegare la sua gelosia nei miei confronti: le ho rubato
un buon partito, anzi, ottimo. Ma cos’ha contro di te? E perché le permetti di
parlarti in quel modo?”. Il sorriso rimase congelato sulla bocca della bionda.
Il silenzio si fece pesante. “Non puoi capirlo perché è qualcosa che non rientra
nel tuo mondo. Dove sei cresciuta tu non c’erano tutti questi intrighi e non…”
“Catherine, cugina! Su, correte, venite a vedere cosa vi ha
portato il vostro Julian, per il teatro!”.
Calò ancora una volta il silenzio, mentre i passi del
giovane si facevano più forti, tanto più si avvicinava alle stanze delle
ragazze. Il viso di Heather tradiva un certo sollievo, che l’eloquente sguardo
di Kate cancellò all’istante. “A teatro. A teatro ti spiegherò tutto, va bene?”.
La carrozza le scortò sin sotto l’ingresso del teatro. Il
cartello attirò immediatamente l’attenzione di Kate. “Il castello di Otrento
… è un’opera nuova?”. Julian la guardò stupefatto. “Ma come, una come voi
che divora libri, non ha mai letto il romanzo di Walpole? Profezie, morti,
strani intrighi… se a scuola mi avessero permesso di leggere i romanzi gotici,
invece dei malloppi sulla storia patria, forse avrei imparato anche io ad amare
maggiormente la letteratura”. “Non saprei, non è un genere che prediligo. Trovo
più stimolante leggere dell’animo umano che di sciocchezze come spettri e
mostri… sei d’accordo con me, Heather?”. La bionda annuì: non aveva più aperto
bocca dalla discussione in camera. Solo Julian ero riuscito a strapparle qualche
parola, ma poi aveva finito per disinteressarsi della cugina, troppo assorbito
dal compito di mostrarsi in tutta la propria magnificenza a Catherine. “Vedrete,
questo dramma riuscirà a farvi cambiare idea… ma, ditemi, il mantello che vi ho
portato è abbastanza caldo?” “Oh, sì, è davvero meraviglioso, Julian, non so
come ringraziarvi” rispose Kate, stringendosi addosso la cappa foderata di
morbida seta: nonostante la stagione estiva, le serate della City potevano
essere particolarmente fresche e ventose. “Mi basta che continuiate a sorridere
così, è tutto il ringraziamento di cui necessito”. Catherine arrossì davanti a
tale lusinga, mentre Heather non poté trattenere una smorfia scettica. Sorpassò
i due compagni, dirigendosi velocemente al palchetto riservato alla sua
famiglia. “Presto, sta per iniziare… Julian, non ti fermi?” “Ho visto alcuni
compagni di studi nell’atrio, vado a salutarli, poi tornerò senz’altro: non
posso permettermi certo di lasciare sole due così splendide dame” e, con una
riverenza, si allontanò. Catherine continuò a fissare con un sorriso il
corridoio. “Ti è già passata la curiosità? Perché quando inizierà lo spettacolo
vorrei poterlo seguire senza fastidiose domande”. Il tono improvvisamente ruvido
della londinese la colpì. Ancora una volta, Heather sembrava essere di malumore,
mentre fino a pochi istanti prima rideva beata. Avrebbe voluto risponderle a
tono, ma domò la stizza. “certo che mi interessa… provo un profondo affetto per
te, voglio sapere perché quella malvagia ragazza ti tratta in maniera così
sgarbata e come posso aiutarti a toglierti d’impiccio”. Il palchetto era buio:
la poca luce era tutta concentrata sulla scena, dove il presentatore stava dando
il via alla rappresentazione. Catherine avvertì le mani di Heather sulle sue, il
suo corpo avvicinarsi sedendosi d’appresso. Il respiro dell’amica fra i capelli
le diede un brivido. Heather iniziò a sussurrarle all’orecchio, dolcemente. “Hai
presente i romanzi che ami tanto, Catherine? Le eroine che con umiltà e pazienza
riescono a conquistare l’amore del principe e una famiglia, l’agiatezza e la
sicurezza di sé? Vedi, la tua vita è stata così: sei cresciuta in campagna
protetta da un padre che ti amava, perfino adesso tuo fratello di cui tanto ti
lamenti non fa che pensare alla tua sicurezza. Sei stata libera quanto volevi,
coccolata quanto volevi. Per te la vita è sempre stata in bianco e nero,
assoluti, bontà e cattiveria. Non sei mai dovuta venire a patti con nessuno, non
hai mai dovuto fare cose che non avresti voluto, non hai mai, mai dovuto
nasconderti dietro una maschera perché ciò che provavi era inappropriato…” La
mora si voltò, sfiorando con il proprio naso quella dell’altra. “Inappropriata?
Come potresti essere inappropriata? So delle tue difficoltà famigliari, mi hai
già raccontato che non è stato facile per te farti accettare da tuo zio, ma non
capisco come questo possa…” le labbra di Heather, coprendo le sue, la fecero
tacere. Erano morbide, lisce, terribilmente fredde. D’istinto, Catherine aprì
leggermente le sue, nel tentativo di scaldare quelli che parevano due minuscoli
pezzi di ghiaccio. Non si aspettava certo di sentire la lingua della ragazza
insinuarsi nella sua bocca: leggera, passò sulle sue labbra, poi si ritrasse,
tanto velocemente che per un attimo Kate credette di essersi immaginata tutto.
Heather tornò a premere le proprie labbra su quelle dell’altra, forse aspettando
un segno, qualcosa che le permettesse di andare avanti. Poi, con un piccolo
sospiro sconfitto, si scostò. “Capisci ora? È inappropriato innamorarsi di
persone del proprio sesso. Anzi, più che inappropriato, è illegale ed immorale.
Dio mi punirà” recitò con una smorfia sarcastica. Kate non seppe come
rispondere. Da un lato quanto era appena successo l’aveva non poco turbata –
quello che aveva detto l’amica era vero: era cresciuta in un contesto di
campagna in cui non aveva mai sentito parlare di amore, fra persone dello stesso
sesso. L’amore era quello che portava un uomo a ingravidare una donna, per avere
un erede. Tutto il resto era sodomia, e la sodomia era un peccato mortale. Ma
come poteva, Heather, così bella, essere una peccatrice e…? E poi c’era altro.
L’oscura sensazione di aver sempre desiderato quel bacio, di aver sognato il
ripetersi della scena migliaia di volte nella propria mente. Tutto questo la
fece rimanere in silenzio, con gli occhi chini. Non impiegò molto, però, a
capire che il suo comportamento aveva ferito l’amica. “non… Heather, tu non sei
sbagliata – le disse di slancio, afferrandole le mani – sei una persona davvero
fantastica e non posso concepire che tu ti ritenga sbagliata… pensa a me, in
quanti reputano errato crescere una figlia con la libertà che mi è stata
permessa? Eppure è il mio essere così che mi distingue! E no, non posso credere
che tu sia inappropriata. Forse quello che senti è solo un momento, quando
troverai l’uomo giusto o tuo zio sceglierà il miglior partito per te potrai…”
“Io no voglio che mio zio mi scelga un uomo! – ribattè stizzita la bionda – non
l’hai capito? Non amo gli uomini, mi disgusta l’idea di sentire le loro sordide
mani addosso! Sono bestie incivili capaci solo di mangiare, montare donne e
cavalli e pavoneggiarsi in giro, tronfi nel loro grasso e nelle loro malattie!
Catherine, non puoi capire quanto lerci siano gli animi degli uomini di
Londra!”.
L’altra ristette. Erano troppe le cose di cui avrebbe
voluto parlare, ma non era il luogo né il momento. Improvvisamente, però, le
venne un’illuminazione. “Dunque è questo quello cui Elizabeth alludeva? Lei sa
che… provi una forte simpatia per le donne?”. Heather non potè trattenersi dal
sorridere del pudore di Kate. “Sì, è esattamente per questo… diciamo che anche
lei condivide in parte le mie inclinazioni. Ma quello che per me è sentimento…
per lei è solo un gioco, qualcosa che scacci la noie delle sue giornate sempre
uguali. E quando ho voluto togliermi dal gioco, lei ha iniziato a farmi capire
chiaramente che non le sarebbe affatto pesato diffondere in giro la mia
storia…”. La risposta aleggiò nell’aria, mentre il viso di Kate, di un pallore
sbigottito, si accendeva di rosso. “Come… come!? Ma non si vergogna? Una
signora non dovrebbe mai, mai, spargere maldicenze! Vieni con me” e,
così dicendo, raccolse i propri effetti e si dispose a lasciare il teatro.
“Kate, cosa diamine stai facendo? Lo spettacolo è quasi a metà!” “Appunto,
Julian sarà troppo impegnato con gli amici e possiamo sempre lasciargli un
valletto con l’incarico di informarlo della nostra nuova destinazione. Non
permetterò – disse, fermandosi improvvisamente e fronteggiando l’altra – che una
smorfiosetta si permetta di calunniare una mia amica! Forse non potrò affrontare
le cause con mio fratello, ma di certo lo spirito avvocatesco di mio padre non
si è trasmesso solo in linea maschile, detesto i soprusi!” e scese velocemente
per la scalinata posteriore, diretta alle carrozze. Heather la seguiva da
presso.
“Ma cosa…?” Julian, sbigottito, vide le sue dame fuggire ben prima del termine
della rappresentazione.
“Ehi, ma quella non è la tua promessa? Se fosse mia, non le
permetterei di girare con tua cugina, non si sa mai, potrebbe…” “Taci. Osa
ancora una parola e sarà la tua ultima” sibilò in risposta Julian,
improvvisamente teso e preoccupato. Che fosse successo qualcosa? O, davvero, che
le due se ne stessero andando per altre loro faccende?”.
“Ho sentito che la figlia del colonnello McCarter darà una
festa questa sera. Magari si sono annoiate ed hanno deciso di andare là…” cercò
di farlo ragionare un amico, con tatto. Jul fece un brusco cenno d’assenso,
senza nemmeno voltarsi. Da un lato voleva fidarsi della cugina, ma dall’altro la
conosceva bene… meglio delle dicerie maschili dei suoi compagni, di sicuro. Alla
fine, decise di concederle il beneficio del dubbio, almeno per qualche ora. “Che
ne dite? La vecchia Floris sarà aperta?” “Ahahah, che domande, quella è sempre
aperta, come le gambe delle sue ragazze…” e così, ridendo, si diressero verso il
loro bordello preferito.
“È immensa!”. L’espressione di sbigottimento sul volto di
Kate era davvero buffa. Tutta l’ira che sino ad allora l’aveva alimentata
evaporò davanti alla maestosità del palazzo di Lord McCarter, militare al
servizio della Corona. Non solo l’edificio stesso era imponente, ma gli addobbi
vegetali con cui era stato decorato l’ingresso, le fiaccole accese ovunque e il
rumore di centinaia di voci che provenivano dall’interno, davano al tutto
un’aura di grandiosità difficilmente eguagliabile. “Catherine, siamo ancora in
tempo per andarcene, non puoi permetterti di venire qui ed insultare la padrona
di casa come se nulla fosse!”. Kate la congelò con una sola occhiata,
sporgendosi verso il maggiordomo per farsi annunciare. “Lady Lyndon e la
signorina Lloyd di Londra”. Tutti gli occhi della sala si puntarono su di loro.
Elizabeth, con un sorriso trionfante, si fece loro incontro, bellissima e
tronfia in egual misura. “È un piacere avervi qui! – le accolse con finta
urbanità – Prego, seguitemi, vi porto nella sala qui accanto dove teniamo i
rinfreschi… nel salone centrale invece si tengono le danze, spero di allieterete
della vostra presenza! In alternativa ho pensato ad alcuni tavoli per giocare a
twist e…” “Tacete, Miss McCarter”. Il tono di Kate aveva una leggera sfumatura
di comando che non ammetteva repliche. L’altra boccheggio, non sapendo come
reagire. “Vi consiglio di portarci in un salottino appartato dove si possa
parlare. Non credo vorrete essere redarguita davanti a tutta la folla dei vostri
ospiti, ma sappiate che se non mi darete tutta la vostra attenzione non esiterò
un solo secondo a farlo!”. Elizabeth soppesò le parole della mora, osservando
però Heather, che guardava la scena con aria impassibile. Alla fine socchiuse
gli occhi, indicando con un cenno della mano una porta sulla destra. “Prego,
seguitemi… Alice, saresti così cortese da sostituirti a me nelle danze?” la
ragazza interpellata annuì leggermente e sparì fra la folla di vestiti
multicolori. Le tre si spostarono un una stanzetta laterale, ben più piccola, ma
squisitamente arredata. Un piccolo braciere, in un angolo, diffondeva uno strano
profumo nell’aria. Catherine non lo riconobbe, ma avvertì come un leggero
capogiro. La stanza era in penombra, illuminata solo dal fioco bagliore di
alcune candele e dalle braci morenti nel caminetto. “Bene, Lady Lyndon… perché
mai dovreste redarguirmi? Che mai posso avervi fatto, nemmeno vi conosco…”
iniziò facendole il verso la padrona di casa, ritrovando, ora che non era in
pubblicò, tutta la sua spavalderia.
“Credo sappiate perché sono qui. Heather mi ha detto tutto
e non vedo come voi possiate davvero credere di nuocerle. È una mia amica e farò
quanto in mio potere per proteggerla…quindi vi ordino di smettere di
manipolarla, ricattarla e prendervi gioco di lei. Smettetela, o non sarà lei ad
essere svergognata davanti a tutti” sibilò Kate in risposta. Il sorriso
dell’avversaria già la innervosiva. “E di grazia, Milady… chi siete voi per
darmi ordini? Sono una vostra pari, non certa una sguattera, né la nipote di un
mercante che si dà arie di nobiltà, per non avendo un stilla di sangue blu nelle
vene. Per venire al primo punto, la vostra richiesta…beh, Heather – proseguì,
rivolgendosi alla bionda che era rimasta sulla soglia – non mi sembrava che
essere… che termine ha usato, la tua amica? Ah, sì, manipolata –
e, così dicendo, mosse le dita in maniera inequivocabile – beh, non mi sembrava
ti pesasse essere manipolata all’ultima festa, quella dello scorso
autunno…”. Una risatina, proveniente da un angolo buio, gelò tanto Heather
quanto Kate. Sforzando gli occhi, la mora potè distinguere quattro fanciulle
distese su un basso sofà, coperto di cuscini. Le quattro ancora ridacchiavano di
quella che doveva a loro apparire come una spassosa disputa. Perfino Elizabeth
sorrideva. Catherine era una ragazza forte, ma troppo diretta e poco avvezza
all’ironia e al sarcasmo metropolitani. Avvertendo la tensione della compagna –
non poteva vederla, ma era sicura fosse avvampata all’ultima affermazione di
Elizabeth – decise di fare ciò che meglio le riusciva: agire. Si avvicinò quindi
a Elizabeth, che non si tolse l’insolente sogghigno dal viso.
“Kate, basta”.
Heather lasciò la sua posizione in ombra. “Juliet, Jasmine,
Harriett … smettetela di ridere. Ora. Quanto a te… Beth, ti ho lasciata fare.
Perché… mi vergogno immensamente di essermi fatta ingannare da te. Credevo di
essere… ma a quanto pare mi sbagliavo… - alzò la testa, fissando direttamente
gli occhi neri dell’altra – ma se credi di poter gettare fango, sappi che ti
trascinerò in basso con me. Prima non avevo nessuno che credesse in me, adesso
invece so di poter contare su qualcuno. E mentre io, come ha brillantemente
fatto notare, sono solo la nipote di un uomo abbastanza ricco da poter pagare la
gente per tacere… credi davvero che tuo padre sopravvivrebbe allo scandalo?
Credi davvero che la Regina permetterebbe a un uomo incapace di governare la sua
stessa figlia, di governare le sue armate? Andiamo, Beth, chi ha di più da
perdere in questa guerra?”. “E tu? Verresti comunque cacciata. Come credi
vivresti?” “Oh, non temere: credo nell’amicizia di Kate – e, così dicendo,
strinse la mano dell’amica – e, soprattutto, ho scoperto di amare la vita in
campagna. Non credo che nessuno dei miei parenti si opporrebbe se decidessi di
ritirarmi a vita privata in una piccola tenuta nello Hampshire… e, una volta
sparita, non sarei più una ghiotta notizia. Lo sai, via dagli occhi…”. “Già,
esatto. E se mai le servisse denaro sa che potrebbe chiederlo a me – rispose
l’altra, ricambiando la stretta con un sorriso – sono certa che mio marito
non oserà abbandonare la sua diletta cugina”. Elizabeth soppesò le loro parole
in silenzio. Una smorfia lasciò capire quanto prendesse sul serio quanto appena
detto, e quanto tutto ciò le desse fastidio: era una ragazza cresciuta nella
convinzione di avere sempre la ragione dalla propria parte. Essere la figura
debole di una conversazione era qualcosa di nuovo e fastidioso. “Perfetto –
grugnì alla fine – d’accordo, Heather, se vuoi più essere mia amica, d’accordo,
sarò abbastanza matura da non prendermela con te e conserverò i nostri segreti
come ricordo della nostra simpatia”. Si voltò, aprendo un basso
armadietto ed estraendone una bottiglia piena di liquido scuro. “Vogliamo fare
come i nostri uomini? Brindare al raggiungimento di un accordo soddisfacente per
entrambe le parti?”. “Non credo sia il…” “Perché no?” la interruppe Catherine.
Heather, finalmente, si concentrò sull’amica: era strano
che avesse parlato così poco, durante il battibeccò, lei che era apparsa così
decisa in teatro. Anche la voce era strana, sembra illanguidita da qualcosa, ma…
D’improvviso, capì. “Harriett, è oppio quello che state bruciando?” al lento
assenso dell’interessata – che ancora non aveva smesso di ridacchiare – l’altra
inorridì. Si voltò mentre Catherine portava alla bocca il bicchiere, colmo di
un’inconfondibile liquido verdastro. Tossicchiò. “È molto forte! Cos’è? Ho già
bevuto del whiskey, ma questo è molto più…” “È assenzio, la bevanda dei poeti.
Lo faccio portare da Parigi dove ne fanno consumo tutti gli artisti… anche se,
devo ammettere, ho appreso qui a Londra a correggerlo con alcune gocce di
laudano”. A poco servì l’intervento di Heather che buttò a terra il bicchiere,
rompendolo in mille pezzi. Il danno era fatto. Già poco abituata all’alcol e
indebolita dall’oppio, Catherine iniziò ben presto a dondolare su se stessa,
ridacchiando. “Sei pazza? Laudano! Neanche i meno morigerati mettono il laudano
nell’assenzio, Beth!”. Heather prese per un braccio l’amica, cercando di
forzarla a sedersi su uno dei grossi cuscini posti a terra. “cosa volevi fare?
Portarla fuori ubriaca? Far vedere quanto poco conti la sua parola?” “Una cosa
del genere, sì – rispose Beth, stranamente seria – ma non dovrebbe fare effetto
così velocemente… aveva mai fumato oppio?” “Certo che no! Per l’amor del Cielo,
Beth, credi che abbia mai potuto fumare oppio se ogni volta che è venuta a
Londra era con il padre?”. Erano tanto intente ad urlare da non accorgersi di
Catherine che, avvicinatasi alle ragazze sul sofà, iniziava a spogliarsi. “Posso
sdraiarmi con voi?” chiese timidamente. Quelle risposero con un sorriso fatuo,
lasciandole un piccolo cantuccio. Fu un attimo. Inciampata nella pesante veste
di broccato, Kate perse l’equilibrio, sbilanciandosi all’indietro. Cadde. “Hai
visto cosa hai fatto?” “Non è certo colpa mia se basta un goccio per farla
ubriacare! Più che altro mi meraviglio che una come te possa divertirsi in
simile compagnia: quella ragazza è più ingenua di una bambina!” “Non è una
bambina, ha solo avuto un’educazione da genitori che l’amavano, a differenza
tua!” “Anche tua, se proprio vuoi accusarmi, no?”. Andarono avanti a
battibeccare per un po’. Poi Elizabeth si bloccò, fissando la sagoma ancora per
terra. “Perché non si rialza?” Si avvicinarono, allarmate. Heather carezzò il
viso dell’amica e ritrasse la mano sporca di sangue. Boccheggiò, incapace di
urlare o fare alcunché. Elizabeth sembrava nelle medesime condizioni. Poi cacciò
un grido, si avvicinò al petto della ragazza e accostò l’orecchio alla sua
bocca. “Dio santo, non respira! Heather, non respira, cosa possiamo fare, mio
padre mi ucciderà, dobbiamo chiedere aiuto, dobbiamo…” “Va di là in sala e cerca
un medico! Manda subito i servi a chiamare una carrozza!”. La padrona di casa
obbedì. “Catherine, svegliati. Andiamo Kate, svegliati ti prego”. Non sapeva
cosa fare. Servivano i Sali, ma dove trovarli? E non poteva lasciarla. Prese una
delle coperte sul sofà, ignorando i lamenti delle ragazze nude ce si trovavano
sotto si essa. Coprì l’amica, tirò le tende e le spalancò per far entrare l’aria
fredda e pulita della notte. Poi si sedette accanto a Kate, continuando a
chiamarla piangendo.
“ Kate, svegliati, ti prego, svegliati! Apri gli occhi
Catherine… Catherine Lyndon, svegliatevi immediatamente!” e la schiaffeggiò.
Finalmente ottenne una risposta. Un leggero battito di ciglia. Poi gli occhi si
aprirono, facendo chiaramente fatica a mettere a fuoco. Incapace di trattenersi,
Heather l’abbracciò, ringraziando il Cielo per la vita dell’amica. Questa
lentamente sembrò riprendere coscienza di quanto era avvenuto, mentre Beth
rientrava nella stanza seguita dalla direttrice della casa e dal proprio medico
di famiglia.
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Capitolo 12 *** Undici ***
Nuova pagina 1
11.
Ricordo chiaramente quella notte:ancora intontita dalle
droghe e dal colpo alla testa, venni accompagnata a casa sulla carrozza un
oltremodo sollecito dottore. Heather stringeva la mia mano, teneramente. Gli
strascichi del laudano si facevano sentire: tutto sembrava ovattato, il tempo
scorreva vischioso ed ogni mio pensiero era pieno di un languido intorpidimento.
Ricordo distintamente la sete ed il desiderio che fosse Heather a porgermi
dell’acqua. E la voglia di caramello e delle sue labbra. Ormai sono vecchia,
posso riconoscere questi desideri senza vergogna… ma allora ero giovane ed
ingenua. Persino nell’ottenebramento della ragione una parte di me rimaneva
ancorata al decoro che mi era stato inculcato fin da piccola. Credo che
litigassero, Heather ed il dottore, a proposito di quanto avvenuto. Qualche anno
più tardi scoprii che tutto era stato messo a tacere e che la mia scomparsa era
stata attribuita ad un improvviso malore dovuto all’aria particolarmente fredda
di quella sera, unito ad un abbigliamento decisamente poco adatto alle gelide
brezze londinesi. Una sciocchezza bella e buona, ma la gente credette. Ha
dell’incredibile cosa la gente presti fede per un po’ di tranquillità. Arrivate
a casa, Heather si prodigò a propinare una scusa alla zia e diede ordine di
portarmi immediatamente in camera sua: avrei dormito nel suo letto, cosicché
potesse vegliarmi. Piano piano ritrovai la lucidità, mentre Heather, al mio
capezzale, mi cambiava continuamente la pezzuola umida sulla fronte, in modo che
fosse sempre fresca. E mi carezzava il viso e le mani e la sua pelle, come al
solito gelida, era un balsamo per il mio corpo accaldato. “Il dottore ha detto
che non devi addormentarti, Kate. Su, fai uno sforzo. Raccontami di quando eri
bambina, raccontami di tua madre. Era una bella donna?” ed io parlavo e parlavo,
la voce che ogni tanto si perdeva per il sonno che provavo, ma subito la mia
dolcissima amica mi riscuoteva, mi parlava di suo padre, di come era bello e
forte, dei suoi fratelli, due scavezzacollo che erano stati capaci di trovare il
senno al momento del bisogno. Mi raccontava dei suoi sogni di fuggire in
America, senza nome né dote, e costruirsi là una vita. Parlammo molto quella
notte. Ogni tanto, poi, quando calava il silenzio e pareva non ci fosse nulla da
dire, Heather si protendeva a toccare leggermente le mie labbra con le sue. Non
erano baci, quelli, erano semplici sfioramenti che mi facevano battere il cuore
come un orologio impazzito, svegliandomi completamente. Fu durante uno dei
momenti di stasi che precedevano quei deliziosi sfioramenti che Julian entrò in
camera, i vestiti scombinati, trafelato e rosso in viso. “Cosa le hai fatto?”
chiese, a muso duro. Heather non si scompose, ma mi lasciò la mano. Iniziò a
raccontare tutto, da come avevamo lasciato il teatro al litigio, alla finta
riappacificazione. Gli occhi di Julian erano pozze d’ombra, la mascella era
visibilmente contratta. “ E tu? Cosa facevi tu, nel frattempo?”. Ricordo di
essermi alzata a sedere per difenderla, ricadendo poi distesa subito dopo,
affaticata. Julian schizzò al mio fianco, sollevandomi dolcemente e ordinando a
Heather di porre altri cuscini sotto di me. Sì, glielo ordinò: quella fu la
prima volta in cui percepii chiaramente la subalternità della mia amica, nella
sua famiglia. Il mio gesto ebbe, però, il potere di smorzare i toni. Non so se
la discussione proseguì, una volta che uscirono dalla stanza. So soltanto che,
finché rimasero a vegliarmi, si comportarono con estrema urbanità, dedicandomi
tutte le attenzioni e le dolcezze del mondo. Perfino la madre di Julian si
disturbò a venire a trovarmi, nel primissimo mattino, chiedendomi se me la
sentissi di fare colazione con la famiglia o se preferissi rimanere a letto.
Memore di Bonnie e dei suoi dispetti, decisi di godermi un po’ di pace, finché
era possibile. Julian mi teneva la mano. Mi sembrava di essere tornata bambina,
con mio padre seduto al mio capezzale a stringermi la mano mentre la mia cara
Sue trotterellava in giro, sprimacciando i cuscini perché stessi più comoda,
portandomi spremute dolci e raccontandomi storie per non farmi annoiare.
Oh, Sue: perché mi lasciasti così presto? Avrei avuto così
tanto bisogno di te, in seguito…
Elizabeth, con una faccia contrita difficile da creder
falsa, venne a farmi visita nel pomeriggio seguente.
Tutta la sua altezzosità sembrava evaporata. Entrò nel salottino adiacente la
stanza di Heather e lì aspettò che indossassi una veste da camera e che,
accompagnata da Julian, la raggiungessi. Mille scuse, mille lacrime, mille
promesse di non fare mai più una cosa del genere. Le credetti e, a quanto ne ho
saputo nel corso degli anni, davvero, i festini proibiti a casa McCarter
cessarono. O, perlomeno, divennero estremamente più discreti.
Il mio presunto malanno rese la mia permanenza londinese più lunga e piacevole:
vezzeggiata da chiunque, ero oggetto di assidue attenzioni da parte dell’intera
casa. Persino Beth ed il suo stuolo di protette si recavano a farmi visita ogni
giorni, portando piccoli regali, pasticcini, arance, addirittura un ventaglio
ricamato con specchietti. Non si può dire che non me la godetti: la vita
indipendente delle tenute di campagna mi era congeniale, certo, ma mi aveva
spinta ad essere più che dura con me stessa. Ora, tutte quelle galanterie, mi
facevano scoprire, o meglio, riscoprire un mondo dimenticato.
Heather era il mio punto fermo. Lei era sempre con me, giorno e notte. Mi
aiutava ad entrare ed uscire dal letto, si premurava che i cuscini fossero
adeguatamente morbidi e le lenzuola fresche di bucato. Poi riempiva la mia
stanza di fiori, soprattutto di erica. “Così, anche quando sono via, è come se
fossi con te” mi diceva. Mi lasciava solo durante le abluzioni, lasciando ad
alcune cameriere il compito di lavarmi. Dopo una settimana, il medico ritenne
che potessi rimettermi in viaggio verso casa. I bagagli furono preparati in un
lampo e, ipso facto, ci ritrovammo di nuovo in carrozza. Il sole accompagnò il
nostro rientro.
“Che te ne pare? Credi che il bel tempo durerà? Sarebbe così bello se il cielo
fosse abbastanza limpido per permettere la vista delle stelle, alla nostra
festa!” sospirò Heather.
Julian si era assopito. Io appoggiai la testa sulla spalla della mia amica,
aspirandone il leggero profumo. “Già, sarebbe bello… ma credi che verrà
qualcuno? Io e mio fratello non abbiamo partecipato molto alla vita mondana
della zona e…”.
“Shhhh! Sciocchina, è la festa in cui verrà reso ufficiale il tuo fidanzamento.
La gente verrà solo per poter invidiare i tuoi bellissimi vestiti nuovi e per
potersi rimpinzare del tuo cibo. Poi ci sarà la musica, i balli e…”
“Veramente io non so ballare” le confessai a bassa voce.
Non posso non sorridere al ricordo del suo viso. Strabuzzò gli occhi e assunse
un’espressione così ridicola che non potei trattenermi dal ridere, svegliando
Julian. Certo, anche lui, saputo il mio segreto, non potè esimersi dal sollevare
un sopracciglio, sorpreso.
“Lo so che dovrei saperlo, in teoria lo so fare – ricordo
di aver sbuffato, nonostante il mal di testa – ma… non ho partecipato che a
pochi balli, in vita mia. E se i piedi mi tradissero? Se inciampassi? Morirei di
vergogna se le sorelle Bennett mi vedessero a terra in mezzo al salone!”.
“Non succederà: io e Heather ti insegneremo ogni segreto
della danza. Vedrai, sarai incantevole, come sempre” la soccorse prontamente
l’uomo.
“Certo! Diciamo che sarò io ad insegnarle: tu saresti solo
in grado di sgualcirle le scarpette!”.
“Creatura crudele! Svilire così le mie capacità di ballerino!”.
Fu un viaggio piacevole, un’atmosfera rilassata che non
avremmo più conosciuto. Arrivati a casa, mio fratello, cui era stata inviata una
lettera, si avvicinò sollecito: forse, l’idea di perdermi, aveva riacceso in lui
quell’affetto che la continua vicinanza aveva sopito. Sue, invece, rimase sulla
porta. La trovai smagrita, come se una sola settimana di assenza fosse valsa a
lei oltre un anno. “Ha una forte tosse – disse mio fratello, seguendo il mio
sguardo – le ho ordinato di non uscire di casa, ma secondo te mi dà ascolto?”.
Scossi la testa sorridendo, e non me ne preoccupai. Che ottusa egoista.
Da quel giorno e per i dodici seguenti, la mia tenuta fu in
fermento: vennero reclutate nuove cameriere per aiutare a pulire la villa e a
servire durante la festa, persone che non vedevo da anni si fecero vive sperando
in un invito, mentre altri volevano sincerarsi della mia salute: mio fratello
aveva dovuto raccontare del mio malessere, rimandando la serata. Ci furono
toelette da creare ad arte, arrosti da cucinare, fiori da intrecciare per farne
corone da porre su tutte le porte. Heather fu preziosa e indispensabile. Agli
occhi di tutti eravamo divenute due amiche affiatate, quasi due sorelle, il cui
legame non si sarebbe che rinsaldato con il matrimonio. Solo noi, io credevo,
sapevamo che la sera, quando tutti erano nei letti e il vento della brughiera
portava i fischi delle civette, rimanevamo insieme davanti al fuoco del
salottino privato, a parlare, abbracciate. Fu uno dei periodi più dolci della
mia vita. Le labbra di Heather erano sempre fredde, come le sue mani: sentirle
scorrere sul mio corpo era come immergersi in un torrente gelato, una sensazione
unica e vivificante. Furono i suoi timori a spingerci a cercare rifugio altrove:
due giorni prima della festa, mentre Julian era a Londra con Tom per definire
gli ultimi dettagli del contratto matrimoniale, scappammo insieme, come due
monelle, attraversando la brughiera illuminata solo da uno spicchio di luna. Il
capanno ci accolse. Il profumo dell’erica fiorita era inebriante. I nostri baci
divennero più dei semplici sfioramenti che ci eravamo concesse. Le nostre mani
arrivarono in punti in cui non avrebbero mai osato. Mi sentivo in colpa: stavo
commettendo un peccato, vero? Amavo una donna. Ma, soprattutto, tradivo la
fiducia dell’uomo che sarebbe divenuto mio marito, e con la sua quella di mio
fratello e di Sue. Rischiavo rovinare tutto. Eppure, non mi importava: non i
boccoli biondi mi carezzarono le spalle ed il seno nudi, non mentre sentivo i
suoi baci farmi ardere la pelle del ventre. Quando toccò, o meglio, sfiorò, il
piccolo bottone di carne nascosto in mezzo al mio sesso non potei trattenermi. I
miei sospiri si fecero più veloci ed acuti. Lei mi cingeva con l’altro braccio,
sostenendomi, coprendomi di baci il viso. Il calore era insopportabile, il
frinire dei grilli assordante. Mi sembrava che il mio intero corpo si stesse
comprimendo in quell’unico, piccolo punto: sotto le dita esperte di Heather, e
di questo non posso oggi che ringraziare Elizabeth, stavo godendo per la prima
volta di quei piaceri che così di rado avrei provato dopo: ad una signora, non è
concesso. Esplosi, o così credetti. Le braccia fresche della mia amica – del mio
amore – mi strinsero forte, mentre nascondeva il volto nell’incavo del mio
collo. Mi girai, abbracciandola di rimando. Rimanemmo lì tutta la notte. Solo
quando il cielo cominciò a farsi grigio rientrammo, ma per allora avevo già
sperimentato quel nuovo piacere tante e tante volte, cercando a mia volta di
portare Heather allo stesso livello: quel punto i cui non importava chi fossimo
o cosa ci riservasse il futuro. Dove l’unica cosa che importava era che fossimo
io e lei. Insieme.
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Capitolo 13 *** Dodici ***
Nuova pagina 1
Chiedo venia. Ma prima il mese in Cina, poi la vita
reale, la sessione universitaria... sono lieta però di annunciare, a tutti
coloro che seguono, che ho già scritto tutto fino alla fine. E che gli
aggiornamenti saranno, quindi, più veloci. Anche perché, ci siamo quasi. E
allora...scusate ancora. E buona lettura!
12.
La sera della festa tutto era pronto. La casa lustra, la
servitù impeccabile, il cibo pronto per essere servito alla moltitudine delle
persone attese. Sue, pallida e con due occhiaie violacee che spiccavano
violentemente sotto gli occhi scuri, si ritirò in camera, stanca, a suo dire, di
spennare e cuocere, versare e mescolare. Nessuno vi fece molto caso: era una
donna che superava la cinquantina, anche se di poco, ed era normale che il peso
di portare avanti un’intera casa praticamente da sola la stesse stancando. Tom
la osservò salire le scale, con un passo lento e strascicato che non le
conosceva, mentre si portava un fazzoletto alla bocca, tossendo. Si ripromise
mentalmente di chiamare un medico, perché venisse a visitarla: Sue era l’unica
madre che avesse avuto accanto, già prima che quella naturale morisse. Teneva a
lei. Qualunque tonico le fosse servito, gliel’avrebbe procurato. Certo, prima
doveva pensare a sua sorella, al matrimonio e all’unione dei patrimoni e dello
studio assicurativo dei Lloyd con il suo di avvocato…
Julian era all’entrata della villa, pronto ad intrattenere
qualunque ospite la cui curiosità si fosse spinta tanto il là da farlo giungere
in anticipo. In tasca aveva un astuccio di velluto, su cui spiccava il marchio
di una delle più note gioiellerie di Londra. Portava continuamente la mano al
petto, controllando che non si muovesse dalla tasca in cui l’aveva posto. E
intanto fantasticava e calcolava il momento adatto in cui rapire la sua
fidanzata per condurla in un angolo che da tempo aveva adocchiato, darle il
regalo e…
Heather rideva. Cercava di nascondere la cosa tuffandosi
in uno dei propri bauli di vestiti, senza riuscirvi.
“Smettila di ridere e aiutami! Come può essere questa l’ultima moda londinese?
Quelle donne non respirano? E non mangiano?”. Catherine boccheggiava, stretta da
un corsetto riccamente decorato, che le stringeva il vitino senza pietà. Era
stata Heather stessa a chiuderlo, lasciandolo ben più largo di quanto molte
donne non facessero. Ma questo, all’amica, non lo disse.
“Non riuscirò mai a mangiare! Mi resterà tutto infilzato nella gola!”.
“In realtà, non è richiesto che tu mangi, questa sera. Tutto quello che devi
fare è sorridere, inchinarti con grazia, intrattenere fatue e garbate
chiacchiere con alcune nobildonne che ho accuratamente selezionato e danzare.
Ah, ricordati di sorridere”.
La risposta della mora fu talmente sboccata e scurrile da far scoppiare Heather
in un’altra risata, che si spense presto quando, anche a lei, iniziò a mancare
l’aria per il corsetto. Si guardarono, mentre sbatacchiavano i ventagli per
riprendere fiato. E ripresero a ridere.
“Sue, quando ero più piccola, diceva che a ridere così erano solo gli sciocchi e
i bambini” disse all’improvviso Kate, asciugandosi gli occhi.
“Oh, beh. Prima o poi invecchieremo e cresceremo anche noi”. E di nuovo giù a
ridere. C’era un ché di isterico, in quelle risa, forse solo la consapevolezza
che quella sarebbe stata l’ultima sera di vera libertà, per entrambe. Poi, una
sarebbe stata ufficialmente promessa e l’altra avrebbe perso gran parte della
sua utilità agli occhi della famiglia Lloyd. Il che poteva comprendere
l’allontanamento da Kate e dalla sua vita, oltre ad un matrimonio combinato.
Delle due, decisamente, la più spiacevole era la prima…
I primi invitati arrivarono puntuali alle sei. Vennero
accolti dalla padrona di casa e dal fratello in maniera impeccabile – un vero
miracolo, si ritrovarono a sussurrare le madame negli angoli, mentre figlie e
nipoti iniziavano a danzare. Ricordavano un piccolo mostro scuro che correva con
i figli della servitù per la brughiera ed ora questo! Catherine era un’ospite
esemplare. Cordiale, sollecita, sorridente. Non vi fu una sola persona ignorata,
una saluto mancato. Concesse diversi giri di ballo ai ragazzi più giovani,
quelli troppo timidi per invitarla, dopodiché le si affiancò il proprio
fidanzato – ricchissimo rampollo di una famiglia londinese. Erano così
affascinanti, insieme… certo che, commentarono le più malvagie, i miracoli
accadono sempre quando c’è un bel patrimonio a far da leva. E piove sempre sul
bagnato, rispondevano le più biliose.
“Bel sorriso” le disse Heather, passandole accanto in una
delle complicate danze di gruppo.
“Non è un sorriso, è una paralesi” rispose in tono soave la
mora, scatenando le risa del’altra.
“Cos’avete detto di così divertente? Mia cugina non è mai
così scomposta” osservò Julian, dubbioso.
“Oh, niente… un’altra quadriglia?”.
“No, vi prego. Se la nipote di Mrs. Foster prova a dirmi
ancora una volta che ho proprio sbagliato e che lei sarebbe un partito
senz’altro migliore, potrei finire per creder…”.
“Chi ha detto che cosa?”.
Lo sbigottimento negli occhi di Kate fu motivo sufficiente
per farlo ridere.
Lei se ne compiacque. Sapeva di essere spiritosa, da sola,
sapere di poter intrattenere anche la folla di un ballo organizzato la faceva
sentire bene. Più a suo agio nell’idea di dover diventare una nobile con tutti i
crismi, diversa dalla ragazzetta di campagna che era stata fino ad allora.
“Seguitemi” disse Julian all’improvviso, afferrandole un
polso. La condusse fuori, scese i gradini di marmo illuminati a giorno dalle
lanterne e si rifugiò dietro una macchia di tassi.
“Julian, cosa… non è appropriato!”.
“Lo so. Volevo darvi il vostro regalo. Il regalo vero,
prima di farvi la proposta ufficiale davanti a tutti… vi ho promesso di
impegnarmi. Vi ho dichiarato la mia ammirazione per voi. Volevo che questo fosse
un momento solo nostro, senza tutta quella gente. Volevo che… insomma… voglio
che in futuro ricordiate questo momento, non la festa. Voglio che vi innamoriate
di me, come io mi sono innamorato di voi”.
La dichiarazione ebbe il potere di mozzarle il già stentato
respiro. Si sentì svenire, ma immagino che uno svenimento, dopo una
dichiarazione simile, sarebbe stato male interpretato. Si lasciò scivolare su
una piccola pila di pietre posta lì accanto.
“Io… io non so cosa dire, Julian. Vi ho già esposto i miei
sentimenti, così, su due piedi, non saprei davvero…”
“Non voglio risposte. Vorrei solo la promessa che ci
proverete – proseguì l’uomo, guardando il terreno – che andrete al di là della
mia età, di quelle che possono essere state le mie esperienze. Voglio che mi
insegnate come si tratta una donna. Ma, soprattutto, vorrei che rientraste
indossando questo” e, finendo di parlare, mise la mano in tasca ed estrasse
l’astuccio di velluto. Lo aprì. La luce delle lanterne riuscì ad illuminare
debolmente la catenina d’oro, traendo riflessi più profondi dalle pietre
incastonatevi.
“Sono smeraldi… li importiamo dalle Indie. Li ho fatti
incastonare appositamente per questa collana. Sarete l’unica in tutto il regno
con un gioiello simile… così come siete ormai divenuta l’unica. Per me”.
Lei ristette. Lo splendore del gioiello era quasi
insignificante, alla luce delle parole che lo accompagnavano. Sentiva una grande
gratitudine per quell’uomo che si dichiarava così, completamente, ma non poteva
ricambiarlo fino in fondo. Non ora che sapeva a chi andasse davvero il suo
cuore… eppure non poteva dirglielo. Doveva fingere.
Oh, beh. Avrebbe finto tutta la vita, dopotutto. E anche
lui, mentre le professava eterno amore, non frequentava i migliori postriboli
della City?
Lo lasciò avvicinarsi, si scostò i capelli dal collo perché
potesse chiudere la collana. Non si aspettava certo di sentire le sue labbra sul
collo, posarsi dapprima leggere, per poi risalire avide verso il viso. La
strinse possessivo, salendo con una mano a toccare il seno costretto dal
corsetto.
“Julian!”.
Si scostò, ansimando, il viso rovente.
Lui rimase fermo, una mano sollevata come a pregarla di
tornare.
Un gentile alito di vento le rinfrescò la pelle ed i
pensieri.
“Avete detto di voler imparare a trattare una donna. Allora
non fatemi commettere nulla che possa compromettermi, non stasera, con tutta
questa gente. Trattatemi come una pari, non come una donna di compagnia” arrossì
del paragone.
Lui rimase pensoso per un momento poi, dopo un veloce cenno
della testa, si dileguò.
“È imbarazzato, fa sempre così quando lo è”. Heather sbucò
dall’ombra, strappando un gridolino a Kate.
"Tu...tu eri qui? Hai visto tutto?". La bionda era
completamente in ombra, ma Catherine potè intuirne l'assenso.
"Io...vi ho visti uscire. Ero curiosa, ti chiedo scusa". Seguì un silenzio teso,
interrotto solo dal rumore delle foglie che Heather spezzettava per il
nervosismo.
"Non eri curiosa. Eri gelosa!- esplose all'improvviso
Catherine - Ammettilo una buona volta! perchè devo essere l'unica a dirti che ti
amo? Perchè tu non lo fai mai?".
"Perchè se lo ammettessi sarei l'unica a farsi male".
"Credi davvero che io sia contenta di dover sposare Julian? È un uomo buono. Ma
non lo amo. E, nonostante questo, devo. Devo, Heather, non voglio - proseguì
avvicinandosi a l'altra - devo".
Si abbracciarono, baciandosi velocemente. Poi rimasero
allacciate a cullarsi. Le stelle brillavano in alto, lucciole indifferenti a
quanto avveniva sotto di loro.
"Ti amo, Catherine Lindon. E resterò sempre al tuo fianco. Convincerò Jul...
starò qui con voi. Ci sarò sempre, quando avrai bisogno di me. Vedervi
insieme... ma siete la mia famiglia. Voglio bene ad entrambi. E potrò vederti
tutti i giorni, è questo l'importante, no?" terminò, asciugando una lacrima
dell'altra, che sorrise.
"Non eri tu la cittadina debole e piagnona? Se le lacrime sono segno di
urbanità, guarda che ottimo lavoro hai fatto nell'addestrarmi!".
"Oh, sta zitta!". Il bacio che seguì fu molto più lento, le
carezze molto più audacia. ma non c'era tempo.
"Dopo. Dopo la festa, dormiamo nel capanno. Ci troviamo là, d'accordo?". La
bionda annuì contro il suo collo, poi si staccò. Catherine potè intuirne il
sorriso, prima che si allontanasse verso la casa. Lei sospirò, seguendola più
lentamente. Ma le sorprese di quella serata non si erano ancora concluse,
purtroppo per lei.
Sue Ellen stava appoggiata al roseto che era stato di sua madre. Alla luce delle
torce il viso aveva un'aria emaciata, sembrava uno spettro.
“Dovresti stare attenta, bambina”. La sua voce la spaventò.
“Sue! Credevo fossi a letto! Cosa…”. L’imbarazzo e la
consapevolezza che la tata sapesse tutto, la bloccarono.
Restarono in silenzio a studiarsi per quello che parve a Kate un tempo infinito.
Anche nell’oscurità si poteva intuire la sagoma della balia, ben più magra di
quanto la ricordasse, ora che indossava solo una veste da camera e non le
montagne di grembiuloni che le erano congeniali. Le sue mani erano fredde,
quando si allungò per carezzarle.
“Sai, ho già visto una storia simile, una volta. C’era una
bella ragazza, bella davvero, che era figlia di un bracciante agricolo. Adorava
la brughiera, passava molto tempo da sola fra le colline. Fu lì che lo vide, per
la prima volta. E che lui vide lei. Erano un giovane bello e elegante, con fitti
riccioli scuri lasciati liberi di muoversi a tempo con il galoppo del suo
destriero… - la voce si perse nel passato. Catherine ascoltava, già rapita
dall’abilità ben nota della donna nel narrare fiabe. Ma questa volta non era una
favola, vero? Un colpo di tosse. Forte, secco – dicevo… era bello. Ed erano
giovani. Lui si innamorò di lei, o almeno così diceva. Le portava mille regali,
cose che potessero rendere più dolci le sue giornate di ragazza senza un
patrimonio. Libri, cappelli, fiori… fu così che lei scoprì quanto in realtà lui
fosse ricco. Non il figlio di un mercante o di un artigiano, come pensava, ma
nientemeno che l’erede del proprietario della vallata. Un nobile. Destinato alla
capitale e a uno degli studi di legge più rinomati del Regno… capisci? Era un
amore impossibile, già di partenza. Ma loro non se ne curarono. Proseguirono
nella loro stoltezza. Ah, quei baci… Lei fu così sciocca da concedersi a lui. E
fu lì che si perse…” ancora tosse. Catherine, che già intuiva l’amara verità
dietro il racconto, era troppo persa nei suoi pensieri per notare il furtivo
passaggio di un fazzoletto sulla bocca della donna. Ma Sue proseguì, come se
finire quel racconto fosse più importante della sua stessa salute. Come se fosse
vitale, per Catherine, saperlo.
“ Rimase incinta. La figlia di un bracciante, la cui sola
dote erano la bellezza e la purezza, incinta del bastardo di un nobile! Il padre
la cacciò, quando glielo disse. Non c’era posto, dove potesse andare. Tranne,
forse, alla tenuta del padre del suo bambino. Magari avrebbero avuto pietà della
sua creatura… ne ebbero. Le permisero di stare. Di occuparsi dei mestieri meno
gravosi, divenendo una sorta di governante. E lei era brava, in quello. Abituata
fin da piccolissima a cercare di far quadrare i conti dei pochi soldi
disponibili, era più che in grado di tenere le redini di una tenuta che fruttava
una rendita di oltre seimila sterline. Il padre del ragazzo, che nulla sapeva
della vera natura del figlio portato in grembo dalla serva e che aveva
acconsentito ad averla in casa solo in nome della carità cristiana, finì per
affezionarsi a lei. La vedeva intelligente, abile… per un breve, fulgido momento
i due amanti credettero davvero che avrebbe potuto proporre un matrimonio. Che
illusione sciocca! Il vero matrimonio del suo rampollo con una ricca dama di
Londra era già stato fissato. Però, iniziare la vita matrimoniale con un figlio
maschio sarebbe stata un’ottima pubblicità per tutti, mi spiego? Un ragazzo
forte come un toro, capace di generare un maschio dopo una sola notte… Le
proposero un patto: lei avrebbe potuto lavorare nella tenuta per tutta la sua
vita, avrebbe avuto un’ottima rendita e sarebbe stata libera di andarsene come e
quando avesse voluto. Avrebbe anche potuto portare un eventuale marito a
lavorare presso di loro, crescere una famiglia. Bastava che rinunciasse a quel
primo figlio, se fosse nato maschio. Tutto qui. E lei acconsentì. Stupidamente,
per amore e per fame, per dare a quel bambino un futuro migliore…acconsentì. La
sposa non ne fu certo contenta, anche perché tutto le venne spiegato quando
ormai il matrimonio era stato consumato. Cercò in tutti i modi di far pesare la
sua nuova autorità, di scacciarmi. Ma il padrone era inflessibile, un patto è un
patto, diceva. E quando nacque il bambino, un bellissimo maschio coi colori
della madre, onorò l’accordo. Mi permise di restare, facendomi fare da balia al
mio stesso bambino, dato che la moglie di suo padre non lo voleva… sembrava
perfetto, vero? Beh, non lo era. Non era perfetto vedere l’uomo che amavo
abbracciare un’altra alla luce del sole. Non era bello crescere mio figlio e
sentirlo chiamare “mamma” un’altra donna. Non era bello essere cercata solo
nelle notti senza luna… Il mio amore per lui si ruppe. Come un vaso di cristallo
crepato, botta dopo botta, si ruppe. E venne la notte in cui lo cacciai dalla
mia stanza, in cui riversai su di lui tutto l’odio e il livore che provavo. Lui
restò in silenzio. Il giorno dopo fece i bagagli e, presa la famiglia, si
trasferì a Londra. Non lo vidi per cinque anni. Poi, all’improvviso, tornò. La
sua sposa era morta dandoti alla luce. Suo padre era venuto a mancare anni
prima. Lui non sapeva come crescere due figli… io sì. Tornò da me, non più come
un amante, ma come un altro figlio da sostenere e crescere. La mia bellezza era
ormai sfiorita, restava solo la mia abilità di governante. È questo che
diventai. Una governante. Una balia. Un sostegno. Non condannare Heather a tutto
questo. Non condannarla alla solitudine. Allontanala, ora. Allontanala ora che
puoi e potete dimenticarvi. Mandala…” l’ennesimo attacco di tosse le carpì le
ultime parole. Senza proseguire, si allungò, alla cieca, alla ricerca della
bambina che aveva cresciuto come sua. La abbracciò stretta, abbraccio che fu
ricambiato immediatamente. Entrambe piangevano, per la propria pena e per quella
dell’altra. “Ti ho amata come se anche tu fossi mia, Catherine. Ho sempre e solo
voluto il tuo bene. Per questo ti dico: allontanala da voi”. Si alzò in piedi.
“Devo…devo tornare in camera. Fa molto freddo. Credo dormirò un po’ di più,
domani mattina” e se ne andò. Catherine voleva fermarla. Voleva chiederle il
permesso di dire a Tom la storia. Voleva chiederle come erano state le ore
insieme a suo padre, nella brughiera. Voleva chiederle così tante cose… ma
gliele avrebbe chieste il giorno dopo. Ora meritava di riposare.
Però non poteva finire così. Non poteva allontanarla e
basta. Non poteva… non l’avrebbe fatto. La loro storia sarebbe stata diversa.
Con questo tumulto in mente, rientrò in casa e, afferrata Heather per un polso,
la trascinò via.
"Catherine! Cosa fai? La festa!".
"Sono rimasti in pochi, può occuparsene Tom". Con ancora
gli occhi arrossati, la squadrò, sempre tenendole fermamente il polso.
"Ti voglio. Non dopo, non domani. Ora".
Se rimase sorpresa di quelle parole, Heather non lo diede a vedere. Ma si scostò
dall'altra, chiese una lanterna a uno dei servi e, presala per mano, si
allontanò con lei dalla casa, dai rimasugli della festa, da quello che sarebbe
stato il loro destino.
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Capitolo 14 *** Tredici ***
Sorrideva. Sorrideva perché il mondo sembrava un dipinto di
quel Turner che suo zio tanto amava, benché lei l’avesse sempre poco
considerato.
Era un concentrato di colore e luci: i raggi di sole che filtravano dai fori
nelle assi del tetto, dentro cui danzavano strane ed eteree creature. Il cielo
era una distesa di nuvole rosate e l’erica, rigogliosa e purpurea, circondava
ogni cosa, quasi esplodendo intorno ad ogni arbusto o masso, rendendo la
brughiera fremente di vitalità ed energia.
Kate respirava rumorosamente accanto a lei. Heather si mise a ridacchiare,
conscia della stupidità di certi romanzi sull’amore, in cui tutti sono
profumati, lindi e silenziosi. Il problema, col sesso, era che nessuno dei tre
elementi era presente. E forse era proprio la totale assenza di ordine e decoro
a renderlo così irresistibilmente attraente…
Si chinò per baciare l’incavo sotto la clavicola della sua
amante. Della sua amica. Il ronzio di migliaia di api era ipnotico e struggente,
ma sapeva che rimanere ancora al capanno sarebbe stato un errore.
“Kate…Kate, svegliati. Dobbiamo rientrare”.
Un allodola si alzò in volo, cantando.
“Uhm… ancora un attimo. Vieni qui con me”.
“No. Muoviti, dobbiamo rientrare. Ora. E tu non ti sei
ancora vestita”.
Osservò intenerita i goffi tentativi dell’amica di darsi un
contegno. Sbuffando e fingendosi spazientita, le si avvicinò, sfruttando la
scusa di chiuderle il vestito per carezzarle la schiena e baciarle il collo,
giunta in cima. Si osservarono, sorridenti, gli occhi viola della bionda
luminosi e sereni. Erano innamorate, l’estate era calda e meravigliosa: cosa
poteva esserci di sbagliato? Si baciarono dolcemente, poi, dopo un ultimo
abbraccio, si separarono, ognuna prendendo strade diverse per rientrare: una
tonificante passeggiata mattutina era quello che ci voleva, dopo una festa come
quella della sera precedente: uscite insieme a passeggiare, si erano poi divise
e ora rientravano a casa. Heather si perse ad annusare i fiori della brughiera,
a contemplare le poche nuvole bianche che sporcavano un cielo altrimenti
immacolato. Le allodole continuavano il loro canto, con una letizia contagiosa.
Un grido le gelò il sangue a pochi metri dall’ingresso. Era
Catherine.
Si mise a correre, senza curarsi del fango e delle radici
sporgenti, cadendo e ferendosi malamente le mani. Oltrepassata l’ultima curva,
si fermò di botto. Catherine era a terra, insieme al fratello che l’abbracciava
stretta. Le urla si erano fermate, trasformate nel lamento acuto di una volpe
intrappolata da una tagliola. Le cameriere facevano ala, piangendo e
abbracciandosi fra loro, perfino gli stallieri avevano gli occhi lucidi. Si
avvicinò, inginocchiandosi accanto agli amici. Tom le rivolse uno sguardo opaco.
“ Sue… Sue è morta. Abbiamo chiamato un medico, ma
impiegherà ancora qualche ora ad arrivare. Lei è morta”.
La notizia impiegò parecchi minuti per essere assorbita.
Sue non poteva morire. Sue era una colonna, un pilastro, il
cardine su cui ruotava l’intera vita in quel cascinale perso nella brughiera.
C’era troppo sole, troppo calore, troppa vita, perché lei potesse davvero
essersene andata. Non aveva senso.
“La tosse…” … riuscì infine a dire.
Tom annuì. “Le avevo detto di andare da un medico, ma lei
continuava a rimandare, diceva che doveva rimanere per la festa, che era il
grande giorno di Kate e non voleva perderselo e così si è affaticata e adesso…”.
Sembrava perso. Alla morte della madre non aveva fatto
caso: quasi nemmeno ricordava il suo volto. Quella del padre era stato un evento
atteso, la fine di una lunga malattia. C’era stata tristezza, sì, ma anche
infinito sollievo.
La morte di Sue non lo sollevava, anzi. Osservò
attentamente la sorella, ancora a terra, in lacrime. Vide l’erica fra i suoi
capelli. Poi guardò Heather, gli stivali sporchi di fango, il sangue sulle mani,
il pallore ancor più accentuato della pelle. Le osservò abbracciarsi e cercare
conforto l’una nell’altra e capì. Capì che le dicerie sulla bionda erano vere –
tutte quelle cose sussurrate a mezza voce nei foyer dei teatri, lontano
dall’orecchio dell’importante parente – e che la sorella era stata avvelenata da
quella pazzia. Forse, se il momento fosse stato diverso, l’amore per Catherine
l’avrebbe spinto a ragionare. A cercare una soluzione signorile ed elegante.
Forse, ebbe modo di riflettere Heather in tante veglie
amare, le cose sarebbe andate diversamente se lei se ne fosse andata, lasciando
ai due fratelli il compito di consolarsi dalla perdita dell’unica madre che
avessero mai conosciuto. Se solo le lacrime sul volto di una ragazza che
rappresentava ormai così tanto per lei non l’avessero obbligata ad annullare la
distanza che le separava e ad abbracciarla.
Il calcio di Thomas giunse del tutto inaspettato, violento
e preciso, facendola cadere bocconi addosso all’amica. Poi la afferrò,
strattonandola per i capelli, gridandole tutta una serie di improperi che mai si
sarebbe aspettata di udire da sotto quei baffetti così ben impomatati.
La servitù si eclissò, consapevole che assistere a quella
scena sarebbe costato loro forse più di un solo licenziamento.
Catherine, gli occhi gonfi e rossi, boccheggiava sconvolta.
Heather si appallottolò al suolo, cercando di proteggere
viso e ventre da quello che non sembrava più un uomo, ma una vera e propria
bestia. Era già stata picchiata, ma mai così selvaggiamente, mai con la stessa
ferocia, con l’evidente desiderio non solo di voler far male, ma addirittura
uccidere.
Fu Julian che, corso all’esterno richiamato dalle urla,
mise fine all’insensato pestaggio.
“L’unica ragione per cui non ti sfido qui e ora e per cui
non ti infilzo con la spada è per il rispetto che nutro per Sue e per l’amore
che provo per tua sorella – riuscì alla fine a sibilare fra i denti, aiutando la
cugina ad alzarsi – in nome di Dio, cosa diamine vi è preso Thomas?”.
“Sai cosa stava facendo tua cugina, mentre tu smaltivi la
sbornia di ieri sera? Sai dove sono andate queste due sgualdrine mentre Sue
moriva? Dopo aver dato anche l’anima per preparare loro una grandiosa festa? –
rispose quello sbraitando, irriconoscibile in volto tanto era scarmigliato –
erano nel capanno da caccia, quello in fondo alla collina! Quella puttana di tua
cugina ha infilato le sue sudice dita dentro mia sorella, le ha tolto la sua
virtù nel più perverso dei modi! La difendi ancora? Questa troia ha deflorato la
tua promessa, mentre a te cosa è stato dato? Un bacio?” proseguì, pieno di
scherno.
Heather, fra le braccia di Julian, tremava.
“Ciò che dici non ha importanza – ribatté infine,
accarezzando la testa della ragazza, lo sguardo assente – tu hai comunque
picchiato una donna, una tua ospite, così facen…”.
“Quella non è una donna, non è niente di più delle puttane
che ti scopi fuori Londra! Non mi hai raccontato tu stesso quanto una buona
battuta le renda più malleabili, dopo? E vieni a farmi la morale? Non è altro
che una ladra, ha rubato una mia proprietà e tradito la mia fiducia mentre io la
ospitavo in casa mia!”.
“ Così facendo hai perso l’amicizia della mia famiglia –
andò avanti Julian come se niente fosse – Heather è sangue del mio sangue, non
permetterò che un’azione come questa resti impunita. Nemmeno un centesimo della
mia famiglia finirà nelle tue tasche, mai più la Compagnia farà affari col tuo
studio: questa è una promessa. E quando morirai il titolo passerà a mio figlio,
non devo far altro che aspettare e contemplare la tua rovina”. Il tono si era
fatto via via più sommesso. Afferrò la cugina per un braccio, aiutandola ad
entrare zoppicando in casa, richiamando al servitù perché lo aiutasse.
Per tutto quel tempo Catherine non si era mossa da terra.
Frastornata, distrutta dal dolore, aveva visto suo
fratello, suo fratello! Picchiare l’unica persona che amasse davvero. Si rialzò
in piedi mentre i due Lloyd si allontanavano.
Si chiese confusamente come potesse saperlo. Non riusciva
ad articolare un pensiero coerente: troppo il cordoglio, l’ira, il dolore, la
vergogna.
“Non è una puttana” riuscì alla fine a dire. Guardava per
terra, osservava una formica correre qua e là in cerca di qualcosa.
Suo fratello le si avvicinò e la schiaffeggiò. “Come hai
potuto fare questo a nostro padre? A Sue? Dove eri mentre lei moriva, eh, cosa
stavi facendo mentre lei magari chiamava il tuo nome e…”.
“Non l’ho uccisa io, non sono stata io!” gridò la ragazza,
gli occhi colmi di lacrime.
“Non sono stata io e nemmeno è stata Heather! Eravamo
lontane da casa, era troppo buio, abbiamo deciso di non rincasare – ebbe il
buonsenso di non confermare le congetture del fratello – cosa diamine ti è
saltato in testa? Heather ama questa famiglia come se fosse la propria e
diventerà la sua famiglia! Come hai potuto farle questo?”.
Vide il fratello afflosciarsi sotto i suoi occhi. Alzò gli
occhi verso di lei, quasi formulando quelle scuse che in realtà, entrambi
sapevano, non le avrebbe mai detto. Rimasero lì per quella che parve
un’eternità, a guardarsi, ormai talmente lontani da sembrarsi irraggiungibili.
“Mi lascerai anche tu. Sue mi ha lasciato… la mamma, papà”.
Il balbettio improvviso la fece quasi intenerire. Quasi. La guancia bruciava
ancora e sentiva distintamente il calore che irradiava. Ma si avvicinò lo
stesso, per l’affetto che nutriva per l’ultimo membro della sua famiglia.
“Tom… mancherà anche a me. Ma non ti abbandonerò. Farò
ragionare Julian, vedrai. Ora, lascia che ti racconti una storia, vuoi? Come
faceva Sue per farci addormentare… vieni, rientriamo in casa…”.
Eccomi.
Non ho giustificanti.
Quindi parliamo della storia: Tom è… inqualificabile. Ma lo
shock è una brutta bestia, io lo so. Rabbia, dolore e paura insieme sono un mix
letale.
Meno uno.
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Capitolo 15 *** Epilogo ***
Nuova pagina 1
A volte mi accorgo di
sentire una terribile mancanza dello Hampshire. Spesso questo accade quando
sento una risata particolarmente argentina, o quando mangiando un'allodola
arrosto penso al meraviglioso canto di questi uccelli, che tanto mi era caro da
bambina. Più sovente succede se, per sbaglio, passando davanti alle cucine,
avverto il profumo irresistibile della melassa e del caramello.
È allo sbocciare della primavera, però, che la malinconia si fa più struggente,
quando tutto intorno a me resta grigio: alla mia vera casa il sole permetteva di
far vagare lo sguardo per miglia e miglia lungo la brughiera. E l'erica fioriva
rigogliosa, tingendo di rosa e lilla ogni cosa. Persino la collina. La nostra
collina viola.
Non so perché proprio
oggi mi sia messa a ripensare a quegli avvenimenti. Sono trascorsi molti anni.
Il giorno successivo alla morte di Sue, quello che sarebbe diventato il mio
amatissimo marito caricò Heather su una carrozza insieme a tutte le sue cose. Mi
abbracciò, giurandomi che sarebbe tornato per il funerale e mi lasciò sola in
quella casa diventatami improvvisamente ostile. Mio fratello non mi diede il
minimo aiuto: chiuso nel suo doppio dolore – quello provocato dall’unica donna
che l’avesse amato e quello, ancora più bruciante, di averne conosciuto la vera
natura e l’intimo tradimento – restò chiuso nel suo studio per interminabili
giorni.
Io passavo le giornate accogliendo i conoscenti venuti a partecipare al nostro
dolore, governavo la casa e prendevo disposizioni affinché il corpo della mia
adorata, adoratissima Sue venisse sepolto nella cappella di famiglia; ne aveva
tutti i diritti. Pulivo, cucinavo, andavo a prendere l’acqua: mi sfinivo,
cosicché, una volta coricatami, il sonno arrivasse veloce e privo si sogni.
Perché era nei sogni che rivivevo ossessivamente quegli istanti rubati alla
realtà, le mani di Heather fresche sulla mia pelle, le sue labbra umide sulle
mie…
Il giorno del funerale
pioveva. Il cielo plumbeo si rifletteva sulla brughiera, fattasi improvvisamente
silente e incolore. Julian venne con la sua famiglia: se i cittadini si
meravigliarono di vedere una distinta Lady piangere la morte di una serva, non
lo diedero a vedere. Furono, in realtà, molto cordiali e nella mia disperazioni
vidi in quella cortesia un’ancora di salvezza. Approfittai volentieri
dell’improvviso slancio di affetto di quella che sarebbe divenuta la mia
famiglia, mi lasciai cullare dalle frivole chiacchiere su avvenimenti mondani di
cui non mi importava poi nemmeno molto. Ricordo distintamente che una certa
ragazza aveva a tal punto mortificato un impetuoso pretendente, da costringere
il poverino, per la vergogna, ad emigrare nelle Americhe…
“… sempre meglio che
in India. Non so davvero come farà quella ragazzina a sopravvivere a quel clima
e agli insetti. Non ha mai goduto di ottima salute”.
“Sono certa che, invece, il caldo le gioverà senz’altro. E avere un marito
accanto sarà un altro motivo di gioia”.
“Più che altro le permetterà di allontanarsi da qui. Il padrone era davvero
arrabbiato, ha minacciato di diseredarla, ma poi è stato convinto che sarebbe
stato più vantaggioso semplicemente allontanarla… sembra che il vecchio Warren
cerchi una nuova, giovane moglie, e una Lloyd è pur sempre merce ambita al di
fuori di Londr…”.
“Scusatemi – Catherine emerse dalla nebbia di dolore e stanchezza che la
circondava come una manto – potrei sapere di chi state parlando?”.
Le due cameriere al seguito della madre di Julian strabuzzarono gli occhi.
“Ma come, Milady, non lo sapete? La signorina Heather è stata fatta imbarcare
ieri, per questo oggi non è qui a sostenerla. So che eravate molto amiche, mi
sembrava strano che non chiedesse di lei, credevo sapesse che…”.
“No… Sì… Scusate, lo sapevo, è che non vi ho pensato, vi ringrazio molto,
scusatemi…”.
E mentre le due donne guardavano con condiscendenza e simpatia a quella povera
creatura che, sola, cercava di arginare la marea, Catherine corse, scevra
d’interesse verso i propri abiti, verso il suo promesso sposo.
“Julian!”.
Gli si gettò contro, picchiando i pugni sul suo petto, piangendo e maledicendo
lui e la sua famiglia.
Braccia forti la
fermarono, sollevandola. Sentì qualcuno mormorare parole di conforto, suggerire
che i nervi avessero ceduto, che era naturale che una ragazza così fragile
reagisse così ad un momento di lutto, senza contare sull’appoggio del fratello .
Julian, intanto, non si era mosso di un passo: stava lì, sotto la pioggia, rosso
in viso, le braccia lungo il corpo: non aveva minimamente tentato di difendersi.
Venne portata in casa, le fu versato del tè forte e bollente e venne poi
accompagnata nella propria stanza. Sentì la voce del padre di Julian chiamare
suo fratello, intimargli di uscire dalla propria stanza e di venire a discutere
da uomo del futuro suo e della sua attività, oltre che del titolo. A lei non
interessava. Senza smettere un solo istante di piangere –
oh, Heather, Heather, è tutta colpa mia, mia e del mio
egoismo, amore mio, cosa ti hanno fatto! – e senza potersi confrontare con
l’unica persona che le avrebbe spiegato al verità, si addormentò.
Si risvegliò da un sogno che, ricorrente, l’aveva accompagnata nelle ultime
notti: le mani di Heather, le sue labbra, il suo collo morbido e il dolce
profumo di fiori di cui sembravano impregnati i suoi capelli. Una mano, gentile,
sfiorava appena i contorni del suo viso.
“Non ho potuto fare
altro – sussurrò Julian, immerso nella penombra azzurrognola che precede la
notte – io… io amo mia cugina, davvero. Ma non posso permettere che le sue
inclinazioni molestino – no, non parlare! – … molestino la futura madre dei miei
figli. Non potevo permetterle di restare con noi e mio padre non voleva più che
le maldicenze sul suo conto infestassero la nostra casa. Il signor Warren è un
vecchio amico di famiglia, Heather lo conosce, è molto ricco e influente,
sposarlo sarà un ottimo colpo per lei, le permetterà di agire con una libertà
che nella City non avrebbe mai potuto assaporare…”.
Catherine restò in silenzio, senza sapere cosa rispondere o se rispondere alla
confessione di quell’uomo che, nonostante tutto, comprendeva. Vedendo che da lei
non veniva nessuna reazione, continuò.
“Vostro fratello è giunto ad un accordo con mio padre: lasceremo questa tenuta,
lui prenderà alloggio in una delle residenze della mia famiglia, in modo da
poter essere più vicino al suo lavoro; tu abiterai nella nostra casa e non
dovrai vederlo mai più, se così desideri”.
Ancora silenzio. Voleva rivedere suo fratello? Lo amava, ma il suo amore era
avvelenato dalle sue azioni. Non provava nulla, in quel momento, nulla se non
vuoto e angoscia, un senso di perdita e di fallimento enormi: in poco meno di
una settimana aveva perso la certezza del proprio passato e la promessa di un
radioso futuro.
“Kate, vi prego,
parlatemi: so che provavate affetto per mia cugina, so che sapete che anche io
ne provavo, ma dovete capire che questa era l’unica scelta possibile, che non
c’era altro modo, per noi, di vivere serenamente… per me… di cambiare… per voi”.
“Avete agito come ci si aspettava da voi, Julian – rispose flebilmente la
ragazza – non posso condannarvi; ma se è un’assoluzione, che cercate, non è qui
che la troverete. Vi prego di lasciare la mia stanza, adesso”. L’uomo si alzò,
riluttante. Alla tenue luce, Catherine poté intuire u bagliore sulle sue gote,
quasi stesse piangendo. Ma non poté fare nulla: girata la maniglia, si chiuse la
porta dietro le spalle e sparì inghiottito dal buio della casa…
… i giorni passarono. Mi
trasferii a Londra con i pochi oggetti davvero cari che possedevo. Ricevetti
vari inviti da Elizabeth e dalla amiche di Heather, ma l’idea di vederle e di
pensare a lei mi feriva. Mi chiusi in quella grande casa, cercando di venire a
patti con la donna che sarei diventata. Il giorno del matrimonio si avvicinava.
Tom mi scriveva: lettere brevi e scarne relative alla sua salute sempre più
instabile, al cibo così tanto più caro e così insapore rispetto a quello che
mangiavamo a casa nostra, al lavoro. Io rispondevo sempre con sollecitudine,
infarcendo la mia di dettagli futili e piccole frivolezze che potessero
mostrargli quanto a mio agio mi trovassi in quell’enorme gabbia dorata. Gli
ricordai che, la settimana seguente, ci sarebbe stato il mio matrimonio; rispose
che, purtroppo, affari improrogabili lo portavano sul continente e che, quindi,
non sarebbe stato nemmeno in Inghilterra in quel periodo.
Ogni giorno la sarta mi provava l’abito, che ogni giorno era da stringere. In
poco meno di un mese ero passata dall’essere una ragazza forte, muscolosa,
avvezza alla rustica vita campagnola all’ombra di me stessa: pallida, smunta,
con profonde occhiaie nere sotto gli occhi. Non riuscivo a dormire: mi giravo e
rigiravo nel letto, richiamando ricordi che, beffardi, si rifiutavano di venire.
Ricordo una mattina in cui ruppi uno specchio, spaventata dall’immagine che
rifletteva; giusto la notte precedente avevo avuto un collasso nervoso
nell’accorgermi di aver già dimenticato il profumo della pelle dell’unica
persona che avessi mai amato.
Ci volle tutta l’abilità
della servitù di casa Lloyd per rendermi quantomeno presentabile il giorno delle
nozze: erano passati esattamente tre mesi dalla sera del mio fidanzamento, e le
malelingue già malignavano che la fretta fosse dovuta alla possibilità che la
sposa non fosse così pura come avrebbe dovuto. Non che la cosa mi interessasse:
non ero certamente incinta, dato che non conoscevo nessun uomo e che l’unico
contatto che avevo avuto era stato un bacio con il mio promesso sposo. L’abito
di taffettà color vinaccia mi ricordava i paramenti delle chiese cattoliche
durante i giorni precedenti alla pasqua, ma stava d’incanto vicino al completo
viola di Julian, o, almeno, così mi disse lui quel giorno. Non ricordo nulla
della cerimonia, né dei giorni precedenti e successivi. Si occupò di tutto mia
suocera: delle damigelle – donne che non conoscevo e con cui non avrei
praticamente mai stretto rapporti di amicizia – al ricevimento pomeridiano
svoltosi il giorno dopo le nozze. Il mio status imponeva che venissi presentata
alla Regina e quello è l’unico momento che ricordo con chiarezza: tutti erano in
fermento per la nostra partenza e per la festa che si sarebbe tenuta quella
sera, e l’unica cosa a cui io pensavo era a quanto apparissero vecchi e stanchi
i miei regnanti, mentre la Regina in persona si complimentava per la splendida
collana di smeraldi che indossavo. Subito dopo, partimmo; nonostante i miei
timori, durante il viaggio Julian fu esemplare. Non tentò più un approccio, come
aveva fatto quella sera dopo la festa e nonostante tanti anni siano passati e
tante altre volte sia venuto meno ai suoi voti nuziali, devo riconoscergli che
in quell’occasione non visitò nessuno dei bordelli in cui avrebbe potuto
intrattenersi. Guardando il mare durante una tempesta decisi che era arrivato il
momento di smetterla: non potevo vivere più in quel torpore. Avevo tentato di
scrivere a Heather, ma nessuna lettera era mai giunta in risposta; se Julian
sapeva qualcosa, me lo taceva. Le onde si infrangevano sulle rocce, assordanti
quanto il dolore che avevo provato: ma cosa potevano, contro la dura pietra? Se
nemmeno loro, con la loro imponenza e forza, potevano scalfirla, cosa poteva la
mia indolenza contro il destino che così repentinamente aveva stravolto la mia
esistenza? La mattina successiva Julian rimase stupito nel vedermi sorridete,
con un mazzo di erbe e fiori in mano; per tutto il giorno fui allegra e
ciarliera e, quella notte, per la prima volta seppi com’è amare un uomo. Fu
doloroso e veloce, niente a che vedere con quello che avevo provato con Heather,
ma con il passare degli anni compresi come ricavare piacere anche da quell’atto
che, per tutta la mia vita, non ho comunque imparato ad apprezzare davvero.
Non che io non amassi
Julian, anzi: con il passare del tempo il nostro divenne un legame solido e
sereno, venni considerata al pari di alcuni suoi carissimi amici ed il mio
consiglio valeva tanto quanto i loro; grazie a lui potei studiare, appresi
nozioni che mai avrei immaginato di poter maneggiare. Il nostro salotto era
aperto ad amici e giovani talentuosi, intrattenevo una fitta corrispondenza con
le ragazze che da ragazza avevo snobbato. Cominciai a frequentare alcune feste,
ricominciai a parlare con al gente. Molte sere Julian dormiva accanto a me e
leggevamo insieme; altre sere no. Tom intanto aveva ampliato lo studio e
proseguiva la sua vita da scapolo impenitente, convinto più che mai che delle
donne – incluse sorelle e madri – non ci si potesse fidare. Lo vidi poche volte
negli anni a seguire, e sempre in occasioni ufficiali. Io e Julian passavamo
poco tempo insieme, a causa del suo lavoro, ma amavamo trascorrere l’estate in
località di mare. Scrivevamo tutti e due alle nostre conoscenze all’estero:
Warren rispondeva con solerzia, ci raccontava degli affari e di come i suoi due
maschietti e la femminuccia si divertissero a giocare coi piccoli indigeni. Lui
non approvava che i suoi figli giocassero con la servitù, ma sua moglie lo
redarguiva di lasciarli fare: aveva potuto vedere coi suoi stessi occhi i
salutari effetti di una tale libertà sul carattere di una persona. Ricordo
chiaramente che mi misi a piangere, leggendo quelle parole. Continuammo a non
scriverci mai direttamente, ma per tutti quegli anni rimanemmo in contatto
usando i nostri mariti come tramiti. Eventi particolari, nascite, morti,
pettegolezzi dalla City e racconti avventurosi dalle Indie: l’inchiostro parlava
per noi e rivelava fra le righe tutto quello che non potevamo più dirci. Ad un
certo punto, un paio di anni orsono, la situazione precipitò: la figlia minore
di Heather morì per una febbre che si portò via anche l’anziano marito. Lei
rientrò coi due figli più grandi in Inghilterra. Il padre di Julian, suo zio,
era morto da tempo: sua zia, invece, era ancora viva, ed accolse volentieri
nella propria dimora di campagna la nipote e i due prestanti e ormai ricchi
pronipoti.
Nonostante vivessimo ora entrambe a Londra, non ebbi mai occasione di
incontrarla.
Io fui molto fortunata: solo una delle mie sei gravidanze non arrivò al termine,
e tutti i miei figli sono cresciuti sani e forti, godendo di un agio che io non
avevo mai sperimentato, alla loro età.
Ma non hanno mai conosciuto la mia libertà né, temo, hanno mai conosciuto il
vero amore.
“Madame, avete visite”.
“Chi è Gerald?”.
“Una donna, si è presentata come Mrs. Warren… dice di aver saputo del vostro
recente lutto e di essere partita non appena ha potuto. Ha un aspetto molto
esotico, se posso permettermi” rispose il maggiordomo, un poco scandalizzato dai
colori brillanti che l’anziana donna davanti a lui indossava. Doveva essere
stata molto bella in gioventù, perché tracce di quella bellezza si vedevano
ancora nel viso maturo e nei tratti arrotondati della figura. I capelli erano
più grigi che biondi, ma conservavano tracce dello splendore dorato che doveva
averli contraddistinti.
La donna entrò nella stanza, guardandosi intorno, come
se camminasse in una stanza già vista in sogno; poi alzò lo sguardo sulla
padrona di casa, sorridendole e porgendole una mano.
“A quanto pare siamo tutte e due vedove – disse piano,
la voce immutata, come se non fossero passati più di vent’anni dall’ultima volta
che si erano parlate – mi dispiace così tanto, Kate, so che hai amato mio
cugino, mi scriveva così spesso di…”.
E ora sono qui, davanti a
questa poltrona, dando le spalle al cielo di Londra che prende una sfumatura
leggermente più rosata che preannuncia il tramonto. Chiudo gli occhi, ripensando
a quegli anni così fausti e sventurati, incapace di credere a quello che si
trova davanti a me. A quegli occhi così particolari. Viola come il peccato,
viola come la collina. La nostra collina.
Se volete
fare di me una fanwriter felice… no, non vi sto chiedendo di commentare. Se
avete tempo e voglia, certo, ma non è per questo che sto scrivendo queste
due righe.
È solo per gongolare un po’: sono riuscita a chiudere la storia là dove
l’aveva iniziata – e se rileggete la prefazione lo noterete.
E per scusarmi un po': non è forse il finale che avevo desiderato per questa
storia, né quello che, in partenza, avevo scritto. Ma come ho già detto
altrove: mi sono completamente disinnamorata di questo racconto. Non è colpa
dei personaggi: loro han fatto del loro meglio. È stata colpa (ma si può
parlare di colpa?) mia, se da due anni non mettevo una pietra sopra la loro
storia.
Ora l'ho fatto e, vi dirò: mi sento meglio. Non mi cambia la vita, lo so, ma
mi sento meglio.
E grazie per avermi seguita fin qui.
Grazie davvero.
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