Insieme per sempre

di sailormoon81
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1/1 la voce del Tokyo Magazine ***
Capitolo 3: *** 2/1 - Vuole la guerra? ***
Capitolo 4: *** 3/1 - Che la battaglia abbia inizio ***
Capitolo 5: *** 4/1 - In partenza ***
Capitolo 6: *** 5/1 - Piacere di conoscerti... o forse no? ***
Capitolo 7: *** 6/1 - E' la cosa giusta? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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PROLOGO

 

 

L’auto scura procedeva veloce lungo le strade deserte della città.

Dopo pochi minuti, si accostò al cancello di una casa, ancora silenziosa per via dell’ora.

Dall’auto, scese, sicura di sé, una giovane donna dai lunghi capelli biondi. Lentamente, si tolse gli occhiali scuri, rivelando uno sguardo troppo serio, in contrasto con la serenità di quella domenica mattina.

Sforzandosi di sorridere, aiutò qualcuno a scendere dalla vettura: era una bambina di appena cinque anni, con indosso un abitino rosa e tra le braccia uno zainetto a forma di gatta. Si aggrappò alla mano della donna come a non volersene separare.

“Stai tranquilla, piccola. Vedrai che presto starai bene.”

Senza separarsi dalla bambina, la donna si avviò al campanello d’ingresso.

Attese qualche minuto, senza ottenere risposta.

Guardò l’ora: erano da poco passate le nove.

Allungò la mano per suonare nuovamente, quando il rumore di una serratura le fece capire che la sua attesa era terminata.

Ad aprire la porta, fu una giovane donna di appena trent’anni. I lunghi capelli scuri le arrivavano ben oltre la schiena, ed erano tenuto raccolti per metà in uno chignon.

“Posso esserle d’aiuto?” domandò, osservando la donna in abito arancione e la bambina che era con lei.

“Buongiorno. Presumo sia la signora Chiba. Ho urgente bisogno di parlare con suo marito” comunicò la donna, dando l’impressione di non accettare repliche.

“Sono solo le nove del mattino!” provò a protestare l’altra. “Domenica mattina, per la precisione. Non può aspettare, fino al pomeriggio? Sono certa che sarà lieto di ascoltarla…”

La bionda scosse con veemenza il capo. “Forse non mi sono spiegata. Siamo in viaggio da ieri, e non siamo giunte fin qua per farci chiudere la porta in faccia. Se non è in casa, la prego di dirmi dove mi sarà possibile rintracciarlo.”

“Cara? Chi è?”

Una voce maschile interruppe l’ennesimo tentativo di replica della donna mora. Dopo pochi secondi, un uomo, anch’egli sulla trentina, fece la sua comparsa dietro la porta.

La bionda non poté fare a meno di osservarlo con una punta di invidia per la moglie: i capelli scuri, ancora in disordine, gli scendevano leggermente a coprire gli occhi; nonostante sembrasse sveglio da poco, aveva l’espressione attenta, quasi preoccupata per quella visita inattesa. Indossava un paio di pantaloncini neri e una maglia in tinta, e la donna non ebbe difficoltà a immaginare il corpo statutario dell’uomo.

“Lei dev’essere Chiba Mamoru. Dico bene?” Si fece quasi una violenza e gli staccò gli occhi da dosso. Lo fissò dritto negli occhi azzurri, come a fargli intendere che quella non sarebbe stata una visita di cortesia.

“Con chi ho il piacere di parlare?”

“Signor Chiba, mi chiamo Aino Minako. Sono un’assistente sociale” si presentò. Poi, spinse in avanti la bambina. “Lei è Chibiusa. Se non le spiace, devo parlarle in privato.”

L’uomo osservò la piccola qualche secondo in più del dovuto. Aveva una strana pettinatura, a lui familiare: i capelli erano raccolti un due buffi codini, somiglianti alle orecchie di un coniglio. Era un modo di legare i capelli a lui fin troppo conosciuto. Bastò questo particolare a decidere di accogliere quelle due estranee in casa sua, alle nove di domenica mattina.

Rivolse un sorriso alla moglie, come a volerle fare intendere di non avere scelta, e aprì maggiormente la porta, permettendo alle due di accomodarsi in casa.

“Minako, posso finire il disegno?” domandò Chibiusa, una volta dentro.

L’interpellata sorrise alla piccola. Poi rivolse un cenno alla signora Chiba, come a chiederle un posto per accontentare la bambina.

“Vieni con me, piccolina. Andiamo a quel tavolo laggiù, così finisci i tuoi disegni. Mio marito e la tua mamma devono parlare…”

La bambina scosse la testa. “Lei non è la mia mamma” sottolineò. Osservò per un istante la donna che aveva dinanzi, poi decise di potersi fidare di lei: prese la mano che le offriva e si lasciò guidare al tavolo, al centro della stanza da pranzo. Sotto gli occhi dei presenti, prese, con attenzione quasi maniacale, i disegni colorati a metà da dentro lo zaino e si mise all’opera.

“Signor Chiba, quello che sto per dirle…”

“Mi chiami pure Mamoru” invitò l’uomo, prendendo posto nella poltrona in pelle. Non gli era mai piaciuta, quella poltrona. Dopo essersi sistemato, si chiese mentalmente perché avesse scelto quel posto. Alzò lo sguardo, rendendosi conto che, da lì, riusciva a vedere perfettamente la bambina, intenta a colorare i suoi disegni. “Lei è mia moglie, Setsuna” presentò, riscuotendosi.

“Posso offrirvi qualcosa?” chiese questa. “Un po’ di latte per la bambina, magari…”

Minako accettò l’offerta per la piccola, ringraziando la padrona di casa.

“Mi fai compagnia?” chiese la bambina, quando Setsuna le portò il latte con alcuni biscotti.

La donna vacillò qualche secondo. Alternò lo sguardo dalla bambina al marito. Notò un velo di tristezza negli occhi della piccola, e questo bastò per decidere di stare con lei. Anche perché, ammise, sembrava che Mamoru volesse parlare in privato con quella donna.

 

Una volta rimasta sola con l’uomo, Minako prese la parola. “Mamoru, vorrei arrivare subito al punto, se lei è d’accordo.”

Mamoru si dispose ad ascoltare ogni parola che quella donna avesse da dire. Tuttavia, si rese conto che la sua attenzione era calamitata alla bimba di fronte a lui.

Minako notò quanto l’uomo fosse distratto. Decise che, prima do ogni altra cosa, sarebbe stato meglio consegnargli la lettera che custodiva gelosamente nella borsa.

L’uomo osservò confuso le mosse della donna, chiedendo spiegazioni con gli occhi.

“Legga questa. Poi, se vorrà, potrà farmi tutte le domande che desidera.”

Non se lo fece ripetere due volte. Con mani tremanti, aprì la busta. Cominciò a leggere, e dalla calligrafia riconobbe chi fosse il mittente.

 

 

Mio caro Mamoru,

se stai leggendo questa lettera, vuol dire che mi è accaduto qualcosa di irreparabile.

So di non avere il diritto di intromettermi nella tua vita e sconvolgerla, ma non c’è persona al mondo di cui mi fidi, più di te.

La bambina che, adesso, è con te si chiama Chibiusa. Lei è mia… nostra figlia.

Immagino la tua espressione, in questo momento; ti starai chiedendo perché non ti abbia mai parlato di lei.

Ecco, dopo la nostra separazione, ho creduto che sarebbe stato più facile per entrambi seguire strade separate.

Quando scoprii di aspettare Chibiusa, ha prevalso l’egoismo. Quell’egoismo che mi è sempre mancato, da ragazza: Chibiusa era l’unica parte di te che poteva definirsi completamente mia.

Ho provato a crescerla da sola; non è stato facile, ma credo di aver fatto un ottimo lavoro: è molto matura, per la sua età…

Scusami per questo brutto scherzo.

Non conosco tua moglie, ma conosco te e so, che se lei è al tuo fianco, è la donna speciale che meriti.

Prenditi cura di nostra figlia. Offrile l’amore che io, ormai, non le posso più dare.

E dille che sua madre resterà sempre con lei.

E con te.

Porterò con me il ricordo di noi e della nostra bambina.

Tua per sempre,

Usagi

 

Terminò la lettura, rendendosi conto di avere gli occhi lucidi.

Dunque, aveva visto giusto: quella bambina era la figlia di Usagi. La sua Usagi.

Era la loro bambina.

Alzò lo sguardo verso Chibiusa, notando ancora di più la somiglianza con la madre.

“Sta bene, Mamoru?” domandò l’assistente sociale, preoccupata del suo mutismo.

L’uomo fece cenno di sì con la testa, passandosi una mano tra i capelli scuri. “Mi dica, Minako: questo è uno scherzo, non è vero?”

La donna abbassò lo sguardo, quasi cercando una risposta nelle sue decolletè color arancio. “No, Mamoru. Mi spiace, ma è tutto vero.”

Mamoru fece un respiro profondo: sapeva che stava per cedere alle emozioni del momento, ed era altrettanto consapevole di non poterselo permettere. Non in quel momento, almeno.

“Come… cosa è accaduto a Usagi?”

“Un incidente d’auto” rispose semplicemente Minako. “Un camion non ha rispettato il semaforo, scontrandosi con l’auto di Usagi. I paramedici hanno fatto tutto il possibile, ma è deceduta durante il trasporto in ospedale.”

L’uomo ascoltò le parole di Minako fissando il vuoto davanti a sé. Sapeva di dover dire qualcosa, ma la sua mente non voleva collaborare.

“Mamoru, so che è un momento difficile per lei. Ma ora deve farsi forza. C’è una bambina di là che ha bisogno di…”

“No.”

Minako credette di non aver sentito bene. “Prego?”

“Non posso tenerla con me. Deve trovare un’altra soluzione.”

“Mamoru, lei è suo padre. Chibiusa non ha nessun altro, e Usagi ha espressamente chiesto che la piccola fosse affidata a lei.” Minako si rendeva conto di chiedere troppo all’uomo, ma non aveva altra scelta: Chibiusa doveva stare con suo padre. Era tutta la sua famiglia, adesso. “So che non è una scelta facile, ma…”

“No. Usagi non era in sé, quando ha stabilito una cosa del genere” la interruppe. “Non sapeva quello che faceva…”

“Mi creda, Mamoru” provò a convincerlo Minako, “Usagi sapeva quel che faceva, affidandole la bambina” commentò, rendendosi conto dello smarrimento nel volto dell’uomo. “Non l’ho conosciuta personalmente, ma so che era una donna forte, molto coraggiosa e determinata. E responsabile.”

Responsabile. Di certo quell’aggettivo stonava con i ricordi che aveva della sua Usako… Ma era pur sempre la sua Usako.

Mamoru osservò in silenzio la bambina che disegnava: sembrava minuscola, in contrasto con l’enorme tavolo. Accanto a lei, Setsuna pareva molto interessata alle parole e ai movimenti della piccola.

“Io non so se posso farcela…”

Minako sorrise, certa del prossimo cedimento dell’uomo. “Ce la farà. Ne sono sicura. Usagi non avrebbe potuto affidare la propria figlia nelle mani di un irresponsabile…”

Rimasero in silenzio qualche minuto.

Nella stanza solo il ticchettio dell’orologio e il lieve rumore di pastelli sul foglio.

“Resterà con me” mormorò infine Mamoru, forse più a se stesso che a Minako.

La donna sorrise, riconoscendo nell’uomo che aveva dinanzi la persona fantastica che tutti dicevano essere.

Prima di recarsi da lui, aveva preferito fare ricerche su Chiba Mamoru e sua moglie, temendo potesse essere il classico uomo d’affari tutto lavoro, pieno di sé, che non ha a cuore nient’altro che il proprio portafogli.

Era stata contenta di sapere che, dopo un breve periodo di gloria nel Tokyo Magazine, aveva deciso di contribuire concretamente a migliorare la società, stando a contatto con la gente, non solo per dovere: aveva lasciato il suo lavoro per scrivere per il giornale locale, dove era stimato e rispettato da tutti, e più di una volta, negli ultimi anni, si era scontrato con le alte sfere dell’amministrazione locale, pur di ottenere  qualche vantaggio per i suoi concittadini.

Sulla moglie non aveva saputo molto, tranne che insegnasse presso la facoltà di Fisica della città e che aspirasse a una brillante carriera nel mondo della ricerca.

Aveva avuto paura che questo desiderio potesse costituire un ostacolo, per la riuscita della sua missione di assistente sociale; ma scrutando la donna aveva capito che il problema non sarebbe sorto.

“Sono certa che funzionerà. E poi, sua moglie sembra essersene già affezionata” commentò, osservando Setsuna giocare con la piccola. “So che non ce ne sarà bisogno, ma per qualunque difficoltà le lascio il mio recapito” disse, allungandogli un biglietto con il proprio numero telefonico. Poi, si alzò e si diresse verso il tavolo.

Appena la vide, Chibiusa nascose i disegni. Minako sorrise: da quando l’aveva conosciuta, Chibiusa non le aveva mai mostrato ciò che disegnava. Provò un po’ di gelosia, nel rendersi conto che, al contrario, Setsuna era stata ben accetta nel suo piccolo mondo.

“Addio, Chibiusa. Starai bene, qua. Te lo prometto.”

“Minako, non mi lasciare sola. Portami con te” supplicò lei, riponendo in fretta i disegni nello zainetto.

La donna strinse Chibiusa a sé, cullandola per l’ultima volta. Prese lo zainetto della bambina e lo ripose sulla sedia, a indicarle che quella, da quel giorno in avanti, sarebbe stata la sua nuova casa. “Andrà tutto bene, piccola mia. Andrà tutto bene.”

“Che succede, Mamoru?” domandò, spaesata, Setsuna.

“Arrivederci, Minako” salutò lui, ignorando la moglie.

“No” lo corresse lei. “Addio.”

L’uomo accompagnò Minako alla porta, prese le valige di Chibiusa e salutò la donna con una stretta di mano.

Attese per qualche minuto sulla porta dopo la partenza di Minako, e rientrò solo quando fu certo che non l’avrebbe più vista.

“Setsuna, io non voglio stare qua… voglio tornare da Minako.”

Sestuna si voltò a osservare la bambina. “Piccola, ora… ora Mamoru sistemerà tutto. Vedrai che presto tornerai dalla tua mamma.”

La donna osservò Chibiusa stringersi nelle spalle e afferrare lo zainetto blu, portandoselo al petto. “La mia mamma non c’è più.”

Setsuna si voltò verso il marito, come a chiedere conferma.

L’uomo le fece un cenno, invitandola a raggiungerlo.

Senza curarsi della bambina, Setsuna accolse l’invito dell’uomo. Le doveva delle spiegazioni.

Mamoru le diede la lettera, invitandola a leggerla.

“Vado da Chibiusa, e poi ti dirò tutto.”

Mamoru si avvicinò alla bambina. Parlò per qualche minuto, cercando di tranquillizzarla. Solo quando la vide posare lo zaino e tirarne fuori nuovamente i disegni e i pastelli, poté dirsi sicuro nel lasciarla sola. Provò a vedere i lavori della figlia, ma questa sembrava aver deciso che era ancora troppo presto per concedergli la sua fiducia. “No. Tu non puoi vedere.”

Sorridendo, Mamoru accolse la richiesta di riservatezza e si allontanò.

Prima di tornare dalla moglie, portò le valige al piano di sopra.

“Non possiamo tenerla con noi, Mamoru” provò a replicare la donna quando lo vide comparire. “Che ne sarà della nostra vita?”

“Faremo in modo che ci sia posto anche per lei” disse deciso.

Setsuna non riconosceva più il marito. Quando si erano sposati, tre anni prima, avevano deciso che ci sarebbe stato tempo per i figli. Avevano convenuto che la priorità l’avrebbe avuta la carriera, almeno per i primi anni. “Che ne sarà dei nostri sogni? Non vuoi tornare a essere quello che eri una volta? Un uomo stimato da tutti, con un lavoro da sogno? Non voglio dover rinunciare a tutto, solo per accudire la figlia di un’altra!”

“Nessuno ti sta chiedendo questo, Setsuna. La tua carriera universitaria non ne risentirà. Quanto a me, è questo ciò che voglio: non più ricchezza e fama, se deve andare a discapito dei rapporti umani” cercò di calmarla. “Ma cerca di capirmi: è mia figlia. Non posso lasciarla a uno sconosciuto.”

“Chi te lo dice?” domandò Setsuna, con tono di sfida. “Per quel che ne sai, quella donna avrebbe potuto spassarsela con chiunque, dopo che la vostra storia è finita. Ora, dopo sei anni, se ne torna, da morta, con una figlia. E tu sei così idiota da farti abbindolare ancora da lei!”

“Setsuna! Non ti permetto di parlare in questo modo di Usagi. E cerca di abbassare la voce: non voglio che Chibiusa ci senta litigare.”

Setsuna osservò l’uomo che aveva di fronte. “Che sia ancora innamorato di lei?” si trovò a pensare. Poi si voltò verso la bambina: continuava a disegnare, incurante di loro due che litigavano, a pochi metri da lei.

“Vado a preparare qualcosa per il pranzo” disse infine. Poi si voltò e sparì in cucina, lasciando il marito solo, nel grande salone.

 

Chibiusa continuò il proprio lavoro artistico, incurante dello sguardo dell’uomo posato su di lei.

La mamma le aveva spesso parlato di lui, ma le aveva anche detto che, molto probabilmente, non l’avrebbe mai conosciuto, e ne parlava sempre con una strana espressione negli occhi. Una volta, una sua compagna le aveva detto che forse la sua mamma voleva ancora bene al suo papà, ma che non potevano stare più insieme come facevano i veri genitori.

Chibiusa non aveva mai mostrato interesse ad avere una famiglia normale, con tutti e due i genitori, e quasi non le dispiaceva stare sola con la mamma.

Ora, quel cambiamento inatteso la metteva in difficoltà: nei suoi sogni di bambina aveva immaginato il suo papà come un principe dall’armatura splendente. Mamoru, invece, sembrava un semplice papà, come quello delle sue compagne d’asilo. Non sapeva perché, ma non era certa di voler avere lui, come papà: Mamoru era più adatto come amico, che come padre. Ed era quello il motivo per cui non voleva fargli vedere i suoi disegni: solo la sua mamma e il suo papà avrebbero dovuti vederli. Ora, però, la sua mamma non c’era più. Ma aveva avuto Minako, per un po’ di tempo. Solo che anche lei era più un’amica, che una mamma.

E ora aveva conosciuto Setsuna: le era simpatica, e non le sarebbe dispiaciuto che diventasse la sua vice-mamma…

 

Setsuna continuò a lavorare ininterrottamente in cucina, sforzandosi di non pensare a quanto accaduto in mattinata.

Non si sarebbe mai aspettata che Mamoru prendesse una simile decisione senza nemmeno consultarla.

Sapeva che quella bambina non aveva colpa, e doveva ammettere che ci si era affezionata da subito. Solo, non le piaceva che le venissero imposti cambiamenti radicali nella propria vita.

E poi, continuava ad aleggiare il sospetto che suo marito fosse ancora innamorato di quella donna, di Usagi…

 

Mamoru per la prima volta non sapeva cosa fare.

Amava Setsuna, non c’erano dubbi.

Ma amava anche Usagi, sebbene in maniera diversa.

Tutto era successo troppo rapidamente, e doveva ancora assorbire tutte le notizie ricevute quel giorno.

Più di una volta, nel corso della mattinata, aveva creduto si trattasse di un sogno, e che al risveglio avrebbe trovato la moglie accoccolata accanto a lui, in attesa del suono della sveglia.

Ma gli era bastata un’occhiata alla figurina in rosa nell’altra stanza per capacitarsi che tutto fosse reale, che la sua Usako non era più con loro, e che ora toccava a lui prendersi cura di una figlia di cui aveva ignorato l’esistenza per cinque lunghi anni.

Distrattamente, guardò l’ora: il quadrante segnava le dodici e quaranta.

Si fece forza e si diresse in cucina.

“Hai bisogno di aiuto?” domandò alla moglie, più per cortesia, che per altro: tutto sembrava pronto per il pranzo.

“No. Prendi solo la bambina.”

Mamoru sospirò. Evidentemente, è ancora arrabbiata, pensò. Le voltò le spalle, consapevole dei suoi occhi puntati alla propria schiena.

In pochi minuti, aiutò la bambina a prepararsi per il pranzo ed insieme fecero il loro ingresso in cucina.

 

Pranzarono in silenzio, scambiandosi solo brevi frasi di circostanza.

Chibiusa osservò quei due estranei, alternando lo sguardo da Mamoru a Setsuna più di una volta. Non sembrava molto interessata al cibo, ma piuttosto voleva capire se fosse per colpa sua che quei due avessero litigato. Non sapeva cosa accadeva tra una mamma e un papà, ma era quasi certa che non era normale che a stento si rivolgessero la parola…

“Scusatemi” mormorò, interrompendo il silenzio della stanza.

“Cosa c’è, piccola?” domandò la donna, sforzandosi di sorridere alla bambina.

“Niente. Solo: scusatemi, perché voi non vi volete più bene per colpa mia.”

I due adulti si osservarono qualche secondo, poi si voltarono entrambi verso Chibiusa.

“Noi ci vogliamo ancora bene” la tranquillizzò Mamoru. “Ma è stata una mattinata piena di novità, e siamo un po’ stanchi.”

“Già, tutto qui” fece eco Setsuna.

“Allora, non vi scoccia avermi con voi?”

“Certo che no!” rispose la donna, serenamente. “E ora mangia, prima che si freddi tutto.”

Sollevata, Chibiusa tornò al suo arrosto con patatine, riuscendo anche a goderselo.

Mamoru non nascose lo stupore nel sentire parlare in quel modo la figlia. Usagi aveva ragione: sembrava già molto matura, per i suoi cinque anni…

Per un attimo, pensò che, dall’esterno, chiunque avrebbe potuto dire che fossero una normale famiglia giapponese, durante un normale pranzo domenicale. “Se le cose fossero andate diversamente” rifletté, “a quest’ora ci sarebbe Usagi…” Scacciò violentemente quel pensiero, sentendosi in colpa anche solo per aver desiderato Usagi, al posto di Setsuna.

Terminato il pranzo, Mamoru accompagno Chibiusa in quella che sarebbe stata la sua stanza.

“Ancora ci sarà molto da lavorare” si scusò, nel varcare la soglia della camera degli ospiti, “ma sono sicuro che presto sarà la cameretta più invidiata della tua scuola.”

“Anche nell’altra casa avevo una cameretta tutta mia!” esultò Chibiusa, non trattenendo l’euforia e correndo per tutta la stanza.

Mamoru sorrise: non credeva che quattro semplici pareti potessero avere un simile effetto in una bambina. Guardò la figlia correre intorno al tavolo, al centro della stanza, per poi quasi saltare sul letto, forse troppo grande per lei.

“Piano, Chibiusa. O ti farai male.”

La bambina scosse il capo, regalandogli un sorriso. “Non mi importa di farmi male: questa stanza è bellissima, e so che non potrà accadermi niente se sono qua! La mamma me l’ha promesso.”

Mamoru ebbe un sussulto nel vedere quel sorriso talmente simile a quello della madre. Poi la aiutò a sistemarsi per un breve riposino pomeridiano. “Devi essere molto stanca, tra il viaggio e tutto il resto. Io vado di sotto ma, se hai bisogno, sarò qui in un baleno.”

Chibiusa annuì, poi lo prese per mano lo attirò a sé, per dargli un piccolo bacio sulla guancia.

Mamoru ricambiò quell’attenzione con una breve carezza. Poi uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Giunto al piano inferiore, trovò la moglie in piedi, vicino le scale.

“Dimmi la verità, Mamoru: tu l’ami ancora, non è vero?”

L’interpellato la osservò come se la vedesse per la prima volta: gli ci volle qualche secondo prima di capire a cosa si stesse riferendo. “Che vai dicendo, Setsuna?” domandò infine.

“Non hai potuto avere la madre, e così adesso vuoi la figlia…” continuò lei, non staccando gli occhi dal muro di fronte.

“Setsuna, lo sai che ti amo.” La voce di Mamoru si addolcì, capendo, improvvisamente, quali fossero stati i pensieri della moglie, per tutto quel tempo. L’abbracciò, notando come fosse tesa. Rimase in silenzio qualche secondo, non staccandosi dalla donna. “Usagi è stata una parte importante della mia vita” continuò. “Ora ha bisogno di me. Mia figlia ha bisogno di me. Non te lo chiederei se non fossi certo che è così.”

La donna parve riflettere. Poi si voltò, ricambiando l’abbraccio del marito, e nascose il volto contro il petto dell’uomo. “Parlami di lei. Così, forse, potrò amare questa bambina, come se fosse mia.”

 

 

 

 

Va bene, lo so che starete pensando: Non riesce a portare a termine una storia già conclusa, e si cimenta in qualcosa di nuovo!

La verità è che in questo periodo l’ispirazione latita alla grande: non ho un vero e proprio stimolo per continuare a scrivere, e sto male (ma proprio male male) per questo.

Allora ho pensato che, avendo l’esigenza di soddisfare i lettori e dire loro come va avanti, forse potrei riuscire a ritornare in me e scrivere come prima.

Diciamo che questa fic è un po’ molto particolare: si tratta, infatti, del romanzo a cui sto lavorando da un annetto a questa parte, solo che senza alcuna ragione apparente è rimasto ad ammuffire nel pc in attesa di essere completato.

Ovviamente, i personaggi sono un po’ forzati nelle loro parti, ma mi rendo conto che, mentre li delineavo, avevo bene in mente i caratteri basilari di Usagi&co.

Dunque, non mi è dispiaciuto inserire la storia in questa categoria: con un po’ di sforzo, dovrei riuscire a modificare i capitoli già pronti come ho fatto con questo, in modo che possa adattarsi al meglio ai personaggi di Sailor Moon.

È suddiviso in un prologo (questo) e due parti, di non so bene quanti capitoli ciascuna.

Infine, ne approfitto per ringraziare Luisina: sembra strano, ma dopo la nostra chiacchierata di ieri sera mi è venuta voglia di riprendere a scribacchiare qualcosa ^^

E con questo, passo e chiudo fino al prossimo aggiornamento… che non so quando sarà XD

 

Bax, Kla

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Capitolo 2
*** 1/1 la voce del Tokyo Magazine ***


Nuova pagina 1

1.

La voce del Tokyo Magazine

 

 

Il suono insistente della sveglia pose fine al mio sonno.

Svogliatamente, allungai una mano sul comodino e, senza curarmi di essere delicato, afferrai quell’arnese infernale e lo lanciai a terra.

La sera precedente avevo fatto le ore piccole, e adesso ne pagavo le conseguenze.

A fatica, aprii gli occhi: la luce del giorno filtrava attraverso le persiane ancora abbassate, e mi ci volle un po’ per abituarmi a quella lieve luminosità.

Mi alzai e in pochi minuti mi preparai per un nuovo giorno di lavoro; mi osservai allo specchio, soddisfatto: barba fatta di fresco, capelli perfettamente ordinati, giacca, cravatta. Sì, tutto come sempre, perfetto come sempre.

Un rapido caffé e un saluto a Fiamma, il mio pesce rosso, ed ero già in strada.

Erano appena le sette e trenta, ma la città era nel pieno della sua attività. La temperatura era mite, nonostante l’inverno fosse alle porte, e decisi che, per quella giornata, avrei fatto a meno dell’auto, in favore di una breve passeggiata a piedi.

Guardandomi intorno, potevo rimirare il mio volto un po’ ovunque: Mamoru Chiba, la voce del Tokyo Magazine. Ero un’istituzione, in città: i miei articoli attiravano ogni giorno sempre più consensi, nonostante i toni graffianti e la pungente ironia che caratterizzavano ogni mio scritto.

Tutto questo non poteva che essere una carica per il mio ego, di prima mattina. Mi fermai pochi minuti per acquistare una copia del Magazine, e come consuetudine mi trovai a rispondere alle molte occhiate lanciate in mia direzione.

“Il solito per lei, signor Chiba?” chiese il vecchio edicolante, allungandomi una copia del giornale.

“Grazie, Archie.” Sorrisi sincero: l’uomo, arrivato fin qui dall’america tanti anni prima, era stato uno dei primi a credere in me quando, ancora bambino, gli tenevo compagnia dopo la scuola e gli facevo leggere i miei articoli per il giornaletto scolastico. Trovavo strano sentirmi chiamare signor Chiba da qualcuno che, praticamente, mi aveva visto crescere, ma ogni volta che provavo a farglielo notare, Archie mi ripeteva sempre che il rispetto era d’obbligo per chi si era fatto strada da solo.

“Anche oggi le ragazze fanno a gara a chi riceverà il saluto del giorno, eh?” commentò, alludendo alle donne che, tutte le mattine, si fermavano vicino la sua edicola, sperando di poter scambiare anche solo una battuta con me.

Sorrisi in sua direzione. “Che vuoi farci, Archie: è il prezzo del successo. Quando alla popolarità si aggiunge anche il mio fascino…” dissi, non terminando la frase come a voler enfatizzare l’ovvio.

Salutai l’uomo e lo sentii ridere, prima di rivolgersi a un nuovo cliente: “Io l’ho visto crescere, quel ragazzone. Dovevate vederlo, quando a sette anni si lamentava perché avevo terminato il suo giornalino preferito… E ora? Guardatelo: ora è lui a scriverli, i giornali.”

Potevo quasi vedere la sua espressione nel parlare di me, e non faticavo neanche a immaginare il volto esterrefatto del cliente di turno che, incurante del ticchettare dell’orologio, si tratteneva qualche secondo in più del dovuto, solo per ascoltare il vecchio Archie.

Ormai non mi stupivo più di questa popolarità: gli uomini volevano essere come me, e le donne sognavano di finire, un giorno o l’altro, tra le mie braccia.

Ero consapevole di questo effetto sugli altri, e non mi preoccupavo a mostrarmi modesto con chi me lo faceva notare. Nonostante non avessi neanche trent’anni, ero considerato lo scapolo d’oro della città, e non solo per i soldi che, onestamente, non mi mancavano.

Potevo dire tranquillamente di essere un giovane di bell’aspetto, con un fisico da atleta e lo sguardo penetrante da divo del cinema.

L’unico mio difetto era il carattere: asociale e pragmatico fino al midollo, ero fiero di non dover mai chiedere niente a nessuno; ero arrivato al successo grazie alle mie sole forze, e non potevo permettermi di rovinare la mia carriera per qualche debolezza momentanea, o qualche sogno irraggiungibile di troppo.

La mia vita era perfetta. Non potevo desiderare altro.

 

Giunsi in ufficio con largo anticipo sul mio orario di lavoro, e trovai ad attendermi Rei Hino, la collaboratrice del direttore, Ikeda Eishi.

“Ben arrivato, Mamoru” salutò, scostandosi dalla porta del mio ufficio quel tanto che bastava perché potessi entrare.

“Ciao, Rei. A cosa devo l’onore della tua visita, prima ancora del mio arrivo?” chiesi.

Prima di rispondere, aspettò che mi fossi spogliato del cappotto e sistemato sulla sedia, dietro la scrivania. Non perse tempo e, dopo aver fatto il giro del tavolo, si sedette su di esso, lasciando che la gonna, già corta, le salisse ancora di più, mettendo in mostra le sue gambe ben tornite.

“Ti vedo stanco, Mamoru. Un’altra notte passata con qualche bella donna nel tuo letto?” domandò, passandosi una mano tra i capelli scuri.

Sospirai. Non ero tipo da esternare la mia vita privata al primo venuto. E meno che mai a Rei Hino: tempo addietro avevamo avuto una relazione, e mi sentivo a disagio parlare con lei delle mie nuove avventure.

“Rei, non credo tu sia qui per sapere come ho trascorso la notte” dissi, lapidario. “Mi dici cosa vuoi? Ho molto lavoro da fare, oggi.”

Il sorriso sul suo volto sparì all’istante. Mi dispiaceva essere duro con lei, ma non mi lasciava altra scelta.

Scese dalla scrivania e si ricompose. “Volevo solo essere gentile e augurarti una buona giornata.”

Senza attendere una mia replica, si voltò e uscì dall’ufficio.

Scossi il capo, provando a scacciare l’immagine di Rei dalla mia mente: ormai erano trascorsi quasi due anni da che ci eravamo lasciati, ma a quanto pareva Rei non aveva capito che, da parte mia, non c’era più alcun interesse nei suoi confronti. Certo, attraente lo era, e anche molto. Solo che lei cercava una relazione seria, ed io non mi sentivo pronto a un legame duraturo; ero giovane, e potevo avere tutto ciò che gli altri solo sognavano: perché rinunciare alla libertà, quando non se ne sente il bisogno?

Aprii la casella di posta elettronica, e i trenta nuovi messaggi mi fecero sorridere di compiacimento.

“Cosa le hai detto, stavolta?”

Alzai lo sguardo e vidi il mio collega fissarmi dalla porta.

“Ciao, Motoki.”

“Allora, Mamoru? Cosa hai fatto per farla arrabbiare tanto, di prima mattina?” domandò, accomodandosi nella sedia di fronte a me.

“Le ho solo ribadito che non deve interessarle ciò che faccio, nella vita privata.”

Annuì, come a voler dire che aveva inteso la situazione.

Motoki Furuhata era da sempre il mio migliore amico, l’unico a cui avevo permesso il lusso di conoscermi per come fossi realmente. “E a cosa devo quelle occhiaie profonde?”

Istintivamente, portai la mano sotto gli occhi, massaggiandoli. “Il solito, Motoki. Partita a biliardo al pub, qualche birra di troppo e una rossa tutto pepe con cui trascorrere gran parte della notte.”

“Mamoru, Mamoru” commentò, con lo stesso tono con cui si rimprovera un bambino che ha combinato un guaio. “Se continui così, rischi di restare solo in eterno.”

Lo fissai a mia volta. “Sono ancora giovane, per pensare di metter su una famigliola felice.”

Sospirò. “E che male ci sarebbe nel desiderare una famiglia, un giorno?”

“È questo il punto: un giorno. Ora, voglio solo godere appieno della mia condizione” dissi, alzandomi e dirigendomi verso la macchinetta del caffé del mio ufficio. Con un lieve movimento della mano chiesi se ne volesse anche lui, e a un cenno negativo mi versai un abbondante bicchiere di caffé bollente.

“Guarda me e Makoto: stiamo bene insieme, ma non per questo rinunciamo alla nostra libertà…”

Motoki e Makoto Kino erano una coppia da che li avevo conosciuti. Lui, ai tempi del liceo, lavorava part-time in una sala giochi, e lei era la nipote del proprietario del locale. Erano cresciuti praticamente insieme, e da subito si erano piaciuti.

Molte volte, osservandoli, avevo desiderato ciò che loro due avevano trovato l’uno nell’altra, ma nessuna delle ragazze con cui ero stato mi aveva spinto a desiderare una relazione che andasse oltre l’avventura di una notte, o poco più.

Forse con Rei ero andato davvero molto vicino a qualcosa di simile alla relazione del mio migliore amico, ma il terrore di legarmi a qualcuno, e di conseguenza di poter stare male per qualcuno, aveva avuto la meglio, e a ventott’anni suonati ero felicemente single.

“Sai come sono fatto, Motoki. Una donna, per stare con me, non deve avere alcuna visione del nostro futuro insieme. E, forse, potremmo avere anche qualcosa che si avvicini lontanamente ad una relazione sentimentale.”

“Come vuoi tu, amico” commentò. Si alzò e, mani in tasca, lasciò il mio ufficio.

Motoki era un amico fantastico. Sapeva perfettamente quando era il momento di parlare, e quando, al contrario, era meglio tacere.

Non ricordavo come eravamo diventati tanto uniti, ma la sua presenza nella mia vita, benché non gliel’avessi mai detto, era molto importante.

E sì che eravamo diversi in tutto. Lui, con i capelli biondi e i suoi occhi azzurri, sembrava il classico principe azzurro delle fiabe, dedito al romanticismo in ogni sua forma.

Dal canto mio, detestavo tutte quelle coppiette che sbrodolavano miele a ogni ora del giorno; mi sembravano comportamenti stereotipati, che non mi appartenevano. E questa non spontaneità era stata, più di una volta, motivo della fine di tutte le mie relazioni: sentivo di non piacermi più, e non potevo arrivare al punto di odiare me stesso, diventando un burattino nelle mani degli altri.

Da qui, a diventare il Don Giovanni amato da tutti, il passo era stato breve.

Ritornai alla scrivania e aprii i vari messaggi di posta elettronica.

Come da programma, la maggior parte erano commenti rivolti più alla mia persona, che al mio lavoro di giornalista, e solo qualcuno sembrava aver letto sul serio la mia rubrica. Ormai era normale routine, e non mi curavo di quelle e-mail il cui mittente era una donna: non mi andava di prestare più attenzione del dovuto all’ennesimo messaggio contenente frasi del tipo “Sei un uomo fantastico” oppure “Se non sei già impegnato, potremmo incontrarci per bere qualcosa, e poi chissà”. Per quanto all’inizio fossero estremamente lusinghieri, alla lunga rischiavano di mettere in dubbio le mie capacità scrittorie, se tutto ciò che risultava dalla lettura di un mio pezzo erano commenti personali.

Non mi lasciai scoraggiare da questo particolare e, con buona disposizione d’animo, risposi a tutte le e-mail con un cortese “Grazie per aver scelto di trascorrere il tuo tempo in mia compagnia. Spero continueremo ad averti tra i nostri lettori di fiducia. Firmato: Mamoru Chiba, la voce del Tokyo Magazine”.

Per fortuna, esistevano i modelli di risposta già predefiniti, altrimenti avrei impiegato un’intera giornata per rispondere a ognuna di quelle e-mail…

Già in quel modo, trascorsi gran parte della mattinata dedicandomi esclusivamente alle risposte e ai saluti ai lettori.

Mi stiracchiai sulla sedia e controllai l’ora: mancavano poco meno di quindici minuti a mezzogiorno. Avevo ancora un’ora abbondante per presentare un’idea per il numero seguente del giornale.

Aprii la cartella dei vecchi articoli, per evitare di risultare ripetitivo: nell’ultimo anno avevo affrontato talmente tanti argomenti che ne avevo perso il conto. Mentre sfogliavo i documenti, l’occhio mi cadde sulla pubblicità della mostra di arte contemporanea che avevo visitato pochi giorni prima, ed ebbi come l’illuminazione: era da tanto che non mi occupavo di arte grafica, e parlare di quella mostra sarebbe stato sicuramente un’ottima variazione al repertorio dell’ultimo periodo, incentrato per lo più su fatti di attualità e politica.

Iniziai a buttare giù il pezzo, e quasi senza accorgermene avevo già completato le due colonne utili per riempire lo spazio a mia disposizione.

Lo rilessi e non potei fare a meno di complimentarmi per la riuscita del pezzo: ero riuscito a descrivere alla lettera tutti quegli aggeggi più assurdi che avevo avuto il privilegio di osservare, non dimenticando di inserire quel tocco di ironia che mi distingueva da un qualsiasi giornalista. Tra i vari pezzi della mostra che avevano attirato il mio interesse, spiccavano gli arnesi più disparati rivestiti di vernice o tessuti mimetici, e nello scrivere l’articolo non avevo omesso la mia perplessità nell’immaginare un soldato impegnato in missione di guerra che, preso dai morsi della fame, tiri fuori, non si sa bene da dove, un mini-forno foderato in tessuto camouflage e annessi accessori per uno spuntino veloce.

Avrei potuto continuare a descrivere tutte le assurdità viste alla mostra, dalla macchina per cucire in mimetica al set di bricolage per esperti soldatini, ma decisi che, per quel giorno, avevo già fatto abbastanza…

Stampai il documento per poterlo portare personalmente a Ikeda, prima che fosse lui stesso a richiederlo: ormai, era diventata un’abitudine che il direttore in persona leggesse i miei pezzi prima che andassero in stampa. Lui affermava che voleva essere il primo a complimentarsi con me per le idee più disparate, ma io credevo si trattasse di sana preoccupazione per come quelle idee venivano buttate fuori…

Attraversai quasi controvoglia il corridoio che separava la mia stanza da quella di Ikeda. Intorno a me, i miei colleghi lavoravano senza sosta, e solo qualcuno sembrava essersi accorto che l’ora del pranzo fosse passata da un pezzo.

Bussai alla porta di Ikeda, ma non ottenni risposta.

Rimasi a fissare le pareti bianche, quasi asettiche, per qualche minuto, prima di decidermi a tornare sui miei passi. Trovavo strano che il direttore non fosse in ufficio, specie perché non aveva dato a nessuno indicazioni su cosa fare del mio articolo, prima che andasse in stampa. Pensai che, forse, Ikeda avesse deciso che non valeva la pena controllare, giornalmente, il mio operato.

Stavo per rientrare alla mia postazione, ma mi scontrai nuovamente con Rei.

“Bene, stavo per venire da te” sorrise, quasi provocatoria.

La guardai sospettoso. “È successo qualcosa di grave?” domandai. “Cercavo Ikeda, ma non è nel suo uffcio…”

Mi fece cenno di seguirla nella sua stanza e, una volta dentro, mi porse alcuni documenti.

“Non capisco” ammisi, dopo avervi dato una rapida occhiata. Ed era vero: quei fogli mettevano a confronto i costi per l’acquisizione di una nuova testata giornalistica con quelli di uno show televisivo.

“Chiarisco subito. Ikeda vuole acquisire un nuovo giornale. È una testata di provincia, e sta valutando l’ipotesi di assorbirla al nostro, dato che non sta dando molti frutti.”

“Bene. E il resto?”

“Lo show televisivo? Presto detto: si pensa a un programma televisivo in cui discutere di tutto e di più. E indovina chi potrebbe essere il conduttore?”

Mi domandai se avessi capito bene. Rei, leggendo il mio stupore, continuò: “Ikeda ha capito che ti si può dare più libertà di espressione, senza necessità di continui controlli, e per dimostratelo ha intenzione di lanciare un nuovo programma di attualità e cronaca, tutto tuo. O in alternativa, di lasciarti dirigere il giornaletto.” Lo sprezzo nelle sue parole era evidente. “Il consiglio di amministrazione deve scegliere se portare avanti il nuovo giornale o avviare lo show.”

Era una notizia niente male, e non capivo come potesse essere un problema, specialmente se, come aveva detto Rei poco prima, quel giornale di provincia fosse a un passo dal baratro. Lo dissi alla collega, e la sua risposta mi fece gelare il sangue: “Hanno capito che se vogliono stare in piedi devono darsi da fare” commentò, porgendomi un quotidiano, “e hanno dato corda alla loro migliore rubrica.”

“Continuo a non seguirti, Rei. Puoi essere meno enigmatica, e dirmi cosa c’entra La posta del cuore di Lady Tsukino con tutto il resto?”

“In una sola settimana, e cioè da quando Ikeda ha annunciato di volerli accorpare a noi, questa Lady Tsukino sta facendo faville, e le vendite sono aumentate del quindici percento. In una sola settimana!”

E tutto mi fu chiaro.

Rei se ne accorse, forse perché assunsi un’espressione di chi è condannato al patibolo.

“Se hanno successo, puoi salutare i tuoi sogni di gloria e iniziare a fare le valigie. Diventeresti il nuovo direttore del giornalino degli scout” sorrise, e giurai che fosse quasi contenta di quella situazione.

Ma non mi importava di Rei, in quel momento.

Avrei dovuto inventarmi qualcosa, oppure avrei detto addio alla mia vita perfetta.

 

 

 

 

Accidenti, quanti lettori già nel prologo **

Spero di non avervi delusi con questo capitolo…

Prima di andare avanti, è bene sottolineare che il cambio di registro usato è del tutto voluto ^^

Il progetto per questa fic prevede due parti ben distinte: nella prima, che ha avvio con questo capitolo, vediamo Mamoru raccontare la sua vita (o almeno i fatti che a noi interessano ^^); nella seconda parte, ritorneremo ad assistere alle vicende della nuova famiglia Chiba: Mamoru, Setsuna e Chibiusa, e se tutto va come spero dovrei riuscire a dare risalto ai numerosi cambiamenti che questa vita a tre comporta.

 

Vorrei promettervi un aggiornamento ogni tot di tempo, ma so già di non potermelo permettere, e non mi piace venire meno alle promesse…

 

Detto questo, a risentirci con il prossimo capitolo ^^

 

Bax, Kla

 

 

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Capitolo 3
*** 2/1 - Vuole la guerra? ***


2.
Vuole la guerra?


Stringendo tra le mani la copia del Yomiuri Shinbon, mi diressi in ufficio, e chiusi la porta con talmente tanta violenza che mi sembrò quasi che le pareti tremassero.
Non potevo credere a quanto dettomi da Rei: Ikeda avrebbe davvero compromesso la mia carriera in favore di un giornaletto di provincia?
Dovevo pensare a qualcosa, e in fretta.
Lanciai il giornale sulla scrivania e mi preparai un caffé. Stavo esagerando con quella bevanda, ma ne avevo assolutamente bisogno.
Sorseggiando quel liquido nero, ebbi la sensazione di riuscire a calmarmi, anche se non troppo.
Continuavo a fissare il viso di Lady Tsukino, e mi domandavo come avesse fatto, quella faccia di luna, a far aumentare in modo talmente rapido le vendite del suo giornale.
“Tutto bene, Mamoru?”
Era Motoki. Gli feci cenno di entrare e lo invitai ad accomodarsi.
“Riesci a crederci, Motoki?” domandai, dopo avergli brevemente esposto i fatti.
Lui prese in mano il giornale e lesse alcune righe. “Questa la conosco. La sua rubrica è la preferita di Mako-chan. Non è niente male, sai?”
“Così non mi aiuti!” lo rimproverai.
“Scusa” mormorò, quasi divertito. “Forse dovresti riuscire ad attrarre lettori con le sue stesse armi.”
Lo fissai, cercando di immaginarmi dove volesse arrivare con quelle parole.
“Per prima cosa, ti consiglio leggere qualche suo articolo; e poi potresti trovare il modo di controbattere, giocando al suo stesso gioco…”
L’idea di Motoki non sembrava malvagia… L’unica pecca era l’implicita importanza che avrei dato a quella ragazzina, se avessi letto la sua rubrica.
“Scordatelo” dissi. “Non leggerò mai i consigli di una che, al posto dei capelli, sembra avere due polpette di carne!”
Lo sentii sospirare pesantemente: sapevo che aveva ragione, ma non potevo cedere. Non potevo ammettere che, per salvare la mia carriera, avrei dovuto lottare contro una che sembrava appena uscita dal liceo.
“Come vuoi tu, Mamoru. Ma non dire che non ti ho suggerito una soluzione…”
Trovai strano che si fosse arreso senza provare a farmi cambiare idea. Non era da lui… Feci per ribattere, ma lo squillo del telefono mi interruppe. Dal suono, potevo dire che si trattava di una chiamata interna. Fissai il mio amico, come a chiedergli cosa avrei dovuto fare.
Motoki mi osservò confuso, non riuscendo forse a capire perché non volessi rispondere.
“Sì?” dissi infine, alzando il ricevitore. “Sì, signor Ikeda. Arrivo subito.”
Riappesi e guardai Motoki: dovevo avere un’espressione a metà tra l’affranto e l’indispettito. “Era Ikeda” dissi. “Vuole vedermi per parlare di un argomento di particolare rilevanza.”
“Magari vuole solo congratularsi con te per il tuo futuro di presentatore televisivo…” provò a consolarmi, ma entrambi sapevamo quanto quell’eventualità fosse possibile come la neve a ferragosto.
“Sarà meglio che vada.” Mi congedai, lasciandolo solo nel mio ufficio, e mi diressi, mesto, verso la stanza di Ikeda.

Bussai, e prima che potessi rendermene effettivamente conto, la voce di Ikeda mi invitò ad entrare.
Mi stupii di non trovare Rei alla sua solita postazione, ma non avevo tempo per pensare anche a lei.
“Mamoru, caro!” mi salutò Ikeda, alzandosi e invitandomi ad avanzare verso di lui.
Benché frequentassi assiduamente l’ufficio del direttore, fu come se lo vedessi per la prima volta. I mobili in legno massello sembravano ancora più pregiati del solito, e l’intera stanza sembrava brillare di vita propria.
Un’occhiata al volto rotondo del mio capo mi fece capire il perché di quella sensazione: era felice, come una Pasqua. Sembrava come un bambino che ha ottenuto ciò che desiderava per il suo compleanno.
Il sorriso che aveva mi fece distendere i nervi: se era così contento, evidentemente per me erano in vista belle notizie.
“Accomodati, Mamoru” mi invitò nuovamente. “Posso offrirti una tazza di caffè?”
Ne avevo appena finita una nel mio ufficio, e accettarne un’altra avrebbe significato quasi un tentativo di suicidio.
“No, grazie. Piuttosto, posso sapere il motivo della mia convocazione?” domandai. Nonostante mi fossi ripromesso di essere il più naturale possibile, non riuscii a tenere a freno la mia curiosità.
“Che ragazzo!” rise. “Fai bene ad essere così apprensivo. Ci sono grosse novità, per te.”
Pensai che, dopotutto, la previsione di Motoki di stesse rivelando corretta, e che Ikeda stesse per annunciarmi il prossimo salto in avanti della mia carriera. Dovetti tenere a freno l’entusiasmo, e mi sforzai di apparire professionale, come non lo ero mai stato.
“Sta per raggiungerci la nostra Rei, e preferisco attendere il suo arrivo, prima di comunicarti la grande notizia.”
Fece una pausa per sorseggiare il contenuto del bicchiere che aveva dinanzi, e quasi come se fossero sincronizzati, non appena le sue labbra si staccarono dal bicchiere, ecco presentarsi Rei, anche lei con un sorriso smagliante stampato in volto.
Mi sentivo come qualcuno a cui è stata promessa una vacanza ai Carabi, in attesa di ricevere i biglietti e le prenotazioni…
“Scusate il ritardo” salutò Rei, avvicinandosi.
“Non si preoccupi, signorina Hino” concesse Ikeda.
Mi meravigliai di come fosse formale e distaccato il suo rivolgersi a Rei, mentre con me, da sempre, si era mostrato molto più affabile.
“Ora che ci siamo tutti, credo sia più che giusto che a presentare la proposta al nostro Mamoru sia proprio lei, Rei. Dopotutto, questa è una sua idea” cominciò Ikeda. Poi si rivolse a me, sorridendo sornione: “Non sai quanto ha insistito perché dessi a te questa possibilità.”
Non potevo credere alle mie orecchie: possibile che Rei avesse avuto un ruolo fondamentale nella mia promozione? Perché, ormai ne ero certo, Ikeda stava per comunicarmi una promozione.
“Sì, signor Ikeda. Ho già avuto modo di esporre a Mamoru la situazione di bivio in cui ci troviamo” prese la parola Rei. Sorrise in mia direzione, e avvertii come un brivido lungo la schiena. Improvvisamente, mi sentivo a disagio…
Tornai a prestar attenzione a Rei: senza distogliere i suoi occhi dai miei, e con un sorriso trionfante sulle labbra, continuava a parlare di statistiche, numeri e sondaggi effettuati tra i lettori del Magazine. “E in base a tutto questo, ho proposto una nuova rubrica, parallela a quella di Lady Tsukino.”
“In tal modo” la interruppe Ikeda, con aria soddisfatta, “potremmo valutare come reagiscono allo Shinbon se posti in competizione diretta con un degno avversario. E chi meglio di te, Mamoru, potrebbe gestire la nuova rubrica?”
Lo sguardo di Rei era vittorioso. “Potresti studiarla, analizzare i suoi articoli, e controbattere sullo stesso argomento in modo ben più incisivo, attirando sempre più nuovi lettori al nostro giornale.”
Il senso di disagio aumentò: era la stessa idea propostami da Motoki! Pensai che, forse, il mio amico stesse cercando di mettermi in guardia.
Continuai ad annuire, come se le loro parole fossero il Verbo, ma in realtà la mia mente era altrove: pensavo al discorso fattomi da Rei poco prima, quando mi aveva presentato i due fascicoli da studiare; e pensai alla sua battuta finale, e al fatto di diventare il nuovo direttore del giornalino per scout. E rabbrividii.
“Che ne pensi, Mamoru? Ne sarai all’altezza?” La voce di Ikeda mi riportò alla realtà.
“Non credo di essere la persona adatta a questo genere di lavoro” obiettai, cercando di sistemarmi meglio sulla sedia, divenuta incredibilmente scomoda. “Io sono un opinionista che tratta per lo più di arte, attualità, cronaca. La rubrica di Lady Tsukino è qualcosa che più si avvicina alla posta del cuore… Non ci sarebbe battaglia, perché non c’è alcun campo in comune tra i nostri modi di lavorare.”
Nonostante il mio tentativo di replica, sapevo che Ikeda aveva già deciso. Non mi aveva convocato per chiedere la mia opinione, ma solo per comunicarmi la sua decisione.
“Sciocchezze, Mamoru” disse infatti. “Lo sappiamo entrambi quanto siano vaste le tue capacità. E non avrai alcuna fatica a dare il meglio di te, anche in argomenti più leggeri!”
Ikeda si alzò: un gesto molto eloquente per comunicarci che la riunione speciale fosse terminata. “Mamoru” mi richiamò, “penso che le spiegazioni di Rei siano state più che esaurienti… Non posso permettermi questo nuovo investimento e, nel contempo, il tuo lancio televisivo. Un tuo fallimento in questa, chiamiamola, guerra interna, significherebbe la necessità di trovare, con urgenza, un nuovo direttore per quella testata di provincia…”
Annuii a quella velata minaccia, come in trance. Mi lasciai guidare alla porta da Rei e, una volta fuori non potei fare a meno di aggredirla verbalmente.
“Che diavolo pensavi di fare?” le domandai, prendendola per un braccio.
“Hai sempre detto di poter battere chiunque, in fatto di giornalismo, no? Bene, questa è la tua occasione per dimostrarlo.” Con un gesto deciso si liberò dalla mia presa. “E ora, se permetti, ho altro da fare… Ah,” disse poi, colpendosi la fronte con il palmo di una mano, “penso che questo possa esserti d’aiuto.”
Afferrai la busta che mi porgeva e la osservai allontanarsi. Era bella. Dannatamente bella e seducente. E lei lo sapeva.
Non potevo pensare a lei, però: la mia carriera era appesa ad un filo.
Rigirai tra le mani la busta e mi incamminai verso il mio ufficio.
Chiusi la porta a chiave per non essere disturbato da nessuno. Non volevo avere vicino a me neanche Motoki, in quel momento.
Aprii il pacchetto affidatomi da Rei e sentii la stizza salire nuovamente. La foto in bianco e nero di Lady Tsukino mi sorrideva, affabile, da un rettangolino nella parte superiore della pagina; accanto, il titolo “La riscoperta del Natale” presentava, in modo chiaro e conciso, l’argomento del giorno.
Scorsi i fogli all’interno della busta: erano tutti articoli di quella giornalista da quattro soldi, raccolti negli ultimi giorni. Il tema principale era sempre lo stesso, il Natale. E dire che mancava ancora oltre un mese, al venticinque dicembre!
Un bigliettino scritto in pennarello rosso attrasse la mia attenzione. La calligrafia era quella di Rei: Ti suggerisco di leggere attentamente le parole della Tsukino e di studiare un modo per seppellirla. Se ti serve aiuto, non esitare a contattarmi: mi spiacerebbe doverti salutare. Il giornale sarebbe vuoto, senza di te.
Afferrai i ritagli di giornale e li gettai nel cestino della spazzatura. Non volevo dover mostrare il mio valore in quel modo. E, soprattutto, non volevo dover ammettere che quella ragazzina dalla buffa pettinatura fosse migliore di me!
Rimasi in silenzio, immobile, per un lasso di tempo imprecisato. Pensai a tutte le occasioni sfruttate per arrivare a quel punto della mia carriera, e a come rischiassi di veder crollare tutto, solo per uno stupido capriccio del direttore.
Non dovevo lasciarmi scoraggiare: era solo un altro piccolo ostacolo che il destino aveva voluto mettermi dinanzi. Dovevo darmi da fare, se volevo batterlo, anche questa volta.
Quando mi riscossi, fuori era già buio.
Afferrai il cappotto e mi preparai ad uscire.
Spensi tutte le luci dell’ufficio ma, prima di chiudermi la porta alle spalle, tornai sui miei passi e raccolsi i ritagli dello Shinbon dal cestino: dovevo vincere. E se questo avesse significato dover leggere la stupida rubrica di Lady Tsukino, lo avrei fatto. E poi avrei schiacciato quella mocciosetta, con in più la soddisfazione di dirle “Impara dal migliore, e non scegliere mai sfide più grandi di te.” Mi sentivo ricaricato e pronto a tutto, pur di non rinunciare alla mia vita perfetta.
Con un nuovo spirito mi incamminai verso casa: mi avrebbe atteso una lunga nottata, ma ne sarebbe valsa la pena, se quei sacrifici avrebbero condotto la mia carriera verso altre mete.




Buona sera a tutti, carissimi ^^
La prima cosa che vorrei fare (prima di incorrere nella vostra ira funesta) è ringraziarvi per aver voluto seguire i parti della mia mente…
Successivamente… *cof cof*… confermo quanto scritto nel riassunto alla storia… come le altre, anche questa resterà incompiuta per molto tempo. Non so quanto, magari domani stesso deciderò che voglio vederla completa nel più breve tempo possibile e aggiungerò capitoli su capitoli, così come potrei decidere di fermarla qua a tempo indeterminato… per ora non me la sento di andare avanti.
Immagino mi vogliate fare in tante striscioline piccole piccole, e non vi fermerei se ci provaste…
Mi dispiace aver preso questa decisione, e non so bene i motivi… diciamo che è tutto un insieme di fattori…
Tuttavia, ho voluto regalarvi un altro capitolo; magari farò lo stesso con Attimi d’amore, ma non prometto nulla: non so se riuscirei a mantenere la promessa, e non mi va di dire una cosa e poi non portarla a termine…
Vi ringrazio per essere arrivati fin qua, e mi scuso di nuovo per questa brutta sorpresa che non credo vi aspettavate…
Spero che l’estate porti consiglio e che mi dia nuovamente la forza e la voglia di proseguire questi progetti sospesi…
Nell’attesa che questa voglia ritorni a bussare alla mia porta, vi auguro una buona vita. E anche se non mi faccio viva come prima, vi penso e mi mancate tutti.
Se comunque volete sapere il perché di questo mio abbandono, mi trovate qui.
Bax, Kla

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Capitolo 4
*** 3/1 - Che la battaglia abbia inizio ***


Nuova pagina 1

3.

Che la battaglia abbia inizio

 

 

Rientrai a casa perso nei miei pensieri.

La spensieratezza di quella mattina era scomparsa, e ciò che più mi dava da riflettere era la consapevolezza che Rei, nonostante fosse partita con l’intenzione di scoraggiarmi, avesse ragione: se non volevo veder distrutta la mia carriera, avrei dovuto ingoiare il rospo e leggere la rubrica di lady Tsukino.

Chiusa la porta d’ingresso, lasciai il cappotto sul divano, e mi diressi in cucina. Tirai fuori dal frigo uno di quei cibi pronti e lo infilai nel microonde.

La busta bianca lasciatami da Rei sembrava gridare la sua presenza , dal tavolino accanto al divano, su cui l’avevo posata. Mentre il forno continuava a girare, mi decisi a cedere: afferrai, quasi con rabbia, la busta e la portai in cucina; cominciai a leggere attentamente le prime battute di quegli articoli, e per poco non mi sentii male: sbrodolavano miele dall’inizio alla fine!

Traspariva troppa fiducia nel futuro, troppe aspettative nei confronti delle festività che stavano per arrivare. Eravamo appena a metà novembre, ma già in città si pregustava il sapore del Natale.

Personalmente non amavo quella festa, e più in generale non chiedevo nulla a nessuno, all’infuori di me stesso.

Le parole di Lady Tsukino, però, erano esageratamente zuccherose per chiunque: ma davvero la gente amava leggere certe cose?

Il timer del forno mi avvertì che la cena era pronta. Iniziai a mangiare lentamente, e ad ogni boccone un’idea si faceva sempre più chiara nella mia mente.

Lady Tsukino imbambolava i suoi lettori con articoli sdolcinati? Bene: io avrei aperto gli occhi sul consumismo che regnava sovrano in questi periodi! Dopotutto, molti lettori la pensavano come me, ed erano certamente stanchi di trovare ad ogni angolo della città situazioni svenevoli che ricordavano quanto fosse misera la vita…

Sì, l’idea mi stuzzicava, e non avrei dovuto fare molta fatica a rendere pan per focaccia a quella dilettante.

 

I dieci giorni successivi li trascorsi a controbattere ogni singola sillaba trascritta da Lady Tsukino.

Sembravamo aver ingaggiato una lotta senza esclusione di colpi, e anche la mia avversaria se n’era resa conto: in ogni nuovo articolo, non perdeva occasione di lanciare frecciate in mia direzione, che solo un lettore ignaro avrebbe potuto non cogliere.

Io parlavo degli sprechi dei cenoni durante le feste, e lei controbatteva con la gioia di stare tutti assieme, riuniti allo stesso tavolo; io replicavo con l’inutilità dei regali e l’esagerato consumismo di cui oramai eravamo vittime, e lei rispondeva evidenziando come il semplice gesto di donare qualcosa ai propri cari, anche un semplice fiore, fosse apprezzato, se fatto col cuore.

Nonostante potesse sembrare il contrario, questa battaglia editoriale era molto stimolante per me; certo, trovavo stancante dover trovare il modo per sminuire certi argomenti da lei osannati, ma non avevo mai provato tanta soddisfazione nella stesura di un articolo, come quella provata nel controbattere alle sue parole.

E ancor più soddisfazione mi derivava dal constatare come le vendite del nostro giornale fossero aumentate in soli dieci giorni, riuscendo ad eguagliare l’incremento avuto dallo Shinbon.

Ormai le testate più seguite erano le nostre, e non era un’illusione pensare che, tutto sommato, avrei potuto evitare il peggio e mantenere la mia carriera ai livelli massimi…

 

“Guarda chi si vede.”

Ero appena arrivato in redazione quando Ikeda mi venne incontro a braccia aperte, con un sorriso smagliante stampato in viso. “Il mio miglior collaboratore!”

Salutai leggermente imbarazzato per quel benvenuto, ma mi ricomposi in fretta. Una vocina mi diceva che, forse, per me era giunto un regalo di Natale con qualche settimana d’anticipo…

“Mamoru, ora devo scappare, ma ti aspetto nel mio ufficio domani, subito dopo pranzo.”

In effetti, non avevo notato che avesse indosso il giaccone, né la valigetta di cuoio marrone ai suoi piedi.

Senza attendere risposta, mi fece da parte e lo vidi scomparire nell’androne.

Scossi la testa, imponendomi di non prestare attenzione alle stranezze del direttore: dopotutto, era molto probabile che stessi per raggiungere il mio obiettivo, e non era il caso di preoccuparsi per l’eccentricità di Ikeda di quella mattina.

Mi sedetti alla mia scrivania, e iniziai a lavorare all’articolo successivo. Quel giorno, avrei preso di mira i fastidiosi motivetti natalizi, che per oltre un mese e mezzo ci vengono propinati senza sosta ad ogni ora del giorno.

Già immaginavo quale sarebbe stata la replica di Lady Tsukino, e per questo motivo misi più del sarcasmo che usavo solitamente nei miei servizi.

Non impiegai molto tempo a buttar giù la bozza dell’articolo. Guardai l’ora e decisi che una pausa di qualche minuto non mi avrebbe fatto male.

Mi ero stancato del solito caffè dell’ufficio, e perciò vagai in cerca del mio amico, Motoki, per andare a prendere qualcosa al bar dietro l’angolo.

Purtroppo la mia ricerca non ebbe i risultati sperati: Motoki era impegnato in una conversazione telefonica piuttosto agitata, a giudicare dall’espressione del suo viso, e quando gli feci cenno di uscire scrollò le spalle come a voler indicare che, in quel momento, non avrebbe potuto muoversi da lì, neppure se fosse stato in corso il Giudizio Universale.

Purtroppo lui era il mio unico amico, e non solo all’interno del giornale.

L’altra persona con cui avevo instaurato un qualcosa che andasse oltre il semplice rapporto tra colleghi era Rei, ma la nostra relazione era andata davvero troppo oltre…

La vidi alla sua scrivania mentre, pensando di non essere osservata, dava una ritoccata veloce al trucco. Era bella. Non c’era altro da dire.

Accortasi che la fissavo, mi sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi.

“A quanto pare, stai ancora a galla” salutò, indicando il registro vendite.

“So come farmi valere” confermai. In effetti, avevo avuto un po’ di timore quando, andando a zonzo per la città, avevo notato copie dello Shinbun praticamente a ogni angolo della strada, ma ora potevo dire di aver scongiurato il peggio, grazie alla mia nuova rubrica. “Ikeda vuole vedermi domani, dopo pranzo” dissi, fingendomi quasi annoiato. In realtà, fremevo per saperne qualcosa in più. “Puoi anticiparmi almeno l’argomento della convocazione?”

Sembrò sorpresa dalle mie parole. Afferrò l’agenda degli appuntamenti del capo, soffermandosi a leggere, con attenzione quasi maniacale, gli appuntamenti del giorno dopo. “Strano” commentò infine, “qua non è segnato nulla, e oggi non mi ha accennato al vostro incontro di domani.”

Rimanemmo in silenzio qualche secondi di troppo: non sapevo perché, ma stare con Rei mi causava disagio.

Mi guardai intorno, con la speranza di veder Motoki affacciarsi in mia direzione, dalla sua porta, ma invano. Avevo desiderio di prender aria, perciò non mi stupii molto quando mi sentii dire: “Rei, che ne dici di un caffè veloce, fuori di qui?”

Sembrò soppesare quella proposta, ma poi convenne con me che, dopo quasi cinque ore ininterrotte di lavoro in redazione, non sarebbe stata una cattiva idea concedersi una pausa fuori dalle mura dell’edificio.

Prese il cappotto e insieme ci incamminammo verso il piccolo ristorante a due isolati di distanza.

Per tutto il tragitto continuammo a parlare e a fare ipotesi sul motivo del mio incontro dell’indomani col direttore, ma la sola cosa che venne in mente a entrambi fu che, probabilmente, voleva comunicare a me per primo la vittoria sul giornaletto di provincia.

Raggiungemmo il Kishen dopo pochi minuti di strada, e una volta dentro tra noi calò un silenzio alquanto imbarazzante.

Ordinammo il nostro pranzo, e continuammo a fissarci senza dire niente che potesse sembrare un discorso sensato: solo poche parole sul tempo, sul locale e sul cibo.

“Direi che te la stai cavando bene, in questa sfida” commentò alla fine del pranzo.

Mi ci volle un po’ per capire che non si stesse riferendo alla mia ordinazione.

Pensai che quella frase, buttata lì in mezzo al nulla, non avrebbe potuto essere altro che una provocazione gratuita.

“Avevi dubbi?” replicai, mostrandomi disinteressato.

Sorseggiò il caffè, evitando accuratamente di rispondere. “E… di lei che ne pensi?” domandò, invece.

“Rei, ti prego...” sbuffai.

“Avanti, Mamoru. Ogni giorno sei lì con lo Shinbon aperto sulla sua rubrica, anche dopo aver consegnato l’articolo e spento il computer.”

Sospirai, non nascondendo il fastidio verso quel suo volersi impicciare dei fatti miei. “Ne abbiamo già discusso” dissi infine. “Il lavoro è lavoro, e possiamo discuterne fino alla nausea. La vita privata, la mia vita privata, invece, deve restare privata. Altrimenti non si chiamerebbe così. E come tale deve restare fuori dalle nostre conversazioni.”

“Ti piace” commentò semplicemente. “Altrimenti avresti reagito con una delle tue solite battute sarcastiche.”

Non aggiunse altro; finì di bere il caffè e posò il bicchiere sul tavolo, stando attenta a non macchiarsi il cappotto.

“Ma ricordati” disse infine, avvicinando il suo viso al mio, “che qualunque cosa tu possa volere da lei, io sono più brava” concluse maliziosa.

Mi lasciò solo al tavolo, e non potei fare a meno di guardarla allontanarsi.

Il cappotto bianco non riusciva a nascondere il suo corpo sinuoso, e dovetti faticare molto per spostare la mia attenzione verso qualunque altro elemento del locale.

Nonostante non apprezzassi particolarmente l’ostentazione delle tradizioni, quel posto era uno dei miei preferiti: il servizio era quasi amicale, e forse era il solo luogo in cui potevo sperare di passare inosservato.

Potevo definire il Kishen la mia oasi personale, in cui ritornavo a essere, anche solo per pochi minuti, uno qualunque, in mezzo alla folla.

“Non può piacermi davvero questa sensazione” pensai. Avevo faticato molto per ottenere il successo, anche in situazioni che la maggior parte dei miei coetanei ritenevano ovvie. Ma non era stato facile per me riuscire a superare gli altri, semplicemente perché mi mancava ciò che per i miei colleghi era scontato: ero solo, lo ero sempre stato. Inizialmente la condizione di orfano mi pesava, al punto che pensavo non avrei concluso niente di positivo nella vita. Ma dopo qualche anno di frustrazione ed umiliazioni da parte dei compagni di scuola più grandi, avevo deciso di farmi valere. Avevo imparato che se non potevo eliminarli fisicamente, avrei potuto farlo metaforicamente; avevo così affinato la mia ironia, ereditata da mio padre, a quanto mi avevano detto, e fatto del sarcasmo la mia missione di vita, fino a diventare quello che tutti ammiravano, uomo o donna che fossero.

Rientrai in redazione da solo, desideroso di poter accelerare i tempi e parlare con Ikeda il prima possibile.

 

Come mi aspettavo, il direttore non c’era, e svanirono tutte le mie aspettative di riuscire a parlare con lui prima dell’appuntamento.

Sarei dovuto restare in ufficio almeno per un altro paio di ore, sebbene avessi già consegnato da un pezzo l’articolo per il giornale.

Decisi di controllare la posta: da quando era iniziata quella battaglia con Tsukino avevo trascurato i miei lettori, cestinando le e-mail ancora prima di leggerle.

Sulla scrivania, il volto ammiccante di Lady Tsukino sembrava volermi leggere dentro.

“Che diavolo” sbottai, chiudendo il giornale e gettandolo nel cestino, accanto alla scrivania. “Accidenti a Rei e alle sue allusioni.”

Cercai di concentrarmi sulle risposte alle e-mail, e riuscii a pensare a tutto fuorché a lady Tsikino e all’incontro con Ideka del giorno dopo.

Le ore trascorsero molto più rapidamente di quanto mi aspettassi, e si fece buio senza che me ne accorgessi.

“Ancora in ufficio, Mamoru?”

Alzai gli occhi per incrociare lo sguardo con Motoki. “Scusami per prima” disse, “ma era una telefonata che non potevo perdermi…”

Sorrisi in sua direzione. “Tranquillo, Motoki. Ho avuto un interessante scambio di idee con Rei” accennai, mantenendomi sul vago.

Il mio amico non fece domande, ma si limitò a invitarmi a cena a casa sua. “Makoto preparerà una nuova specialità, e non posso non condividere questa gioia con il mio migliore amico, non credi anche tu?”

Lo fissai, sospettoso. “Cos’è, Motoki? Vuoi che ti dia manforte per dire alla tua dolce metà che il suo piatto sarà immangiabile?” azzardai, sapendo quanto fosse sciocco quel pensiero: Makoto era una divinità, in cucina, ed era impensabile che preparasse pasti disgustosi.

Tuttavia, il suo silenzio mi fece preoccupare: cosa avrebbe potuto cucinare, da far quasi tremare il suo fidanzato?

Accettai l’invito, spinto oramai più dalla curiosità che dalla fame.

Spensi il computer e, preso il cappotto, lo seguii nel garage sotterraneo dove aveva parcheggiato l’auto.

Presi la moto e lo seguii, e in pochi minuti raggiungemmo casa Furuhata. A quell’ora non c’era molto traffico per strada, e potei godermi, ancora una volta, il piacere della brezza novembrina sul volto.

Purtroppo, il tempo stava cominciando a guastarsi, e ammisi a malincuore che dall’indomani avrei dovuto riporre le chiavi della moto sulla mensola all’ingresso, in favore di quelle della macchina.

Makoto si presentò dopo neanche mezz’ora, e finalmente potei scoprire cosa avesse terrorizzato Motoki: torta salata di cavoli e spinaci.

Come il mio amico, non apprezzavo molto le verdure preparate in quel modo: mentre lui le aborriva completamente, io le preferivo crude, quando possibile, e senza condimenti.

Facemmo buon viso al piatto, e non me ne pentii: nonostante l’odore non proprio gradevole, il sapore non era niente male. O forse ebbi quell’impressione perché, a pranzo, non avevo quasi toccato cibo, riempiendomi di caffé com’ero solito fare ultimamente; anche la compagnia ebbe l’effetto di farmi apprezzare la cena.

Adoravo Makoto: era semplice e diretta nelle sue affermazioni, e proprio come me non amava i giri di parole.

La sola cosa che ci differenziava era la sua innata aria da perfetta sognatrice; quando l’avevo conosciuta, anni prima, non perdeva occasione per ricordare il suo ex fidanzato, sostenendo di vederlo un po’ in tutti i ragazzi che incrociava; desiderava poter tornare indietro nel tempo e riuscire a essere più femminile, come lui desiderava, ma anche Makoto, come me, aveva preferito rinunciare al ragazzo, piuttosto che abbandonare se stessa.

Mi era piaciuta subito, come persona, e non avevo perso tempo in inutili battutacce quando Motoki aveva confidato di esserne innamorato, e da allora avevo iniziato a essere un elemento costante nella loro vita.

L’abitazione di Motoki era molto accogliente, e mi sentii subito a mio agio: era piacevole stare seduti accucciati sul divano, davanti il camino acceso, parlare di tutto un po’ senza mai approfondire troppo, specie dopo una giornata come quella appena trascorsa.

Era quasi ora di salutare, quando Makoto mi domandò: “Che ne pensi della nuova rubrica dello Shinbun?”

Motoki quasi non si strozzò, al solo sentir nominare il giornale. “Makoto!” la richiamò quando riuscì nuovamente a respirare.

Sorrisi, consapevole di non poter fare altro che rispondere. “Quello che penso di tutte le rubriche che non siano la mia” provocai divertito. “Ovvero che sono destinate al fallimento. E questa più delle altre, dato che si è messa sulla mia strada.”

La ragazza soppesò le mie parole e parve esser soddisfatta. Intrecciò le mani con quelle del fidanzato e restammo qualche minuto in silenzio.

“Invece credo che ce la farà” disse lei dopo un po’. “Di solito non leggo molto, per via del lavoro costante. Ma questa Lady Tsukino mi piace proprio: è semplice, sognatrice, vede del buono in tutto ciò che la circonda…”

Scossi la testa, e non nascosi di essere infastidito per quell’apprezzamento a Tsukino.

“E poi è carina” rincarò la dose Motoki. “Perché? Non dirmi che non ci hai fatto anche tu un pensierino?” mi domandò, quando notò la mia espressione corrucciata al suo commento.

Non risposi, ma mi affrettai ad alzarmi e a dirigermi verso la porta d’ingresso. “Si è fatto tardi, ragazzi” salutai. “Grazie per la bella serata, ma ora devo proprio andare via.”

Si guardarono indecisi sul da farsi, e poi fu Motoki a parlare: “Mamoru, se è per quello che abbiamo detto…”

Risi divertito, interrompendo il tentativo di scuse: non era insolito che mi lanciassero battute troppo indiscrete, ma non era il caso di Motoki; doveva conoscermi, ormai, ma ogni volta temeva di aver detto qualcosa di troppo. “No ragazzi” li tranquillizzai. “Domani Ikeda vuole vedermi nel suo ufficio, e credo che se mi presentassi con vistose occhiaie non farei una buona impressione. Specie se vorrà dirmi ciò che penso” conclusi, strizzando l’occhio.

Mi apparvero più rilassati a quella mia ammissione, e finalmente potei dirigermi verso casa.

Mi coricai, con una speranza in più verso l’indomani: la mia vita stava per cambiare totalmente, e lo dovevo solo a me stesso.

 

 

 

 

 

 

Mondo, non sono (ancora) scomparsa ^^

Non so se possa farvi piacere leggere un nuovo capitolo di questa storia, fatto sta che mentre spulciavo un po' il pc me la sono ritrovata tra le mani e ho deciso di provare a concludere questo piccolo progetto...

Ancora il tutto è in alto mare, diciamo che ho completato solo la prima parte, che racconta la vita del nostro caro Mamoru... per la seconda mi sa che dovrò faticare ancora parecchio per portarla a termine... ma se continuo così, questa prima parte vedrà la sua fine intorno al 21.12.2012

*me pensa che dopotutto, stando ai Maya, potrei anche non terminare la seconda parte... XD *

*me vede gli oggetti taglienti e le lame affilate in mano ai lettori e decide di portarla a termine comunque ^^" *

Ok, smetto di fare la scema e mi inchino dinanzi a voi, ringraziandovi per la pazienza e per aver voluto arrivare a leggere questo mio delirio finale.

Vi do appuntamento a non so quando per il resto delle avventure di Mamoru: tenetevi forte, perché presto la Voce del Tokyo Magazine si scontrerà dal vivo con la bella Lady Tsukino!

 

Bax, Kla

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Capitolo 5
*** 4/1 - In partenza ***


Nuova pagina 1

4.

In partenza

 

 

La sveglia suonò che avevo già gli occhi aperti.

Strano come, dopo tutti i voli che aveva fatto giù dal comodino, non fosse ancora spirata…

Mi vestii con più accuratezza del solito, pensando di non potermi presentare a Ikeda troppo casual, perché avrebbe potuto pensare che non ci tenessi a fare bella impressione, ma neanche potevo indossare un completo troppo impegnativo, altrimenti avrei dato l’idea di qualcuno troppo sicuro di sé.

Alla fine, trovai un accordo con un semplice completo scuro e una camicia blu: non troppo elegante, ma nemmeno troppo poco.

Mi fermai a comprare il Magazine e mi diressi verso la redazione.

Alla scrivania, come di consueto, trovai la copia dello Shinbun aperta già alla pagina della Tsukino.

Accesi il computer e, aspettando che si caricasse, cominciai a leggere.

A stento repressi uno sbadiglio nel leggere l’appello della mia rivale a dare una mano ai bisognosi della città. Non c’era che dire: era una sognatrice senza precedenti.

Iniziai a pensare alla replica, e decisi che avrei usato più ironia del solito: dopotutto, quello avrebbe potuto essere il mio ultimo pezzo per il Magazine, e dovevo mettercela tutta.

 

Molti pensano che, solo perché è Natale, siamo tutti più buoni, e dobbiamo sentirci obbligati a dare una mano ai senzatetto.

Ma, punto primo: chi l’ha detto che a Natale dobbiamo essere migliori rispetto al resto dell’anno?

Punto secondo: al Natale manca ancora un mese.

Punto terzo: che senso ha donare uno Yen a chi, sicuramente, lo spenderà per ubriacarsi? Mi dispiace, ma il mio Yen sta bene dove sta, cioè nella tasca dei miei pantaloni.

Svegliatevi, gente! Se avessimo donato uno Yen a tutti quelli che tendevano la mano, come saremmo ridotti oggi? Io non starei qua a parlare con voi, ma con molta probabilità sarei sotto un ponte, a sperare che qualcuno potesse donarmi un soldo per una cassa di birra.

Se davvero questi bisognosi, questi senzatetto, hanno la forza per elemosinare, hanno anche la capacità di trovare un lavoro per mantenersi.

Chi pensa ai lavoratori che, per uno strano scherzo del destino, non hanno cento Yen in più per comprare un libro al figlio?

Di certo, nessuno dice “Oggi dono uno Yen al mio collega perché deve comprare la medicina al cane”; i cosiddetti bisognosi, secondo alcuni calcoli, guadagnano, in un mese, più di un lavoratore medio. E non hanno mai uno Yen in tasca perché li spendono tutti in alcool.

Natale non vuol dire farsi fregare i soldi dalle tasche: vuol dire fare un bilancio della propria vita, contando i cambiamenti avvenuti e proponendone di nuovi per l’anno seguente.

Cambiate anche voi con me, e non lasciatevi imbambolare da chi vi chiede più di quello che già fate.

 

Lo rilessi più e più volte, e fui soddisfatto del mio operato.

Lady Tsukino non avrebbe saputo come replicare, anche perché probabilmente non avrebbe avuto più un giornale su cui ribattere.

Terminai talmente in fretta l’articolo che rimasi buona parte della giornata in attesa della chiamata di Ikeda.

Rimasi incollato alla scrivania anche durante la pausa pranzo, ma del direttore nessuna chiamata.

Iniziavo a sentirmi a disagio: possibile che se ne fosse dimenticato? O, peggio, che avesse cambiato idea?

Scacciai violentemente questi pensieri dalla testa, e rimasi in attesa.

Il telefono squillò a metà del pomeriggio; risposi al secondo squillo. “Mamoru, Ikeda ti aspetta” mi informò Rei. Aveva uno strano tono di voce, quasi trionfale. Non ci feci caso e mi diressi verso la stanza del direttore: faticai per non correre e per mantenere un comportamento adeguato al mio status.

Rei non era alla scrivania; non mi scomposi, e bussai alla porta dove, a chiare lettere, era inciso il nome di Ikeda.

Non attesi risposta ed entrai. Fui stupito di vedere Rei seduta di fronte il direttore, ma non me ne preoccupai; anzi, lo interpretai come un buon presagio.

“Bene, accomodati.”

Raggiunsi la sedia libera accanto a Rei e rimasi in attesa del grande annuncio. Sembrava quasi che Ikeda si divertisse a lasciarmi sospeso in quel modo…

“Ragazzi miei” cominciò, infine, “sono lieto di annunciare la mia decisione.”

Mi sentivo elettrizzato, sul punto di saltare in piedi sulla sedia e urlare la mia gioia al mondo intero.

“Da oggi, la  nostra già grande famiglia sarà ancora più grande. Ho il piacere di comunicare a voi due, in primis, che abbiamo concluso l’accordo col direttore dello Shinbun.”

L’euforia di pochi istanti prima lasciò il mio corpo, rendendomi privo di qualsiasi reazione. Non potevo, e non volevo, credere a ciò che Ikeda stesse dicendo; non gli prestai più molta attenzione, e percorsi mentalmente gli ultimi tre anni della mia vita, dal mio primo lavoro come addetto agli annunci pubblicitari, fino alla possibilità di scrivere realmente, al presente e alle opportunità che, per un atroce scherzo del destino, mi erano state così brutalmente tolte, prima ancora che riuscissi ad assaporarne l’idea.

Sentii Rei balbettare qualcosa, ma il mio cervello non voleva collaborare; riuscii solo a capire che, anche lei, era stata presa alla sprovvista da quella notizia.

“Sciocchezze, signorina Hino!” La voce del direttore, unitamente a un pugno sulla sua scrivania come a sottolineare la sua decisione, mi riportarono alla realtà. “Sono certa che Tsukino e Chiba saranno una coppia eccezionale.”

Sbattei le palpebre: forse, nel mio stato confusionale, mi ero perso più di quanto avrei dovuto… “Scusi? Credo di non aver afferrato molto bene…” provai a dire, ma Ikeda si era già alzato dalla sua poltrona diretto verso la porta.

“Suvvia, Chiba. Non mi dirai che ti pesa lavorare con qualcuno? Sono sicuro che con la tua arguzia e la dolcezza della Tsukino, riusciremo a primeggiare definitivamente. E ora, se non vi dispiace, dovrei andare a una riunione con il direttore dello Shinbun.”

Senza quasi rendermene conto, mi ritrovai in corridoio con Rei. Dalla sua espressione, capii che questa notizia avesse sconvolto anche lei. La sola cosa che mi premeva, in quel momento, era capire di che entità fosse il danno…

Lo chiesi alla mia collega e, dopo aver raggiunto la mia stanza e versato per entrambi un caffé doppio, la ascoltai attentamente, forse per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti.

“Non hai ascoltato una parola, vero?” domandò, conoscendone già la risposta. Non mi permise di aprire bocca, che continuò: “In pratica, Ikeda vuole vedere come potrebbero funzionare le due teste più brillanti di Tokyo messe insieme: dovremo andare allo Shinbun domani sera e portare con noi la cara Lady Tsukino. Sarà la tua ombra…”

“Starai scherzando, vero? Io dovrei lavorare con quella là?”

Scosse il capo, sorseggiando la sua bevanda più lentamente del normale. “Ikeda è convinto che voi due insieme possiate fare faville, e per un breve periodo sarai di stanza in periferia, per coordinare i lavori della Tsukino laggiù. Ora, ci sono due sole possibilità per noi” continuò, non staccando i suoi occhi dai miei. “O farai del tuo meglio, come sempre, e aiuterai lo Shinbun a risorgere dalle sue ceneri, oppure farai del tuo peggio e lascerai affondare il giornale, definitivamente. In ogni caso, tu potrai uscirne vincitore: in caso di sconfitta, non ti si potrà rimproverare nulla, dal momento che nessuno può fare miracoli, salvando chi ha già un piede nella fossa, e ti verrà finalmente proposta la conduzione del programma di attualità che è in cantiere da tempo; se, al contrario, comincerai ad apprezzare la vita di campagna… beh, in quel caso avrai un nuovo giornale per cui scrivere.”

La osservai pensieroso. “E tu, in tutto questo, cosa ci guadagni?” le domandai: il suo interesse verso questa situazione non poteva essere totalmente disinteressato, ed ero deciso a capire cosa ne sarebbe venuto a lei.

“Io voglio che lo Shinbun affondi” disse semplicemente. Una strana luce negli occhi me la fece apparire diversa dal solito. “Se dovessero cancellare il tuo programma televisivo, sarò costretta a chiudermi dietro una scrivania per il resto della mia vita. Invece, seguendoti nella scalata al successo, avrò la mia occasione per dimostrare quanto valgo, fuori da queste quattro squallide mura.” Fece un gesto di disprezzo con la mano, indicando tutto ciò che ci circondava. Poi continuò: “Anche tu vuoi la stessa cosa, Mamoru: non puoi negarlo. E insieme, noi due, potremo fare in modo che Lady Tsukino e tutti i suoi amichetti facciano i bagagli prima che possano scrivere gli auguri per il Ringraziamento.”

Non le risposi, perché in effetti aveva detto esattamente ciò che volevo anche io; avevo sempre saputo che Rei volesse di più, dalla sua vita, ma non ero certo di conoscere con quali mezzi volesse ottenere quel di più.

Mi porse la mano e gliela strinsi. Con un sorriso di vittoria sul volto, uscì, lasciandomi solo nella stanza, in cerca di qualcosa di utile da fare.

Come un automa, mi sedetti alla scrivania, non riuscendo a non domandarmi se avessi appena stretto un patto col demonio…

L’indomani avrei visto pubblicato il mio ultimo articolo per il Magazine: qualunque sarebbe stato l’esito di quel “periodo di prova” allo Shinbun, come l’aveva chiamato Ikeda, non avrei più messo piede al giornale in qualità di giornalista; una crescita dello Shinbun avrebbe legato la mia carriera in quel paesino di periferia, a fare da spalla a Tsukino, mentre un suo crollo mi avrebbe spalancato il portone sul mondo televisivo.

Sperai vivamente di poter tornare, un giorno, a salutare i miei vecchi colleghi in qualità di astro nascente della televisione, e decisi che avrei fatto di tutto per non veder affondare la mia carriera e la mia vita: la sola cosa che importava, in quel momento, era continuare la mia scalata verso il successo.

 

 

Oh, yeah!
Ogni tanto anche io ritorno a pubblicare qualcosina...
Vogliate perdonare la poca attenzione che ho verso di voi e verso questa (e molte altre) storie che attendono un mio impegno più costante, ma proprio non mi riesce di avere un aggiornamento costante...
Quello che posso promettere, ora che ho finito col lavoro pomeridiano, è di cercare di aggiornare una volta al mese, ma non so se riuscirò a mantenere la promessa...
In ogni caso, un grazie immenso a chi ha la pazienza di continuare a seguirmi negli aggiornamenti, a chi legge e a chi leggerà in futuro.
E un grazie in particolare a chi, nonostante le mie latitanze, spende un minuto del suo tempo per lasciare una traccia del suo passaggio, facendomi sapere cosa pensa delle mie idee malsane ^^"

A presto (spero...)
Bax, Kla

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Capitolo 6
*** 5/1 - Piacere di conoscerti... o forse no? ***


Nuova pagina 1

5.

Piacere di conoscerti… o forse no?

 

 

Pensando a quali strategie avrei potuto adottare per mantenermi a galla, cominciai a raccogliere i miei effetti personali dalla scrivania: in verità, non c’era molto da portar via, dal momento che tutto apparteneva alla redazione…

Tristemente mi accorsi che, con ciò che avrei dovuto prendere non avrei riempito neanche una ventiquattr’ore di dimensioni ridotte; al contrario dei miei colleghi, che avevano le scrivanie piene di foto, disegni dei figli o dei nipoti, e altri oggetti per render più accogliente il posto di lavoro, io non l’avevo mai vissuto come un’estensione della mia casa, e avevo sempre evitato di portare in redazione qualunque cosa che potesse darmi quell’effetto.

Terminai il lavoro di riordino prima di quanto potessi sperare; era ancora presto per salutare e voltare le spalle al Magazine, e pensai di ottimizzare il tempo che mi rimaneva da trascorrere in redazione facendo qualche ulteriore ricerca sullo Shinbun.

Rimasi sorpreso nel constatare come il motore di ricerca avesse trovato ben venticinque pagine di riferimenti al giornale. Pensando che sarebbe stato utile capire come raggiungere il mio nuovo lavoro, scelsi la pagina web con la mappa stradale e le indicazioni necessarie per non perdermi: non sembrava molto lontano da dove abitavo io, e calcolai che, con un po’ di fortuna, avrei impiegato poco più di mezz’ora di tragitto in auto.

Stampai le indicazioni e la mappa, e sfogliai qualche altra pagina; trovai quasi per caso un sito che permetteva visite virtuali alle varie redazioni locali e non mi feci sfuggire l’occasione di vedere dove fossi finito; con orrore, notai che quello che sarebbe stato il mio futuro posto di lavoro era molto più simile a una casa di bambole in dimensioni umane: l’edificio in mattoni rossi, al suo interno prevedeva cinque stanze adibite a uffici, tutte con pavimento in parquet e le pareti piene di quadri dai paesaggi più vasti. Le stanze sembravano praticamente tutte uguali tra loro, e mi venne un senso di vertigine a pensare che avrei lavorato in una stanza dove l’elemento più virile sembrava essere il quadro di un monte innevato…

Non volli sapere altro, e decisi che avrei atteso il giorno seguente per constatare quanto in basso fossi caduto.

Salutai rapidamente i miei colleghi, che erano già stati informati del mio trasferimento, e tornai a casa. Non riuscii a salutare Motoki, ma con lui ci saremmo visti anche se fossi andato ad abitare sulla Luna, perciò non mi attardai oltre, ripromettendomi di chiamarlo l’indomani per raccontargli il mio primo giorno di sevizio presso gli scout, come oramai avevo ribattezzato lo Shinbun.

Non persi tempo a cenare e mi tuffai sul letto completamente vestito: mi addormentai quasi subito, e il sonno fu popolato dai peggiori incubi, tra cui quello di vivere in una misera casa di campagna con due gatti e tre canarini, trascorrendo il tempo a scrivere notizie su UFO e fantomatici regni sparpagliati nell’Universo.

Mi svegliai alle prime luci dell’alba e per un istante sperai che tutto il giorno precedente fosse stato un brutto sogno; mi alzai e, cercando invano di stirare i vestiti con le sole mani, mi recai nel salotto dove, sul ripiano accanto al divano, un foglio con indicazioni stradali e una piccola scatola mi fecero capire che, da quel giorno, avrei fatto parte dello Shinbun e, quel che era peggio, avrei lavorato fianco a fianco con Tsukino.

Mi guardai allo specchio: facevo proprio pena! I capelli erano più disordinati del solito e gli abiti stropicciati mi davano un’aria da fallito. Per scacciare questa sensazione, mi ficcai sotto la doccia bollente e sentii con piacere i muscoli distendersi: la spiacevole sensazione provata appena sveglio sparì, e mi sentii ricaricato, pronto per affrontare quella nuova giornata. Per il mio primo giorno allo Shinbun scelsi un paio di pantaloni beige e una giacca sportiva verde, sopra una maglia nera a collo alto: non volevo sfigurare, ma neanche presentarmi come un damerino della corte imperiale…

Dopo neanche venti minuti ero in auto che percorrevo, a tutta velocità, la strada che mi separava dal giornale.

Come da previsione, arrivai in quarantacinque minuti. Il paesaggio circostante era completamente diverso da quello a cui ero abituato: non più enormi palazzi e grattacieli tecnologici, ma semplici villette e sempre più spazi verdi con altalene e giochi per i più piccoli; la frenesia che accompagnava i lavoratori di città era stata soppiantata da più pacate passeggiate, e sui volti dei passanti brillava un sorriso sincero e una parola gentile per i concittadini. Sembrava tutto un altro mondo, e non una cittadina a soli settanta chilometri da Tokyo.

Guardandomi intorno sempre più affascinato da quel nuovo modo di iniziare la giornata, giunsi all’edificio che ospitava la Shinbun. Il tour virtuale fatto la sera precedente mi aveva preparato a ciò che vidi, ma ugualmente sbattei le palpebre un paio di volte quando mi trovai di fronte il basso edificio in mattoni rossi, con un vialetto d’ingresso accompagnato da una serie di piccole aiuole.

“Ma dove sono finito? Sarà mica uno scherzo?” pensai, considerando anche l’ipotesi di fare marcia indietro e chiudermi in casa, in attesa del giudizio universale.

Una risata cristallina mi fece tornare alla realtà; mi voltai per scoprire chi potesse essere tanto felice alle sette e trenta del mattino, e incontrai il paio di occhi più bello che avessi mai visto. Le foto in bianco e nero sul giornale non le rendevano giustizia: Usagi Tsukino era a pochi passi da me e rideva con quella che doveva essere una sua collega; il suo sorriso e il suo sguardo limpido sembravano illuminare tutto attorno a lei.

La osservai imbambolato entrare in redazione, e solo dopo che la porta si chiuse alle sue spalle riuscii a respirare nuovamente. Avevo trattenuto il fiato solo per i pochi secondi che i miei occhi avevano incontrato quelli azzurri di lei, ma mi era sembrata un’eternità.

Tornato in me, decisi di non poter attendere oltre: mi incamminai verso l’edificio e, una volta dentro, attesi che qualcuno si facesse vedere, richiamato dal rumore della porta che sbatteva.

“Buongiorno” salutai, cercando di attirare l’attenzione, ma invano.

Mi guardai attorno: era tutto come l’avevo visto sul sito web. Il parquet e i numerosi quadri alle pareti davano l’impressione di trovarsi in una casa delle bambole.

Sentii qualcuno parlare e mi mossi in direzione di quelle voci; attraversai due delle cinque stanze che costituivano la redazione, notando con piacere come non fossero effettivamente tutte uguali: evidentemente, per realizzare il tour virtuale, i gestori del sito web avevano ripreso una sola stanza, apportando giusto qualche modifica per farla apparire ogni volta diversa.

Giunto alla terza stanza, bussai leggermente alla porta socchiusa e senza attendere risposta la aprii un po’ di più: due paia di occhi si voltarono in contemporanea verso di me, dandomi l’impressione di essere uno studente sorpreso a copiare durante un compito in classe.

“Buongiorno” dissi, non dimentico delle buone maniere, “sono…”

“Chiba Mamoru!” mi interruppe l’uomo apparentemente più anziano. “Prego, accomodati pure. Io sono Kenji Kodayashi, direttore dello Shinbun” si presentò, “e lui è Shingo Harata, fotografo.”

Sorrisi e strinsi la mano ai due, non potendo fare a meno di osservarli attentamente.

Kodayashi sembrava avere almeno duecento anni, tante erano le righe sul suo viso, ma nonostante questo lo sguardo era attento come quello di un ventenne.

Il fotografo, Harata, sembrava avere la mia età, ma i capelli sale e pepe mi fecero dubitare del mio stesso giudizio.

Osservandoli, non potei non congratularmi con la scelta del mio abbigliamento: anche loro indossavano abiti casual, e se su Harata i jeans scoloriti e il maglione girocollo lo facevano sembrare più giovane di quello che in realtà fosse, non lo stesso effetto avevano sul direttore.

Notai di essere anche io sotto esame, e mi sentii quasi impacciato nel mio completo, per quanto casual potesse essere, in confronto a loro, in jeans e maglione.

“Usagi sarà qui a momenti” commentò Harata. “È arrivata pochi minuti fa, ed è da Michiru per una consulenza musicale” spiegò al direttore.

“Ma esattamente” intervenni, “in cosa consiste la collaborazione di cui si parla? Abbiamo visto tutti che Usagi ed io seguiamo due scie diverse.”

“Signorina Tsukino per lei, signor Chiba.”

La voce che pochi minuti prima mi era sembrata un canto angelico, risuonò tagliente alle mie spalle.

Mi voltai e incontrai nuovamente quell’azzurro intenso che mi aveva rapito proprio fuori dalla redazione, ma stavolta non traspariva alcuna luce da quello sguardo: solo irritazione, rivolta esclusivamente a me.

Non mi feci intimidire da quel tentativo di dettar legge ancora prima delle presentazioni. “Bene, signorina Tsukino” cominciai, rimarcando la parola signorina, “sono ansioso di poter trovare con lei un punto d’incontro, altrimenti temo che la nostra unione non avrà vita lunga, e tutto a scapito del giornale. E noi non vogliamo che lo Shinbun chiuda… o no?” conclusi, sostenendo il suo sguardo gelido.

Avvertivo gli occhi dei due uomini con noi nella stanza passare da me a lei e viceversa, e la tensione creatasi si poteva tagliare con un coltello.

La risata profonda del direttore ebbe un effetto benefico per quel silenzio imbarazzante. “Ragazzi miei” disse cercando di trattenersi dal ridere ulteriormente, “voi due insieme farete fuoco e fiamme, ed è questo ciò che vogliamo!” Poi si rivolse al fotografo: “Vieni, Shingo. Lasciamoli soli: magari riusciranno a studiarsi meglio. Buon lavoro, ragazzi.” Ci superarono e, continuando a ridere, Kodayashi sbatté la porta alle sue spalle.

“Bene” provai a rompere il ghiaccio, tendendole una mano, “direi che potremmo ricominciare da capo e presentarsi come si deve.”

Usagi restò immobile, non staccando gli occhi dai miei.

Ritirai la mano e con esso, pensai, anche ogni tentativo di andare d’accordo con quella giornalista da strapazzo: “Dovevo essere proprio rimbambito, poco fa, per trovarla angelica” pensai. “Questa qua è il demonio in terra!”

“Mi stia bene a sentire” disse dopo quello che a me sembrò un’eternità, “se spera di venire qua e fare il bello e il cattivo tempo, be’ può anche tornarsene da dove è partito. Sono io che comando” specificò, puntandomi un dito sul petto, “e lei non deve fare altro che seguire le mie direttive. Sono stata chiara?”

Aveva grinta, e non potevo non apprezzare quel lato del suo carattere. “Signorina, mi sa che non ha letto bene gli accordi presti tra i nostri due giornali” commentati, sornione. “Lei ed io dovremo lavorare insieme, fianco a fianco, e ciò vuol dire che lei non è il mio capo. Sono stato chiaro?” conclusi, facendole il verso.

Aprì la bocca per replicare qualcosa, ma evidentemente non trovò nulla a cui appigliarsi.

“E ora, se vuole indicarmi la mia stanza…”

“Lavorerà qui dentro, insieme a me” replicò. “Dopotutto, dovremo lavorare fianco a fianco” socchiuse gli occhi come a voler leggere una mia reazione a quella notizia.

Non mi andava a genio dover stare tutto il giorno con lei attorno, ma non le diedi la soddisfazione di vedermi seccato. “Perfetto” commentai tranquillo, incamminandomi verso la scrivania e prendendovi posto, “direi che possiamo cominciare la nostra giornata.”

Prese una delle sedie che stavano in un angolo della stanza e si sistemò accanto a me: sono sicuro che stesse mormorando qualche maledizione in mia direzione dal momento che, a quanto sembrava, avevo occupato il suo posto senza neanche curarmi di domandare, prima.

Il piano di lavoro era piuttosto grande, e in teoria sarebbe bastato per tre dipendenti, anche se con qualche disagio, ma in due stavamo quasi stretti: non so chi dei due avesse cominciato a rubare spazio all’altro, ma verso metà mattinata eravamo gomito a gomito, e litigavamo silenziosi per chi dovesse togliersi dai piedi.

“Così non ce la faccio a lavorare!” sbottò infine, alzandosi dalla sua postazione. “Se vuoi occupare tutta la scrivania, caro mio, hai sbagliato alla grande! Chiedi a Kenji, e magari ti darà un tavolino per le tue stupide scartoffie!”

“Vedo che siamo passati a darci del tu… A cosa devo questo cambiamento?” la stuzzicai, divertito.

Per tutta risposta, afferrò cappotto e borsa e, dopo aver urlato “Quello è il mio articolo per domani. Studialo e aggiungici qualcosa, ma non rovinare tutto!”, uscì sbattendo la porta.

I vetri quasi tremarono per la violenza dell’urto.

Una volta solo, esplosi in una risata liberatoria: era da tanto che non ridevo in quel modo e, dopo essermi asciugato le lacrime, mi sentii pronto anche a fare un passo indietro, per andare incontro alla mia nuova collega.

Avremmo dovuto iniziare a collaborare, altrimenti sarebbe stata tutta fatica sprecata.

Lessi distrattamente il documento che aveva lasciato aperto sul suo computer e repressi uno sbadiglio: era un discorso sulla musica natalizia, e se Usagi avesse voluto addormentare i lettori sicuramente ci sarebbe riuscita già alla terza riga.

Iniziai a scrivere qualcosa per dare un tono diverso al pezzo, e mi accorsi che, più scrivevo, più eliminavo parti da lei ritenute importanti.

Terminai in poco tempo, anche perché non ci voleva molto a smontare un articolo la cui base portante riguardava i motivetti per allietare le festività…

Usagi rientrò dopo un’ora, e dall’espressione che aveva, sembrava si fosse fatta un giro di corsa intorno alla città.

Senza una parola, dopo essersi liberata del cappotto, si sedette alla scrivania e cominciò a leggere le mie modifiche.

“Ma sei diventato matto?” domandò inorridita. “I miei lettori non vogliono sentirsi dire certe cose!”

“Ora sono i nostri lettori, e sentiranno anche la mia campana, finché starò qui.”

Scosse violentemente il capo, come a volersi svegliare da un incubo. “Ma non puoi riscrivere tutto il pezzo, stravolgendone completamente il senso!” Respirò a fondo e per qualche minuto nessuno dei due parlò.

“A te non importa nulla del giornale” disse infine. “Non puoi immaginare come ci sentiamo noi qui, con una spada di Damocle che pende sulle nostre teste ogni minuto che passa.”

“Usagi, non è una questione personale, e lo sai bene” provai a scusarmi.

“Per te forse no” convenne, “ma noi siamo una famiglia, e se dovessimo fallire…” Non concluse la frase. Non sapevo se l’avesse fatto volutamente, con l’intento di causarmi sensi di colpa, o altro.

La osservai, sentendomi per un istante un povero fallito, la stessa sensazione provata quella mattina. Mi riscossi in fretta, prima che potessi fare o dire qualche sciocchezza: io ero lì per evitare una resurrezione del giornale, e non potevo perder tempo con qualche sciocca sdolcineria!

“Io ho fatto il mio lavoro” dissi lapidario. “E questo è quanto.”

Presi la mia roba e, salutando con un gesto della mano, lasciai Usagi ferma, di fronte il monitor acceso.

 

 

 

Okay, lo ammetto… mi ero dimenticata di questa storia T_T

Facendo un po’ di pulizia nel computer me la sono ritrovata davanti e con sommo orrore ho notato di non aver concluso neanche la prima parte, sul sito.

Chiedo umilmente perdono ç_ç sono pronta al linciaggio…

Come sempre, ringrazio chi ha letto e chi ha la pazienza di attendere i miei lenterrimi aggiornamenti.

Un abbraccio a tutti voi, che mi date la forza per andare avanti :*

 

Bax, Kla

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Capitolo 7
*** 6/1 - E' la cosa giusta? ***


Nuova pagina 1

6.

È la cosa giusta?

 

 

Lavorammo per oltre una settimana provando a farci i dispetti l’un l’altra: era mia intenzione impedire un ulteriore aumento delle vendite e, dopo una telefonata di Rei, al termine del mio quarto giorno allo Shinbun, sentii di star facendo un ottimo lavoro.

“Le vendite sono scese dal sedici al dodici percento” aveva detto euforica. “Ti stai impegnando molto, e ammetto che non credevo ci saresti riuscito così in fretta.”

Avevo provato a replicare che non ci volesse poi molto a far fuori un giornale, specialmente lavorando dall’interno, ma Rei non mi aveva fatto parlare: “Ikeda sta pensando seriamente di dargli tempo fino al nuovo anno. Dopodichè, se la situazione non dovesse migliorare, chiuderà quella tastata, e tu avrai la tua prima diretta televisiva già a partire da gennaio!”

Quella notizia mi aveva lasciato senza fiato: stavo ottenendo ciò che volevo, ma non mi sentivo dello stesso umore di Rei. Avevo l’impressione di stare sbagliando qualcosa e, quel che era peggio, sapevo esattamente di cosa si trattasse.

Dopo i primi giorni trascorsi a ostacolarci apertamente anche con polemiche sterili sulla punteggiatura da usare, Usagi ed io avevamo trovato un accordo per la stesura degli articoli, impostandoli come una sorta di dialogo, in cui entrambi potevamo dire la nostra su qualsiasi argomento stuzzicasse la nostra fantasia.

Stavo venendo meno al mio lavoro di coordinatore, ma mi ero presto reso conto che Usagi non fosse  esattamente una sprovveduta: sapeva cosa fare ancora prima che potessi pensarlo io, e questo mi lasciava decisamente poco margine di organizzazione.

Per il poco che potevo fare, provavo un senso di soddisfazione scrivendo frasi e battute di dubbio gusto, più pungenti del solito, rasenti quasi la cattiveria gratuita, e a quanto sembrava quella era la strada giusta da percorrere.

Tuttavia, una piccola spina si stava facendo strada dentro di me: continuavo a domandarmi se stessi facendo la cosa giusta e, soprattutto, continuavo a pensare a Usagi anche a casa, quando invece, seduto sul divano, avrei dovuto godermi lo sport sul mio televisore quarantadue pollici.

Continuavo a ripetermi di stare passando troppo tempo con Tsukino, e di aver ricevuto solo un’indigestione di buoni sentimenti da parte sua, col risultato che non mi lasciava solo neanche tra le mura della mia abitazione.

Non mi entusiasmavano più i programmi televisivi, e mi domandavo spesso se la televisione avesse subito una caduta di qualità, oppure se qualcosa dentro di me stesse cominciando a mutare, senza che me ne fossi reso realmente conto.

 

“Ti vedo pensieroso” commentò Motoki un pomeriggio di fine novembre: mancavano più di venti giorni al Natale, e sembrava che stesse per esserci la fine del mondo. Mi aveva convinto ad accompagnarlo a cercare un regalo speciale per Makoto, e nonostante le scuse che avevo provato a metter su non avevo avuto scampo.

Feci spallucce, ignorando il suo commento: non avrei certo potuto dire al mio migliore amico che mi sentivo quasi in colpa per il fallimento dello Shinbun…

Motoki sembrò capire il mio silenzio, e non fece altre domande.

Camminammo lentamente per le strade del centro, alla ricerca di qualcosa che potesse stupire la sua ragazza.

“Che ne pensi si questo?” domandò, indicando un piccolo peluche vestito da Babbo Natale con un bastoncino di zucchero in una zampa.

“Motoki…” mormorai solo: era il centesimo oggetto inutile e senza senso che mostrava, da che eravamo usciti, e iniziavo a spazientirmi.

“Capito” si arrese. “Cioccolatini?”

“A Makoto?!” dissi, sperando che cogliesse l’inutilità di regalare cibo di qualunque genere a una cuoca provetta.

“In effetti…”

Vagammo per almeno un’altra mezz’ora per le vie affollate, finché non raggiungemmo una piccola gioielleria, stranamente vuota.

A seguito delle insistenze del mio amico, entrammo, e sperai vivamente che lì dentro avremmo potuto porre fine al nostro girovagare.

Dopo pochi minuti uscimmo; finalmente, Motoki sembrò aver trovato il regalo perfetto per Makoto: un bracciale intrecciato in oro bianco.

“Visto?” commentai. “Non ci voleva poi molto.”

“E tu? Non c’era nulla che potesse fare al caso tuo?”

Lo fissai interrogativo, in attesa che fosse meno ermetico del solito.

“Per Usagi” spiegò, e per poco non mi strozzai, al solo sentir nominare la mia collega.

“E che c’entra Usagi, adesso?”

“Come? Non le regali niente per Natale?” domandò, con aria confusa.

“E perché dovrei regalare qualcosa a una collega che, tra parentesi, non sopporto nemmeno un po’?”

Mi guardò furtivamente, per poi rispondere: “Beh, pensavo che dopo tutto il lavoro che state svolgendo insieme, aveste imparato a conoscervi meglio, e che potesse nascere qualcosa…”

Continuai a fissarlo senza dire nulla, provocandogli quasi una reazione nervosa.

“Insomma, Mamoru! Tu e Usagi siete perfetti l’uno per l’altra! Possibile che siate così ottusi da non rendervene conto? E poi, finalmente, potremmo uscire tutti e quattro insieme…”

“Motoki, Usagi e io non staremo mai insieme” dissi deciso. “Togliti questa folle idea dalla testa.”

“Vieni a cena da noi, stasera?” mi domandò dopo un po’.

Rimasi incerto sul da farsi per qualche minuto, adducendo scuse riguardanti imminenti lavori da portare a termine che non trassero in inganno Motoki.

Mi piaceva la compagnia di Motoki e della sua ragazza, ma ultimamente mi sentivo sempre di troppo: iniziavo a pensare che mi mancasse qualcosa, per essere completamente felice, ma non riuscivo a capire cosa.

E puntualmente, dopo esser tornato a casa da un loro invito, iniziavo a farmi venire strane idee in testa, e a immaginarmi con una qualche ragazza al mio fianco; ma io sapevo che questo non poteva essere un vero desiderio: la mia unica preoccupazione era una crescita professionale, e per il resto ci sarebbe stato tempo. In fondo, avevo appena trent’anni!

Messo con le spalle al muro, accettai l’invito del mio amico, e una volta arrivati a casa sua trovammo già Makoto ai fornelli.

Motoki fece i salti mortali per non farsi scoprire con il pacchetto della gioielleria nella tasca del cappotto, e quella scenetta mi mise di buonumore.

“Hai un atteggiamento a dir poco sospetto” commentò Makoto, constatando come il ragazzo si osservasse attorno, guardingo. “Mi stai nascondendo qualcosa, per caso?”

Motoki scosse la testa con talmente tanta enfasi che ebbi l’impressione che potesse staccarsi dal resto del corpo.

La mora non si fece pregare e, mollati i fornelli, si avvicinò minacciosa al suo ragazzo: con le mani bagnate, iniziò a schizzarlo prima debolmente, poi sempre più con convinzione, fino a infilare le mani tra il colletto della camicia e la pelle del povero Motoki che, nel frattempo, cercava di mimetizzare il rigonfiamento della tasca del cappotto.

“Mamoru! Aiutami!” implorò Motoki ma, anche se avessi voluto far qualcosa, ero ipnotizzato dalla serenità e dalla pace che si viveva in quelle quattro mura.

Quella breve battaglia familiare ebbe una sorta di effetto terapeutico per me: improvvisamente, non mi sentii più tanto un intruso, ma quasi membro di quella piccola setta, composta esclusivamente da Makoto e Motoki.

Desiderai, per un solo istante, poter far parte anche io di una simile società, ma mi resi conto che, per il momento, avrei potuto solo godere di quella gioia riflessa.

“Mako-cha, credo che stia per bruciare qualcosa, in cucina” commentai, annusando l’aria. Non che avessi davvero sentito puzza di bruciato, ma credevo che Motoki avesse pagato abbastanza i suoi continui accenni a un’eventuale amicizia tra Usagi e me: senza volerlo, Makoto mi aveva fatto un favore.

Come avevo previsto, la ragazza terminò immediatamente l’attacco al suo fidanzato per precipitarsi in cucina.

“Non potevi essere un po’ più amico, e inventare questa balla prima che mi infradiciasse la camicia pulita?” borbottò Motoki, cercando di ripulirsi il collo dagli assalti di Makoto.

“Eravate un bello spettacolo” replicai.

Vidi il mio amico pronto a saltarmi addosso e istintivamente mossi qualche passo indietro.

Fortunatamente, la cena era pronta, e questo mi impedì di fare un occhio nero a Motoki: benché non volesse ammetterlo, sapevamo entrambi che fossi più forte di lui, e che non avrei esitato a colpirlo, anche se solo per scherzo.

Makoto quella sera superò se stessa: nagiri-sushi ad accompagnare lo yakitori più buono che avessi mai provato. Era chiaro che la cuoca non volesse rischiare di rovinare la propria linea e quella degli ospiti, ma anche con semplicità era stata capace di far leccare i baffi ai suoi commensali.

“Come ti trovi a lavorare con Usagi?” domandò alla fine del pasto.

“Ti dirò, Mako-chan” iniziai, cercando una via di mezzo per quello che avrei potuto dire sulla mia nuova collega, “se Odango non fosse così indisponente su tutto, potrebbe essere un’ottima giornalista.”

“Odango?” mi interrogò Motoki.

“Sì, beh, per la sua pettinatura” spiegai, sentendomi improvvisamente imbarazzato.

“Uh-uh” sorrise maliziosa Makoto. “E da quando siete passati dal darvi il lei ai nomignoli?”

Mi sentivo quasi sotto processo. Spiegai loro che non si trattava di un nomignolo affettuoso, come avrebbero potuto pensare, ma più che altro una innocente presa in giro, e sottolineai come la cosa non fosse affatto apprezzata dalla diretta interessata.

Terminammo la cena continuando a tergiversare sul mio rapporto con Usagi, e solo quando Makoto ci presentò il dessert che decidemmo di lasciar cadere l’argomento: il wagashi preparato da Mako era qualcosa di sublime, nonostante l’eccessiva dolcezza data dalla marmellata.

Rimasi in loro compagnia per un’altra mezz’ora, dopo la cena, aiutando per quel che potevo nel riordino della cucina e della sala da pranzo.

Prima di potermene andare, però, dovetti sorbirmi una nuova ramanzina sulla mia condizione di assoluta allergia verso legami seri.

“Se non ti decidi a fare qualcosa in quel senso” cominciò Makoto, “rischi di sterilizzare il tuo cuore a nuovi incontri: non allontanare le persone, ma cerca un dialogo con loro.”

“Mako…” provai a dire, ma non mi fece continuare.

“No, Mamoru. Non puoi dire che stai bene così, e che sei libero di agire come meglio credi. Abbiamo notato che il tuo sguardo è cambiato, da un po’ di tempo a questa parte: se c’è qualcosa di bello che credi stia capitando alla tua vita, e non mi riferisco alla professione” mi precedette, “allora non fartela scappare. Forse tu non te ne accorgi, ma sembri più sorridente, e più contento di essere al mondo.”

Concluse il suo discorso guardandomi dritto negli occhi; lei era la sola, insieme a Motoki, a sapere qualcosa di più della mia infanzia, e non provai neanche a replicare qualcosa: sapevo che aveva ragione lei, e inconsciamente sapevo cosa avrei dovuto fare.

Li salutai, glissando sul tentativo di convincermi a confidarmi con loro, promettendogli solo che avrei riflettuto sul da farsi.

Ma, non l’avrei mai ammesso con nessuno, avevo paura di ricevere, ancora una volta, una porta chiusa come risposta.

 

Come sempre, un grazie infinito a chi mi segue, nonostante la mia lentezza!
Cercherò di essere un po' più rapida negli aggiornamenti, non dico tanto... ma almeno un capitolo ogni due settimane :)

Grazie di cuore a tutti, a chi legge e a chi lascia un commento dicendomi cosa ne pensa delle mie folli follie.

A presto ;)

Bax, Kla

 

 

 

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