Un giro di chiave

di hotaru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sagome di gatti ***
Capitolo 2: *** Di nuovo in soffitta ***
Capitolo 3: *** La materia di cui son fatti i sogni ***
Capitolo 4: *** Tutto a posto ***
Capitolo 5: *** Carillon arrugginiti ***
Capitolo 6: *** Di soffitta in soffitta ***



Capitolo 1
*** Sagome di gatti ***


1- Sagome di gatti
Un giro di chiave

Un giro di chiave


Sagome di gatti


 "E il tempo non mi riguarda,
perché il tempo mi appartiene."

("Il fabbricante di sogni", Modena City Ramblers)


- Io posso portare questo, maestra Makoto! -.
- Sei sicura, Chibiusa? Non è troppo pesante per te? -.
- No, certo che... - una bambina dai capelli raccolti in due folti codini tentò di alzare uno scatolone grande quanto lei, ma dovette constatare di non riuscire a spostarlo nemmeno di un centimetro. Lo guardò, costernata, e poi rivolse alla maestra uno sguardo di scuse.
Makoto, mordendosi le labbra per non mettersi a ridere, disse accomodante:
- Tranquilla, a quello scatolone penso io. Tu puoi portare queste maschere, per favore? -.
La piccola annuì vigorosamente, prendendo quelle quattro maschere come se fossero state fatte di cristallo, invece che di cartapesta.
- Voi due cosa fate? Ci aiutate? - Makoto si rivolse a due bambini che stavano alle spalle di Chibiusa, e che in tutta risposta scossero velocemente la testa. Poi si eclissarono in tutta fretta, verso la maestra Minako intenta a cantare una delle sue filastrocche assieme agli altri.
- È perché hanno paura, maestra – spiegò Chibiusa – Sono dei fifoni: pensano che al piano di sopra ci sia chissà quale mostro che si nasconde nel buio -.
- Beh, in effetti di sopra è sempre buio, dato che non ci va mai nessuno e le finestre sono perennemente chiuse. Sicura di voler venire con me? -.
- Oh, ma io non sono come loro – si affrettò a mettere in chiaro Chibiusa – Non vedo l'ora di vedere cosa c'è -.
- Allora facciamo così: se davvero mi aiuti a rimettere a posto i costumi della recita, puoi dare un'occhiata in giro – propose Makoto.
Alla bambina brillarono gli occhi.
- Davvero? - nessuno aveva il permesso di salire le scale, peraltro rese inaccessibili da una porta chiusa a chiave. Ragion per cui nessuno dei bambini dell'asilo era mai stato al piano di sopra. Proprio dove lei stava andando.
- Certo. Una promessa è una promessa -.


In realtà risultò poi che le maschere dovevano essere sistemate non al piano superiore, bensì in soffitta. La maestra Makoto aveva detto a Chibiusa che avrebbe potuto aspettarla in corridoio, magari vicino ad una finestra da cui entrava un filo di luce, ma le aveva anche proposto di seguirla.
Chibiusa non se l'era fatto ripetere due volte, tallonandola mentre salivano la stretta scala in legno nascosta dietro una porticina nel muro, fino ad arrivare ad una specie di botola forse più adatta ad una nave che a una casa.
L'asilo di Chibiusa si trovava in un vecchio edificio che era stato un'elegante dimora signorile, donato ottant'anni prima dall'ultima anziana padrona, stanca di vedere la propria casa tanto vuota. Pensava che sarebbe stato bello se, dopo la sua morte, si fosse riempita di tutti quei bambini che non aveva mai avuto: era riuscita ad immaginare i freddi e bui corridoi animati dalle voci e dalle canzoncine di decine di bambini tra i tre e i cinque anni- l'età più bella- e le era piaciuto. Così aveva lasciato casa e giardino come donazione, che dopo la sua morte un consiglio di amministrazione si era occupato di mettere in regola come scuola materna.
Trattandosi di bambini così piccoli, la legge prevedeva che l'asilo si trovasse su un unico piano, per evitare pericolose scale, e così era stato deciso che si sarebbe utilizzato solo il piano terra: gli spazi erano stati adattati per ricavarne una sala mensa, dei bagni, una stanza per i riposini, qualche aula e un grande salone per il ritrovo di tutti. Il piano di sopra veniva usato come deposito e archivio, e le uniche a potervi salire erano le maestre.
A cinque anni le prerogative degli adulti somigliano quasi a privilegi divini, e Chibiusa si sentiva al pari di un'iniziata mentre saliva quella scala, un gradino alla volta, al seguito della maestra Makoto.
- Fa' attenzione, Chibiusa: è molto ripida -.
Oh, ma lei a casa aveva addirittura una scala a chiocciola: era più che allenata ai gradini insidiosi.
Quando si trovarono finalmente in quel sottotetto chiamato "soffitta", Chibiusa per un attimo si chiese se si trovassero davvero ancora nel suo solito, vecchio asilo: era il terzo anno, per lei, e lo conosceva ormai come le sue tasche. Scoprire che celava ancora dei misteri era la cosa più emozionante che le fosse capitata quell'anno.
- Accipicchia... e adesso dove sarà lo scatolone delle maschere? - si stava chiedendo la maestra, grattandosi dubbiosa la testa. Non l'avrebbe mai detto a voce alta davanti a uno dei bambini, ma visto che a rimetterlo a posto l'ultima volta era stata Minako, prevedeva che non sarebbe stato tanto facile ritrovarlo. Per quel che ne sapeva, poteva anche averlo nascosto dentro a un vecchio baule, e riesumarlo in quella confusione si annunciava una vera e propria caccia al tesoro.
- Chibiusa, io qui ne avrò per un po'. Se ne hai voglia, puoi dare un'occhiata in giro – propose Makoto alla bambina, pensando che comunque non l'avrebbe persa di vista, dato che quella soffitta non era che un grande sottotetto senza muri né pannelli.
Fu come se a Chibiusa avessero detto di diventare la protagonista del suo libro preferito: quell'ambiente era talmente diverso da tutti quelli che conosceva, da poter benissimo essere uscito dalle pagine di una fiaba. Annuì sognante e cominciò a guardarsi intorno, chiedendosi da dove potesse cominciare.
La maestra Makoto aveva acceso una piccola lampadina che penzolava nuda dal soffitto e proiettava una luce polverosa sull'ingombro di mobili e scatole, ma lei riteneva che la luce proveniente dagli arcuati finestroni posti all'altezza del pavimento consentissero di vederci a sufficienza. La luce bianca del sole di quella mattina entrava potente, anche se i vetri erano ormai piuttosto opachi, e il pulviscolo luminoso danzava nell'aria in minuscole schegge di luce.
Chibiusa avanzò verso il lato opposto rispetto a dove si trovava la maestra, divertendosi a spostarsi tra le zone di luce e ombra, pensando che gli altri di sotto non potevano nemmeno immaginare quale mondo misterioso stesse esplorando in quel momento. E pensare che stava camminando sopra le loro teste! Quest'ultima considerazione la fece ridacchiare allegramente, e cominciò quasi a saltellare.
Mobili, bauli, attaccapanni, qualche strumento musicale e scatole a non finire... le sarebbe piaciuto aprirle, ma non sapeva se "dare un'occhiata in giro" contemplasse anche questo. Meglio non rischiare, era già un grande privilegio poter essere lì.
Mobili, scatole, mobili, scatole, mob... Chibiusa si fermò, aguzzando la vista. Tra i mobili, le scatole, le vecchie poltrone e gli attaccapanni si stagliava una specie di torre verticale, come un campanile tra le case, per metà illuminato dalla luce che entrava a raso terra e per metà in ombra.
Chibiusa si avvicinò, contemplando quello che riconobbe come un grande e distinto orologio, più che altro per il quadrante lassù sopra la sua testa. Alla sua altezza si trovava una teca in vetro che conteneva degli strani pesi dai riflessi dorati, e più in basso finivano in un disco che sembrava il piatto di una batteria. Era tutto perfettamente immobile, come se stesse trattenendo il respiro da chissà quanto tempo.
E più in alto, sopra il il quadrante, dove la luce non arrivava ad illuminare direttamente c'era... qualcosa. Chibiusa non riusciva a vedere bene, così si guardò intorno e notò che lì accanto c'era una vecchia poltrona dai cuscini verde stinto. Lanciò un'occhiata all'indirizzo della maestra Makoto, ancora impegnata a frugare e a maledire silenziosamente la sua collega confusionaria, quindi spostò silenziosamente la poltrona e la mise proprio davanti all'orologio. Ci salì sopra e, alzando un po' la testa, vide finalmente che cosa c'era sopra al quadrante dalle lancette immobili, anch'esso nascosto da una teca.
Il legno era intagliato in una specie di mezzaluna colorata, nel cui centro si stagliava una figurina a forma di gatto, colorata di un grigio tendente al lilla. Era un micino così carino che, se fosse esistito nella realtà, Chibiusa avrebbe assolutamente voluto tenerlo con sé. Chiaro com'era, risaltava perfettamente sullo sfondo blu alle sue spalle, di un blu profondo decorato con una serie di pianeti dorati. Le sarebbe piaciuto provare a toccare il piccolo micio in legno, ma non arrivava così in alto. Stava appoggiando le dita sulla teca del quadrante, e spostando la mano si accorse di qualcosa che sporgeva all'interno. Provò ad aprire la teca, che non oppose alcuna resistenza, e si accorse che quella che sporgeva sembrava una specie di chiave, un po' come quelle che si trovano sotto i carillon per caricarli. Ricordava che sua madre ne aveva uno a forma di stella, regalatole dal marito quando erano ancora fidanzati. La chiave che stava guardando ora aveva una forma quasi a cuore, con al centro una piccola pietra rossa, e chissà se...
Provò a girarla con una mano, ma era troppo dura. Facendo pressione anche con l'altra, riuscì a spostarla e sentì gli ingranaggi all'interno muoversi leggermente. Completò un giro, e poi un altro, ma non accadde niente. Beh, pensò, in fondo si trattava di un orologio, non di un carillon.
Un po' delusa, alzò la testa e constatò con sommo stupore che gli occhi del gatto, prima chiusi, erano ora aperti: di un marrone chiaro tendente al rosso, guardavano dritto avanti a sé, grandi e luminosi.
Lo osservò affascinata per qualche istante, poi controllò il quadrante e constatò che le lancette non si erano spostate nemmeno di un millimetro, anche se più in basso il pendolo aveva cominciato ad oscillare piano. Che strano orologio: che senso aveva, se non segnava nemmeno l'ora? Ma forse era talmente vecchio che non funzionava più, e poi chi poteva venire fin lassù solo per controllare che ora fosse?
Chibiusa udì un tramestio dietro di sé, e si ricordò all'improvviso che in quella soffitta c'era anche la maestra Makoto. Era convinta di non stare facendo nulla di male, ma non le piaceva l'idea di essere sorpresa a trafficare con un oggetto antico come quello. Quindi richiuse la teca di vetro e saltò giù dalla poltrona, salutando con un'occhiata affettuosa il bel micino grigio che ora, grazie a lei, poteva finalmente guardarsi intorno.
- Oh, eccoti qui – fece Makoto, passandosi una mano sulla fronte leggermente sudata – Finalmente ho trovato lo scatolone che cercavo, possiamo scendere -.
Chibiusa annuì, per niente dispiaciuta di aver dovuto trascorrere lì ben venti minuti della sua ancora breve esistenza. Mentre scendevano le scale della soffitta prima e del piano di sotto poi, pensò che una giornata magica come quella fosse un evento assolutamente irripetibile.
In realtà non aveva la minima idea di quanto si stesse sbagliando.






Questa storia si è classificata prima al contest "La Tempesta" indetto da Vienne, dove bisognava scrivere una storia prendendo spunto da una frase di Shakespeare. Quella che ho scelto io è la meravigliosa: "Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno."
Si è classificata prima anche al contest "Un Segreto in Soffitta" indetto da DarkRose86 ma giudicato da iaia86@: da contest, dovevamo ambientare la storia per l'appunto in una soffitta e utilizzare un elemento a nostra scelta. Come si vedrà qui, io avevo inizialmente scelto l'orologio a pendolo, ma sono poi "slittata" chissà come sulla chiave- e se ricordate "Sailor Moon", indovinerete anche di che chiave si tratta...
La Chibiusa di questa storia ha cinque anni, perciò è da ricondurre alla seconda serie di "Sailor Moon". Tuttavia il personaggio è leggermente diverso, per forza di AU: il carattere diffidente e quasi insopportabile che aveva nell'anime era dovuto principalmente alla situazione in cui si trovava- era stata separata dai genitori; a causa di un suo guaio, il suo mondo rischiava di cadere in rovina; inoltre era finita da sola nel passato, inizialmente senza sapere se avrebbe davvero potuto fidarsi delle guerriere Sailor. Credo che il personaggio vada visto in questa luce, perciò ho ipotizzato che in una situazione di normalità, in cui Chibiusa viva felicemente con i propri genitori, possa essere molto più dolce- una dolcezza che comunque nell'anime si intuiva.
Liberi di essere d'accordo con me oppure no, ma questa è la mia opinione. Poi è anche vero che Chibiusa come personaggio mi piace molto. ^^

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Capitolo 2
*** Di nuovo in soffitta ***


2- Di nuovo in soffitta Di nuovo in soffitta


Un giro di chiave 2


Il pomeriggio prima aveva raccontato tutti gli avvenimenti di quella fantastica giornata a sua madre, mentre la accompagnava a fare la spesa. Chibiusa era a dir poco indispensabile, in quei frangenti, perché a sua madre cadeva invariabilmente qualcosa, ogni volta. Il giorno prima era toccato a sei mele rosse dall'aspetto succoso, che nello scivolare fuori dalla borsa di plastica sulla soglia di casa si erano tutte ammaccate.
- Oh, beh... - aveva commentato sua madre, senza preoccuparsene troppo, mentre spingeva dietro la schiena una delle sue lunghe code. Chibiusa sapeva che le altre madri la consideravano una pettinatura infantile- glielo avevano detto i suoi compagni d'asilo, a loro non sfuggiva niente- ma a lei piaceva: sua madre era molto più giovane delle altre, in fondo, perché si era sposata presto, ed era lusingata che avessero più o meno la stessa pettinatura - ... tanto volevo fare una torta. Anche se sono un po' ammaccate non c'è problema, rimangono comunque buone -.
Non si poteva dire altrettanto del dolce che ne sarebbe stato ricavato, Chibiusa lo sapeva già. Ma si divertiva un mondo a pasticciare in cucina assieme a lei: i loro grembiuli rosa diventavano bianchi di farina, e si inzaccheravano tanto che quando suo padre rientrava diceva che le torte erano loro.
Ormai era quasi una tradizione che lei si presentasse nell'ingresso al suo ritorno, simile a un biscotto dai codini di zucchero, e il padre prendendola in braccio le desse un bacio sul naso, cercando di indovinare che dolce avevano provato a fare.
Una volta che aveva raccontato tale dinamica alla madre di una sua amica questa era rimasta quasi inorridita, ma Chibiusa non se n'era nemmeno accorta: per lei era la normalità quotidiana, la piccola principessa di due genitori che giocavano ancora a fare i fidanzati.
Quando quella sera si addormentò nel suo lettino, pensò che una giornata talmente perfetta non si poteva certamente ripetere.


- Qualcuno di voi mi aiuta a portare di sopra le cose che abbiamo usato per la recita? - domandò la maestra Makoto, alzando un pesante scatolone come se fosse stato pieno di gommapiuma.
"Ma non l'avevamo già fatto ieri?" pensò Chibiusa, offrendosi comunque volontaria. Non si sarebbe di certo fatta scappare l'occasione di salire di nuovo nella soffitta dell'asilo!
- E voi? Ci aiutate? - domandò la maestra ad altri due bambini lì vicino, che tuttavia scossero la testa e si allontanarono in fretta. La maestra Minako stava cantando una filastrocca in cerchio con gli altri, allegra come sempre.
- Hai visto, maestra? Hanno fatto come ieri: sono dei veri fifoni – le confidò Chibiusa, disapprovando tanta codardia.
- Come ieri? - chiese confusa Makoto, chiedendosi che gioco avessero fatto perché la bambina desse dei fifoni ai propri compagni – Comunque è normale avere paura del buio e di un posto che non si conosce, sai? -.
- Oh, ma io lo conosco – disse con condiscendenza Chibiusa, senza vantarsi.
- Lo conosci? - voleva dire che era già stata di sopra senza che lei se ne accorgesse? Possibile? E dire che, con tutta la sua altezza, di solito riusciva a tenere sotto controllo i bambini meglio di una chioccia coi pulcini; inoltre la porta era sempre chiusa a chiave – Ma... -.
- Dobbiamo andare in soffitta, non è vero? - fece Chibiusa, facendo per precederla.
- Aspetta, Chibiusa, vado avanti io – la fermò, visto che di sopra era buio e non voleva che inciampasse.
La bambina annuì, seguendola docilmente. Esultò internamente quando vide che in effetti stavano andando di nuovo in soffitta, e pensò che era stata davvero fortunata.
- Attenta, Chibiusa, la scala è un po' ripida – la avvisò la maestra, come se lei non lo sapesse già.
Quando arrivarono in cima e accesero la lampadina che illuminava una minima porzione di sottotetto, la maestra Makoto si grattò il capo sconsolata.
- Oh, accipicchia... e adesso come lo trovo, quello scatolone? - mentre si guardava intorno poco convinta, disse a Chibiusa: - Puoi esplorare un po' la soffitta, se vuoi, ma sta' attenta -.
Chibiusa annuì di nuovo, e lasciò su una sedia le maschere che aveva portato su- curiosamente molto somiglianti a quelle del giorno prima. Pensò a cosa poteva fare quella mattina, visto che l'esplorazione generale l'aveva già effettuata, e le venne in mente di andare di nuovo a dare un'occhiata a quello strano orologio.
Quando arrivò e guardò in su, fece un gran sorriso nel vedere che gli occhi del gatto erano ancora aperti come li aveva lasciati. Si guardò intorno e ritrovò la poltrona del giorno prima- strano, non ricordava di averla messa a posto, ma lì la confusione era tanta- per poi risistemarla sotto l'orologio e salirci sopra.
- Ciao – disse piano al micino. Ora che li guardava bene, le sembrava che quei grandi occhi avessero un po' lo stesso colore dei suoi – Hai visto che sono tornata? Ma mi sa che è l'ultima volta -.
Il gattino non rispose, ma seguitò a tenere gli occhi bene aperti. Che cosa curiosa, quello strano simbolo che aveva intagliato sulla fronte: era giallo e arcuato, come una piccola mezzaluna. Ma in fondo non era un gatto vero, quindi ci poteva anche stare.
- Saresti proprio un micino speciale – gli sussurrò Chibiusa – Chissà come potrei chiamarti... -.
Qualche rumore un poco più in là la fece voltare, e vide che la maestra Makoto aveva quasi finito. Saltò giù dalla poltrona, lasciandola lì dov'era, e salutò silenziosamente il suo gattino.
- L'hai trovato, maestra? - chiese a Makoto, raggiungendola.
- Sì, finalmente – rispose lei, passandosi una mano sulla fronte – Adesso possiamo scendere -.
Chibiusa annuì, anche se un po' dispiaciuta perché di certo non avrebbe avuto una terza possibilità di rivedere quella magnifica soffitta.
Più tardi non se ne dimenticò, anche se fu piuttosto occupata a chiedersi perché certi bambini non imparassero mai: quello che ieri si era rovesciato addosso la minestra lo fece di nuovo, e la stessa sua compagna che il giorno prima si era sbucciata un ginocchio cadendo dallo scivolo si fece di nuovo male, allo stesso ginocchio.
Ma lo sapevano che l'anno dopo avrebbero dovuto iniziare la scuola elementare? Davvero, c'era di che preoccuparsi.


- E così, mamma, sono andata di nuovo in soffitta! L'unica di tutto l'asilo che ha aiutato un'altra volta la maestra Makoto – stava raccontando Chibiusa a sua madre, mentre pulivano il disastro di cinque uova fresche finite disgraziatamente sul pavimento.
- Sei davvero coraggiosa – commentò Usagi ridacchiando – Io alla tua età non sarei andata in soffitta nemmeno se mi avessero promesso un piatto di dolci come premio -.
- Davvero? E papà? -.
- Oh, il tuo papà era molto più coraggioso – rispose Usagi, rischiando di scivolare mentre risciacquava la spugna sporca di tuorli e albumi – Anche se io non lo conoscevo, allora, ma mi hanno raccontato che era un vero cuor di leone! -.
- Allora io ho preso da lui? - domandò Chibiusa, fiera.
- Credo proprio di sì – annuì sua madre – In questo sei una vera Chiba -.
Ma quando Chibiusa fece per rialzarsi dal pavimento di nuovo decente, scivolò e cadde sul didietro, Usagi non poté fare a meno di pensare che per tutto il resto era proprio sua figlia.
 

- Dobbiamo sistemare i costumi e le maschere della recita, chi mi aiuta? - chiese il giorno dopo la maestra Makoto, al che Chibiusa fece tanto d'occhi.
"Come, ancora?" pensò. Ma la recita era stata soltanto una, possibile che ci fossero ancora delle cose da sistemare? E poi quelle maschere le sembravano uguali a quelle del giorno prima, e di quello prima ancora.
Comunque, se poteva tornare in soffitta un'altra volta...
- Vengo io! - si offrì Chibiusa, di nuovo l'unica in mezzo a tanti fifoni.
Così andarono nuovamente in soffitta, la maestra Makoto dovette cercare ancora lo scatolone perduto e Chibiusa ebbe il tempo di fare un altro giro del sottotetto. Cominciava a considerarlo il suo regno, visto che era la terza volta che ci metteva piede.
- Sono la regina del Regno della Soffitta e tu, o micino, sei il mio consigliere – annunciò all'orologio, quando ebbe riportato la poltrona davanti alla teca e vi fu salita sopra. Ma non l'aveva lasciata lì, sotto al quadrante?
Poi tornò di sotto dagli altri assieme alla maestra, giocò e cantò. Un bambino si rovesciò la minestra addosso e un'altra si sbucciò un ginocchio.
E tutto ciò si ripeté il giorno dopo. E il giorno dopo ancora.
Chibiusa era a dir poco confusa, e aveva provato a dirlo a sua madre, che in tutta risposta aveva rievocato i propri magnifici giorni all'asilo- lo stesso frequentato dalla figlia- in cui non faceva altro che giocare, dormire e mangiare. Ah, che bella vita.
Dal canto suo, Chibiusa non faceva altro che aiutare la maestra Makoto tutte le mattine, portando sempre le stesse maschere su in soffitta e andando a salutare il suo micino dell'orologio, salendo ogni volta sulla stessa poltrona che qualcuno rimetteva sempre a posto.
Non sapeva più che giorno era, perché tutti i giorni erano sempre uguali. Almeno all'asilo, perché poi a casa sua madre inventava un pasticcio diverso ogni giorno.
Una delle mattine in cui era in soffitta, ad aspettare che la maestra Makoto trovasse come sempre uno scatolone infilato chissà dove dalla maestra Minako, prima di spostare la solita poltrona si mise a guardare quello strano orologio nella sua interezza.
Il pendolo nella teca oscillava lentamente ma incessantemente, come se potesse continuare per sempre, e Chibiusa si ritrovò a fissarlo a lungo, seguendone il movimento con gli occhi, come ipnotizzata.
Poi guardò in su, verso il suo micino color lilla dalla mezzaluna sulla fronte, che da un po' di tempo a questa parte guardava la soffitta con occhi vivaci e attenti.
Chissà se...?
Spostò come al solito la poltrona e vi salì sopra, aprendo di nuovo la teca del quadrante. Di nuovo provò a girare quella specie di chiave, con tutte le proprie forze, per due o tre volte.
Guardò in su, e constatò con stupore che il bel micino al centro della mezzaluna era sparito. Ora si vedevano solo stelle e pianeti, e dalla parte sinistra iniziava a fare capolino una forma tonda e bianca. Magari...
Chibiusa si mise d'impegno, e riuscì a dare altri due giri alla chiave inserita nel quadrante, tenendo contemporaneamente d'occhio la mezzaluna sopra di sé. E scoprì che il suo dubbio era fondato: nel corso di quegli ulteriori due giri, dalla parte sinistra sorse la sagoma di un altro gatto, sul cui sfondo si stagliava una forma bianca e perfettamente tonda. Se quelli di prima erano i pianeti, quella doveva essere la luna, pensò Chibiusa.
Anche il gatto era cambiato: era nero, e le sembrava che fosse più grande rispetto a quello di prima; se l'altro era un micino, quello era un gatto adulto.
Ma gli occhi erano perfettamente identici: grandi e di un marrone tendente al rosso, aperti e attenti.
Chibiusa saltò giù dalla poltrona, osservando quel nuovo felino che faceva capolino dalla cima dell'orologio. Chissà se il giorno dopo l'avrebbe rivisto.
Andò dalla maestra Makoto, e per quel giorno lasciò di nuovo la soffitta.

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Capitolo 3
*** La materia di cui son fatti i sogni ***


3- La materia di cui son fatti i sogni La materia di cui son fatti i sogni


Un giro di chiave 3


La mattina dopo Chibiusa era già pronta a tornare in soffitta con la maestra Makoto, quando nell'entrare all'asilo si accorse che c'era qualcosa di strano. Qualcosa di molto strano, perché si rese conto di non conoscere nessuno dei bambini presenti. E dov'erano finite le maestre Makoto e Minako?
Inoltre il posto stesso era diverso, con dei disegni che non aveva mai visto e un bel pianoforte verticale nel grande salone di ritrovo. Una maestra sconosciuta lo stava suonando, e tutti i bambini cantavano una filastrocca mai sentita.
Tuttavia, come aveva detto sua madre, Chibiusa aveva ereditato il coraggio del padre, e tutto ciò non fece che incuriosirla moltissimo: ma cos'era successo?
- Ciao! Tu devi essere nuova! - una voce improvvisa la riscosse dai suoi pensieri, e si accorse di avere accanto a sé una bambina bionda che le sorrideva allegramente.
- Beh... sì – in effetti, se quel posto non fosse inequivocabilmente stato il suo asilo, si sarebbe sentita una perfetta estranea.
- Ti troverai bene, qui. Sono tutti simpatici – le disse l'altra bambina, guardandola coi suoi grandi e sinceri occhi azzurri – E le maestre sono molto buone, sanno anche suonare il pianoforte! -.
- Sì, ho visto – rispose Chibiusa, osservando poi un paio di bambine che saltavano la corda – Bello, quel gioco -.
- Già – fece la bambina accanto a lei – Peccato che io sia una frana totale: inciampo sempre nella corda e finisco per terra... è già tanto che riesca a farne uno, di salto -.
Chibiusa rise piano, perché la sua nuova amica gliel'aveva confidato allegramente, come se non le importasse poi molto.
- A me riesce abbastanza, invece. Però arrivo al massimo a venti salti -.
- Venti? - esclamò l'altra, guardandola con ammirazione – Ma sei bravissima! -.
- Ma no... è che mi alleno tanto – rispose Chibiusa con modestia.
- Io non ci riuscirei nemmeno se mi allenassi tutto il giorno – ammise la bambina bionda, senza ombra di invidia.
All'improvviso gli occhi azzurri le si illuminarono, come se le fosse venuta in mente una cosa, ed esclamò:
- A proposito, io mi chiamo Usagi, e tu? -.
- Anch'io mi chiam... - fece per dire Chibiusa, per poi bloccarsi e sgranare gli occhi nel vedere ora sul serio quella bambina così allegra e simpatica. Nel capire perché quei codini e quel sorriso le fossero così familiari.
- Io... - mamma? - ... devo andare in bagno -.


La porta della scala che portava al piano di sopra non era chiusa a chiave, forse perché a quei bambini bastava il divieto di salire, e nessuno osava disobbedire. Fu grazie a questo che Chibiusa riuscì ad aprirla piano piano e ad infilarsi su per le scale senza che nessuno se ne accorgesse.
Ormai conosceva fin troppo bene la strada che portava alla soffitta, anche se stavolta rischiò di inciampare negli ultimi gradini tanto li salì in fretta.
- Tu... tu... sei stato tu? - gridò all'indirizzo del gatto nero quando si trovò davanti all'orologio, implacabile nell'oscillare del suo pendolo.
La sagoma felina non rispose, e anche se la chiave sporgeva dal quadrante, all'interno della teca, Chibiusa non osò più toccarla. Aveva l'impressione che fosse stata proprio lei a provocare tutti quei guai; che guai effettivi non erano, però... era tutto così strano. Chibiusa le ore non sapeva ancora leggerle, e il calendario con i suoi mesi e i suoi giorni non le era sempre molto chiaro. Non sapeva ancora nemmeno contare, in fondo... ma anche se la suddivisione del tempo era una cosa che a cinque anni poteva essere ancora sconosciuta, lei si era ben resa conto che qualcosa non andava.
Perché non era molto normale incontrare all'asilo la propria madre bambina, quando la versione adulta l'aveva accompagnata lì giusto mezz'ora prima.
- Sei stato tu? - ripeté.
La soffitta rimase sospesa nel silenzio per un istante, eccezion fatta per il dosato oscillare del pendolo, mentre la luce grigia di quel mattino nuvoloso entrava polverosa dalle finestrelle.
Il gatto ammiccò.
Chibiusa, incredula, si chiese se l'avesse visto davvero chiudere gli occhi e poi riaprirli, anche se ora il felino era di nuovo immobile. Si avvicinò piano, e si accorse che le lancette dell'orologio si erano finalmente spostate, entrambe puntate su un tre scritto in numeri romani. Ma Chibiusa, che non sapeva leggere le ore e non conosceva i numeri romani, vide soltanto le lancette che si spostavano. E il gatto che, dalla mezzaluna sopra il quadrante, muoveva un passo in avanti e saltava giù.
Chibiusa aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

- Salve – la salutò educatamente il gatto nero, mentre le lancette avanzavano lentamente verso il numero sei, a segnare la mezza, facendo scorrere lo sfondo e apparire nella mezzaluna il micino grigio che Chibiusa aveva visto all'inizio.
Quando anche lui saltò fuori dal quadrante, come un qualsiasi felino che entra da una finestra, Chibiusa lanciò finalmente un grido di sorpresa.
- Ciao – fece il micino, come se fosse stata una vecchia amica.
- C-ciao – rispose incerta Chibiusa, osservando quel gatto che prima era di legno e ora le stava parlando.
Il gatto nero si voltò verso l'orologio, come se stesse aspettando qualcos'altro; in effetti Chibiusa non aveva mai girato la chiave nell'altro senso, per cui si chiese se...
Le lancette raggiunsero il numero nove e lo sfondo scorse ancora, facendo apparire una sfera dorata che poteva essere il sole, e assieme ad essa un gatto bianco con lo stesso, identico simbolo a mezzaluna sulla fronte.
Chibiusa attese, e non fu delusa: anche lui sbatté un paio di volte le palpebre, che stavolta nascondevano due grandi occhi azzurri, si stiracchiò e saltò giù dall'orologio.
Ora si ritrovava con tre gatti di diverso colore balzati fuori da un orologio a pendolo che non segnava nemmeno l'ora. A chiunque sarebbe potuta sembrare una situazione bizzarra, ma Chibiusa sentiva il cuore batterle nel petto come non mai: era una magia? Una magia... avvenuta proprio davanti a lei?
- Sei stata molto gentile a risvegliarci – le rivolse la parola il micino grigio, con una vocina acuta e tintinnante – Io sono Diana -.
- Oh... sei una gattina? - le chiese Chibiusa, piacevolmente sorpresa. L'altra annuì, e lei ricordò le buone maniere. Fece un piccolo inchino, presentandosi: - Io mi chiamo Chibiusa -.
- Luna – disse il gatto nero, che si rivelò una gatta, chinando il capo.
- Artemis, piacere – fece il gatto bianco.
La gatta nera- Luna- la guardò intensamente, poi le disse:
- Devi essere rimasta molto sorpresa da quanto è successo. Scommetto che non ti aspettavi niente del genere, quando hai girato la chiave -.
- No – ammise Chibiusa, che tuttavia non aveva ancora ben compreso le dinamiche di quanto era successo – No -.
Diana dovette accorgersene, perché avanzò di un passo verso di lei e le spiegò:
- Quando hai girato la chiave la prima volta e hai aperto i miei occhi, si è attivato il mio potere – sorrise, e Chibiusa rimase incantata dal sorriso di un gatto – Io controllo il presente -.
- Quindi è per questo! - esclamò la bambina – È per questo che succedevano sempre le stesse cose! -.
Diana annuì, e intervenne Luna:
- Quando invece hai fatto apparire me, il passato ha preso il posto del presente – la guardò dolcemente – Quella bambina pasticciona era tua madre, vero? -.
Chibiusa assentì col capo, rivolgendosi poi ad Artemis:
- Vuoi dire che tu... controlli il futuro? - mormorò, incredula.
- Sissignora – rispose lui, dandosi un certo contegno – Gli eventi non ancora accaduti, il tempo che deve ancora venire -.
- Non darti troppe arie, Artemis – lo riprese Luna – Sei semplicemente un terzo dell'orologio, proprio come noi -.
Il gatto bianco abbassò le orecchie e fece vibrare i baffi, leggermente risentito.
- Umpf -.
- Non dargli retta, fa sempre così – disse la gatta nera a Chibiusa – Probabilmente è un po' deluso perché non hai fatto venire fuori lui, nel quadrante -.
- Oh... mi dispiace! - quei tre gatti le stavano simpatici, non voleva che uno di loro si arrabbiasse con lei subito dopo averla conosciuta – Io non lo sapevo -.
- Tranquilla, gli passerà – fece Luna alzando le piccole spalle pelose.
Rincuorata da quelle parole, Chibiusa si sedette sul pavimento polveroso della soffitta, incredibilmente contenta di trovarsi lì a parlare con tre gatti.
- Ma voi... siete gatti veri? Siete magici? - domandò entusiasta, mentre Diana le si avvicinava per farsi accarezzare il soffice pelo color grigio chiaro.
Le rivolsero tutti e tre un enigmatico sguardo felino, poi Luna disse, quasi cantilenando:
- Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni... -.
- ... e la nostra piccola vita è circondata da un sonno (¹) – continuò Artemis.
- O da una preghiera, ad esser precisi – completò Diana, che le era salita in grembo – Che ci risveglia quando è necessario -.
Sogni? Una preghiera? - domandò Chibiusa, che di quella spiegazione sibillina non aveva capito niente.
- Fattelo raccontare da lei – fece Artemis, accennando a Luna – Io non me lo ricordo molto bene -.
- Tu non ti ricordi mai niente – ribatté la gatta nera.
- Beh, io controllo il futuro. Come si possono avere ricordi di qualcosa che non è ancora successo? - accennò poi alla micina grigia – E Diana vive in un eterno presente, quindi ci sei solo tu a rammentare quella storia -.
- Quale storia? -.
- La triste storia di un amore infelice – rispose Diana con un certo pathos.
- Davvero? - a Chibiusa non piacevano molto quel tipo di racconti, ma sua madre era una patita del genere, e a cinque anni la bambina conosceva alla perfezione storie come "Romeo e Giulietta" o "Ero e Leandro". Magari gliene avrebbero raccontata una che sua madre non conosceva ancora, perciò sarebbe riuscita a sorprenderla una volta tornata a casa – E com'è questa storia? -.
Forse era vero che solo Luna ne conservava memoria, dato che controllava il passato, perché sia Artemis che Diana si voltarono verso di lei.
La gatta nera si leccò lentamente una zampa, per poi passarsela sul muso ed esordire:
- Conosci Plutone, bambina? -.






(¹) Frase tratta da "La Tempesta" di William Shakespeare, nella traduzione di Agostino Lombardo

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Capitolo 4
*** Tutto a posto ***


4- Tutto a posto Tutto a posto


- Plutone? Che cos'è? - era una parola che non aveva mai sentito, o perlomeno così le sembrava.
- Un pianeta – rispose Luna, accennando al cielo fuori dalle finestre, in quel momento nascosto da parecchie nubi grigie – L'ultimo pianeta del sistema solare -.
- Un pianeta... - mormorò Chibiusa – Come la Terra? -.
- Esattamente – annuì la gatta, abbracciando poi la soffitta con lo sguardo – Uno dei vecchi abitanti di questa casa era un orologiaio e un falegname molto dotato, perlopiù appassionato d'astronomia, che si innamorò di una splendida ragazza. Tuttavia lei morì prima che potessero sposarsi, e non ebbe più pace: non dormiva mai e trascorreva le notti osservando il cielo e le sue stelle. In famiglia si dice che impazzì, perché ad un certo punto lo udirono parlare con uno degli astri che solitamente osservava: il pianeta Plutone. Era convinto che, se tale pianeta portava il nome dell'antico dio degli Inferi, avesse l'effettivo potere di controllare la morte -.
Luna prese fiato, mentre Chibiusa pendeva dalle sue labbra.
- Forse era impazzito davvero, perché sognava che Plutone gli riportasse indietro la sua amata, e lo pregava con fervore. Ma non sta a noi parlare male del nostro creatore – accennò all'orologio – Nell'antichità il regno dei morti era considerato un varco temporale, il punto di passaggio da una dimensione all'altra, e per questo costruì quel pendolo -.
- Il pendolo? -.
- Volle costruire un orologio che non fosse controllato dal tempo, ma che controllasse il tempo. Avanti e indietro, come un pendolo. Perché se fosse riuscito a tornare indietro, sarebbe tornata anche la sua amata -.
- Oh... - quindi era tutta... - una magia? -.
- Sì, una magia generata da un sogno – annuì Luna, imitata dagli altri due gatti.
- Ma... come è successo? È stato come nel film "Pinocchio", dove la Fata Turchina dà vita al burattino perché Geppetto aveva pregato una stella? -.
- Più o meno – Luna sembrava poco convinta - ... credo. Perché vedi, noi abbiamo preso vita solo dopo questa magia. Non sappiamo bene come sia successo, anche se osservavamo il nostro creatore già da prima -.
- Questo lo ricordo bene anch'io – intervenne Diana, con la sua vocina dolce e sottile – Era così triste... -.
- E alla fine ci è riuscito? A riportare in vita la sua amata? - domandò Chibiusa, anche se temeva di no: Diana non l'avrebbe definito un amore infelice, altrimenti.
Infatti Artemis scosse la testa.
- Non fece in tempo a rendersi conto di aver costruito un orologio in grado di controllare il tempo: venne portato via prima e rinchiuso in un manicomio -.
- Che cosa? Da chi? -.
- Dalla sua stessa famiglia -.
Chibiusa ammutolì, sconvolta. Lei non aveva raccontato ai suoi genitori che cosa stava accadendo esattamente: se l'avesse fatto, l'avrebbero creduta una pazza? L'avrebbero rinchiusa da qualche parte, lontano da loro?
La bambina scosse violentemente la testa, per scacciare quell'orribile pensiero: no, non l'avrebbero fatto, e comunque bastava non raccontare loro niente. Bastava che rimanesse un segreto tra lei e quei tre gatti.
- Comunque – fece Luna in tono quasi materno – se vuoi riportare le cose alla normalità basta farci tornare nella posizione in cui ci hai trovato: con Diana al centro, gli occhi chiusi -.
- E come? -.
Fu Diana a sorriderle, come se la considerasse ormai un'amica.
- Girando la chiave -.

I gatti erano saltati di nuovo nella mezzaluna sopra il quadrante, tornando ad essere le sagome bidimensionali che aveva visto Chibiusa fino a quel momento. Lei si arrampicò ancora una volta sulla poltrona, alzandosi in punta di piedi e mormorando un saluto a quei tre felini magici nati da un sogno. Fece poi come le avevano detto: girò la chiave inserita nel quadrante in senso opposto, più volte, finché Luna non lasciò il posto a Diana e quest'ultima richiuse i grandi occhi, posati su un eterno presente. A Chibiusa dispiacque un po' non aver potuto vedere l'immagine di Artemis dominare sulla mezzaluna, ma non aveva alcuna intenzione di provocare altri guai.
Anzi, per evitare che qualcun altro potesse trovare l'orologio e modificare di nuovo il corso del tempo- anche se circoscritto a quell'edificio- pensò di prendere un'ulteriore precauzione: tolse la chiave. Quella chiave di metallo a forma di cuore, impreziosita dalla sua piccola pietra rossa. Se per combinare quel guaio e poi rimettere le cose a posto era bastato girarla, era meglio che nessuno lo facesse più.
La tolse dal quadrante e se la infilò in tasca, orgogliosa del senso di responsabilità che stava dimostrando. Se l'avessero saputo, anche i suoi genitori sarebbero stati fieri di lei.
Quando tornò giù, sospirò di sollievo nel vedere tutti i suoi soliti compagni e le maestre che ben conosceva; anche se le dispiaceva un po' di non aver potuto conoscere un po' meglio sua madre bambina.


- Chibiusa, oggi una delle tue maestre, la signorina Kino, mi ha detto che non ti sei comportata molto bene – disse sua madre quella sera a cena, gli occhi azzurri improvvisamente seri.
- Eh? La maestra Makoto? - lei che non si era comportata bene? Ma se era riuscita a sistemare tutto! D'accordo che non l'aveva raccontato a nessuno, ma... che cosa aveva fatto di male? - Cos'ho fatto? -.
Suo padre non sembrava sorpreso: il che significava che Usagi gli aveva già parlato prima di cena e avevano deciso di affrontare il discorso insieme.
- Ha detto di averti vista uscire dalla porta che va al piano di sopra, quella che nasconde le scale. Si è scusata molto, perché non riesce a capire come hai fatto a salire se è di solito chiusa a chiave, e non si spiega nemmeno perché nessuno ti abbia visto – scambiò uno sguardo col marito, poi continuò: – Non lo capisco nemmeno io, ma... disubbidire a certi divieti è pericoloso, Chibiusa. Potevi farti male -.
- Io... -.
- Le scale sono ripide, e se fosse successo qualcosa avrebbero anche potuto non sentirti – aggiunse suo padre, guardandola severamente.
- Che cosa ti è saltato in mente? - chiese infine sua madre.
- Ma... - Chibiusa non sapeva cosa rispondere. Non si era accorta che la maestra Makoto l'avesse vista, anche se aveva fatto attenzione, e non aveva idea di che scusa inventare. Lei era tornata su in soffitta per rimettere le cose a posto, e c'era riuscita. Era stata la causa di tutto, questo sì, ma la prima volta che era andata di sopra era stato per aiutare la maestra, e non pensava che... le aveva detto lei che poteva dare un'occhiata in giro! - Io non volevo fare niente di male! -.
- È stato un comportamento incosciente – rispose suo padre.
- Anche se non ti sei fatta niente – aggiunse sua madre.
No, questo no. Lei era salita di nuovo in soffitta per riparare ad un suo guaio. Era stata responsabile, non incosciente.
- Non è vero. Io ci sono andata per... - stava per raccontare tutto, ma si bloccò quando le tornarono alla mente le parole di Luna. Lo rinchiusero in manicomio. La sua famiglia.
Lei non poteva credere che i suoi genitori avrebbero fatto una cosa del genere, ma sicuramente non lo pensava nemmeno quell'orologiaio innamorato. E i suoi genitori sembravano davvero arrabbiati, come avrebbe fatto a convincerli che...
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e prima di scoppiare a piangere scappò in camera, chiudendo la porta. Frugò nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto, e le venne in mano la chiave dell'orologio- quella maledetta chiave. Sentì sua madre avvicinarsi lungo il corridoio, chiamandola: - Chibiusa... -.
Il labbro le tremò. Lei si era comportata come avrebbero voluto loro, non doveva essere sgridata!
Le lacrime scendevano copiose e il suo naso aveva urgentemente bisogno di essere soffiato. La porta della sua camera non aveva una chiave: senza pensare, provò ad infilare quella che aveva in mano nella serratura. Entrò alla perfezione.
Girò la chiave a più mandate e poi si raggomitolò sul letto, sulla sua coperta stampata ad unicorni, sentendosi vittima di una profonda ingiustizia.






Spero che Usagi non vi sembri OOC, in queste poche battute: in ogni caso, come aveva ben intuito la giudice di un contest, la sua severità è causata soprattutto dalla preoccupazione per Chibiusa. E poi... quando mai Usagi si è fatta problemi a cantargliene quattro? XD
Inoltre... avete riconosciuto la chiave? ^^

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Capitolo 5
*** Carillon arrugginiti ***


5- Carillon arrugginiti Carillon arrugginiti


La mattina dopo si stupì nello scoprire che aveva dormito come un sasso per tutta la notte. Il pianto senza riserve della sera prima l'aveva sfinita, e si era addormentata senza nemmeno accorgersene.
Si chiese se anche i genitori fossero già svegli: dalla cucina non proveniva nessuno dei soliti rumori- o per meglio dire, il fracasso- provocati da sua madre mentre preparava la colazione.
Sfregandosi gli occhi ancora pastosi per il sonno e le lacrime, scese dal letto e si avvicinò alla porta; fece per aprirla, quando si ricordò che la sera prima l'aveva chiusa a chiave. E infatti eccola lì, ancora inserita nella serratura. La fece girare al contrario, più volte, finché non scattò a vuoto.
E quando aprì la porta e fece un passo in corridoio, si chiese dove mai fosse finita.
Perché quella non poteva essere casa sua.
Chibiusa guardò ammutolita l'edera che cresceva lungo i muri pieni di crepe, le mattonelle ormai staccate da quello che era stato il pavimento: avrebbe dovuto fare attenzione a non inciamparvi, tanto erano sconnesse. Tutto era immerso nella penombra, ma le finestre c'erano: il problema era che i vetri erano talmente sporchi da far passare soltanto una luce opaca e polverosa, come quella della soffitta dell'asilo.
Quando mosse un paio di passi, facendo attenzione a dove metteva i piedi infilati nelle ciabatte, Chibiusa si rese conto che c'era silenzio. Una parola che il più delle volte sua madre non sembrava nemmeno conoscere, perché a quell'ora avrebbe dovuto chiamarla a gran voce per accompagnarla all'asilo. Dov'era sua madre?
- Mamma? -.
Saltellando tra le mattonelle sconnesse, cercando di non far caso ai ciuffi d'erba che spuntavano qua e là e alle porte mezze scardinate, raggiunse la cucina.
E lì le si spezzò il cuore.
Sembrava che tutti se ne fossero andati da tanto tempo, abbandonando quel posto e lasciandolo orfano. Qualche anta della credenza era aperta, mostrando gli scaffali desolatamente vuoti. Alcuni piatti c'erano ancora, a ben guardare, ma sembravano terribilmente sporchi, come se non fossero stati lavati appena la sera prima.
- Mamma? Papà? -.
La voce di Chibiusa si incrinò sull'ultima sillaba, accompagnata da un singhiozzo che rimbombò nella stanza ormai priva di quadri e tappeti. Provò a sentire se qualcuno le avesse risposto, ma ascoltò il silenzio. Si fece coraggio e decise di andare nella loro camera a vedere: ripercorse il corridoio, inorridendo quando si rese conto che la sua stanza era caduta nello stesso stato di abbandono del resto della casa. Ma arrivò fino in fondo, ad una stanza con un polveroso letto matrimoniale di cui non si distingueva più nemmeno il colore della coperta.
Andò dalla parte in cui dormiva sua madre, e aprì il cigolante cassetto del comodino. Raccolse con entrambe le mani l'oggetto più prezioso che custodiva la donna: un carillon regalatole dal marito quando erano ancora fidanzati. A forma di stella, si apriva quando veniva azionato, svelando un piccolo vetro blu al cui interno ondeggiava una specie di luna dorata. Era un oggetto così bello che Chibiusa l'avrebbe tanto voluto per sé, un giorno. Ma non voleva che fosse quel giorno.
Il carillon era visibilmente arrugginito, ma quando la bambina lo azionò si rivelò ancora funzionante: si udì una melodia stanca e stonata, quasi l'antenata di quella tintinnante e argentina che era abituata a sentire. (¹)
Quel suono strozzato le fece venire un nodo alla gola, che si sciolse presto in un pianto dirotto.
Dov'erano i suoi genitori? Non le importava più niente se erano arrabbiati con lei: voleva solo che ci fossero, lì con lei.
Pianse a lungo, o forse solo per cinque minuti. Ma si sentiva ugualmente disperata quando una mano le si posò sulla testa, in una carezza silenziosa.
- Non piangere, piccola -.
Chibiusa sussultò, alzando il capo. Ma non si trattava di sua madre: accanto a lei c'era una donna dai lunghissimi capelli scuri, con qualche ciocca raccolta in un piccolo chignon dietro la testa, e un lungo bastone in mano.
Una donna mai vista prima, che tuttavia le si stava rivolgendo come se la conoscesse.
- Chi... chi sei? - domandò, sfregandosi le guance arrossate e umide per il pianto.
- Io sono Pluto -.
- Pu... Pluto? - ripeté Chibiusa, confusa.
La donna sorrise.
- Plutone -.
- Ah! -.
Chibiusa sgranò gli occhi, e riconobbe il bastone nella sua mano come la chiave che aveva lasciato appesa alla porta della sua stanza. La chiave che aveva portato via dalla soffitta. La chiave che aveva sistemato le cose, dopo aver provocato tutti quei guai, improvvisamente gigantesca.
Un dubbio le sorse nella mente.
- Tu sei... come Diana, Luna e Artemis? Anche tu sei... - cercò di ricordare cosa le avevano detto i tre gatti - ... della materia di cui sono fatti i sogni? -.
- Sì – annuì lei – Un sogno racchiuso in questa chiave -.
Ma non era questo che le importava davvero.
- Luna ha detto... che tu controlli il tempo. Dove sono i miei genitori? -.
- Nel passato, piccola mia – la donna sorrise dolcemente, nel dire una cosa tanto spaventosa.
- Che... che cosa? - Chibiusa si aggrappò alle gonne di quella strana donna, supplicandola: - E allora falli tornare indietro! -.
- Non si può, mi dispiace – mormorò lei, e sembrava davvero dispiaciuta.
- Ma... ma sì che si può! - ribatté con veemenza Chibiusa – Basta usare la chiave! L'ho già fatto, lo so che funziona! -.
L'altra le accarezzò piano i folti capelli raccolti in due codini, e scosse la testa. Poi si abbassò, in modo che il suo viso fosse alla stessa altezza di quello di Chibiusa.
- Vedi, piccola, anche questa chiave è della materia di cui sono fatti i sogni, e io ne sono la guardiana. Luna ti ha raccontato tutta la storia, e in effetti questa è la chiave donata all'uomo che pregava Plutone e sognava che la sua amata tornasse in vita – la pietra rossa in cima al lungo bastone brillò, facendolo tornare ad essere una semplice chiave sul palmo della donna – Ma vedi... questa chiave può essere usata solo con l'orologio costruito da chi ha dato il via ad ogni cosa. Tu l'hai utilizzata su una semplice porta e questo... ha sconvolto le dimensioni del tempo -.
Chibiusa non poteva dire di aver afferrato del tutto quella lunga spiegazione, ma una cosa l'aveva capita: non avrebbe mai dovuto portar via la chiave da quella soffitta. E adesso poteva essere troppo tardi.
- Ma tu... sei Plutone. E se hai potuto creare questa chiave, puoi anche riportare indietro i miei genitori! Ci dev'essere un modo! - urlò Chibiusa.
- No, mi spiace. La magia ha agito su questa casa, gettandola in una sfasatura temporale che non è possibile riportare alla normalità. La chiave doveva essere usata solo sull'orologio per cui era stata creata -.
Chibiusa non vedeva via d'uscita. Sarebbe scoppiata di nuovo a piangere, ma non aveva più lacrime. L'unica cosa che inconsciamente pensò fu di andare a vedere se nella soffitta di casa sua ci fosse un altro orologio magico che avrebbe potuto risistemare ogni cosa.
Quel pensiero le batté in testa come una lancetta, una lancetta che scocca l'ora. E quando l'ora scoccò, Chibiusa pensò che forse un sistema c'era ancora. L'unico.
La donna che aveva detto di chiamarsi Pluto era ancora china davanti a lei, con la chiave sul palmo aperto. Senza dire niente, Chibiusa la afferrò e corse fuori dalla stanza, lesta come un coniglio che scappa dai cacciatori, e poi fuori di casa.
L'altra non si era mossa dalla sua posizione. Era rimasta a guardare la bambina che afferrava la chiave e correva fuori, i codini che saltavano ad ogni suo movimento.
Un breve sorriso apparve sul suo volto, prima che scomparisse in un istante per seguire la chiave di cui era la guardiana.


Ora, fortunatamente Chibiusa conosceva a memoria la strada che portava al suo asilo. Fortunatamente non era lontano, e correndo a perdifiato come stava facendo lo raggiunse in un batter d'occhio. Aveva avuto ragione: tutto, intorno a lei, era come era sempre stato, per cui la... "sfasatura" di cui parlava Pluto doveva contemplare solo casa sua. E in effetti, quando aveva girato la chiave nell'orologio, i cambiamenti erano avvenuti solo all'interno dell'asilo, come le avevano poi spiegato i tre gatti.
Sfortunatamente, però, Chibiusa era ancora soltanto una bambina di cinque anni, e non aveva la minima idea di come riuscire a mettere in atto il piano che aveva in mente. Per la prima volta in vita sua entrò nell'asilo da sola, guardandosi attorno in cerca d'aiuto.
- Oh, Chibiusa, eccoti qui! Finalmente sei arriva... - la maestra Makoto le stava venendo incontro, ma si interruppe non appena vide l'espressione della bambina – È successo qualcosa? Dov'è tua madre? -.
A questo Chibiusa non solo non rispose, ma preferì non pensarvi nemmeno. Pluto le aveva detto che i suoi genitori erano nel passato, ma che cosa significava esattamente? Forse che erano...
- Maestra, mi devi aiutare! - supplicò Chibiusa reprimendo un brivido, avvicinandosi a Makoto. Teneva la chiave ancora ben stretta in pugno, perché in effetti da quel malaugurato oggetto dipendeva davvero tutta la sua vita.
- Aiutarti a fare cosa? - Makoto si era fatta seria, e i limpidi occhi verdi non recavano traccia della tipica pazienza degli adulti quando parlano con i bambini. Aveva ben capito che c'era qualcosa che non andava, qualcosa di molto serio.
Chibiusa, dal canto suo, si chiese cosa potesse effettivamente rivelarle. Aveva bisogno di lei, perché la maestra Makoto era una della persone più forti che conoscesse- anche se non quanto il suo papà, ma lì suo padre non c'era- e doveva perlomeno spiegarle il favore che voleva.
- Io... - ma non c'era tempo – Mi serve l'orologio. Quello della soffitta -.




(¹) Penso che questa melodia la conosciate tutti. In caso contrario, eccola qui




Della serie: se Chibiusa non combina un guaio che rischia di mandare in frantumi tutto il suo mondo, non è contenta (vedi riferimenti alla seconda serie...). XD

lulu85: il cambiamento c'è stato eccome, come hai visto, e visto che la chiave è magica funziona praticamente con qualunque serratura. Il prossimo capitolo è quello conclusivo, e vedrai che si risolverà tutto.
Vampire Ninja: sì, per l'appunto quella di Chibiusa è una paura infondata, ma a cinque anni è difficile distinguere tra ciò che succede agli altri e ciò che potrebbe succedere anche a noi. Spero che la storia continui a piacerti, anche perché il prossimo è l'ultimo capitolo. ^^
criss90: anche a me piacciono molto i salti temporali, e sono felice che la storia ti piaccia!

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Capitolo 6
*** Di soffitta in soffitta ***


6- Di soffitta in soffitta Di soffitta in soffitta


Non è che Makoto credesse ad ogni frottola che le veniva raccontata, anzi. Non era una credulona, perché aveva imparato sulla propria pelle che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, dato che suo padre e sua madre non avevano avuto il tempo di insegnarglielo.
Ma se c'era una cosa che la morte prematura dei suoi genitori l'aveva resa in grado di fare, era stato non dimenticare la bambina che era stata. Chiudendo gli occhi, riusciva a ricordare perfettamente quel periodo in cui aveva imparato che la parola "orfana" non si trovava soltanto nei libri, ed era come se il tempo agisse su di lei e dentro di lei: anche se all'esterno appariva come la donna alta e forte che era diventata, dentro poteva sentirsi ancora la bambina sola e sperduta che era stata. E che riconosceva un suo simile, quando lo vedeva.
Mentre seguiva Chibiusa su per la scala che portava al piano superiore, e poi in soffitta, si rese conto che da un giorno all'altro quella piccola sempre allegra era diventata proprio come lei era stata una volta. E per quanto ciò che le aveva chiesto suonasse assurdo, la bambina dentro di sé stava intimando a Makoto di crederle e aiutarla, per quanto le fosse possibile.
Quando arrivarono davanti ad uno strano orologio a pendolo che la donna non aveva mai notato, e Chibiusa le spiegò per filo e per segno il favore che voleva da lei, Makoto non batté ciglio. Disse soltanto:
- Mi servirà una mano. Aspetta qui -.
Si voltò e tornò di sotto all'incredibile velocità che le sue lunghe gambe le permettevano. Lanciò una breve occhiata a Minako, decretando all'istante che non era adatta a un lavoro del genere, e telefonò ad una sua amica, chiedendole se il suo ragazzo potesse aiutarla.
- Perfetto, allora, grazie infinite – concluse – Ah, Rei: di' a Yūichirō di venire col suo furgoncino, se può. Sai, si tratta di un oggetto piuttosto ingombrante -.


Nemmeno il giovanotto con cui si presentò Makoto in soffitta fece domande, anzi seguì le istruzioni della donna e alzò la base dell'orologio con attenzione, mentre l'amica della sua fidanzata reggeva l'altra estremità. Era meno pesante di quel che sembrava, anche se la parte più ardua sarebbe stata trasportarlo giù per le scale senza sbatterlo da nessuna parte.
Ma con estrema attenzione ce la fecero, nonostante tutti i bambini si fossero radunati attorno a loro mentre attraversavano il salone con quell'enorme oggetto che sembrava una torre, e lo caricavano sul furgoncino di Yūichirō.
- Bene, adesso dove lo portiamo? - domandò poi il giovane, salendo al posto di guida.
- Oh, qui vicino – rispose Makoto, facendo salire anche Chibiusa – A casa Chiba -.
Nemmeno quando fermarono il furgoncino sul ciglio della strada e scaricarono l'orologio, portandolo dentro a quella casa fatiscente, Yūichirō disse nulla, nonostante sembrasse un po' perplesso. Chibiusa pensò che forse era abituato ad obbedire a ordini assurdi, anche se non riusciva ad immaginare chi fosse a darglieli.
In ogni caso, fece strada ai due lungo le scale- dove dovettero fare ben attenzione ad ogni gradino sconnesso- e poi fino alla piccola soffitta che era più che altro un sottotetto.
Lì, in uno dei pochi punti non ingombri di scatoloni, venne posato l'orologio, di nuovo eretto e superbo in tutta la sua fierezza.
- Beh, allora io andrei – fece Yūichirō, scostandosi i capelli dalla fronte madida di sudore – Se non hai bisogno di nient'altro... ti serve un passaggio? -.
Makoto lanciò un'occhiata a Chibiusa, che sembrava fremere nell'attesa che il giovane se ne andasse, e scosse la testa.
- Non preoccuparti, torniamo a piedi. Grazie infinite, comunque -.
Yūichirō fece un cenno ad entrambe, per poi infilare la porta e scendere con attenzione le scale. Finché non udirono il motore del furgoncino che ripartiva, né Chibiusa né Makoto dissero una parola.
- Ora, a noi – esordì finalmente la maestra – Non potrei lasciarti da sola, ma... vuoi che rimanga? -.
La bambina annuì piano, accennando al quadrante dell'orologio: era troppo in alto per lei, e lì intorno non c'erano sedie che potessero servirle da scaletta.
- Oh, certo! - esclamò Makoto – Vieni -.
Così dicendo la prese in braccio senza alcuno sforzo, issandola all'altezza del quadrante. Chibiusa aprì la teca e poi estrasse la chiave dalla tasca, sentendosi la mano tutta sudata.
... e se non avesse funzionato? Se la sua idea si fosse rivelata una colossale stupidaggine? Luna non le aveva detto che l'orologio funzionava solo all'interno dell'asilo, e nemmeno Pluto, ma...
- Coraggio – le sussurò la maestra Makoto, e Chibiusa sentì il calore delle sue braccia che la sostenevano. La sera prima si era sentita arrabbiata anche con lei perché aveva fatto la spia a sua madre, ed ora se ne vergognava profondamente.
Inoltre le aveva ricordato che lei era una Chiba, e in quanto tale una bambina coraggiosa. L'aveva detto anche sua madre: tutto ciò che Chibiusa desiderava era rivedere il suo sorriso e i suoi grandi occhi azzurri. E c'era un unico modo.
Infilò la chiave nell'apertura sul quadrante e la girò. Girò finché Diana aprì gli occhi, finché scomparve dalla mezzaluna e finché apparve la luna sullo sfondo. Finché sorse Luna, la gatta nera che controllava il passato.
E aspettò, trattenendo il respiro.


- Chibiusa, la colazio... ouch! Ah, il latte! No, no, no! - l'inconfondibile voce di Usagi arrivò fino in soffitta, evidentemente impegnata in quelli che dovevano essere i preparativi per la colazione.
Il sollievo travolse Chibiusa come un'onda, impedendole per un istante di respirare. Lasciò prudentemente andare la chiave che teneva ancora stretta in mano e richiuse la teca, sospirando sonoramente. Poi la maestra Makoto la rimise giù, e quando Chibiusa la guardò vide che sorrideva di stupore e sollievo riflesso.
- Un orologio magico, eh? - commentò poi, osservando la sagoma della gatta nera che si stagliava elegantemente sullo sfondo della luna dipinta – L'avrei tanto voluto anch'io... -.
Chibiusa annuì.
- L'ho trovato... quando ti ho aiutato a rimettere a posto le maschere, maestra – confessò la bambina – E... ho combinato tutti quei guai -.
- Quindi la colpa è anche mia – constatò Makoto – Se non fossi salita in soffitta con me, non sarebbe successo niente -.
Questo Chibiusa non l'aveva mai pensato, ma le piacque enormemente rendersi conto che lei e la sua maestra erano state quasi complici in tutto questo. Perlomeno alla fine, nel risolvere ogni cosa.
Le rivolse un gran sorriso.
- Grazie mille, maestra -.
- Di niente, Chibiusa – rispose lei – E non preoccuparti: nessuno si accorgerà che una vecchia cianfrusaglia è sparita dalla soffitta dell'asilo. Oltretutto, nessuno se ne è mai interessato -.
Chibiusa annuì. Si chiese se d'ora in poi avrebbe potuto chiacchierare con i tre gatti, di tanto in tanto, e pensò che il desiderio espresso all'inizio si era avverato: ora avrebbe tenuto Diana con sé.
- Comunque adesso il problema è un altro – fece Makoto, un po' incerta.
- Problema? - ancora?
- Come spiego a tua madre la mia presenza qui? Perché sai, non è normale che mi trovi nella soffitta di uno dei bambini di cui mi occupo... -.
A Chibiusa, che conosceva sua madre, non sembrò affatto un problema.
- Oh, non preoccuparti, maestra. Basterà che tu dia alla mia mamma la ricetta dei tuoi favolosi biscotti. Anzi – ponderò la bambina, un po' dubbiosa sul risultato di tale esperimento – se glieli fai tu, è anche meglio! -.  





Chibiusa, il tempo e un grosso guaio: inutile dire che mi sono ispirata alla seconda serie per questa storia.
Se questa storia vi è piaciuta, sarei felice se chi ha letto, seguito, ricordato e preferito mi lasciasse un ultimo commento, tanto per sapere cosa ne pensate. ^^


Vampire Ninja: sì, quella dello scorso capitolo era proprio Pluto. È la prima volta che scrivo qualcosa in cui compare anche lei, e spero di poterlo fare ancora, perché penso che offra molti spunti. ^^
Spero che il finale ti sia piaciuto, e grazie per aver seguito questa storia!
lulu85: come hai visto l'ordine è stato riportato, soprattutto grazie all'aiuto di Makoto! Spero che questa storia ti sia piaciuta. ^^

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