One bite for eternity;

di Elle Douglas
(/viewuser.php?uid=133357)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1. Passato ***
Capitolo 3: *** 2. Fine e Inizio ***
Capitolo 4: *** 3. Ciò che sono ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***



Prefazione

Giselle Hall è una vampira riluttante nei confronti della sua nuova natura, non perdona ancora a Peter, di essere stata trasformata. Nonostante abbia più di 100 anni ricorda ancora distintamente la sua vita da umana: ricorda i suoi genitori, a cui il pensiero percorre la maggior parte delle sue giornate, e sua sorella Sharon, della quale ha perso le tracce da quando lei aveva 15 anni. Non riesce ad accettare la sua immortalità, il fatto di aver recato sofferenze e dolori ai suoi genitori a causa della sua scomparsa. Ma in questa sua nuova vita, ci sarà un ragazzo che l’aiuterà, anche lui immortale e vampiro. Un ragazzo con la quale lei inizierà ad affrontare la “vita”, e un ragazzo della quale, non si sa quanto consapevole lei si innamorerà.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Passato ***


 Ero sempre stata una bella ragazza, prima. Lo ero, ma solo ora ne ero davvero consapevole forse perché ora non lo ero più. Forse perché era tutto cambiato, ora. Forse anche perché non riuscivo più a guardarmi allo specchio con lo stesso sorriso ora. Ero diversa, ero cambiata, ero un mostro.
Provenivo da una buona famiglia: mio padre imprenditore e mia madre era una stilista di modesto successo, essi mi avevano insegnato i veri valori della vita, ma anche i suoi piaceri, forse per questo ero stata anche un po’ viziata, forse. I miei non mi facevano mancare niente, avevo tutto ciò che volevo, tutto ciò che desideravo era mio, mi sentivo un po’ come una principessa, e forse lo ero davvero. La mia era sempre stata una vita fantastica al pari di nessuno, solo ora me ne rendevo conto, e solo ora mi rendevo conto di quanto i miei genitori mi mancassero e di quanto fossero fantastici. Se solo fossi riuscita a farli venire qui con me … forse le cose sarebbero state diverse, forse il mio sorriso sarebbe stato diverso.. ma non potevo, ormai tutto era perduto, non potevo fare nulla per loro, o forse per me. Ero molto legata a loro, più di quanto la gente comune, ai tempi, immaginasse. Ma non riuscivo a far altro che farmi prendere dalla malinconia, non potevo più piangere, non mi era permesso. Ricordavo di aver avuto degli occhi che sembravano smeraldi incastonati, definiti da alcuni, “occhi di ghiaccio” - il motivo non lo ricordavo quasi più - il loro colore era simile a quello dell’oceano, quel verde risplendeva più di mille stelle quando veniva illuminato dal sole, grazie all’eredità lasciatami da mia nonna materna Fallon. I miei capelli erano leggermente mossi e ondulati, che ondeggiavano con un movimento sinuoso ed elegante, così come il mio corpo simile a quello di una modella. Essi davano sul castano biondo, ma quando il sole ci posava i suoi caldi e penetranti raggi splendevano sembrando quasi oro fuso. Tutte mi invidiavano al liceo, avevo molti ammiratori e io ne andavo fiera dato che ero abbastanza vanitosa e piena di me, dicevano che ero bella da paura, uno schianto, non facevo altro che guardarmi allo specchio e vantarmi di ogni stupidaggine: un vestito appena comprato, una nuova acconciatura, un nuovo paio di scarpe, ecc senza mai dare valore alle cose vere, presenti e inafferrabile, che non sapevo di perdere un giorno… Ero una ragazza molto frivola e materialista, davo più importanza ai beni materiali che affettivi. Volevo stare sempre al centro dell’attenzione, in qualunque caso, nel bene e nel male.
Ma ora non era più così, ora vivevo in una non-vita. I miei occhi avevano perso il loro bellissimo colore verde smeraldo per lasciar posto ad un altro, brutto e opaco, che si alternava con un ulteriore color topazio, dovevo essere orribile. Non mi guardavo più allo specchio da un sacco di anni ormai, per l’immagine rivoltante che vedevo riflessa, ma sapevo che in me, in realtà, non era cambiato niente e mai sarebbe cambiato, ero sempre la stessa persona di prima ma con una nuova consapevolezza. Non sapevo neanche più se i miei capelli fossero quelli di una volta, magari erano diventati anche loro diversi, forse anche loro si erano opacizzati in quell’ incubo, non li vedevo più brillare visto che vivevo in un perenne buio, non ricordavo neanche più la luce del sole, quel sole meraviglioso che ogni mattina splendeva per tutti tranne che per me. Non ero più me stessa, ero cambiata. E in peggio.
Mio padre, o meglio, il mio “creatore”, Peter, sapevo solo questo di lui, anche perché non ci avevo mai scambiato una parola, dal fondo della sala mi guardava con occhi compassionevoli e miserevoli velati da un senso di colpa non indifferente mentre io e me ne stavo rannicchiata in un angolo della camera con le braccia intorno alle ginocchia da non so quanto tempo ormai. Lui credeva di avermi salvato, quella sera a central park, ma non era così, non sapeva come in quell’istante mi avesse condannata alla mia depressione e alla mia tortura eterna. Ricordo tutto perfettamente: fu l’ultimo giorno della mia vita, stavo tornando a casa dopo una serata con le amiche, quella sera eravamo state in centro e mi ero comprata tanti di quegli abiti che avevo persino perso il conto, non vedevo l’ora di correre a casa per farli vedere a mia madre.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Fine e Inizio ***


Ma, quella sera per volere del destino, forse, decisi di tornare a piedi pur essendo molto tardi. In giro non c’era più nessuno, tutti i locali erano ormai chiusi e non si udiva null’altro che il mio respiro e i miei passi che rimbombavano sempre di più, ma non me ne curavo, non avevo paura perché mancavano pochi passi fino casa. Tutti in città dormivano profondamente, poi ad un tratto, quando girai l’angolo, sentii uno sparo che squarciò il cielo e mi fece sobbalzare, un colpo che fece rimbombare l’intero quartiere, e dopo quello più nulla. Ricordo di non aver più visto nulla, persi la vista per un attimo e quando riaprii gli occhi non so come ma mi ritrovai a terra senza sapere come, cercai di alzarmi ma non ce la feci, sentivo una fitta enorme nel petto, come se qualcuno me lo avesse lacerato, d’istinto mi ci portai una mano sopra e quando la ritirai la trovai tutta macchiata di sangue, alzai la testa e vidi che intorno non c’era altro che sangue, dappertutto sotto di me vi era una pozzanghera rossa, di quel rosso scuro simile al sangue, ed era il mio che sgorgava inesorabile dal mio petto.
Allora capii: quello sparo aveva colpito me.
Mi trascinai a terra per cercare aiuto, lasciando dietro di me una scia rossa che indicava il mio tragitto, ma nonostante lo sparo, nessuno si era affacciato alle finestre, nessuno aveva degnato di uno sguardo la situazione, nessuno era sceso in strada per vedere cos’era successo. Ero in preda al panico: Ero sola. Feci per gridare in modo che qualcuno, magari, ancora in casa, si affacciasse, rinvenisse dal suo sonno profondo e mi aiutasse, chiamasse soccorsi, ma niente, non avevo più voce, le mie corde vocali non emisero alcun suono confortante, non mi sentivo più neanche io, come avrei fatto? intanto stavo perdendo molto sangue e a poco a poco non mi sentivo neanche più le gambe, a poco a poco il mio corpo mi stava lasciando, stava diventando pesante e ponderante come un macigno . Stavo morendo, ne ero consapevole, e nessuno mi avrebbe visto quella sera, forse mi avrebbero ritrovato il mattino dopo, ma sarebbe stato troppo tardi poi.
Come succede in questi casi: mi passò tutta la vita davanti, ma più di tutti i miei ultimi pensieri andavano ai miei. In tutta la mia breve vita non avevo mai voluto vederli soffrire, avevo cercato in tutti i modi di non recarli alcun dolore e adesso inconsapevolmente lo stavo facendo. Immaginavo i loro volti, straziati e distrutti dal dolore e solo per colpa mia. “Perché avevo deciso di ritornare a piedi quella sera?”, mi chiedevo in preda al panico. Immaginavo cosa sarebbe successo il giorno dopo, più che immaginarlo vedevo la scena in modo molto nitido, come una premonizione, la vedevo in anticipo. Quando mi avrebbero ritrovato ai piedi di quel marciapiede, avrebbero trovato i miei documenti che erano ancora nella borsa, forse, non lo sapevo più, la vista mi si era offuscata e a poco a poco stavo cadendo nell’oblio. I miei sarebbero arrivati e mi avrebbero visto in quell’ultimo ricordo. Mentre i miei occhi erano sul punto di chiudersi da lontano un cellulare iniziò a squillare insistentemente con una suoneria familiare, sicuramente era mia madre che come al solito quando uscivo mi chiamava preoccupata per chiedermi dov’ero e se stavo tornando, ma purtroppo ne quella sera ne in altre sere sarei più tornata. Non avrei risposto a quel telefono dicendo in tono scocciato: “Sì mamma, sto arrivando!”. Quella preoccupazione avrebbe continuato per mesi a ucciderla, più che preoccupazione sarebbe diventato dolore e da dolore a morte. “Addio mamma”, fu il mio ultimo pensiero mentre pian piano mi allontanavo da quella vita a soli sedici anni. Stavo morendo e avrei preferito mille volte morire quella notte in mezzo a quella via, piuttosto che essere salvata da quello sconosciuto che mi si avvicinò in maniera impercettibile e invisibile e con gli occhi bramosi e assetati del mio essere affondò i suoi denti nella mia carne infondendomi il suo veleno, dando il via, così, alla mia seconda vita. Passai non so quanto tempo in balia di un vero e proprio inferno, mentre il mio corpo cambiava diventando duro come la roccia e bianco come il gesso. Non vedevo ne sentivo più nulla, chissà se ero già morta, se avevo ancora un corpo dato che non lo sentivo neanche più, esso sembrava vuoto, se nel momento dello sparo non sentivo più le gambe, adesso non sentivo più niente di “lui”, tutto era scomparso insieme alla vista e a tutto il resto, non sapevo cosa mi stava accadendo. Poi un dolore acuto e lancinante si ridestò dentro di me. Mi sembrava di essere morta e pensavo di essere finita all’inferno per non so quale reale peccato, visto che mi sentivo divorare dal fuoco, era una sensazione bruttissima, incredibilmente e assolutamente dolorosissima, desideravo poter morire, solo questo desideravo, era ciò che volevo per placare quel dolore acuto. Era come se stessi bruciando viva, “Ma dov’ero?”. Cercavo di resistere a quel dolore insopportabile, ma era difficile, prima o poi mi avrebbe annientata, non ero in grado di reggere un dolore simile, troppo forte e straziante per poterlo sopportare. Lo ricordo perfettamente, era un ricordo scomodo che non potevo cancellare, esso era rimasto perfettamente impresso nella mia mente come un tatuaggio che una volta fatto non puoi più togliere. Ricordo la sua intensità e le mie grida soffocate in cui chiedevo solo che la morte arrivasse più in fretta possibile. “Davvero la morte era così? Avrei ancora dovuto patire dolore in questo nuovo mondo?”. Mi chiedevo mentre le fiamme mi divorarono l’anima facendola cadere nell’abisso più eterno. In quel frangente di tempo indeterminato cercavo di pensare ai miei genitori, a mia sorella, ai miei nonni … cercavo di occupare la mia mente con qualunque pensiero, cercavo di fare di tutto per non pensare a quel dolore atroce ma niente, esso si impadroniva della mia mente in maniera totale e assoluta, non riuscivo a pensare a niente tranne che al dolore. Non riuscivo a visualizzarli, era come se fossero scomparsi, dileguati, dissolti, volatilizzati, nessun volto riaffiorò nella mia mente. Ne fui terrorizzata.
Il fuoco in cui stavo bruciando crebbe in modo smisurato come se qualcuno avesse buttato altra legna, raggiunse il suo apice mentre si impossessava di ogni mia sensazione rimasta. Avrei voluto finirla lì già da quando era iniziata, volevo morire, decedere, spegnermi, perire … qualsiasi cosa mi levasse di dosso quel fuoco maledetto. Ma questo non successe anzi esso continuava a crescere a dismisura, quando sarebbe mai finita quell’agonia? Ma soprattutto l’avrebbe avuta mai una fine? Desideravo gridare, piangere, urlare di fronte a quel dolore, ma non ci riuscivo, le mie labbra non ubbidivano più al mio cervello, come tutto il resto del corpo d’altronde, non si muovevano, restavano al loro posto silenziose e inermi. Questa era la fine che dovevo fare, “vivere” quell’inferno per l’eternità? Non ce l’avrei fatta, anzi in quei momenti desideravo ardentemente che qualcuno mettesse fine a quella lenta agonia. Non volevo vivere neanche un minuto di più in quel macabro modo. Il mio desiderio rimaneva sempre lo stesso: desideravo morire, perché nessuno fuori da quelle tenebre lo capiva? Perché nessuno voleva darmi il colpo di grazia tanto sperato? Cosa facevano i dottori? Mi chiedevo isterica tra un urlo e l'altro. In quel frangente desiderai di non essere mai nata, di non essere mai venuta a questo mondo, di non essere mai esistita, di non aver mai vissuto. Il fuoco dentro di me si ridestò in maniera più violenta raddoppiando, anzi quadruplicando i suoi passi e avvicinandosi sempre più al mio cuore che a poco a poco stava diventando pesante come un macigno. Stavo bruciando come legna da ardere. L’incendio mi voleva e non potevo farci nulla, prima o poi sarei diventata sua in non molto tempo. Passarono non so quanti giorni mentre quel fuoco non mi abbandonava, anzi diventava sempre più insistente e agonizzante. Non accennava a diminuire, solo negli ultimi momenti il dolore si calmò e il fuoco a piano a piano andava affievolendo. Aprii gli occhi per la prima volta solo dopo, non so quanto tempo in realtà, potevano essere passati minuti, secondi, ore, o addirittura mesi o anni per quanto mi riguarda. Durante quell’agonia avevo perso il senso del tempo. Quando mi risvegliai rimasi sorpresa. Dopo tutto quel dolore pensavo di essere morta e invece mi ritrovavo in una stanza, una stanza non familiare, e quando vidi meglio mi accorsi anche che non era nemmeno la mia. Dovevo essere sopravvissuta, pensai, ritrovandomi tutta intera. La stanza era uno studio vecchio e opaco, nessuna luce penetrava dalle finestre coperte dalle spesse tende nere di velluto, mi accorsi alzandomi di aver dormito fino ad allora su una scrivania, di legno scuro, liscio e laccato. Le pareti erano di un colore verde scolorito e di fronte a me una grande libreria mi fissava con le sue grandi vetrate. “Dov’ero?” pensai subito. Feci per alzarmi e mi accorsi di avere solo una camicia blu addosso, grande e lunga. “Dov’erano i miei genitori” avevo voglia di abbracciarli e di dirgli che stavo bene, poi d’un tratto, guardando di fronte a me il mio sguardo cadde su una vetrata della grande camera, mi vidi riflessa nella superficie di vetro della grande libreria lì accanto, lanciai un urlo acuto. Vidi un volto riflesso nello specchio che non era il mio, non poteva essere il mio. La creatura riflessa mi fissava imitando i miei stessi movimenti. La ragazza riflessa aveva un corpo sinuoso ed elegante, anche con una semplice camicia addosso. Sembrava un aliena. Il suo corpo era senza dubbio mozzafiato e flessuoso anche da immobile, avrebbe attratto chiunque a sé, sembrava una donna venuta da un altro pianeta, aveva una bellezza impressionante, il suo viso, tracciato da tratti leggeri e fini era incorniciato da dei lunghi capelli color dell’oro, e la sua bocca carnosa era piena e tinta di un rosso acceso, sembrava uscita da chissà quale quadro. Tutto sembrava tranne che una persona umana. Ma non fu la sua bellezza a impressionarmi e a farmi paura, piuttosto il suo pallore. Sembrava un fantasma, era tutta bianchissima, la sua pelle anche in quel buio risplendeva come la luna nelle notti migliori. Sembrava una statua greca e forse lo era. Ma non fu l’unico tratto a farmi orrore, anche i suoi occhi colpirono il mio interesse terrorizzandomi del tutto. Gli occhi di quella ragazza, che sembrava una dea scesa in terra, erano rossi, rossi come il fuoco che avevo vissuto nei giorni passati, rossi come i rubini che aveva al posto degli occhi, rossi come il sangue che circola nelle vene, e fu a quella parola “sangue”, che fino a prima non riuscivo neanche a pronunciare per il disgusto che mi provocava, rimbombò nella mia mente accentuando una sete improvvisa e pungente in quella gola riarsa che ora bruciava dentro me, la sentivo ardere violentemente, ma mai come quell’incendio, che significava? Forse era da tanto che dovevo bere dell’acqua e per questo che la mia gola era secca, doveva essere uno scherzo, ma sì, era uno scherzo. Erano due le possibilità: o quella ragazza dalla pelle bianchissima e dagli occhi sanguigni non ero io, o stavo ancora sognando, eventualità molto probabile. Ma poi mi guardai le mani notando che erano uguali a quelli della ragazza che si muoveva in sincronia con me, allora intesi che ero io. Fu uno shock terribile.
I giorni seguenti furono tragici e dolorosi, se così si può dire, volevo piangere, ma non potevo più farlo. Le lacrime non uscivano più, nessun liquido usciva più dal mio corpo, nessuna lacrima, niente.
Ero morta, se così si può dire, ma non nel modo in cui lo intendono gli altri … gli esseri umani, ecco.
Lo ero davvero. Ero Morta e se non fossi stata condannata avrei potuto dire di aver raggiunto quasi la luce. E invece no, ero tornata indietro sì, ma ora ero un vampiro…

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Ciò che sono ***


Peter mi aveva accolto con sé in modo gentile e quasi premuroso. Ora era lui che mi faceva da padre, anche se non avrebbe mai rimpiazzato quello vero, questo lo sapeva bene anche lui. Ero stata il suo primo esperimento, la prima persona che aveva trasformato, la prima persona che si era aggiunta alla sua “famiglia”. La parola che mi aveva detto Peter, subito dopo il mio risveglio, rimbombava dentro di me come un suono senza fine: “ Ora sei un vampiro.”, e con quella dichiarazione iniziò la mia vera condanna. “ Noi siamo come delle piante carnivore. Siamo velenosi, diciamo come dei serpenti, immobilizziamo la vittima senza ucciderla, se naturalmente lo vogliamo, altrimenti possiamo trasformarli in uno di noi, come ho fatto con te, ecco…”. Questa fu la descrizione che mi diede Peter al mio risveglio, dopo avermi trovata nello studio in preda ad una crisi - facendomi raggelare il sangue, avrei detto se fossi stata ancora umana. Pensai a quella parola per tutte le settimane e mesi seguenti non riuscendo ad accettarla. Era più forte di me. Mi sentivo come un mostro a cui era stata rubata la vita, e il fatto che dovessi recidere altre vite per la mia sopravvivenza, non mi andava giù. Ci avevo quasi provato una volta, ma nonostante la sete fosse tanta, non ce la feci e sapevo anche bene perché: Non volevo che nessuno vivesse, come me, quella non morte, quella dannazione senza fine, volevo che gli altri, anche non conoscendoli, vivessero una vita migliore della mia, avessero un destino diverso. Così, quasi contro natura, cacciavo solo animali selvatici che non mi saziavano per niente, il loro sangue non era per niente paragonabile al sangue umano, proprio per niente ma era una cosa che avevo imparato da me, senza nessuno aiuto, e che volevo portare avanti. Io seguivo una dieta … vegetariana, ecco, cosa che non mi aveva di certo imparato Peter, lui era totalmente diverso da me. Peter si prendeva cura di me, ma fu specie nei primi tempi, dopo essere diventata una vampira vegetariana, lui ordinava per me - con una semplice telefonata a volte, perché odiava recarsi in una macelleria piena di gente, in quanto sapeva benissimo che avrebbe combinato una strage al solo odore di sangue umano - da un macellaio fidato, anche lui vampiro vegetariano che viveva sotto mentite spoglie di un umano, della carne animale fresca. Questi ce la portava in un battibaleno a casa grazie alla sua velocità, dote che faceva parte un po’ di tutti i vampiri, chi più chi meno. Ricordo che il loro sangue però era freddo e per niente gustoso, ma perlomeno placante, riusciva a calmare la mia sete. Col tempo poi avevo imparato a cercare da sola le mie prede, uscendo solo di notte per soddisfare la mia arsura, beh, almeno in parte. Uscivo solo di notte per paura di una mia eventuale reazione di fronte ad un qualunque essere umano. Avevo paura della reazione che avrei potuto avere di fronte al sangue caldo e avvolgente di un umano, così delizioso e inebriante mi avrebbe sicuramente fatto cedere alla tentazione, per questo per soddisfare la mia sete uscivo solo quando in cielo c’era la luna, quando ero sicura che nessuno fosse ancora in giro per la città. Penetravo tra i boschi fitti e bui e mi dissetavo con qualsiasi animale mi capitasse a tiro, anche se non era mai del tutto appagante, come aveva detto Peter, che seguiva una diversa teoria, lui dissetava la sua sete solo con umani in fin di vita e persone malvagie e assassine, e quando e se voleva, li trasformava in vampiri. Io ero stata il suo primo caso. Non ero mai uscita una sola volta dopo la trasformazione, di giorno, intendo, mi ero rintanata in casa sin dal primo giorno, uscivo, come ho già detto solo in tarda sera, quando in giro non c’era più un anima. Non sapevo né che giorno era, né che anno era, il tempo per me non aveva più senso, nessun importanza aveva più quel passare di giorni, tanto non avevo più una vita, vivevo da non so quanti anni in una morte perpetua.
Nonostante tutto questo i miei pensieri, ancora umani, almeno in parte, andavano sempre a loro.
Pensavo a mia madre, a mio padre e alla mia piccola sorellina di quattro anni: Sheila. Quanto mi mancavano, solo Dio lo sapeva, ammesso che mi sentisse ancora visto che non avevo più un anima.
Peter nei giorni seguenti mi portò dei giornali, nei quali si parlava solo di me. C’erano titoli in prima pagina su tutti i quotidiani locali e non: “ Giselle Hall, inghiottita nel nulla”, questa era la notizia che riecheggiava dappertutto. Anche la tv aveva parlato di me per un certo periodo. Parlavano tutti della mia presunta “scomparsa”. In prima pagina c’era la mia foto, che sfioravo delicatamente per paura di romperla. Avevano messo la foto del mio ultimo sedicesimo compleanno, in cui avevo una coroncina in testa e con una mano facevo segno di vittoria. Nelle interviste del giornalista leggevo lo strazio dei miei, dei miei amici, dei miei professori. A mia sorella non avevano ancora detto niente. Per un lungo periodo seguente gli investigatori avevano optato per il rapimento, cosa che fece allarmare molto i miei. Lessi che nei mesi e anni seguenti continuarono a cercarmi senza sosta, anche quando la tv aveva ormai abbandonato il caso, ormai tutti mi credevano morta. E forse era meglio così. Anche se, si sa, il mio corpo non lo avevano trovato, nessuna traccia di me era stata ritrovata, tutto su dove fossi finita taceva e la speranza di ritrovarmi un giorno albergava ancora nel cuore dei miei cari.
Me ne stavo ancora rannicchiata quando Peter si avvicinò, risvegliandomi da quei ricordi.
<>
<< Non ho fame, te l’ho detto, e ora lasciami sola!>>.
Dovevo avere delle occhiaie e degli occhi abbastanza nerastri, segni della mia sete, abbastanza pronunciate per far preoccupare Peter in quel modo, ma non m’importava, se avrei potuto farlo avrei preferito morire. Ma nonostante ci provassi non c’era nessun modo per morire, ero destinata all’eternità.  
Non c’era nessun dialogo tra noi. Da centocinquanta anni vivevo con lui contro la mia volontà. Vivevo con lui solo perché lui era il mio creatore e sapeva, anche se non sembrava, più cose di me di quante ne sapessi io, e poi perché non sapevo se, oltre a noi, ci fossero altri … vampiri. Ero ancora troppo giovane, come diceva lui. La parola “vampiro”, nonostante fossero passati svariati anni, creava in me, ancora, un certo ribrezzo che non riuscivo a togliermi di dosso, e quindi odiando quella parola, odiavo anche me stessa, e ciò che ero diventata e lui lo sapeva bene. Se avessi potuto lo avessi distrutto con le mie mani. Non gli avrei mai perdonato il fatto che mi avesse trasformato nell’essere più orribile e malvagio del pianeta, nel predatore dei predatori per eccellenza. Lo ritenevo responsabile di tutto, del mio dolore, della mia anima perduta, della mia depressione, dello strazio dei miei genitori, lui era il colpevole di tutto questo. Provando repulsione verso il mio stesso essere per ciò che ero diventata, tendevo di più a stare in casa che uscire. Ogni volta che potevo mi rifugiavo nell’oscurità di quella grande casa e allenavo la mia mente umana per non perderla, perché sapevo, attraverso Peter, che col passare del tempo questa scompariva, e io non volevo. Non volevo dimenticare i volti di chi mi aveva amato e supportato per sedici anni, non volevo dimenticare i volti di chi mi aveva generato per davvero, neanche ora che loro erano morti.
La prima ad andarsene fu mia madre, morì a quaranta anni, circa dieci anni dopo la mia scomparsa. Per quanto ne sapevo, il suo cuore non aveva retto più il dolore della mia perdita, il fatto di stare ogni singolo giorno con l’ansia di una telefonata in cui riecheggiava la speranza, il fatto di non sapere neanche dove fossi. Mio padre, invece morì a settantacinque anni, dopo una vita di stenti e dolori causati prima dalla mia scomparsa e poi dalla morte di mia madre. Avrei voluto trasformare anche loro in vampiri, avrei chiesto a Peter di fare quel gesto egoistico per me, così da ricongiungere la famiglia, ma purtroppo quando seppi della loro morte era già passato troppo tempo. E non potevo trasformarli da già morti, la legge dei vampiri era molto severa riguardo a questo: si potevano generare nuovi vampiri solo se ci fossero stati umani in fin di vita, o se non fosse stato strettamente necessario, ma i morti non potevano diventare vampiri perché la loro anima aveva già abbandonato il loro corpo per altre cause. Infine non seppi più niente di Sheila, aveva perso le sue tracce da quando lei aveva raggiunto i quindici anni, ma ero sicura che non fosse morta. O meglio me lo aveva assicurato Peter, non so se fosse una bugia, ma mi fidavo di lui.
 “ Chissà cosa penserà di me Jonathan, quando mi vedrà vestita così …” pensava una ragazza a decine di chilometri da lì. I pensieri della gente erano ormai diventati una compagnia per me in quella esistenza monotona, vana e ripetitiva. Sentivo i loro pensieri nitidi e puri come se parlassero ad alta voce e come se mi fossero vicini, quando volevo potevo anche penetrare nelle loro menti parlando un po’ con loro e presentandomi come la loro coscienza. A volte gli facevo pensare ciò che io volevo che pensassero. Magari facevo complimenti anche se non li vedevo, per farli sentire più sicure o più sicuri, a seconda dei casi. Era bello entrare nella mente delle persone, potevo conoscerle davvero, e in alcuni adolescenti rivedevo le mie stesse emozioni di una volta: la paura del primo ballo, l’ansia del primo amore, il timore per un compito in classe andato male. Peter però non sapeva di questo mio potere, e perciò alcune volte cercavo di capire anche lui attraverso i suoi pensieri. Ascoltavo la gente da quella stanza chiusa e senza finestre, praticamente non li guardavo mai in faccia. Ormai, l’aspetto esteriore non m’importava più come una volta, non era più così importante, avevo imparato a conoscere le persone attraverso la loro bellezza interiore. Non avevo voglia di interagire però quel giorno, mi sentivo strana, se fossi stata umana la parola adatta a quello stato era debole, e forse c’entrava anche il fatto che non mangiavo da varie settimane, ormai.
Da quando era un vampiro non sentivo più alcun dolore o sensazione fisica. Non ricordavo neanche più l’ultima volta che avevo dormito. All’inizio mi fece un po’ strano, il non dormire più, non avere più neanche un mal di testa che mi rompesse il cervello, il non mangiare più cibi umani, anzi ora il solo profumo di un pollo arrosto, che prima amavo, mi disgustava. Erano tutte cose nuove per me. All’inizio consideravo assurdo questo mondo, ora, dopo un secolo e mezzo, consideravo assurdo quell’altro mondo. È incredibile come cambiano le cose.
In quell’esistenza la monotonia e la noia diventavano compagne di vita. I giorni erano sempre uguali e ripetuti in quella grande casa. E pensare che avrei vissuto quella “vita” per l’eternità. Mi faceva strano anche chiamare quell’esistenza “vita”, ma non trovavo una parola più adatta.
Da dov’ero guardai Peter guardare nel vuoto come se avesse avuto una visione, gli succedeva spesso, a quanto pare riusciva a vedere il futuro e alcune volte anche il passato per capire meglio le persone. Aveva visto anche il mio quando ero in fin di vita. Non so cosa gli facesse scaturire quelle visioni fatto sta che in alcuni momenti si estraniava da ciò che lo circondava e si perdeva in quei “pensieri”. Quella era l’unica cosa che però non riuscivo a vedere della sua mente, forse perché non erano dei pensieri suoi, ma erano pensieri fulminei, improvvisi che non erano progettati.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=724891