Arriverà il sapore del bacio più dolce.

di SasuSakuForever
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il preludio della fine. ***
Capitolo 2: *** Troppe domande, nessuna risposta. ***
Capitolo 3: *** Io sono qui. ***
Capitolo 4: *** Il tuo fottutissimo cuore. ***
Capitolo 5: *** Cacao e vaniglia. ***
Capitolo 6: *** Tutto questo schifo. ***
Capitolo 7: *** E come se non bastasse.. ***
Capitolo 8: *** Odio e rancore. ***
Capitolo 9: *** Stop. ***



Capitolo 1
*** Il preludio della fine. ***


Melanie, da tutti chiamata Mel, se lo sentiva che sarebbe successo qualcosa quella dannatissima sera di ottobre. Così, si mise a guardare le stelle, pregando che tutto andasse per il verso giusto. E le stelle sembravano sorriderle, mentre si riflettevano sulle goccioline che le costellavano le spalle. Sicura dei suoi sentimenti (e della sua freddezza nel dimostrarli) dopo l'ultimo tiro spense la sigaretta sul davanzale della finestra e raggiunse il letto, con la convinzione che nessuno l'avrebbe sabotata, nessuno. Non pensava però che il suo fottutissimo coraggio l'avrebbe mandata a quel paese di lì a poco. Nathan, Nat per gli amici, quella sera non capiva più niente. Dopo essersi scolato l'ultima birra rimasta da quel pacco da 12, condiviso con l'amato fratello maggiorenne, andò a fumarsi l'ennesima sigaretta, con la scusa che doveva sentire una persona. Forse per la ventesima volta in quel giorno accese il cellulare per controllare che nessuno gli avesse scritto, ma non ci vedeva bene dato che le lacrime gli offuscarono la vista nuovamente. Così pianse, pianse mentre si fumava quella dannatissima Lucky Strike e il telefono gli vibrava in tasca. Guardò chi stava disturbando ancora le sue deboli lacrime: era Sarah, la migliore amica della ragazza che amava. Oh, avrebbe voluto non farlo quel pensiero, avrebbe voluto non pensare a lei, la più bella ragazza che avesse mai conosciuto. Non voleva guardarlo quel dannatissimo messaggio, perché era solo la conferma di tutti i suoi sbagli; sapeva già cosa c'era scritto: 'Ci ho parlato. Mi dispiace, non vuole star con te.' Quelle parole cominciarono a schizzargli in testa come saette, lasciandogli profondi lividi. Decise di aprire il messaggio. 'Tutto ok?' Non si aspettava di certo un messaggio così banale, così vuoto di significato. 'No. Mi viene da vomitare, mi sa che ho bevuto troppo.' 'Oh, be' senti i tuoi processi intestinali non andati a segno sinceramente non m'importano. Però mi dispiace tu stia così. è ancora per lei?' 'Secondo te? Cazzo, non mi vuole, non le interessa niente della patetica vita di questo patetico ragazzo.' Che risposta del cazzo che aveva dato. Così adesso lei sarebbe stata ancora più soddisfatta nel sapere che lui stava così. -Altro messaggio, altra coltellata- pensò. Lo aprì lo stesso. 'Senti, io non dovrei dirtelo, però oggi ci ho parlato. E, non ci crederai, ma dice che gli piaci. Però mi raccomando: tu non l'hai saputo da me.' A leggere quelle parole Nat si sciolse, e quelle poche lacrime che prima gli invadevano gli occhi, divennero un vero e proprio pianto sommesso. Però stavolta era felice. Ubriaco e felice. Spense la sigaretta dopo aver aspirato insieme alla nicotina anche tutta la felicità che lo circondava. Buttò via il mozzicone con tutti i pensieri negativi. Non vedeva l'ora di riempirsi gli occhi con il suo sorriso.

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Capitolo 2
*** Troppe domande, nessuna risposta. ***


Quella, quella era la classica giornata che lasceresti volentieri fuori dal calendario. Il cielo scuro fuori imprecava, sputando sulla gente i semi di tutte le nuvole che aveva appena ingoiato. Risultato: un'uggiosa giornata del cazzo. Mel guardava la finestra chiusa dal suo solito posto accanto al calorifero; dietro alle cuffie suonavano melodiose le note di 'River flows in you'. I leggings bianchi erano troppo corti per tenerle un po' caldo, il piumone magenta troppo estraneo per portarle un po' di allegria. Si staccò dalla finestra scostando i tendoni arancio, troppo scoloriti per farle tornare alla mente qualche ricordo felice, uno qualsiasi. Si infilò nel letto, senza nemmeno pensarci, e strinse forte il tessuto color fragola. Guardò meglio e, proprio lì, vicino alla sua mano destra, vi erano alcune macchie nere, abbastanza sbavate. -Mascara- pensò, guardandolo bene. Ritornò a pensare alla notte precedente, alle domande che, appena il giorno prima, aveva tentato di dimenticare. Quello non era amore, ma nemmeno amicizia. Non era attrazione, perché era convinta che, per essere attratta da qualcuno, dovevi prima conoscerne l'anima. E lei non l'aveva mai guardato negli occhi, non ne aveva mai avuto il coraggio. Chi era lei per prendergli anche l'anima? Si interrogava sul motivo per il quale faceva tutto senza controbattere. Perché lo baciava senza sentire niente per lui? Forse non voleva deludere nessuno, forse era per questo. Eppure, di tanto in tanto sentiva la necessità di sapere che c'era, anche se non lo amava. Ma questo significa che non poteva proprio essere amore. 'Perché in amore uno deve amare per forza, non può solo voler bene. Vero?' E così, il circolo vizioso di domande che per un giorno aveva evitato, ricominciò.

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Capitolo 3
*** Io sono qui. ***


Si mise lì, nel solito posto, ad aspettare. Mentre fumava la classica Lucky Strike, pensava: lo sapeva che era un coglione, lo sapeva benissimo. Si era comportato malissimo, aveva deciso di lasciarla così, per delle voci che non aveva nemmeno verificato. Credeva lei lo tradisse, davanti ai suoi occhi, tra l'altro. Però lui non sapeva cosa fosse vero e cosa no, lui credeva ai suoi amici. E aveva deciso di lasciarla. Non sapeva neanche lui perché stava ancora lì, a fumare quella stramaledettissima Lucky Strike. Pensò di andarsene, buttò il filtro a terra e si incamminò. Poi però la vide arrivare, -bella come sempre- pensò. Decise di fermarsi lì, per sentire cosa aveva da dire, come si sarebbe scusata. Lei cominciò a parlare, parlare, cercava di scusarsi. Poi si fermò. Zitta e immobile lo fissava, aspettava qualcosa, qualunque cosa. Anche un 'Vaffanculo' andava più che bene. Voleva vederlo parlare, voleva muovesse quelle dannatissime labbra mentre la guardava negli occhi. Niente. Muto, fermo davanti a lei pensava, pensava che non era vero, che era tutta una palla. E quel 'Vaffanculo' voleva sputarlo fuori dai denti, voleva lanciarglielo addosso come acido. Ma non lo fece. Rimase zitto, assolutamente in silenzio, aspettando di sentire l'ennesimo monologo che l'avrebbe indotto a crederle, forse. E poi le parole vennero fuori da sole, senza pensarci. "Puoi credere quello che vuoi, io non sono qui a dirti cosa devi pensare o meno. Io sono qui a dirti la verità, che tu ci creda o meno. E ti assicuro che tra me e lui non c'è mai stato niente. Perché lui è solo un amico. E te lo giuro su di te, se vuoi. Su te che sei la cosa più cara che ho." vomitò quelle parole con un'agitazione incontrollata, quasi come se le stessero puntando una pistola. E la pistola c'era veramente, era la paura di perderlo che le aveva fatto dire tutto. E lui si fidava. Improvvisamente si fidava, e lo disse chiaro e tondo. Lei allora chiese semplicemente cosa avrebbero fatto, cosa sarebbe successo. Lui non rispose, rimase zitto. Poi, cacciò fuori quelle quattro parole che lei voleva tanto sentire. "Avvicinati. Ho bisogno di abbracciarti." Lei non se lo fece ripetere, ovviamente. Si sedette di fianco a lui, mentre il loro fiato si scontrava prepotentemente. Menta e sigaretta. Un incontro alquanto insolito, nonostante tutti e due fumassero. Lui allargò le braccia e lei si scontrò con il suo petto mentre lo cingeva nel suo debole abbraccio. Lui la stringeva forte in vita, mentre continuava a ripetere quelle quattro parole 'Sono un coglione, sono solo un fottutissimo coglione' e lei debolmente alzava la testa e gli diceva che no, non era vero. Non era un coglione. Poi riaffondava le labbra sul suo collo dandogli flebili baci. "Io non ti voglio perdere." disse lui e lei piano gli bisbigliò che non l'avrebbe persa. "Io sono qui." gli disse e lui non immaginava nemmeno quanta vita ci fosse in quelle tre parole. E lei avrebbe voluto dirgli che lo amava, che nemmeno lei voleva perderlo. Ma le parole non uscivano dalla bocca. Si impigliavano nelle corde vocali incastrandole tutte insieme. E il tempo stringeva. Non gli calzava addosso a pennello, non a tutti e due. Era stretto, troppo stretto, come un laccio attorno al posto. Troppo stretto per impedire al sangue di passare, di scorrere. La campanella suonò, raccolsero gli zaini e si avviarono verso la scuola, quasi come due perfetti estranei. Melanie si mise ad annusare l'odore che la circondava: nei capelli era rimasto impigliato l'odore delle sigarette, l'odore di Lui.

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Capitolo 4
*** Il tuo fottutissimo cuore. ***


Ma guardala ragazzo, e non dirle niente. Stringila forte, almeno questo lo sai fare. Accarezzale i capelli e dille che sono bellissimi come fai sempre; lei smentisce, ma sai che le fa piacere se glielo dici. Guardalo ragazza mentre con i tutti i suoi dubbi si aggrappa a te pieno di speranza, credendo che almeno tu non lo abbandonerai.Ascoltalo mentre all'orecchio ti dice quanto cazzo sei bella per lui, e fagli credere che per lui ci sarai. Perché farglielo credere? Perché tu non lo ami ragazza. Perché se lo amassi non te ne fregherebbe un cazzo delle apparenze, non ti interesserebbe di quello che dice la gente. Ma tu ci pensi, cazzo se ci pensi. E ti vergogni ogni volta che lui ti fa sentire protetta mentre tu non puoi dargli niente di tuo. Lascialo almeno accarezzarti i capelli, lascia che il suo odore si impigli lì. E poi quando sei sola, annusalo. Odora l'essenza di lui con te. Non lo senti il profumo della sua felicità? Ovviamente no, sei troppo presa a pensare a te stessa come sempre. E menti, menti spudoratamente mentre credi di amarlo. E lo sorreggi comunque, gli fai credere che tu ci sarai, eccome se ci sarai. Ci sarai solo quando avrai bisogno di un abbraccio, perché sei una fottutissima egoista. Vergognati, mentre lui con l'anima in tasca ti parla della vita che vivrete insieme e tu lo sbatti violentemente a terra, annullandolo con il tuo fottutissimo cuore. E tu, ragazzo, continui ad amarla per la maschera che porta. Continui ad amarla pur sentendo la sua essenza. Ma non te ne frega un cazzo. Perché? Perché non vuoi deludere la gente.

Loro si preoccupano della gente, costruendosi un fottutissimo film fatto apposta per accontentare tutti. Ma a se stessi non ci pensano. Mai.

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Capitolo 5
*** Cacao e vaniglia. ***


Cazzo, era proprio bella quella sera. S'era messa quella maglia che tanto mi piaceva, nera, come le sue lacrime silenziose. La matita le contornava leggermente gli occhi, mentre una corona di ciglia finemente piegate in su le incorniciavano gli occhi. Marroni, come i miei; lei diceva che erano marroni perché avevano sempre guardato in basso, avevano preso il colore della terra dal tanto che guardava in basso. Aveva sempre paura di essere giudicata, di essere guardata male, di non essere capita. Si era tolta qualunque espressione dalla faccia, cosicché la gente non potesse dirle che sembrava triste, o incazzata, o felice. Aveva semplicemente deciso di prendere il colore della terra lei; preferiva farsi calpestare da tutti, diceva. E io le rispondevo che non andava bene, che doveva farsi rispettare, non doveva essere terra, doveva essere fuoco. Lei era fuoco dentro me. Ci pensavo mentre la vedevo avvicinarsi sotto alle luci arancioni dei lampioni, mentre mi sentivo il cuore che cominciava a ticchettare talmente forte da rischiare un corto-circuito. Si era disegnata un piccolo neo sotto all'occhio, a destra. Diceva che la faceva sentire più importante, quel piccolo puntino sul viso. La faceva sentire diversa. Come me, del resto; la facevo sentire diversa, migliore. Cercammo un posto dove sederci, dove stare soli. Mi accesi una sigaretta, ormai lo sapeva che non riuscivo a non fumare. E intanto, come sempre, la strinsi forte a me, il suo viso accanto al mio, schiacciati insieme, come per annusarci. Sapeva di miele, doveva aver fatto la doccia prima di uscire. Cominciai ad accarezzarle le guance come facevo sempre, mentre sotto alla mia mano la sua pelle diveniva fuoco. Mi piaceva renderla fuoco, mi piaceva darle il mio carattere per completare il suo, inespressivo. Scorrevo le dita lentamente su quella pelle morbida, cercando di assaporarne il più possibile prima di andarmene via. Lei cominciò ad accarezzarmi i capelli, diceva che le piacevano un sacco, così corti e morbidi. Quella sera lei se li era piastrati, così i suoi capelli solitamente lisci e rigidi, avevano preso la forma di ricci ribelli, come se si fosse nascosta una tempesta fra i capelli e li avesse accartocciati senza logica. Me l'assaporai tutto, quel sapore di nuovo nei suoi capelli, come stavo facendo con quella fottuta sigaretta. Guardavo il mozzicone bruciare a terra e poi spegnersi, mentre lei faceva lo stesso. Si stava perdendo ancora una volta in quel dannato mozzicone, come faceva quando pensava a qualcosa di assurdamente bello da dire, ma troppo complicato da pronunciare. Notavo il suo sguardo in penombra che pian piano si accendeva ma, come un accendino quando c'è vento, si spense subito smorzando i pensieri. Tutti. Ripresi ad accarezzarle il volto, a baciarlo, mentre le nostre dita si intrecciavano armonicamente, completandosi. Un giorno, mentre guardava le nostre mani, mi disse: "Nat, ti sei mai accorto che siamo come i Ringo? Tu fai il cacao ed io la vaniglia. Ognuno completa il gusto dell'altro" E in quel momento mi venne da ripensarci, che eravamo come i Ringo. Io completavo i suoi pensieri, troppo piatti, senza quel fuoco che ogni tanto li faceva avvampare e saltare velocemente, come improvvisi monti sul paesaggio. Le corde della sua anima vibravano con le mie, mentre nelle nostre casse toraciche allo stesso ritmo, suonavano due batteristi impazziti. La musica di noi risuonava vorticosamente tutt'intorno, mentre per un attimo abbandonavamo gli occhi terra per sorvolare la notte scura ed atterrare nelle sue gelide lacrime. Nere.

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Capitolo 6
*** Tutto questo schifo. ***


"Oh, fantastico" pensò Mel quella sera. Non bastava il fatto che Nat non le parlava da almeno due giorni. Ci si doveva mettere anche il pacchetto di sigarette, che si era nascosto così bene da far invidia all'ago nel pagliaio. Non brillava di certo per la memoria, la piccola Mel, e ovviamente non aveva la più pallida idea di che cosa farsene adesso di sogni da bruciare, senza accendino tra l'altro. Aveva bisogno di qualcosa, qualcosa di più grave a cui pensare; qualcosa di cui preoccuparsi. Non voleva pensare a quella triste storia che se ne stava tranquillamente a prendere il sole alle Bahamas mentre gli unici due superstiti affrontavano un uragano di confusione. Non voleva nemmeno pensare a quella cazzo di famiglia che non si interessava dei suoi sogni, no; volevan solo progetti loro. In realtà non è mai interessato a nessuno che lei avesse un sogno; perciò se non interessava, andava allontanato, andava espulso. Alzò la musica sul cellulare, staccò le cuffie. Le t.A.T.u. gridavano a squarciagola mentre si infilava in gola due dita. Vomitò tutto. Vomitò gli insulti che avrebbe rivolto a Liam per aver parlato, vomitò un certo disgusto per le Lucky Strike che non si facevano trovare, vomitò tutto ciò che aveva sempre perdonato alla famiglia per non essersi mai veramente interessata a lei. Vomitò il suo sogno, mentre lacrime nere le riempivano la vista di odio. Verso sé stessa, ovviamente. "Mother looking at me, tell me what do you see? Yes, I've lost my mind. Daddy looking at me will I ever be free? Have I crossed the line?" Cazzo, anche la canzone sapeva che lei aveva sbagliato. Ma interessava a qualcuno? No, ovviamente. Uscì dal bagno, tranquilla, e come sempre si mise ai piedi del calorifero. Chiamò Nat, stava troppo male. Ma lui invece che farla stare meglio, non fece altro che stare zitto, mente lei, in silenzio, piangeva. Quattro fottute lacrime, non di più, non poteva piangere troppo, l'avrebbe sentita. Il cappuccio le impediva di vedere intorno, quanto lei stessa facesse schifo. Sentiva in sottofondo Dj Matrix, e sapeva benissimo che lui l'ascoltava solo quando stava letteralmente di merda. Ma era egoista; e stava male anche lei. Il risultato? Gli attaccò il telefono in faccia, senza nemmeno salutarlo.

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Capitolo 7
*** E come se non bastasse.. ***


Il cerchietto tra i capelli non ci stava, non ci voleva stare. Mel tirò su il cappuccio e li nascose lì dentro.Non un fiocchetto, un cerchietto; i fiocchetti non facevano per lei, e nemmeno i nastrini. Non poteva portar un grammo di vita dentro ai suoi capelli così morti, fermi sulle spalle come fossero lì a far le belle statuine.Prese la giacca e uscì; neanche il tempo di allacciarla che era già fuori casa, con la musica tra i polmoni e la pioggia che le inumidiva il volto. Cazzo quanto amava la pioggia, Mel. Raggiunse la pista ciclabile, finalmente un posto per stare un po' sola. Tolse il cappuccio dalla testa, liberò i capelli ribelli e cominciò a camminare freneticamente, come se qualcuno la stesse seguendo; le gambe seguivano la frequenza dei suoi pensieri, il passo segnato dalla musica e i piedi portavano il peso di tutto, quasi fossero loro che mandavano avanti tutto il lavoro.Raggiunse il posto, finalmente; un piccolo rifugio lungo il percorso, delimitato da qualche albero che conteneva poco più del dispensabile: una fontanella le riportava alla mente i ricordi dell'estate passata, il tavolo in legno con le panche le facevano pensare ai mille balli improvvisati tutti in compagnia e le altalene, l'unico rifugio per sfuggire alla furia dei gavettoni. Quella era la sua seconda casa.Tolse le cuffie, spense i Muse allontanando dalla mente Apocalypse please. Cazzo era quello che ci voleva, un'apocalisse.Tolse anche la giacca. Non voleva ammalarsi, non era così stupida. Voleva solo sentire le gocce caderle sulla pelle, mentre le imprecazioni del cielo le si impigliavano fra i capelli. Le mancava tutto cazzo. E stava di merda.Le mancava sentirsi dire "Cazzo se sei bella" mentre con i capelli giocava e li scompigliava, per poi scusarsi per non riuscire a metterli a posto. Le mancava mettersi a testa in giù ripettinandosi, e ridere mentre diceva che non faceva niente, che poteva spettinarla tutte le volte che voleva. Le mancava guardarlo, accarezzandogli il cuore mentre lui con la mano leggera le accarezzava la guancia. Cazzo, le mancava tutto. Non poteva andare avanti così. Ma non poteva afflosciarsi come un ramoscello, lei non aveva torto, lei non aveva sbagliato cazzo, lei non aveva fatto proprio niente con Jake. L'aveva lasciato lì, come un'idiota, ma evidentemente questo Liam non l'aveva notato. No, Liam si era limitato solo a riportare la discussione, tra l'altro farcendola di dettagli assolutamente assenti. Ad esempio l'abbraccio fottutamente incosistente che a quanto pare c'era stato tra lei e Jake. Oppure il saluto tanto caloroso che solo la mente ballerina di Liam aveva visto. Mbah. E il cielo intanto esplodeva lentamente sopra alla sua testa. Bello. Alzò la testa, per guardare in faccia ciò che il coraggio di dimostrare le cose ce le aveva. Amava il cielo, amava il modo in cui non si arrendeva mai. Sempre lì, non cadeva mai il cielo, era sempre perfettamente in linea nel suo vestito di stelle. Anzi, in quel caso, di nuvole. Non gliene fregava se era stanco o se era triste, se ne rimaneva tutto il tempo perfettamente sospeso lassù, come se ci fossero un paio di puntine a stenderlo così perfettamente. Lo ammirava il cielo, cazzo. Non aveva paura neanche delle apocalissi, lui. Mel voleva essere cielo, voleva essere così forte e invece di starsene zitta gridarla la verità, urlarla a squarciagola, come quelle cazzo di gocce che si spogliavano lentamente mostrando a tutti la furia del cielo. Allora si mise a scrivere, cazzo. Voleva dirla tutta la verità, voleva scriverla tutta la verità, voleva vedere cosa sarebbe successo. "Carissimo Nat, sono io, sono Mel. Ce l'hai presente? Sono la tua ragazza, esatto. Quella con la quale non parli da 13 giorni solo per una grandissima palla. Non dico che tuo fratello sia un bugiardo, però cazzo non tutto quello che ti ha detto è vero. E ti chiedo scusa, ti chiedo scusa perché non te l'ho detto io che ho parlato con Liam. Ma secondo te, potrei essere con lui, se ti sto scrivendo un fottutissimo messaggio per farti capire come sono andate le cose? Pensaci su, per favore. Perché mandare a puttane tutto così non mi sembra il piano più ideale. A presto (spero) Mel." Contemporaneamente, le arrivò un messaggio: Nathan. "Voglio vederti. Dobbiamo chiarire. Domani alla panchina. Sii puntuale. Nat." Tornò a casa, veloce come una furia. Infreddolita si spostò accanto al calorifero, dove rimase tutta la notte. Si addormentò lì, sfinita. Nat gli aveva tolto tutte le energie, ancora una volta.

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Capitolo 8
*** Odio e rancore. ***


Bello, stupendo. Nat era alla finestra, agitava nervosamente il pacchetto delle sigarette tra le mani mentre Liam, con particolari a dir poco precisi, gli raccontava cos'era successo. L'aveva vista. Aveva visto Mel con quel frocio che si ritrovava come ex. E avevano parlato, e non poco da quello che raccontava il fratello. Con lentezza cronica, quasi organizzata, raccontava tutto minuziosamente. Nathan cominciava a sospettare: come diavolo faceva a ricordare tutti quei dettagli? Eppure doveva essere vero, non l'avrebbe detto così, per giocare un po'. Aspettò che Liam uscì, poi come un forsennato cominciò a fumare, fumare, fumare. Sembrava che il tabacco non gli entrasse nelle vene da giorni, invece che da poche ore. Rifletteva mentre in mano ormai poteva stringere solo tabacco, non più sogni. Un messaggio: Mel. "Fottiti." pensò lui schietto, spegnendo il cellulare. Non ci credeva che l'aveva fatto, non riusciva a pensare alle sue mani su di lei, su quel viso che poche ore prima aveva sfiorato lui, a quei capelli dove non era più impigliato il suo odore, ma quello di Jake. Fottutissimo ragazzo. Ce l'aveva con lui, ce l'aveva con lei. Si mise ad ascoltare Club Dogo, era talmente incazzato che solo il rap poteva capirlo. Una volta sola. Mmm, era la canzone giusta? Non lo sapeva nemmeno lui. Voleva solo andarsene in quel momento da quel mondo del cazzo.Prese il telefono, le sigarette e l'ipod e, nel più assoluto silenzio, uscì di casa. Si mise a camminare tranquillo, non sapeva dove voleva arrivare, sapeva solo che voleva perdere nei passi tutta quella rabbia, voleva imprimerla sull'asfalto invece di averla nella mente, che poi non gli permetteva nemmeno di aver lo spazio per pensare. Non guardava nemmeno dove andava, camminava e basta, guardando a terra mentre una pioggia scura gli batteva debolmente sul collo. Improvvisamente tornò indietro. Non sapeva nemmeno lui perché, però si rimise a camminare affannosamente verso casa, mentre nel petto gli rimbombava Dj Matrix. Ok, ci mancava solo questa; cominciò a piangere, come un idiota, in mezzo alla strada. Non sapeva nemmeno lui che cosa fare, voleva solo tirarsela fuori dalla testa, piangendola. La testa cominciò a rimbombargli come un martello pneumatico impazzito, sentiva qualcuno che ci picchiava dentro con forza. E in risposta aveva solo il vuoto. Si asciugò gli occhi, tolse la musica ed entrò in casa, fradicio. Senza nemmeno togliersi i vestiti entrò nel letto e si addormentò all'istante.

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Capitolo 9
*** Stop. ***


Camminava impazientemente sul muretto della palestra, canticchiandosi Fibra mentre aspettava l'arrivo di Nat, non sapeva cosa sarebbe successo. Si immaginava già una lite, abbastanza violenta, si sarebbero dati addosso in continuazione, poi avrebbero fatto pace come sempre e si sarebbero dimenticati tutto. Il quadro era perfetto, mancava solamente un soggetto del dipinto: Lui. Arrivò, come un fulmine, un felpone bianco a scritte nere conteneva tutti i suoi pensieri, e forse anche un pacchetto di Lucky Strike. Con molta calma, raggiunse Mel, ripassò mentalmente tutte le azioni, sarebbe stato calmo, non le avrebbe dato addosso. Se l'era promesso. Mel scollegò il cervello, senza nemmeno accorgersene;sapeva benissimo che ipotesi stava sostenendo, stava semplicemente difendendo la verità con le unghie. Stavano litigando, e non poco. Lui sosteneva, come abitualmente faceva, che lei lo tradisse, per giunta senza nemmeno nascondersi. Jake, Jake, Jake; non sapeva parlare d'altro. L'unica cosa che era in grado di fare era accusarla. E ciò accadeva a intervalli di -quanto?- due giorni circa. Gli spiegò per l'ennesima volta che non era successo assolutamente niente, ma sperava veramente che gli avesse creduto? Mm, io dico di no. Ma quella non era una discussione come le altre, lui sembrava più tranquillo nel dire le cose, anche se mostrava un contegno eccessivo mentre si incazzava con lei. Sembrava quasi pacifico, mentre a lei scoppiavano le vene come palloncini. Non ce la faceva più, era sul punto di mandarlo a quel paese. Ed effettivamente lo fece; con la sua faccia contorta e senza espressione, lei gli urlò in faccia un bel vaffanculo, che andò a colpire Nat come un pugno in pancia. A quel punto lui esplose improvvisamente, come se avesse accumulato tutta la rabbia e avesse bisogno di riversarla; la prese per il collo tanto prepotentemente da sembrare la furia di un uragano e, tenendola stretta, la alzò di peso e la sbattè contro al muro, senza un preciso scopo. Lei inizialmente lo guardò come se non gliene importasse niente, si stava focalizzando sul cielo, che quel giorno era adornato da nuvole grigiastre e spente; cercava in quell'ammasso di vapore un qualche assurdo senso, sperando di aver trovato un passatempo che la occupasse mentre lui la lasciava andare. Intanto lui cercava nei suoi occhi un segno di debolezza, anche minimo, per far forza su quella e cominciare a tenerla in pugno. Insomma, lei lo aveva fatto per tutto questo tempo, perché lui non lo poteva fare? Strinse di più, voleva sentire i polpastrelli congiungersi perfettamente con la sua pelle, fottutamente candida e priva di segni, come la prima nevicata della stagione. A quel punto le loro iridi si scontrano prepotentemente, in un dialogo muto che stavano portando avanti da troppo tempo; Mel cominciava a sentirsi mancare il respiro, i polmoni si stavano raggrinzendo per la mancanza di aria che li riempiva perfettamente. Cominciò a giocare con il suo sguardo, tentando di invogliarlo a lasciar la presa. Ma non mollava cazzo, Nat non mollava. Allora provò l'ultima via che le era rimasta. Fiato per parlare non ne aveva più, quindi cominciò a muovere disperata i piedi, sperando di colpirlo anche solo una volta. Niente. Resisteva. Come un fottuto albero che non si piega nemmeno con la forza di mille venti, quello non si smuoveva. E Mel continuava a tirargli calci, fino a perdere le forze. Stop. Le svenne tra le braccia, la testa ciondolante e il corpo inanimato. Cadde a terra, inerme e lui con lei. "Cosa diavolo ho fatto?" cominciò a pensare lui in preda all'ansia, all'angoscia o a chissà quale altra cazzata simile. La distese meglio, la guardò. La pancia non aveva il suo movimento regolare, era piatta e a tratti si sollevava debolmente. Il cuore non sembrava battere, il respiro non vibrava più tra le flebili labbra. Non sapeva cosa fare. Allora, imitò quelli nei film, le guardie di salvataggio; le tappò il naso e cominciò a soffiarle aria in bocca, sempre più velocemente. Non ce la faceva più; era nel panico. Comincò a piangere, lacrime lucide, lacrime di vetro. Perché lui le aveva donato solo nicotina e catrame, solo quello. I respiri sono fatti solo di ossigeno. E le sue lacrime erano solo sale.

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