Racing In The Street

di Shadowolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue: I Lived On This Street, Right On This Highway, It Was On South Street ***
Capitolo 2: *** Barefoot Boy Sits On The Hood Of A Dodge Drinking Warm Beer In The Soft Summer Rain ***
Capitolo 3: *** He'll Look At You And Smile, And His Eyes Will Say He's Got A Secret Garden Where Everything Will Always Stay A Million Miles Away ***



Capitolo 1
*** Prologue: I Lived On This Street, Right On This Highway, It Was On South Street ***


Racing in the street

La prima volta che incontrai Jude fu poco dopo aver lasciato la scuola. O meglio, dopo che dissi a me stesso che non sarebbe comunque servito a nulla continuare. I miei ovviamente intuivano qualcosa, ma non ne parlavano mai apertamente con me, e probabilmente neanche tra loro. Anche perché erano entrambi presi da altre folli questioni per prestarmi un’attenzione continua che forse avrei meritato.
Ripensandoci adesso, magari avrei fatto meglio a dire le cose apertamente, piuttosto che lasciarle intendere. Ma dopotutto avevo solo 21 anni, e il concetto stesso di futuro sembrava troppo lontano e troppo complicato per essere degnato della mia attenzione. Quando ci avevo provato, mi era venuta voglia di fuggire lontano, facendo completamente perdere le mie tracce. Non una grande idea, ovviamente. Così a lungo andare avevo preso ad ignorare ogni prospettiva che superasse i sei mesi di progettazione e a vivere letteralmente alla giornata. Mi alzavo tardi, buttavo giù un bicchiere di latte quando me ne lasciavano, mi vestivo ed uscivo di casa intorno a mezzogiorno, solo per farci ritorno un paio di ore più tardi e cominciare la solita trafila di battibecchi con i miei, che ovviamente lamentavano quella che a loro pareva essere solo totale mancanza di interessi. In realtà era solo una visione mutuata da un’ottica obsoleta, che non sentivo più come mia, se mai c’era stato un periodo in cui l’avevo condivisa. Il solito stacco generazionale, suppongo. Quel che è certo è che in quel periodo stavo cambiando, anche se non me ne accorgevo affatto.
 
Era già da un paio di settimane che mi parlava di lui, Jamie. Diceva che era solo questione di tempo prima che arrivasse quella che a lui piaceva chiamare “La Novità”. E andò avanti per giorni e giorni senza dirmi cosa – o chi, come sarebbe apparso chiaro in seguito – fosse. Avrei voluto mandarlo al diavolo tante di quelle volte, quando tutto ad un tratto – mentre stavamo seduti sul portico di casa sua a guardare le ragazze passare di lì, o sdraiati sulla spiaggia, dopo un bagno – si stampava quel suo sorriso bianchissimo sulle labbra e guardava l’orizzonte, ripetendo due o tre volte “Sta arrivando, Robbie. Sta arrivando.”
Ma alla fine lo lasciavo parlare e pavoneggiarsi di questa grande novità, dubitando fortemente che potesse essere questa gran cosa, magari capace di cambiarmi la vita. In quel momento avevo tutta l’intenzione di andare avanti a quel modo il più a lungo possibile, e in cuor mio speravo che il tempo prendesse a scorrere più piano, per permettermi di godere appieno quell’atmosfera sospesa e tranquilla nella quale mi piaceva crogiolarmi.
Non sapevo se Jamie cogliesse questa mia propensione al dolce far nulla, al fregarmene di tutto quello che mi capitava attorno, al vivere quei miei giorni senza aspettarmi niente, cercando solo di andare a dormire ogni volta senza la fottuta consapevolezza dello scorrere del tempo. Però rimaneva sempre con me, e tanto mi bastava. Il resto dei ragazzi del posto mi girava alla larga, non sapevano che aspettarsi da me, e in cuor mio li ringraziavo, perché non avrei mai potuto sopportare la compagnia di persone che mancavano anche di idee proprie, oltre che di qualsiasi voglia costruttiva. E lo stesso facevano con Jamie, ma per ben altri – e più stupidi – motivi.
Così alla fine ci eravamo trovati, ed in breve tempo eravamo diventati amici, forse anche dei migliori. Perché entrambi non avevamo nessun altro di veramente fidato, eravamo disillusi, stanchi di lottare contro quell’invisibile mano che ti respinge ogni volta indietro, e credevamo che era nel nostro diritto prenderci un periodo di pausa. Senza fissare una data di scadenza.
Per questo quando quella mattina del giugno 1969 Jamie si decise a sputare finalmente l’osso accolsi la rivelazione con molta perplessità e un pizzico di scocciatura. Non avevo granché voglia di fare una nuova conoscenza, ripartire da zero con quelle stupende domande su chi sono, cosa ho fatto e dove voglio andare, che se un giorno dovessi capirne l’utilità probabilmente poi potrei anche morire contento.
‹‹ Dio, Jamie, mi hai rotto le palle tutto questo tempo solo per un ragazzo? Pensavo avessi trovato un modo per comprare quella cazzo di tavola da surf! ››
‹‹ Scusa eh, ma cosa ci dovrebbe essere di nuovo in una tavola da surf, testa vuota? ››
‹‹ Jam1, tu sei capace di eccitarti anche se tuo padre torna a casa con un nuovo tipo di shampoo. ››
Ci guardammo serissimi per un paio di secondi prima di scoppiare entrambi a ridere, come spesso ci capitava quando stavamo da soli. Ridere per qualcosa che il mondo esterno non avrebbe mai potuto capire. Non lo shampoo in sé.
‹‹ I nostri capelli richiedono più cure nel caso non lo sapessi, milkshake vanigliato. ››
‹‹ Certo, è un dato di fatto. Come io adoro lavorare. ››
‹‹ Quello si chiama essere uno scansafatiche. Cosa c’entra ora? ››
‹‹ Adesso ho voglia di milkshake. ››
‹‹ Idiota. ››
‹‹ Darmi dell’idiota non ti salverà dalle tue responsabilità. ››
‹‹ Sarebbero? ››
‹‹ Comprarmi un milkshake. ››
‹‹ I dollari hanno dichiarato guerra alle mie tasche. ››
‹‹ Dovevi pensarci prima. ››
Smise di rispondere a quel gioco idiota che facevamo sempre e mise su di nuovo quel ghigno. Lo avevo perso di nuovo, e in poco tempo. Cominciai a portare il conto e prima di arrivare a 4 udii la sua voce riprendere a parlare.
‹‹ No, ma sul serio, Robbie. Lui è il meglio di quest’estate. ››
‹‹ Scusa, mi sono perso. Stiamo mettendo su un’impresa e nessuno m’ha detto niente? ››
‹‹ Dài, è vero! Tu non lo conosci, ma fidati qu- ››
‹‹ Cos’ha di speciale!? ››
E qui i suoi occhi si illuminarono come non mi era mai capitato di osservare prima di quel momento. Mi rivolse quello sguardo mezzo allucinato e sorrise se è possibile ancora di più.
‹‹ E’ inglese! ››
Rimasi a fissarlo come impietrito per una decina di secondi prima di rispondergli, il sarcasmo nel mio tono che toccava i massimi storici.
‹‹ Grande, uno di noi proprio... ››
‹‹ Nonono, fidati, è in gamba, e inglese! ››
‹‹ Jamie, ho capito che è inglese! Scusa se non faccio i salti di gioia all’idea di avere una conversazione di cui capirò sì e no la metà di quello che si dice... ››
‹‹ Che esagerato... ››
‹‹ No, è vero. Avrò un handicap, che ne so! ››
Lui sghignazzò e ancora una volta mi fissò negli occhi, facendomi per un momento interrogare sul suo stato di salute mentale. Eravamo due squilibrati.
‹‹ Che c’è ancora? ›› gli chiesi, facendo di tutto per mantenere uguale il sarcasmo.
‹‹ Vuoi sapere il suo nome? ››
‹‹ Che mi cambia saperlo in anticipo? ››
‹‹ Fidati. Sarai eccitato anche tu. Almeno un po’. ››
Era così su di giri che mi sembrò inutile ribattere, e anzi, ritenni cosa buona farglielo sputare fuori, nella speranza che poi ci avrebbe dato un taglio.
‹‹ Va bene, dimmelo. ››
‹‹ Si chiama Jude. ››
Per un attimo pensai che scherzasse, ma quella lucina nei suoi occhi mi disse che no, era serio, purtroppo. Jude.
‹‹ I Beatles mi hanno rotto le scatole. ››



AUTHOR'S CORNER: Io una volta ero un tantino più normale (anche se stenterete a crederci). Avevo dei principi. Ultimamente non so che razza di fine abbiano fatto. Risultato è che adesso vi beccate questa cosa senza capo nè coda che ho scritto giusto perchè ieri stavo scazzata al massimo e mi misi a guardare un live di Bruce Springsteen in cui c'è la song che dà il titolo a questa AU e che ho sempre voluto inserire in qualche cosa RDJude. Non c'era nessunissimo bisogno di farne una long (un'altra), visto che oltre a fare schifo l'idea, ne ho già un'altra pendente ed io purtroppo mi conosco troppo bene per non preoccuparmi.
In più postare su EFP sta diventando di una deprimenza assurda, perchè mi sembra sempre di far discorsi senza arte nè parte e di parlare di cose che uno mi guarderebbe così: O_o
Tutte queste cose sono motivi più che validi per non postare quello che invece ho postato. 
Il punto è che stamattina stavo dando di nervi per altre cose e l'unico modo per far finta di niente di tutto quanto era buttarmi su questa long (che comunque, a parte tutto, io fossi io morirei dalla voglia di leggere, ma perchè sono cose che interessano me e che lasciano perplesse la maggioranza delle persone.
... E mio padre è appena entrato gridando in camera mia, vabbè.
Ci sarebbero un po' di cose serie da dire riguardo al setting eccetera, ma adesso mi limiterò a darvi qualche dettaglio accennato, riservandomi al prossimo capitolo di approfondire (più che altro perchè potrei uscire da un momento all'altro, e non so quanto torno poi -.-). 
Il Jersey, per quanti di voi se lo stessero chiedendo, è lo stato immediatamente appiccicato a quello di New York. In particolare, la cittadina dove si svolge la storia, Asbury Park, dista da NYC circa un'ora e un quarto di macchina, che in pratica separa la periferia (e l'arretratezza mentale) tipica del New Jersey con la sfavillante e temeraria grande città. Tenetelo a mente durante tutta la AU, perchè questo è un punto cruciale per la comprensione delle dinamiche dei personaggi.
Prima di chiudere e lasciarvi finalmente in pace devo fare una precisazione. Il tono del prologo non so da dove venga fuori, non vi aspettate che lo mantenga per tutta la AU, perchè così ovviamente non sarà. Fa schifo e me ne rendo conto, è completamente sconclusionato e scritto probabilmente anche a cavolo, e di questo mi scuso.
Comunque, per quel che può valere, la fic è tutta tutta per Fra', si può dire che l'abbia scritta solo per lei, visto che stanotte quando m'è venuta l'idea s'è mostrata tutta entusiasta (senza che ne valga la pena, ovviamente) e mi ha dato quel pizzico di pazzia che mi ha fatto andare a dormire ripensando a questa malsana idea che poi ha preso disgraziatamente forma. Per te, Fra', anche se non è all'altezza.
Peace out.

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Capitolo 2
*** Barefoot Boy Sits On The Hood Of A Dodge Drinking Warm Beer In The Soft Summer Rain ***


‹‹ Non puoi stare senza far niente tutto il giorno, Robert, così la tua vita è INUTILE! ››
Mia madre quel giorno aveva deciso di assumere le veci del mio altro genitore, approfittando del suo essere via per lavoro, e aveva cominciato a gridarmi contro praticamente dal momento in cui avevo messo piede in cucina per fare colazione. A volte adoravo la mia vita.
‹‹ Come al solito, no? ›› mi limitai invece a sospirare, fissando soltanto la tazza ormai vuota davanti a me. Cinque minuti – mi ripetevo – cinque minuti e poi sono fuori di casa. Resisti Robert, resisti.
‹‹ Esatto! Ma non può andare così per sempre, devi decidere che fare della tua vita, non p- ››
Tempo scaduto. Ding dong.
‹‹ Non è per sempre, mamma! È temporaneo, okay? E... ›› aggiunsi, anticipando sul tempo la sua risposta ‹‹ non cominciare a chiedermi quando penso che finirà “questo temporaneo” perché davvero, non lo so. Non lo posso sapere. ››
Portai la tazza nel lavabo e prima che potesse muovermi altre lamentele contro guadagnai nuovamente le scale e poi la mia camera, raccogliendo qualche spicciolo dalla scrivania, i miei Ray Ban graffiati trovati qualche giorno prima per strada e il mio cappello, improvvisandomi poi gatto per sgusciare di soppiatto fuori di casa, e tirare finalmente un sospiro di sollievo. Ancora una volta ero riuscito a controllarmi, impedendomi di cominciare ad urlare di prima mattina. Per di più contro mia madre, che poverina, a guardarla dal suo punto di vista non aveva neanche una gran colpa. Era mio padre che rompeva le palle, sempre e comunque, anche quando era fuori città. Era capace di fermarsi in un bar soltanto per telefonare a sua moglie e dirle di venirmi a tirare giù dal letto, “ché si vive di giorno, mica di notte, e sono affari suoi se ritorna sempre tardi. Magari così imparerà cosa significa vivere da uomo!”. E lei, poverina, si faceva investire in pieno dalle parole di lui, convincendosi che, fossi andato avanti così, non avrei mai realizzato nulla in tutta la mia vita, e probabilmente già mi immaginava a fare le elemosina sotto un ponte come un disperato (cosa che d’altronde io stesso mi divertivo a fomentare, probabilmente in preda ad un insito impulso suicida). Fatto sta che di frequente si ritrovava a fare le sue veci, ed io dovevo continuare a tenere la mente focalizzata su altro, fosse un passo di un libro, uno scambio di battute di un film o un verso di una canzone. Non era mia madre, la persona che doveva subire la mia rabbia.
La casa di Jamie distava solo un paio di isolati dalla mia, complice l’alta gerarchizzazione del piano urbanistico di Asbury Park, grazie alla quale la città era divisa né più né meno in base al reddito della famiglia di appartenenza. A dirla tutta, più che tramite una disposizione comunale questa cosa era venuta su spontaneamente, durante l’ultima guerra, che aveva fatto una sorta di tabula rasa di tutto ciò che c’era prima e aveva portato le donne a lavorare in primo piano, in uffici e istituzioni. E l’edilizia aveva seguito questa tendenza, creando dei mini quartieri poco distanti dal litorale con case modeste e discrete, tutte sommariamente uguali ma nello stesso tempo con piccoli tratti caratteristici che aiutavano a differenziarle le une dalle altre. Successivamente, quando gli uomini furono tornati a casa dal fronte, e con l’arrivo della paura di un attacco atomico, chi disponeva di qualche soldino in più aveva cominciato ad edificare più a sud, dando vita a quello che tutt’oggi è il quartiere (nel vero senso della parola, questa volta) più benestante dell’intera città. Certo, era sempre poca cosa, non c’erano ville, né appartamenti, ma si riconosceva l’appartenenza altra di quelle case rispetto alle costruzioni precedenti. Le grandi ville... quelle erano fuori città, ed erano tutta un’altra storia.
Trovai Jamie già in strada, appoggiato alla staccionata che limitava il suo giardino, lo sguardo già fisso nella direzione dalla quale sapeva sarei arrivato
‹‹ Sei in ritardo. ›› non mancò di sottolineare, mentre ci scambiavamo il nostro gesto d’ordinanza.
‹‹ Lo so. Mia madre. ›› mi limitai ad aggiungere, scrollando le spalle. Sapevo che avrebbe capito.
‹‹ Tuo padre è fuori città, eh? ››
‹‹ Già. ››
‹‹ Com’è andata? ››
‹‹ Stavo per. ›› ammisi, sospirando e guardando intorno a me, per non incrociare i suoi occhi. Mi vergognavo di questa mia debolezza, di questa mia tendenza a perdere le staffe troppo facilmente negli ultimi tempi, ed era una cosa che mi capitava solo con lui. Non volevo tediarlo con i miei stupidi problemi, quando lui stesso ne aveva già una quantità non certo indifferente, e ammettere in sua presenza di quanto non sapessi tenermi dal litigare con i miei un giorno sì e l’altro no era un qualcosa che mi pesava ogni volta, che desideravo tanto non fare. Purtroppo ne ero anche troppo dipendente per riuscire a nascondere quello che mi passava per la testa quando ero con lui. Jamie non era solo il mio migliore amico. Era il mio fratello maggiore disperso alla nascita, nonostante avesse la mia stessa età. Era l’unica persona al mondo con cui potevo essere me stesso, da cima a fondo.  Anche se a volte – come questa, ad esempio – volevo tanto non avere questa immensa fortuna.
‹‹ Bravo il mio Milkshake... ›› mi sorrise, mettendomi un braccio intorno alla spalla e cominciando a camminare con me in direzione della spiaggia.
Era venerdì, e come tutti i venerdì avevamo un’importante missione da attendere: convincere il proprietario del bar sulla spiaggia ad affittarci il deposito dove teneva le sue vecchie tavole da surf, e che ora giaceva lì inutilizzato e mezzo abbandonato. Avevamo tentato di tutto per convincerlo, ma non ci eravamo riusciti. Continuava a dire che senza soldi, potevamo anche scordarcene. Perché sì, in effetti non potevamo pagarlo, manco per sogno. Ma questo non ci avrebbe fermato, intenzionati com’eravamo ad avere un posto tutto per noi, un posto dove nessuno sarebbe venuto a dirci di abbassare il volume della musica, o a svegliarci presto la mattina, o generalmente a romperci le scatole. Ovviamente non si trattava di una casa, non ci avremmo vissuto, ma l’avremmo usata come una specie di rifugio dal mondo esterno. Il nostro rifugio. Peccato che il vecchio Jackman non voleva sentir ragioni.
‹‹ Voi due non avete proprio nient’altro da fare con le vostre vite da quattro soldi, eh? ›› ci accolse infatti anche quel giorno, il tono gioioso e scanzonato come sempre, incurante del fatto che stava servendo un’anziana signora mentre si rivolgeva a noi a quel modo. Ma tanto erano tutti così abituati a lui e alle sue dolci maniere che non ci prestavano neanche più caso.
‹‹ Dài, Jack, che ti costa? ›› esordì Jamie, sedendosi ad uno degli sgabelli di fronte al bancone e appoggiandosi al ripiano. Pessima scelta. Ricevette in cambio un’occhiata minacciosa e un confronto faccia a faccia.
‹‹ Bimbetto, o prendi qualcosa o stai in piedi. Per l’ennesima volta. ››
‹‹ Infatti voglio un... tè. Al limone. ›› improvvisò, girandosi subito verso di me come Jackman gli diede le spalle, sbuffando e chinandosi per recuperare la brocca. Annuii e gli sorrisi, prendendo posto accanto a lui. Cosa che non sfuggì al barista, ovviamente, e stavolta fu il mio turno di ritrovarmelo ad un palmo di naso.
‹‹ Lo vuoi anche tu? ››
‹‹ Dividiamo. ››
‹‹ Allora stai in piedi. Una consumazione, un posto. Questa è la regola. ››
‹‹ La tua regola f- ›› cominciai, ma una gomitata di Jamie mi lasciò senz’aria e mi suggerì il silenzio.
‹‹ Ha ragione, Robbie. Stai in piedi, dài. ›› annuì nella mia direzione, mentre tossivo e riluttante abbandonavo lo sgabello, sistemandomi alla sua sinistra.
‹‹ Inutile, sai? Non attacca lo stesso. ›› lo apostrofò Jackman, versandogli il tè e allungandogli il bicchiere.
‹‹ Niente ghiaccio? ››
‹‹ Il ghiaccio è un extra. Lo vuoi ancora? ››
Il suo ghigno arrivava da parte a parte. Jamie si trattenne dal fare del sarcasmo e rispose distrattamente, fingendo che non gli importasse.
‹‹ No, in fondo è già bello fresco così. ››
‹‹ Ottimo allora! ››
Scossi la testa, più a me stesso che a qualcuno in particolare, e lanciai una breve occhiata a Jamie, che si limitò ad annuire e sorridere. Non voleva afferrare il punto.
‹‹ Jamie, non è per dire, ma... uff, ci odia, non ce lo darà mai e poi mai. ››
‹‹ Nah, è solo pessimismo il tuo. Stamattina tua madre t’ha rotto le scatole e adesso sei lì tutto mogio perché ti ho impedito di sfogarti sul vecchio Jack. Io dico che capitolerà, prima o poi. Ama troppo le sue tavole da surf per non capire che prima o poi gliele fregheranno da lì se non ci sta qualcuno a tenergliele d’occhio ogni tanto. ››
‹‹ Odia più noi di quanto ami le tavole...››
‹‹ Non ci sovrastimare, Robbie. ››
Scossi la testa e guardai l’oceano, nascondendogli un sorriso di ammirazione, perché sapeva sempre come affrontare le situazioni senza mai perdere quella leggerezza d’animo che gli invidiavo un sacco. La cosa migliore è che sapeva come contagiarmi. Non riuscivo a rimanere incazzato a lungo quand’ero con lui. E questo poteva solo essere un beneficio.
‹‹ Allora, oggi gli diciamo che in cambio della baracca lo aiutiamo qui al bar. Che ne dici? ›› mi fece dopo qualche minuto, passandomi il bicchiere mezzo vuoto. Ne presi un sorso e arricciai le labbra. Sembrava tè caldo lasciato a raffreddare.
‹‹ Già tentato. ›› gli risposi, fermandomi un attimo prima di continuare, imitando l’accento australiano di Jackman a bassa voce ‹‹ “Non mi servono due sfaccendati come voi tra i piedi.” ››
Lui rise di gusto, lasciandomi una pacca sulla spalla e annuendo.
‹‹ Giusto... Vediamo un po’, allora... Li puliamo casa? ››
‹‹ “Manco per sogno! Non farete danni anche lì! ›› continuai nella mia performance ‹‹ Come se non ne avessi già troppi di pe-“ ››
‹‹ Be’, devo dire che sei bravo, almeno quello. ››
Trasalii al suo di quella voce, e realizzai troppo tardi di aver probabilmente compromesso per sempre la nostra operazione. Soldato semplice Downey, lei è radiato dall’albo militare. Consegni pistola e distintivo, prego. Girandomi verso il bancone ebbi conferma della mia intuizione.
‹‹ Oh, signor Jackman, non è assolutamente come crede, io... ››
‹‹ Sono sicuro. Dissolviti, va b- ››
Una serie di urla pensarono a coprire il resto della frase di Jackman. Ci voltammo tutti nella direzione dalla quale sembravano provenire, e dopo qualche frenetico secondo passato a sondare l’orizzonte realizzai che, a momenti alterni, una testa piccolina emergeva tra le onde agitate, a qualche metro di distanza dalla spiaggia. L’attimo dopo una seconda voce entrò nelle nostre orecchie, anch’essa gridando, con un’urgenza in più.
‹‹ La mia bambina! La mia bambina, oh, per favore! ››
Ero lì mezzo paralizzato, incapace di prendere una decisione. Perché una rapida panoramica mi aveva rilevato che nessun altro si sarebbe buttato in acqua. La spiaggia era pressoché deserta, il tempo quella mattina era nuvoloso e l’oceano particolarmente agitato (cosa che in serata avrebbe richiamato parecchi intrepidi surfisti, se non avesse piovuto). Oltre a noi c’era soltanto qualche anziano che ne aveva approfittato per godersi una giornata senza che il sole estivo gli friggesse il cervello, e ovviamente Hugh Jackman. Ma lui era automaticamente scartato, per via del ginocchio ko che l’aveva costretto a ritirarsi dal cavalcare la tavola da surf. E Jamie non sapeva nuotare.
‹‹ Robert, muoviti! ››
La sua voce mi trasse via dai miei pensieri, all’improvviso.
‹‹ C-Cosa...? ››
‹‹ Valla a salvare, idiota! ››
‹‹ Io... Io non... ››
Uno scappellotto pari ad un mattone si andò ad infrangere contro la mia nuca, lasciandomi spiazzato per qualche secondo prima di riflettere da chi fosse partito.
‹‹ MUOVITI, CAZZO! ››
I minuti che seguirono furono confusi e disordinati. Come se Jamie avesse premuto chissà quale pulsante rivelatore nel mio cervello, presi a svestirmi quanto più velocemente potevo e poi corsi all’impazzata incontro alle onde, tuffandomi non appena i miei piedi toccarono l’acqua resa fredda dal cielo coperto e cominciando a nuotare seguendo le urla più acute. Quando finalmente arrivai a toccare la bambina ero a corto di fiato, sia per via della temperatura sia perché nel frattempo le onde l’avevano portata più lontano ancora, al punto che, afferratola per la vita e preso a nuotare nuovamente verso la riva, più volte pensai che non ce l’avrei fatta. Immaginai i titoli dei giornali della sera piangere per la scomparsa di una “bimba troppo innocente per un simile destino” e di un ragazzino “nel fiore dei suoi anni”. Vidi il mio funerale pieno di gente cui in realtà non era mai fregato niente di me e mia madre piangere intorno alla fossa dove stavano calando la mia bara, tenendo mia sorella tra le proprie braccia e appoggiandosi a mio padre, imperterrito nella sua divisa da ex ufficiale dell’esercito. E vidi Jamie, che guardava fisso il pavimento, pieno di sensi di colpa.
Feci finanche in tempo a guardare la mia tomba scendere piano dentro la fossa prima di accorgermi che no, non sarei morto, in effetti, dato che avevo appena toccato di nuovo il bagnasciuga.
Gettai fuori un paio di colpi di tosse e lasciai andare la bambina, che immediatamente venne avvolta dalle braccia tremanti di sua madre prima e da un asciugamano immenso poi, mentre una piccola folla di bagnanti formava un cerchio intorno a loro. Mi stesi a braccia aperte continuando a cercare di riprendere fiato e subito il volto di Jamie apparve sopra di me, un sorriso a trecentosessanta gradi dipinto da parte a parte.
‹‹ Sei stato fantastico, Milkshake! ››
‹‹ Ho visto il mio funerale... ››
‹‹ Melodrammatico. Tipico tuo. ››
E mio malgrado gli sorrisi, scuotendo la testa. Era più forte di me.
‹‹ No, sul serio. C’era un sacco di gente e mia madre era lì che piangeva. Oh, c’eri anche tu. Tutto mogio in un angolo. ››
‹‹ È logico, avevo appena perso il mio Milkshake preferito, come potevo non essere distrutto? ››
‹‹ Be’, non me l’aspettavo. Non da te, almeno. ››
‹‹ Non ti preoccupare, era solo un’immaginazione. Sei vivo, no? E... ›› aggiunse, gettando uno sguardo più in là, dove c’era il capannello di gente ‹‹ suggerirei una ritirata immediata, se non vuoi finire circondato da quella stessa gente che stava al tuo pseudo funerale. ››
Seguii la direzione verso la quale stava guardando e soppressi un piccolo spasmo, annuendo e balzando immediatamente a sedere prima, e poi in piedi.
‹‹ Sì, andiamo via. ››

Il resto della giornata lo trascorremmo nella casetta sull’albero del giardino di Jamie, approfittando del fatto che entrambi i suoi genitori erano al lavoro per stare lì a leggere fumetti. Erano battisti vecchissimo stampo, e non vedevano di buon occhio qualunque forma di svago diversa dai canti religiosi, men che mai i fumetti, che vedevano soltanto come “strumento di deviazione eterna dalle strade del Signore”. Ragion per cui Jamie era costretto a tenere le sue copie nascoste sotto il pavimento, grazie ad una lastra di legno mobile che avevamo scoperto un giorno per puro caso.
Poi ad un tratto la sveglia suonò e, giratomi a guardare il mio amico, un’espressione più che perplessa in volto, assistetti al nascere di quel suo mezzo ghigno che purtroppo troppo bene avevo imparato a conoscere. Guai all’orizzonte, potevo prevederlo.
‹‹ È ora. ›› fu la sua secca risposta di fronte alla mia espressione interrogativa, e senza attendere oltre mi prese per mano e mi guidò giù per strada, una certa eccitazione mista ad impazienza dettava i suoi movimenti.
‹‹ Jamie, sta piovendo! ›› lo interruppi, nella vana speranza che sarebbe stato sufficiente.
Ovviamente non lo fu.
‹‹ Lo so, ho visto. Non vuoi l’ombrello, giusto? Tu hai paura degli ombrelli! ››
Corretto anche questo.
‹‹ No, è solo che... Mi vuoi dire dove cazzo stiamo andando sotto la pioggia? In caso non te lo ricordassi, ho già fatto un bagno oggi, direi che è abbastanza per un singolo giorno come questo... ››
‹‹ Dài, non rompere sempre le palle, abbiamo un appuntamento! ››
‹‹ Un appuntamento. ››
‹‹ Esatto! E farai il bravo e mi ci accompagnerai, devi per forza, ne sarai eccitato anche tu. ››
‹‹ Sono carine almeno? ››
Mi gettò un’occhiata significativa e intimidatoria allo stesso tempo, ed io optai per assecondarlo come sempre, conscio che non me ne sarei liberato comunque.
Percorremmo la città lungo Main Street fino a quando questa non prendeva il nome di Atlantic Avenue, diventando la freeway 71, proprio sul limitare dei confini della città. La pioggia non accennava a cadere e con l’incedere della sera stava facendo salire un’umidità quasi intollerabile, che sentivo addosso un po’ dappertutto e che mi rendeva la pelle insopportabilmente appiccicosa.
‹‹ Jamie, dove cavolo stiamo andando? ›› gli chiesi infine, il livello di sopportazione al massimo tollerabile.
‹‹ Ci siamo, Robbie, smettila di lamentarti. L’appuntamento è... ›› sospese la frase, accelerando il passo ancor di più e prendendomi per il polso, girando l’angolo e fermandosi poi all’improvviso ‹‹ qui. ››
Fece un segno con la testa ad indicare una macchina spenta pochi metri avanti a noi, che riconobbi qualche secondo più tardi come una vecchia, stupenda Dodge del ’59, modello Coronet D-500.
‹‹ Wow... ›› disse la mia bocca per me, strappandomi una esclamazione meravigliata e di pura adorazione che avrei tanto voluto tener nascosta a Jamie, almeno per provare a rimanere scocciato con lui per tutta quella strada a piedi. Ma non avrei mai potuto, non di fronte ad un simile spettacolo. ‹‹ Cazzo, Jamie, potevi dirmelo che l’appuntamento era con questa gran figa... ››
‹‹ Guarda meglio, Milkshake... ›› ridacchiò per risposta, spostando il mio mento di qualche centimetro a destra, verso il cofano dell’auto.
Fu allora che lo vidi.
Seduto sul cofano della Dodge, i piedi scalzi, una bottiglia di birra alle labbra, bagnato dalla pioggia fine e umida di una sera di inizio Giugno ’69.




CORNER'S AUTHOR: Ebbene sì, eccomi di nuovo qui con l'aggiornamento della spazzatura immonda che era il prologo di questa nuova AU. In caso ve lo steste chiedendo, no, non ho cambiato idea sulla qualità di ciò che scrissi. Vi chiederete dunque perchè continuare. Eh, bella domanda. Onestamente manco lo so, forse è che l'idea in sè mi piace troppo, essendo cresciuta con questo ambiente qui (no, non sono nata nel New Jersey - magari! -, figuriamoci ad Asbury Park - sarebbe stato un sogno! - ... però è da quando ho 17 anni che respiro quest'aria e ho trovato tantissime analogie con il posto in cui sono nata e vissuta - ahimè - per non restarne affascinata all'inverosimile - ma di questo a voi frega niente, vabbè), o forse è che ascoltando certe canzoni di Springsteen (che - non l'ho scritto finora ma devo rimediare subito - fa da colonna sonora a tutta questa AU) continuavo ad immaginarmi sviluppi alla storia, fatto sta che alla fine sono capitolata e mio malgrado (e con grande fatica) l'ho plottata tutta... o quasi. Perché sì, c'è ancora qualche capitolo con dei punti interrogativi come descrizione. Uno è questo (e si vede). A conti fatti è inutile, e scritto anche male. Soprattutto la prima parte, c'ho messo una vita ad andare avanti. E' che mi serviva tentare di approfondire il rapporto di Rob con Jamie, quanto importante sia per lui, e soprattutto introdurre certe tematiche che torneranno in seguito.
Ma la cosa migliore è come m'è venuto in mente! Perchè sì, signore e signori, dovete sapere che l'ho sognato. Stanotte. O_o Ovviamente nel sogno non c'erano Jamie e Rob, c'ero io (nei panni di Rob, surprise surprise -.-), ma Hugh Jackman sì, ed ecco spiegato la sua misteriosa comparsa in una fic in cui non c'entra un beneamato cazzo niente. So che è esperto di surf, e tutto il resto del mio sogno era fattibile come capitolo, e insomma, in mancanza di una ispirazione migliore l'ho messo nella sua totalità. Cercate di perdonarmi, se potete T_____T

Passando a darvi un po' di info varie, avrete forse notato che Jamie non parla proprio perfettamente, soprattutto sintatticamente. E' un effetto voluto ovviamente, nel tentativo di rendere almeno in parte la differenza di tono/accento/costruzione tipica dello slang nero. Tra l'altro, la questione della lingua mi ha fatto un po' lottare con me stessa, ero indecisa infatti se scrivere completamente in italiano o tenere i dialoghi in inglese come mio solito. Alla fine ho scelto la prima opzione, in nome di una certa unità di lettura e comprensione, trattandosi di una AU long basata su capitoli facenti parte di un tutto unico. Ovviamente si perdono certi scambi basati sul doppio senso di genere, ma pazienza, credo sia meglio così.
Anche il discorso sull'edilizia non è campato per aria (per quanto lo possa sembrare LOL), è vero che la costituzione delle cittadine sulla East Coast ha seguito questi dettami, ho tagliato un po' sui dettagli per non rendere troppo pedante il tutto ma insomma, se doveste mai capitare in quelle zone lì il tutto è constatabile anche ad un occhio non esperto.
Qualche info sui personaggi. Facendola brevissima, Rob, Jude e Jamie sono tutti della stessa età, mentre Hugh è sulla trentina. La sorella di Rob è più piccola ed ha circa quindici anni.
Riguardo la macchina, potete ammirarla qui in tutto il suo splendore. Questa fic è molto "maschile" per certi versi, per le tematiche di cui tratta, per il mondo in cui è ambientata, per il punto di vista dei personaggi. Non so che farci. Cioè, onestamente, a me queste cose piacciono un sacco, e togliendole la storie perderebbe quella caratteristica per la quale la sto scrivendo. Perciò se vi piace abbiate pazienza, e sorbitevi queste breve parentesi di mondo macho di tanto in tanto (anche perchè, diciamola tutta. Provate ad immaginare Jude tipo così su una macchina del genere... non è la perfezione pura? *O*)
Avrete notato la foto alla fine del capitolo. Dopo un breve consulto ho deciso di metterne una alla fine di ogni chap, giusto per aiutarvi ad inquadrare il setting, ché mi rendo conto risulta sconosciuto alla maggior parte (se non tutti) di voi.
Oh, ultima cosa prima di lasciarvi in pace. Le lyrics che danno il nome al capitolo sono prese dall'orgasmo uditivo costituito da una canzone intitolata Jungleland (che io non riuscirò mai più ad ascoltare probabilmente ma vabbè, questo non c'entra con noi T_______T). Non è rilevante ai fini della AU, ma ecco, ci tenevo a passarvi il link, mi sembrava giusto.

Bene, direi che con questo ho finito. Alla prossima, se volete continuare a seguire.

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Capitolo 3
*** He'll Look At You And Smile, And His Eyes Will Say He's Got A Secret Garden Where Everything Will Always Stay A Million Miles Away ***


Rimasi lì immobile per una manciata di secondi, come colpito da un fulmine o da un raggio paralizzante o dio solo sa cosa. Non sapevo perché, ma era come se mi fosse impossibile distrarre lo sguardo da quell’immagine. Sapeva di iconico, di poetico, di liberatorio. Sapeva di strada. E non era solamente il suo corpo, o il suo viso, o un qualsiasi tratto fisico che la sua presenza poteva suggerire – buio com’era riuscivo a malapena a definire la sua ombra dal resto delle cose circostanti, e solo grazie ad un lampione poco distante che toccava con la sua luce arancione opaco il copertone di una delle ruote posteriori. No, era l’intero quadro armonico che si dipanava proprio lì davanti ai miei occhi. L’intero mio concetto di arte di fronte a me.
E lui se ne stava lì, quasi immobile, a bere birra. Sotto la pioggia incessante.
Un’idiota.
Il mio subconscio mi svegliò all’improvviso, e rinsavendo da quella specie di sogno ad occhi aperti che stavo facendo riuscii a cogliere di sfuggita il leggero ghigno di Jamie rivolto nella mia direzione. Sospirai piano e rinunciai perfino a dire qualcosa, non già perché non sarebbe servito a nulla, ma più che altro perché avrebbe avuto ragione comunque. Mi ero completamente incantato a guardare quel ragazzo, e avevo dimenticato qualsiasi cosa riguardante tutto il resto. E quel ragazzo, mi stava ora suggerendo una vocina sottile sogghignante nel mio cervello, era proprio il tipo il cui arrivo Jamie andava ventilando ormai da più di un mese. Il tipo che io avevo cominciato a prendere per il culo a prescindere, ancora prima di conoscerlo. Così, per partito preso. Perché il mio migliore amico ne parlava così tanto e così bene da mettermi in allarme. Codice rosso, lo stiamo perdendo. O qualcosa del genere.
Spazzai via quei pensieri e seguii reclutante Jamie, che nel frattempo aveva coperto i pochi metri che ci separavano dal mio quadro vivente e già abbracciava uno dei suoi componenti. Sospirai piano, distogliendo lo sguardo per tentare di farmi passare quella orribile sensazione di stretta al fegato e cominciai a concentrarmi sulle gocce di pioggia che più che altro somigliavano a stanghette, tentando allo stesso tempo di assorbire qualsiasi suono esterno mi permettesse di non udire la conversazione che quei due stavano avendo vicino a me.
Ma lo sforzo durò poco, e una stretta al braccio mi anticipò che stavo sul punto di essere introdotto al nuovo arrivato. E infatti.
‹‹ Oh Jude, amico, questo è il mio milkshake preferito, Robbie. Robbie, questo è Jude. ››
Tornai in questo mondo e feci in tempo ad incontrare il nuovo paio di occhi che avevo davanti prima che il loro proprietario mi rivolgesse la parola per la prima volta.
‹‹ Che razza di nome è Robbie? ››
Rimasi a guardarlo per qualche secondo, cercando di interpretare ciò che mi aveva appena detto. Come temevo dal momento in cui Jamie mi aveva rivelato che era inglese, non avevo capito molto, le parole perfette e strette che erano state pronunciate suonavano estranee al mio orecchio, come appartenessero ad un’altra lingua.
‹‹ Non... lo è, infatti. È un... soprannome. Sa...i, quelle cose che... Voi lo dite, vero? Soprannome, dico... ››
Cominciai a spostare lo sguardo intorno al suo viso, come faccio di solito quando mi accorgo di starmi impappinando con le parole, e dentro di me presi a maledire Jamie, che pur sapeva di questa mia peculiare... caratteristica. Peraltro la stessa vocina di prima mi suggerii velatamente che il tipo aveva usato un tono fortemente ironico.
‹‹ Sì, è logico. È un tuo soprannome. Lo capisco. ››
Sentii l’ombra di un sorriso questa volta, e i miei occhi tornarono a fermarsi sui suoi. Non riuscivo a distinguere di che colore fossero, il buio aveva la meglio sulla mia vista. Ma ne ebbi una strana sensazione, come di scossa, e rimasi interdetto per un pugno di secondi, prima di rispondere.‹‹ Ecco. Io... err, sono Robert. ›› tentennai, passandomi il pollice sulle altre dita, nervosamente, chiedendomi se avessi dovuto stringergli la mano. Ché di abbracciarlo non se ne parlava nemmeno.
‹‹ È un piacere, Robert. Jamie mi ha parlato... diciamo abbondantemente di te. ››
Spostai lo sguardo sul mio compagno e lo trovai a sghignazzare.
‹‹ Logico, sei il mio migliore amico, non dovevo? ››
No, non dovevi, Jamie.
‹‹ Be’, che ne so, io... ››
Io odio trovarmi in queste situazioni, odio fare nuove ami- conoscenze così di punto in bianco, soprattutto odio gli in-
‹‹ Non ti preoccupare, Robert, se ti può consolare, sappi che ha detto solo cose buone su di te... ››
Perché mi dovrebbe consolare?
‹‹ Ha dimenticato di dirti tutto il resto allora. ››
‹‹ Cosa--? ››
‹‹ Non dargli retta, Jude, sta sempre sulla difensiva quando-- ››
‹‹ Non sto sulla difensiva, è che tu monti castelli in aria che poi io devo buttar giù! ››
Avevo appena finito di parlare quando una mano – bianca – si appoggiò piano sul mio braccio. Mi voltai a guardarla e rimasi in quella posizione per un paio di secondi, prima di proseguire con lo sguardo ed incontrare di nuovo gli occhi dell’inglese, sulla cui faccia si dipinse un mezzo sorriso, storto e di indefinibile espressione. Mi chiesi cosa diavolo volesse, o volesse dire, ma tutto ciò che ricevetti in cambio fu una semplice scrollata di spalle e un leggero cenno di... intesa?
‹‹ Tranquillo, Robert... ›› attaccò poi ‹‹ Non sono il tipo che si lascia condizionare da quel che sente in giro... ›› fece una pausa, e mi sembrò di cogliere l’accenno di un sospiro. ‹‹ Voglio dire, sono informazioni filtrate, giusto? Chi può dire se sono vere o no? E crederci... la maggior parte delle volte mette nei guai, se sai cosa voglio dire. Perciò ecco come la vedo io: starò da queste parti per un po’, uscirò con Jamie qualche volta, magari vuoi venire insieme a noi, mi ha detto che state molto insieme, non voglio rubartelo mica, tranquillo. Insomma, fai un po’ come ti pare. ››
Lo guardai, indeciso se scoppiargli a ridere in faccia od ignorarlo semplicemente. Quel tipo sbucato fuori da chissà dove arrivava e cominciava a dire lui cosa potevo o non potevo fare. Sembrava avesse già programmato tutta la nostra estate, e per qualche secondo mi vidi distintamente trascorrere lunghi ed interminabili pomeriggi da solo in camera mia, con mia madre che ogni tanto faceva capolino per dirmi di uscire di casa e mio padre che puntualmente, come tornava a casa, si metteva ad inveire contro di me, dandomi al solito dello scriteriato e del buono a nulla. No, il Signorino Inglese non aveva capito un cazzo di come andavano le cose qui.
Feci per aprir bocca ma Jamie sfortunatamente mi precedette, mollandomi una sotterranea gomitata nel costato, che mi privò dell’aria necessaria ad emettere qualsivoglia suono.
‹‹ Sai Robbie, secondo me vi troverete d’accordissimo, così usciremo tutti e tre insieme e passeremo una grandissima estate, sono sicuro! Insomma guardaci, rimorchieremo anche un sacco! ››
Mi voltai a guardarlo, più scettico che mai dopo l’ultima affermazione. A parte il fatto che eravamo di tre etnie completamente diverse, nessuno ci avrebbe dato un soldo all’apparenza. Un nero, un inglese e un miscuglio bastardo di dubbio charme. Al massimo saremmo passati alla storia come I Tre Freaks.
‹‹ Rimorchieremo. ›› mi limitai a sottolineare a voce alta ‹‹ Certo, come no. L’ultima volta che l’hai detto sono rimasto con i pantaloni slacciati sotto il boardwalk. E sei stato tu a trovarmi. ››
‹‹ Cos’è questa storia? ››
‹‹ Err- Lascia perdere, Jude, un semplice errore di calcolo... ››
‹‹ Pensava di convincerle a darcela perché avevamo una band. Altro che errore di calcolo. ››
‹‹ Avete una band? ››
‹‹ No, ovviamente. Siamo a corto di grana, per dire il minimo. E comunque era solo una scusa, e loro lo scoprirono, e pensarono bene di farci uno scherzetto niente male. ››
‹‹ Uno scherzetto? ›› ridacchiò, e per la prima volta lo guardai sul serio, senza pensare che fosse Inglese o cosa. Era un ragazzo come me, in fondo, forse anche mio coetaneo. Poteva essere un altro sbandato senza meta, un’altra pietra rotolante senza indicazione su come andare a casa, come cantava quel singolo di Bob Dylan uscito qualche anno prima. Poteva essere un altro come me, come Jamie.
Scambiai un’occhiata divertita con il mio amico e mi strinsi nelle spalle, stropicciandomi gli occhi per liberarli dalle gocce di pioggia che ancora continuavano a cadere, ininterrotte. Jude parve notare il nostro sguardo complice, e si fece nuovamente sotto.
‹‹ Oh, andiamo, ditemi! Ora sono curioso! ››
‹‹ Nah, magari un’altra volta. Sappi solo che... be’, eravamo bendati. ››
‹‹ Bendati!? ››
‹‹ Ah-ha. Non chiedere. ››
E questa volta fu lui che mi guardò, credo vedendomi per la prima volta. Mi rivolse un mezzo ghigno che poteva essere complice e annuì.
‹‹ Prima o poi me lo direte. ››
‹‹ Forse. Se te lo meriterai. ››
‹‹ E cosa dovrei fare per meritarmelo? Sentiamo... ››
‹‹ Dai tempo al tempo, Inglese. ››
Restò per qualche secondo immobile, come se qualcuno gli avesse lanciato un incantesimo di sorta, ed io mi accorsi solo allora di non essermi controllato, di aver lasciato libero il mio subconscio di parlare. L’avevo chiamato “Inglese”. Tutto il mio odio represso misto ad un disgusto ormai più forte di me erano venuti fuori in quel momento, e la mia parte razionale si era presa una pausa caffè nel frattempo.
‹‹ Quindi è questo il tuo... problema. È che sono Inglese. ››
‹‹ Chi ha detto che ho un problema? ››
‹‹ Oh, andiamo. Mi stai squadrando da capo a piedi da quando mi hai visto, praticamente. ››
‹‹ È una tua impressione. ››
‹‹ Sì, certo, come no... ››
Vagabondo, per favore, dove sei? Ho bisogno di te, su, vieni qui...
‹‹ Pensala come ti pare. ››
‹‹ Che ti hanno fatto gli Inglesi? ››
Se non la pianti ti ammazzo.
‹‹ Niente. ››
‹‹ Dài, su, sono solo curioso, dimmi. ››
No, sul serio, piantala.
‹‹ T’ho detto niente. È niente. ››
‹‹ Oppure non vuoi dirmelo. ››
Giusta deduzione. Degna di un perfetto inglese.
‹‹ Già, può essere. ››
‹‹ Così mi lasci ad immaginare le cose peggiori però! ›› ridacchiò ancora, e il suo suono riecheggiò troppo alto nel mio cervello. Guardai Jamie che capì al volo, e si intromise nel discorso, probabilmente salvandomi da una rissa nel cuore della notte.
‹‹ Oh, fossi in te non ci spenderei nemmeno un altro pensiero su, Jude. Non è niente di lontanamente patriottico, o politico, o idealista. Robb- ››
‹‹ Quindi dev’essere affettivo. ››
‹‹ ... Robbie non è quel tipo di persona là. ›› si affrettò a concludere il mio amico, ma ormai era troppo tardi, e le sue parole si persero nel suono massiccio del mio pugno che cercava di colpire una parte qualsiasi del corpo della persona che mi stava davanti. E che, inevitabilmente, non c’entrò minimamente il bersaglio, ma si limitò ad infrangersi contro il paraurti della Dodge, provocandomi un dolore lancinante in tutto il braccio e facendomi diventare gli occhi pulsanti per le lacrime che cercavo di trattenere. Checché ne dicessi a voce alta, la mia ferita non si era ancora chiusa.
‹‹ La macchina! Pezzo di idiota, fa’ attenzione! Mio padre mi fa gonfio se scopre che l’ho presa! ››
L’insulto giunse ovattato alle mie orecchie, e il mio cervello ormai totalmente dominato da Robert non lo colse neanche, talmente era perso nei meandri dell’autocommiserazione e della rabbia non contro quel tipo, ma contro me stesso. La mia illusione di esserne fuori si stava velocemente disgregando davanti ai miei occhi, e portava con sé un dolore sordo che poteva solamente essere gridato. Mi nascosi ai loro sguardi e deglutii un paio di volte, cercando di tenere lontano dalla mia testa quella cazzo di vocina che mi diceva che sì, era tornata finalmente. Che non l’avevo mai neanche lontanamente sconfitta, solo mascherata, una volta di più. E quel pugno che aveva colpito una delle cose che più amavo al mondo ne era solo la plateale dimostrazione. La dimostrazione di quanto fos-
Fermati qui, Robert. Non è il momento. Vai a casa prima.
‹‹ Robbie? ›› la sua voce mi sussurrò all’orecchio, accompagnata dalla sua mano che mi strinse la spalla, facendomi rabbrividire e realizzare solo in quel momento che eravamo ancora sotto la pioggia. Da quando avevo cominciato a parlare non ci avevo più fatto minimamente caso. ‹‹ Cosa c’è, di nuovo...? ››
Scossi la testa e sospirai, girandomi di nuovo verso di loro.
‹‹ No, tranquillo, sto bene. ›› forzai un sorriso verso di lui e guardai l’Inglese, per un attimo dimenticandomi il suo nome. ‹‹ Scusami... Jude, io... non volevo colpire la tua macchina... né te, se è per questo. ›› sospirai, cercando di calmarmi quel poco che bastava a non impappinarmi sulle parole. ‹‹ È stato solo un momento di idiozia, non è mia abitudine cominciare risse... ››
‹‹ Anche perché come tiratore fa schifo, nel caso tu non l’abbia notato... ›› mi fece eco Jamie, sghignazzando e strappandomi un mezzo sorriso.
‹‹ ... Già. Infatti le prendo sempre. ››
Jude lasciò che il silenzio riempisse qualche secondo, fissando di nuovo i suoi occhi nei miei, prima di annuire piano e aprirsi a sua volta in un ghigno leggero.
‹‹ Non ti preoccupare, è stata anche colpa mia. ›› rispose, e per la seconda volta riconobbi un guizzo strano e incomprensibile nel suo sguardo. ‹‹ Non è mia abitudine provocare la gente in questo modo. È stato un momento di pazzia da parte di entrambi mi sa. ››
Pazzia...
‹‹ Eh, mi sa che hai ragione, sì. ›› gli consentii, sospirando e guardando Jamie, che mi sorrise di nuovo, soddisfatto ora, e cinse le spalle di entrambi in un abbraccio bagnato.
‹‹ Oh ragazzi, bravi, così vi voglio! ››
‹‹ Ehi, avevi promesso, Jamie: niente abbracci. ›› lo ammonì Jude, scostando il suo braccio da sé.
Pensai che la cosa avrebbe infastidito Jamie, ma lui si limitò ad un’espressione sarcastica prima di sciogliere l’adunata.
‹‹ Sei un rompipalle, Jude. Su questo il mio Robbie ha ragione: Inglesi, tsk. ››
‹‹ Si chiama spazio personale. Cosa che voi sembrate proprio non conoscere, da questa parte dell’Oceano. ››
‹‹ Scusaci se siamo espansivi. ››
‹‹ Non mi piacciono queste dimostrazioni d’affetto così plateali e gratuite, tutto qui. ››
‹‹ Non era gratuita! Era un bel momento, andava festeggiato. ››
‹‹ Hollywood... ›› replicò Jude, mettendo di fatto fine alla discussione sull’argomento, perché dopo un paio di secondi di scambio di sguardi, tutti e tre scoppiammo a ridere, e non fummo capaci di dire altro.
Mentre camminavo da solo verso casa, qualche minuto dopo essermi congedato da Jamie, mi sorpresi  a ripensare a quanto era appena accaduto. C’era qualcosa, nell’intero incontro, che continuava inevitabilmente a sfuggirmi, ed era una sensazione che sopportavo male e poco volentieri. Ripercorsi mentalmente tutto quello che era successo, ogni parola detta a proposito di qualsiasi argomento, ma non servì a molto, perché sembravo non approdare a nulla. Provai con la macchina, magari c’era un adesivo appiccicato in un punto particolare sul quale mi ero soffermato solo per caso. Provai con il mio misero e fallito tentativo di mollare un pugno decente, forse c’era una ragione per quel gesto che mi era sfuggita. Inevitabilmente provai con me stesso, alle cose che avevo detto e perché le avevo dette, alla mia stupidità e alla mia totale incapacità di essere come tutti gli altri esseri viventi, che non finivano con un tentativo di rissa alle due di notte sotto la pioggia solo per esser stati punti un po’ sul vivo. Provai con Jamie e con la sua relazione con Jude, provai a vedere se avevo perso qualche dettaglio della loro conversazione, provai con le insegne che c’erano in quello spiazzo dove ci eravamo fermati, provai tutto quello che mi venne in mente ma fu inutile, non riuscivo a venirne a capo.
Quando arrivai finalmente a casa presi un bel respiro prima di tentare ogni manovra di ingresso. Come al solito trovai la porta davanti chiusa, mio padre la bloccava inevitabilmente dopo le undici, deciso a far rispettare l’ordine e la disciplina, e ovviamente non si sognava neanche lontanamente di darmi le chiavi, perché ero il solo e unico a cui ordine e disciplina dovessero essere impartiti. Mia sorella, più piccola di me di qualche anno, già le aveva da tempo. Ché di lei ci si poteva fidare.
Feci il giro e provai con la porta sul retro, tirando un sospiro di sollievo constatando che mia madre si era ricordata di lasciarmela aperta; dentro era tutto buio e silenzioso, ma l’esperienza mi insegnava a non dare niente per scontato, e soprattutto a non cantare vittoria troppo presto. Per salire di sopra dovevo passare davanti al salotto, ed era lì che si annidavano sovente i pericoli maggiori, nascosi nell’oscurità.
Ma quella notte fui fortunato, perché tutto filò liscio e riuscii a raggiungere la mia camera senza problemi, chiudendomi la porta alle spalle e non perdendo neanche un attimo prima di togliermi i vestiti di dosso e infilarmi nel letto, indossando i miei pantaloncini vecchi e rattoppati e la mia maglietta slabbrata. Rimasi in attento ascolto per qualche minuto ancora, pronto a captare qualsiasi suono, anche minimo, prima di lasciare andare un sospiro e voltarmi piano verso la finestra vicino al letto, evitando di farne scricchiolare le molle. Quand’ero piccolo mia madre mi aveva imparato a pregare Gesù guardando il cielo, e per questo, d’estate, lasciava sempre aperti i vetri di questa stessa finestra, perché io imparassi a farlo da solo, ogni volta che calava la sera. E anche se a quel punto della mia vita avevo già smesso da un po’ di riporre le mie speranze in un’entità superiore, a prescindere da come gli uomini la chiamassero nel mondo, mi era rimasta quell’abitudine del guardare verso il cielo nero e macchiato di stelle prima di addormentarmi, lasciando libera la mia mente di vagare, ora che non poteva far del male a nessuno tranne me.
E fu dopo solo qualche secondo di naufragio che la risposta che stavo cercando da quando avevo salutato Jamie si presentò finalmente al mio cospetto.
Quel particolare che avevo inutilmente cercato fino ad allora mi balenò davanti agli occhi, letteralmente.
Perché era stato proprio lo sguardo di Jude a lasciarmi interdetto.
Sempre controllato, tranne in due occasioni.
Quando avevo inconsciamente colto quel cambiamento, repentino e brevissimo.
Quella luce incontrollata che aveva fatto brillare i suoi occhi per un paio di secondi appena.
La luce dell’irrequietezza.
 

AUTHOR'S CORNER: Per la serie "Chi non muore si rivede" vi presentiamo oggi il secondo capitolo di questa immane stronzata. Dio, i problemi di questo capitolo, voi non avete idea (o forse sì, visto che vi sarete resi conto che fa schifo). Anyway! Stamattina ho deciso di approfittare del fatto che both mio padre e mio fratello sono fuori tutto il giorno per mettermi sotto e finire di scriverlo, una buona volta. Stranamente ce l'ho fatta, ancor più stranamente anche in una porzione di tempo relativamente ridotta (ciò non toglie che faccia schifo uguale, ma vabbè).
Vediamo un po', ci sono precisazioni da fare? *riflette* Ah sì, una mooooolto importante (non vi dico). Vi sarete forse chiesti chi sia Vagabondo, la seconda personalità di Rob che gli fa da controvoce ogni tanto. Bene, trattasi dell'omonimo personaggio del film Disney Lilly E Il Vagabondo, che attenzione, non è un caso. A parte che se lo (ri)vedete vi accorgerete che da come ne parlano gli altri cani un po' Rob lo è. Ma tralasciando questa scemenza, il film uscì nelle sale Americane nel giugno del 1955, e non so se vi siete fatti due calcoli (probabilmente no), ma questo Rob è classe 1949 (IL CASO! lol), vale a dire che Rob l'ha visto che aveva sei anni, che è più o meno l'età intorno alla quale i bambini si trovano il loro amichetto immaginario (che in teoria dovrebbe sparire con la crescita, ma qualcuno *cough cough* come si può notare ce l'ha ancora). Insomma, ho fatto un paio di conti basati sulla mia esperienza ed è uscita fuori 'sta cosa scema.
Devo dirvi altro? Sì. Questo è l'ultimo capitolo che posto qui. In generale, non mi vedrete più da queste parti. Troppo infantilismo, troppe bambine che pretendono di saper scrivere quando invece non sanno neanche mettere la punteggiatura (per non dire di peggio). Dato che per me non è un semplice hobby, è qualcosa di più serio, ho deciso di levare le tende. Vorrei dire che è stato un piacere, ma è una mezza stronzata, per cui mi limiterò a segnalarvi il mio lj per ogni aggiornamento.
See you there, if you want.

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