Lusinghe d’ombra.

di dreamer_is
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Se. ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo. Terzo condizionale: trapassato. ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo. Nubi viola. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto. Rosso ghiaccio. ***



Capitolo 1
*** Prologo. Se. ***


Prologo

La mia vista è annebbiata dai se.
Se mi avvicinassi, potrei salutarlo.
Se gli parlassi, potrei chiarire.
Se gli spiegassi, potrebbe capire.
Se mi capisse, potrei sfiorarlo.
Accarezzare di nuovo quei riccioli morbidi.
Liquefarmi in quegli occhi caldi.
Ma se lasciassi anche solo il mio sguardo vagar su di lui, 
potrei morire in un solo istante.
E sono troppo debole e codarda per non lasciarmi ostacolare da un simile ostacolo.
E poi sono passati troppi mesi.
Forse dovrei finirla.



 

 

Angolo autrice...
Di solito non lo aggiungo...
Ma mi sembra necessario specificare che si tratta di un ego letterario...
E mi sembra necessario aggiungere che il resto sarà più luminoso...
E che la storia è pronta, quindi non sarà incompleta e non ci saranno ritardi...
Spero di poter ricevere la vostra opinione in merito :)

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Capitolo 2
*** Capitolo primo. Terzo condizionale: trapassato. ***


Terzo condizionale: trapassato.

Se non fossimo stati due idioti,
ora il mondo sarebbe tinto di un rosa meraviglioso,
quella tonalità incredibile che è al tempo stesso delicata e vivida,
pura e carnale,  
l’ossimoro di un cuore
che palpita a una semplice carezza sulla guancia
e di un volto irrorato di fragole a uno sguardo intenso.

Mi persi nei suoi occhi caldi non subito,
non lo avevo notato nemmeno quando ci avevano presentati.
In quel periodo non ci pensavo nemmeno all’amore,
ero solo dedita alla poesia,
ai sogni,
a illusioni di vite differenti,
alla perfezione.
La ricercavo in ogni cosa e, in caso di sua assenza, beh, non vi dedicavo alcuna attenzione.
La pretendevo anche da me stessa, ossessionata dal peso, dalla forma, da un aspetto che mi esasperava perché non riusciva a combaciare in ogni sua parte con il mio canone di bellezza.
Forse ero superficiale, ma non m’importava, ero convinta di perseguire uno scopo filosofico,
volevo impersonare un nuovo estetismo.
E così saltavo innumerevoli pasti, ingannavo me stessa e i miei genitori, inorridivo alla vista di qualsiasi alimento non vantasse qualità drenanti, tonificanti e simili.
Luca non era perfetto, per nulla.
Era alto, altissimo, oltre il metro e novanta. E forse avrei potuto notarlo, visto che anch’io ero piuttosto alta, sul metro e settantatré, per essere corretta.
E poi aveva una fronte ampia, spaziosa, luminosa, che anticipava i soffici ricci castani.
Il naso era dritto, quasi greco, irreprensibile.
Però…beh, mancava di portamento, di figura, mi sembrava un po’ insignificante, ad essere sincera.
E poi quegli occhi, no, non mi colpivano per niente, mi sembravano banalmente bruni.
No, non faceva per me, io miravo ad un ragazzo del quinto, faceva il modello, aveva una fama piuttosto pessima e mi ricordava Robert Pattinson. Non avevo alcuna intenzione di innamorarmi di lui, era solo colui che mi avrebbe resa perfetta, ne ero certa. Insomma un ragazzo del genere…cosa avrei mai potuto trovare di meglio?
Così, quando dovetti scegliere il vestito per la festa di una ragazza che faceva teatro con me e venni a sapere che c’era anche lui, scelsi un bel vestito per far colpo. Niente di appariscente, s’intende, era un semplice tubino nero alla Audrey Hepburn -che mi stava dannatamente bene-, un paio di scarpe con lieve tacco per evidenziare la snellezza delle mie gambe da modella e un bracciale ricco di ciondoli che trillava quando muovevo il braccio destro.
In realtà, non avevo la minima esperienza in materia -non avevo mai dato nemmeno il primo bacio- ma i miei 45 chili sembravano sufficienti come passaporto per il suo porto di mare.
Quando arrivai al locale, trovai per lo più facce sconosciute, così iniziai a girare alla ricerca del mio obiettivo. Nulla, non lo trovavo da nessuna parte…
Poi notai Luca.
In realtà, credo fosse lui che avesse notato me per prima, ma mi fece piuttosto effetto vederlo in camicia e non nella felpa con la quale si copriva quotidianamente.
E i capelli, erano di un riccio molto più curato del solito,
sembravano quasi arricciati con il ferro.
E le sue ciglia…
…erano lunghissime.
Mi sorrise, gli sorrisi a mia volta.
 Poi continuai a cercare il famoso ragazzo del quinto.
Ma quella sera non venne alla festa e io ci rimasi malissimo.
Però ballai con Luca un paio di lenti, cui non diedi affatto peso.
La mia serata continuava ad essere nera perché il mio “Beatrice”, che mi avrebbe portato nell'altro cielo dello splendore estetico, non c’era.
Sono tuttora sconvolta dalla mia stupidità.

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo. Nubi viola. ***


Scusate per quel capitolaccio…avevo postato la bozza e non quello giusto…sono una frana. U.ù
Ad ogni modo, i capitoli avranno cadenza settimanale per ora, attendo cali un po’ di stress…
Smetto di vaneggiare e vi lascio leggere…

 

Capitolo Secondo. Nubi viola.

 
 
Se potessi librarmi nel viola,
abbandonerei il mio corpo
su questo letto feroce,
riempito di acqua salata
e calde braccia,
che trattengono ciò che di visibile
resta di me.
E forse tornerei indietro.
Forse semplicemente
Volerei via.
Lontano.
Per riuscire a dimenticare te.
 
Pioveva, come oggi.
Ricordo di aver osservato sconsolata il vento violento e la pioggia, che percuotevano i vetri come se volessero sfondarli, sperando che avrebbero cessato il loro sfogo prima che uscissi di lì.
E ricordo di aver avuto un crampo di paura quando il primo fulmine squarciò il grigio nebbioso.
Erano le tre del pomeriggio e l’aula era artificialmente illuminata dalle luci al neon.
Luca chiese di poter spegnere le luci, nel suo inglese smozzicato. M’infastidì un po’ quella richiesta: avrei preferito vedere limpidamente il foglio steso davanti a me su cui si stava articolando la lettera a un ipotetico english friend.
Ma degli altri tre coraggiosi studenti venuti al corso, nessuno obiettò.
Era seduto dietro di me.
Non gradivo la compagnia altrui quando si trattava di concentrarsi sullo studio, sulla preparazione di un esame che sembrava aver assorbito ogni mia energia.
L’inglese freddo, anche un po’ tagliente, ostile …non mi sarebbe dispiaciuto essere influenzata da quella lingua, anzi, avrei tanto desiderato essere natia di quella terra piovosa, anche se odiavo l’umidità.
Improvvisamente, non ricordai come si traducesse desiderio in inglese. Ero cosciente di quanto fosse stupida come parola, consapevole di averla ascoltata anche in troppe canzoni, ma non riuscivo che a pensare ad un suono molto dolce.
Poi un frammento di carta volò sul mio banco.
Lo ignorai, fingendo di voler terminare la frase…Wish. Lo ricordai immediatamente.
Poi lo aprii, incuriosita.
“Ma come siamo calorose, oggi: la pioggia è molto più affettuosa.”
Mi punse un po’, quell’osservazione, poi appallottolai il biglietto e lo lasciai al bordo del quaderno.
Dopo aver scritto altri tre, articolati periodi, arrivò un brandello di gomma sulla mia spalla.
Lo ignorai.
Al quinto, qualcosa mi sfiorò i capelli, leggerissimo.
Un brivido mi attraversò la schiena con una potenza disarmante.
Ma lo ignorai, o finsi di farlo, e continuai la lettera.
Ma lui non lo fece.
Carezzò di nuovo i miei capelli, sciogliendo lentamente la tensione che mi aveva permesso di non interessarmi a lui fino a quel momento.
Finii la lettera con una firma leggermente tremante, poi la consegnai e uscii dall’aula, non avevo il coraggio di riprendere il mio posto. Avrei voluto insultarlo, anche se quelle carezze erano estremamente piacevoli.
Passeggiai lungo il corridoio, arrivai alla grande finestra, da cui non  riuscivo ad intravedere nulla, se non lo spesso muro di pioggia.
Dopo qualche istante udii dei passi dirigersi verso di me.
Poi la sua presenza mi oltrepassò, verso i bagni.
Sospirai di sollievo, tornai in classe, la lezione era quasi terminata.
Raccogliendo lo zaino, mi preparai mentalmente ad affrontare il viaggio di ritorno e tornare in casa completamente zuppa.
Ma non avevo considerato Luca, nei miei piani.
Uscii da scuola e lo vidi sotto un ombrello azzurro, con una sigaretta tra le dita. Mi chiesi come avesse fatto a superarmi senza che me ne fossi accorta e, sbuffando, sporsi la testa sotto la pioggia. Addio piastra accuratamente passata.
“Ma non hai un ombrello?”la sua voce giunse, un wish avverato.
“No, non qui” mi voltai, sorridendo. “Non credevo che il sole ci avrebbe abbandonati.”
Mi invitò sotto il suo, avvicinandosi, ma lo allontanai, notando il nauseante odore di tabacco sotto la plastica. Ricordai improvvisamente il ragazzo del quinto, che mi aveva deluso anche lui in quel modo, o almeno simile: aveva fumato una canna durante la ricreazione. Avevo strappato ogni verso scritto per lui.
Non meritava più l’aggettivo perfetto.
Mi guardò dubbioso, poi mi chiese se il fumo mi infastidisse. E spense la sigaretta appena accesa perché non poteva avere sulla coscienza una polmonite.
Arrossii violentemente quando avvolse il suo braccio caldo attorno le mie spalle già zuppe, quell’odore terribile, aveva già smesso di contrariarmi.
Parlammo di musica durante il tragitto verso casa mia.
Quando giungemmo al portone, il mio cuore aveva il ritmo di un rullo di tamburi, le mani che cercavano le chiavi, erano la membrana percossa. Aprii il portone e mi voltai per ringraziarlo.
Mi sorrise e poi se ne andò.
Allora mi accorsi di quanto rovente potesse essere il cioccolato.

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto. Rosso ghiaccio. ***


Capitolo quarto. Rosso ghiaccio.


Se volessi averti vicino,
Dovrei solo stendere un braccio,
Solo avanzare di un passo
Verso il soave veleno d’oblio.
Ma sono lucida ancora.
Sono reale.
Ancora.
 
Il mattino era gelido, il colore delle mie dita di un brillante amaranto.
Incredibile quanto freddo possa essere il rosso.
Eppure quello della sua sciarpa sembrava emanare tanto calore da farmi venir la voglia di chiudere le dita nella morbida lana, stringerla fino a sentire il sangue pulsare possente nelle vene. Ma non era solo rossa. Era come lui, aveva dei piccoli disegni neri ad adornarla, a renderla diversa.
Ascoltavo qualcosa di piuttosto dolce mentre passavo davanti a lui.
Non lo avrei salutato, avrei fatto finta di non conoscere nemmeno il suo naso.
Invece mi fermò lui,
con un sorriso.
E gli sorrisi anch’io.
E così fui avvolta dalla sua voce.
Poi sfilò le mani dalla giacca nera e mostrò un paio di guanti scarlatti, di pelle.
Risi di lui, pensando a quanto fossero ambigui e di dubbio gusto; il mio, sicuramente, non li approvava.
Non si offese, non si curava di conformarsi, anzi. Sembrava vivere per il gusto di contravvenire ad ogni convenzione.
Ricordo l’ironia nei suoi occhi quando prese una mia mano, la portò sulla sua guancia ma, al gelido tocco, la ritrasse subito.
E fu lui a ridere di me.
Quasi con affetto, però: con cura, sfilò il suo guanto destro e lo infilò sulla mia mano intorpidita. Così mi sarei ricordata di lui, disse.
Io non potevo accettare, però. Saremmo stati entrambi ridicoli, andando in giro con un sol guanto. Scosse il capo, mi facevo troppi problemi: strinse la sua mano nuda sulla mia.
Guardai quel singolare connubio sbalordita, poi sbuffai un sorriso guardandolo. Mi accompagnò al portone e, sulla soglia, si chinò verso di me.
Mi allontanai d’istinto, ma non se ne curò.
Le sue labbra sfiorarono il mio orecchio, mentre sussurrava: “Allora, scappi via con me?”
Sgranai gli occhi, cercando i suoi.
Eravamo vicinissimi,
tanto che le onde dei suoi capelli offuscavano tutta la luce di quel sole albino.
“Mare, salsedine, brezza…non ti ho ancora convinta?”
Mi voltai. Era evidente quanto poco mi conoscesse. Non si era mai nemmeno sentito che io avessi saltato scuola senza il consenso dei miei in quei tre anni di liceo.
M’incamminai tutta impettita verso l’entrata, avevo un orgoglio da difendere io. Quando sfiorai il corrimano, notai il guanto rosso. Che cosa ridicola.
Mi girai per restituirglielo e lo trovai camminante verso la fermata dei bus, in direzione opposta all’entrata della scuola.
Lo chiamai, ma non si fermò, così lo inseguii.
La cosa incredibile era che più acceleravo, più mi distanziava, con le gambe chilometriche che si ritrovava. Quando finalmente lo raggiunsi, si appoggiò al palo che evidenziava la fermata e mi guardò beffardo.
Gli porsi il guanto, ma non lo prese.
“Quindi ti ho persuasa.”
Sollevai le sopracciglia, convincendomi a rispondergli, anche se l’evidenza era ovvia.
Mi rise in faccia: avevano chiuso i cancelli della scuola perché erano passate le otto e venti.
Il tutto a causa sua.
Dentro di me esplose una bomba: non solo mi aveva messo nei guai, mi aveva anche oltraggiata ed umiliata. Provai un intenso bisogno di fargli del male.
“Ehi, non ti arrabbiare, non credevo avrebbero chiuso i cancelli.”
Forse aveva percepito il mio sguardo d’odio, ma cercò di avvicinarsi come per abbracciarmi. Lo fulminai e strinsi il suo dannato guanto, un ottimo antistress, a dire il vero.
“Se ti offro un cornetto, mi perdoni?” chiese con un sorriso che avrebbe sciolto qualsiasi ochetta della scuola, ma non me.
Giusto un po’ di calore all’inizio delle guance.
“Al massimo un caffè.”
Catturò di nuovo la mia mano e mi trascinò in un piccolo bar non troppo lontano. La mia rabbia era improvvisamente scemata tra le battute e i discorsi seriosi che riusciva ad alternare con tanta facilità.
Erano le nove meno cinque quando mi chiese se volessi tornare a scuola per la seconda ora o fuggire davvero al mare. Inutile attendere la risposta.
Quando mi lasciò davanti alla mia classe, stampò un bacio sulla mia guancia gelida.

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