Dal nero dei tuoi occhi

di CherryPoppins
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuovi arrivi a Bon Temps ***
Capitolo 2: *** Tanto rumore per nulla ***
Capitolo 3: *** L'unico amico ***
Capitolo 4: *** Strane Reazioni ***



Capitolo 1
*** Nuovi arrivi a Bon Temps ***


Feci le valigie perché ero stanca.

Stanca, dopo venticinque anni, che le persone non avessero dimenticato la bambina che ero. Sapevo che in quella maledetta città, la MIA maledetta città, tutti quanti avevano una fottuta paura di me, come se nell’arco della mia vita avessi mai fatto del male a qualcuno, o avessi mai usato le mie –per così dire- peculiarità per ferire o spaventare. Non l’ho mai fatto, mai, nemmeno quando l’avrebbero meritato.

L’unica colpa che potrebbero affibbiarmi è quella di non essere stata in grado di controllarmi quand’ero molto piccola; non mi rendevo conto che far camminare la bambola, all’asilo, potesse creare problemi a qualcuno. Di certo non ne creava agli altri bambini: loro ridevano, e volevano sempre giocare con me quando non c’erano i loro genitori.

Il vero problema si è creato quando lo hanno visto le insegnanti: la prima a cogliermi in flagrante durante una telecinesi svenne subito dopo aver strabuzzato gli occhi come un barbagianni, e solo il fatto che già da bambina avessi degli ottimi riflessi la salvò da una sonora craniata sul pavimento.

Sì. Telecinesi, esattamente. Sono nata così.

I miei genitori, all’inizio, supponevano che io fossi una sorta di prototipo dell’homo sapiens sapiens sapiens, il primo esemplare ad aver subito una mutazione genetica nel cammino dell’evoluzione, una specie di passo in avanti verso un futuro di uomini volanti, uomini-pesce e cose del genere.

Purtroppo però l’unica chimera del nostro presente è quella mezzo uomo e mezzo idiota, e se ricordo il modo in cui le persone mi hanno trattata quando hanno scoperto cosa ero in grado di fare, additandomi in mezzo alla strada e urlandomi che ero  “figlia di satana” e “un segno più chiaro dei vampiri che l’apocalisse è vicina”, impedendo a me e ai miei familiari qualsivoglia contatto con loro e costringendomi per tutta l’infanzia a giocare da sola, mi viene da pensare che è anche una specie piuttosto diffusa.

In ogni caso, credo che i miei si sbagliassero, non sono una mutante evoluta. Sono soltanto… strana.

C’è questa cosa che so fare, e basta. Ed è anche piuttosto utile, il più delle volte: non ho mai avuto, ad esempio, il comunissimo problema di dovermi alzare subito dopo essermi accomodata sul divano perché il telecomando è rimasto sul tavolo.

Non so come faccio, davvero. Quando voglio spostare qualcosa, mi basta guardarla ed è semplicemente come se mille manine invisibili venissero fuori dai miei occhi a realizzare le volontà del mio cervello.

Mille manine molto più forti di me, a dirla tutta: una volta ho salvato Poe, il mio cocker, da un grosso camion che stava per falciarlo davanti al vialetto di casa. L’ho sollevato come fosse una macchinina giocattolo, non dimenticherò mai la faccia del conducente, era diventato verde come una gelatina alla menta e continuava a gridare: “Mettimi giù, strega, mettimi giù, o in nome di dio ti farò bruciare su una pira!”. Un tipo molto simpatico. Ma non è stato l’unico a pensare a me come a un’ottima candidata per un remake dei roghi medievali, è un pensiero che ispiro in moltissime persone, chissà poi perché.

Ora che ci penso, avrei potuto semplicemente spostare Poe… Beh, era un momento particolare, l’adrenalina e tutto il resto, non ci sono stata a pensare più di tanto.

Quando poi venne fuori la storia dei vampiri, mi dissi che forse le cose per me sarebbero cambiate, che forse la gente avrebbe imparato a convivere con ciò che teme, che se potevano essere accettati i non-morti nella società molto probabilmente sarei stata accettata anch’io, e che se per caso le cose non fossero andate così avrei sempre potuto cercare di farmi accettare dai vampiri stessi.

Non potevo prendere granchio peggiore: a Escalante i vampiri non vanno neppure in gita, e così gli abitanti del posto continuano a far finta di ignorare la loro esistenza.

E a dirla tutta, per quello che avevo sentito, gli zannuti non si interessano agli esseri umani se non per nutrirsene o per utilizzarli come galoppini o temporanei amanti.

Orgogliosa come sono, non sarei mai potuta diventare una vampirofila: ho passato anni a cercare di convincere altre persone della mia pari dignità, sarebbe un controsenso sottomettermi a qualcun altro: io non ho mai cercato né schiavi né protettori, ma soltanto rapporti veri e sinceri.

Ho avuto una vita sociale di merda, davvero. Nemmeno un amico che fosse uno.

In una piccola cittadina dello Utah come Escalante, dove sono nata e da dove sono scappata, è rarissimo trovare qualcuno con una mentalità aperta, ed io personalmente non ho avuto questa fortuna.

Sì, perché quando sono cresciuta, ho potuto constatare che il danno ormai era fatto: nessuno era disposto a perdonare una bambina che al supermercato faceva la giocoliera con le angurie, e senza mani, anche se ormai quella bambina era diventata una ragazza consapevole che dall’età di sette anni non si era più fatta scappare, in pubblico, alcun tipo di stranezza.

Ho sperato per tanto tempo che qualcuno mi desse una chance, ma nulla da fare. Potendo, si risparmiavano anche di rivolgermi la parola.

Così alla fine ho deciso di andare a farmi una vita altrove, ho chiesto a mia madre di dirmi il primo stato che le veniva in mente, e quando ha detto Louisiana, ho preso la cartina della Louisiana e ci ho puntato sopra il dito: Bon Temps.

E Bon Temps sia, mi sono detta, tanto per me che voglio solo una vita normale una città vale l’altra.

Anche se Bon Temps è più che altro un paesino.

Quando vi arrivai, vidi che le strade erano tutte alberate,  che si trovava in piena campagna, e contai che a occhio e croce sarebbero state in totale un centinaio di case e una chiesa: mi sembrava che qualcuno avesse preso delle persone e  le avesse buttate lì in mezzo al nulla, e che queste si fossero poi evolute a creare una società moderna. O quasi.

Sembrava tutto… non saprei, non proprio vecchio, piuttosto direi vintage, rimasto bloccato agli anni Settanta.

Non che Escalante fosse una moderna metropoli, anzi, ma quel posto era diverso, era affascinante, aveva un che di scenografico, ecco, sì, scenografico, come fosse un set messo su per volere di un regista che intendesse riesumare completamente un’epoca.

Nutrivo grandi speranze di una vita normale, e tuttavia ero consapevole che non sarebbe stato affatto facile ottenerla, perché pur nascondendo a tutti le mie doti, avevo pur sempre condotto una vita da completa asociale, e non sapevo se sarei stata in grado di inserirmi nell’ambiente. La solitudine era diventata per me una specie di deformazione professionale.

Avevo pochi soldi, e ancora meno ne avrei avuti se non avessi trovato un lavoro, e consapevole che senza quello non aveva senso cercare una casa, alloggiai in una pensioncina non lontana dalla chiesa, un posto molto carino, tutto dipinto di bianco e con un ampio portico adorno di piante e fiori dai colori tenui, sul quale stavano, assieme ad un dondolo in ferro battuto, un tavolo e delle sedie di paglia. Ero davvero finita in un vecchio film.

Il proprietario era un signore sull’ottantina, dall’aria pacifica e bonaria, con liquidi occhi celesti e un gran testone quasi completamente calvo, con soltanto pochi ciuffi di capelli canuti ai lati. Entrai trascinando un paio di pensati valigie, più il mio portatile a tracolla e uno zaino sulle spalle. Ero carica come un mulo, e per di più Poe mi scorrazzava tra le gambe, scodinzolando e abbaiando come un forsennato. L’uomo mi guardò e si illuminò in volto:

-Oh, che piacere! Una bella ragazza nella mia pensione, quanto tempo che non mi succedeva di avere così tanta fortuna coi clienti!

Mi sorrideva senza lascivia, con dolcezza, come potrebbe fare un nonno con la sua nipotina, e si chinò ad accarezzare Poe, che prese allegramente a leccargli le mani.

-Ma aspetti, le do una mano, non può una ragazza essere costretta a portarsi i bagagli da sola!

-No, no, lasci stare, faccio da me.

“Amber, sei una cretina, un po’ di gentilezza, che cavolo” mi dissi. Stavo iniziando proprio bene.

-Come preferisce, signorina, ma mi spiace molto vederla sopportare tutto questo peso!

Il vecchietto continuava a sorridermi, e dentro di me tirai un sospiro di sollievo, lieta di non averne intaccato il buonumore. Forse potevo ancora partire col piede giusto.

-E’ molto gentile, la ringrazio davvero, ma non c’è bisogno, non sono così pesanti, signor…

-Che maleducato, non mi sono nemmeno presentato! Sono David Cattermole.

-Amber Trenchard, molto lieta.

Non gli dissi, ovviamente, che quelle valigie non erano pesanti perché in realtà ne stavo trascinando solo una: le altre stavano levitando, anche se ero attentissima a far sembrare che non fosse così. Ero abituata a fare certe cose, in caso di bisogno, senza farmi notare.

-Beh, signorina Trenchard…

-Mi chiami pure Amber.

-Bene, Amber, immagino tu abbia bisogno di una stanza, se sei qui!

-Beh, sì. Sono appena arrivata, e non ho un lavoro, quindi non posso cercare casa…

-Ma non dirmi che sei qui per restare!

Me lo disse come se una mia risposta affermativa potesse essere per lui un meraviglioso regalo.

-In realtà sì, signor Cattermole, ho deciso di venire a vivere qui a Bon Temps…

-Ma che meraviglia, Amber, che meraviglia! Un volto nuovo qui nella nostra piccola cittadina, e una ragazza giovane e così incredibilmente bella per di più!

Non ero abituata a ricevere complimenti, nessuno sconosciuto me ne aveva mai fatti, e così, pur sapendo che i miei lunghi capelli neri, i miei luminosi e grandi occhi e scuri e le mie forme morbide rispondevano, in un certo modo, a canoni riconosciuti di bellezza, le mie guance presero fuoco come se qualcuno le avesse usate per accendere una scatola intera di cerini.

-Oh, suvvia, non essere timida! Non c’è motivo di arrossire! Vedrai, sono certo che ti troverai benissimo!

-Lo spero molto, davvero. Per il mio cane c’è qualche problema?

-No, certo che no, ho un giardino recintato, se vuoi puoi tenerlo lì! Credo che si troverà molto bene, non pensi?

-Ehm, sì, credo di sì…

-Allora, Amber, vieni con me per di qua e ti mostro la tua stanza!

Prese una chiave d’ottone dal muro accanto alla porta e si diresse verso il corridoio. Accanto alle chiavi delle stanze vidi una balestra, con annessa freccia di legno.

-Signor Cattermole… quella è una balestra?

-Sì, certo, Amber.

Mi rispose con una naturalezza disarmante, come se nel ventunesimo secolo fosse una cosa del tutto normale tenere un casa una balestra, piuttosto che un fucile o una semiautomatica per le situazioni d’emergenza.

-E… perché la tiene qui?

Forse non era normale porre quel genere di domande a una persona che si conosce da una manciata di minuti, mi dissi. Dovevo proprio imparare a relazionarmi con gli altri, ma ormai quella me l’ero fatta scappare.

-Beh, sai, in città ci sono alcuni vampiri, si sono trasferiti qui da non molto. Non che io pensi che i vampiri siano tutti cattivi e mostruosi o che siano tutti assassini, credimi. Però… Non ci sono ancora abituato. E’ solo per stare tranquillo, cara, sono una persona dalla psiche perfettamente stabile, tranquilla!- e si mise a ridere di gusto.

E così, a Bon Temps c’erano dei vampiri. Interessante, non ne avevo mai visto uno dal vivo, chissà se sarei stata capace di distinguerli dagli umani norm… da quelli viventi, insomma.

-Eccoci qui, mia cara, che ne dici? Va bene?

E mi aprì la porta su una stanzetta davvero intima e piacevole. Le pareti erano coperte con carta da parati chiara, a piccoli fiorellini, e i mobili, un bel letto grande, un comò, un armadio e una grossa scrivania, erano di legno scuro, e la finestra dava proprio sul giardino della pensione, nel quale troneggiava una grossa quercia. Anche il piccolo bagno aveva un aspetto delicato. L’insieme era molto bello.

-E’ perfetta, davvero, la ringrazio!

-Ah, meno male, meno male! Adesso si sistemi e poi mi raggigimi di là, ti preparo un caffè.

Mi feci una doccia, misi in ordine le mie cose e quando andai in cucina era quasi sera.

Mi preparò un’ottima cena, anche se il vitto non era previsto, e volle sapere di me più o meno… tutto.

Mi rintronò di domande neanche fossi il presidente degli stati uniti ad un’intervista: che studi avevo fatto, da dove venivo, com’era la mia città, cosa facessero i miei genitori, come avessero preso la mia partenza, perché avessi deciso di andar via di casa, se volevo metter su famiglia lì… Mi aspettavo che mi chiedesse anche come si chiamavano i miei pesci rossi.

Andai a dormire stanca morta, e la mattina, quando mi alzai, decisi di fare un giro per cercare lavoro. Presi la macchina e cominciai a girare per le stradine, quando vidi un locale con una grossa insegna: Merlotte’s, diceva. Pregando che avessero bisogno di una cameriera, entrai.

L’ambiente era piuttosto rustico: mi piacque, mi fece sentire a mio agio.

Due cameriere, una sulla quarantina con lunghi capelli fiammanti e una che avrà avuto la mia età, bionda, con un’aria un po’ stralunata, correvano fra i tavoli. Sperai che avessero bisogno di una mano a lungo termine.

-Scusate, potrei parlare con il.. ehm… direttore?

La bionda mi fissò negli occhi, poi mi si avvicinò, scrutandomi.

-Tu… sei un vampiro?

Ok. Forse non era una tipa completamente sana.

-No, credo di no, io..

Sgranò gli occhi, si impettì come un pavone davanti a un rivale, drizzò la schiena e si avvicinò alla rossa, alla quale la sentii sussurrare:

-Arlene, non è normale, non riesco a sentire cosa pensa, ma non è un vampiro! Forse è meglio chiamare Eric!

Fermi tutti, come sarebbe a dire “non riesco a sentire cosa pensa”? E perché diavolo ci sarebbe dovuta riuscire? E chi era questo Eric, di cui parlava come un’autorità suprema a cui consegnarmi? Ma soprattutto, perché questo genere di stranezze doveva continuare a capitare a me?

-Scusatemi ancora, ma avrei bisogno di parlare con…

-Ho capito, col direttore! Te lo vado a chiamare! E non è un direttore, è il proprietario. Sam! Sam, c’è una strana tipa qui…-  chiamò la bionda,e andò nel retro.

Strana io, eh?

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Capitolo 2
*** Tanto rumore per nulla ***


Di quel passo, fra non molto avrei deciso che detestavo vivamente la deliziosa biondina. E non per le stranezze che stava dicendo.

Essendo io la prima a non rientrare nei comuni canoni di normalità, per quanto mi risultasse difficile credere che quella ragazza potesse leggere nel pensiero di qualcuno, ad infastidirmi era il modo in cui mi aveva trattata: nella sua voce, nel suo sguardo, nel suo atteggiamento, c’erano astio e quasi una forma di disprezzo, ma anche un accenno di… paura. Come fossi una minaccia.

Tornò dal retro con quello che dedussi essere il proprietario del locale: un tipo piazzato, non troppo alto, i capelli sale e pepe nonostante nel complesso non dimostrasse più di trentacinque anni, e un’espressione lievemente preoccupata. La biondina doveva avergli riferito che fiutava pericolo.

-Salve, sono Sam Merlotte, cosa posso fare per te?

-Ciao, sono Amber Trenchard. Mi sono trasferita qui a Bon Temps da poco e sto cercando lavoro. Mi chiedevo se magari avevate bisogno di un’altra cameriera.

Sam e la bionda si guardarono intensamente, lei lo fissò con gli occhi spalancati come per dire “no, inventati qualcosa e dille di no!”. Lui guardò me, poi lei, poi ancora me.

-Hai mai lavorato in un ristorante o in un pub?

Lavorato? E chi mai mi avrebbe assunta nella mia città? Ma non era il caso di farglielo sapere. Decisi che ero abbastanza sveglia da imparare in fretta, nessuno si sarebbe accorto della piccola bugia.

-Sì, certo, ho fatto la cameriera in un locale nella città dove vivevo, nello Utah.

I due si guardarono di nuovo, poi lui disse:

-Perché non ti siedi ad un tavolo e ne parliamo con calma? Arrivo subito.

E sparì nel retro. La bionda, ovviamente, lo seguì zampettando e la sentii starnazzare:

-Sam! Non avrai intenzione di darle il lavoro! Non mi fido, c’è qualcosa di strano!

-Sookie, stai calma, ho capito, ma abbiamo bisogno di una cameriera, quindi lasciami pensare un attimo!

Bene. Avevano bisogno di una cameriera. Ora bisognava solo pensare a come far ammutolire l’oca.

Poi Sam tornò e mi disse:

-Amber, non so se posso darti il lavoro, ci sono altre ragazze che hanno fatto domanda per lavorare qui. Facciamo così, torna questa sera, dopo cena, io intanto ci penso su e ne discuto con il resto del personale.

Risposi che andava bene. Sookie l’aveva spuntata, e probabilmente non avrei mai avuto quel lavoro. Mi rimaneva ignoto, però, perché chiedermi di tornare quella sera.

Presi la macchina e andai in giro per il paese cercando un altro posto dove trovare impiego: andai in un piccolo ristorante ma mi misero al corrente, con molta poca gentilezza, peraltro, che il personale era al completo. Provai anche in un paio di bar, ma mi diedero tutti la stessa risposta.

Forse gli abitanti di quel posto dimenticato da Dio non amavano le novità. Capii che, volente o nolente, quella sera sarei dovuta tornare al Merlotte’s, perché a quanto pareva non avevo molta scelta.

Così, dopo un pomeriggio passato a giocare con Poe nel cortile della pensione, cogliendo ogni tanto il signor Cattermole a guardarmi sorridente dalla finestra, tornai nel locale.

C’era molta più gente che a pranzo, e dal numero di bicchieri e calici sui tavoli, dedussi che in quel paesino forse non amavano i cambiamenti, ma di certo avevano un’insana propensione al consumo di alcolici.

Andai verso il bancone, e prima che potessi parlare, Sookie chiamò a gran voce:

-Sam, c’è la ragazza di oggi!

-Mi chiamo Amber.- non potei trattenermi dal dire.

Mi guardò con aria sostenuta e rispose:

-Ah sì? L’avevo dimenticato.

Forse non sarebbe stato così facile farmi una vita  normale.

Sam non arrivò subito, e quando fu lì mi fece accomodare ad uno dei tavoli e si sedette di fronte a me.

Cominciò a farmi domande sul perché m fossi trasferita a Bon Temps, perché avessi cercato lavoro proprio lì e cose del genere, ma mi resi conto che mi stava solo intrattenendo, perché non prestava assolutamente attenzione alle mie risposte, occupato com’era a guardare fuori dalla finestra ogni tre secondi.

Infatti, aspettava qualcuno.

Quando quel qualcuno arrivò, rimasi di sasso.

Credetemi, anche se non avete mai visto un vampiro, quando lo vedrete ve ne accorgerete, non è assolutamente possibile confonderlo con una persona vivente. A prescindere dal pallore cinereo, introvabile sul viso di qualcuno il cui cuore pompa ancora sangue, si portano sempre dietro un’aura di mistero, una palpabile sensazione di paura. L’uomo, di fronte al vampiro, sente per natura animalesca l’istinto di una qualunque preda di fronte al proprio cacciatore.

Erano due: una donna, con lunghi capelli biondi e un’aria fredda ed elegante, e un uomo di una bellezza che non poteva essere di questo mondo.

Innaturalmente alto, spalle perfette, tutti i muscoli ben definiti che, sotto la pelle, sembravano pronti a scattare, obbedienti e letali armi del loro proprietario, e fidatevi se vi dico che mai al mondo avevo visto un’espressione che ricordasse più di così quella di un antico, fiero, prode e potente guerriero. Si muoveva con leggiadria, camminava lentamente, e ogni passo affermava che lì, in quel momento, lui aveva il diritto di controllo e di comando su tutti i presenti. Quel vampiro trasudava potere, e non potei fare a meno di abbassare gli occhi quando il suo sguardo si posò su di me.

-Allora, Sam Merlotte, qual è questa urgente questione per la quale mi distogli dagli impegni del mio locale?

-Eric, Pam, Amber, Sookie, potreste seguirmi nel retro?- gli disse questo, per tutta risposta.

Dunque, quello era il famoso Eric cui aveva accennato Sookie quella mattina. L’aria autoritaria che aveva, dunque, doveva essere giustificata dal ruolo che ricopriva nella zona, se l’avevano chiamato per fargli esaminare me prima di darmi il lavoro.

Far esaminare una ragazza da un vampiro solo per darle un misero impiego da cameriera.

Certo che mi ero scelta un posto tutt’altro che normale.

In mezzo agli scatoloni e agli scaffali pieni di tovaglie, tovaglioli, bicchieri e posate, Sookie esordì:

-Eric, questa ragazza è arrivata oggi. Ho un pessimo presentimento, non riesco a leggerle nel pensiero! E’ come con i vampiri, ma non è un vampiro, e non è nemmeno umana, ne sono certa!

-Mi chiamo Amber- ripetei, come imbambolata.

Cominciai a innervosirmi: quella situazione riguardava me e si stava evolvendo non solo completamente contro il mio consenso, ma anche senza la mia partecipazione.

Eric mi guardò con aria sardonica, incuriosito. Forse il motivo era il suo essere vampiro, ma era l’unico che non mostrava timore, antipatia o sospetto nei miei confronti. Il suo sguardo era soltanto interrogativo.

-Beh, allora, ci dici che cosa sei o dobbiamo convincerti con le cattive?

Quella stronza aveva appena passato il limite.

-No, VOI ditemi che cosa siete e cosa diavolo significa tutto questo! Per quale motivo dovresti sapere cosa penso? E perché avete chiamato questi due, cosa volete farmi? Cosa volete da me, io cerco solo uno stupido lavoro! Non c’è bisogno di terrorizzarmi così, se non volete gente nuova nella vostra città basta dirlo, e sparisco altrove!

Stavo diventando violacea per la rabbia.

-E tu, è facile minacciare qualcuno nascondendosi dietro un vampiro, eh? Ma che cosa avete tutti quanti, qui?

Avevo il respiro affannoso e irregolare. Che bello, mi ero appena giocata definitivamente la permanenza in quel luogo.

-Che bel caratterino! Però hai ragione, Sookie, non è umana.

Cosa? Non sono umana? Ora anche questo Eric si metteva in lizza per diventare la persona più sgradevole della città.

-O perlomeno, non è umana nel senso comune del termine, così come non siete umani tu e Sam, il suo sangue ha un odore diverso. Ma dubito che sia pericolosa.

Oh, ma grazie, che gentile. Mi sentivo esaminata come un cane ad un’esposizione. Non avevo intenzione di rivelargli nulla di me, nulla che potesse spingerli a credere di aver ragione. Avrei fatto la gnorri, e potendo avrei deviato il discorso.

-Aspettate un momento, mi state dicendo che per davvero… Sookie, tu sei DAVVERO in grado di leggere nel pensiero altrui?

-Non stiamo parlando di me, sei tu che devi darci spiegazioni!

Deviare il discorso non mi era riuscito molto bene.

-Io non.. io sono un essere umano!

-Non mentire.

-Non sto…

-Ti ho detto di non mentire! – mi urlò in faccia Eric, improvvisamente molto meno tranquillo.

Ok, avevo bisogno di riflettere un secondo.

Per prima cosa, perché quelle persone sapevano che in me c’era qualcosa che non andava?

Risposta: Sookie non era riuscita a leggermi nel pensiero ed Eric sentiva che il mio sangue non aveva lo stesso odore di quello di un qualunque altro essere umano.  

E da qui, la seconda: come potevo convincerli che ero perfettamente normale, pur sapendo in prima persona che questa era una bugia, se quel vampiro aveva appena dato inconfondibile segno di accorgersi che mentivo?

Frenetica, cercavo una scusa, un appiglio, un qualcosa da poter dire loro per avere ancora una speranza di ottenere il lavoro e costruirmi un’esistenza normale senza dover puntare nuovamente il dito sulla cartina, e ovviamente per evitare di essere salassata così su due piedi.

Non mi veniva in mente nulla di nulla. Buio totale. Stavo lì come una rimbambita, facendo passare lo sguardo ad uno ad uno su tutti i presenti, con la bocca semiaperta e gli occhi vitrei, mentre nella mia testa sembrava esserci stato uno sbalzo di corrente che mi aveva scambiato le sinapsi.

-Escludendo che sia una telepate, come te, Sookie, o una mutaforma o un licantropo, dato che nella mente di queste creature riesci a leggere, non mi viene proprio in mente nulla.

Sia lodato il Signore. Non gli viene in mente nulla.

-Eric, se non sono assolutamente certo che non sia pericolosa non posso assumerla, e tu sai quanto ho bisogno di una nuova cameriera. Dopo Daphne e Amy, nessuno vuole più lavorare per me.

Ah, certo, tante ragazze erano in lizza per quel posto. Bastardo bugiardo.

Chissà poi cosa era successo a quelle due cameriere.

-E poi Sookie si era talmente spaventata che ho creduto fosse il caso di avvisarti, sai, nel caso in cui la faccenda fosse stata di pubblico interesse.

-Sam, credo  tu possa stare tranquillo. Suppongo sia solo spaventata, è davvero stupita della telepatia di Sookie e dubito che fosse a conoscenza dell’esistenza di altri essere sovrannaturali oltre sé stessa… e noi vampiri, ovviamente.

Non mi piace che questo tipo mi legga come un libro. Non mi piace per niente.

-In ogni caso, qualsiasi cosa dovesse accadere, sono sempre lieto di mangiare qualcosa di diverso… AB positivo, giusto?

Santo cielo. Aveva ragione.

-Per me, allora, puoi avere il lavoro.

Bingo!

-Sei pazzo, Sam! Abbiamo avuto talmente tanti guai, perché andare a cercarcene altri?

-Sookie, stai tranquilla. Ci sono Eric, Pam, e c’è anche Bill. E poi anche a me sembra una ragazza a posto. Vedrai che non succederà niente. Così finalmente potrai di nuovo avere qualche serata libera in più. Era quello che volevi, no?

Sookie non rispose.

-Grazie, Sam, te ne sono grata

Non so perché, ma avevo scartato immediatamente l’opzione di andar via da quella gabbia di matti.

Mi avevano aggredita, mi avevano interrogata come una criminale, avrei iniziato a lavorare con una sentenza di morte pendente sulla nuca, che sarebbe stata applicata senza tanti complimenti al minimo sgarro, ma… quelle persone erano come me.

-Puoi iniziare domani.

E poi, vampiro o no, Eric era la cosa più intrigante su cui avessi mai posato gli occhi.

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Capitolo 3
*** L'unico amico ***


I primi giorni di lavoro non furono semplici.

Sookie non voleva saperne di trattarmi con gentilezza, anzi, a dire il vero non mi trattava affatto.  Era ancora convinta che io fossi una qualche sorta di demonio, e ogni tanto la sorprendevo a fissarmi con un’innaturale intensità. Non accettava di non potermi leggere nel pensiero, evidentemente, perché non avevo dubbi sul fatto che quegli sguardi profondi fossero indiscreti tentativi di sondarmi il cervello, del tutto inutili, peraltro, e quanto più la cosa la irritava, tanto più faceva felice me.

Così, passai la prima settimana a Bon Temps dividendomi tra il Merlotte’s e il signor Cattermole: tra tutte le persone che avevo conosciuto lì, lui era quello di cui gradivo maggiormente la compagnia. Mi piaceva il fatto che sorridesse sempre, e che mi raccontasse tante storie sulla sua infanzia. Scoprii che, come me, non era originario del posto: era emigrato lì dall’Inghilterra quando aveva solamente vent’anni.

Mi parlava della vita di un ragazzino inglese, di come fosse diversa l’Europa e di quanto, pur discendendo da questi, gli americani si distinguessero in tutto dai suoi connazionali. Tuttavia, in tutti i suoi discorsi, non accennò nemmeno una volta al motivo che lo aveva spinto a trasferirsi così lontano dalla sua terra.

Supposi che fosse per far fortuna, come la quasi totalità di quelli che decidevano di emigrare oltreoceano: quando lui era giovane doveva esserci stato il boom degli stranieri negli Stati Uniti.

Ad ogni modo, il signor Cattermole era un uomo davvero piacevole, e conversare con lui mi infondeva un’immensa serenità.

Dopo l’episodio delle balestre, per di più, avevo cercato anche di fargli palesare, per vie traverse, cosa pensasse dei vampiri e degli esseri sovrannaturali, scoprendo con piacere che non nutriva nei loro (o meglio, nei nostri) confronti alcun tipo di pregiudizio, pur sentendosi intimorito dagli zannuti perché, mi spiegò, erano accaduti in città episodi di una violenza raccapricciante, da quando questi si erano trasferiti a Shreveport, poco lontano.

Non volle raccontarmi di più, e decisi che l’avrei scoperto da sola.

Quella sera, tornata dal lavoro, presi il coraggio a due mani e provai, per la prima volta in vita mia, a dar fiducia ad un altro essere umano: d’altronde, quel simpatico vecchietto era stato il primo a meritarla.

Era presto per svelargli il mio segreto, però potevo sempre provare a raccontargli qualcosa di ciò che mi accadeva, come lui faceva con me. Credevo fosse, condivisibilmente, il primo passo per costruire un legame.

Quando arrivai stava giocando in giardino con Poe. Feci un respiro profondo: era tremendamente difficile, per me, per quanto agli altri possa sembrare una cosa normale. Fino ad allora avevo solo ascoltato, raccontare era qualcosa che non faceva ancora parte di me.

-Signor Cattermole, le ho mai… ehm… raccontato di come ci siamo conosciuti io e quel pulcioso?

“Così, Amber, vai alla grande”.

-No, Amber, mai, ma sono davvero curioso di saperlo!

“Bene. Ora racconta i fatti. E’ semplice.”

Esitai.

-Lo trovai vicino ad un fiume, mentre facevo una passeggiata. Era piccolo, denutrito e affamatissimo. Doveva essersi perso perché indossava un collarino…

-Oh, povero cucciolo! E cosa hai fatto?

-Beh, mi avvicinai, non aveva paura ma era troppo debole per farmi le feste. Per caso avevo dei crackers in borsa, allora gliene sventolai uno davanti al muso. Aveva talmente tanta fame che li divorò storcendo il naso! Da quella volta non ne ha più mangiati.

Il signor Cattermole si mise a ridere, e accarezzando vigorosamente Poe gli disse:

-Non ti preoccupare, cucciolone, qui abbiamo solo roba buona, per te! Niente crackers, te lo prometto!

Poi mi guardò con la sua solita docilità:

-E ti ha seguito anche se lo hai costretto a mangiare dei crackers?

-Sì, ma solo dopo avergli promesso della carne in scatola.

Scoppiò a ridere di nuovo.

Avevo addirittura fatto una battuta. Però, passi da gigante!

Forse potevo dire ancora due paroline.

-I miei genitori all’inizio non erano tanto contenti. Però lo vede com’è giocherellone, li ha conquistati con poco.

-Oh, sì, non mi riesce difficile crederlo! Vero, bello? Vero?

E intanto Poe si lasciava strapazzare come un uovo in padella.

Continuammo a chiacchierare del cane, e di tutti i guai che aveva combinato, delle ciabatte che aveva mandato al creatore, dei gatti che lo tenevano in scacco perché ne era terrorizzato, e stare lì a conversare mi sembrava la cosa più naturale del mondo.

Cenammo insieme, mi aveva addirittura preparato una crostata, mi trattava come una figlia ed io mi sentivo leggera, apprezzata. Una persona accanto era molto più di quanto avessi mai avuto.

Andai in camera sorridendo, con la sensazione sconosciuta di essere normale.

Lì c’era ad aspettarmi qualcosa che mi avrebbe riportata bruscamente alla realtà, la mia realtà, quella tutt’altro che normale.

Eric era in piedi, fuori dalla finestra, e mi fissava con la sua solita, irritante espressione.

-Oh, commovente la storia del cucciolo. Posso entrare?

-No.

-Così, un no secco? Sei sicura? La mia compagnia è senza dubbio più interessante di quella di quel vecchio. Lasciami entrare per dimostrartelo.

-Mi pareva di aver già risposto otto secondi fa. Non ho cambiato idea.

-Suppongo che cercare di ammaliarti sia inutile.

-Supponi bene. La tua compagnia non mi…

-Oh no, non ammaliarti in quel senso. Quello è un lavoro per il quale mi riservo più tempo, credo che mi divertirò. Parlavo di costringerti a farmi entrare e a parlare con le abilità della mia razza. Ma dubito che funzionerebbero con te.

Parlare? Quell’armadio pallido e biondo voleva PARLARE?

-Seppure tu entrassi, non saprei come intrattenerti. Per cui puoi anche andare, non ho nulla da dirti.

-Invece hai molto, moltissimo da dirmi.

-Che cosa vuoi?

-Sapere cosa sei.

Oh, certo. Era prevedibile, quasi ovvio. Ed io che avevo iniziato a farmi strane idee… Era a dir poco impensabile che uno come Eric volesse semplicemente la mia compagnia, o il mio corpo, tanto per dirne una, lui stava semplicemente facendo l’investigatore privato per qualcun altro, pensando di convincermi a parlare con quattro moine. E pensavo anche di sapere bene per chi.

-No. Tu vuoi fare contenta la tua amichetta, cosa che invece non ho alcuna intenzione di fare io.

-Ho solo la curiosità di svelare il mistero, o vuoi forse farmi una colpa della mia sete… di sapere?

Il modo in cui si soffermò sulla parola “sete”, come se fosse una velata minaccia, mi fece perdere le staffe.

Non mi avrebbero manovrata come volevano così facilmente.

-Ti ha mandato Sookie? Sai, non credevo che per un po’ di sesso un vampiro avrebbe calpestato così il proprio orgoglio mettendosi al servizio di una gatta morta. Sbaglio, oppure siete piuttosto desiderati? Che senso ha farsi trattare come un galoppino?

Dovevo aver toccato un tasto dolente, perché Eric scoprì le zanne e con impeto cerco di lanciarmisi addosso  attraverso la finestra aperta, ma qualcosa di invisibile lo bloccò. Senza il mio consenso non poteva entrare.

Mi stupii di trovarlo contemporaneamente più pericoloso e più sensuale, mentre mi minacciava con i lunghi canini scoperti.

-Non sarai sempre protetta dalle mura di una casa. Presta molta attenzione al modo in cui mi parli.

Lo stavo facendo incazzare. Forse non era un’idea grandiosa insultarlo in quel modo.

Oh beh, ormai ero in ballo.

-Che c’è, ti vergogni ad ammetterlo? Dille che l’ho capito da sola, che ti ha mandato lei, così forse non si arrabbierà tanto e avrai ancora qualche possibilità. E adesso vattene e lasciami dormire.

Praticamente stava ringhiando. Era furente, terrificante. Molto, molto probabilmente nella sua testa immaginava il nostro prossimo incontro, a base di AB negativo. In quel caso, stavamo immaginando esattamente la stessa cosa.

Ora avevo una paura indicibile, ma non ero riuscita a trattenermi; pensare che quella cretina mi avesse sguinzagliato dietro quel vampiro mi rendeva furibonda, non aveva motivo di trattarmi come un pericolo pubblico.

Probabilmente, però, mi urtava di più pensare che Eric fosse completamente ai suoi piedi.

Scacciai quel pensiero in tutta fretta.

-Non potete semplicemente lasciarmi perdere? Vorrei sapere perché insiste così. Le da forse qualche problema la mia presenza? Posso almeno sapere perché è così importante per lei conoscere i fatti miei?

Un urlo disumano esplose dalla gola di Eric.

Insinuando ancora una volta che fosse stato mandato da Sookie (cosa della quale rimanevo convinta) come un qualunque servo, avevo davvero versato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Frustrato perché non poteva farmi del male, aveva ben pensato di svegliare tutti nel raggio di trenta chilometri. Fortunatamente, durò poco.

Meno fortunatamente, si accorse che a pochi metri da lui c’era la cuccia di Poe, che il signor Cattermole aveva costruito appositamente per lui e dalla quale il cane, sentendo le grida, era uscito abbaiando.

Lo guardò con stupore. Poi guardò me, e un ghigno soddisfatto, come di chi accetta un inaspettato suggerimento, gli si dipinse in faccia.

Mi gelai, perché capii immediatamente cosa stava per fare. Sapeva che sfogando la sua frustrazione su di lui mi avrebbe fatto altrettanto male, e forse anche di più, che se l’avesse sfogata su chi gliel’aveva provocata.

Fu un attimo, ma non potevo permetterlo. Era stato per anni la mia unica, fedele, amorevole compagnia.

Lo scaraventai contro l’enorme quercia che si trovava lì nel giardino, facendo tremare persino la terra.

Il vampiro rimase immobile per qualche secondo. Non gli avevo fatto assolutamente nulla, era ovvio, non si muoveva soltanto perché era enormemente, inevitabilmente e visibilmente stupito.

Ero stata costretta a rivelargli il mio segreto.

Si alzò e tornò verso di me.

-Bastava così poco per farti uscire allo scoperto? Fallo ancora.- ordinò. Non mi mossi.

-Ho detto fallo ancora!- ruggì, e si avventò di nuovo verso Poe.

Ed io, senza pensare, lo scaraventai ancora contro l’albero, prelevando finalmente il povero cane e facendolo volare, attraverso la finestra, dritto dritto accanto a me. Quello guaì forte e corse a nascondersi sotto il letto, terrorizzato.

Stavolta Eric sì rialzò immediatamente, ma non era più stupito. Aveva un’aria paurosamente soddisfatta.

Mi si avvicinò, e di nuovo, per la seconda volta consecutiva in sua presenza, mi sentii sotto osservazione.

-Che strana cosa. Quasi mille anni di vita, e non avevo mai incontrato nessuno con la tua stessa dote.

L’euforia della scoperta doveva averlo calmato.

-Ora suppongo tu sia contento.

Ero molto contenta anch’io, a dirla tutta. Non sapevo se il mio potere avrebbe funzionato sugli altri esseri sovrannaturali, ed ora avevo scoperto che funzionava alla grande; non gli avrei fatto del male, ma potevo sempre proteggermi da lui, se lo vedevo attaccarmi, ed era questo l’essenziale.

Non c’era bisogno che sapesse che colpendomi alle spalle, o bendandomi gli occhi, mi avrebbe resa del tutto inoffensiva: la telecinesi richiedeva necessariamente il contatto visivo.

-Non del tutto. Chissà che limiti ha, questa tua… peculiarità. Sarà interessante scoprirlo.

E sparì nella notte.

Grandioso. Ora la biondina e tutto il circondario avrebbero saputo chi ero, e la tranquillità sarebbe finita anche lì a Bon Temps, per me.

Mi preparai psicologicamente ad affrontare la giornata successiva: mi avrebbero additata, insultata, e avrei perso il lavoro e anche la possibilità di trovarne un altro. Avrei dovuto fare le valigie, ancora.

Ormai, la sensazione di normalità che solo poco tempo prima avevo assaporato, non la ricordavo nemmeno più.

 

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Capitolo 4
*** Strane Reazioni ***


 Mi sdraiai nel letto  e percepii ogni singolo muscolo del mio corpo tremare, scosso da un mix di rabbia e terrore.
Ero incazzata nera con la biondina. Ma che diavolo avevo di così terrificante? Tra tutta la strana gente che viveva in quel posto, lei doveva proprio aver paura di me? Come potevo essere più spaventosa e preoccupante di un millenario vampiro, di un mutaforma, di un licantropo o di un pazzo psicopatico?
L’indomani mattina le avrei esposto le mie ragioni. Con calma.
Con tutta la calma che sarei riuscita a mantenere.
Poca, a giudicare dalla tensione che avevo in corpo.
Presi a rivoltarmi tra le lenzuola, cominciai a sudare e ad avere le palpitazioni. Poe saltò sul materasso accando a me, e il suo calore, la sua quiete e il suo respiro regolare mi aiutarono a darmi una calmata.
Mi addormentai.

Immagini sfocate. Due occhi neri, due pugnalate. Due canini spropositati.
Ero sdraiata sull’erba, e mio vestito corto, di cotone, era macchiato di terra. Lui era sopra di me.
Le sue zanne snudate percorrevano il mio collo come se volesse impararlo a memoria.
Ero aggrappata con le unghie e con le gambe alla sua schiena, ed ero completamente sopraffatta dalla sua forza, dalla sua presenza.
Lui non aveva odore.
Lui era una sensazione che mi passava attraverso la pelle e mi inondava il cervello, lo stomaco, i polmoni. Come ingoiare acqua affogando, come paura che blocca i muscoli.
Ed era paura, lo era dentro ogni nervo, ogni organo, ogni vena. Paura che si staccasse e mi lasciasse lì, ubriaca di lui.
Ma invece di mordermi, si staccò e mi guardò.
E gli occhi neri s’incorniciarono di un viso biondo che rideva, rideva di me perché sapeva che ero scoperta, nuda improvvisamente nel corpo e nell’anima. E intorno a noi, mentre lei mi teneva bloccata, c’erano Sam Merlotte, la cameriera dai capelli rosso fuoco, e c’era lui, e, insieme alla donna che mi bloccava, mi schernivano e puntavano il dito contro di me, perché ero strana, perché ero debole, perché non ero che un’estranea in mezzo a loro.
Anche la cameriera scoprì i denti, e il suo viso si deformò in una smorfia di pazzia, goduria, soddisfazione e fame. Mi addentò il collo ma il dolore lo sentii altrove. Più in profondità.

Mi svegliai di colpo, fradicia di sudore.
Poe dormiva beato in un angolo della stanza, probabilmente turbato dal mio dimenarmi nel sonno: avevo buttato a terra lenzuola, le coperte, persino il cuscino. Dovevo essermi enormemente agitata.
Intanto fuori albeggiava. Era ancora presto per andare al lavoro, ma mi alzai lo stesso.
Non avevo intenzione di correre il rischio di riprendere quell’incubo tremendo.
Quel pazzo bastardo aveva minacciato me e il mio cane, e io sognavo me stessa fra le sue braccia? No, assolutamente e insindacabilmente no.
Mi feci una doccia, mi misi la divisa ed uscii. Il signor Cattermole già zampettava per casa, ignaro di ciò che era accaduto fuori dalla sua abitazione, e dentro di me.
-Buongiorno, signor Cattermole.
-Oh, Amber, buongiorno! Come stai, questa mattina? Hai voglia di una fetta di crostata e un buon caffè? – rispose lui sorridendo. Avrei preso dieci chili se non mi fossi data una mossa a cercare un appartamento tutto  per me. Era impossibile dirgli di no.
Mangiai la crostata, e mentre lui canticchiava qualcosa di indefinito e lavava i piatti dandomi le spalle, non riuscii a trattenermi e gli chiesi:
-Signor Cattermole, so che mi ha già detto di non volerlo raccontare, ma..
Mi interruppe.
-Amber, non farmi domande delle quali potresti non voler sentire le risposte. Ciò che è accaduto qui è stato terribile, terribile, e io non ho fatto nulla per oppormi alle atrocità… al… al…
Il piatto gli cadde dalle mani. Era sconvolto da quello che la mia domanda gli aveva portato alla mente.
-Signor Cattermole- dissi alzandomi e avvicinandomi a lui –non importa. Mi scusi, non la tormenterò più con la mia curiosità. Non mi interessa ciò che è successo, davvero. Per favore, lasci che faccia io. Si sieda, si calmi.
Lui mi guardò con gli occhi pieni di lacrime. Percepii che era dilaniato dal senso di colpa, e mi sentii terribilmente male nel pensare che gli avevo causato io quel dolore. Se ne andò senza dire una parola.
Ma di cosa poteva pentirsi? Se davvero erano stati compiuti atroci delitti in quel paese, come avrebbe potuto lui, un vecchio, risolvere la situazione?
Decisi di scacciare il pensiero.
Avevo un conto da sistemare, quella mattina.
 

Andai al lavoro carica come un Panzer. Più che camminare, marciai dentro il locale, e la mia furia doveva essere palpabile perché tutti si voltarono a guardarmi.
Sookie non c’era. Salutai distrattamente Sam e Arlene, la mia rossa collega, e con la scusa di poggiare la borsa corsi nel retro.
Lei era inginocchiata e rompeva con le unghie la plastica che conteneva le bottiglie di acqua frizzante.
Le gettai la borsa praticamente addosso, il che la fece sobbalzare: si alzò di scatto e senza nemmeno guardare chi fosse si avventò sul tavolo e afferrò il tagliacarte. Si voltò e, mentre faceva per scagliarsi addosso al suo aggressore, si rese conto che ero io.
-Ah, sei soltanto tu.
E con aria di superiorità gettò il tagliacarte lì dove lo aveva recuperato poco prima, tornando alla sua precedente occupazione.
Pensai che entro breve le mie orecchie avrebbero iniziato a fumare. Il sangue mi bolliva nelle vene, avevo le mani bollenti.
-Senti, sciacquetta- esordii –perché invece di mandare i tuoi leccapiedi a indagare su di me non te ne occupi da sola? Cosa sei, incapace? Sappi che non ci sarà una prossima volta, chiaro? Non ho intenzione di ritrovarmi un’altra volta quell’animale fuori dalla finestra.
-No, senti tu, brutta stronza- mi rispose, avvicinandosi a pochi centimetri dalla mia faccia –questa è la mia città. Qui ci sono le persone che amo. Qui c’è tutto ciò a cui tengo, e non permetto più a nessuno di portarmelo via, è chiaro? E se questo deve significare sguinzagliarti addosso una qualunque specie di animale o uomo che sia, lo farò senza alcuna remora. Io non so cosa sei, non so perché sei qui e non so cosa diavolo vuoi da me e dai miei amici, ma c’è qualcosa di te che non mi convince. Sam avrà anche bisogno di te, ma io no. Quindi ora smetti di parlare di cose che non sai, e sparisci dalla mia vista.
Lì per lì rimasi di sasso. Non mi aspettavo una risposta così accorata, da parte sua. Parlava come se avesse perso qualcuno e non fosse più capace di fidarsi di nessuno. Come se avesse lei il compito di proteggere chi aveva intorno. Lei, che in confronto ai suoi amici era solo una ragazzina con qualche squilibrio neurologico.
Ma qualunque fosse il suo problema, io stavo cercando di ricostruire la mia vita.
-Io non sono qui per fare del male a nessuno. Se proprio lo vuoi sapere, sono qui per caso. Ho lasciato la mia città perché la detestavo, io non… non avevo nessuno lì. Voglio solo costruirmi una vita. Devi per forza rompermi le uova nel paniere? Facciamo così: se faccio qualcosa che non va, il tuo amichetto può… bermi per dessert.
-Noi non facciamo un bel niente! Nessuno sceglie Bon Temps per rifarsi una vita! Perché non te ne sei andata a New York, o Los Angeles, o San Francisco? Non correrò rischi con te. Stammi lontana. Non so che problema hai ma stai certa che lo scoprirò.
Ehi… come come come?
Dunque Erik non le aveva riferito nulla? Non le aveva raccontato niente di ciò che aveva visto?
Questo suonava decisamente strano.
-Se non ha scoperto nulla Erik, cosa pretendi di fare tu?
Stavo cercando di procedere senza scoprirmi.
-E’ solo il primo tentativo. Non ti puoi nascondere per sempre.
Bingo. Dunque il suo animaletto da guardia non le era poi così fedele.
-Lasciami perdere, chiaro? Non c’è nulla da scoprire. Pensa alla tua vita, sempre se ne hai una.
Mi fissò con disprezzo, poi mi ignorò completamente.
Non era andata esattamente come mi aspettavo, avevo fatto delle previsioni che si erano rivelate del tutto sbagliate. Erik non mi aveva messa nei guai. Ma perché?
Tutto intorno a me era… intricato. Cercavo di capire cosa stesse accadendo, ma mi sfuggiva il senso completo della questione. Mi mancavano ancora troppi pezzi del puzzle.
Passai il resto della giornata fra tavoli, ordinazioni e pensieri confusi. Ero così distratta che, al terzo boccale di birra rovesciato, Sam mi disse:
-Vai a casa, Amber. E’ quasi orario di chiusura e sono più i soldi che stai rovesciando sul pavimento che quelli che mi stai facendo guadagnare. Ci vediamo domani.
Assunsi involontariamente un’espressione mortificata mentre mi slacciavo il grembiule, ma quando alzai la testa, Sam mi stava guardando, e non negli occhi, con un’espressione indecifrabile e il sorriso sulle labbra.
-Sam?
Si riscosse.
-Sì, Amber? Non preoccuparti. Non è nulla di grave, ma non affaticarti. Ti stai dando da fare, qui. Non prendertela, ero ironico. Buonanotte.
Continuava a sorridermi. Si passò una mano fra i capelli brizzolati, inspirò profondamente, e girando sui tacchi sparì nel retro.
Aveva una incredibile tenerezza nei tratti. Non lo avevo degnato di nota, nei giorni precedenti, perché lui si era tenuto sulle sue, senza schierarsi dalla mia parte o da quella della psicobionda.
Poco male. Essere simpatica al datore di lavoro poteva solo portarmi giovamento.
Uscii dalla porta principale, salutando i clienti abituali con un sorriso e un cenno del capo (cominciavo ad acquisire elementi di vita sociale), e mi diressi verso la stradina che portava alla casa del signor Cattermole, ma questa era sbarrata da un pick up con degli strani disegni sui lati. Appoggiato a questo, c’era un ragazzo alto, muscoloso, con uno sguardo che non prometteva nulla di buono.
Ma che, soprattutto, era la copia al maschile di Sookie.
-Ciao, bella. Tu devi essere Amber Trenchard. Io, se ancora non hai sentito parlare di me, sono Jason Stackhouse. E ho l’impressione che dobbiamo fare quattro chiacchiere.
Stackhouse? Fantastico. Non bastava la bestia che mi ero ritrovata fuori dalla finestra. Ora mi aveva messo alle calcagna anche il suo adorabile fratellino.

 

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