Lo avrebbe incontrato di nuovo, senza sapere dove

di Jules_Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il treno vuoto ***
Capitolo 2: *** La telefonata ***
Capitolo 3: *** Ti ricorderai di me? ***
Capitolo 4: *** Rumore ***
Capitolo 5: *** Anni dopo ***



Capitolo 1
*** Il treno vuoto ***


1. Il treno vuoto

Quando quella mattina il treno partì, non c’era nessuno ad occupare i posti della terza fila, nel penultimo scompartimento. Sulla banchina, tra la nebbia fitta e minuscoli granelli di polvere, una ragazza si stringeva nella sua felpa troppo grande, umida di pioggia. Il treno partì sferragliando e poi tornò il silenzio. La ragazza cercò di afferrare l’emozione del viaggio, ma la panchina su cui era seduta rimase ferma. Si portò le mani al viso, poi strinse i fiori che aveva sulle gambe, incurante delle spine.

Tutto il paese era venuto a conoscenza della tragedia in meno di un’ora. Il suo nome luccicava in ogni vetrina dei piccoli negozi, veniva bisbigliato in chiesa dietro i pesanti rossetti rossi di signore di mezza età, veniva urlato nella piazza senza contegno. Ed anche la ragazza avrebbe voluto sussurrarlo al vento della stazione, così che potesse portarselo via e custodirlo lontano da lì, nelle rotte di viaggiatori ignari del suo dolore.

Non aveva avuto il coraggio di presentarsi nella camera mortuaria con quel mazzo di rose che, all’improvviso, le era sembrato inadeguato. E non avrebbe mai creduto di avere la forza di andare al funerale senza che qualcuno la costringesse. Si era presentata, ammantata di nero, nella chiesa silenziosa e lacrimante, si era seduta in seconda fila e si era appropriata di centinaia di condoglianze, la mano sinistra stretta in quella della sua migliore amica.

Aveva parlato con lentezza e calma davanti la folla che occupava la vecchia chiesa, parlato di quanto lui fosse stato speciale. Le sue parole, vuote, erano risuonate tra i muri spessi e le statue vitree. Poi aveva ceduto alle lacrime e non aveva fatto altro che fissare quella bara scura posata al centro, sopra il pavimento incasellato di marmo bianco e nero.

Aveva spinto i suoi sentimenti giù nel baratro ed aveva provato a fare finta che fosse morto semplicemente il suo migliore amico e non la persona che, nonostante tutto, amava. Nel microfono difettoso aveva sputato parole di circostanza, chiudendo a chiave le emozioni.

Aveva maledetto quella vecchia automobile, ormai ridotta ad un ammasso informe di lamiera, vetri infranti e vite spezzate. Aveva provato a non pensare che tra soli due giorni avrebbe dovuto affrontare da sola il treno vuoto di periferia, quello delle 7 e 32 che non ritardava mai di un minuto. Aveva inghiottito ogni possibile ricordo, lasciandoli marcire nel fondo del suo stomaco, ormai inutili.

Il vento soffiava forte e si costrinse ad alzarsi dalla panchina di pietra grigia. Quel mattino, il treno delle 7 e 32, era partito senza di lei, senza di lui. Quella mattina, il treno delle 7 e 32, non era riuscito a portarsi via la sua inadeguatezza e le sue paure come quando, fino a cinque giorni prima, lo aveva preso con lui. Si tuffavano sui vecchi sedili incrostati di sporco e di polvere stantia, al riparo dalla pioggia di novembre ed aspettavano che li portasse a destinazione. Rimanevano stretti nei loro giacconi senza bisogno di dirsi poi chissà quante cose, lasciando che a parlare fossero i loro respiri vicini, a volte troppo, e le loro mani, spesso strette insieme in un’ineguagliabile morsa.

Prima di morire, il pomeriggio immediatamente precedente alla sera dell’incidente, lui le aveva detto che si sarebbero ritrovati il giorno dopo “sul solito treno”. Lei era andata all’appuntamento, senza speranze, il viso rigato di lacrime di rimmel nero, tracciando nella nebbia del mattino il solito percorso.

E non aveva trovato nessuno ad attenderla.

Aveva aspettato, finché, puntuale come sempre, il treno era partito senza di lei, senza di lui, senza di loro.

E così aveva fatto anche il mattino successivo e quello successivo ancora, ed il quinto giorno ancora era lì, tremante, avvolta nella sua felpa e con le mani graffiate dalle spine dei fiori, delle rose.

Avrebbe voluto rivederlo, dirgli quelle parole che le erano rimaste incastrate in gola, ma non sapeva dove.

***

Primo capitolo di una mini-long nata grazie a Claire. A proposito, grazie mille cara. ^^ Infatti la sopracitata ispiratrice mi ha fatto conosce una frase che credo mi rimarrà stampata dentro.

Se siete arrivati fin qui, vi ringrazio di aver letto.

Ogni commento è ben gradito, ovviamente.

Anche perché a questa Originale tengo particolarmente.

Jules

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Capitolo 2
*** La telefonata ***


2. La telefonata

La telefonata che le cambiò la vita arrivò alle due e quarantasette di una notte di fine aprile. Saltò giù dal letto ed, afferrato il cellulare, rispose con voce assonnata. Quelli che sentì dall’altro capo del telefono furono solo singhiozzi. Poi la voce della signora Erminia che la informava dell’incidente. Di quella notte non ebbe altri ricordi, o meglio, finse di aver dimenticato. La folle corsa con l’auto del padre fino all’ospedale, il viso di Lalla nel corridoio adiacente alla sala operatoria, la sensazione di vuoto nel vedere il corpo di lui privo di qualsiasi umanità…

Era stata forte. Aveva rinchiuso ogni emozione nel cassetto della scrivania e, con viso duro, aveva finto che tutto andasse bene. Aveva indossato le sue lacrime migliori ed aveva accettato, senza parlare, ciò che era accaduto. Sentiva impresso nella memoria ogni dettaglio, nemmeno fosse stato marchiato a fuoco. Il display della sveglia che indicava un orario improbabile della notte ancora riluceva vivido nei suoi sogni. Ed il viso sfigurato del suo migliore amico, sbattuto sopra un lettino bianco che odorava di disinfettante, ogni tanto faceva capolino tra le pagine di una vecchia enciclopedia medica.

 Per quanto fingesse di non ricordare, lei aveva capito fin da subito che quelli squilli del telefono non avrebbero fatto altro che rimbombarle dentro per l’eternità. Lalla l’aveva chiamata solo due volte in tutta la sua vita in piena notte. La prima, quando avevano solo dodici anni, le aveva raccontato tra i singhiozzi di come suo padre se ne fosse andato via di casa, lasciandola sola con la madre. Lalla aveva pianto per mesi e mesi e, solo quando arrivò il Natale ed, insieme alle feste, una cartolina del padre dalla Scozia, smise di ingrigire le giornate di lei. La seconda volta che aveva rinunciato a dormire era stato quando Lalla, con voce tremante, le aveva raccontato di come avesse appena fatto l’amore per la prima volta con lo storico fidanzato. Lei prima era scoppiata a ridere, poi aveva rivolto alla sua migliore amica una miriade di domande. La terza volta, avrebbe preferito che non fosse mai esistita.

Le chiavi dell’auto del padre le erano scivolate tra le mani più volte mentre scappava via con sua madre che le gridava dietro di aspettarla. Aveva sbattuto il portone d’ingresso della palazzina dove abitava con foga e, per quanto fosse notte, in pochi secondi era riuscita ad aprire il grande cancello verde. Si era infilata nella piccola 4x4, buttando via dal sedile del guidatore un fascio di fogli perfettamente ordinati con i nuovi progetti di alcuni villini da costruire fuori città realizzati da suo padre. Caddero frusciando.

 Aveva messo in moto ed acceso la radio, preferendo coprire il rumore dei pensieri con quello di una canzone famosa che presto sarebbe stata dimenticata. Aveva fatto retromarcia, ed una volta uscita dal cortile che fungeva da parcheggio per i pochi abitanti del suo palazzo, aveva trovato sua madre ad aspettarla proprio su un lato della strada. Era partita in fretta, lasciando scivolare i numeri sul tachimetro. Guidare in ciabatte non era stato  il massimo: il piede continuava a scappare via dell’acceleratore, un paio di volte non ingranò la marcia proprio perché la frizione non era stata premuta a dovere.

Sua madre non parlava. Scrutava fuori dal finestrino le strisce di luce provocate dalla velocità, guardava i paesi susseguirsi oltre i guard-rail della superstrada. Un paio di volte tentò di aprire bocca, ma rimase lo stesso in silenzio. Di lei poteva vedere solo i lineamenti appena accennati nell’oscurità dell’abitacolo ed il riflesso stranamente scuro sui capelli di un bel rame acceso.

In men che non si dica, si ritrovò ad arrancare lungo i corridoi dell’ospedale, incurante di poter provocare disturbo ai pazienti. Chiese ad un’infermiera di passaggio qualche notizia. Imprecò davanti la sua risposta piatta ed inutile. Alla fine, senza sapere nemmeno come, si ritrovò in un corridoio giallo. C’era Lalla seduta su una vecchia panca arancione. E nel momento esatto in cui incontrò i suoi occhi, capì che la sua corsa disperata dentro la notte non aveva avuto esito positivo.

Lalla disse solo due parole. “E’ morto”. Tutto quello che lei ricordava del dopo era una sensazione indistinta, tra abbracci e lacrime e quell’aspirina che un’infermiera le aveva portato. La barella coperta da un telo bianco le sfilò davanti in silenzio e lei non riuscì a sostenere lo sguardo fugace della morte. Lui era lì, a pochi metri da lei. Chiuse gli occhi e la lasciò sfilare, senza accorgersi che di quel dolore faceva parte anche lei.

Lalla le posò una mano sulla spalla. Piangeva anche lei. Ed all’improvviso, vennero fuori tutte le fotografie della loro storia.

Quella volta che avevano dormito insieme in tenda, quell’estate al bar, seduti ai soliti tavoli arancioni, quella mattina che avevano perso il treno e si erano ritrovati stipati nell’abitacolo di un camion… E la volta in cui, senza sapere come, lui l’aveva baciata contro il muro di un corridoio d’albergo. Ed il mattino seguente, lei aveva capito che quella era stata la notte migliore della sua vita. L’aveva capito dal modo in cui lui gli aveva offerto il suo maglione beige perché aveva freddo, dal modo in cui era corsa affannosamente per tutto il corridoio per non farsi beccare, dal modo in cui aveva sentito aprirsi un sorriso sul suo viso non appena Lalla aveva aperto la porta della loro camera 703.

E quei momenti non sarebbero tornati più.

Erano scivolati lungo il corridoio di quell’ospedale sotto il velo bianco.

 

 

 

 

***

Mi ritrovo ad aggiornare prima del previsto. In realtà questa storia si sta creando praticamente da sola ed io rispondo solo al bisogno di battere i polpastrelli sulla tastiera. Ovviamente un grazie a chi ha commentato il capitolo precedente ed a quanti hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate.

Spero vi piaccia anche questo.

Jules

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Capitolo 3
*** Ti ricorderai di me? ***


3. Ti ricorderai di me?

 

“Il tempo passa, le stagioni cambiano. Lo dimenticherai.”

Aveva sentito quella frase rimbombarle dentro per giorni e giorni dopo il funerale. Nessuno sembrava poter dire altro che non fosse uno stupido “passerà”. E lei, con tutta la rabbia che aveva dentro, avrebbe solamente voluto urlare all’indirizzo degli sconosciuti che non lo avrebbe voluto dimenticare, che non avrebbe potuto. Le era rimasto impresso dentro ed il suo sorriso scolorito riluceva ancora nei margini lucidi di quelle tante fotografie che aveva e che continuava a sfogliare dentro vecchi album.

La gente, per le strade del suo paese, la additava ed il suo nome veniva mormorato ovunque. Lei era “la sua migliore amica”, famosa non per scelta, ma per tragedia. E non poteva fare altro che chiudere gli occhi ed abbassare la testa ogni volta che il suo nome veniva legato nelle conversazioni a quello del “suo migliore amico”.

La gente, semplicemente, non capiva. Non capiva e non sapeva. Lei non era solo “la migliore amica”. Lei era la persona che lui aveva baciato il pomeriggio prima di morire. Era la persona con cui lui aveva fatto l’amore in una stupidissima camera d’albergo con le tende arancioni e la moquette verde. Era la persona che, forse, ormai al di là del tempo e dello spazio, lui amava. E lei, proprio lei, se ne sarebbe ricordata?

Il bagliore del sole veniva filtrato da quelle orribili e pacchiane tende arancioni.  La ragazza non si prese nemmeno la briga di sapere che ora fosse. Potevano essere le sette così come le nove. E,se davvero fossero state le nove, lei era, terribilmente ed irrimediabilmente, in ritardo. Si stiracchiò, rendendosi solo allora conto di non essere sola nel letto. A stringerla con un braccio intorno alle sue spalle nude, c’era, ancora addormentato, Davide.

Solo allora, con la forza di un fulmine, le tornarono in mente tutti i dettagli di quella notte. Avevano stentato a salutarsi, qualche corridoio più giù. I loro occhi si erano incontrati e si erano scoperti desiderosi l’uno dell’altra. E poi la distanza tra le loro labbra si era annullata in un soffio. Si erano ritrovati incastrati nei loro stessi sentimenti e, chiudendosi la porta della camera all’esterno, avevano lasciato tutti i problemi e le preoccupazioni fuori.

Il resto erano dettagli indistinti che stava cercando disperatamente di mettere a fuoco. Le mani di Davide che la spogliavano, lasciando cadere i suoi indumenti su quella moquette verde acido. Le sue mani che stringevano quel piumone giallo, i muscoli contratti, nel disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa. I suoi baci roventi, che le scendevano lungo il collo e la facevano rabbrividire.

I ricordi stavano lentamente prendendo forma dentro di lei, materializzandosi. Presto gli avrebbe etichettati come “i ricordi migliori della sua vita”. Perché, di quella notte, non gli serviva ricordare altro. Le sarebbero bastati, per sempre.

- Da’?

Si era meravigliata nel sentire la sua voce così roca, inusuale rispetto alla solita così sorprendentemente acuta. Lui aveva mugugnato qualcosa nel sonno e poi aveva aperto gli occhi. Occhi azzurri.

- Ehi!

La sua voce l’aveva colpita come una carezza e non aveva potuto fare altro che accoccolarsi ancora contro il suo petto. Dieci minuti dopo, la sveglia era suonata.

- Devo tornare in camera!

E si erano salutati sulla soglia della camera, gli sguardi carichi di promesse e di aspettative. Lui le aveva accarezzato i capelli, lei aveva sorriso, senza parlare. Come faceva sempre, quando le parole erano troppe e le morivano in gola.

- Ti ricorderai di questa notte, vero? Ti ricorderai di me?

Lei aveva annuito e si era tenuta stretta i ricordi.

E le stagioni cambiarono davvero, ed il tempo inequivocabilmente passò, ma lui, tra i suoi ricordi, non sbiadiva.

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Capitolo 4
*** Rumore ***


4. Rumore

 

Le parole di quella puttana, gridate al vento della piazza, erano entrate nei muri delle case della gente e si erano fermate sulle loro bocche, ormai dimentiche di lei. Fede, stronza, continuava a ripetere a chiunque fosse tanto coraggioso da prestarle attenzione che Davide amava lei e che, soprattutto, era morto per lei. “Stronzate”, avrebbe voluto gridare lei, che aveva imparato a convivere con il dolore, chiudendolo in uno dei compartimenti stagni di quel cuore spavaldo che aveva. Stronzate, sì, perché Davide era sempre stato- e nessuno aveva mai osato affermare il contrario- suo.

Fede strillava il suo dolore in maniera teatrale, cercando attenzione e fama tra le poche anime caritatevoli della città. Fede ripeteva un mucchio di bugie, inventava aneddoti mai vissuti e gettava fango su di lei, sulla migliore amica. E la gente parlava, ancora, cercando spiegazioni e trovando la stronza ad inventare castelli esili ma alti di menzogne ben ricamate. Fili neri continuavano ad essere ammassati insieme e raccontavano storie di qualcuno che non c’era più.

La tomba di Davide- così bianca nel rossore del tramonto di maggio- veniva sporcata e ripulita con valanghe di parole e le rose su di essa erano ormai appassite da tempo. E lei, tra test di ammissione per l’università e notti folli in strade desolate, appassiva con loro. Lalla non era stata capace di fermare la distruzione che la ragazza si stava auto-imponendo. Sarebbe finita anche lei a piangere su una tomba bianca ogni notte così come faceva la sua migliore amica- o quel che restava di lei?

E Mads- perché “Maddalena” le era sembrato sempre un nome troppo antiquato- continuava a vivere a spezzoni, mordendo qua e là un pizzico di felicità. E nessuno più sapeva perché ogni mattina si rifugiasse a vedere il treno delle 7 e 32 che partiva senza di loro. E nemmeno Mads lo spiegava più a se stessa. Le carrozze sfilavano come un corteo funebre, sporche di scritte e di vita, così come piacevano a lei. E le vedeva sfilare, i volti dei pendolari carichi ciascuno del proprio dolore. Nessuno sembrava più poter sorridere nel mondo di Mads. Nessuno sembrava più poter dimenticare.

E l’autunno arrivò, quando il volume della sua vita sembrava al massimo. Urlava la voce della musica diabolica delle discoteche, urlava sua madre stanca di vedere in giro per casa quelle maledette pasticche, urlava Lalla che la vedeva consumarsi tra alcool e quelle 20 sigarette che mandava giù ogni giorno, urlava la gente per strada accusando lei di essere la puttana e non Fede. Urlavano tutti, cercando di sovrastare il canto del dolore. Urlavano tutti, senza sapere cosa Davide avrebbe davvero voluto.

E mentre la sua vita andava a rotoli così come non aveva mai fatto, nel centro del baratro, trovò nel suo vecchio diario quello che Davide le aveva scritto tanto tempo prima.

“Ci incontreremo dove il mondo è silenzioso”.

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Capitolo 5
*** Anni dopo ***


5. Anni dopo


Dieci anni dopo, dalla vita aveva ottenuto tutto quello che voleva. Il lavoro dei suoi sogni era lì, a portata di contratto, i binari del treno, distorti, erano tornati a correre verso l’orizzonte. Nessuno si ricordava più di lei: ogni tanto tornava a percorrere le strade del suo paese, passando attraverso le bocche della gente senza essere definita puttana.

Sembrava che il suo fantasma, quello che aveva perso il treno ed aveva pianto sulla tomba bianca, si fosse volatilizzato tra le pieghe del tempo, rimasto immobile, cristallizzato, in un vecchio cassetto polveroso. Lalla se n'era andata via, Fede era sparita dietro le sue menzogne. Del passato non le rimanevano che briciole, foglie secche e qualche ombra di vecchi sorrisi che ogni tanto- forse troppo spesso- le passavo sulle labbra rosse.


Davide le era rimasto dentro, leggero e docile, ormai dimenticato e sostituito da visite, ricette, operazioni. Famosa in un mondo distante, si era lasciata alle spalle il treno delle 7 e 32. Aveva corso più veloce di lui oppure era rimasta indietro? Il passo accelerava, i minuti diventavano anni ed il suo mondo continuava ad urlare. Frammenti di bottiglie erano rimasti nascosti sotto il letto, insieme a quel bagaglio di foto, libri e –perché no?- speranze, che si era portata via prima di cambiare aria.

Aveva sconfitto la morte, così come i principi sconfiggevano i draghi e poi sposavano le principesse. Aveva sconfitto il dolore, mandandolo giù come una di quelle pillole amare che era costretta a prescrivere ai suoi pazienti. Aveva sconfitto quella parte di sé che si era lasciata andare, deviando da una vita un tempo perfetta. Un muro di mattoni la divideva dal passato.

Maddalena- perché ora il suo nome andava bene- aveva ottenuto tutto. La morte di Davide era stato un incidente di percorso, l’amicizia di Lalla l’ultima delle finzioni, la cattiveria di Fede un esempio da imitare. Aveva schiacciato ogni emozione, riducendola ad un flebile agglomerato di anni.


E quando tornò alla loro stazione per l’ultima volta, il bagaglio che si portava dietro era pesante. Lo stringeva affannata, il peso degli anni che le incurvava la schiena, la mente annebbiata dal lavoro. Maddalena stava per intraprendere il suo ultimo viaggio, quello vero, quello definivo.

Dentro la sua valigia aveva messo tutto, perfino il suo passato. E nel silenzio della stazione – perché alla fine il rumore si era spento- lo rivide. Era bello come quando aveva diciannove anni, e lei era vecchia, con i suoi ottanta. Gli sfiorò la mano in un gesto d’affetto dimenticato. E poi chiuse gli occhi, invasa dalla musica del silenzio.

Due giorni dopo, morì. Il mondo era corso avanti, le nuove generazioni avevano pianto per lei, l’uomo che aveva sposato –forse per finzione- era rimasto solo. E Maddalena aveva aperto il suo bagaglio. Era rimasto ancora qualche coccio di bottiglia, qualche sigaretta, la laurea, il lavoro, i tacchi di vernice, il rossetto rosso e la collana di perle. E, in fondo, l’amore per Davide.


La valigia rimase vuota.


Dovunque lei fosse finita, ormai c’era silenzio.

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