Lo avrebbe incontrato di nuovo, senza sapere dove di Jules_Black (/viewuser.php?uid=109355)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il treno vuoto ***
Capitolo 2: *** La telefonata ***
Capitolo 3: *** Ti ricorderai di me? ***
Capitolo 4: *** Rumore ***
Capitolo 5: *** Anni dopo ***
Capitolo 1 *** Il treno vuoto ***
1. Il treno vuoto
Quando quella
mattina
il treno partì, non c’era nessuno ad occupare i
posti della terza fila, nel
penultimo scompartimento. Sulla
banchina, tra la nebbia fitta
e
minuscoli granelli di polvere, una ragazza si stringeva nella sua felpa
troppo
grande, umida di pioggia. Il treno partì sferragliando e poi
tornò il silenzio.
La ragazza cercò di afferrare l’emozione del
viaggio, ma la panchina su cui era
seduta rimase ferma. Si portò le mani al viso, poi strinse i
fiori che aveva
sulle gambe, incurante delle spine.
Tutto
il paese era venuto a conoscenza della tragedia in meno di
un’ora. Il suo nome
luccicava in ogni vetrina dei piccoli negozi, veniva bisbigliato in
chiesa
dietro i pesanti rossetti rossi di signore di mezza età,
veniva urlato nella
piazza senza contegno. Ed anche la ragazza avrebbe voluto sussurrarlo
al vento
della stazione, così che potesse portarselo via e custodirlo
lontano da lì,
nelle rotte di viaggiatori ignari del suo dolore.
Non
aveva avuto il
coraggio di presentarsi
nella camera mortuaria con quel mazzo di rose che,
all’improvviso, le era
sembrato inadeguato. E non avrebbe mai creduto di avere la forza di
andare al
funerale senza che qualcuno la costringesse. Si era presentata,
ammantata di
nero, nella chiesa silenziosa e lacrimante, si era seduta in seconda
fila e si
era appropriata di centinaia di condoglianze, la mano sinistra stretta
in
quella della sua migliore amica.
Aveva
parlato con lentezza e calma davanti la folla che occupava la vecchia
chiesa,
parlato di quanto lui fosse stato speciale. Le sue parole, vuote, erano
risuonate tra i muri spessi e le statue vitree. Poi aveva ceduto alle
lacrime e
non aveva fatto altro che fissare quella bara scura posata al centro,
sopra il
pavimento incasellato di marmo bianco e nero.
Aveva
spinto i suoi sentimenti giù nel baratro ed aveva provato a
fare finta che
fosse morto semplicemente il suo migliore amico e non la persona che,
nonostante tutto, amava. Nel microfono difettoso aveva sputato parole
di
circostanza, chiudendo a chiave le emozioni.
Aveva maledetto
quella
vecchia automobile, ormai ridotta ad un ammasso informe di lamiera,
vetri
infranti e vite spezzate. Aveva provato a non pensare che tra soli due
giorni
avrebbe dovuto affrontare da sola il treno vuoto di periferia, quello
delle 7 e
32 che non ritardava mai di un minuto. Aveva inghiottito ogni possibile
ricordo, lasciandoli marcire nel fondo del suo stomaco, ormai inutili.
Il vento
soffiava forte
e si costrinse ad alzarsi dalla panchina di pietra grigia. Quel
mattino, il
treno delle 7 e 32, era partito senza di lei, senza di lui. Quella
mattina, il
treno delle 7 e 32, non era riuscito a portarsi via la sua
inadeguatezza e le
sue paure come quando, fino a cinque giorni prima, lo aveva preso con
lui. Si
tuffavano sui vecchi sedili incrostati di sporco e di polvere stantia,
al
riparo dalla pioggia di novembre ed aspettavano che li portasse a
destinazione.
Rimanevano stretti nei loro giacconi senza bisogno di dirsi poi
chissà quante
cose, lasciando che a parlare fossero i loro respiri vicini, a volte
troppo, e
le loro mani, spesso strette insieme in un’ineguagliabile
morsa.
Prima di morire,
il
pomeriggio immediatamente precedente alla sera
dell’incidente, lui le aveva
detto che si sarebbero ritrovati il giorno dopo “sul solito
treno”. Lei era
andata all’appuntamento, senza speranze, il viso rigato di
lacrime di rimmel
nero, tracciando nella nebbia del mattino il solito percorso.
E non aveva
trovato
nessuno ad attenderla.
Aveva aspettato,
finché, puntuale come sempre, il treno era partito senza di
lei, senza di lui,
senza di loro.
E
così aveva fatto
anche il mattino successivo e quello successivo ancora, ed il quinto
giorno
ancora era lì, tremante, avvolta nella sua felpa e con le
mani graffiate dalle
spine dei fiori, delle rose.
Avrebbe voluto
rivederlo, dirgli quelle parole che le erano rimaste incastrate in
gola, ma non
sapeva dove.
***
Primo
capitolo di una mini-long nata grazie a Claire. A proposito, grazie
mille cara.
^^ Infatti la sopracitata ispiratrice mi ha fatto conosce una frase che
credo
mi rimarrà stampata dentro.
Se
siete arrivati fin qui, vi ringrazio di aver letto.
Ogni
commento è ben gradito, ovviamente.
Anche
perché a questa Originale tengo particolarmente.
Jules
|
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Capitolo 2 *** La telefonata ***
2. La telefonata
La telefonata
che le
cambiò la vita arrivò alle due e quarantasette di
una notte di fine aprile. Saltò
giù dal letto ed, afferrato il cellulare, rispose con voce
assonnata. Quelli
che sentì dall’altro capo del telefono furono solo
singhiozzi. Poi la voce
della signora Erminia che la informava dell’incidente. Di
quella notte non ebbe
altri ricordi, o meglio, finse di aver dimenticato. La folle corsa con
l’auto
del padre fino all’ospedale, il viso di Lalla nel corridoio
adiacente alla sala
operatoria, la sensazione di vuoto nel vedere il corpo di lui privo di
qualsiasi umanità…
Era stata forte.
Aveva
rinchiuso ogni emozione nel cassetto della scrivania e, con viso duro,
aveva
finto che tutto andasse bene. Aveva indossato le sue lacrime migliori
ed aveva
accettato, senza parlare, ciò che era accaduto. Sentiva
impresso nella memoria
ogni dettaglio, nemmeno fosse stato marchiato a fuoco. Il display della
sveglia
che indicava un orario improbabile della notte ancora riluceva vivido
nei suoi
sogni. Ed il viso sfigurato del suo migliore amico, sbattuto sopra un
lettino
bianco che odorava di disinfettante, ogni tanto faceva capolino tra le
pagine
di una vecchia enciclopedia medica.
Per
quanto fingesse di non ricordare, lei
aveva capito fin da subito che quelli squilli del telefono non
avrebbero fatto
altro che rimbombarle dentro per l’eternità. Lalla
l’aveva chiamata solo due
volte in tutta la sua vita in piena notte. La prima, quando avevano
solo dodici
anni, le aveva raccontato tra i singhiozzi di come suo padre se ne
fosse andato
via di casa, lasciandola sola con la madre. Lalla aveva pianto per mesi
e mesi
e, solo quando arrivò il Natale ed, insieme alle feste, una
cartolina del padre
dalla Scozia, smise di ingrigire le giornate di lei. La seconda volta
che aveva
rinunciato a dormire era stato quando Lalla, con voce tremante, le
aveva
raccontato di come avesse appena fatto l’amore per la prima
volta con lo
storico fidanzato. Lei prima era scoppiata a ridere, poi aveva rivolto
alla sua
migliore amica una miriade di domande. La terza volta, avrebbe
preferito che
non fosse mai esistita.
Le
chiavi dell’auto del padre le erano scivolate tra le mani
più volte mentre
scappava via con sua madre che le gridava dietro di aspettarla. Aveva
sbattuto
il portone d’ingresso della palazzina dove abitava con foga
e, per quanto fosse
notte, in pochi secondi era riuscita ad aprire il grande cancello
verde. Si era
infilata nella piccola 4x4, buttando via dal sedile del guidatore un
fascio di
fogli perfettamente ordinati con i nuovi progetti di alcuni villini da
costruire fuori città realizzati da suo padre. Caddero
frusciando.
Aveva messo in moto ed
acceso la radio,
preferendo coprire il rumore dei pensieri con quello di una canzone
famosa che
presto sarebbe stata dimenticata. Aveva fatto retromarcia, ed una volta
uscita
dal cortile che fungeva da parcheggio per i pochi abitanti del suo
palazzo,
aveva trovato sua madre ad aspettarla proprio su un lato della strada.
Era
partita in fretta, lasciando scivolare i numeri sul tachimetro. Guidare
in
ciabatte non era stato il
massimo: il
piede continuava a scappare via dell’acceleratore, un paio di
volte non ingranò
la marcia proprio perché la frizione non era stata premuta a
dovere.
Sua
madre non parlava. Scrutava fuori dal finestrino le strisce di luce
provocate
dalla velocità, guardava i paesi susseguirsi oltre i
guard-rail della
superstrada. Un paio di volte tentò di aprire bocca, ma
rimase lo stesso in
silenzio. Di lei poteva vedere solo i lineamenti appena accennati
nell’oscurità
dell’abitacolo ed il riflesso stranamente scuro sui capelli
di un bel rame
acceso.
In
men che non si dica, si ritrovò ad arrancare lungo i
corridoi dell’ospedale,
incurante di poter provocare disturbo ai pazienti. Chiese ad
un’infermiera di
passaggio qualche notizia. Imprecò davanti la sua risposta
piatta ed inutile.
Alla fine, senza sapere nemmeno come, si ritrovò in un
corridoio giallo. C’era
Lalla seduta su una vecchia panca arancione. E nel momento esatto in
cui
incontrò i suoi occhi, capì che la sua corsa
disperata dentro la notte non
aveva avuto esito positivo.
Lalla
disse solo due parole. “E’ morto”. Tutto
quello che lei ricordava del dopo era
una sensazione indistinta, tra abbracci e lacrime e
quell’aspirina che un’infermiera
le aveva portato. La barella coperta da un telo bianco le
sfilò davanti in
silenzio e lei non riuscì a sostenere lo sguardo fugace
della morte. Lui era
lì, a pochi metri da lei. Chiuse gli occhi e la
lasciò sfilare, senza
accorgersi che di quel dolore faceva parte anche lei.
Lalla
le posò una mano sulla spalla. Piangeva anche lei. Ed
all’improvviso, vennero
fuori tutte le fotografie della loro storia.
Quella
volta che avevano dormito insieme in tenda, quell’estate al
bar, seduti ai
soliti tavoli arancioni, quella mattina che avevano perso il treno e si
erano
ritrovati stipati nell’abitacolo di un camion… E
la volta in cui, senza sapere
come, lui l’aveva baciata contro il muro di un corridoio
d’albergo. Ed il
mattino seguente, lei aveva capito che quella era stata la notte
migliore della
sua vita. L’aveva capito dal modo in cui lui gli aveva
offerto il suo maglione
beige perché aveva freddo, dal modo in cui era corsa
affannosamente per tutto
il corridoio per non farsi beccare, dal modo in cui aveva sentito
aprirsi un
sorriso sul suo viso non appena Lalla aveva aperto la porta della loro
camera
703.
E
quei momenti non sarebbero tornati più.
Erano
scivolati lungo il corridoio di quell’ospedale sotto il velo
bianco.
***
Mi ritrovo ad
aggiornare prima del previsto. In realtà questa storia si
sta creando
praticamente da sola ed io rispondo solo al bisogno di battere i
polpastrelli
sulla tastiera. Ovviamente un grazie a chi ha commentato il capitolo
precedente
ed a quanti hanno inserito la storia tra le
preferite/seguite/ricordate.
Spero vi piaccia
anche
questo.
Jules
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Capitolo 3 *** Ti ricorderai di me? ***
3.
Ti ricorderai di me?
“Il
tempo passa, le
stagioni cambiano. Lo dimenticherai.”
Aveva sentito
quella
frase rimbombarle dentro per giorni e giorni dopo il funerale. Nessuno
sembrava
poter dire altro che non fosse uno stupido
“passerà”. E lei, con tutta la
rabbia che aveva dentro, avrebbe solamente voluto urlare
all’indirizzo degli
sconosciuti che non lo avrebbe voluto dimenticare, che non avrebbe
potuto. Le
era rimasto impresso dentro ed il suo sorriso scolorito riluceva ancora
nei
margini lucidi di quelle tante fotografie che aveva e che continuava a
sfogliare dentro vecchi album.
La gente, per le
strade
del suo paese, la additava ed il suo nome veniva mormorato ovunque. Lei
era “la
sua migliore amica”, famosa non per scelta, ma per tragedia.
E non poteva fare
altro che chiudere gli occhi ed abbassare la testa ogni volta che il
suo nome
veniva legato nelle conversazioni a quello del “suo migliore
amico”.
La gente,
semplicemente, non capiva. Non capiva e non sapeva. Lei non era solo
“la
migliore amica”. Lei era la persona che lui aveva baciato il
pomeriggio prima
di morire. Era la persona con cui lui aveva fatto l’amore in
una stupidissima
camera d’albergo con le tende arancioni e la moquette verde.
Era la persona
che, forse, ormai al di là del tempo e dello spazio, lui
amava. E lei, proprio
lei, se ne sarebbe ricordata?
Il
bagliore del sole veniva filtrato da quelle orribili e pacchiane tende
arancioni. La
ragazza non si prese
nemmeno la briga di sapere che ora fosse. Potevano essere le sette
così come le
nove. E,se davvero fossero state le nove, lei era, terribilmente ed
irrimediabilmente, in ritardo. Si stiracchiò, rendendosi
solo allora conto di
non essere sola nel letto. A stringerla con un braccio intorno alle sue
spalle
nude, c’era, ancora addormentato, Davide.
Solo
allora, con la forza di un fulmine, le tornarono in mente tutti i
dettagli di
quella notte. Avevano stentato a salutarsi, qualche corridoio
più giù. I loro
occhi si erano incontrati e si erano scoperti desiderosi
l’uno dell’altra. E poi
la distanza tra le loro labbra si era annullata in un soffio. Si erano
ritrovati incastrati nei loro stessi sentimenti e, chiudendosi la porta
della
camera all’esterno, avevano lasciato tutti i problemi e le
preoccupazioni
fuori.
Il
resto erano dettagli indistinti che stava cercando disperatamente di
mettere a
fuoco. Le mani di Davide che la spogliavano, lasciando cadere i suoi
indumenti
su quella moquette verde acido. Le sue mani che stringevano quel
piumone
giallo, i muscoli contratti, nel disperato bisogno di aggrapparsi a
qualcosa. I
suoi baci roventi, che le scendevano lungo il collo e la facevano
rabbrividire.
I
ricordi stavano lentamente prendendo forma dentro di lei,
materializzandosi.
Presto gli avrebbe etichettati come “i ricordi migliori della
sua vita”.
Perché, di quella notte, non gli serviva ricordare altro. Le
sarebbero bastati,
per sempre.
-
Da’?
Si
era meravigliata nel sentire la sua voce così roca, inusuale
rispetto alla
solita così sorprendentemente acuta. Lui aveva mugugnato
qualcosa nel sonno e
poi aveva aperto gli occhi. Occhi azzurri.
-
Ehi!
La
sua voce l’aveva colpita come una carezza e non aveva potuto
fare altro che
accoccolarsi ancora contro il suo petto. Dieci minuti dopo, la sveglia
era
suonata.
-
Devo tornare in camera!
E
si erano salutati sulla soglia della camera, gli sguardi carichi di
promesse e
di aspettative. Lui le aveva accarezzato i capelli, lei aveva sorriso,
senza
parlare. Come faceva sempre, quando le parole erano troppe e le
morivano in
gola.
-
Ti ricorderai di questa notte, vero? Ti ricorderai di me?
Lei
aveva annuito e si era tenuta stretta i ricordi.
E le stagioni
cambiarono davvero, ed il tempo inequivocabilmente passò, ma
lui, tra i suoi
ricordi, non sbiadiva.
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Capitolo 4 *** Rumore ***
4. Rumore
Le parole di
quella puttana, gridate al vento
della piazza,
erano entrate nei muri delle case della gente e si erano fermate sulle
loro
bocche, ormai dimentiche di lei. Fede, stronza, continuava a ripetere a
chiunque fosse tanto coraggioso da prestarle attenzione che Davide
amava lei e
che, soprattutto, era morto per lei. “Stronzate”,
avrebbe voluto gridare lei,
che aveva imparato a convivere con il dolore, chiudendolo in uno dei
compartimenti stagni di quel cuore spavaldo che aveva. Stronzate,
sì, perché
Davide era sempre stato- e nessuno aveva mai osato affermare il
contrario- suo.
Fede strillava
il suo
dolore in maniera teatrale, cercando attenzione e fama tra le poche
anime
caritatevoli della città. Fede ripeteva un mucchio di bugie,
inventava aneddoti
mai vissuti e gettava fango su di lei, sulla migliore amica. E la gente
parlava, ancora, cercando spiegazioni e trovando la stronza ad
inventare
castelli esili ma alti di menzogne ben ricamate. Fili neri continuavano
ad
essere ammassati insieme e raccontavano storie di qualcuno che non
c’era più.
La tomba di
Davide-
così bianca nel rossore del tramonto di maggio- veniva
sporcata e ripulita con
valanghe di parole e le rose su di essa erano ormai appassite da tempo.
E lei,
tra test di ammissione per l’università e notti
folli in strade desolate, appassiva
con loro. Lalla non era stata capace di fermare la distruzione
che la ragazza si stava auto-imponendo. Sarebbe finita
anche lei a piangere su una tomba bianca ogni notte così
come faceva la sua migliore
amica- o quel che restava di lei?
E Mads-
perché
“Maddalena” le era sembrato sempre un nome troppo
antiquato- continuava a
vivere a spezzoni, mordendo qua e là un pizzico di
felicità. E nessuno più
sapeva perché ogni mattina si rifugiasse a vedere il treno
delle 7 e 32 che
partiva senza di loro. E nemmeno Mads lo spiegava più a se
stessa. Le carrozze
sfilavano come un corteo funebre, sporche
di scritte e di vita, così come piacevano a lei. E
le vedeva sfilare, i
volti dei pendolari carichi ciascuno del proprio dolore. Nessuno
sembrava più
poter sorridere nel mondo di Mads. Nessuno sembrava più
poter dimenticare.
E
l’autunno arrivò,
quando il volume della sua vita sembrava al massimo. Urlava la voce
della
musica diabolica delle discoteche, urlava sua madre stanca di vedere in
giro
per casa quelle maledette pasticche, urlava Lalla che la vedeva
consumarsi tra
alcool e quelle 20 sigarette che mandava giù ogni giorno,
urlava la gente per
strada accusando lei di essere la puttana e non Fede. Urlavano tutti,
cercando
di sovrastare il canto del dolore. Urlavano tutti, senza sapere cosa
Davide
avrebbe davvero voluto.
E mentre la sua
vita
andava a rotoli così come non aveva mai fatto, nel centro
del baratro, trovò
nel suo vecchio diario quello che Davide le aveva scritto tanto tempo
prima.
“Ci
incontreremo dove il mondo è silenzioso”.
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Capitolo 5 *** Anni dopo ***
5.
Anni dopo
Dieci
anni dopo, dalla vita aveva ottenuto tutto quello che voleva. Il lavoro
dei suoi sogni era lì, a portata di contratto, i binari del
treno, distorti, erano tornati a correre verso
l’orizzonte. Nessuno si ricordava più di lei: ogni
tanto tornava a percorrere le strade del suo paese, passando attraverso
le bocche della gente senza essere definita puttana.
Sembrava che il suo fantasma, quello che aveva perso il treno ed aveva
pianto sulla tomba bianca, si fosse volatilizzato tra le pieghe del
tempo, rimasto immobile, cristallizzato, in un vecchio cassetto
polveroso. Lalla se n'era andata via, Fede era sparita dietro le sue
menzogne. Del passato non le rimanevano che briciole, foglie secche e
qualche ombra di vecchi sorrisi che ogni tanto- forse troppo spesso- le
passavo sulle labbra rosse.
Davide le era rimasto dentro, leggero e
docile, ormai dimenticato e sostituito da visite, ricette, operazioni.
Famosa in un mondo distante, si era lasciata alle spalle il treno delle
7 e 32. Aveva corso più veloce di lui oppure era
rimasta indietro? Il passo accelerava, i minuti diventavano
anni ed il suo mondo continuava ad urlare. Frammenti di bottiglie erano
rimasti nascosti sotto il letto, insieme a quel bagaglio di foto, libri
e –perché no?- speranze, che si era portata via
prima di cambiare aria.
Aveva sconfitto la morte, così come i principi sconfiggevano
i draghi e poi sposavano le principesse. Aveva sconfitto il dolore,
mandandolo giù come una di quelle pillole amare che era
costretta a prescrivere ai suoi pazienti. Aveva sconfitto quella parte
di sé che si era lasciata andare, deviando da una vita un
tempo perfetta. Un muro di mattoni la divideva dal passato.
Maddalena- perché ora il suo nome andava bene- aveva
ottenuto tutto. La morte di Davide era stato un incidente di percorso,
l’amicizia di Lalla l’ultima delle finzioni, la
cattiveria di Fede un esempio da imitare. Aveva schiacciato ogni
emozione, riducendola ad un flebile agglomerato di anni.
E quando tornò alla loro
stazione per l’ultima volta, il bagaglio che si portava
dietro era pesante. Lo stringeva affannata, il peso degli anni che le
incurvava la schiena, la mente annebbiata dal lavoro. Maddalena stava
per intraprendere il suo ultimo viaggio, quello vero, quello definivo.
Dentro la sua valigia aveva messo tutto, perfino il suo passato. E nel
silenzio della stazione – perché alla fine il
rumore si era spento- lo rivide. Era bello come quando aveva diciannove
anni, e lei era vecchia, con i suoi ottanta. Gli sfiorò la
mano in un gesto d’affetto dimenticato. E poi chiuse gli
occhi, invasa dalla musica del silenzio.
Due giorni dopo, morì. Il mondo era corso avanti, le nuove
generazioni avevano pianto per lei, l’uomo che aveva sposato
–forse per finzione- era rimasto solo. E Maddalena aveva
aperto il suo bagaglio. Era rimasto ancora qualche coccio di bottiglia,
qualche sigaretta, la laurea, il lavoro, i tacchi di vernice, il
rossetto rosso e la collana di perle. E, in fondo, l’amore
per Davide.
La valigia rimase vuota.
Dovunque lei fosse finita, ormai c’era silenzio.
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