Inseguendo una chimera

di Evil91
(/viewuser.php?uid=19223)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Le coincidenze ingannano ***
Capitolo 2: *** 2. Disegnare ***
Capitolo 3: *** 3. Un caffè è solo un caffè ***
Capitolo 4: *** 4. Confidence ***



Capitolo 1
*** 1. Le coincidenze ingannano ***


Entrò nello studio togliendosi gli occhiali da sole e rivolgendo un sorriso di circostanza alla ragazza appoggiata al bancone che stava parlando con Riccardo che appena lo vide pose fine al discorso e si affrettò a raggiungerlo.
«Ehy ciao Gabe, tutto bene?»
«Non mi lamento. C’è qualche problema col disegno?», guardò il tatuatore che sorrise quasi imbarazzato e fece cenno alla ragazza di prima di avvicinarsi.
La prima cosa che gli saltò agli occhi furono i capelli rosso acceso, poi squadrandola fino ai piedi si immaginò il suo corpo scoperto e quello che immaginò gli fece affiorare un sorrisino sulle labbra.
«Vedi non mi è mai successo, però, lei è Radiant e lui è Gabriel. Visto che non credo vi conosciate mi sembrava giusto fartelo sapere Gabe. Mi avete chiesto lo stesso identico tatuaggio e nello stesso posto quindi non saprei.»
Sentendo quelle parole Gabe, che comunemente non prestava attenzione alle altre persone se non per qualche strano particolare caso, concentrò la sua attenzione sulla ragazza che lo stava guardando con un’espressione serena e al tempo stesso spavalda.
A occhio e croce non le diede più di vent’anni, tuttavia era più propenso a pensare che fosse appena diventata maggiorenne se non fosse stato per la luce che le anima gli occhi: quella luce che i neo diciottenni non potevano conoscere.
«Per me non c’è nessun problema, sempre se per lui va bene. Tanto credo che abbiano significati diversi e quel che conta è ciò che è per me, o no?»
Si ritrovò a fissare quegli occhi marroni, contornati dalla matita nera che li faceva apparire più minacciosi e per qualche secondo il suo cervello si sconnesse del tutto impedendogli di formulare una frase di senso compiuto e facendogli balenare in mente l’idea che un’altra persona che volesse un tatuaggio uguale al suo non fosse solo una coincidenza.
«Che significato ha per te?»
«Ho la faccia di una che lo va a dire al primo sconosciuto che passa? No.», gli sorrise dolcemente, come se non avesse appena detto quelle parole con la stessa noia con la quale si manda via una mosca fastidiosa.
«Senti Rick appena hai un buco libero fammi sapere che così lo facciamo e ci leviamo il pensiero. Ci si vede bello.»
Sentì la mano della ragazza che gli dava qualche pacca sulla spalla e poi la vide uscire dallo studio con la stessa tranquillità con la quale l’aveva vista parlare appena entrato.
«Chi è quella?», Riccardo lo guardò scuotendo la testa e cercando di nascondere un sorriso che però stava nascendo, bastardo e traditore, sulle sue labbra.
«Radiant.»
La smorfia e il sospiro contrariato che fece ebbero l’effetto desiderato ovvero di avere tutta l’attenzione di Riccardo che lasciò perdere il disegno e lo guardò appoggiando il mento alle mani, sinceramente curioso.
«Radiant eh?»
«Esatto Radiant. E non pensarci nemmeno.» lo sguardo che gli rivolse fu più eloquente e fece desistere Gabriel dall’insistere, appunto, su quello che stava pensando.
«Senti, francamente non mi va tanto a genio che la ragazzina abbia il mio stesso tatuaggio.»
«Puoi fartene un altro.», lo fulminò immediatamente facendogli intendere che quell’opzione era fuori discussione, mentre un brivido freddo gli scorreva lungo la spina dorsale.
«Come faccio a trovarla?», l’occhiata dell’amico, perché ormai si conoscevano da anni ed era stato l’unico a poter marchiare la sua pelle, gli fece intuire che non sarebbe stato semplice trovarla.
Ma a lui piacevano le sfide e se quella la doveva considerare come tale, allora era più che intenzionato ad ottenere la vittoria.
«Tu non puoi trovarla perché non vuoi sul serio trovarla.»
«Come mai ho l’impressione che tu la stia proteggendo? Non dirmi che c’è qualcosa che dovrei sapere.», la malizia che mise in quelle parole non passò inosservata all’amico che sbuffò contrariato e gli scoccò un’occhiata per niente amica.
«Sparisci Gabe, devo lavorare.»
Rise divertito e lo salutò sapendo benissimo che se lui era contrario a quella cosa allora Riccardo non avrebbe tatuato niente sulla pelle della ragazza senza il suo consenso. A volte la sua etica morale andava a cozzare con la sua, ma in quell’occasione dovette ammettere che gli faceva abbastanza comodo; soprattutto in vista di un ulteriore incontro scontro con la ragazzina.
Si rimise gli occhiali da sole e una volta infilate le mani nel giubbotto di pelle si avviò verso la macchina fermandosi a guardare la sua immagine di fronte alle vetrine, dietro le quali logicamente le commesse sarebbero corse per ammirarlo.
Era ben conscio dell’effetto che aveva sulle ragazze e doveva ammettere che la cosa lo lusingava parecchio, oltre al fatto che gonfiava il suo ego in modo spropositato, e più volte si era divertito a giocare con queste ultime per poi andarsene senza voltarsi o pentirsi delle sue azioni.
Era giovane, aveva solo ventisei anni e voleva godersi la vita in tutto quello che poteva offrirgli per quello non disdegnava mai nulla che potesse dargli una parvenza di svago.
Si passò una mano fra i capelli fissando i suoi stessi occhi riflessi nel vetro lasciando che i pensieri gli riportassero alla mente parole che aveva sentito da ragazze più o meno innamorate dei suoi “stupendi e magnifici occhi verdi”.
«Soltanto un narcisista come te poteva rimane a fissare il suo riflesso di fronte a delle povere oche che tentano, invano, di far finta di lavorare.»
La voce non del tutto familiare lo riscosse dai suoi pensieri e gli fece spostare lo sguardo sul riflesso che si era affiancato al suo facendogli riconoscere quella ragazza dai capelli rosso fuoco che fissava le commesse del negozio, probabilmente disgustata.
Il suo sguardo cadde su una commessa del negozio, probabilmente quella fissata dalla ragazza, e fu inevitabile il confronto con quella che le stava di fianco.
Ovviamente vinceva la commessa.
«Non sono narcisista.»
Guardò il sorriso di lei e fissò le ciocche di capelli che sfuggivano da sotto il cappuccio che rendeva quasi invisibile il suo viso, fatta eccezione per le labbra rosee e morbide anche ad una prima occhiata; le mani infilate nelle tasche del giubbotto e le spalle leggermente inarcate in avanti gli fecero intuire che dovesse sentire freddo, nonostante fossero agli inizi di maggio.
«Il solo fatto che lo neghi è già di per sé una dichiarazione.»
Finalmente smise di guardare il riflesso di lei e si voltò per guardarla di persona, ovviamente squadrandola con aria si superiorità; quello che lo lasciò interdetto fu il sorrisino di scherno che vide apparire sulle labbra di lei appena i loro occhi si incrociarono.
Erba e fango a confronto.
Non che reputasse brutti gli occhi di lei, tuttavia in quel momento gli ricordavano il fango; quel fango che una volta che ci sei dentro non riesci più ad uscirne.
«Tacere equivale a un sì, di conseguenza devo dedurre che tu mi abbia appena ammesso di essere narcisista.»
«Quanti anni hai?», il tono scontroso con cui lo chiese ebbe il risultato di far ridere la ragazza, della quale si era già scordato il nome, e di far incupire lui che stava seriamente pensando di mandarla a quel paese per fare qualcosa di più costruttivo invece di perdere tempo con lei.
«Non di certo quelli che mi dai tu, venticinquenne.» la frecciatina sulla sua età lo toccò nel profondo aprendo una piccola incrinatura in quella che era la sua autostima che mai era stata intaccata da qualcosa. Nonostante pensasse a se stesso come a un ragazzo di ventisei anni, dato che di lì a fine mese li avrebbe compiuti, non amava che gli venisse ricordata la sua età e sentirselo dire da una ragazzina sfrontata e che sembrava esattamente sapere dove andare a colpire lo faceva irritare più del dovuto.
«Dovresti tenere a freno la lingua ogni tanto, bambina, se non vuoi finire nei guai.»
Ancora quella risata a deriderlo e vide perfettamente l’intenzione di lei di allontanarsi da lui, ma appena tentò di sorpassarlo l’afferrò malamente per il braccio costringendola a fermarsi e a tornare davanti a lui.
Non distolse l’attenzione dagli occhi di lei che passarono, prima confusi dalla sua mano sul suo braccio e poi infuriati al suo viso; quasi avesse l’intenzione di incenerirlo con lo sguardo.
«Sei pregato di lasciarmi il braccio. Io e te non abbiamo tutta questa confidenza che ti permette di toccarmi.»
Lasciò il braccio di lei come se si fosse scottato e rimase immobile a guardarla mentre si allontanava senza degnarlo di un’occhiata o di una parola; mentre dall’altro lato della strada Riccardo lo stava fulminando con lo sguardo.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. Disegnare ***


Appoggiò la guancia sulla mano guardando, svogliato, fuori dalla finestra come se niente all’interno di quella stanza potesse catturare la sua attenzione; neanche la porta che si apriva e si chiudeva dietro di lui, o le risate dei suoi amici che erano appena arrivati.
Era stato il primo ad arrivare in saletta prove e dopo qualche minuto passato ad accordare la sua preziosa chitarra quest’ultima aveva perso ogni interesse e si era ritrovato a fissare il mondo fuori dalla finestra.
Logicamente senza che niente attirasse la sua attenzione.
«Come mai non sento nessuna chitarra che strimpella? Quando il mondo ha iniziato a cambiare?»
Non fece in tempo a rispondere o voltarsi che fu accerchiato dai suoi due amici, con delle espressioni leggermente incuriosite dalla sua strana aria annoiata.
Non sapeva esattamente cosa rispondere, o meglio, non aveva voglia di rispondere.
In quel momento sembrava che qualsiasi parola fosse priva di significato o che non fosse all’altezza della sua persona; strano considerando che lui di solito con le parole ci andava a nozze.
«Nessuna risposta acida, qui è successo qualcosa. Chitarrista che è successo?»
«Mi ha dato del venticinquenne.»
Gli sguardi confusi dei due lo fecero sperare in bene e in nessuna presa in giro, ma le sue speranze furono vane quando vide che dopo l’attimo di smarrimento i due cominciarono a ridere a crepapelle tenendosi la pancia e facendo fatica a pronunciare una qualsiasi frase o peggio ancora parola di senso compiuto.
Sbuffò contrariato e assestò un pugno sulla spalla di entrambi nell’inutile tentativo di far cessare quelle risate pressoché oscene.
«Ma tu hai venticinque anni!», quella piccola osservazione lo fece irritare più del dovuto e si alzò spostando malamente gli amici che per qualche secondo riuscirono a darsi un comportamento dignitoso e poi ricominciarono a ridere facendo assurde ipotesi su chi o cosa potesse avergli detto la sua età e soprattutto in quale contesto poteva averla usata per farlo innervosire così tanto.
«Dovreste smetterla di ridere, potreste morire e io non farei niente per salvarvi.»
«La stronzaggine è qualcosa di insito nel tuo animo, amico.»
«A quanto pare c’è chi mi batte.», non riuscì a nascondere il tono mogio e sommesso con il quale disse quelle parole che erano un chiaro affronto al suo ego di maschio dominatore.
Quello non passò di certo inosservato agli amici che dopo essersi scambiati un’occhiata abbastanza eloquente gli si avvicinarono giusto per dargli conforto anche solo con la loro presenza, nonostante la curiosità di sapere chi aveva ridimensionato così drasticamente il suo ego maschile fosse a livelli mai visti prima di quel momento.
«Chi ti ha dato venticinque anni? Che scusa, ma li porti benissimo.», nonostante fossero amici e sapeva benissimo che stavano cercando di consolarlo, cosa che lui odiava, non potevano evitare di prenderlo in giro per le sue debolezze o incertezze, cosa altrettanto odiata anche quella; e dovette ammettere che forse se l’era cercata un po’, quella presa in giro.
«Una bambina.»
Il suo orgoglio gli aveva sempre impedito di chiedere aiuto e soprattutto di dire ciò che lo turbava come se fosse una lista della spesa; per quello i suoi amici si erano ormai abituati ai suoi lunghi silenzi e alle piccolissime notizie che lui era solito rivelargli e quindi non si scomposero tanto sentendo quella risposta.
«Quanti anni aveva questa bambina? E soprattutto, da quando ti importa dell’opinione delle altre persone?»
«Non lo so quanti anni abbia, ma solo che quella piccola irriverente, smorfiosetta, acida e scontrosa ragazzina mi ha dato del venticinquenne facendomi passare per vecchio!»
Sbottò tutto d’un colpo, ormai stufo di sentire quei sinonimi rimbombargli in testa come se fossero una presa in giro per lui.
«Tu hai prestato attenzioni alle parole di una ragazzina? Cos’è successo per far scontrare il mondo reale con il mitico Gabriel?», fulminò Dani e senza dargli il tempo di scappare gli tirò un pugno bello carico sul braccio, vedendolo massaggiarsi poi il punto ferito con un’espressione afflitta che gli fece nascere un sorriso malevolo sulle labbra; tuttavia quella piccola vendetta non servì a distogliere i suoi pensieri da quella ragazzina di cui non ricordava il nome e che non vedeva da qualche giorno ormai.
Tornò a sedersi vicino alla finestra osservando i passanti per strada e facendo intuire agli altri due che quel giorno non sarebbe stato in grado di combinare nulla, nonostante lui per primo volesse rispettare la tabella di marcia.
Qualche secondo dopo si vide sventolare davanti dei fogli bianchi e li prese al volo ringraziando con un sorriso Alex che si allontanò scrollando appena le spalle e prendendo posto davanti al mixer, incaricandosi per una volta del suo lavoro.
Prese una penna rigirandosela fra le dita, indeciso su quello che avrebbe voluto far con quell’inchiostro che spesso l’aveva aiutato a riordinare i pensieri. Tornò a osservare le persone, che incuranti del suo sguardo, attraversavo chi di corsa chi lentamente la strada sotto i suoi occhi, troppo impegnate nella loro vita che di sicuro non li soddisfava a pieno.
Quasi in automatico con i primi rulli di tamburo la penna iniziò a scivolare leggera sulla carta, macchiandola con segni e piccole sbavature là dove non venivano soddisfatti i suoi desideri.
Ogni tanto si fermava per ascoltare il tipico vibrare delle pareti al suono potente della batteria e del suo batterista e un sorriso sincero spuntava sulle sue labbra, laddove qualche secondo prima c’era un’espressione corrucciata.
Spostando lo sguardo dal vetro al foglio si rese conto di non aver visto realmente il foglio in quegli attimi di totale trance e pace con se stesso; non aveva idea di cosa voleva fare con quella penna e con quel foglio; solo a risultato finito si rese conto che ciò che aveva fatto non era per niente vicino alla realtà che lo circondava.
Appena l’ultimo suono lasciò la stanza nel completo silenzio avverti la presenza dei suoi amici dietro di lui, curiosi di sapere cosa aveva prodotto la sua mano in quei momenti di solitudine dentro la moltitudine; semplice alzò il foglio per farli contenti aspettandosi la solita serie di esclamazioni estasiate o critiche che sempre sopraggiungevano a una sua creazione, qualsiasi fosse la sua natura.
«Direi da brividi.»
«Concordo con il cantante, è semplicemente fantastico.»
Sorrise orgoglioso della sua creazione e fece girare la sedia a rotelle ritrovandosi di fronte i loro sguardi sorridenti e rassicuranti che però non riuscirono a nascondere la nota di inquietudine che li agitava dentro.
«Forza sparate, è solo un disegno.»
«Credo che sia… È una chimera, vero?»
Il chitarrista si limitò ad annuire concentrando lo sguardo sul disegno che non si era reso conto di avere in testa; non aveva mai prestato attenzione ai miti greci e a quelle leggende e quindi non sapeva sul serio da dove potesse venir fuori quel disegno anche perché non ne aveva mai sentito parlare.
Una chimera.
Fissò la coda di serpente come se quella potesse parlargli e dargli una risposta a quello che segretamente stava pensando.
Riprese il foglio in mano e dopo aver sfiorato con la mano il disegno appena concluso decise di non farsi ulteriori domande su ciò che era e lo appese al muro vicino a tutti gli altri disegni nati in quella saletta. Sorrise contemplando le sue opere d’arte e non si accorse della veloce ricerca che i suoi amici avevano appena compiuto su Internet.
«Oltre ad essere un animale mitologico e un mostro, cosa che il tuo non è, ha un altro significato. Attualmente è quello di illusione, utopia… Hai forse un sogno utopico e irrealizzabile di cui non ci hai parlato?»
Rise sommessamente dandogli uno schiaffo sulla coppa per risposta e osservando le immagini che erano apparse sullo schermo del computer.
Non avevano niente a che fare con la sua, la sua era decisamente più bella, più sensuale e più accattivante; aveva un che di perverso e al tempo stesso di lussurioso.
Era semplicemente più bella delle altre; non che fosse perché l’aveva disegnata lui, ma per qualcosa che aveva qualcosa che non riusciva a capire; che derivasse dal modo in cui era disegnata o dal fuoco che sembrava lambire ogni più piccola parte di quella figura mitologica, quasi volesse accarezzarlo come un’amante passionale, non lo sapeva. Sapeva solo che la sua era migliore.
«Ero sovrappensiero mentre disegnavo, quindi francamente non saprei dirvi.»
«Di ma questa piccola irriverente, smorfiosetta, acida e scontrosa ragazzina dove l’hai incontrata?»
«Dani tappati la bocca se non vuoi finire male o sennò collega il cervello alla bocca prima di parlare.», rise vedendo l’amico sbuffare e fare l’imbronciato tuttavia il suo pensiero tornò a fissarsi sulla ragazzina che fino a quel momento era rimasta fuori dai suoi pensieri.
Storse la bocca in una smorfia di insofferenza desiderando ardentemente non fare collegamenti con lei e con la sua vita.
«Vuole farsi il tatuaggio uguale al mio. Non credo nelle coincidenze, prima che voi lo chiediate.»
«E tu sei d’accordo?»
«Certo che no! O meglio, non le avevo prestato tanta attenzione finché non ha parlato e non mi ha coperto di velati insulti, allora da lì sì che mi da fastidio averlo uguale a lei. Devo solo farle cambiare idea.»
«Ma quindi sai chi è?», scosse semplicemente la testa non sapendo che altro aggiungere visto che non si ricordava neanche il suo nome. Solo che iniziava con la erre e non conosceva molti nomi con quella consonante.
«E come hai intenzione di convincerla a cambiare idea sul tatuaggio?»
Si limitò ad alzare le spalle come se la cosa non fosse molto importante.
Il chitarrista non era solito porsi domande su come agire finché non fosse venuto il momento stesso di agire e quindi sapeva che prima o poi l’avrebbe rincontrata.
Dopo quella pausa e aver lasciato libero sfogo alla sua creatività decise che era il momento di concretizzare quel pomeriggio facendo quello che sapeva fare meglio: suonare.
Due ore più tardi furono interrotti dal suono del suo cellulare e mentre le note di “21 guns” dei Green Day riempivano l’aria, Gabe rimetteva dolcemente a posto la sua fida chitarra e rispondeva al numero sconosciuto che lo stava chiamando.
«Pronto?»
«I significati variano da persona a persona. Non puoi pretendere che io rinunci a qualcosa che sento mio solo perché tu sei troppo pompato o mentalmente chiuso, cosa che non dubito, per accettare che io o qualunque altra persona a prescindere possa avere qualcosa di uguale a ciò che possiedi tu.»
Gabe rimase interdetto per le prime parole, ma quando comprese l’argomento della chiamata e riuscì a riconoscere quella voce fastidiosa che stava parlando, certamente con un linguaggio più che appropriato, di argomenti che non era solito discutere al telefono.
«Forse dovresti fermarti e respirare, sai non vorrei che ti potesse succedere qualcosa per questo tuo insano bisogno di mettere in chiaro cose che per me sono più che chiare.»
«Allora tu dovresti scendere dal piedistallo in cui ti sei messo da solo e ricordare che sei semplicemente un essere umano come tutti noi e non un Dio sceso in terra.»
«Veramente sono un supereroe.»
Trattenne le risate nel tentativo di essere serio, nonostante le risate dei suoi amici giungessero alle sue orecchie come una tentazione a cui era difficile cedere.
«E io il cattivo di turno.»
Quella risposta lo immobilizzò e gli si congelò nella mente mentre il suo sguardo sospettoso si posava sulla sua chimera. Decise di non rispondere, visto che un’insana idea stava prendendo forma nella sua mente e voleva avere tutto il tempo di ragionarci su e poi a quel punto non aveva molto con cui poter ribattere alla ragazza.
«Uno a zero per il cattivo. Supereroe. Io starei seriamente in guardia che se continui così demolirti sarà un gioco da bambini.»
«Dove sei?»
Il silenzio che accolse la sua domanda gli fece intendere che era arrivata inaspettata e come tale aveva spiazzato il ricevente che in quel momento stava trattenendo il fiato dall’altra parte della cornetta; ghignò immaginandosela in difficoltà e alla ricerca di una possibile risposta con la quale, magari, spiazzarlo a sua volta.
«Non ti interessa.»
«Invece mi interessa molto, visto che vorrei offrirti un caffè e magari discutere di questa cosa di persona, che ne dici?»
«Dico che sei solo un chitarrista con la testa montata. Fra mezz’ora in galleria.»
Non ebbe il tempo di rispondere che dall’altra parte si sentì il classico suono di quando la comunicazione viene chiusa; rimase a fissare il cellulare nella mano che di certo non poteva, da solo, riprendere quella telefonata.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. Un caffè è solo un caffè ***


Spense la sigaretta nel momento esatto in cui la rossa gli si parò davanti guardandolo con un sorrisino malizioso.
«Sei in ritardo. Uno a uno. Palla al centro.»
«Buongiorno anche a te, chitarrista.», il tono acido con cui l’aveva salutato lo fece ridere e decise di prenderla un po’ in giro, giusto per vedere come avrebbe reagito.
«La sconfitta brucia eh?», guardò la ragazza sbuffare e entrare nel primo bar davanti loro solo per raggiungerla velocemente trattenendo a stento le risate che ancora volevano uscire.
Lei lo fissò truce e dopo aver ordinato per entrambi un caffè lungo appoggiò il mento sopra le mani guardandolo di traverso aspettando una sua parola.
Gabe sorrise e senza pensare le prese una ciocca di capelli, che sfuggiva alla coda fatta alla meno peggio, e se la rigirò fra le dita sotto lo sguardo di lei scocciato che però non fece niente per impedirglielo.
«Chitarrista…»
«I tuoi capelli sembrano il fuoco, l’hai mai pensato?», vide la ragazza scuotere la testa e liberare dalla sua presa i suoi capelli, tentando poi di spostargli la mano; ma lui la intrappolò nella sua rimanendo sorpreso nel notare quanto differenti potessero essere.
Provò a intrecciare le loro dita, ma lei riuscì a sfuggire da quella presa e spostò entrambe le mani il più lontano possibile dalle sue guardandolo poi malamente.
«Un caffè è solo un caffè non altro.»
«Ma durante un caffè potremmo sempre conoscerci.»
«Mai detto di volerti conoscere chitarrista. Due a uno per me.»
Non ebbe il tempo di obbiettare che il cameriere gli servì i caffè lanciando alla ragazza uno sguardo abbastanza eloquente, sguardo che lei ricambiò immediatamente senza perderlo di vista fino a quando non sparì dietro il bancone.
Quello scambio di sguardi lo fece irritare più del dovuto e si rese conto che forse lui non voleva solo un caffè con lei.
Avrebbe voluto dire qualcosa, invece rimase a scrutarla mentre in silenzio beveva il caffè e guardava gli spostamenti del cameriere non senza un sorrisino a metà fra il malizioso e il divertito sulle labbra.
«Potresti anche evitare.»
«Geloso, chitarrista?»
«Di te? Neanche se mi paghi.»
Guardandola ridere si rese conto di aver detto veramente la cazzata più grande che potesse dire.
Non sapeva come e non sapeva perché, ma vedendola ridere con la mano davanti alla bocca, gli occhi leggermente chiusi e le spalle che sussultavano a quelle risate si rese conto che era geloso sì.
Geloso degli sguardi che il cameriere le aveva lanciato, geloso di come lei l’aveva seguito nei suoi spostamenti e forse geloso che quegli sguardi non fossero stati per lui.
Scosse la testa e finì il caffè appoggiando poi la guancia sulla mano continuando a guardarla mentre cercava di smettere di ridere.
«Sei bella quando ridi.»
Le risate cessarono immediatamente e si ritrovò inchiodato da uno sguardo di fuoco, quando poco prima quegli occhi erano semplicemente divertiti.
L’aveva vista arrossire, nel secondo in cui aveva detto quelle parole lei aveva, contemporaneamente, smesso di ridere ed era arrossita; per un solo istante, poi aveva ripreso il controllo di sé e l’aveva inchiodato con uno sguardo di fuoco.
E quella cosa lo fece sentire benissimo.
«Due pari.»
«Dovresti imparare a stare zitto Gabriel. Non te l’hanno insegnato?»
«Non chiamarmi così.»
«E perché? È il tuo nome alla fine, ma cosa dovrei aspettarmi da uno come te? Che tu ti ricorda il mio nome? Certo che no, no io mi aspetto che tu mi inviti a prendere un caffè mi dici che sono bella e poi magari pretendi anche di portarmi a letto. Scendi da quel piedistallo che non sei nessuno.»
Gabe rimase a bocca aperta senza riuscire a dire qualcosa e si risvegliò solo quando la vide prendere la sua borsa e uscire dal bar in fretta, con i gesti tipici di chi è arrabbiato; allora lasciò i soldi sul tavolo e si affrettò a raggiungerla in strada solo per ottenere qualche imprecazione contro e un muro di silenzio ostinato.
Camminarono uno di fianco all’altro per una decina di minuti, minuti in cui lui si era fumato già due sigarette, quando lei si fermò di colpo e lo guardò con il fuoco ancora negli occhi.
«Che vuoi da me?»
«Niente di quello che pensi tu.»
«Ah sul serio? Io non ne sarei tanto sicura, non da come ti sei comportato prima.»
«Non posso fare delle semplici osservazioni? Cos’è nessuno ti dice mai che sei bella?»
«Nessuno che non abbia intenzione di portarmi a letto.»
Rimase spiazzato da quella risposta. Possibile che quella ragazzina fosse davvero così grande? Oppure così semplicemente pessimista e che avesse incontrato solo brutta gente nella sua vita?
Possibile?
Rimase a fissare quei grandi occhi marroni dove quel fuoco andava piano piano a spegnersi per lasciare il posto a un’espressione semplicemente stana quanto, forse, rassegnata.
«Quanti anni hai?»
«Venti.», sorrise soddisfatto del suo giudizio in base al quale le aveva dato un’età.
«Togliti quel sorriso dalle labbra. Scommetto che non ti ricordi neanche come mi chiamo.»
Immediatamente smise di sorridere e dalla smorfia che fece lei dovette dedurre che sul suo viso c’era la chiara espressione d’imbarazzo che aveva quando veniva colto in fallo.
Odiava venire colto in fallo, ma mica poteva sapere che avrebbe rivisto quella ragazza così presto; mica poteva sapere che già dalla seconda volta che si sarebbero visti lui sarebbe stato geloso di lei.
«Tre a due per me. Supereroe non va mica bene eh!»
«Come ti chiami?»
«Cosa mi dai in cambio?», se fosse stata una ragazza qualunque a quella domanda si sarebbe avvicinato a lei e le avrebbe sussurrato all’orecchio proposte alquanto indecenti, ma ricordando la reazione che aveva avuto per un semplice complimento decise che era meglio lasciare perdere quel genere di comportamento.
«Non quello che stai pensando tu.»
«Ma io non sto pensando a niente. Quindi mi darai tutto ciò che voglio.»
L’espressione di lui la fece scoppiare a ridere e quasi in automatico le venne l’istinto di abbracciarlo o comunque di avere un contatto fisico con lui.
Quel piccolo tentennamento non passò inosservato al ragazzo che senza pensarci si avvicinò alla ragazza sfiorandole con le dita la guancia solo per vedere i suoi occhi cambiare.
Non aveva mai avuto quel genere di sensazioni, non aveva mai voluto solamente sfiorare una ragazza per il semplice gusto di farlo o per rassicurarla di qualcosa che neanche lui conosceva, ma che sapeva che c’era. E quella cosa lo impauriva un po’.
«Non voglio farti del male.»
Non ricevette risposta. Semplicemente lei scosse la testa e indietreggiò di qualche passo lasciando che un fastidioso muro di imbarazzo li dividesse. La guardò mentre si torturava il labbro inferiore, con i capelli che le ricadevano sul viso coprendolo e impedendogli di vedere i suoi occhi.
«Ehy…Che succede? Che ho detto di sbagliato?»
«Smettila. Smettila di guardarmi così e di fare il gentile. Smettila di provare compassione per me!»
«E tu allora smettila di essere così scontrosa e acida!»
«Io mi adeguo al tuo comportamento! Ma chi ti credi di essere, si può sapere?»
Sbuffò e non rispose, tanto la ragazza si era già incamminata lasciandolo da solo con niente fra le mani. Si diede dello stupido da solo per come si era lasciato travolgere dalla furia che le parole di lei gli avevano causato.
In tutta la sua vita non si era mai lasciato travolgere dalle emozioni, soprattutto quelle suscitate da altre persone, e in quel momento si trovava quasi in balia delle emozioni della ventenne che si stava allontanando da lui il più in fretta possibile.
La figura irrigidita della rossa che si allontanava in fretta gli fece tornare in mente i suoi ventanni; a quell’età lui non era mai stato così e da quel che ricordava neanche le sue amiche.
Perché allora quella ragazza sembrava così diversa?
Sospirò passandosi una mano fra i capelli e si mise a correrle dietro raggiungendola qualche secondo dopo e afferrandole il braccio; la sentì irrigidirsi all’istante e si ritrovò di fronte ai suoi occhi spaventati.
«Lasciami. Immediatamente.»
«No. Voglio parlare con te.», la resistenza della ragazza crollò di colpo lasciandolo davanti a una ragazzina spaurita e insicura. Sorrise e intrecciò le loro dita, nonostante lei lo guardasse guardinga e tremante a quel semplice contatto.
«Abbiamo iniziato col piede sbagliato, lo ammetto. Ma possiamo ricominciare. Piacere Gabriel.»
«Radiant. E vedi di non scordartelo più.»
«Radiant! Ma come ho fatto a scordarlo! È un nome stupendo!»
La guardò mentre scoppiava a ridere e faceva scivolare via la mano dalla sua presa, cosa che gli dispiacque abbastanza, ma almeno poteva guardarla ridere invece di dover sopportare quella visione affranta.
«Non pensare male, ma che ne dici di venire a casa mia?»
«Questa domanda fa pensare male.»
«Smettila di fare la preziosa. È quasi ora di cena e no, non è quello che pensi tu, voglio solo parlare con calma senza provare a portarti a letto. Ci stai?»
La guardò soppesare la sua proposta, sperando ardentemente in una risposta affermativa e quando la vide annuire timidamente sentì come se un peso gli si fosse tolto dallo stomaco.
Non provò a prenderla per mano, ma semplicemente si incamminò verso la sua macchina con l’aria beata di chi aveva tutto quello che aveva sempre desiderato.
Erano sensazioni che non provava più da molto tempo, a parte quando aveva in mano una chitarra, e lo colpirono in pieno petto lasciandolo quasi senza la forza di ragionare.
Non poteva ragionare su certe emozioni o sentimenti o anche sul perché questi avvenissero, ma lui era sempre stato così: era insito nel suo essere quello di dover capire tutto.
Ma guardando Radiant al suo fianco, che teneva lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si rese conto che lei era il peggior enigma che gli potesse capitare sotto mano e si rese anche conto che non sarebbe stato facile capirla o dimenticarla. E quel dimenticare proprio non gli piaceva.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. Confidence ***


«Dovresti prenderti un gatto.», si affacciò dalla cucina, curioso, solo per vederla seduta sul divano che giocava col suo cane e gli diceva di prendersi un gatto. Sorrise appoggiandosi allo stipite della porta e pensando alla pazzia che poteva avere quella ragazza.
«Un gatto eh. E per quale motivo se poi ho già Birba?»
«Sai i gatti sono estremamente teneri e coccolosi, magari ti addolcisci un po’ anche tu.»
Si perse dentro quegli occhi sorridenti mentre la guardava ridere e fare i dispetti a Birba.
Si asciugò le mani nello straccio e poi sparì di nuovo in cucina ripensando a quella strana cena dove nessuno dei due si era risparmiato battute sarcastiche e pungenti. Sorrise pensando che per la prima volta passava delle ore con una ragazza a prendersi in giro e facendo delle chiacchiere a vuoto. Aveva anche cucinato per lei, per una ventenne che non conosceva per niente e che non aveva fatto altro tutto il tempo che prenderlo in giro per il suo modo di cucinare, per poi ammettere che lei non ne sapeva niente di cucina! E in più dopo aver spazzolato via tutto quello che aveva preparato si metteva sul suo divano col suo cane, come se fosse a casa sua, e gli diceva di prendersi un gatto per addolcirsi!
Sì, decisamente quella non era una situazione normale.
«Guarda che anche tu dovresti addolcirti un po’. Non solo io.»
«Io sono dolcissima. Ovviamente solo chi se lo merita può vedermi così.», rinunciò a ribattere sapendo benissimo che era una sfida persa in partenza: se c’era una cosa che aveva imparato in quelle poche ore in sua compagnia era che Radiant aveva sempre e comunque l’ultima parola.
Si sedette di fianco a lei con un bicchiere di vino in mano e la guardò sorridendo rilassato, mentre Birba saltava sulle sue gambe e ci si accucciava docile come sempre; distrattamente iniziò a passarle la mano sul pelo come era solito fare quando voleva le coccole.
«Pensavo fossi tipo da champagne. Con i soldi che ti ritrovi e questa casa beh… Lo champagne è di classe.»
Gabe la guardò con un sopracciglio alzato, nella chiara posizione di chi sa mettere in imbarazzo l’altra persona e dopo aver fatto scendere Birba dalle sue gambe si avvicinò pericolosamente a lei; guardando con rinnovato interesse ogni più piccolo dettaglio di quel viso che trovava semplicemente affascinante.
«Questo è vino di classe.», spostò la mano fra i loro volti in un chiaro invito per la ragazza, invito che lei prese al volo assaggiando il vino dal bicchiere che lui ancora reggeva.
Non sapeva se era la situazione o il vino, sapeva solo che mentre la guardava bere dal bicchiere che lui stava inclinando verso le labbra di lei si sentì pervadere da uno strano calore al cuore.
Sorrise quando lei si leccò dalle labbra una goccia di vino che era scivolata sulle sue labbra, sorrise vedendo il riflesso dei suoi occhi in quelli di lei e sorrise sentendo chiaramente che da quel momento niente sarebbe stato più come prima.
«Hai davvero ragione. Questo è vino di classe.»
«Dovresti fidarti di chi è più grande di te.»
«Oh ma certo, di un venticinquenne, soprattutto.»
Colpito e affondato. La fulminò con lo sguardo e dopo aver appoggiato il bicchiere per terra si sistemò meglio sul divano, decidendo di ignorarla per qualche minuto, giusto per vedere il tipo di reazione che avrebbe avuto. La reazione di Radiant non si fece aspettare e dopo qualche secondo di silenzio, dove Gabe se la rideva sotto i baffi, lei sbuffò infastidita e con un moto di stizza si tolse le scarpe, facendo sobbalzare Birba che la guardò malamente e si rimise a dormire tranquillamente.
Quel piccolo gesto spezzò il controllo del ragazzo che scoppiò a ridere fragorosamente, tenendosi la pancia nel tentativo di darsi un contegno che era quasi impossibile raggiungere.
Era strano come quel semplice moto di stizza lo avesse fatto ridere così tanto, dopotutto non era niente di straordinario, ma vedere che la ragazza si infastidiva solo per qualche minuto dove non era calcolata lo fece sentire meglio, molto meglio.
«Smettila di ridere chitarrista! Io me ne vado, sei inutile!»
«Dai Radi! Stavo scherzando e poi dove vuoi andare che sei scalza?», la guardò fermarsi vicino alla porta e tornare di corsa per prendere le scarpe e guardarlo stizzita. Ricominciò a ridere, ma quando vide che sul serio la ragazza stava uscendo dal suo appartamento si alzò di corsa fermandola sul pianerottolo.
«Radi! Stavo scherzando dai, non fare così!», si ritrovò di nuovo inchiodato da quello sguardo di fuoco. Era la prima volta che una ragazza riusciva a inchiodarlo solo con lo sguardo.
Soprattutto una più piccola.
Accennò a un sorriso e immediatamente le lasciò libero il polso ritraendosi di qualche centimetro, forse per darle la possibilità di scegliere cosa fare; senza nessuna pressione, anche se sperava ardentemente che lei rimanesse.
«Non chiamarmi Radi.»
«Perché?»
«Perché non abbiamo tutta questa confidenza per chiamarmi così.»
Gli regalò un sorriso malandrino e gli diede una spinta sulla spalla facendolo spostare e sistemandosi comodamente sul suo divano, togliendosi anche le scarpe e guardandolo come se quella fosse casa sua e non di lui. Gabe alzò gli occhi al cielo e dopo aver ringraziato chiunque le avesse fatto fare quella scelta si sedette vicino a lei con la chiara intenzione di conoscerla meglio.
«Visto che non abbiamo tutta questa confidenza, che ne dici di conoscerci meglio?»
«Direi di no. Anzi che ne dici di accendere la televisione, magari c’è qualcosa di interessante.»
«Ma scusa non puoi vederla a casa tua?»
Si pentì immediatamente di quelle parole quando lei lo fissò truce e fece per alzarsi; tuttavia dovette notare il suo sguardo perché sorrise vittoriosa e si rimise a sedere comodamente, il più lontana possibile da lui.
Nonostante tentasse di sembrare normale il ragazzo avvertì subito la tensione che sembrava aleggiare intorno a lei e benché non ne capisse il motivo si sentì in dovere di tranquillizzarla su qualunque fosse stata la sua paura.
«Ehy guarda che non ti mangio mica.»
«Non ho paura di questo infatti.»
«Allora cosa c’è che ti disturba tanto?»
«Non sono affari tuoi.»
Seppe in quel momento che qualunque domanda le avrebbe posto non avrebbe ottenuto risposta e che se avesse provato a conoscere qualcosa di lei, lei sarebbe fuggita via prima che lui se e rendesse conto. Appoggiò la guancia sulla mano mentre con un occhio guardava la televisione e con l’altro lei che cambiava canale cercando qualcosa che le desse un minimo di interesse. Quando, per caso, si fermò su un canale di musica dove in quel momento passava il video di “Le donne lo sanno” di Ligabue, Gabe prese il coraggio per chiederle quello che da giorni gli frullava per la testa, quella domanda che già una volta le aveva posto ma che era rimasta senza risposta.
«Che significato ha per te?»
Si aspettò di ritrovarsi inchiodato dagli occhi di lei, si aspettò anche che lei prendesse su e lasciasse la sua casa, ma non che lei abbassasse la testa e si girasse con un semplice sorriso verso di lui.
«Probabilmente non quello che ha per te. Ma non te lo dirò.»
«Perché?»
«Perché sono affari miei, non credi?»
«Perché non abbiamo tutta questa confidenza. Ma allora perché non mi permetti di tentare, almeno, di conoscerti?»
«Non ne vale la pena.»
Il lampo che illuminò la stanza e il tuono che lo seguì fece sobbalzare entrambi che si guardarono in faccia spaventati per poi sentire lo scrosciare della pioggia che prese a battere in quel momento.
Radiant fu la prima a riprendersi dallo spavento e riconnettersi al mondo reale, dovendo affrontare l’idea del ritorno sotto la pioggia.
«Merda! E io come ci torno a casa, non ho neanche l’ombrello. Accidenti!»
«Puoi rimanere da me. Cioè se vuoi…»
Non si era mai sentito instabile o insicuro, ma nel pronunciare quelle parole sentiva la sua sicurezza, il suo ego che velocemente lasciavano il loro posto per andare letteralmente a quel paese.
Si odiò anche in quel momento. Per la stupida idea che aveva avuto e per il modo stupido in cui l’aveva proposto e anche per l’espressione che era dipinta sul viso di Radiant.
Quell’espressione rigida, ma che voleva nascondere il terrore di qualcosa che forse era già successo.
«Io dormo sul divano, non è un problema. Sul serio. Non ti succederà niente se per stanotte rimani qui. Davvero..»
«Stai usando troppe parole. Succederà quello che tu vuoi evitare e…»
«Io ti sto dicendo che eviterò di far succedere quello di cui tu hai paura.»
Quella frase sembrò farle trattenere il respiro e quando sostenne lo sguardo di lei la vide perfettamente cercare dentro i suoi occhi quell’ancora di salvezza che probabilmente lui poteva darle. Senza neanche rendersene conto.
«Non dovresti.»
«Lo faccio volentieri, invece.»
«Allora se non ti dispiace credo che andrò subito a dormire, sai…»
«Ti faccio vedere la mia stanza. In pochissimi hanno l’onore di poterla vedere, a dire il vero tutta la mia casa l’hanno vista in pochissimi quindi dovresti sentirti onorata della mia ospitalità.»
Sentì il cuore scoppiare quando rivide la solita espressione corrucciata sul viso di lei; era riuscito a farle scomparire quell’aria da cucciola smarrita che per quanto sexy potesse considerarla in quei momenti non gli piaceva per niente.
Si fermò immediatamente a quel pensiero. Aveva pensato che la ragazza fosse sexy con quell’aria smarrita? L’aveva sul serio pensato?
«Chitarrista che succede?»
Scosse la testa scacciando quei pensieri dalla sua mente ed evitò di risponderle, non sapendo come le parole avrebbero potuto uscire dalla sua bocca. Quando le mostrò la sua camera da letto l’espressione meravigliata di lei lo fece divertire e gli fece gonfiare l’orgoglio nel petto.
«Smettila. Il tuo ego è già troppo pompato per i miei gusti.»
«Se vuoi posso darti una mia maglia e un paio di pantaloni della tuta, per farti stare più comoda.»
Senza darle il tempo di rispondere aprì l’armadio e lanciò sul letto una maglia a maniche corte che non usava più e un paio di pantaloni della tuta. Non rimase neanche ad attendere la risposta di lei, le diede la buonanotte e poi uscì dalla sua camera accostando semplicemente la porta e preparandosi alla lunga notte insonne che lo attendeva.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=716825