Dal tramonto fino all'alba

di MusaTalia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Espèra cài Nùx: Sera e Notte ***
Capitolo 2: *** Eos cài Emèra: Aurora e Giorno ***
Capitolo 3: *** Epilogo: Ἶρις (Iris: Iride) ***



Capitolo 1
*** Espèra cài Nùx: Sera e Notte ***


Ἑσπέρα καί Νύξ (Espera cai Nux: Sera e Notte)

Dal tramonto fino all’alba

PARTECIPANTE AL CONTEST "CONTEST ROYAI 2011"

Titolo: Dal tramonto fino all’alba
Autore: MusaTalia
Genere: Romantico, Malinconico (a tratti)
Rating: Verde
Avvertimenti: Missing Moments- se così si vuole vedere…
Note: Solitamente lo spazio delle note è dedicato ai miei infiniti e deliranti scleri di fine stesura. Tuttavia, trattandosi di un contesto più serio, ho pensato fosse meglio trattenermi. I colori, richiesti dal tema, sono le varie tonalità assunte dal cielo nell’arco di una giornata, o forse è meglio dire di una nottata, che riflettono i pensieri ed i sentimenti dei personaggi. All’interno dei capitoli ci sono tanti piccoli riferimenti alla mitologia greca, che è stata il mio punto di partenza. I titoli di ogni capitolo, infatti, richiamano il nome di alcune divinità greche, tutte protolimpiche. Inizialmente doveva essere una one-shot, ma arrivata alla quinta pagina ho capito che era cosa buona e giusta dividere il tutto in tre parti; e più precisamente due capitoli piuttosto brevi più l’epilogo. Il vero centro comunque è la parte 2. La storia è ambientata dopo il ritorno da Ishval e poco prima della visita agli Elric. Siamo perciò nel 1909, Riza dunque dovrebbe avere 18-19 anni, mentre Roy 23-24, se non erro. Di solito sono una “dilungatrice molesta”, ma credo mi fermerò qui.




Parte 1

Ἑσπέρα καί Νύξ (Espèra cài Nùx: Sera e Notte)

Rosso, viola e nero: le sfumature della violenza.



“Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir/ le soleil s’est noyé dans son sang qui se fige.” (Il cielo è triste e bello come un grande repositorio/ il sole s’è affogato nel suo sangue coagulato), Charles Baudelire, Les fleurs du mal, XLVII Harmonie du soir.

 

 

 

“Rosso di sera, bel tempo si spera”.

Così avrebbe sicuramente detto un’anziana signora, impegnata a chiacchierare con le vicine, seduta fuori dalla porta di casa in un piccolo paesotto di campagna, dopo aver alzato gli occhi al cielo ed aver sospirato.

Ma indubbiamente il Tenente Colonnello Roy Mustang di East City non era un’anziana signora che passava il suo tempo a ricordare i bei tempi passati, e men che meno in quel momento si trovava in un insulso paese ai piedi di una qualche collina.

Era nel suo ufficio, seduto sulla sua poltrona, con la schiena rivolta verso la porta socchiusa e lo sguardo puntato su quel cielo tinto di un intenso vermiglio, quasi inverosimile.

Sospirò.

Era il finire dell’estate. Settembre era arrivato già da un pezzo, portando con sé giorni sempre più brevi. Il sole, infatti, era appena tramontato, lasciando nel cielo gli ultimi bagliori infuocati.

Qualcuno bussò alla porta, ma non aspettò una voce d’assenso che gli desse il permesso di entrare.

«Tenente Colonnello, noi abbiamo finito di là, quindi con il suo permesso…».

«Sì, sì. Andate pure a casa» rispose, sempre con gli occhi incollati al cielo.

«Buona serata, Tenente Colonnello».

«Anche a te, Havoc».

Sentì la porta alle sue spalle richiudersi e solo allora si voltò, distogliendo lo sguardo dalla finestra. Avrebbe dovuto firmare dei documenti e poi, anche lui, sarebbe potuto tornare a casa. Annoiato, piantò un gomito sul tavolo per sostenere la testa diventata pesante e prese la stilografica, abbandonata precedentemente senza tappo vicino alle pratiche. Quella non era stata una mossa poi tanto astuta, perché, com’era da aspettarsi, l’inchiostro si era seccato. Quindi, svogliato, si alzò dal suo posto per andare nella stanza attigua dove lavorava il suo staff e recuperare una penna con cui vidimare le ultime scartoffie.

Lo sorprese non poco ritrovarsi davanti al Sottotenente Riza Hawkeye, intenta ad impilare dei fogli.

«Credevo fossi tornata a casa» disse avvicinandosi alla scrivania di Breda per sgraffignargli la penna.

«Avevo gli ultimi documenti da controllare» rispose con semplicità mentre infilava i fogli in una cartellina.

«Havoc mi aveva detto che avevate finito. Mi ha mentito».

«Gli ho detto io di farlo» replicò candidamente mentre controllava che tutti i fogli di un’altra tornata di incartamenti fossero stati vidimati correttamente.

«E perché, scusa?».

«Visto che ha la penna in mano firmi qui. Prima le deve essere sfuggito». E gli allungò un foglio che lui nemmeno lesse. Poteva essere una dichiarazione di guerra come l’elenco telefonico. «E comunque perché sembra si stia preparando un bell’acquazzone. Non è piacevole dover correre a casa sotto la pioggia». Gli prese il foglio di mano e lo archiviò in un’altra cartellina.

«E tu? Non ti preoccupa il dover tornare sotto la pioggia?».

«Due gocce non hanno mai ucciso nessuno».

«Ma guarda che scansafatiche! Domani, Sottotenente, li punirò a dovere. Lasciare tutto il lavoro ad una fanciulla per scappare a casa, spaventati da una presunta pioggia».

Lei lo squadrò da capo a piedi ed assottigliò lo sguardo. «Piuttosto, signore, lei perché non fa il bravo e torna di là dai suoi documenti mentre io qui finisco di sistemare?».

Senza farselo ripetere due volte fece dietrofront, con la penna presa in prestito a Breda, e ritornò nel suo studio.

Dieci minuti dopo il Sottotenente Hawkeye lo raggiunse. «Ancora lì?» domandò con una punta di esasperazione.

«Ehi! Non siamo tutti macchine da burocrazia come te!». Fu la sua risposta indignata.

Il Tenente Colonnello si aspettava una replica piccata, ma non arrivò niente, questo perché Riza era stata catturata dai colori del crepuscolo, che da rosso intenso stavano tendendo ad un violaceo per nulla rassicurante.

«Anche nel deserto il tramonto aveva questi colori. Ironico, no? Il cielo colorato delle stesse tinte del sangue e dei lividi, come se avessimo ferito anche lui, oltre a tutti quei civili». Stupefatto Roy sgranò gli occhi davanti a quel pensiero espresso ad alta voce, ma Riza non se ne accorse, perché aveva chiuso gli occhi per pochi secondi, per poi sospirare.

Quando li riaprì, il suo superiore era davanti a lei, con la penna a mezz’aria, a fissare un punto imprecisato nel vuoto.

«Tenente Colonnello, per favore, può firmare quei benedetti documenti, così posso archiviarli una volta per tutte?». Alzò gli occhi al cielo, in chiaro segno di esasperazione.

«Certo». E con uno scarabocchio svolazzante firmò anche l’ultimo foglio, subito finito tra le mani del Sottotenente che se ne tornò nell’altra stanza.

Erano passati giusto alcuni mesi da quando erano entrambi tornati da Ishval, quel luogo infernale in cui ogni giorno era uguale al precedente e durava in eterno. Il sole che tramontava, inondando il cielo di rosso, non era il simbolo che preannunciava l’arrivo della quiete, che solitamente scende con la notte. Quando il sole calava e spariva dietro l’orizzonte, lasciando una traccia fugace dietro di sé, ecco che allora si facevano strada i timori più grandi, si allungavano, come le ombre in quel campo di battaglia.

Ed il rosso della sera non era annunciatore di pioggia, questo perché non piove nel deserto. La sabbia è arida e non c’è acqua che possa irrigarla. Semmai, sangue.

Roy Mustang prese, allora, il cappotto, pronto ad uscire.

Ripensandoci, era proprio al tramonto di uno di quegli infinti, estenuanti giorni passati sul campo di battaglia, che aveva incontrato la piccola Riza. Ma quale piccola? Gli era bastato uno sguardo per capire che rimaneva ben poco della Riza Hawkeye che aveva conosciuto. Ed in cuor suo era più che sicuro che la colpa non fosse imputabile del tutto alla guerra.

Quando uscì dal suo ufficio, il Sottotenente Hawkeye era a sua volta già andata via e la sera era calata definitivamente. Il cielo ora era scuro, carico di pioggia. Fortunatamente quella mattina aveva anche preso l’ombrello per prudenza, ed ora l’aveva appeso al braccio.

Ritrovò la sua subordinata fuori dal Quartier Generale, in piedi, sul marciapiede.

«Ti serve un passaggio a casa?» le domandò.

Riza allora si scosse, interrotta nei suoi pensieri. «No, grazie. Faccio volentieri due passi a piedi».

«Ma sta per mettersi a piovere…».

Non fece in tempo a terminare la frase che un grosso gocciolone gli cadde in testa. Aprì dunque l’ombrello e si spostò un po’ più vicino alla ragazza, per coprire anche lei.

Ma lei si scansò, finendo sotto lo scroscio della prima pioggia da quando erano tornati dall’inferno del deserto.

Riza alzò il volto al cielo. Sembrava quasi che stesse assaporando quelle gocce di pioggia. Un sorriso, uno vero, non finto, si dipinse sul suo volto. E Roy era più che convinto che, se non fosse stato per il rigido autocontrollo che lei s’imponeva, probabilmente avrebbe anche aperto le braccia e si sarebbe messa a girare su se stessa per accogliere meglio tutta quell’acqua, che l’aveva già inzuppata completamente.

«Mi è mancata così tanto…» disse passandosi le mani tra i capelli bagnati che le si stavano appiccicando sulla fronte. Ora più che mai sembrava una ragazzina. «A lei no?».

In realtà lui avrebbe risposto un secco «Assolutamente no!». Roy Mustang, l’Alchimista di Fuoco, non sopportava la pioggia, così umida, così bagnata… Perché lo rendeva assolutamente… inutile. Sì, inutile. Però, a vedere Riza così serena sotto quell’acquazzone, ma soprattutto così bella, non poté non chiudere l’ombrello ed alzare anche lui il volto al cielo. La prima goccia cadde proprio sullo zigomo destro, sotto l’occhio, e poi scivolò giù.

Una, due, tre, cinque, dieci, cento gocce, fino a perdere il conto. In poco anche lui si ritrovò bagnato fino al midollo, leggermente infreddolito, ma in pace. Aprì la bocca e tirò fuori la lingua per raccogliere alcune gocce. La pioggia non ha sapore, sa semplicemente di fresco, di pulito, di nuovo.

Si avvicinò a Riza, gomito a gomito. «Anche a me» rispose finalmente, guardandola negli occhi per poi scoppiare a ridere. Lei cercò inizialmente di trattenersi, ma cedette all’ilarità del momento praticamente subito.

Prima un lampo squarciò quella distesa di viola carico, poi un tuono, forte, vicino mise fine alle risate.

Entrambi sobbalzarono e si guardarono negli occhi.

Un altro lampo ed un tuono ancora più vicino.

«Vieni!» le disse Roy, prendendola per il polso e trascinandola lungo la via.

L’ombrello rimase abbandonato sul marciapiede.

Arrivarono alla macchina del Tenente Colonnello, che infilò una mano in tasca alla disperata ricerca delle chiavi per aprire la portiera. Intanto il cielo tuonava in tono basso e imperioso. Quando finalmente trovò la chiave si esibì in un rapido gesto di vittoria.

Salirono, Roy al posto di guida e Riza sul sedile del passeggero.

Dopo essersi tolto la giacca della divisa ed averla lanciata sui sedili posteriori, e dopo essersi sfregato le mani tra i capelli grondanti, si rivolse a Riza, rompendo quel momentaneo silenzio. «Accidenti quanta acqua! Ti dispiace se aspetto che spiova almeno un po’ prima di accompagnarti a casa? Non mi fido di guidare sotto questo diluvio».

«No, anzi». Non riuscì a formulare una risposta poi tanto articolata visto e considerato il fisico in bella mostra del suo superiore. La camicia bagnata, infatti, si era appiccicata completamente agli addominali ed ai pettorali scolpiti di Roy. Riza distolse lo sguardo e tornò a fissare il temporale che si era scatenato.

«In realtà» ammise sempre mentre guardava fuori «la stavo aspettando».

«Che cosa?».

«La pioggia! Ho mandato via gli altri e sono rimasta in ufficio in più apposta. Era come se mi fosse rimasta addosso della sabbia di Ishval, che solo questa pioggia è riuscita a togliermi di dosso. Tutte le mie colpe rimarranno, ma ora posso andare avanti con più serenità».

Roy distolse lo sguardo dalla figura di Riza e rimase in silenzio, non sapendo -una delle rarissime volte nella sua vita -cosa rispondere.

«Lo sa, mia madre diceva che quando piove, in realtà sono gli angeli che piangono perché abbiamo compiuto azioni che li rendono tristi. È una delle poche cose che ricordo di lei».

Il Tenente Colonnello si voltò a guardarla ed incontrò i suoi grandi occhi ambrati, tranquilli.

Quando era apprendista, in casa Hawkeye, l’argomento Mrs Hawkeye era tabù. Non si poteva nominare, citare, ricordare e soprattutto pensare. Quel poco che sapeva l’aveva praticamente strappato di bocca a Riza, prendendola in contropiede- e di questo non ne andava per niente fiero.

Ed ora lei aveva parlato di sua madre, portando a galla uno dei suoi preziosissimi quanto rari ricordi che aveva di lei, con una naturalezza che quasi non le apparteneva.

«Quindi tu pensi che gli angeli stiano piangendo per ciò che abbiamo fatto ad Ishval?». Stupida, davvero una domanda stupida. E mentre le sue labbra si muovevano per formularla inconsapevolmente aveva riportato lo sguardo sul parabrezza, tempestato da migliaia di gocce. Ora il cielo era diventato completamente nero, il colore del lutto.

«Più che per quello che abbiamo fatto, è a causa di ciò che non abbiamo fatto che piangono».

«Ciò che non abbiamo fatto?». Proprio non capiva. Quel discorso era così assurdo, ed ancora più assurdo era il fatto che fosse una persona come Riza ad affrontarlo, con una disinvoltura che aveva dello sconvolgente. Roy Mustang si sentiva confuso, ma non in senso negativo, tanto meno in senso positivo; semplicemente si sentiva confuso.

«Non abbiamo combattuto per difendere gli ideali in cui credevamo. Abbiamo lasciato che fossero altri a dirci cos’era giusto e cosa sbagliato. E poi, il suo sogno. Lo abbiamo abbandonato, agonizzante. Lo abbiamo quasi ucciso, come tutte quelle persone».

«Hai ragione. Però adesso lo abbiamo salvato. Possiamo ricominciare daccapo».

Lei annuì, accennando anche un lieve sorriso. «E comunque sia, giusto per chiarire, so perfettamente che se piove è perché del vapore acqueo raggiunge la saturazione e poi condensa».

Eccolo spuntare fuori! Eccolo, il lato pragmatico del Sottotenente Riza Hawkeye! C’era però da dire che a Roy non era affatto dispiaciuto quello emotivo, che aveva fatto la sua fugace apparizione. Forse avrebbe dovuto aspettare la prossima pioggia per poterlo rivedere e gustarselo senza l’intralcio della sorpresa.

Nel frattempo il cielo si era placato. Nessun fulmine, nessun tuono invadeva più il suo spazio. E tutta l’acqua ora si era rovesciata sul suolo.

Tuttavia la notte rimaneva scura, nera e spessa. S’intravedevano poche stelle a causa delle pesanti nuvole, ancora più scure, nere e spesse della notte stessa.

La portiera del passeggero si aprì e Riza uscì all’aria aperta.

«Cosa fai?» le domandò Roy, allungandosi per impedirle di chiudergli la portiera in faccia.

«Torno a casa».

Roy alzò le sopracciglia. In quel momento proprio non riusciva a capire quella donna e la cosa lo metteva a disagio, perché, nel bene o nel male, lui riusciva sempre ad intuire cosa Riza stava per dire, fare o addirittura pensare. Tra loro due c’era, anzi, c’era sempre stata un’intesa davvero invidiabile. Eppure in quel momento… Forse tutta quella pioggia gli aveva annacquato il cervello. O forse l’aveva annacquato ad entrambi.

«Ti accompagno io. Sei tutta bagnata e poi è notte…».

«Sta forse insinuando che non sono in grado di difendermi? E comunque, grazie per l’offerta, ma faccio volentieri due passi a piedi». Chiuse la portiera e girò intorno all’automobile. Si affiancò al finestrino del suo superiore e, dopo un impeccabile saluto militare, gli augurò la buona notte, prima di avviarsi a passo spedito lungo la via, lasciando il Tenente Colonnello impalato al posto di guida con le mani sul volante.

Dio, il vero temporale si stava abbattendo ora, dentro al petto di uno stordito Roy.

Ma come faceva Riza ad essere così… in quel momento nessun aggettivo adatto gli veniva in mente.

Intano lei aveva già percorso alcune centinaia di metri e stava per svoltare l’angolo, quando si trovò al suo fianco l’auto del Tenente Colonnello, che procedeva a passo d’uomo e con il finestrino abbassato.

«Ma casa tua non si trova dall’altra parte?» le chiese Roy con parte del braccio e la testa completamente fuori dal finestrino.

«Mi sta pedinando?» replicò, sempre continuando a camminare.

«Mi preoccupo per te! Rischi di prenderti un bel raffreddore se non ti cambi subito quegli abiti bagnati!».

«Pensi a se stesso, Tenente Colonnello! Io non sono così deboluccia come crede». C’era un certo tono di sfida nella voce, come se stesse prendendo la faccenda sul personale.

«Puoi salire, per favore? Ti porto io a casa».

«Non serve, grazie».

«Sali! È un ordine».

Riza si arrestò. Lo squadrò con sguardo assassino. «Siamo entrambi fuori servizio». E riprese a camminare, ancora più veloce di prima.

Di fronte alle reazione della sua subordinata, Roy mollò il piede dalla frizione, facendo di conseguenza morire la macchina. Mai lei si era rifiutata di eseguire un ordine. Magari aveva contestato, oppure gli aveva consigliato un modo diverso di agire, ma mai si era comportata così.

Lui tentò un paio di volte di rimettere in moto, ma niente. Ora anche la macchina, non più solo il suo Sottotenente, lo aveva abbandonato. Allora scese e prese a chiamarla a gran voce, mentre si metteva a correre per raggiungerla.

Dovette afferrarle un braccio e trascinarla praticamente giù per fermarla.

«Può smetterla di urlare in questo modo? È notte. Le persone dormono a quest’ora! E inoltre le sarei grata se lasciasse andare il mio braccio».

«Prima dimmi dove stai andando».

«Faccio una passeggiata».

«A quest’ora?».

«Il galateo prescrive ora determinate in cui andare a fare una passeggiata?».

«No. Ma…».

«No. Appunto».

«Allora vengo con te».

E solo allora lasciò andare il braccio, incatenando il suo sguardo in quello di Riza, che, diversamente dal solito non riuscì a reggere. Abbassò il volto ed acconsentì con un «Va bene» appena mormorato.

Lui voleva tanto chiederle il motivo di quello strano comportamento, ma temeva di scatenare una tempesta dalla quale le probabilità di uscirne incolumi erano praticamente nulle. Si trattava pur sempre di Riza Hawkeye!

Così semplicemente camminò al suo fianco, rivolgendole la parola solo per invitarla a rallentare il passo- in fondo era pur sempre una passeggiata!

Quel nero profondo in cui erano immersi era di tanto in tanto intervallato da lampioni o dalle luci ancora accese in alcune case.

«Chissà cosa stanno facendo?» si domandò Roy a voce alta, con una punta d’invidia, perché lui avrebbe tanto voluto trovarsi al caldo delle sue mura domestiche. Però era anche vero che non riusciva, o meglio, non voleva allontanarsi dal suo Sottotenente.

«Molti staranno dormendo, alcuni magari sognano».

«Ci pensi mai che tutte queste case, ma soprattutto tutte le persone che ci vivono hanno una storia da raccontare?». Non poté non fermarsi un secondo davanti ad una finestra illuminata, da cui s’intravedevano due ombre, presumibilmente di due innamorati, impegnati a discutere.

«Io penso che se noi ci mettessimo a raccontare le nostre, la maggior parte della gente scapperebbe a gambe levate».

«Probabilmente hai ragione».

Ed entrambi, dopo essersi sorrisi malinconicamente, ripresero a camminare lungo le vie silenziose della città.


 

Note
BUON ROYAI DAY A TUTTI! 
Ok. Eccomi qui con qualcosa di speciale per il RoyAi Day, come avevo già accennato nei 100 RoyAi themes. Quale modo migliore di festeggiare se non con una bella fanfiction! Era da parecchio tempo che non mi cimentavo con una long, anche se io continuo a vedere questa mia creatura più come una lunga one-shot divisa in tre pezzi. Questo, che è anche il pezzo più lungo, è il preludio, in cui ho deciso di concentrare tutte le riflessioni tristi. Questo perché i colori scelti, quantomeno nero e viola, solitamente sono legati al lutto. Ma come si evince dal sottotitolo, non solo lutto, ma anche violenza e sangue. Tra le tre parti questa è quella più strettamente legata ad Ishval, tassello indispensabile, quando si parla di Riza e Roy. In realtà non mi sento di aggiungere nulla per il momento. Lascio le considerazione al prossimo capitolo, in cui si assisterà ad un radicale cambio di tono... ma non mi sbottono oltre. Tra cinque giorni potrete leggere...

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Capitolo 2
*** Eos cài Emèra: Aurora e Giorno ***


Ἓως καί Ἡμέρα (Eos cai Emera: Aurora e Giorno)

Parte 2


Ἓως καί Ἡμέρα (Eos cài Emèra: Aurora e Giorno)

Bianco, rosa ed oro: le tonalità del sentimento



“Sì che le bianche e le vermiglie guance,/ là dov’i’era, de la bella Aurora/ per troppa etate divenivan rance.” Dante Alighieri, Purgatorio, Canto II, versi 7-9

 

 

 

Avevano camminato tutta la notte, essenzialmente senza meta, o almeno così credeva il Tenente Colonnello. E più l’ora dell’alba si avvicinava, più la distanza tra loro due si accorciava. Erano partiti con quasi un metro a separarli, ora, invece, erano a portata di mano: bastava solo un pizzico di coraggio perché uno dei due potesse afferrare la mano dell’altro. Le nocche non facevano che sfiorarsi, ma nessuno osò stringere le dita dell’altro tra le sue.

Era molto meglio continuare a nascondersi dietro la scusa dell’inadeguatezza della situazione, nonostante l’impulso diventasse più forte di passo in passo.

Ad un certo punto Roy si fermò sul posto, disorientato, poiché non riconosceva il luogo in cui si trovavano. In effetti, durante tutta la loro nottata a zonzo lui aveva semplicemente seguito il Sottotenente, come un pianeta segue il proprio sole.

«Dove siamo?» domandò alla donna che si era fermata poco più avanti, quando si era accorta che il suo accompagnatore non la affiancava più.

«Siamo nella periferia di East City. Tra poco saremo fuori dalla città».

«E perché stiamo andando fuori dalla città? Lì ci sono solo campi».

«Ma proprio perché ci sono solo campi!» replicò con fare ovvio.

«E lo scopo sarebbe… ?».

«Lì l’alba è molto più bella che in città».

«L’alba?».

Ma come? Era già trascorsa tutta la notte? Lui proprio non se ne era reso conto.

«Mancheranno una ventina di minuti, ad occhio e croce. Anzi, le dispiace se velocizziamo un po’ il passo?». In realtà non aspettò una risposta affermativa da parte del suo superiore. Semplicemente cominciò ad allungare il passo. Il Tenente Colonnello la seguì, anche perché da solo non sarebbe stato in grado di ritornare indietro.

Non parlarono durante il tragitto rimanente. Dovevano conservare il fiato.

Ben presto la grande strada asfaltata venne sostituita da una più stretta e sterrata. Erano finalmente arrivati al luogo delle loro peregrinazioni ed effettivamente il Sottotenente Hawkeye aveva ragione: era proprio un bel posto, soprattutto adesso che il cielo cominciava a schiarirsi in corrispondenza dell’orizzonte.

«Che spettacolo!» si trovò a commentare l’Alchimista di Fuoco, mentre si avvicinava alla sua sottoposta, che aveva abbandonato la strada per incamminarsi attraverso un campo incolto.

Lei semplicemente annuì, troppo presa dal sorgere del sole che iniziava un nuovo giorno.

«Senta, Tenente Colonnello» disse, dopo aver sospirato e distogliendo lo sguardo dal sole nascente. Il cielo ora era in quella fase d’intermezzo in cui tutti i colori spariscono assorbiti da un bianco accecante. La quiete che si faceva colore ed induceva alla riflessione. «Mi dispiace per il mio comportamento. Sono stata sgarbata e l’ho trascinata qui senza motivo. E so di essermi comportata in maniera strana. Questa non sono io. È una parte di me di cui non vado particolarmente fiera. Tuttavia voglio anche ringraziarla per avermi fatto compagnia».

«Non hai motivo di scusarti. Io sono strano trecentosessantacinque giorni all’anno e tu mi sopporti comunque. Ti è concesso una volta ogni tanto di darti alle stravaganze. Inoltre mi hai mostrato un lato di Riza Hawkeye che andrebbe approfondito!».

«Non ci conti più di tanto, Tenente Colonnello».

Com’era d’aspettarsi aveva ricacciato in profondità il suo lato più fanciullesco e scherzoso. Ma alla fin fine a Roy non era mai dispiaciuta la Riza fredda e distaccata. Anzi, un po’ si era preoccupato a vederla così… strana. Per un millesimo di secondo aveva persino pensato che avesse bevuto. Ma aveva rifiutato subito un tale pensiero.

Entrambi ritornarono a guardare il cielo, ormai non più bianco, ma sempre più rosa. L’alba stava lasciando lo spazio all’aurora dalle dita rosate.

«Ah! L’ora degli amanti!» commentò Roy in sovrappensiero.

«L’ora degli amanti?».

«Ma certo. L’ora degli amanti». E davanti allo sguardo confuso di Riza aggiunse «Andiamo! Con tutti i romanzi d’amore che hai letto- e scommetto continui a leggere-, non sai che l’aurora è l’ora degli amanti? Il momento in cui ci si divide? In cui ognuno riprende le file della proprio vita e ritorna alla routine quotidiana?».

«Ma lei… Come… ?». era rimasta senza parole.

«Diciamo che capitava che mentre studiavo cerchi alchemici e formule, di tanto in tanto mi annoiassi e quindi distrarsi era piuttosto facile. Così, ogni tanto, ti spiavo mentre leggevi. Era una piacevole distrazione, ad essere onesti». Sorrise ai ricordi di una Riza ragazzina, accucciata nella poltrona del salotto, con un libro posato sulle gambe. Quanto gli piaceva vedere le espressioni che assumeva leggendo: le sopracciglia leggermente corrucciate, segno che era concentrata su un passaggio particolarmente drammatico, oppure quel lieve sorriso, con un angolo della bocca più sollevato rispetto all’altro, sicuramente in corrispondenza di una dichiarazione d’amore da parte del protagonista. Ma ciò che più gli piaceva, era quando lei si mordicchiava leggermente il labbro inferiore, completamente catturata dalla storia.

«Dovrei sentirmi lusingata?» domandò leggermente imbarazzata. Le sue gote si erano colorate della stessa tonalità di rosa carico che aveva assunto il cielo, ora che il sole stava definitivamente per sorgere.

«Solo se lo desideri».

Poco lontano un’allodola fece sentire il suo canto, segno che il giorno era sempre più vicino. Ed anche la lieve bruma che li avvolgeva si stava rapidamente dissolvendo. Mentre sulla rada erbetta e sulle foglie di un albero vicino cominciavano ad intravvedersi le prime gocce di rugiada.

Spinto da quell’atmosfera che aveva un che di idilliaco, Roy parlò di nuovo, anzi mormorò, timoroso di esser sentito per davvero dalla sua accompagnatrice. «Posso baciarti?».

Non ne capiva bene il motivo, ma osservando quel paesaggio, complici probabilmente anche tutti i ricordi legati a quella donna che l’avevano accompagnato durante tutta la notte, aveva sentito il desiderio di baciarla, senza scabrosi doppi fini.

Spaesata Riza rispose «Come, prego?».

Lui ripeté la sua domanda con leggerezza, come se si trattasse di una richiesta assolutamente innocente, ma con un tono più alto. «Posso baciarti?».

«Perché?».

Cosa rispondere a quel maledetto bisillabo? Ecco. Ora avrebbe voluto sotterrarsi. «Beh, perché… quando ci si sente legati in modo particolare ad una persona, magari si vuole esprimere il proprio attaccamento, la proprio gratitudine…».

Ma Riza questo già lo sapeva. In fondo, non era ciò che provava anche lei?

«Non intendevo sapere il motivo per cui vuole baciarmi, ma perché chiede il permesso. Lo domanda anche a tutte le altre? Io credo di no».

Ora fu il turno di Roy di sentirsi spaesato. «No. Però con te è diverso. Tu sei diversa. E se ti avessi semplicemente baciato poi tu di sicuro mi avresti preso a schiaffi…».

Voleva aggiungere altro, tanto ormai la sua occasione di baciarla era miseramente sfumata, ma nuovamente fu interrotto. Ma non da un commento tagliente del suo Sottotenente, bensì dalle mani fredde di Riza che gli avevano afferrato il volto, dagli occhi cristallini di Riza che lo stavano scrutando nella profondità della sua anima, ma soprattutto dalle labbra calde di Riza che si erano posate morbide sulle sue, in un dolce bacio.

La verità era che Roy Mustang aveva sempre agognato quelle labbra, fin dal momento in cui l’aveva vista scendere le scale di casa Hawkeye per dargli il benvenuto.

Persino nel deserto avrebbe venduto la sua anima per assaggiare quella bocca screpolata dal vento e dalla sabbia.

Questo perché lui aveva sete solo dei suo baci, come terra deserta.

Incredibile a dirsi, era la prima volta che veniva baciato da una donna. Solitamente era lui che prendeva l’iniziativa. Ma in questo caso si trattava di Riza, non una qualsiasi.

E sebbene quello fosse stato il bacio più casto mai scambiato, per lui fu il più bello, perché inatteso, perché desiderato a lungo e pazientemente aspettato.

Quando si staccarono, le mani di Riza rimasero sul volto dell’uomo che le stava davanti. Lui avrebbe voluto mettersi a saltellare e strillare come una ragazzina alla prima cotta, ma invece mantenne il controllo e parlò per primo. «Non hai intenzione di schiaffeggiarmi, vero?».

Si diede dell’idiota. Con tutte le frasi romantiche preconfezionate che poteva dire, proprio un’idiozia del genere? Ma la colpa era tutta del Sottotenente, che l’aveva completamente ammaliato, facendogli perdere il lume della ragione.

Riza rise lievemente. «Solo se lo desidera».

«No. Sai cosa desidero adesso? Baciarti».

E questa volta fu lui a posare le sue labbra su quelle della donna. E ben presto la dolcezza che aveva caratterizzato il primo bacio fu sostituita dalla passione.

Rimasero così, sospesi in un limbo privato, fino a quando il rosa del cielo non si fu tramutato in oro.

La luce del giorno era arrivata, rovinando l’attimo perfetto. Lui aveva ragione: l’aurora è l’ora degli amanti. Ora si sarebbero divisi e sarebbero tornati ai loro posti. L’incantesimo era finito.

Era anche vero che loro due non erano amanti. Loro erano… Cos’erano in realtà? Colleghi? Amici? Commilitoni? Avrebbero dovuto inventare una parola nuova ed un sentimento nuovo per riuscire a darsi una connotazione precisa.

E lei era stata per lui come la pioggia della notte addietro. Aveva lavato via i residui della guerra; aveva fatto affiorare la pace nel suo cuore, anche se per pochi attimi.

Si sorrisero, questa volta complici, mentre il sole che spuntava dalle colline in lontananza li costringeva a chiudere gli occhi, per via del riverbero.

Tutto sembrava al posto giusto, per una volta nelle loro vite. O almeno così fu finché il Tenente Colonnello non starnutì rumorosamente.

«Sarebbe stato meglio non lasciare la giacca in macchina, signore» gli fece notare Riza, che lui teneva intrappolata tra le sue braccia.

«Credo che tu abbia ragione». Un altro starnuto.

«Venga. Torniamo in città. Conosco un rimedio perfetto per il raffreddore».

«Spero tu non voglia propugnarmi quello schifo di tisana alle erbe misteriose!» replicò indispettito mentre le afferrava la mano ed intrecciava le dita alle sue.

«È un toccasana, guarirà in meno di un minuto».

«Ma ha un sapore pessimo!».

«Non faccia il bambino!».

Sì. Tutto stava tornando alla normalità.

Camminarono mano nella mano immersi nell’oro del primo mattino, fino a quando i profili della città non divennero più nitidi. Allora riassunsero il ruolo di Tenente Colonnello e di Sottotenente. Nulla era mutato, ad esclusione della nuova consapevolezza con cui ora entrambi si sarebbero trovati a convivere. La consapevolezza di un sentimento nuovo ed usuale al tempo stesso, bianco di purezza, rosa come l’infinito affetto che li legava e d’oro, perché prezioso come quel metallo.


 

Note:
Lo so che avevo detto che avrei aggiornato dopo cinque giorni, ma ieri mi sono stati dati i giudizi e sono troppo felice. Inoltre solo per la prima parte ho già ricevuto quattro recensioni, quindi vi faccio questo regalo!
Questo è il vero centro della storia, che può essere vista come un climax ascendente. In difinitiva la parte 1 prepara il terreno per questa parte 2. Il mio terrore era di rendere i personaggi troppo OOC. Penso che i colori, richiesti dal tema del contest, qui siano espressi in maniera più chiara, proprio perché il capitolo è più chiaro, non solo a livello di contenuto, ma proprio a livello di ambientazione. Tutto diventa molto più luminoso. In realtà ero partita con l'idea di scrivere solo questo pezzo per il contest, di fare cioè una one-shot, poi però, (io e la coerenza siamo migliore amiche, se non si fosse capito!), ho voluto aggiungere ed allargare, giusto per far risaltare la luminosità di questa parte, rispetto alla precedente. Infatti la scintilla d'ispirazione viene proprio da un verso omerico, che qui ho più o meno liberamente riportato, cioè "l'aurora dalle dita rosate", o, come si legge nel testo greco "Eos rodidaktilos". Da qui tutti i viaggi metali sulle divinià protolimpiche legate ai vari momenti della giornata che poi ritrovate nei titoli. Ma non vi tedio oltre con le mie pippe e fisse... sappiate solo che la mia mamma, (mia navigata ed insostituibile consigliera -Mimi, I love you!), si è commossa durante la lettura di questa parte e le mie amiche, costrette loro malgrado a leggere la fic, anche se non conoscevano storia e personaggi, ne sono rimaste innamorate. Ora, io non pretendo tanto da voi, ma spero solo di aver almeno strappato un mezzosorriso, o comunque di essere riuscita a comunicare, almeno in parte, il mio amore per il RoyAi. E prima di andarmene, volevo anche ricordare che tutto è nato sotto le note della sesta sinfonia di Beethoven, la Pastorale, come anche parte dell'ispirazione, per la scelta dei colori e di dividere nelle varie fasi di una giornata, più il temporale improvviso che viene dalla visione della versione animata in Fantasia di Walt Disney del 1940.  E stavo dimenticando che c'è un lievissimo riferimento a Romeo e Giulietta di Shakespeare, e più precisamente all'addio tra i due amanti. E comunque la storia non è finita, per quanto possa sembrare!

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Capitolo 3
*** Epilogo: Ἶρις (Iris: Iride) ***


Epilogo: Ἶρις (Iris: Iride)

Parte 3

Epilogo: Ἶρις (Iris: Iride)



L’arcobaleno: un futuro a colori



A detta degli anziani che la mattina presto si potevano incontrare dal giornalaio, settembre non era così piovoso da almeno un cinquantennio. Dieci giorni ininterrotti di acqua che scendeva dal cielo a secchiate. L’unica pausa era coincisa con quella notte e quella mattinata in cui il Tenente Colonnello Roy Mustang e la sua sottoposta, il Sottotenente Riza Hawkeye, si erano concessi di abbandonare per qualche attimo la divisa.

Nessuno dei due aveva voluto parlare di ciò che si erano detti, ma soprattutto di ciò che avevano fatto, in particolar modo dei baci che si erano scambiati. L’unico testimone di quanto era avvenuto era stato il cielo, che non si sarebbe fatto sfuggire una sola sillaba.

Serbavano quei ricordi con cura, in modo tale da poterli ripescare facilmente nel momento in cui tristezza e solitudine avessero fatto capolino.

Non c’erano nemmeno occhiate strane dense di sottointesi in ufficio, poiché i due che si erano baciati, non erano due soldati dell’esercito di Amestris, ma semplicemente Riza e Roy, una donna ed un uomo che si conoscevano da tanto tempo, che avevano vissuto molte esperienze, di cui la maggior parte drammatiche, insieme, che condividevano segreti e responsabilità pesanti e che si stimavano e rispettavano vicendevolmente. Ma forse c’era qualcosa di più forte della stima a legarli.

In quei dieci giorni, molto probabilmente grazie alla complicità del tempaccio che ispirava un senso generale di apatia, tutta la squadra del Tenente Colonnello si era comportata in maniera davvero ragguardevole: avevano finito tutte le pratiche per tempo e nell’ufficio l’unico suono in sottofondo era il graffiare delle penne sui fogli di carta, intervallato di tanto in tanto dai sospiri di Havoc e dagli starnuti di Mustang.

Roy affermava di essersi preso il peggior raffreddore della sua vita, ma non faceva nemmeno niente per guarire. Si rifiutava categoricamente di prendere la tisana miracolosa di Riza, soprattutto dopo aver scoperto che la ricetta di quell’intruglio diabolico era tramandata di generazione in generazione persino nella famiglia Armstrong. Perciò, come si dice, “a mali estremi, estremi rimedi”; così una mattina il Sottotenente portò la tazza di tè al suo superiore, che dopo averne sorseggiato un solo goccio, innaffiò completamente il giornale che stava leggendo.

«Sottotenente Hawkeye!» strepitò un Roy molto indispettito «Questo non è il mio tè!».

«Mi perdoni, signore. Temo di averlo confuso. Ma d’altra parte, se lei si fosse curato il raffreddore, ora avrebbe sentito che l’odore era diverso. Rimedio subito». Ed allungò la mano per afferrare la tazza ancora fumante, ma Roy la bloccò.

«No, va bene. Non importa. Portami solo un po’ di zucchero. Sta roba ha un saporaccio…».

Riza gli sorrise complice. «Subito, signore».

Questo era stato l’unico momento movimentato, se così si poteva definire, in quei giorni di pioggia.

Se ora Riza gli avesse chiesto, come quella notte, se la pioggia gli fosse mancata, lui avrebbe risposto quel suo “Assolutamente no!” indisponente.

Era un diluvio universale! Presto avrebbero richiesto le sue capacità di Alchimista di Stato per costruire un’arca, in cui far salire una coppia di ogni essere vivente. In quel caso sapeva già chi avrebbe scelto come sua compagna.

Ma finalmente, poiché anche al peggio prima o poi c’è fine, un meraviglioso giovedì pomeriggio, il cielo si placò: niente più tuoni, lampi e fulmini, ma soprattutto niente più pioggia. Si era alzato un vento freddo e piuttosto molesto ma che stava velocemente allontanando le nuvole per lasciar spazio ad un freddo e pallido sole, ormai autunnale.

Questo fatto portò parecchio scompiglio un po’ tra tutti, che immediatamente persero la straordinaria concentrazione. Breda, Fury, Falman ed Havoc si accalcarono sulla finestra per verificare davvero che il sole fosse arrivato e non si trattasse invece di un’allucinazione. Magari la troppa acqua aveva lo stesso effetto del troppo sole nel deserto: ti faceva vedere ciò che desideravi di più.

Roy e Riza, invece, mantennero i propri posti. Il fatto che avesse smesso di piovere non li toccava minimamente, o meglio, fingevano che non li toccasse minimamente.

«Ah! Che bello! Sta spuntando l’arcobaleno!» esclamò Fury spiaccicando il naso sul vetro della finestra.

«Senta Tenente Colonnello, non è che per oggi soltanto possiamo, che so, uscire un paio d’ore prima?» buttò lì sfacciato Havoc.

A quelle parole si drizzarono le antenne di Mustang. «Uscire prima, dici. Fammici pensare un secondo». E si sbracò sulla sua poltrona, mantenendo una mano sul mento in atteggiamento pensoso.

Finse di pensarci un minuto scarso. «No. Direi di no. Anzi, ho un’idea migliore». Si alzò e prese il suo cappotto.

«Sottotenente Hawkeye» chiamò la donna in piedi al suo fianco.

«Sì, signore?».

«Mettiti il cappotto. Andiamo a farci una passeggiata. I signori qui finiranno anche il nostro lavoro. In fondo devono fare ammenda per aver sfruttato la tua infinita generosità qualche giorno fa. O sbaglio?». Un sorrisone beffardo si dipinse sul suo volto.

Il silenzio sprofondò nella stanza. Tutti si aspettavano una risposta negativa da parte di Riza, che invece sorrise a sua volta al suo superiore. «Sono perfettamente d’accordo, signore».

Quando si chiusero la porta alle loro spalle, il resto del gruppo era ancora immobile, attonito.

Salirono in macchina, questa volta Riza alla guida. «Andiamo nel posto dell’altra volta, ti va?» le domandò Roy.

«Certo» e mise in moto.

In meno di mezz’ora arrivarono al campo abbandonato, ora il terreno era melmoso ed impraticabile a causa delle precipitazioni troppo abbondanti. Si fermarono dunque sul ciglio della strada a rimirare l’arcobaleno ormai sbiadito davanti a loro.

E nuovamente ci fu un bacio, il primo di una lunga serie. Questa volta però nessuno dei due aveva dovuto chiedere prima il permesso.


 

Note:
E siamo finalmente giunti alla conclusione. Che dire? Sono veramente orgogliosa di questo mio bimbo, venuto al mondo ormai tre mesi fa ed ho faticato parecchio a tenerlo buono buono nei documenti di Word senza pubblicarlo. Spero di essere riuscita a trasmettere qualcosa, in primis il mio amore per questa coppia.
Purtroppo, pur essendoci un giusto numero di iscritti, alla fine abbiamo consegnato solo in due, quindi niente contest. Questo non toglie il piacere che è stato per me scrivere questa fiction, (spero sia stato un piacere per voi leggerla!). Voglio quindi ringraziare Ananke e Castiel che hanno indetto il contest e nonostante tutto mi hanno fatto avere il giudizio!

I PERSONAGGI DI QUESTA FF NON MI APPARTENGONO MA SONO PROPRIETA' DI MAMMA MUCCA HIROMU ARAKAWA. MIO E' SOLO L'ESTRO FANTASIOSO E L'ANIMO ROMANTICO. LA STORIA NON E' SCRITTA A SCOPO DI LUCRO.


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