Lilian di NeverThink (/viewuser.php?uid=61554)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Lilian. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Lilian. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Lilian. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro: David. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: Lilian. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei: David. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette: Lilian. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto: David. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove: Lilian. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: David. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici: Lilian. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici: Lilian. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: David. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici: David. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici: Lilian. ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici: David. ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette: Lilian. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto: David. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove: Lilian. ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno: Lilian. ***
Lilian
~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is
falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.
Capitolo uno.
Il Natale
dovrebbe essere il
momento più dell’anno, no?
Le luci, l’albero, gli addobbi, i dolci, il
tacchino… la tavola mai
sparecchiata, i giochi da tavolo. Le canzoni di Frank Sinatra che
inondano
dolcemente la stanza illuminata e colorata.
Le serate con gli amici e bere birra e fare baldoria
nell’affollata New York.
Così per qualsiasi altra festa, vacanza.
Il coprifuoco infranto. Fuggire si casa nel cuore della notte. Uscire
di
nascosto.
Ma il paesaggio che, in quel momento, mi si prospettava davanti era ben
diverso
da quello perfetto disegnato nella mia mente, oramai solo il ricordo di
una
vita passata ad essere l’adolescente ribelle che ero.
Ad ogni modo, guardavo il paesaggio della mia camera, o meglio, la
camera che
un tempo era stata di mia madre. Il mare si scagliava grigio, sotto il
cielo
pieno di pioggia, sulla costa sabbiosa. Mi portai istintivamente una
ciocca di
capelli chiari dietro un orecchio, giocando poi con la coda bassa che
mi
ricadeva sulla spalla.
Odiavo con tutta me stessa quel posto. Odiavo con tutta me stessa il
North
Carolina, eppure non avevo potuto far nulla per evitare la partenza
programmata
da mio padre, la settimana precedente.
Eravamo a
tavola. Seduti, come
di consuetudine, l’uno di fronte all’altra. Come di
consuetudine, da oramai due
anni, mangiavamo in silenzio.
«Andremo dai nonni.»
Alzai di scatto la testa, distogliendo la mia concentrazione dal
pasticcio di
verdure nel mio piatto.
«Scherzi, vero?» chiesi spalancando gli occhi.
«Ci divertiremo.»
«No!» urlai scattando in piedi. «Non puoi
papà! Cosa vuoi che faccia io da
nonni? Che vuoi che faccia in quella casa? Se qui è il
deserto, lì non c’è
vita!»
«Lily, tesoro...»
«Non possiamo passare l’ultima settimana di vacanze
estive qui, come gli ultimi
due anni?»
«Lily» il modo in cui pronunciò il nome,
mi mise all’istante in allarme.
«Andiamo a vivere lì.»
Mi sentii la terra mancarmi sotto i piedi e le lacrime inondarmi gli
occhi.
«Papà… la mia vita è
qui.»
Mio padre con sguardo duro e serio, imperturbabile, mi fissava, poi
pulendosi
le labbra con un fazzoletto puntò i suoi occhi nei miei.
«Noi andremo da nonni. Che ti piaccia o no. La nostra
famiglia è tutta lì.»
Con le lacrime agli occhi mi voltai e mi chiusi in camera mia,
sbattendo la
porta.
Odiavo quella
stanza, perché ogni cosa mi ricordava lei, mi
ricordava la sua assenza.
I suoi capelli biondi, la stessa tonalità chiara dei miei, i
suoi occhi verdi,
come i miei, il suo sorriso allegro e contagioso, quello che da due
anni avevo
perso.
Mi asciugai col dorso della mano la lacrima solitaria che mi
rigò
all’improvviso la guancia e, alzandomi dal letto, su quale
ero seduta, andai ad
aprire la finestra.
L’aria fresca, proveniente dal mare, mi colpii in pieno viso
facendomi
rabbrividire. Chiusi gli occhi godendomi la sensazione della brezza sul
viso.
Sentivo la rabbia ribollirmi nelle vene.
Odiavo quel posto. Odiavo la prospettiva si dover passare
l’ultimo anno di
liceo, in quella cittadina Quella cittadina dei North Carolina era come
una
prigione per me.
Passare le vacanze di Natale con mio padre, con il quale non avevo gran
rapporti dal giorno in cui…
scossi i
capo, come a voler scrollarmi dalla mente le immagini che crudeli
cominciarono
a riaffiorare. Passare le vacanze di Natale con la nonna ed il nonna.
Passare
il resto della mia vita, lontana da casa, dai miei amici, la mia
scuola…
trascorrere l’anno precedente al collage con la famiglia
Lawson. La famiglia
di… mamma.
«Così ti prenderai un accidente.»
Mi voltai di scatto verso la porta, alle mie spalle, e guardai la nonna
con
espressione dolce e tenera. Non le risposi, mi limitai ad scuotere il
capo e ritornare
a guardare il mare agitato.
«Posso?» chiese. Interpretò il mio
silenzio come un si. La sentii avanzare
nella stanza per poi carezzarmi i capelli con fare dolce.
«So quanto sia difficile per te, Lily,
ma…»
«No, nonna Marie, non lo sai.» risposi secca
sentendo la gola gonfia. Lei
sospirò e sentii la retina del letto cigolare sotto il suo
peso.
«Tuo padre, ti sembrerà assurdo, ma ha fatto la
scelta giusta.»
«Sei qui per difenderlo?» sbottai con voce
tagliente.
«No.»
«Allora non cercare di farmi cambiare idea.»
«Non sto cercando di farti cambiare idea, tesoro. Voglio solo farti
aprire gli occhi.»
Non risposi, mi limitai a fissare il mare agitato.
«Questa non è la mia vita.» sibilai.
«Lì non avete nessuno… noi possiamo
aiutarti, possiamo aiutare tuo padre…
questa è casa vostra, ricordatelo.»
Mi alzai di scatto e mi voltai, rossa in volto per la rabbia.
«Esatto, questa è
casa vostra! Non casa mia! E’ la vostra vita! Non la mia! La
mia vita e a New
York! Lì ho la mia vita!» urlai con le lacrime
agli occhi.
Nonna Marie mi guardava con sguardo imperscrutabile, seduta sul bordo
del
letto, poi sospirò.
«Voglio andare a casa.» mormorai con voce
incrinata, sentendo le lacrime calde
rigarmi il viso.
«E’ questa casa tua. Lo hai sempre
saputo.»
La guardai e sentii il mento cominciare a tremarmi. Con grandi falcate
superai
il letto e uscii dalla stanza. Il pavimento i legno invecchiato
scricchiolò
sotto i miei piedi mentre mi dirigevo verso l’ingresso,
afferrando la felpa che
avevo poggiato sulla sedia.
«Dove vai?» chiese mio padre, intento a scartare
uno scatolone. «Devi aiutarmi
a sistemare la nostra…»
Non sentii il resto della frase, poiché sbattei
violentemente la porta alle mie
spalle.
Seduta sul
spiaggia fissavo le onde del mare, andare a
tornare. Il vento mi scompigliava i capelli lunghi e biondi, raccolti
in una
coda scomposta. Mi portai le ginocchia al petto, abbracciandole e
poggiandoci
sopra il mento.
Avevo vagato per un po’, lungo le stradina di quella desolata
cittadina, senza
una meta, fino a giungere al mare. In lontananza si potevano scorgere
persone
camminare e tenersi per mano, bambini far volare i loro aquiloni.
Esattamente
come io facevo con la mamma.
Sorrisi al ricordo di noi due sulla spiaggia, nel tardo pomeriggio
estivo, a
far volare l’aquilone. Quel ricordo, dolce sì come
il miele fu anche una
pugnalata al infertami al cuore. Feci una smorfia, quando avvertendo
dolore
fisico.
Odiavo quel posto. Odiavo tutto ciò che mi ricordava lei.
Odiavo perfino il mio
volto, quando mi le persone mi chiamavano Lilian. Solo lei mi chiama
con il mio
nome per intero.
Se New York, per certi versi era stata la mia medicina, il barlume di
luce
nelle tenebre, quella cittadina era il posto senza cielo. Senza luce.
Il sole
che illuminava il mare durante quasi tutto l’anno, non
sarebbe servito a nulla,
quel posto sarebbe sempre stato privo di luce, di calore.
Perché non era più casa mia oramai.
Perché lei non sarebbe mai più tornata.
*
Eccomi qui,
gente. Con una nuova fiction. Postata solo
perché una è già finita in file word e
una quasi completata.
Ma, in fondo, a voi, cosa importa? Giusta osservazione.
E’ un fiction nata quasi per necessità. E spero
che a qualcuno di voi piaccia.
Okay, è solo un inizio… ma… va bene,
basta ciarlare.
Ispiratoad una storia bellissima.
Alla
mia dolce Ether…
A voi, un bacio,
Panda.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo due: Lilian. ***
~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes
love them even
more.~
When my world is
falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.
Capitolo due.
Lilian
Arrancai
sulle scale della veranda della casa dei nonni, quella che sarebbe
diventata
casa mia per un intero anno. Ferma, immobile, rimasi a fissare il legno
logoro
della porta d’ingresso, ferma dinanzi ad essa, combattuta.
Non mi andava di
entrare, affrontare mio padre, dovergli dare spiegazioni, ascoltare gli
inutili
discorsi della nonna circa la mia nuova vita lì. Non mi
andava di sorbirmi lo
sguardo indagatore del nonno. Non volevo vedere nessuno, eppure non
potevo e
non volevo continuare a vagare per le strade, da sola.
La sera era giunta, e la temperatura si era abbassata ancor di
più. Solitamente
a Settembre il clima era molto più caldo, tanto che si
poteva ancora circolare
con calzoncini e magliette a mani corte, ma, per qualche inspiegabile
motivo,
la mattina di quel giorno la temperatura era scesa vertiginosamente.
Quasi ad
accogliermi con freddezza e riluttanza, nella cittadina, nel mio
inferno
personale.
Scossi il capo e mi trascinai nell’angolo della veranda, dove
vi era situata
una vecchia sedia a dondolo e non potei impedire il doloro flashback
che mi
colpì come una secchiata d’acqua gelata.
Era il tardo pomeriggio di una calda giornata di giugno. E, oltre la
casa
bianca, dalle ringhiere e veneziane blu, i gabbiani stridevano sul mare
calmo.
Amanda, seduta sulla sedia a dondolo color noc,e disegnava su un
blocchetto. Le
mani sporche di carboncino, i capelli biondi e ondulati raccolti grazie
ad un
pennello, delle ciocche ribelli le sfioravano il viso sottile e ovale.
Dondolava piano e canticchiava. Accanto alla sedia un tavolino con
decorazioni
floreali, dipinte dalla stessa Amanda, un bicchiere di thè
freddo alla pesca.
Il suo preferito.
Lilian, sulla soglia della porta guardava la mamma disegnare con
espressione
tranquilla. Poi, un sorriso si allargò sul suo viso e
alzò il capo, puntando il
suo sguardo in quello della bambina di nove anni.
«Lo dai un bacio alla mamma?» chiese con fare
dolce, sorridendo come solo lei
sapeva fare. La bambina annuii e si avvicinò alla mamma,
baciandole la guancia.
«Cosa fai, mamma?» chiese curiosa Lilian.
«Disegno.»
«Lo vedo. Ma cosa?»
Amanda le mostrò il blocchetto e Lilian sorrise, mentre gli
occhi le si
illuminarono.
«Sono io!» esclamò.
«Esatto!». Il disegno ritraeva Lilian sulla
spiaggia, con un aquilone.
«Mamma…»
«Dimmi, piccola.» disse Amanda carezzandole il viso
e facendola sedere sulle
sue gambe.
«Mi insegni a dipingere?» chiese bevendo un sorso
di thè dal bicchiere della
mamma.
«Oggi stesso!»
«Davvero?»
Amanda annuì dolcemente baciandole sulla fronte.
«Ti voglio bene, piccola mia. Non scordarlo mai.»
«Ti voglio bene anche io, mamma.»
Ferma,
lì, persa nei ricordi, guardavo la sedia a dondolo, rovinata
dal tempo e
dall’umidità. Ferma, immobile, fredda.
L’immagine dai caldi e vividi colori fu rimpiazzata da quella
realtà cruda,
desolata e piena di struggente dolore e malinconia.
Mi avvicinai alla sedia a dondolo e la sfiorai con i polpastrelli.
Sentii le
venature del legno sotto la pelle.
Sorrisi, consapevole che non appena mi sarei rifugiata in camera,
circondata
dalle pareti che un tempo furono la sua segreta dimore, sarei scoppiata
a
piangere.
Perché mio padre sembrava non capire? Perché
tutti sembravano volermi
infliggere i più atroci dolori ogni secondo della mia vita?
Perché voleva farmi
restare lì, ricordarmi la sua assenza, quel sorriso che non
avrei mai più
rivisto? Era come se non importasse ciò che mi stesse
accadendo, la tempesta di
dolore e solitudine che si abbatteva sul mio animo.
Odiavo mio padre per ciò che stava facendo.
Quella casa per ogni vacanza estiva, natalizia, primaverile, era stato
il
nostro rifugio, come un mondo magico fatto dio colori, sorrisi e
risate. Ed
ora, senza lei, tutto sembrava vuoto e triste. Tutto era vuoto e
triste. Quel
luogo conteneva mille ricordi che ogni secondo sembravano scagliarsi
contro il
mio cuore, come il mare fa sulla scogliera. Non era come New York. Quel
posto
non era magico, non era il… nostro
posto.
Mi passai una mano sul viso e mi sedetti sulla sedia a dondolo, con lo sguardo fisso sulla
stradina deserta
dinanzi a me. Abbracciandomi le ginocchia e poggiando il mento su di
esse, una
posizione che troppo spesso avevo assunto negli ultimi due anni, presi
a
dondolare. Raggomitolata su me stessa cercavo di non sgretolarmi.
Con la coda l’occhio, vidi una figura avvicinarsi alla
scalinata della veranda.
Proveniva dal lato opposto a quello dov’erano io, dalla
destra. Il secondo
scalino scricchiolò, un’eterna caratteristica di
quella scalinata. Alzai lo
sguardo ed una donna sembrò guardarmi prima confusa, poi
rasserenata, come mi
avesse riconosciuta.
«Lilian?» chiese con l’ombra di un
sorriso e notai che in mano teneva un
vassoio di cartone. Pasticcini?
Feci una smorfia. «Lily.»
La donna sorrise e si avvicinò a me. Era alta, probabilmente
superava il metro
e settantacinque. Sarei sembrata una bambina affianco a lei, con il mio
metro e
sessantacinque.
Non mi alzai, rimasi, lì, con le gambe strette al petto a
dondolare.
«Forse non ti ricordi di me, sono
Cathy.
Abito a circa cinque case da qui. Quando eri piccola giocavi spesso nel
mio
giardino.» disse sorridendo.
Rovistai nel cassetto dei ricordi il suo viso rotondo, i suoi capelli
neri come
la notte, gli occhi marroni.
«Forse.» risposi vaga.
Cathy sorrise, ed io rimasi lì a fissarla seria.
«Forse eri troppo piccola.»
Annuii col capo. Probabilmente si aspettava che mi alzassi ma non lo
feci,
rimansi ancora lì seduta, senza muovere un muscolo.
«Tuo padre è in casa? Sono venuta per darvi il
benvenuto.»
Annuii col capo. «Grazie.» risposi indifferente,
senza sorridere.
«Okay.» mormorò. «Se avessi
bisogno di qualsiasi cosa non esitare a venirmi a
trovare, Lilian.»
«Lily.»
«Okay, Lily. Abito al 43.»
Annuii ancora col capo.
«Bene, allora… busso.» aggiunse a corto
di parole, oppressa probabilmente dal
mio silenzio. La guardai darmi le spalle e avvicinarsi alla porta,
battendo tre
colpi.
Qualcuno aprii. Riconobbi la voce della nonna.
«Cathy, cara!»
«Marie!», poi la porta si chiuse e le voci
sparirono.
Sospirando, ritornai a guardare la strada.
Poi ricordai dove avevo visto il suo viso.
«Ciao, piccola.» disse una
donna a
Lilian, piegandosi sulle ginocchia per poterla guardare negli occhi.
«Ciao.» rispose. Le piacev, quella donna. A
differenza di sua madre aveva i
capelli corvini e gli occhi scuri. Era come guardare la luna, per la
piccola
Lily. Contrapposta al sole estivo della mamma.
«Io mi chiamo, Cathy. Ti va di giocare in giardino, mentre io
e la mamma
scambiamo quattro chiacchiere?» chiese la donna sfiorandole
una ciocca di
capelli chiari.
Lilian, che allora aveva solo cinque anni, alzò lo sguardo
verso la mamma, che
le sorrise con fare dolce e la carezzò appena la schiena.
La bambina tornò a guardare Cathy ed annuì col
capo.
«Vedrai, di divertirai. C’è anche mio
figlio, sai? Non giocherai sola. C’è uno
scivolo.»
«Niente altalena?»
Cathy sorrise. «C’è anche quella
piccola.»
«Odiosi
vicini.» sibilai stendendo le gambe e poggiandole sulla
ringhiera.
«Lilian Hemsworth, giù le gambe da quella
ringhiera. L’ho ridipinta prima
dell’estate e
non vorrei rifarlo.
Mi voltai, sobbalzando verso la porta, che non avevo sentito aprirsi.
«Lily,
nonno. Lily.» ringhiai.
Certo, certo. Fila dentro signorina, abbiamo un ospite.», la
voce del nonno
Liam era ferma e severa, ma sapeva che era dolce come il miele. Forse
fu per
questo che mi alzai senza fiatare e una volta entrata in casa, mi
congedai con
un gesto della testa, per poi salire al piano di sopra borbottando:
«Vado a
farmi una doccia.
La settimana dopo sarebbe cominciata la scuola.
Dalla settimana successiva, la mia vita sarebbe cambiata.
*
Ringraziamenti.
Miriam_Cullen: ciao!
Sono contenta ti sia piaciuto il
primo capitolo e spero anche questo sia stato un po’ di tuo
gradimento. E’ un
capitolo introduttivo, quasi, e spero non abbia troppo annoiato. Grazie
per
averla inserite fra le seguite! Grazie davvero!
Elly4ever: ciao! *-* okay, dopo
gongolato per la felicità, eccomi qui a dirti: grazie! Sono
contenta che il
primo capitolo ti sia piaciuto, anche se è solo un inizio. E
spero che anche
questo non ti abbia delusa. Sul serio hai letto anche le altre? Oh, non
sai che
piacere! La tua recensione… cavolo, troppo gentile! Grazie
di cuore… grazie!
KeLsey: mia Eri… ovvio
che te l’ho
dedicata! Non pretendere troppo da me… non posso fare
miracoli, e lo sai. Ad
ogni modo, sono contentissima di sapere che ti piace Lily! E’
un personaggio un
po’ diverso dagli altri delle fiction, e
sarà… ardua, forse. Eh, si, la nonna nonnossa
Marie…sarà un bel personaggio. Bravissima? Pff.
Ti voglio bene, Eri. Grazie di
tutto, come sempre. Sei un angelo. (L)
Nessie93: ciao, Chiarì!
Beh, è
presto per dare giudizi sul padre e sulla nonna, non credi? E
poi… è ovvio che
è sua moglie! O.O Poi… ho detto che è
ispirato alla storia… non che ne è una
riproduzione -.-“ Grazie
per la
recensione. Come sempre mi ha fatto molto piacere. A presto. <3
Martiis: ciao! *-* grazie mille per
al recensione! Sono contenta la storia ti piaccia. Per me è
molto importante.
Spero di non averti annoiata con questo capitolo. A presto, cara!
__Yuki__ : ciao! Beh, diciamo che ci
hai preso un po’, nella recensione, circa il tema della
fiction. Sono contenta
sia stata di tuo gradimento. Mi ha fatto molto piacere leggere, ma
soprastutto
ricevere, una tua recensione. Come ben sai, mi piace il tuo modo di
scrivere.
Pero di non averti annoiata con questo capitolo. A presto.
Fairwriter: mia adorata Juls! Non
sai che piacere mi ha fatto la tua recensione! Cavolo il tuo parere per
me
conta davvero molto, lo sai! Spero ti sia piaciuto anche questo. Ti
voglio
bene, Cip. Tua, Ciop <3
A
voi, un bacio,
Panda.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre: Lilian. ***
~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is
falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.
Capitolo tre.
Lilian.
«Non
fai colazione?». Mi voltai verso la nonna che in cucina
cuoceva della pancetta.
L’odore di carne inondò la stanza e per un istante
fui sopraffatta da sensi. Papà seduto al tavolo, con gli
occhiali sul naso sfogliava un libro. Gli era
stato offerto un posto, alla scuola elementare della cittadina. Era
ciò che
aspettava per potersi definitivamente trasferire qui, dai nonni, nel
posto che,
secondo lui, mi avrebbe ridonato vita. Bazzecole. New York, era la mia
vita.
New York, era vita.
Ad ogni modo, dopo un freddo “buon giorno”, come
tutte le mattine, intenzionata
ad ignorare sia lui, che il nonno e le sue esce per
l’imminente pesca, mi
diressi verso il piano della cucina.
«Non ho fame.» risposi indifferente.
Era una settimana che
le conversazioni
con papà e i nonni si basavano su semplici saluti e
“mi passeresti l’insalata,
per favore?” o “apparecchieresti la
tavola?”, per il resto mi rifiutavo di
parlare con loro o sviavo qualsiasi discorso con estrema
facilità, forse fin
troppo, tanto che cominciai a sospettare che mi stessero assecondando,
ogni
tentativo di conversazione che andasse oltre le semplici basi della
conversazione civile fra estranei, io la debellavo.
«Sicura?» chiese ancora nonna Marie.
«Prendo un po’ di caffè.»
dissi versandomi del liquido nero in una tazza color
del mare.
«Hai i soldi per il pranzo?», la voce di mio padre
era bassa e roca e, tutto
sommato, si addiceva al suo viso asciutto e squadrato. Alzò
il cappo,
guardandomi negli occhi.
Annuii col capo e bevvi il mio caffè, in religioso silenzio,
mentre mia nonna e
mio nonno si perdevano in una conversazione sulla pesca.
«Secondo me, Liam, non prenderai nessun pesce.»
disse la nonna porgendogli un
piatto con del bacon.
«E perché mai, donna?» chiese corrugando
la fronte.
«Perché è tardi e a quest’ora
non se ne trovano.» ribatté Marie.
«E qui che ti sbagli. Eh, donna di poca fede. I pesci sanno
che nessuno andrà a
pescare a quest’ora, perciò consapevoli di tale
realtà, usciranno andando a
zonzo. Ho sale in zucca io, Marie.» disse il nonno
picchiettandosi sulla testa.
Sentii papà sospirare a alzare gli occhi al cielo, come la
nonna. Per qualche
strano motivo quella conversazione non mi era nuova. Fu
come… un dejà-vù. Ma,
in quel momento, non avevo voglia di cercare di capire a quel vita
passata o
futile ricordo, appartenesse quella scena. Così poggiando la
tazza nel lavabo
mi diressi verso l’ingresso, afferrando la zaino che avevo
lasciato in fondo
alle scale e mettendomelo in spalla.
«Vuoi un passaggio, Lily?» chiese papà
dalla cucina.
«No.». Ed uscii sbattendo, come sempre la porta.
Non era un mattinata felice, per me, quella. Era il primo giorno di
scuola. Il
primo giorno nella “giungla”, come oramai la
definivo nella mia testa da
diciassettenne.
La scuola non distava molto da casa e poi camminare mi piaceva. La
temperatura
era mite, perciò indossai jeans chiari e logori, una maglia
anonima ed una
felpa, altrettanto anonima.
Il vento mattutino, fresco e leggero, mi scostò
prepotentemente qualche ciocca,
facendole oscillare.
In cuor mio, silenziosamente, piangeva New York. Desideravo con tutta
me stessa
poter essere lì, lì per l’ultimo anno
di liceo, ma era inutile sperare e
desiderare, perché non si può riavvolgere il
nastro della propria vita e
cancellare i mali, gli errori, le disgrazie.
Il colpo di grazie mi fu dato quando, in lontananza, scorsi la scuola.
Grugnii facendo una smorfia.
Avrei passato lì il mio ultimo anno di liceo. Senza i miei
amici, senza le mie
amiche.
Il giorno prima avevo chiamato Sarah, quella che era la mia migliore
amica.
«Sono così eccitata, Lily! Ci credi?
L’ultimo anno di liceo!» aveva esclamato,
e cercai con tutta me stessa di non chiuderle il telefono per il poco
tatto.
«Oh. Mi dispiace che tu non sia qui. Mi manchi.»
aveva aggiunto dopo. Perciò,
lottando contro la bile acida e dolorosa del mio fegato, cambiai
argomento,
sforzandomi di essere il più normale, tranquilla e cortese
possibile.
Cercai di ignorare le sfarzose auto costose, di quella che
probabilmente era l’èlite
di quell’odioso posto desolato, e
le macchine che appartenevano ai comuni mortali.
Scossi il capo, affondando le mani nella mia felpa blu.
Era giunto il momento. Osservando un paio di ragazze bionde, aventi la
stessa
tonalità dei miei capelli, ma così diverse da me
non solo per pettinatura, ma
anche per l’abbigliamento, osservando dei ragazzi che molte
avrebbero
considerati “fichi”, osservando ragazzi dai grandi
occhiali con spesse lenti e
ragazze con le unghie tinte di nero e la matita usata a mo’di
panda, mi resi
conto che quella non assomigliava ad una giungla, bensì ad
un manicomio.
Quando
uscii dall’aula di biologia fui grata a Dio di essere
nell’anonimo banco al
lato dell’aula.
La lezione tutto sommato, non era andata così
male… se non fosse che il
professore, un signore di mezza età, calvo e robusto, aveva
una parlantina
lenta e bassa simile ad una ninna nanna. Ogni cinque minuti, uno
sbadiglio.
Fortunatamente, nascosta fra i miei compagni di corso, ero riuscita a
non farmi
notare.
Perciò, con la zaino penzoloni da una spalla, la felpa
legata in vita, i
capelli biondi, che ricadevano fino alla vita, mi diressi verso la
lezione di
inglese. Masticavo svogliatamente una gomma, pur sapendo che, in
teoria, lì non
si poteva. Ma non mi importava. Non mi importava di fare colpo sulla
gente. Non
era così a casa mia,
nella mia scuola, non poteva di
certo cambiare
in quello stupido posto.
Ogni tanto qualcuno si voltava a guardarmi, io quella nuova che, nella
piccola
cittadina, non si era mai vista.
Rispondendo torva e di malumore alle occhiate che mi venivano
riservate,
facendo immediatamente girare gli osservatori, mi trascinai fino
all’aula. Ero
in anticipo, perciò, come per la lezione precedente, mi
sedetti al banco
accanto alla finestra, in ultima fila.
Facendo scivolare lo zaino sul pavimento, mi sedetti sulla sedia
incrociando le
braccia sul banco e posandoci sopra la testa, chiudendo gli occhi e
ascoltando
il chiacchiericcio che piano inondava la stanza. Gli studenti piano
cominciarono a prendere posto e si sentivano le sedie strisciare sul
pavimento.
«Ciao.» sentii ad un tratto. La voce era troppo
vicina tanto che sobbalzai
alzando di scatto la testa.
Una ragazza dai folti capelli rossi e una mappa di lentiggini sul viso
mi
sorrideva. I suoi occhi verdi, erano luminosi e curiosi.
«Ciao.»
«Mi chiamo Samantha, ma puoi chiamarmi Sam, o Sammy, insomma
come vuoi.» disse
porgendomi la mano che strinsi con decisione.
«Lily.» risposi accennando un sorriso. Sam era
seduta davanti a me.
«Sei nuova, eh?»
«Viso nuovo?» chiesi portandomi una ciocca di
capelli dietro un orecchio.
Sam annuii. «Ho una memoria fotografica.
C’è anche da precisarlo, se fossi
stata qui da sempre ti avrei ricordata. I visi di questa
città non hanno
segreti per me.» scherzò strizzandomi un occhio.
Feci un risolino. «Carina.»
«Io o la battuta?»
La guardai confusa, corrugando la fronte.
«Okay, okay. La mia domanda non è degna di
risposta». Rise.
«Posso farti una domanda, Lily?» chiese inclinando
il capo di lato.
Annuii.
«Sei bionda naturale?»
Risi. «Guardami, Sam» dissi indicandomi, facendole
notare la mia anonima maglia
bianca, i capelli lisci e naturali, «ti sembrò il
tipo da tingersi i capelli di
biondo?»
Sam sembrò pensarci un po’ su, carezzandosi il
mento fra l’indice ed il
pollice. «Beh, in effetti.»
Per qualche strano motivo, parlare con quella ragazza era
straordinariamente
semplice. Lei stessa, esprimeva… semplicità.
Sentii delle forti risate, provenire dalla porta dell’aula e
scostai lo sguardo
dal viso di Sam. Con la coda dell’occhio la vidi fare lo
stesso, sospirando.
Un paio di ragazzi avanzarono nell’aula dandosi spintoni e
evitando pugni
amichevoli, sbattendo contro i tavoli con i fianchi. Corrugai la fronte
e Sam
scosse il capo.
Uno dei ragazzi, dai capelli neri, indietreggiò lungo il
nostro corridoio e
pensai che avrebbe colpito in pieno il mio banco, così mi
preparai a scattare
non appena ce ne fosse stato il bisogno, passando in rassegna,
mentalmente,
tutti i tipi di insulti che non implicassero un linguaggio
eccessivamente
volgare. Ma il ragazzo, si voltò appena in tempo, come
avesse calcolato le
distanze con estrema precisione, bloccandosi quando incontrò
il mio sguardo.
Alzò un sopracciglio. «E tu chi sei?»
«Importa?»
«Quello è il mio posto.» disse facendo
scorre lo zaino lungo la spalla per poi
trattenerlo con la mano.
«Oh.» sussurrai cominciando a voltarmi osservando
il banco, la sedia. «Non vedo
scritto il tuo nome.» aggiunsi facendo spallucce ad
arricciando le labbra.
Sentii Sam soffocare delle risate. Il ragazzo dagli occhi color della
notte, di
fronte a me, la fulminò con lo sguardo e lei
roteò gli occhi.
«E’ il mio posto da sempre. Lo sanno
tutti.» ribatté il ragazzo.
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è
scritto il tuo nome. Finché non trovo
scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.» sibilai e con
aria di chi sa di
averla vinta feci un pallone con la gomma, che scoppiò poco
dopo.
Non mi accorsi che il silenzio era calato, nell’aula.
Qualcuno tossii ma né io, né il ragazzo dinanzi a
me ci voltammo. I nostri
occhi erano come incatenati, impegnati una lotta
“all’ultimo sguardo”. Alla
fine fu lui a cedere, quando il professore di inglese, il professor
Cope, lo
richiamò all’attenzione.
«Signor Smith, qualche problema? Perché non si
accomoda qui, in prima fila. Non
è forse l’ultimo banco vuoto?» chiese
l’uomo alzando un sopracciglio.
Rivolgendomi un’ultima truce occhiata il ragazzo si
voltò prendendo posto in
prima fila.
«Sei forte, Lily.» disse Sam voltandosi non appena
la campanella suonò.
Un angolo della mia bocca si sollevò verso l’alto.
«E cosa avrei fatto?» chiesi
alzandomi e prendendo lo zaino dal pavimento.
«Con David, sei stata geniale. Solitamente gli viene lasciato
quel posto.»
Feci spallucce. «Sono nuova. Direi che per me le cose non
valgono molto.»
«Non ti importa quello che pensa la gente di te,
vero?»
«E’ tanto evidente?» chiesi mentre ci
dirigevamo verso la porta.
Lei fece un risolino ed annuii col capo. «Sei
forte.»
Risi. «Grazie, Sam. Lo sei anche tu.»
Samantha non era molto più alta di me, forse un paio di
centimetri. Aveva
lunghi capelli ondulati e l’abbigliamento piuttosto
trasandato… e
nero. Mi accorsi di quanto, nella sua
anonimità, fosse simile a me.
«Da dove vieni?» chiese curiosa.
Deglutii a fatica. «New York.»
«Una ragazza di città.»
Accennai un sorriso. «Già.»
«Perché sei qui?». Temevo quella domanda
e, anche volendo, non potevo evitarne
la risposta. Certo l’idea di fuggire via correndo, era
allettante.
«Mio padre ha ottenuto qui un posto.»
Sperai che la mia risposta vaga la dissuadesse da altre domande.
«Capisco.» disse infine. E le fui grata.
«Ora ho algebra, adesso. Tu?»
Sam sorrise. «Algebra.»
*
Ringraziamenti.
Nessi93: ciao, Chiarì!
Come già ben
sai, una delle tue ipotesi è giusta… ma di quale
non ne parlo. Sono contente ti
piaccia la fiction, è davvero importante per me. E, sai, che
ci tengo sempre a
sapere cosa ne pensi. Beh, riguardo Cathy… non posso
parlarne per il momento,
ma se fossi stata io al suo posto sarei finita a litigare con una che
rispondeva a monosillabi. Spero ti sia piaciuto questo capitolo,
Chià. A
presto. Ti voglio bene. E grazie, grazie di tutto.
__Yuki__ : ciao!
Non hai idea di
quanto mi abbia fatto piacere leggere la tua recensione, davvero! Per
Lily sarà
dura, cioè… credo che molti avrebbe reagito
così… io probabilmente lo avrei
fatto. Cathy… riguardo lei non posso ancora esprimermi XD Si è vero, le
recensioni aiutano molto. Io
tento a recensire tutto ciò che leggo, ma
ultimamente… il tempo per leggere
fiction è davvero poco. Il poco tempo a disposizione, dopo i
compiti lo uso per
scrivere, o finisco davvero al manicomio. Si, efp è bello
anche per il
confronto. Conosci un sacco di persone genuine che sono disponibili per
qualsiasi tuo problema ^.^ grazie
per la
recensione, mi ha fatto davvero piacere. A presto!
KeLsey: ciao, Eri! *-* Davvero ti
piace così tanto? Non sia quanto ne sia felice…
il tuo parere conta molto, il perché
non mi sembra il caso di ripeterlo. I flashback a volte, devo
ammettere, che mi
fanno sudare un po’, ma sono felicissima di sapere che ti
piacciano! Si, su Lily
ci hai preso. E’ un mix di varie caratteristiche. Grazie
mille, tesoro, davvero
Grazie di cuore. A presto. Ti voglio bene.
A voi, Panda.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro: David. ***
~Sometimes you have to be apart from people
you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling
apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.
Capitolo quattro.
David.
«Allora, oggi surf?» mi chiese Logan.
Mi voltai a guardarlo, sistemandomi lo zaino in spalla, dopo essere uscito
dall’auto.
«Non sono previste onde, amico.» dissi. Logan, il mio migliore amico dai tempi
dell’asilo, mi raggiunse con una falcata.
«Non per nulla useremo la vela.»
«Non lo so, Logan. Ho… ho da fare.» dissi dirigendomi verso la scuola.
Era il primo giorno, quello, purtroppo. L’estete era finita. Niente più notti
brave, festini,giornate passato sotto il sole cocente, immerso nell’acqua con
la mia tavola da surf. Niente lavoretti saltuari. Solo scuola. La
consapevolezza che, però, quello era l’ultimo anno di liceo mi rincuorava,
facendomi dirigere verso la struttura col sorriso. L’anno successivo sarei
partito per il college. Lontano da quella cittadina fatta di adolescenti
omologati fra loro e zitelle che non facevano che spettegolare circa lo stato
coniugale di mia madre. Lei, donna bellissima lasciata dal marito avvocato… per
la sua segretaria.
Strinsi automaticamente i pugni immerso nei miei pensieri.
«Sei un pessimo bugiardo, David.»
Mi voltai verso Logan che mi fissava con un sopracciglio alzato.
Risi. «Perspicace.»
«Dai, amico.»
«Un attimo, ma non hai fatto fuori la tua auto? Come sei venuto?» chiesi
corrugando la fronte e salendo gli scalini della scuola.
«Sono venuto con Beth.»
Con un cenno del capo risposi al saluto di una ragazza dai capelli castani, del
mio corso di spagnolo. «Tua cugina?»
«Vedo che te la ricordi ancora.» scherzò lui, prima di salutare delle ragazze
che passavano di lì. Era sempre così, durante l’anno. Ogni mattino c’era sempre
un sacco di gente che ti salutava, ed il primo giorno molti si fermavano anche
per due chiacchiere. Durante l’anno questo poteva essere fastidioso,
specialmente nei giorni in cui non hai voglia di parlare con nessuno, solo
startene da solo a rimuginare sulla tua vita, sui tuoi errori da adolescente… e
sugli errori commessi dai tuoi genitori.
Ad ogni modo… Beth era la cugina di Logan, con la quale ero uscito agli inizi
dell’estete, resomi subito conto che il suo fare civettuolo non era per me.
Ragazza dolce e buona, senza dubbio… ma, come avrebbe detto mia madre, la scintilla dell’amore non era scoppiata.
Accennai un sorriso.
«Allora?» chiese Logan. Mentre aprivamo i nostri armadietti, fortunatamente
l’uno vicino all’altro.
«Cosa?»
«Ci vieni a fare surf?» insistette.
Sbuffai. «D’accordo, d’accordo. Ci vengo». Finché non avessi detto “sì”, Logan
mi avrebbe assillato per tutta la giornata, come suo solito. Non avevo dubbi.
«Grande!» esclamò dandomi una pacca sulla spalla.
«Certo, certo. Mi devi molto, sappilo.»
«Sissignore.»
Seduto in penultima fila seguivo distrattamente la lezione.
Non era da me, mi piaceva seguire ogni lezione, ma quello, essendo il primo
giorno di scuola faceva eccezione. Poggiato allo schienale della sedia
giocherellavo con la penna. Distrattamente presi a scorrere con lo sguardo sui
vari studenti che si trovavano nell’aula, e fui catturato da una esile figura.
Era seduta in seconda fila, verso la porta. A catturarmi fu l’insolito colore
dei capelli. Conoscevo bene le ragazze dell’ultimo anno, nel corso delle
superiori avevo frequentato i corsi con almeno ognuna di loro, per non parlare
delle feste ed appuntamenti. Erano chiari, un biondo particolare che non avevo
riconosciuto in nessuna ragazza, lì. Certo, magari poteva essere qualcuna che
conoscevo, dai capelli schiariti dal sole estivo. Ebbi la certezza di non
conoscerla, quando voltò il capo verso la finestra.
I capelli si mossero sinuosi e lungi, scoprendo il profilo lineare ed armonico
del suo viso. Sembrava avere un’espressione tranquilla, non ne fui certo,
poiché dalla mia posizione era difficile capirlo.
Lei scosse il capo, tornando a guardare l’insegnante.
Durante la lezione il mio sguardo cadeva sempre su di lei, immaginando come
fosse il suo viso visto frontalmente.
L’avrei scoperto. Ne ero certo.
«Ritornare a fare Algebra, dopo un’estate d’ozio è stato orribile.» disse Logan
ad occhi sgranati, passandosi una mano fra i corti capelli castano chiaro.
Come, suo solito, Logan si era materializzato dal nulla. Probabilmente grazie
ad suo eccezionale radar che usava per trovare le persone. Questo a mio parere.
Secondo Logan, invece, noi eravamo legati telepaticamente.
«Io avevo biologia.» risposi. Facendo spallucce.
«Ora cos’hai?»
Controllai il mio orario, tirando fuori un foglietto dalla tasca. «Inglese.»
«Anche io.»
«Ciao, David.»
Mi voltai verso la ragazza che comparve alla mia sinistra. «Ciao, Mandy.»
«E’ da un po’ che non ci si vede. Come stai? Passato una bella estate?» chiese
portandosi una lunga ciocca di capelli scuri dietro un orecchio.
«Ciao anche a te, Mandy.» disse Logan.
«Ciao, Logan. Non ti avevo notato.»
«Certo, come no.» farfugliò lui a mezza voce. Mandy non se ne accorse. Mandy
era la capo cheerleader. Alta, corpo scolpito, lunghi capelli raccolti in una
coda di cavallo.
«Si. E tu?»
«Oh si! Sono stata a Parigi. Che città magnifica. Tutti quei negozi, le luci…»
Sorrisi. «Ne sono felice.»
«Tutto okay, Dave?»
Annuii col capo. Lei sorrise. «Allora vado a lezione. Ciao, David! Oh, ciao
Logan.». Salutandoci con la mano, Mandy sparì fra la moltitudine di studenti.
«Sarà anche una civetta senza cervello, ma… wow, lei si che è uno schianto!»
disse Logan sgranando gli occhi e guardandola allontanarsi.
«Sì, è carina.» dissi arrivato vicino l’aula di inglese.
«Carina? Amico… carina?» chiese quasi sconcertato.
Roteai gli occhi.
«Chiedile di uscire.» continuò dandomi un leggero spintone.
«No, grazie. Passo. La lascio a te.»
«Ma se non mi sopporta. Una serata con lei non ti farebbe male.»
Alzai un sopracciglio scettico, prima di tossire e drizzarmi. «Sono stata a
Parigi. Oh, i negozi! Le luci!» esclamai imitandola.
Logan mi diede uno scappellotto. «Tu non hai diciotto anni. Tu ne hai
quaranta!»
«Sì, me lo dice anche la mamma.» dissi in un risolino entrando in classe,
ricordando quel tanto amato banco in ultima fila che da sempre era mio e che
oramai nessuno osava più occupare.
Logan mi diede uno spintone amichevole facendomi perdere appena l’equilibrio.
Mi volati a feci lo stesso. Lui alzò i pugni a mo’ di attacco e io cercai di scansarlo, sbattendo con il bacino ai vari
banchi. Alzò un bracciò in alto, puntandomelo verso il viso, ma subito lo portò
all’addome e per evitarlo fui dovetti girarmi, pronto a gettare lo zaino sul
banco.
Fui costretto a bloccarmi.
Guardai per un attimo la ragazza dai lunghi capelli biondi, la stessa ragazza
che si trovava nell’aula di biologia.
«E tu chi sei?» chiesi alzando un sopracciglio.
«Importa?»
«Quello è il mio posto.» risposi come fosse la cosa più ovvia al mondo.
«Oh.» mormorò pensierosa, prima di esaminare la sedia ed il banco.
Ma cosa…
«Non vedo scritto il tuo nome.» aggiunse facendo spallucce ed arricciando le
labbra piene.
«E’ il mio posto, da sempre. Lo sanno tutti.»
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è scritto il tuo nome. Finché non trovo
scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.» disse e fece scoppiare il pallone fatto
con la gomma da masticare, con aria di sfida.
Non era possibile. Quello era il mio posto. Io dovevo stare lì, come da
tradizione.
Sconcertato la fissai. Aspettai che si alzasse, ma non lo fece. Rimase lì a
fissarmi senza muovere un muscolo.
Non è possibile, pensai.
«Signor Smith, qualche problema? Perché non si accomoda qui, in prima fila. Non
è forse l’ultimo banco vuoto?»
Mi voltai verso il signore Cope che mi fissava in piedi, dietro la cattedra.
Sospirai, cercando di fermare la rabbia che cominciava a ribollirmi nelle vene.
Mi diressi, così, verso il banco in prima fila. Rivolgendo un ultima occhiata
alla ragazza bionda.
Non era così il modo in cui mi aspettavo di vedere il suo viso. Lei mi aveva
soffiato il posto e sentii un impeto di antipatia nei suoi confronti. Ma
dovetti ammetterlo. Il suo viso… era molto meglio di come mi aspettassi.
*
Ringraziamenti.
Nessie93: ciao, Chià! *-* Grazie per la recensione
magnifica, davvero! Mi ha fatto un piacere enorme! E mi ha fatto tanto sorridere!
Beh, spero sia stato chiaro, il capitolo. A narrare è un altro personaggio.
Spero di non averti delusa, o annoiata, in tal caso per favore dimmelo. Non so perché,
ma scriver dal punto di vista di un ragazzo, qui, è molto più complicato. Ad
ogni modo… grazie mille!
Miriam Cullen: ciao! *-* Tranquilla, non preoccuparti! Sono contenta
però tu l’abbia letta. Mi scuso per il tremendo ritardo ma l’organo
della mia immaginazione si era
momentaneamente prosciugato. Beh,
riguardo Lily… nella mia testa lei è un personaggio complicato. Fino ad adesso
ho mostrato un lato del suo carattere che dipende soprattutto dalla nuova vita
e da ciò che il… “destino” gli ha preservato. Sono contenta ti piaccia il mio
stile. Solitamente è la cosa che mi preoccupa di più. Grazie davvero di cuore
per la recensione. Spero di non averti annoiata. A presto!
A voi, un bacio,
Panda.
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