Il mio soldato

di Lovely Grace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Avviso ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Edward Pov

Si dice che nella vita bisogna fare delle scelte, che il nostro futuro è determinato da esse.
Io non ho mai creduto nel fato, nel karma e quelle stronzate là…
Non ho nemmeno mai creduto nell’amore eterno, nel colpo di fulmine, nella famiglia.
Eppure, ora sono qui, immerso nel fango fino alle ginocchia, la fame e la sete sono ormai echi lontani nella mia testa, e il sudore freddo scende sul mio viso, appannandomi la vista, e le gambe cedono, la stanchezza è troppo forte.
Sono al limite.
Sono qui, stanco ed affaticato, cerco di sedermi un attimo, ma so che non riuscirei a rimettermi in piedi. E continuo ad avanzare.
Avanzo, avanzo, continuo ad avanzare verso una meta sconosciuta, verso i miei nemici che mi stanno aspettando, i mitra carichi di colpi che aspettano solo me per esplodere.
Sono qui e al contempo sono su una spiaggia assolata di Phoenix, gli occhi chiusi, il petto nudo, la debole brezza di mare a scompigliarmi i capelli, le grida dei gabbiani e il rumore delle onde a rilassarmi, un corpo caldo abbracciato al mio. Il suo.
Non so se riuscirò di nuovo a tornare da lei, questa volta non vedo via d’uscita.
Non ho mai creduto a Dio, agli angeli.
Eppure, nel momento in cui un nemico mi fronteggia, il mitra alzato e pronto ad esplodere nel mio colpo mortale, l’unica cosa che riesco  a fare è pregare.
Pregare di riuscire a rincontrarla un giorno, pregare di vederla felice, pregare che riesca ad andare avanti. Pregare perché il nostro amore non abbia mai fine.

 
Note dell’autrice
Salve a tutte! Questa mattina, quando mi sono svegliata, mi è venuta in mente questa storia.
Di solito prima di postare anche solo il prologo mi mando avanti con i capitoli, ma oggi no.
Saranno le vacanze estive, la consapevolezza di avere più tempo libero, non lo so, ma ho voluto postarlo subito per sapere cosa ne pensate.
Cercherò al più presto di portarmi un po’ avanti con i capitoli, e di postare regolarmente, magari proprio il lunedì.
Nel frattempo, mi piacerebbe ricevere le vostre impressioni su questo piccolo prologo.
Buona settimana e buon inizio vacanze a tutti!
Baci, Grace. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Eccoci con il primo capitolo! È sei pagine Word, vi avviso, ma non volevo spezzarlo. Grazie per tutte le recensioni che mi avete lasciato :D Vi rompo un attimo qui perché vedrete degli asterischi (*) nella storia… ebbene leggete le note dell’autrice in fondo perché quei piccoli segnettini vengono spiegati uno per uno! Grazie mille e buona lettura! :*

Edward Pov

Mi chiamo EdwardAnthony Masen  Cullen.
Sono nato il 20 Giugno 1976* a Chicago, nell’Illinois.
Mio padre, Edward Masen, era uno degli avvocati più famosi di Chicago, uno dei più ricercati, dei più amati e più pagati.
Il suo studio si trovava in città, distanziava si e no mezzora di cammino dalla nostra villetta situata in una delle zone migliori della città, altro che quelle case in periferia dove la gente scompariva dal giorno alla notte.
Era un uomo dall’aspetto rigido, severo, professionale.
Lavorava notte e giorno, se per il mio avvenire o suo sfogo personale non lo seppi mai.
Fatto sta che grazie alla sua dedizione al lavoro mise da parte un bel gruzzoletto, una cifra quasi impensabile a quei tempi, permettendomi così di studiare musica, iscrivendomi all’Accademia Musicale della città, a quei tempi una delle più rinomate e qualificate degli stati uniti.
La scuola si trovava a Springfield, ci voleva un ora e mezzo di treno per arrivarci.
In quelle stanze enormi dal pavimento in parquet, passai gran parte delle mie giornate, suonando l’enorme pianoforte a coda che ben presto divenne il mio migliore amico.
Al mattino andavo a scuola, ma non una delle tante scuole pubbliche che si trovavano, no.
Mio padre riuscì a farmi entrare nella più prestigiosa scuola privata di tutto Chicago: la Lab School**, dove vi studiavano solo i ragazzi e le ragazze con una certa dote ed un certo quoziente intellettivo.
Non mi sono mai ritenuto un genio, ma ho sempre saputo che la mia intelligenza è sopra la norma, e spesso non riuscivo a comprendere le necessità ed i pensieri dei miei coetanei.
Ero un ragazzo molto semplice, bloccato nella mia semi-nobiltà, costretto ad indossare sempre giacca e cravatta, abituato ad avere tutto ciò che chiedevo.
Avevo tutto, eppure mi ero sempre sentito fuori posto.
Brigitta, la mia bambinaia, fu il mio punto di riferimento per tutta la mia infanzia e la mia adolescenza.
Solo lei riusciva a non farmi fuggire via, e fu lei a darmi i solidi principi che ancora oggi possiedo.
Sì, perché anche se mio padre provvedeva egregiamente ai miei bisogni materiali, non l’ho mai visto sorridermi, carezzarmi una guancia o darmi la buonanotte almeno una volta. Mai.
Era un uomo freddo, spesso lontano da casa per il lavoro.
Anche con mia madre, non l’ho mai visto guardarla negli occhi o sussurrarle un “ti amo” prima di andare a lavoro.
Si limitava a muoversi per casa, avanti e indietro, chiamando Brigitta quando ne aveva bisogno, e limitandosi a salutare chiunque con un cenno del capo.
Mia madre, Elizabeth Masen***, diventò ben presto il centro della mia vita.
Era una giovane donna di soli diciotto anni, dalla bellezza unica: alta, magra, occhi di un marrone talmente intenso da sembrare di poterle leggere l’anima e i capelli castani e lucidi, boccolosi ed estremamente morbidi, che si adattavano perfettamente alle dita di un piccolo bambino qual ero in cerca di un contatto materno.
Così riuscii a compensare l’assenza di mio padre: rendendo unico il rapporto che avevo con mia madre.
Purtroppo si ammalò gravemente di tubercolosi polmonare quando avevo solo otto anni.
Ero poco più di un bambino, eppure vedevo ogni giorno mia madre impallidire, i suoi grandi occhi marroni spegnersi, i bellissimi capelli cadere e le sue forze venire di meno finchè, un mese dopo, le forze quasi non le mancarono del tutto, costringendola così a rimanere a letto, aspettando la sua morte.
La notte non riuscivo di solito a dormire più di due ore di seguito: i passi affrettati di Brigitta verso la camera di mia madre risuonavano come campane di morte nella mia testa, costringendomi ad alzarmi e andare da lei, ad accertarmi che la morte non l’avesse portata via da me.
Ogni notte l’aiutavo ad asciugarsi il sudore che le imperlava la fronte e il cuscino, le lacrime silenziose che uscivano dai suoi occhi dal dolore di vedermi così in pena per lei.
Le cure c’erano, e il costo non era un problema per mio padre, ma erano troppo deboli per lei, troppo inefficaci.
Si spense così la notte del 13 settembre 1984****, a soli ventisei anni.
Quella notte un violento uragano invase Chicago.
Le finestre sbattevano, la pioggia cadeva incessante sui vetri e tutto intorno a me odorava di morte.
La flebile voce di mia madre sussurrò il mio nome nell’ora estrema, facendomi avvicinare al suo letto e sdraiare a fianco al suo corpo, stringendomi a lei.
“Sei un ragazzo speciale Edward, sei intelligente, bello… Hai tutte le doti necessarie per essere un grande uomo. Io non ci sarò quando lo diventerai, ma da lassù ti guarderò. Ti prego, rendimi orgogliosa ti te, fai ciò che ti renderà felice, non seguire le orme di tuo padre e credi sempre nell’amore. Sono sicuro che quando incontrerai la ragazza giusta capirai tutti gli errori che tuo padre ha commesso. Sii presente per i tuoi figli, Edward, e ricorda: la chiave per la felicità si trova solo qui. Apri il tuo cuore e la troverai” Mormorò flebile, la voce che si spezzava di continuo, le sue mani magre e sudate posate sul mio cuore.
Ero solo un bambino, eppure non dimenticai mai il sorriso luminoso che mi rivolse mia madre l’attimo prima di spirare il suo ultimo respiro e di giacere sul suo letto di morte senza più forze nel suo gracile corpicino.
Ero solo un bambino, eppure conservo ancora oggi, dentro di me, quelle parole sincere.
Quella notte, per la prima volta in tutta la mia vita, vidi mio padre inginocchiarsi accanto al letto di mia madre, le sue mani a toccare quelle della moglie ormai scomparsa, ed una piccola lacrima rotolargli giù dall’occhio destro.
Per la prima volta da quando ero nato, vidi mio padre piangere.
Il funerale venne celebrato il giorno seguente con una cerimonia intima.
Lasciai la pagina con lo spartito musicale scritto appositamente da me per lei nelle sue mani prima di vedere il legno della piccola bara color panna chiudersi su di lei, ad accoglierla per il resto dell’eternità.
Da quel giorno rimasi solo: mio padre passava anche la notte in ufficio, tornava di rado a casa e quando lo faceva nemmeno mi salutava più.
Era cambiato, la morte di mia madre l’aveva cambiato.
Fu in quel periodo che il mio legame con Brigitta s’intensificò.
Era una donna sulla cinquantina, dall’aspetto molto materno e sereno.
Era bassa, grassottella, con le mani grandi e morbide, mani da sarta, diceva lei.
Aveva i capelli corti, marroni e leggermente crespi che sistemava in uno chignon ogni singolo giorno.
Indossava sempre un abito nero, a maniche lunghe, estate e inverno, che le arrivava alle caviglie. E sopra ad esso metteva un grande grembiale bianco con trine di pizzo, che le arrivava sotto le ginocchia.
In testa, aveva sempre la sua fascetta dello stesso tessuto del grembiale.
Ai piedi, gli stessi zoccoletti di plastica bianchi.
Era lei la domestica, la cuoca e la bambinaia: di occupava di tutto.
Al mattino la sua sveglia suonava alle quattro e iniziava subito con i suoi lavori domestici.
Pensava a svegliarmi, preparare la colazione, pulire l’enorme villetta, preparare i pasti ed accompagnarmi alla stazione per prendere il treno per andare a scuola.
La sera, al mio ritorno, ci sedevamo nel soggiorno, lei sulla sua sedia a dondolo in legno massello, a ricamare o rammendare abiti e giacche, io a leggere libri.
Ed era in quei momenti che riuscivo ad aprirmi con lei, a confidarmi con quella donna così materna da diventare ben presto come una seconda madre per me.
Brigitta non aveva avuto la mia stessa fortuna: aveva solo il diploma di quinta elementare e mi aveva spiegato che per i suoi tempi era già tutto l’oro del mondo saper leggere e scrivere.
A dieci anni, finita la scuola, la madre le aveva insegnato come diventare una perfetta donna di casa.
Mi raccontava sempre come aveva imparato a cucire, cucinare, pulire e lavare i vestiti.
A soli dodici anni era entrata a lavorare in una fabbrica come operaia. Qua la pagavano poco ed era lei a fare tutti i lavori, anche per le donne più anziane che non riuscivano più a lavorare bene.
A quindici anni aveva incontrato Jerard, un ragazzo poco più grande di lei, e un anno dopo si erano sposati, mettendo subito alla luce una bambina di nome Esme.
Avevo conosciuto Esme, era una giovane donna sulla trentina, molto dolce e gentile, come la madre, ma assai diversa fisicamente.
Brigitta aveva allora lasciato il lavoro di operaia viste le sue condizioni ed era così stata assunta da mia madre.
La  figlia di Brigitta viveva con i nonni, mentre Jerard si spegneva pian piano di tubercolosi polmonare.
Questo molti anni prima di mia madre, ma la grande espansione di questa epidemia non cessò mai nell’Illinois e morirono centinaia di persone.
Brigitta mandò allora sua figlia nella cittadina di Forks, nello stato di Washington, sperando così di salvarla da morte certa.
Qui la figlia conobbe Charles, un ricco banchiere, con il quale convolò ben presto a nozze e con cui rimase incinta.
Ma Esme non era felice in quella cittadina troppo piccola per lei, a sapere sua madre lontana e forse ammalata. Cadde così in depressione, situazione che si aggravò quando abortì al terzo mese di gravidanza, vedendo la sua unica ragione di vita sin a quel momento uscire dal suo corpo, priva di vita.
Tentò allora il suicidio, cercando di gettarsi in mare aperto dalla spiaggia di La Push.
Qua il fato volle che Quil Ateara IV ***** la vide scivolare sugli scogli ripidi della scogliera e le andò in soccorso, chiamando aiuto.
Esme venne ricoverata d’urgenza nell’ospedale di Forks. Qui conobbe Carlisle Cullen, un giovane uomo, la promessa americana della medicina.
Lavorava in ospedale, ed era uno dei medici più ricercati e brillanti dell’America, con ben tre dottorati ed una laurea in chirurgia. FU lui ad occuparsi di Esme.
Il “salvatore” di Esme, Quil Ateara IV morì pochi giorni dopo, non aveva nemmeno trent’anni quando si ribaltò con la sua barchetta a causa di una tempesta.
La donna non riuscii mai a ringraziarlo personalmente, ma è sempre stata certa che il giorno in cui l’uomo morì, un enorme corvo nero volò sul cornicione della finestra della sua camera di ospedale, e secondo una tradizione Quileute, quando l’anima di un membro della tribù passa a miglior vita, essa si reincarna in un animale, un corvo, per la precisione ******.
Da allora Esme legò molto con Carlisle, e due anni dopo i due convolarono a nozze.
Ma i dispiaceri non erano ancora finiti per la povera ragazza perché scoprì poco dopo di essere sterile.
Come Brigitta, Esme era dotata di un grande senso di maternità.
Fu allora che assieme al marito Carlisle tornarono a Chicago dalla madre, presentando il nuovo marito.
Conobbi personalmente Esme e Carlisle perché vennero a vivere per due settimane con noi nella nostra casa.
Carlisle era un uomo molto pacato, professionale e dolce. Per certi versi ricordava mio padre: era severo, ma non troppo, professionale ed educato. Ma a differenza di mio padre, lui aveva un grande cuore e non si vergognava ad ammetterlo.
Durante il loro soggiorno a Chicago, presero in considerazione l’idea proposta da Brigitta: salvare qualche bambino dall’affollato orfanotrofio di Springfield.
Purtroppo le pratiche per l’adozione a Chicago erano quasi impossibili, per cui i due neo sposi fecero ritorno a Forks, scrivendoci di tanto in tanto qualche lettera.
Nel frattempo io ero cresciuto, avevo ormai sedici anni quando persi anche mio padre.
Venne ucciso in una rapina al suo studio, con un solo colpo mirato alla testa, che gli trapassò il cranio.
A quel punto non era più sicuro per il figlio dell’avvocato più famoso di Chicago rimanere nella grande villa tutto solo, visto che la banda di ladri si avvicinava sempre più alla nostra zona residenziale.
Fu la notte del primo settembre 1992 a cambiarmi la vita.
Ero in casa con Brigitta, mi stavo coricando quando sentii dei vetri infrangersi, grida e un rumore assordante di stoviglie cadere a terra.
Corsi allora nel salotto nel quale si trovava Brigitta, e nel momento in cui misi a fuoco l’orrenda immagine che mi si presentava davanti, un colpo di pistola esplose e un caldo fiotto di sangue mi macchiò la camicia.
Passarono non so quanti secondi prima di accorgermi che quel sangue era della mia Brigitta.
I ladri fuggirono ed io rimasi tutta la notte inginocchiato accanto al corpo sanguinante e privo di vita di quella donna che era stata come una seconda mamma per me.
Fu la vicina, la signora Gage,  a trovarmi ancora lì, sporco del sangue di Brigitta.
L’urlo che emise fece accorrere tutte le persone nel raggio di qualche chilometro e ben presto mi ritrovai al centro dell’attenzione, con signore che si occupavano di ripulirmi dal sangue della mia balia.
Durante la sua vita, mio padre si era preoccupato anche di scrivere un testamento, anche se in questo, purtroppo, non c’erano informazioni su chi avrebbe dovuto occuparsi di me in caso fossi rimasto solo.
Venni eletto unico erede di tutti i beni di cui disponevamo: la casa, lo studio, i gioielli, i soldi… tutto quanto in mano ad un adolescente di soli diciassette anni.
Carlisle ed Esme accorsero subito il giorno seguente la morte di Brigitta, e mi proposero di andare a vivere con loro. Mi adottarono.
Ci trasferimmo poco dopo a Forks, in un’enorme villa bianca su tre piani, nel mezzo della foresta.
Qua conobbi subito gli altri figli adottivi: Rosalie e Jasper Hale, i gemelli trovati abbandonati a soli tre anni in un convento, ed Emmett ed Alice Cullen, entrambi con storie molto complicate alle spalle.
Emmett era un ragazzo di diciotto anni, alto e muscoloso, a prima vista pensai si trattasse di uno fissato con il fitness. E invece l’apparenza ingannava perché in realtà era un ragazzo molto dolce.
Venne sbranato da un orso in Alaska mentre fuggiva da casa, con un passato difficile alle spalle: il padre, un uomo violento, aveva  spinto la moglie a suicidarsi e abusava regolarmente di Emmett.
Fu trovato da Irina Denali, una giovane ragazza del luogo che era andata a far legna.
Dall’ospedale dell’Alaska venne mandato a Forks dove Carlisle si occupò di lui.
Le sue gravissime condizioni migliorarono sino a guarire nel giro di soli sei mesi. A testimoniare quell’incontro troppo ravvicinato con l’orso, un’enorme cicatrice biancastra e lucida sulla sua guancia destra.
Molte persone, dopo l’incidente, avevano paura di Emmett, e tutto per la cicatrice.
Alcuni pensavano che fosse stato coinvolto in un giro losco o traffico di droga.
Fu allora che Esme e Carlisle lo adottarono, anche se maggiorenne, e si trasferì con loro.
Alice Cullen, anche se con lo stesso cognome, non è sorella di Emmett.
Il suo nome era Mary Alice Brandon, poi Cullen.
Alla sola età di quindici anni venne rinchiusa in una stanza dalle pareti imbottite: il manicomio.
Alice aveva un dono che in pochi capivano: la preveggenza.
Non era una persona malata, tutt’altro: con un’intelligenza fuori dalla norma e un acuto senso per l’economia e la moda, venne chiusa nel manicomio per i suoi sogni.
La ragazza sognava infatti eventi che nel giro di pochi giorni accadevano realmente, spaventando così la gente che le chiedeva consiglio.
Presa dalla disperazione, un giorno riuscì ad afferrare il coltello con il quale mangiava e si tagliò i polsi, rischiando di morire ma riuscendo a salvarsi proprio grazie a Carlisle.
Fu lui stesso ad occuparsi di lei una volta arrivata in ospedale.
Alice entrò subito in sintonia con Esme e Carlisle e chiese lei stessa di essere adottata da loro.
I primi giorni a casa Cullen mi sentivo un intruso, fuori luogo, ma tutti i ragazzi mi rimasero vicini e presto riuscii ad inserirmi.
Alice divenne mia sorella a tutti gli effetti, così come Emmett.
Un po’ più diffidenti erano i fratelli Hale, con cui legai anche se in modo minore.
Alla Forks High School finì la scuola, diplomandomi un anno prima rispetto ai miei coetanei.
Non c’erano scuole di musica a Forks, ma Carlisle provvide a ciò comprandomi un enorme e maestoso pianoforte a coda, identico a quello della scuola di Chicago.
A Forks ricominciai una nuova vita: nuovi amici, nuova famiglia… Stavo bene, ero felice.
Eppure, mi mancava qualcosa.
Ogni notte rivedevo davanti a me i ladri e il sangue di Brigitta e capii cosa dovevo fare.
Non ero mai stata una persona aggressiva o tenace, eppure in quel momento volevo solo una cosa.
FU così che mi arruolai nell’esercito, firmando sulla linea tratteggiata per la ferma di due anni.
La mia nuova famiglia rimase perplessa di fronte alla mia scelta, e si chiesero se mi trovassi male con loro.
Li assicurai che era la mia unica volontà perché, almeno una volta nella mia vita, volevo fare qualcosa di importante per tutti loro.
Così mi trasferii in Florida, alla Camp Murphy Southern Signal Corps School.
Qua, a soli diciotto anni, venni catapultato in un mondo tutto nuovo e completamente differente da come immaginavo.
E non sapevo che quello era solo l’inizio.
Il campo di addestramento era più terribile di quanto avessi immaginato e sembrava che ti facessero il lavaggio del cervello, in quel posto, in modo da non poterti opporre a nessun ordine.
Sì, perché dovevo seguire gli ordini e la cosa più terrificante era che bastava un semplice, piccolo, insulso errore e il mio compagno poteva morire.
Perché nell’esercito si trattava di questo: vivere o morire.
Le persone che mi ritrovai accanto erano assai diverse da me: tutti fumavano, quantità industriali di sigarette e dovetti presto abituarmi alla puzza di ciminiera che impregnava le stanze e i miei vestiti. Era come se avessi iniziato a fumare anch’io.
Tutti tenevano una scatola con riviste porno sotto il letto e più di una volta avevo trovato alcuni miei compagni a masturbarsi guardando quelle immagini insulse.
Mi facevano davvero schifo quelle immagini, quelle povere donne che offrivano ai fotografi e a pervertiti come i miei compagni il loro corpo per accendere il desiderio…
Non riuscivano a terminare una frase senza imprecare e spesso c’erano delle risse a cui purtroppo dovevo assistere.
Tutto ciò andava contro i principi che mia madre e Brigitta mi avevano insegnato. Eppure non me ne lamentai mai.
Mentre i miei compagni fumavano guardando i loro giornaletti porno, io me ne stavo sdraiato sul letto a leggere un libro o a scribacchiare l’accordo di qualche nota sul mio pentagramma.
Non toccai mai una sigaretta in tutti quegli anni: la puzza mi repelleva.
Se dovevo masturbarmi, lo facevo sotto la doccia, a riparo da occhi indiscreti, e senza pensare a quelle immagini offensive.
Gli altri non riuscivano a capirmi, pensavano che avessi qualche rotella fuori posto, e negli ultimi anni avevo iniziato a pensarlo anch’io.
Eppure avevamo stretto un rapporto, eravamo amici. Nell’esercito conobbi molte persone, geni e imbecilli, alcuni desiderosi di scappare altrove, altri desiderosi di diventare ufficiali di carriera. Eppure tutti eravamo lì per un motivo: difendere la Patria. E non cambiava che tu fossi nero, bianco o Russo. Eravamo tutti in ballo e dovevamo ballare, ognuno con gli stessi doveri, pochi diritti e pesanti responsabilità di cui dovevi essere all’altezza sulle spalle. In un certo senso era quasi naturale diventare  amici: nell’esercito puoi combattere sì per la patriottismo, ma quando sei lì non pensi a loro, pensi al compagno che ti sta di fronte, pensi all’amico che si cela sotto la sua armatura e fai di tutto per salvare la sua vita e viceversa. Perché infondo l’uno lotta per l’altro. E se va bene a fine giornata entrambi siete ancora vivi.
Spesso non ero d’accordo con le strategie e gli ordini che mi venivano imposti, ma non potevo ribellarmi. Io non ero nessuno, non valevo niente. E come me tutte le altre reclute.
Le uniche persone che davvero valevano, per i loro canoni, erano quelle che passavano la giornata seduti nella loro bella scrivania di legno, in un ufficio con l’aria condizionata e il caffè caldo sempre pronto.
Trascorremmo molti mesi a fare simulazioni nel Wisconsin e in Louisiana, dove mi insegnarono ad uccidere la gente e difendermi dagli attacchi dei nemici. Due mesi dopo venimmo spediti nei Balcani. Non conoscevo la lingua, non conoscevo il posto, ma non importava. Imparai subito a conoscere il luogo e le uniche persone con le quali dovevo parlare erano inglesi. Quando sei in guerra non hai bisogno di parole: c’è solo violenza.
Quando ottenevo la licenza, tornavo a Forks dalla mia famiglia, mi godevo un po’ di tranquillità e feste organizzate in mio onore da Alice, per poi ripartire subito dopo, rimanendo fuori per altri otto o tredici mesi, a seconda del caso.
Sapevo che Esme ci stava male e con lei anche gli altri, ma una parte di loro era fiera di me.
L’esercito mi cambiò. È un enorme clichè, lo so, ma entrai ragazzo ed uscii uomo.
Forse lottare tra la vita e la morte ogni giorno, perdere persone a te care, vedere paesi distrutti grazie a te ti rafforza.
Noi militari non possiamo piangere in pubblico, e quando combattiamo, ogni sentimento umano va ricacciato indietro. Come animali dobbiamo inseguire il nostro istinto e cacciare. Peccato che cacciamo persone.
 Vi chiederete voi: perché se non ti piace la guerra vai a combattere? Perché, perché… Non lo so nemmeno io il perché. Forse perché una parte di me ci crede veramente, o forse perché so che in fondo la guerra è una realtà che non si fermerà mai, ma va tenuta sotto controllo.
Il perché, in fondo, non lo so nemmeno io.
Non m’ interessava avere una famiglia, trovare l’amore.
Volevo servire il mio paese e salvare più vite che potevo.
Probabilmente penserete che io sia ambizioso e non vi so ancora dire se è davvero così o no.
Sono cambiate molte cosa da quando avevo diciotto anni.
è il 13 Giugno 2002*******, oggi sono solo Edward Cullen, ho ventisei anni, e sono arruolato nell’esercito da otto anni.
Sono in licenza, almeno per i prossimi tre mesi, e sono a Phoenix con la mia nuova famiglia: i Cullen.
Non so ancora che da qui a pochi giorni la mia vita cambierà completamente…



Note dell’autrice

Ok, ho MOLTE cose da chiarire.
Seguirò il numero degli asterischi x praticità:
*= Il vero Edward nasce nel 1901, ma non potevo ambientare la storia a quei tempi, per cui ho cambiato la data in 20 Giugno 1976.
**= La Lab School esiste davvero, ed è la scuola privata che hanno frequentato le figlie di Obama. Non so se è anche scuola superiore… Diciamo che la passate come licenza narrativa :D
***= Elizabeth Masen, la mamma biologica di Edward. Qua l’ho descritta facendola appositamente assomigliare a qualcuno… Occhi marroni, capelli castani… chissà chi sarà?? Esatto, voglio che assomigli a quella persona XD
****= Elizabeth muore il 13 settembre 1984. Non si sa quando muore nella realtà, ma a parte tutto, la storia è ambientata più o meno ai giorni nostri. E poi, cosa vi ricorda questa data di nascita? Lo so che lo sapete, ma comunque lo scoprirete nel prossimo capitolo XDD E per la cronaca, l’ho fatto apposta. Mi piaceva l’idea di “una vita che muore una che nasce”…
*****= Quil Ateara IV esiste davvero per Stephenie Meyer. È forse il padre di Embry e morì davvero come ho scritto io. Questo riferimento l’ho trovato nella guida ufficiale della saga.
******= Questa leggenda del corvo non so se esiste,  l’ho trovata nei fumetti de “Il Corvo” di Neil German, degli anni novanta, ma purtroppo non sono riuscita a fare una ricerca… Se non esistesse… me lo cedete come licenza narrativa un’altra volta? :D
*******= Ebbene sì, la storia non si svolge nel 2011 ma nel 2002. Il perché di questa scelta? Bella ha 18 anni, Edward 26… Non volevo che fossero troppo vecchi né volevo una Bella quindicenne, poi ci sarebbero stati problemi legali nella storia. E volevo far nascere i personaggi alla fine del 1900…

Se ho dimenticato qualcosa fatemelo sapere :)
Forse questa è un’idea un po’ malsana, però mi ha ispirato, il capitolo si è scritto quasi interamente da solo e ormai mi sono lasciata prendere talmente tanto che devo continuare XDD.
E poi, sono in vacanza, posso scrivere quanto mi pare, e questa è una gran bella cosa.
Ok, ora vi lascio, ma vi chiedo di farmi sapere che ne pensate di tutte queste “trovate” nuove… Spero di non deludervi! XD
Alla prossima settimana! 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2



Edward Pov


Era il 13 Giugno 2002, e anche se erano soltanto le otto di mattina, il sole bruciava.
Saranno stati trenta gradi.
Osservai il mare davanti a me, trattenendo a malapena un sorriso.
Mi piaceva osservare il mare, amavo quell’enorme distesa d’acqua profonda e infinita, il cui colore variava sempre.
E mi piaceva guardare gli strani ed affascinanti riflessi che il sole causava sulla sua superficie.
A quell’ora in spiaggia non c’era quasi nessuno, ed era il momento che preferivo.
A volte mi chiedevo perché non mi ero arruolato nei marines.
La vicinanza al mare mi piaceva, mi faceva stare bene, mi faceva sentire libero.
Però in fondo dovevo ammettere che forse era meglio così: era bello immaginare tutto l’anno il mare, così una volta arrivato a destinazione ne sarei rimasto sicuramente soddisfatto.
Il piccolo molo di legno chiaro non era molto lungo, sarà stato si e no un metro forse, ma non resistei al richiamo del mare, camminando a piedi nudi sul suo legno invecchiato dal tempo e dai milioni di piedi che lo avevano pestato prima di me.
Inspirai a pieni polmoni l’aria pura e il profumo di salsedine, leggermente inebriante.
Quella sì che era vera aria, a differenza di quella che inalavamo noi soldati nelle nostre stanze.
Magari in quei tre mesi sarei riuscito a disintossicarmi i polmoni dal tabacco.
Arrivai alla fine del molo, sedendomi sul bordo, lasciando i piedi pendoloni.
Chiusi gli occhi e alzai il viso verso il cielo, sentendo i raggi solari scaldarmi la pelle.
La mia carnagione era sempre stata chiara, da ragazzo, ma con l’addestramento all’aperto, le corse pomeridiane e le missioni in paesi caldi e soleggiati, il mio colorito si era notevolmente scurito e la mia pelle rimaneva sempre gradevolmente abbronzata.
Mi rilassai completamente, lasciandomi cullare dal fruscio delle onde sotto di me e dai versi dei gabbiani che volavano sopra la mia testa.
Con gli anni ero riuscito ad affinare i miei sensi e avevo un udito notevole, per cui fu quasi istintivo per me spalancare gli occhi e voltarmi di scatto quando sentii dei piccoli passetti avanzare verso di me sul legno della pedana.
E fu in quel momento che la vidi.
Sia ben chiaro, non sono mai stato uno che nei suoi racconti aggiunge dettagli inesistenti o modifica gli eventi per passare da eroe, ma quella volta lo fui veramente.
Camminava a testa bassa, era una figura gradevole, non molto alta, magra e con dei bellissimi e lunghi capelli color mogano, lucidi come uno specchio.
La sua pelle era chiarissima, troppo chiara per essere di Phoenix, ma forse si trattava di una straniera in vacanza.
La cosa che più di tutte mi stupii, fu di vedermela arrivare lì davanti, da sola.
Quando si accorse dei miei occhi su di lei e della nostra notevole vicinanza, le sue guance si colorarono di un’intensa tonalità di rosso, e il suo viso si alzò, incontrando il mio.
Se non fosse stato per il raggio di sole che mi rimbalzò precisamente in un occhio, avrei sostenuto il suo sguardo. Purtroppo non riuscii a farlo.
Sembrò leggermente mortificata di essere lì, e capii che probabilmente non si era accorta prima della mia presenza.
Il nostro gioco di sguardi fu interrotto da una serie di passi pesanti e affrettati, e non appena mi voltai, vidi un giovane ragazzo correre verso di lei, i capelli sparati all’insù, biondi, probabilmente tinti dato il colore quasi ossigenato e un sorrisetto furbo sul volto.
< Sei pronta al tuo battesimo nelle acque di Phoenix?> Gridò il ragazzo correndo verso di lei.
La ragazza non fece in tempo a rispondere che lui se l’era già caricata in braccio, dirigendosi a grandi passi verso la fine del molo.
< Mike! Non so nuotare, mettimi giù!> Gridò un istante prima di sprofondare nelle profondità dell’oceano Atlantico.
Contai mentalmente fino a cinque, il tempo necessario per vederla riemergere, ma quando ciò non accadde, non ci pensai due volte: mi alzai di scatto, tolsi velocemente la maglietta e mi tuffai.
Se fosse successo qualche anno prima probabilmente non mi sarei mai tuffato a quella profondità per ripescare una ragazza. Avrei di sicuro chiamato il bagnino.
E invece, nell’istante in cui il suo corpo aveva incontrato la superficie dell’acqua, qualcosa in me era scattato.
Probabilmente la sicurezza acquisita nell’esercito mi aveva dato il coraggio necessario, eppure avevo sentito come un richiamo… mi ero sentito obbligato a salvarle la vita.
Una volta entrato in acqua, dovetti farmi forza e nuotare contro corrente, verso quella povera ragazza che stava cercando inutilmente di risalire in superficie, sprofondando invece sempre più.
L’acqua era fredda, troppo fredda rispetto alla temperatura fuori, e la corrente era molto forte.
Se non fossi riuscito a prenderla subito, entrambi ci saremmo inoltrati in mare aperto.
A quella profondità non mi sarei stupito se uno squalo l’avesse raggiunta prima di me...
Quando finalmente le fui vicino, l’afferrai saldamente per la vita, risalendo in superficie.
Il sale mi era entrato negli occhi, e bruciava da impazzire, tanto da costringermi a chiuderli per qualche secondo.
Le onde mi schiaffeggiavano, sommergendomi, e nonostante sentissi il bisogno di guardare la ragazza per accertarmi che stesse bene, il senso di sopravvivenza ebbe la meglio: mi ritrovai così a nuotare contro corrente, un braccio attorno al collo della ragazza, l’altro a cercare di raggiungere il più velocemente possibile la riva.
Mai la distanza tra il mare quasi aperto e la riva mi sembrò così grande. Vedevo la spiaggia allontanarsi invece che avvicinarsi, e se non fossi stato abituato a situazioni d’emergenza, ero certo che mi sarei arreso.
Ma non lo feci.
Continuai a nuotare e nuotare, ignorando il doloroso crampo al polpaccio.
Quando finalmente riuscii a raggiungere la riva, sdraiai semi-cosciente sul bagnasciuga, tirandole qualche schiaffo delicato per farle riprendere coscienza.
Era così minuta e così delicata che avevo paura di farle seriamente male.
La sua pelle era ancora più bianca, le sue labbra blu, i suoi occhi chiusi.
L’unico cenno di vita proveniva dal suo petto, che ancora si abbassava ed innalzava lentamente.
Finalmente la sentii tossire e risputare tutta l’acqua che aveva bevuto, cercando di riaprire gli occhi.
< Ehi, tutto bene? Mi senti?> Domandai passandole una mano davanti agli occhi.
E nell’istante in cui i suoi occhi si aprirono e mi guardarono, per la prima volta nella mia vita persi il controllo.
Mi sentii come se qualcuno mi avesse appena tirato un cazzotto.
I suoi occhi…. I suoi occhi erano identici a quelli di mia madre: grandi, marroni come il cioccolato, espressivi come un libro aperto.
Sentii il mio cuore frantumarsi un attimo prima di cominciare a battere freneticamente; una scossa elettrica colpì interamente il mio corpo, dalla punta dei capelli a quella dei piedi, nell’istante in cui la mia mano sfiorò la sua.
E tutto intorno a me si volatilizzò.
Non c’erano più i bagnanti che iniziavano ad arrivare,  non c’erano più i gabbiani che strillavano in cerca di cibo, non c’era più il rumore del mare e non c’era più nemmeno la sabbia sotto di me: c’eravamo solo io e lei, due estranei che si fissavano come se avessero visto la cosa più bella ed emozionante di tutta la loro vita.
Mi ci vollero parecchi secondi per riprendere il contatto con la realtà, e una parte di me non voleva farlo.
< Stai bene?> Riuscii infine a domandare, svegliandola da quella sorta di trance in cui era andata, facendola avvampare all’istante.
< S-sì… Gr-grazie…> Balbettò sedendosi e guardandosi intorno, disorientata.
Tossì di nuovo, chiudendo gli occhi.
< è il sale, hai bisogno di bere un po’ d’acqua fresca> Dissi scacciando il malsano impulso di toccarla che sentivo.
Annuì, ancora leggermente sotto shock.
< Posso sapere come ti chiami?> Domandai senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
< B-Bella… Mi chiamo Bella> Rispose cercando di alzarsi.
< Aspetta, lascia che ti dia una mano> Suggerii alzandomi e porgendole la mano.
L’accettò, sebbene un po’ titubante, tirandosi su.
Una volta in piedi, le mie braccia scattarono da sole verso di lei, afferrandola un’istante prima che il suo corpo toccasse la sabbia.
< Sicura di star bene? Posso accompagnarti almeno a casa o al tuo ombrellone?> Era difficile concentrarmi su ciò che stavo dicendo con il suo corpo bagnato stretto al mio.
Dio, ma cosa mi stava succedendo?
< Non è necessario…> Provò a dire, ma quando provò di nuovo a camminare da sola, dovetti prenderla al volo un’altra volta.
< Non ti lascio da sola in queste condizioni Bella> Spalancai gli occhi appena quelle parole uscirono dalla mia bocca.
Cosa diavolo mi era venuto in mente? Chiamarla per nome? Dargli così tanta confidenza?
Stavo impazzendo, ne ero sicuro.
Mi guardò leggermente sorpresa, così mi ritrovai ad aggiungere: < Non posso lasciarti mezza moribonda da sola e non credo che il tuo amico abbia abbastanza cervello da riportarti ovunque tu voglia andare>.
Fece una smorfia buffissima, dandomi ragione solo con lo sguardo.
< Ok, d’accordo, mi farò riaccompagnare a casa> Ora che la sua voce era di nuovo calma e non affaticata come prima, mi accorsi di quanto dolce fosse: era bassa, armoniosa e pacata. Era una bellissima voce.
Ci avviammo verso la strada, camminavamo l’uno di fianco all’altra.
Riuscii a notare la sua leggera goffaggine nei movimenti, ma pensai che fosse dovuta alla paura di poco prima e al leggero imbarazzo che c’era tra noi.
< Tu non mi hai ancora detto il tuo nome, però> Osservò lanciandomi un’occhiata.
< Edward Cullen> Risposi automaticamente.
Spalancò gli occhi, senza riuscire a mascherare la sorpresa.
< Che bel nome… Edward. È il nome che hanno tutti i personaggi dei miei libri preferiti> Rispose arrossendo subito dopo.
< Tipo? Ragione e sentimento? Jane Eyre?> Domandai citando i primi libri che mi vennero in mente, i miei preferiti.
Si fermò di botto, guardandomi dritta negli occhi. < Precisamente> Sussurrò esterrefatta.
Sorrisi, passandomi una mano tra i capelli e cercando di allentare un po’ la tensione creatasi.
< Anche a me piace leggere e ti ho citato i primi libri che mi sono venuti in mente, i miei preferiti> Spiegai mentre riprendevamo a camminare.
< Piacciono molto anche a me, sai? È raro trovare appassionati delle sorelle Bronte ora come ora…> Osservò lanciandomi di tanto in tanto un’occhiata.
Annuii soltanto.
< Eccoci qua, questa è casa mia… O meglio, è una delle mie case. Qua ci vivo con mia madre> Spiegò torturandosi di continuo le mani.
< Una delle tue case?> Domandai confuso.
Sorrise. < Sì, i miei sono divorziati. Passerò qui le vacanze estive, ma di solito passo il resto dell’anno con mio padre> Spiegò aprendo il piccolo cancello in ferro battuto.
Una volta entrato dentro, mi trovai di fronte una piccola villetta indipendente, la facciata bianca, il giardino non molto curato e con al centro una griglia da barbecue piuttosto unta.
Bella salì i gradini di legno che portavano sulla veranda, aprendo poi la zanzariera, facendomi entrare in casa.
Dentro non era molto grande, le pareti erano dipinte di giallo, con graziosi disegni lungo tutti i muri. Il tema principale era la campagna, per cui l’enorme dipinto che si espandeva per tutta la stanza rappresentava un grande prato verde con una casetta gialla al centro e tanti tulipani rossi accanto.
< Posso offrirti qualcosa? Un bicchiere d’acqua, un succo di frutta...?> Domandò gentilmente dirigendosi in cucina.
Anch’essa era piccola, le pareti gialle, e di nuovo un dipinto, simile all’altro ma con un soggetto diverso: questa volta rappresentava un mulino in un bosco.
Pensai che l’autore dei dipinti fosse lo stesso. Aveva una bellissima tecnica, usava colori piuttosto caldi ed accesi, ma ugualmente semplici e i suoi dipinti erano molto realistici. Sembrava davvero di stare davanti a quel mulino.
< Un bicchiere d’acqua fresca, grazie> Risposi osservandola.
Si muoveva impacciata nella piccola cucina, come se avere la mia presenza lì la turbasse in qualche modo.
Prese due enormi bicchieri d’acqua e vi verso dentro il contenuto della bottiglia che aveva estratto dal frigorifero, porgendomi il primo.
< Se devo essere sincera non so bene come comportarmi. Anche se mi succede tutti i giorni di rischiare la vita nei modi più stupidi, di solito ci sono solo io a salvarmi. Nessuno mi ha mai salvato la vita e per di più ha fatto conversazione con me> Sbottò ad un tratto, le guance rosse.
Non riuscii a trattenere una risata.
< Lo immagino… Sai, nemmeno io vado a salvare donzelle in pericolo nel mezzo dell’oceano, anch’io sono un po’ in difficoltà in questo momento> Ammisi passandomi una mano tra i capelli.
Sorrise a sua volta, le guance ancora colorite di quella tonalità di rosso molto gradevole, che facevano capire quanto timida fosse quella ragazza.
In quell’istante sentimmo una serie di passi affrettati sulle scale della veranda e un tintinnio assurdo di chiavi, prima di udire la porta sbattere ed una voce allegra e giovanile gridare: < Tesoro sono a casa!>.
Bella chiuse un attimo gli occhi prima di riaprirli. Sembrava leggermente mortificata.
Io osservai la figura di una donna sulla trentina, alta più o meno come la figlia, con un cappellino di paglia in testa e un vestitino floreale molto vivace.
Mi osservò stupita, trattenendo a stento un sorriso.
< Ciao tesoro> Disse rivolta a Bella, lanciandole un’occhiata stupita che faceva ben intendere cosa volesse sapere.
< Lui è Edward… Ehm… ci siamo incontrati al molo e mi ha… ehm… salvato la vita…> Spiegò tornando di nuovo rossa come un peperone.
La donna scosse la testa, sorridendo, come se fosse abituata a sentirsi dire dalla ragazza che uno sconosciuto le aveva salvato la vita.
< E così Edward hai salvato mia figlia… Beh, grazie allora. Vuoi fermarti a pranzo da noi?> Rimasi leggermente scioccato dall’audacia della madre di Bella, ma scossi la testa.
< Scusate ma i miei mi stanno aspettando al molo… Sarà per un’altra volta>.
< Che peccato… Vabbè, io vado di sopra a riposare. Divertitevi ragazzi> Si congedò uscendo dalla stanza, non prima di aver lanciato un’occhiata maliziosa a Bella.
La ragazza mi guardò a bocca aperta, il viso di una nuova quanto paurosa tonalità di viola.
< Mi… dispiace… Mia madre è un po’…. Come dire… esuberante> Spiegò nascondendo il viso tra le mani.
Risi. < Non preoccuparti, assomiglia molto a mia sorella Alice>.
Rimase sorpresa. < Hai una sorella?> Chiese curiosa.
< In realtà ho due sorelle e due fratelli, ma siamo figli adottivi> Spiegai brevemente.
< Oh capisco. Io ho un fratello, Jacob… Non so bene dove sia in questo momento, però ce l’ho > Disse mettendo i bicchieri nel lavello.
< Vorrei restare qua a parlare con te, davvero, ma i miei saranno preoccupati> Non volevo andarmene. Davvero, in quel momento avrei voluto continuare a parlare con lei, anche se era poco più di una sconosciuta, ma sapevo che i miei si sarebbero seriamente preoccupati e non era ciò che avevo in mente per quelle vacanze estive.
Annuii, accompagnandomi alla porta.
< Grazie per quello che hai fatto oggi… Se non ci fossi stato tu non so cosa sarebbe successo> Mormorò guardandomi dritta negli occhi.
Un brivido mi trapassò completamente mentre quegli occhi grandi e sinceri mi guardavano, tremendamente familiari.
< Non preoccuparti> Risposi.
Anche se tutto ciò era tremendamente irrazionale, avrei voluto abbracciarla, farle sentire che per me non era stato un obbligo, tutt’altro.
Eppure mi limitai a sorriderle, regalandole il sorriso più sincero che avessi mai fatto.
< Spero di rivederti Bella, davvero> Aggiunsi prima di scendere rapidamente gli scalini, voltandomi un’ultima volta verso di lei mentre richiudevo il piccolo cancello.
Mi avviai così di nuovo verso la spiaggia, leggermente confuso e stranamente felice.
Il perché, in fondo, non lo sapevo neppure io.


Note dell’autrice

Finalmente Edward e Bella si sono incontrati! Che ne pensate?
In realtà non avrei mai immaginato un primo incontro così, eppure si è scritto in questo modo e un po’ sono felice di come sia venuto.
Fate attenzione a un particolare della casa di Bella che ho descritto… So che alcune di voi probabilmente lo immagineranno già… Comunque vedrò di spiegarlo più in là.
Bene, che altro aggiungere? Spero di leggere le vostre recensioni, ci terrei davvero molto a sapere che ne pensate.
Se vi interessa, ho postato una One-Shot sulla prima notte all’Isola Esme di Edward e Bella, narrata dal punto di vista del nostro vampiro. È Deep Inside You, la trovate nella mia pagina, non so come inserire il link.
Alla prossima settimana!
Baci, Grace.  

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Buonasera ragazze!  Grazie per le recensioni che mi avete lasciato, lo apprezzo moltissimo *_*
Eccoci qua con il terzo capitolo, piuttosto corto rispetto agli altri, ma è capitolo di passaggio, in cui approfondiremo un po’ la vita di Bella e si collegherà con il prossimo capitolo…
In realtà avevo pensato di scriverne uno solo, ma poi ho dovuto spezzarlo, altrimenti sarebbe venuto troppo lungo.
Un’ultima cosa: nel capitolo ci saranno alcuni indizi su ciò che potrà succedere in futuro, per cui fate attenzione alle parole “trabocchetto” xD
Basta chiacchiere e vi lascio al capitolo! Ci leggiamo in fondo!  

 

Capitolo 3


Bella Pov

Sdraiata sul mio asciugamano, sulla schiena, gli occhi chiusi, il sole ormai lontano e sempre più rossiccio, mi stavo davvero rilassando.
Il rumore regolare delle onde mi cullava dolcemente, e la spiaggia non era più molto affollata.
Finalmente spirava un po’ di venticello fresco, e saranno stati una trentina di gradi, forse più, ma si stava bene.
Non avevo niente da fare, per cui potevo anche permettermi di oziare un poco.
Non potevo negare che mi sentivo un po’ in colpa, ma in fondo non facevo nulla di male.
Come protesta a quei pensieri, il mio cellulare iniziò a squillare.
Eh già, avevo un cellulare.
Era una cosa molto, molto strana. Non ce l’avevano ancora tutti, e di certo a me non serviva, ma mia madre era stata categorica.
Forse si aspettava che la chiamassi dicendo qualcosa tipo: “Hey mamma, questa sera vado a una festa con un ragazzo” o qualcosa del genere.
Se l’avessi fatto in quel momento, la sua domanda sarebbe stata una sola: “Vedi Edward?”.
In realtà me l’aveva già fatta il giorno prima.
Se fossi stata una madre e avessi trovato mia figlia a casa con uno sconosciuto così grande, di certo avrei subito pensato al peggio.
Eppure lei no. Aveva subito iniziato a farsi duemila filmini mentali, cercando persino di convincermi ad andare a fare shopping con lei.
Non che non le volessi bene, tutt’altro. Però dovevo ammettere che mia madre non aveva molto istinto materno. Non era nata per fare la mamma, ma per essere un’eterna ragazzina.
La ragazzina che io non ero mai stata.
Forse soffrivo di qualche problema. Probabilmente era così.
A volte, ascoltando le conversazioni dei miei compagni, mi ritrovavo a stupirmi della banalità delle loro parole.
Di certo io non ero un pozzo di conoscenze e sapienza, ma non ero nemmeno così idiota.
Mi sembrava proprio di avere un’altra età celebrale.
Loro parlavano di moda, auto, feste…
Non che mi credessi superiore, tutt’altro. Solo, non riuscivo a stare con loro per più di tre ore.
Le loro discussioni erano stupidi e infantili, e non riuscivo a capacitarmi di come la loro vita ruotasse solo intorno a quegli argomenti futili.
Dicevano che loro sapevano come divertirsi, ma se essere idioti era la strada per la felicità, preferivo di gran lunga essere infelice.
In fondo, dopotutto, non ero infelice: avevo una famiglia, anche se non unita, e persone che mi volevano bene. MI bastava.
Mi ritenevo una persona molto semplice: mi accontentavo di poco, mi piaceva ridere, anche se con gli anni avevo quasi smesso, e mi piaceva studiare.
In realtà non è che mi piacesse passare pomeriggi e nottate intere sui libri a studiare, ma non avevo di meglio da fare, per cui andare bene a scuola non era un problema.
I risultati si erano visti nei mesi precedenti, quando ero stata accettata da prestigiose e numerose scuole dell’America: Harvard, Dartmouth, New York University e molte altre.
Ero stata accettata persino a Cambridge.
Non era stata una scelta facile, ma alla fine avevo optato per la New York University, con l’intenzione di laurearmi in “Scrittura creativa”. I corsi sarebbero iniziati ad Ottobre, e mi aspettava un’intera estate davanti.
Certo, avrei dovuto lavorare un po’ per farmi i soldi in modo da pagare l’affitto dell’appartamento che avevo preso con la mia amica Angela, anche lei futura studentessa alla NY University, facoltà di legge.
Almeno non sarei stata sola nella Grande Mela.
Angela era forse l’unica vera amica che avevo, e anche lei come me, spesso non si trovava molto bene con gli altri ragazzi. Avevamo parecchie cose in comune, dopotutto, e con qualche sforzo eravamo diventate amiche.
Lei avrebbe passato l’estate dai nonni in Texas, lontano da Forks, dove viveva pure lei.
Ero a Phoenix da mia madre per passare l’estate. Dai quattordici anni le cose si erano invertite: inverno da Charlie, a Forks, ed estate da mia madre a Phoenix.
I miei genitori si erano sposati giovanissimi: Charlie aveva ventisei anni e René diciannove.
Dopo pochi mesi di matrimonio nacqui io, inaspettatamente, e mia madre capì che Forks non faceva per lei: era una semplice cittadina, con pochissimi abitanti, nessun locale in cui divertirsi e nessuna distrazione.
Così fuggì da quella vita troppo monotona per lei, e mi portò con sé.
Mia madre non è mai stata una persona molto matura e responsabile.
Non che fosse egoista, tutt’altro, ma è sempre stata… diversa.
Amava stare fuori, conoscere ed interagire con persone nuove, andare in discoteca e la vita da mamma o casalinga non faceva per lei.
Sin da bambina avevo sempre dovuto preoccuparmi da sola di me stessa. Non è un caso che anche oggi continui a cucinare, lavare e stirare i vestiti per tutti noi.  
L’unico che faceva come voleva era Jacob: Phoenix o Forks, per lui era lo stesso. Decideva ogni tanto di volersi trasferire e così faceva.
Era un ragazzo piuttosto complicato, ribelle, ma sotto sotto un coccolone.
Era una brava persona, ed era mio fratello. Ci volevamo bene, e andavamo troppo d’accordo per essere fratelli.
Vi chiederete chi è il padre di Jacob, se mia madre è fuggita quando avevo solo pochi mesi.
Beh, in realtà nemmeno lei lo sa. O forse non vuole dircelo. Comunque sia, Jacob è stato frutto di una serata passata in un locale nel Massachusetts.
Jacob non mi somigliava per niente: era altissimo, un metro e novanta passati, aveva i capelli neri come l’ebano, la pelle olivastra ed era muscoloso e coordinato. L’opposto di me che ero bassa, mezza albina quasi, e terribilmente goffa.
Il cellulare continuava prepotentemente a squillare, costringendomi a rispondere.
< Pronto?>
< Bella, ti prego, devi accompagnarmi alla festa sulla spiaggia! Ti prego, Renè non vuole mandarmi da solo e io devo incontrare Becky. Farò tutto ciò che vuoi per un anno, ma ti prego, accompagnami> Le suppliche di Jacob riuscirono a farmi ridere, e anche se mi costava molto accettare, ero obbligata.
< Certo che ti accompagno, ma a una condizione: io starò in spiaggia mentre tu penserai alla tua nuova ragazza> Chiarii prima di sentirlo ridere e ringraziarmi ancora e ancora prima di riattaccare.
Sospirai, sedendomi sull’asciugamano.
Per una volta mia madre si comportava come tale e non si fidava a lasciare andare Jacob da solo ad una festa.
La cosa puzzava, era molto strano, e mi chiesi se non fosse un tentativo di farmi uscire per una sera.
Sì, decisamente quello era un tentativo per farmi uscire.
Mi rialzai, sistemando le poche cose che mi ero portata nella borsa di paglia di mia madre.
Indossai un prendisole leggero, le infradito e salutai la spiaggia, dirigendomi a casa.
La casa di mia madre distava si e no cinque minuti dalla spiaggia, per cui in poco tempo arrivai.
Renè mi stava aspettando seduta sui gradini della veranda, un enorme sorriso sul viso.
Oddio, cosa aveva in mente?
Quando mi vide si alzò di scatto, afferrandomi la mano e correndo nella mia stanza.
< Tesoro, non sai come sono felice! Finalmente una festa! Ho trovato questo vestito, è perfetto per te!> Esclamò indicando un abitino sdraiato sul mio letto.
Era piuttosto semplice per gli standard di mia madre, di un blu scuro e semplice, parecchio corto, con qualche piega sulla gonna e uno scollo a V piuttosto evidente sul davanti.
Accanto, c’erano un paio di ballerine in vernice nere, una borsetta dello stesso colore ed un fermaglio per capelli dello stesso colore del vestito, con una farfalla.
< Mamma, avevo detto niente acquisti!> Mi lamentai guardandola.
< Ma tesoro, non potevo non comprarlo! Scommetto che ti sta benissimo con la leggera abbronzatura che ti è venuta!> Esclamò spingendomi verso il bagno.
Leggera abbronzatura, come no.
Piuttosto colorito leggermente più naturale: adesso da una con un tumore allo stadio terminale sembravo una con tumore allo stadio principale. Era sempre un passo avanti, dopotutto.
< Forza, fatti una doccia, lavati i capelli e poi penserò io a te> Disse eccitata, chiudendo la porta del bagno e lasciandomi da sola lì dentro, a guardare preoccupata e incerta la cabina doccia.
Forse mi ero messa nei guai…

*****


Edward Pov

< Che fai?> Un piccolo folletto mi saltò alle spalle, senza davvero riuscire a cogliermi di sorpresa.
Velocemente, l’afferrai per le braccia e la portai seduta accanto a me.
Alice rimase un attimo stupita di trovarsi già lì, ma sembrò non farci molto caso.
Mi alzò una mano, in modo da poter vedere il titolo del libro che tenevo con cura sul mio petto.
< Cime tempestose? Ancora?> Domandò inarcando un sopracciglio.
Le feci una linguaccia, chiudendo il mio libro.
< Che cosa vuoi Alice?> Domandai sapendo già che se si rivolgeva a me così, di sicuro voleva qualcosa.
< Perché devo sempre volere qualcosa? Non posso solo venire a coccolarti?> Domandò incrociando le braccia al petto.
Le lanciai un’occhiata esasperata.
Alice sorrise, abbassando le mani in segno di resa.
< Questa sera andiamo ad una festa. E non voglio sentire discussioni. Ci divertiremo, vedrai!> Esclamò entusiasta.
< Non credo che abbia molta scelta, vero Alice?> Domandai raccogliendo il mio libro.
Scosse la testa.  < Stasera no. È una festa in un locale sulla spiaggia, quindi se proprio ti annoierai potrai uscire e guardarti la luna> Aggiunse correndo al piano di sopra.
Sbuffando mi alzai anche io dal divano, uscendo in giardino.
Feste. Alice era fatta così: le piaceva la vita mondana, divertirsi, sfoggiare il suo look all’ultima moda e andare alle feste.
Eppure le volevo bene anche per questo.
Anche se la mia voglia di andare a quella festa era pari a zero, in un certo modo glielo dovevo.
Insomma, erano due anni che quasi non ci vedevamo più, e tre mesi dopo sarei ripartito per sei mesi ancora.
Sapevo che Alice soffriva molto per questo, eppure non era mai arrivata a rinfacciarmi niente.
Sapeva che Ea ciò che volevo davvero, e cercava di essere felice per me.
Mi sdraiai sull’amaca nel giardino, continuando a leggere il mio libro finchè non venni richiamato da quel mostriciattolo per l’ennesima volta, costringendomi ad andare nella mia stanza a prepararmi.
Alice mi obbligò ad indossare un paio di jeans chiari ed una camicia non molto elegante, sul grigio.
Non persi molto tempo a sistemarmi i miei capelli, sapevo già che non sarebbero venuti bene, per cui mi limitai a passarci una mano dentro, cercando di metterli a posto.
Mi guardai velocemente allo specchio, osservando per qualche secondo la mia immagine.
Ero diverso. Tremendamente diverso. Quasi non mi riconoscevo.
Eppure non ricordavo nemmeno quando ero davvero cambiato.
E non solo fisicamente: dal fuori ero sempre io, Edward. Era dentro che era tutto cambiato.
Sospirando, scesi al piano di sotto, raggiungendo gli altri, già pronti e in trepidante attesa.
Cercai di iniettarmi metaforicamente un po’ di entusiasmo per la serata, anche se già immaginavo mi sarei annoiato a morte.
Tutto perché non sapevo ancora chi avrei incontrato a quella festa…



Note dell’autrice

Ed ho fatto qualche piccola modifica anche alla storia di Bella… Spero abbiate capito tutto,  ma se così non fosse non esitate a contattarmi. Nella mia pagina d’autore trovate il mio account Twitter.
Chi incontrerà Edward alla festa? Ahahaha domanda stupidissima, lo so, ma… chissà…
Magari ci sono due feste sulla stessa spiaggia… Ahahah xD Ok, ora me ne vado.
Alla prossima settimana!
Baci, Grace.  

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
Salve a tutteeeee!!! Sì, sono io! E si, è giovedì! E poi non dite che non mi amate U_U Ahaha
Ho postato con un giorno di anticipo perché domani e sabato sarò impegnata tra shopping e acqua park *_____*
Il capitolo è molto lungo e… chissà se Edward e Bella si incontreranno…
Una cosina che voglio dirvi: Cos’è tutto questo mortorio??? Capisco che è estate e tutto ma… le recensioni invece che aumentare diminuiscono??? Su su, fatemi sentire se ci siete!
Vorrei ringraziare chi continua a recensire ogni singolo capitolo: grazie mille, vi adoro **
Ah, ehm, un’ultima cosina ancora xD
In questo capitolo si parlerà di Edward soldato. Ora, io mi sono documentata il più possibile, ma non sempre su internet si trova TUTTO ciò che si desidera e a volte certe informazioni tendono a scarseggiare.
Per cui, vi prego di passarmi eventuali “errori” su questo argomento, e se magari conoscete qualche informazione sarei felicissima di imparare :)
Ho anche parlato del disastro delle Torri Gemelle, basandomi su alcune testimonianze.
Ricordatevi una cosa: nei capitoli niente è come sembra xD  Nel senso che metto molti particolari, magari inizio a parlare di qualcosa o faccio “strani” riferimenti… Ebbene, qua ce ne sono alcuni che verranno spiegati più avanti con gli altri capitoli!
Buona lettura :)



Edward Pov


Avrei dovuto immaginare che per festa Alice intendesse un mega party nel locale più “in” di tutta Phoenix.
Non avevo mai visto così tante persone su una spiaggia e in un locale in tutta la mia vita.
Diciamo pure che non avevo mai visto così tante persone tutte insieme, nemmeno in Guerra.
Fiumi di ragazzi mi scorrevano incontro: alcuni mi sbattevano addosso, altri mi rovesciavano qualche bevanda sui vestiti, altri correvano qua e la…
Era un bordello, e l’orribile musica commerciale che tentava di sovrastare quel caos di certo non aiutava.
I miei fratelli facevano tutti ormai coppia fissa tra di loro, per cui stavano ballando sulla pista da ballo, all’interno del locale, dando l’impressione di divertirsi un mondo.
Ed io ero appoggiato a una recinzione di legno che separava il locale e la spiaggia, in mano, un bicchiere di birra ormai quasi vuoto, lo sguardo perso tra la folla.
Ecco, era uno di quei momenti in cui avrei voluto togliermi le scarpe e incamminarmi sulla spiaggia, sedendomi poi sul tronco portato dalla marea ed osservare il mare fino all’alba.
Bevvi l’ultimo sorso di birra, accartocciando poi il bicchiere e gettandolo nel cestino ormai strapieno di bicchieri di plastica accanto a me.
Mi sedetti su quella recinzione, osservandomi le scarpe che indossavo.
Rovistai nella mia mente in cerca di qualcosa da fare, una scusa da inventare per allontanarmi, ma non ne trovai.
E fu allora che, alzando il mio sguardo, la vidi.
Si muoveva impacciata tra la gente, un abitino blu che faceva risaltare la sua carnagione e molto corto risaltava il suo fisico e i capelli tirati indietro le incorniciavano il viso da bambina.
Vidi le sue guance rosse colorarsi sempre più mentre cercava di uscire dalla folla, venendo verso di me.
Teneva lo sguardo basso, forse per non incrociare occhi estranei, e per qualche istante ebbi la sensazione che volesse mescolarsi con facilità nella folla, in modo da non attirare l’attenzione su di sé.
Senza accorgersene, si ritrovò davanti a me, e solo quando i miei piedi entrarono nel suo campo visivo alzò lo sguardo, guardandomi stupita di trovarmi lì.
I suoi occhi, grandi e ipnotici, esattamente come li ricordavo, s’inchiodarono nei miei, facendomi provare una vertigine ed una serie di brividi s’irradiò nel mio corpo.
< Ciao> La salutai, tirando su uno dei miei miglior sorrisi.
< Ciao> Rispose un po’ più titubante, le sue guance di nuovo rosse, i suoi occhi di nuovo sulla sabbia.
< Anche tu alla famosa festa?> Domandai sperando di poter iniziare una conversazione con lei.
Sorrise. < Già. Sono stata praticamente costretta> Sospirò, muovendo i piedi sulla sabbia.
< Non ti piacciono le feste?> Chiesi scendendo dalla recinzione.
Ridacchiò, un suono basso e tremendamente dolce. < No, direi proprio di no. Non sono il tipo di ragazza da festa>.
< Capisco> Sentenziai infine.
Rimanemmo in silenzio, le uniche due persone che su guardavano le scarpe.
Infine, mi decisi a parlare. < Senti> Iniziai evasivo. < Ti andrebbe di fare una passeggiata sulla spiaggia? Questa musica sta per farmi venire un’emicrania>.
Alzò di nuovo lo sguardo, guardandomi negli occhi come a verificare le mie vere intenzioni.
Non so cosa vide, non l’ho mai saputo. Eppure, in quel momento, annuì.
Ci allontanammo dalla folla in religioso silenzio, camminando di fianco.
Ogni tanto, quando le nostre braccia si sfioravano, non potevo negare di sentire come una scossa elettrica che mi attraversava il corpo. Eppure non era una sensazione spiacevole.
< Aspetta un attimo> Disse appoggiandosi timidamente ad una staccionata per togliersi le scarpette che indossava.
Quando alzò il viso, tenendo quelle scarpette in mano, mi donò uno dei sorrisi timidi più belli che avessi mai visto.
< Odio qualsiasi tipo di scarpa che non siano All Star o infradito> Spiegò continuando a camminare.
Ci lasciammo la festa alle spalle e ci avvicinammo al bagnasciuga, dove Bella lasciò che le onde portassero l’acqua sui suoi piedi, rinfrescandola.
< Posso farti una domanda?> Chiesi infine, spezzando quell’opprimente silenzio.
Mi guardò curiosa, sorridendo. < Certo> Rispose avvicinandosi al ciocco di legno che avevo avvistato prima, alla festa e sul quale avevo ardentemente desiderato sedermi e passare lì il resto della notte.
< Bella è un diminutivo?> Ok, domanda molto, molto stupida.
Ma in qualche modo la conversazione doveva pur iniziare, no?
Rise, un suono dolce e armonioso, ma ciò che mi piacque più di tutto fu la sincerità che traspariva da quel suono. Non era un’ochetta giuliva che voleva solo fare la stupida. No, lei rideva davvero divertita.
E mi sembrò così fragile, così vulnerabile da farmi desiderare di stringerla a me e proteggerla da tutto e da tutti. Per sempre.
< Sì> Ammise infine. < Mi chiamo Isabella Swan, ma tutti mi chiamano Bella ed io lo preferisco>.
Annuii. Bella sei bella davvero, pensai, ma evitai comunque di dirlo a voce alta.
< Che cosa fai Bella? Nella vita, intendo>.
Non sapevo perché, ma avevo una strana voglia di sbirciare nella sua vita: il suo passato era oscuro per me e avrei voluto sapere ogni più futile particolare.
E ciò era molto strano dato che per me rimanesse ancora una sconosciuta.
Sembrò leggermente sorpresa dalla mia domanda, come se in pochi gliela facessero, ma non indugiò molto.
< Ad ottobre inizierò la New York University ed ho scelto la facoltà di scrittura creativa> Annunciò sorridendo.
< Scrittura creativa? Wow. Ti piace molto scrivere?> Domandai realmente curioso.
A quella mia domanda parve ancor più sorpresa, e non perse tempo, iniziando a parlare senza interruzione.
< Ti sembrerà un’esagerazione, forse, ma scrivere è… tutta la mia vita. Lo so, penserai che non ho altro di meglio da fare, e non so ancora dirti se è così o no, ma è una cosa bellissima per me. Poter scrivere le mie emozioni, i miei pensieri, o anche solo far sognare qualcuno con le mie parole è tutto per me> Continuò, e riuscii a vedere la passione nei suoi occhi, il suo amore verso la scrittura, il suo mondo.
< No, affatto. Anzi, sono geloso> Scherzai. < Io non ho mai tempo di scrivere e non credo di essere molto portato, ma mi piace leggere e posso immaginare lo sfogo che si prova nel veder qualcuno che si appassiona alle parole racchiuse in un libro che hai scritto tu>.
Alzò lo sguardo, e mi guardò intensamente negli occhi.
Forse cercava di vedere se ero sincero  o no, ma io ero troppo occupato a leggerle dentro da accorgermi di altro.
Dentro quelle due pupille calde, dello stesso color del cioccolato, riuscivo a vedere quanto fragile, indifesa, candida, sincera e matura per la sua età fosse.
La dentro c’era tutta la sua essenza, la sua anima.
Non so cosa vide nei miei, ma per un attimo m’illusi che anche lei potesse vedermi l’anima.
< Tu invece cosa fai?> Chiese sottraendosi dal mio sguardo.
Sospirai piano, senza farmi sentire. < Sono arruolato nell’esercito>.
Sgranò gli occhi, guardandomi per capire se stessi scherzando o meno.
< Sei un soldato?> Domandò stupita.
Annuii.
< E… Che genere di soldato sei? Perdona l’ignoranza, ma non capita tutti i giorni di incontrarne uno> Sorrise imbarazzata, e le sue guance si colorarono di quel rosa/rosso capace di farmi impazzire.
Oh Dio, ero messo male, in quel momento.
Mi schiarii la voce, raddrizzandomi un po’ per cercare di riprendermi.
< Sono stato da poco promosso a sergente maggiore capo. I miei compagni mi chiamano “la mamma della compagnia> Rise con me a quella stupida battuta.
< Quindi deduco che il tuo ruolo nell’esercito sia molto importante> Osservò torturandosi le mani.
< Beh… ad essere sincero non mi piace pensarla così> Sospirai, catturando la sua attenzione.
< Cosa vuoi dire?> Insistette.
< Ovunque tu vada esiste una gerarchia, e anche se non sono d’accordo è così. Però nell’esercito è diverso. Hai ragione, esiste chi ha un grado più alto di altri, ma in fondo siamo tutti ragazzi che prima o poi si ritrovano con un mitra in mano a difendere il compagno o ad esplodere sopra una mina. Sai, nell’esercito chi per i loro canoni conta davvero, non va in guerra: se ne sta nel suo ufficio con l’aria condizionata, il caffè sempre caldo e una sedia reclinabile morbida, a schiavizzare la segretaria o ad inventarsi nuove ed inutili esercitazioni solo per sentirsi Dio, per far capire che è lui a comandare>.
Mi voltai a guardarla, e la sua bocca era aperta in una “o” a metà tra lo stupore e l’incredulità.
< Quanto tempo è che sei arruolato?> Domandò non appena si riprese un poco.
< Otto anni. Ne avevo diciotto> Risposi.
< Eri solo un ragazzo…> Mormorò piano, e fui quasi certo che quello era un pensiero espresso per sbaglio ad alta voce.
< Quindi sei stato in guerra…> Continuò.
Annuii. < Sì, molte volte>.
< C’è… voglio dire, ti mandano in  posti fissi oppure in diversi paesi?> Non capivo tutto quell’interesse per il mio lavoro, ed ero certo che fosse stata la prima persona ad interessarsi davvero di ciò.
Sorrisi. < No, mi mandano dove c’è più bisogno. Sono stato un po’ ovunque: Balcani, Germania… Non so ancora dove mi manderanno quando rientrerò dalla licenza> Risposi.
< Sei in licenza? Per quanto?> Domandò ancora.
Vedevo nei suoi occhi come una bruciante curiosità, un’insaziabile voglia di conoscere tutti i particolari, di imparare cose nuove. E di certo non volevo privarmi della sua compagnia: mentre parlavo con lei, il tempo passava velocemente, quasi come a volermi separare a forza da lei.
< Diciamo che la mia è una licenza speciale e durerà tre mesi. Sai, di solito abbiamo sui ventisei giorni di licenza all’anno. Ed io ho tre mesi. Non è molto giusto, ma non mi farebbero mai tornare ora> Sospirai, passandomi la mano sulla spalla, dove potevo sentire la forma della cicatrice. O forse era una mia idea.
< Perché?>
< L’ultima volta qualcosa è andato storto e… beh, mi sono trovato in una clinica privata a Ginevra, con un proiettile nella schiena> Rabbrividì a quelle parole, e vidi le nocche delle sue mani stringersi fino a diventare bianche.
Probabilmente, se un’altra donna avesse reagito così, avrei riso. E invece con Bella avrei voluto abbracciarla e dirle che era tutto apposto, che ero lì, che non mi era successo nulla e stavo bene.
Un momento: io non sapevo se si stava preoccupando per me o se solo l’idea di avere un proiettile piantato nella schiena le desse così fastidio.
< Mi dispiace molto> Interruppe i miei monologhi interiori con quelle semplici parole, che forse mi mandarono ancor più in confusione.
< Qual è la missione più difficile alla quale tu abbia mai partecipato?> Domandò ancora.
Ci pensai un attimo. < Sai, tutte le missioni sono difficili. Se non tecnicamente, lo sono mentalmente. Voglio dire, non è facile andare in un paese sterminato dalla guerra, vedere gente per terra, bambini insanguinati… O sparare a qualcuno. Ti lascia sempre un qualcosa dentro…>.
Rimase in silenzio, la fronte leggermente aggrottata.
< Comunque di una cosa sono certo: le immagini dell’11 settembre rimarranno per sempre nella mia mente> Continuai.
Si voltò a guardarmi, due pozze stupite e preoccupate di mostrarono in tutta la loro bellezza.
Annuii alla sua domanda silenziosa. < Sì, ero la> Sussurrai.
< Com’è stato?> Le sue domande mi lasciavano sempre un poco… perplesso, ecco.
Insomma, capivo che forse non aveva mai incontrato un soldato, ma tutta quella curiosità era… come dire… morbosa. O forse ero solo io a non essere abituato a quel genere di domande.
Sembrava così fragile che avevo paura di turbare la sua sensibilità con i racconti delle mie “esperienze”.
< è stato sconvolgente> Ammisi alla fine. < Ero lì, a guardare il fumo alzarsi dalle Twin Towers e dal Pentagono, con le facce attonite delle persone che correvano avanti e indietro, disperate, guardando poveri innocenti gettarsi nel vuoto. E sapevo che io ero al sicuro, almeno in quel momento, mentre chi si gettava nel vuoto stava morendo. E tutto stava succedendo davanti ai miei occhi, senza che potessi far nulla per impedirlo. Non mi sono mai sentito così impotente in tutta la mia vita. Ho assistito al crollo delle torri e all’immensa nube di polveri e detriti che rimaneva di ciò. E sai qual è stata la cosa che più mi ha fatto infuriare? Che mentre quei poveracci si gettavano nel vuoto o morivano bruciati, ci si preoccupava di evacuare la Casa Bianca> Mormorai sentendo la rabbia montare a quei ricordi.
Con mio immenso stupore, la sua mano si posò dolcemente sulla mia, in una carezza appena sfiorata.
Solo in quel momento mi accorsi che la mia mano era chiusa a pugno con talmente tanta forza da farmi male una volta ricordatomene.
E la sua pelle era così… morbida, fresca… sentii una scossa elettrica irradiarsi nel mio corpo, lasciandomi basito per parecchi secondi.
< Sembri un bravo ragazzo, Edward> Mormorò guardandomi intensamente negli occhi.
E per una volta non distogliemmo lo sguardo.
Non so per quanto tempo rimanemmo così, occhi negli occhi. Solo quando un boato la fece sussultare violentemente alzammo entrambi lo sguardo verso i fuochi d’artificio che illuminavano e rendevano magico il cielo e l’oceano sotto di esso.
< Guarda, i fuochi d’artificio!> Esultò come una bambina, indicando il cielo.
In quel momento non mi preoccupai dei fuochi colorati che scoppiavano sopra di noi: ero troppo impegnato ad osservare l’espressione estasiata e assorta di Bella e la debole e calda luce che quei fuochi piroettavano sulla sua pelle chiara.
Non so se si accorse che la guardavo così intensamente da prendere fuoco o se semplicemente facesse finta di niente. So solo che comunque sia rimasi a fissarla finchè quel gioco di luci ed ombre non terminò, lasciando spazio solo ad un paio di iridi cioccolatose nell’oscurità della notte.
< Posso farti una domanda?> Esordii diversi minuti dopo.
Si voltò verso di me, regalandomi un sorriso divertito e sincero, facendomi perdere un battito.
< Come può una ragazza come te non saper nuotare?> Chiesi sorridendo, felice di essere riuscito a fare una battuta.
Ma il mio sorriso si spense non appena vidi Bella irrigidirsi e distogliere lo sguardo, non prima di farmi notare un’espressione di dolore così intensa da farmi provare una fitta allo stomaco.
Non riuscivo a capire cosa avessi detto di male, se avessi usato parole sbagliate o…
< Ho… avuto brutte… esperienze, diciamo> Sussurrò infine, la voce leggermente incrinata.
Avrei voluto chiedere cosa mia le fosse successo, avrei voluto mettere a tacere la vocina che mi diceva di indagare, eppure feci la cosa migliore. O almeno, la cosa che mi pareva migliore in quel momento.
< Non sei obbligata a parlarmene, non ti preoccupare> E non so come riuscii a mantenere un tono di voce pacato e normale, a differenza di ciò che sentivo dentro.
Sorrise tristemente. < Grazie>.
Calò di nuovo silenzio tra di noi, interrotto solo dal fruscio basso e regolare delle onde e dal vociare proveniente dal locale.
Una ventata fresca si alzò, rinfrescandoci e portando profumo di salsedine.
Bella rabbrividì, portando le mani sulle braccia e sfregandole in cerca di un po’ di sollievo.
Il gesto che compii pochi secondi dopo mi venne istintivo: senza pensarci, mi tolsi la felpa che indossavo sopra la camicia, passandogliela.
Mi guardò, un misto tra incertezza e stupore, prima di allungare una mano e ringraziarmi  timidamente.
< Non vorrei che ti ammalassi. Sai, non è il massimo passare le vacanze estive col raffreddore> Scherzai sentendola ridere.
La felpa le stava grande, e lei vi aveva nascosto le mani dentro, stringendosi a quel pezzo caldo di stoffa.
< Posso farti un’altra domanda?> Domandò incerta dopo qualche minuto di silenzio.
Annuii.
< Come mai hai deciso di arruolarti nell’esercito?> Esordì in fine.
E questa volta, la reazione che ebbe lei pochi minuti prima, s’impossessò anche del mio corpo, facendomi irrigidire.
Bella capì che c’era qualcosa che non andava, proprio come era successo a me, e stava per aprire bocca e parlare quando la precedetti.
< è… una lunga storia. Diciamo che… c’è stato un episodio della mia vita che mi ha… spinto a compiere questa scelta> Ammisi infine.
Forse stavo sbagliando. Anzi, stavo sbagliando.
Insomma, Bella era poco più di una sconosciuta, e anche se mi sembrava di conoscerla da sempre e di sentire un qualcosa che mi spingeva verso di lei, era sbagliato mettermi così a nudo davanti a lei.
Perché nessuno, e sottolineo nessuno, aveva mai realmente saputo i motivi che mi avevano spinto ad arruolarmi.
Ero certo che Esme e Carlisle immaginassero questi motivi, ma non potevano averne la certezza.
Si limitò ad annuire, e vidi il suo volto pensieroso e leggermente triste, proprio come il mio quando mi aveva accennato il suo passato.
< Bella!> Una voce proveniente dalle nostre spalle spezzò l’atmosfera che si era creata tra noi, facendola trasalire.
Entrambi ci voltammo, e rimasi sorpreso quando scorsi un giovane ragazzo, troppo alto, pensai quando si avvicinò a noi.
Dall’altezza avrei detto che fosse stato un uomo, ma la forma del mento aveva ancora la rotondità tipica dei bambini.
Aveva una corporatura smilza, i capelli neri molto corti ed estremamente luminosi, anche se eravamo quasi al buio, e la sua pelle era olivastra.
Mi guardò, a metà tra il sorpreso e il diffidente, facendo immediatamente alzare Bella, seguita a ruota da me.
Alternava lo sguardo tra me e lei, e la felpa che indossava Bella. La mia felpa.
< Ehm Jake, questo è Edward> Fece le presentazioni, indicandomi con un gesto timido della mano.
Nella penombra riuscii a scorgere gli occhi di Jacob, ed erano quasi la fotocopia di quelli di Bella. Fatta eccezione per un piccolo particolare: aveva una macchia scarlatta nell’occhio sinistro, che gli dava un qualcosa di misterioso.
Allungai una mano, che Jacob strinse forte qualche secondo dopo.
La sua pelle era bollente e ruvida.
Uno sbrilluccichio catturò la sua attenzione, e il suo sguardo si posò sul grande anello che indossavo all’anulare destro, appartenente all’esercito.
< Sei nell’esercito?> Domandò stupito.
Ritrassi la mano. < Sì> Mi limitai ad annuire.
Alzò di nuovo lo sguardo e mi guardò attentamente, per cercare cosa non lo so.
Alla fine si rivolse a Bella. < Sono le tre. Pronta a tornare a casa?>.
Non potei non notare il tono dolce con il quale si rivolse a Bella, e in quel momento mi ricordai le sue parole di qualche giorno prima.
Jacob era suo fratello.
E a giudicare da come era protettivo e dolce con lei, dovevano aver instaurato un bellissimo rapporto.
Bella annuì. < Sì, certo. Avviati pure, ti raggiungo subito> E così dicendo gli lanciò un’intensa occhiata, che lui capì al volo.
Ma prima di allontanarsi mi scoccò un’occhiata che a me parve un avvertimento.
Bella si passò una mano tra i capelli, imbarazzata. < Lui… lui è protettivo con me> Si scusò.
Alzai le spalle, sorridendo.< Tranquilla, lo sono anche io con mia sorella>.
< Posso accompagnarti al locale?> Domandai indicando la folla ancora presente dietro di noi.
Annuì sorridendo. < Certo>.
Ci incamminammo lentamente, e questa volta fu Bella a parlare.
< è bellissimo stare sulla spiaggia di notte, non trovi?> Domandò mentre faceva dondolare le scarpe che teneva in mano.
< Sì> Annuii.
< Mi da un senso di pace, tranquillità… è come se ci fossi solo io, le stelle ed il mare. E a volte, guardando questo spettacolo, mi sento insignificante. Guarda lassù> Mi prese alla sprovvista, avvicinandosi a me e indicando il cielo, completamente terso e blu, decorato da milioni di stelle luminose.
< Si dice che le stelle simboleggiano la pace del cuore, e che bisogna esprimere un desiderio non appena se ne vede una cadente, perché quando essa muore e cade al suolo, prima di scomparire per sempre vuole rendersi utile ancora una volta> Spiegò guardando assorta le stelle.
E in quel momento, una scia luminosa catturò la nostra attenzione.
< Esprimi un desiderio!> Esclamò chiudendo subito gli occhi.
La imitai, e per una volta sperai davvero che il mio desiderio si avverasse.
Quando aprii gli occhi, la trovai assorta a pensare, gli occhi chiusi, la bocca socchiusa e le labbra incurvate in un piccolo e dolce sorriso.
Avrei dato tutto per sapere che desiderio aveva espresso…
Poi li riaprì, e volse il capo verso di me, sorridendomi raggiante, come rincuorata.
< Grazie della bella serata Edward> Esordì quando arrivammo in prossimità del locale.
Sorrisi. < Idem>.
< Beh, spero di rincontrarti in questi giorni> E mi sorrise sincera, facendomi capire che era davvero ciò che voleva.
Non potei far a meno di imitarla, sentendo le labbra incurvarsi nel mio sorriso sghembo.
< Lo spero anch’io. Buonanotte Bella> Mormorai.
< Buonanotte Edward> Rispose con voce estremamente dolce, come quella di una bambina.
Mi voltai, cercando con lo sguardo gli altri, quando sentii Bella chiamarmi di nuovo.
< Edward! La felpa> Disse facendo per togliersela, ma le bloccai le mani.
< Almeno ho una scusa per rivederti> Dissi facendole l’occhiolino.
Le sue guance si arrossarono lievemente e rise, il suono armonioso e cristallino che tanto adoravo.
Mi voltai e ripresi a camminare, questa volta senza tornare indietro.
E in quel momento, riuscii a pensare solo ad una cosa: dovevo trovare un modo per rivederla.



Note dell’autrice
*____* Bravo Edward, trova un modo per rivederlaaaa!!!
AHahah ok, la smetto U__U
Che desiderio avrà espresso Edward? E Bella? Mah, chi lo sa….
Quella cosa sulle stelle l’ho un po’ parafrasata xD Nel senso che ho trovato scritto “le stelle simboleggiano la pace del cuore” e basta. Ora, la mia fervida fantasia ha iniziato a farsi filmini mentali all’infinito, per cui ho dovuto metterci qualche cavolata nata nel mio cervellino :D Però è ciò che penso io U__U
Fatemi sapere cosa ne pensate, altrimenti andrò in sciopero U_U
Ahaha scherzo… forse xD
Un bacio, Chiara.

  

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Salve ragazze! Tutto bene? Le vacanze? Eccoci qui, puntuale come sempre…. Ehm ok, d’accordo… Siamo serie u.u
So di essere in ritardo, ed anche di un bel po’. Diciamo che sono due settimane.
Mi dispiace, davvero, solo che sono state settimane  di fuoco, ed ho anche avuto dei problemi familiari.
Ok, non aggiungo altro perché di certo vi annoierei. Coooomunque, diciamo che, oltre al tempo che scarseggiava e l’ispirazione che ogni tanto scioperava, non è che mi sentissi molto incoraggiata a scrivere…
Ripeto, c’è un mortorio pazzesco qua! Prima vi sentivo più o meno numerose, ora proprio sento un paio di persone e basta. Siete in vacanza, ok, ma vedo le cifre di seguiti/preferiti/ricordati aumentare e persino il numero delle visite andare ben oltre le mie speranze… e solo due persone mi fanno sapere cosa ne pensano… Ok… Comunque, se posto oggi, dovete ringraziare Gloria per avermi lasciato una recensione particolarmente ispirante per me. Non che le altre non sono apprezzate, altroché! Non sapete che gioia sia per me trovare recensioni, e la sua è arrivata in un momento di sconforto e di mancata motivazione e mi ha motivato molto a scrivere e postare.
Quindi questo capitolo lo dedico a Gloria, Valli e Ary94 per il supporto che mi avete dato.
Ok, passiamo al capitolo!
Troverete innanzitutto uno dei miei “trabocchetti”, se così si può chiamare, che vedremo in futuro. Ancora U.U
troverete anche un accenno alla criminalità della banda, lo capirete quando leggerete, e sappiate che ho preso ispirazione da Twilight ma qua siamo nel 2002 per cui mi passerete questa falsa notizia storica come licenza narrativa u.u
Non indugio oltre e vi lascio al capitolo, scusate se le mie note si dilungano sempre.
Buona lettura.



Capitolo 5

 
Bella Pov


< Allora, ti sei divertita?> Non riuscii a trattenere un risolino compiaciuto di fronte a mio fratello, seduto nel sedile accanto al mio, le mani sul volante, lo sguardo dritto davanti a sé, a disagio.
< Sì Jake, molto. Tu?>
< Non c’è male…> Rispose, stringendo il volante tra le mani, forse per prendere coraggio.
< Quindi il famoso Edward era quello la…> Constatò, lanciandomi un’occhiata.
Sospirai. < Jake, non m’interessa se non approvi o altro. Edward è un bravo ragazzo, l’hai visto anche tu, e l’ho appena conosciuto. Non è nemmeno un amico> L’ultima frase fu poco più che un mormorio, e sperai con tutto il cuore che Jake non notasse il mio risentimento.
Perché fai così bella, domandò la vocina nella mia mente.
In fondo, vi siete visti solo due volte, e anche se ti ha salvato la vita è pur sempre uno sconosciuto…
Taci coscienza, taci.
Sospirai di nuovo, le braccia intorno alle ginocchia, nella mia amata posa fetale.
Senza farmi vedere da Jake inspirai piano, il naso posato sulla stoffa di quella felpa. La sua felpa.
< Bella, non che abbia qualcosa contro di lui, ma in fondo è poco più di uno sconosciuto…> Insistette Jacob, finalmente arrivando al dunque.
< Rebecca era una sconosciuta, giusto? Eppure ora è la tua ragazza… Però tu potevi conoscerla, potevi passeggiare con lei sulla spiaggia di sera, no?> Jacob tacque, stringendo ancor più il volante dell’auto.
< è diverso> Disse infine.
Sospirai di nuovo, pensando con tutte le mie forze alla tazza che avevo a casa, con la scritta “mantieni la calma e vai avanti”, il mio mantra in quelle situazioni spinose.
< è diverso perché stiamo parlando di te, o è diverso perché Becky è una donna?> Sbottai.
Mi lanciò un’occhiata, leggermente preoccupato, prima di ricominciare a parlare.
< Bella, non voglio tenerti segregata in casa, so che prima o poi incontrerai qualcuno di speciale, solo… voglio risparmiarti da sofferenze che potrebbero segnarti. Vorrei vederti sempre felice…> Ammise.
< E non pensi che forse se avessi un po’ più di libertà potrei essere davvero felice?> Desiderai tapparmi la bocca non appena quelle parole uscirono fuori.
Jacob trattenne il respiro, lanciandomi un’occhiata d’incredulità prima di tornare a concentrarsi sulla strada davanti a sé.
Decisi che era meglio cercare di sistemare un po’ l’atmosfera, così mi ritrovai a parlare con tono pacato, come si fa con i bambini piccoli.
< Jacob, non ho voglia di litigare con te, ti prego. So che tu lo fai per me, e apprezzo molto tutto ciò, ma non puoi tenermi lontana da tutto, devo farmi le mie esperienze, e anche quelle più dolorose mi aiuteranno a crescere. E poi, ad Ottobre andrò all’università, e sarò da sola. Sai che non puoi proteggermi da tutto>.
Questa volta fu lui a sospirare forte. < Lo so Bella, lo so. Scusa se sono iperprotettivo con te, solo… voglio proteggerti. E lo so che esagero… Ma dì la verità, scricciolo: non ami il tuo fratellone super protettivo?> E così dicendo si aprì in uno dei suoi meravigliosi sorrisi, i denti bianchi brillavano di luce propria nel buio della notte.
< Sì Jake, ti voglio bene> Risi con lui, felice di essere riuscita a cavarmela con poco. Almeno per quella notte.

 Quando svariati minuti dopo arrivammo a casa, mamma ci aspettava sul divano, stranamente sola e a casa.
Ma non avevo voglia di parlare, né con lei né con chiunque altro, per cui mi congedai velocemente, correndo nella mia stanza.
Mi spogliai velocemente, indossando la t-shirt enorme che usavo come pigiama, e mi sedetti sul bordo del letto.
Rimasi in ascolto, sentendo i passi pesanti e affaticati di Jake sulle scale, nel bagno e, infine, nella sua stanza.
Attesi ancora, aspettai anche i passettini leggeri e aggraziati di mia madre, che volò direttamente nella sua stanza.
La casa era finalmente silenziosa, così mi alzai e in punta di piedi raggiunsi la sedia sulla quale erano posati i miei vestiti, ed afferrai la felpa.
Mi sedetti di nuovo sul letto, immergendo il viso nella stoffa calda e impregnata nel suo odore.
E mi sentii… protetta, inebriata, a casa.
Il suo profumo era così dolce, così fine, così suo.
Sapeva di sandalo, di miele fresco, di salsedine ma, soprattutto, di pelle. La sua.
Infilai di nuovo la felpa, tirando su persino il cappuccio, anche se sentivo caldo, e mi rannicchiai sulla sedia della mia scrivania, accendendo la piccola lampada che stava davanti a me.
E lì, nella luce soffusa della mia stanza, con la finestra di fianco a me aperta e il rumore delle onde e dei grilli vicino, presi il mio diario.
Era un diario molto elegante: con la copertina rigida, di pelle marrone, con incisa in corsivo la scritta “Le mie riflessioni”.
Quello fu il regalo di mio padre per il mio quindicesimo compleanno, e mai regalo fu più gradito.
Da quel giorno iniziai a scriverlo, ma non era il solito diario segreto che hanno tutte le adolescenti: invece di riassumervi la mia giornata, gli eventi più noiosi o interessanti, scrivevo poesie e descrizioni.
Non erano granché, ma potevo sfogarmi scrivendo ciò che pensavo o ciò che sognavo.
E vedere i miei pensieri su carta era qualcosa d’indescrivibile. Mi faceva sentire bene, realizzata.
Lo scrivevo con la vecchia penna stilografica trovata nella mansarda della casa di mio padre, quando avevo dodici anni.
Da allora, l’avevo sempre tenuta segreta a chiunque.
Era il mio piccolo segreto, il mio tesoro.
Era protetta da un astuccio rigido, un rettangolo piccolo e sottile, interamente ricoperto di velluto nero, leggermente ammaccato con gli anni.
Ma, la cosa che mi aveva eccitato e che continuava ad intrigarmi, erano le iniziali incise all’interno del prezioso astuccio, in un corsivo molto antico, ormai con sporco incrostato nell’incisione.
Era scritto in un corsivo così antico che avevo impiegato un paio di giorni per tradurlo, ma alla fine ci ero riuscita.
EM.
Questa era la scritta.
Mi ero posta molte domande, come “l’ordine è nome e cognome o viceversa?” oppure “sono le iniziali di una donna o di un uomo?” e così via, facendo sempre aumentare la mia curiosità e senza mai trovare realmente una risposta.
Avevo persino chiesto a mio padre se fosse stato a conoscenza della storia della casa, in modo da poter capire se i vecchi proprietari vi avessero dimenticato quel tesoro, ma aveva scosso la testa, aggrottando le sopracciglia, pensieroso.
Essendo il capo della polizia, mi aveva detto che, se fossi stata davvero interessata, avrebbe potuto cercare negli archivi.
Ma l’inverno stava facendo posto alla primavera e, prima di quanto potessi immaginare, arrivò l’estate, e mi ritrovai di nuovo su un aereo per Phoenix, abbandonando a malincuore la possibilità di avere risposte.
In seguito né io né mio padre avevamo più ripreso l’argomento.
E nell’ultimo periodo c’erano stati problemi ben più gravi a cui pensare, tra cui la banda di assassini a Seattle.
Già, c’erano stati una serie di omicidi con tanto di rapine in molti negozi, tra cui gioiellerie e banche, ed erano morte parecchie persone.
Se poi si pensava che Seattle era salita in graduatoria nella lista di “città con più alto tasso di criminalità”, allora, la cosa era allarmante.
E, naturalmente, la città era andata nel panico più totale, tanto che si era persino pensato di chiamare l’esercito per fermare la banda.
Ma alla fine le cose si erano risolte più o meno bene, e tutto era tornato tranquillo.
Aprii con cautela il cassetto della scrivania, svuotandolo dei pochi libri e block-notes che vi erano dentro e alzando il fondo, aprendo così lo scomparto segreto in cui era nascosta la penna.
Aprii il diario, scorrendo velocemente le pagine scritte e arrivando circa a metà.
E, non appena la penna si posò sulla carta, iniziò a muoversi da sola.


Sento,
la brezza marina penetra nelle mie narici,
il vento mi scuote i capelli,
S’insinua nel mio vestito,
a contatto con la mia pelle.

Sento,
il freddo che si posa sulla mia pelle,
i brividi che si fanno largo su di essa.

E poi,
la tua pelle sfiora la mia,
altri brividi,
ma so
che non altro son
che brividi di
piacere,
fremiti di te.


Voltai con cura la pagina, soffiandovi prima sopra in modo che l’inchiostro asciughi per bene, e posai di nuovo la penna su un nuovo foglio bianco.
E questa volta, riuscii a lasciarmi andare davvero…

Inspiro il tuo profumo, aroma dei miei pensieri.
Inspiro ancora e ancora, chiudo gli occhi, ed è come se tu fossi qui con me.
Sento le onde frusciare, i grilli cantare, qualche pneumatico che slitta sull’asfalto.
Ma tutto ciò che mi circonda, si annulla non appena il tuo profumo entra nelle mie narici, dentro di me.
Lo sento ovunque: sulle mie mani, nel mio naso, sulle mie braccia.
Ed è come se tu fossi qui con me.
Eppure di te non so niente. O quasi.
Conosco il tuo nome, il tuo cognome, la tua età, il tuo viso ma, soprattutto, la tua vita.
Conosco i tuoi pensieri, le tue paure, e non so se mai qualcuno si sia aperto così tanto con me.
Se io mi sia mai aperta così con qualcuno.
Sei un’anima nobile, generosa, umana.
Sei un’anima coraggiosa.
Ed io sono qui, la tua felpa sul mio corpo, il tuo profumo sulla mia pelle, e mi immagino con te, di nuovo su una spiaggia, l’acqua tiepida sui miei piedi nudi, la tua voce calda a sussurrare al mio orecchio, il tuo respiro sul mio collo, il calore della tua mano morbida sulla mia.
E l’unica cosa che riesco a pensare, è quanto sia bizzarra questa situazione.
è notte, dovrei essere stanca, dovrei essere sotto la coltre delle mie coperte a dormire.
Eppure sono qui, le braccia strette attorno al tuo profumo, la mente lontana.
E il mio ultimo pensiero è: dove sarai adesso?
Perché l’unico desiderio che voglio esprimere è uno solo.
Rincontrarti.

Sospirando, soffiai di nuovo sulla pagina, presi la penna e la riposi con la massima cura nella custodia, sfiorando prima con la punta delle dita quelle iniziali.
Con cautela, cercando di non fare rumore, chiusi il diario e lo riposi assieme alla penna nel piccolo posticino segreto, rimettendo tutto come prima e chiudendo il cassetto.
Spensi la luce, ma prima di andare a dormire c’era un’ultima cosa che dovevo fare.
In uno stato di cecità quasi totale, arrancai malamente verso la finestra, sbattendo contro il legno del mio letto e la grande lampada da terra posta di fianco alle tende, rischiando di romperla in mille pezzi.
Fortunatamente arrivai a destinazione, tutta intera e mi appoggiai al davanzale.
Alzai lo sguardo verso il cielo limpido e terso, perdendomi con le stelle.
Sperai con tutte le mie forze di vederne una cadere, ma le palpebre iniziarono a cedere e mi ritrovai così a chiudere gli occhi e pensare.
A lui, a me, a noi.
E quando li riaprii, nella mia mente vedevo solo un’immagine: il suo viso concentrato rivolto verso le stelle, di fianco a me.
E, per un attimo, sperai che anche lui stesse facendo la stessa cosa.

 

Note dell’autrice

Eccoci qua.
Allora, penso che il mio trabocchetto sia molto facile, quasi idiota, lo so… ma dovevo metterlo u.u
Voi avete mai scritto un diario segreto? Lo scrivete ancora? Se sì fate come Bella, scrivendo poesie e descrizioni? Aahahah sono curiosa. Personalmente io faccio come Bella, e il suo personaggio è davvero molto molto simile a me, per cui mi sono basata su di me.
Un’altra cosa: quando Bella parla della tazza con la scritta “mantieni la calma e vai avanti”, è il famoso mantra “Keep Calm and carry on”!! Sì, ho fatto ricerche e, a quanto pare, è stato fatto durante la seconda guerra mondiale ma mai usato, rivisto solo nel 200. Se vi interessa, su Wikipedia c’è tutta la storia dettagliata. È molto interessante.
Sicuramente ho altro da dire, ma al momento non mi viene in mente niente, per cui, fatemi sapere cosa ne pensate, critiche o commenti positivi non importa, accetterò di tutto, anzi!
Al prossimo aggiornamento che dovrebbe avvenire la prossima settimana!
Non vi rubo altro tempo.
Un bacio, Chiara.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***




Salve ragazze! Sono riuscita a scrivere il capitolo senza troppi problemi in questi giorni, ed è anche abbastanza lungo. Spero vi piaccia!
Vorrei ringraziare le splendide 8 persone che hanno recensito: non avevo mai ricevuto così tante recensioni per un capitolo, non sapete quanto ve ne sono grata! Per ringraziarle, manderò un piccolo spoiler non appena avrò scritto il prossimo capitolo!
è tutto, ci leggiamo in fondo!
Buona lettura!



Capitolo 6

 
Edward Pov
 
Qualche debole raggio di sole appena spuntato in cielo illuminò debolmente la stanza, ed io rimasi lì, sdraiato nel mio letto, ad osservarlo.
Erano le cinque di mattina, ed io ero già sveglio da un po’.
Essendo abituato a svegliarmi ogni mattina alle 4:30, la mia sveglia biologica suonava comunque, vacanza o no.
Attesi qualche minuto ancora, le mani incrociate sopra la testa, lo sguardo che vagava fuori dalla finestra. Proprio come la notte precedente, quando, sdraiato nella medesima posizione, mi ero messo a fissare le stelle, riportando alla mente la serata passata con Bella e sperando con tutto il cuore che anche lei stesse pensando alla stessa cosa.
Quando sentii i gabbiani iniziare a gracchiare, decisi che era ora di alzarsi.
Come d’abitudine, una volta sceso dal letto, iniziai a fare i miei addominali per terra, passando poi alle flessioni.
Ormai quella era diventata la mia routine quotidiana, e saltarla mi faceva sentire strano, con la sensazione di aver dimenticato qualcosa d’importante.
In casa regnava ancora il silenzio, per cui indossai i pantaloncini ed una maglietta, le scarpe a tennis e i calzettoni, e scesi in cucina.
Aprii il frigorifero, prendendo un bicchiere di latte ed una banana.
Quando finii la mia colazione, uscii di casa ed iniziai a correre.
Anche quello faceva parte della mia quotidianità.
E poi, a dirla tutta, correre mi aiutava a schiarirmi le idee.
In spiaggia non c’era nessuno, solo gabbiani in cerca di pesci e, al largo, pescherecci che rientravano dopo una notte di pesca.
Correre sulla spiaggia, con il fruscio rilassante delle onde e il profumo penetrante di salsedine, era qualcosa di meraviglioso.
Eppure, anche mentre correvo, i miei pensieri correvano alla scorsa notte, al suo viso, ai suoi occhi.
Oh, i suoi occhi.
Mi chiedevo com’era possibile che somigliassero così tanto a quelli di mia madre… Erano identici.
Ed ogni volta che li guardavo, avvertivo come un senso di vertigine…
Eppure non riuscivo a non perdermici dentro.
Erano identici eppure diversi allo stesso tempo. Quelli di Bella avevano un qualcosa di espressivo che quelli di mia madre non avevano avuto.
Bella non sarebbe stata capace di mascherare il dolore o il piacere con quegli occhi.
E, mentre continuavo a correre, pensavo ad un modo per rivederla.
Forse era stupido, io ero stupido, ma sentivo la sua mancanza… Ero in astinenza da lei, come una droga.
E la cosa più bizzarra era che quasi non ci conoscevamo.
Che cos’era quello che sentivo quando la vedevo? Che cos’era la stretta allo stomaco che sentivo quando ci sfioravamo?
Non lo sapevo.
Probabilmente sei solo curioso, Edward, diceva la vocina nella mia mente.
E forse era davvero così.
Eppure una parte di me mi diceva che era qualcosa di più…
Era terribilmente frustrante, sentivo di avere la risposta davanti agli occhi e non riuscire a vederla.
O forse cercavo di ignorarla.
La mia mente stava vagliando le ipotesi.
Potevo andare da lei per riprendere la mia felpa. L’avrei di sicuro rivista e per di più avrei avuto occasione di parlarle.
Però sembrava un’idea così… maleducata, scarsa…
Era come dire “Hey, rivoglio la mia maglia e addio”.
Poteva interpretarlo male, poteva pensare che non volessi più avere niente a che fare con lei.
Oppure potevo aspettarla sul molo, magari durante il pomeriggio sarebbe andata a prendere un po’ di sole, o a vedere il mare…
Ed io passavo da stalker.
Dio, perché mi stavo facendo tutti questi filmini mentali? Perché non andavo da lei e basta?
Forse detto da un soldato sembrava una barzelletta, ma la verità era che avevo paura.
Paura di rivederla, paura di essere respinto, paura di non meritarla.
Perché quando ero accanto a Bella, la ragione andava a farsi friggere. Ed io ero vulnerabile, senza maschera e senza corazza.
Quando qualche ora più tardi il sole iniziava ad alzarsi e la temperatura a salire, stavo già correndo sui gradini della veranda, pronto ad infilarmi sotto la doccia per non uscirne più.
Una volta entrato in casa, trovai la cucina piuttosto affollata: erano tutti seduti al tavolo della colazione.
Tutti tranne me.
< Oh buongiorno tesoro> Mi salutò Esme.
< ‘Giorno. Vado a fare la doccia e vi raggiungo> Promisi correndo su per le scale.
Mi fiondai sotto il getto caldo della doccia, in modo da avere più fresco una volta uscito, e feci il più velocemente possibile.
Una volta fuori, asciugai i capelli alla bell’e meglio nell’asciugamano, sistemandoli con un colpo di pettine e chiudendomi in camera per vestirmi.
Scelsi un paio di pinocchietti ed una t-shirt fresca. Ai piedi le infradito.
Sì, quella era la mia tenuta estiva.
Scesi di sotto, sedendomi al tavolo con i miei familiari.
Era bello passare del tempo così, tutti insieme a ridere e scherzare senza pensare ai problemi o ai giorni che passavano.

Più tardi, quando gli altri si erano già avviati sulla spiaggia, mi sedetti sul divano a riflettere su cosa dire a Bella.
< Posso?> La voce cristallina di Alice mi distrasse da quei pensieri.
Aggraziata come una fata, si sedette sul divano, le gambe e le braccia raccolte a formare un piccolo bozzolo.
< Ti sta aspettando> Disse sicura, osservandomi attentamente sotto le ciglia lunghe e scure.
Mi voltai sconvolto a guardarla, e capii subito che aveva visto qualcosa.
< è una bella ragazza Edward, e si sta chiedendo quando ti rivedrà> Continuò.
< Tu… tu l’hai sognata?> Domandai a mezza voce.
Sorrise. < Diciamo di sì> Prese un bel respiro, come se si preparasse a dirmi qualcosa di sconvolgente.
< Vedi, sta succedendo una cosa strana con lei. La sogno. Ogni notte la sogno, ma non è semplicemente un sogno. Io… riesco ad entrare nella sua mente, nei suoi sogni. E come sai, i sogni sono pensieri espressi nella propria testa, ed io li vedo. Succede solo con lei, e ancora non so perché, ma è una cosa importante, Edward, è come se… come se fosse destino che le vostre vite s’incontrassero> Sussurrò.
La guardai ancora più sconvolto, e mi posò una mano sulla guancia.
< Non avere paura, Edward, va da lei> Disse serena, sorridendomi.
< Cos’è, il sergente maggiore capo Edward Cullen ha paura di una giovane donzella indifesa?> Scherzò accarezzandomi una mano.
Sorrisi anch’io, seppur ancora turbato.
< Se dovessi vedere qualcos’altro, o sognare qualcosa, o accorgerti che riesci a fare qualcosa in più, me lo dirai, vero? Mi dirai se questa cosa diventa ancora più… grossa?> Domandai cauto.
Annuì, alzando gli occhi al cielo.
< Anche se non credo sia molto corretto divulgarti queste informazioni caro mio. Insomma, sto violando la sua privacy> E si fermò un attimo a pensare, questa volta seriamente, facendomi ridere.
< Tu ed io non abbiamo segreti Alice, lo sai, per cui mi racconterai. Anche se so che ometterai qualche particolare> Risposi scompigliandole i capelli.
Mi tirò un buffetto sulla mano, ridendo.
Mi avviai verso a porta, e quando la mia mano era sulla maniglia, la voce di Alice proveniente dalle mie spalle mi bloccò.
< Non ha una storia facile alle spalle, Edward. Fai attenzione con lei>.

Una volta arrivato davanti alla casa, mi passai nervosamente la mano tra i capelli.
Ok Edward, hai affrontato tragedie peggiori. Vai da lei e sii te stesso, mi ripetevo come un mantra.
Il cancello del giardino era aperto e, non essendoci un campanello, entrai con l’intenzione di bussare alla porta di casa.
Mentre stavo per salire gli scalini della veranda, con la coda dell’occhio vidi un movimento: Bella se ne stava seduta su uno sgabello, in un angolo del giardino, davanti a lei un cavalletto con sopra una tela. In una mano aveva un pennello, nell’altra la tavolozza dei colori.
Alzò gli occhi, sobbalzando quando mi vide lì, impaurita.
Alzai una mano, salutandola, e solo allora si calmò, sorridendo timidamente e facendomi segno di avvicinarmi a lei.
< Scusa se sono entrato in questo modo, ma non ho trovato il campanello fuori ed il cancello era aperto...> Mi scusai, avvicinandomi a lei.
Sorrise, le guance rosse. < Non preoccuparti, non abbiamo il campanello>.
Solo allora riuscii a vedere la tela, quasi finita, raffigurante un immenso cielo stellato, esattamente come quello che avevamo contemplato insieme la scorsa notte.
E, come un cretino, il mio cuore prese il volo.
Forse non significava niente per lei, eppure sentivo una strana sensazione.
Appena si accorse del mio sguardo sull’opera, mi guardò mortificata.
< è bellissimo Bella!> Dissi stupito. < L’hai dipinta tu?>.
Annuì, imbarazzata.
< Siediti lì> Indicò il piccolo dondolo, simile a quello di Esme. Mi accomodai lì sopra, osservando la tela.
< Sei davvero molto brava> Osservai.
Ridacchiò nervosamente. < Non è granché, davvero> Aggiunse torturandosi le mani.
< Io non ne sarei capace> Borbottai facendola arrossire. < Dovresti conoscere mia sorella Alice. Anche lei ama dipingere e disegnare, solo che lei è più… dark, non so se mi spiego. I suoi disegni sono molto oscuri, misteriosi… Dovresti conoscerla> Conclusi infine.
Sorrise timidamente, posando il pennello e la tavolozza dei colori e pulendosi le mani ad uno strofinaccio.
< Allora, come va?> Domandai cercando di tenere viva la conversazione.
Ridacchiò. < Bene, grazie. Vuoi una fetta di torta? L’ho fatta io poco fa, dovrebbe essere ancora calda>.
< Ok, basta che non mi avveleni> Scherzai seguendola in casa.
Una volta dentro, vidi il dipinto del mulino, e collegai subito. Come avevo fatto a non pensarci prima?
< L’hai dipinto tu questo?> Domandai avvicinandomi alla parete.
Annuì, di nuovo imbarazzata.
< Hai mai pensato di mostrare i tuoi quadri a qualcuno? Sono… pittoreschi> Osservai.
< No, in pochi sanno che dipingo. Non mi piace mostrare i miei disegni agli altri, preferisco tenerli per me> Spiegò mentre tagliava una piccola fetta di torta alla carota.
< Sai, sono piuttosto… intimi. Dipingo soggetti secondo il mio stato d’animo, dei miei ricordi, e non mi piace rendermi ancor più vulnerabile di quello che sono ad occhi estranei. Forse è un po’ bizzarra come cosa, ma...>
La interruppi prima che potesse continuare. < No. Non ci avevo pensato, scusami. Invece è una cosa molto bella, quasi t’invidio per questo>.
Assaggiai la torta, e quasi chiusi gli occhi dalla sua bontà.
Era sublime, forse anche meglio di quella di Esme.
< Ti piace?> Domandò esitante Bella, le mani raccolte in grembo come ad aspettare la risposta di un critico.
< è molto buona. La cucina è un’altra delle tue noti nascoste?> la presi in giro, divertendomi delle sue guance perennemente arrossate.
< Vado a prendere la felpa, ok? È su in camera> Esitò quando si accorse di aver pronunciato la parola “camera”, come se fosse sott’inteso qualcos’altro.
< Ok, ti aspetto fuori> La vidi sorridermi grata, forse risparmiandole qualche malinteso con la sua famiglia.
Si diresse su per le scale mentre io raggiungevo il dondolo in giardino.
Mi abbassai ad osservare il disegno di Bella e, involontariamente, i miei occhi si soffermarono su un dipinto che sbucava da una vecchia cartella di cartone.
Non so cosa mi spinse a volerlo vedere a tutti i costi. Fu strano, come se sapessi che ciò che da lì a pochi secondi avrei visto avrebbe cambiato il mio modo di vedere Bella.
E anche se sapevo che era sbagliato, non resistetti e lo estrassi dalla cartella, pentendomene subito dopo.
La cosa che mi stupì di quel dipinto, fu l’oscurità: chiaro e scuro si alternavano, un elaborato intreccio.
I dipinti che fin ora avevo visto erano colorati, quasi allegri e spensierati, mentre quello era così freddo, così malinconico…
Mi sforzai di mettere a fuoco tutti quegli intrecci di colore e, quando riuscii a capire cosa raffigurasse, fu come prendere un cazzotto in pieno stomaco: un corpo seminudo, con acqua fino alla vita, era trattenuto contro una parete, e raffigurato vi era un volto i cui grandi occhi cupi, pieni di rancore e di odio, di malignità e cattiveria, erano accentuati così come i profili duri e spigolosi. E, sul corpo della ragazza, vi erano decine di mani nere, grandi, che la toccavano ovunque.
La ragazza era il bianco, l’uomo il nero, ed insieme costruivano quel difficile intreccio di dolore.
Quasi colto da un senso di vertigine, riposi velocemente il dipinto nella cartella e mi sedetti sul dondolo, vedendo pochi secondi dopo arrivare Bella con la felpa.
Il suo sorriso innocente mi fece capire che non si era accorta di niente, per cui mi adoperai per non farle capire quanto fossi sconvolto da ciò che avevo appena visto.
< Ecco qua> Mi porse la felpa, accuratamente piegata su se stessa, quasi fosse un capo di valore.
< Grazie> E quando le nostre mani si sfiorarono, sentii l’ennesima scossa elettrica irradiarsi nel mio corpo, e vidi Bella ritirare velocemente la mano, come se anche lei l’avesse avvertita.
E in quel momento, capii che ormai avevo di nuovo la mia felpa e non c’erano più scuse per restare.
Eppure, non volevo ancora separarmene, per cui parlai quasi prima che potessi accorgermene.
< Senti… ti andrebbe una passeggiata sulla spiaggia?>.

**************

Un’ora dopo, eccoci là, seduti su uno scoglio, a goderci il sole caldo sulla pelle e le onde che s’infrangevano sotto di noi, rinfrescandoci. Davanti a noi, mare e cielo si confondevano, sembrando un’enorme distesa infinita.
Bella se ne stava con la schiena poggiata allo scoglio, le gambe distese davanti a lei, il viso alzato verso il cielo e gli occhi chiusi.
Indossava un paio di pantaloncini ed una canotta. Sotto s’intravedeva il costume a triangolo.
Non sapevo ancora com’ero riuscito a convincerla, eppure ora eravamo lì. Insieme.
< Ti manca tutto questo quando sei in missione?> La sua voce mi ridestò da quei pensieri, facendomi voltare di nuovo verso di lei.
Risi. < Anche se non ho il tempo di pensare a quanto mi manchi… sì. Non sai quanto mi pento di non essere un Marines> Scherzai strappandole un sorriso.
< A te invece? Ti manca tutto questo quando sei con tuo padre?> Domandai.
< A proposito, dove vivi con lui?> Aggiunsi ricordandomi di non saperlo.
Bella sorrise, un sorriso triste. < Con mio padre abito a Forks>.
Probabilmente pensò di aver detto qualcosa di sbagliato quando vide la mia faccia stupefatta.
< Anche i miei abitano a Forks! Mio padre lavora lì in ospedale. Mi stupisco che tu non abbia sentito i numerosi pettegolezzi su di noi> Dissi velocemente.
Mi guardò stupita a sua volta. < Tuo padre è il dottor Carlisle Cullen?>.
Annuii. < è il mio padre adottivo, ma per me è mio padre e basta> Spiegai.
Rise. < Probabilmente tuo padre mi conoscerà. Sai, capito spesso in ospedale. Sono tremendamente goffa> Rispose ridendo.
< Però è strano che non ti abbia mai visto in città… Insomma, non è molto grande> Continuò.
< Io ho pochi giorni di licenza, per cui torno davvero poche volte. Mia madre invece lavora fuori città, a Seattle, mentre i miei fratelli studiano alla Dartmouth University, per cui anche loro tornano a casa per Natale o ricorrenze importanti> Spiegai.
Restammo in silenzio per un po’, finchè non fu proprio Bella a spezzare il silenzio.
< Che cosa intendevi prima con la storia dei pettegolezzi su di voi?>.
Sospirai, raccogliendo un po’ le idee.
< Sai, non tutte le persone hanno cinque figli adottati e nemmeno uno naturale… la gente mormora, ama infangare la felicità altrui, ma con noi non ci riesce. Siamo una bella famiglia, tutto sommato, e anche piuttosto serena>.
Annuì, osservando l’oceano davanti a noi.
< Sai, mi piacerebbe molto presentarti ai miei, gli piaceresti> Mi pentii subito dopo di quelle parole.
Cosa diavolo mi era saltato in mente? Eravamo già alla fase presenta-genitori?
Sorrise imbarazzata. < Mi piacerebbe salutare Carlisle. È un brav’uomo e un ottimo medico> Rispose gentile.
Forse non voleva incontrarli subito, ma magari, con un po’ di tempo…
< Sei molto legato alla tua famiglia, vero?> Constatò.
Annuii. < Sai, conosco Esme da quando ero un bambino. Sua madre era la mia balia, e quando restai senza di lei e senza mia madre, mi adottarono loro>.
Bella sembrò dispiaciuta di aver fatto una domanda del genere, ma entrambi non sapevamo cos’altro aggiungere, così restammo nuovamente in silenzio.
Ripresi di nuovo ad osservare il mare, rilassandomi un po’. In fondo, parlare con Bella mi veniva naturale.
< Mi piacerebbe molto farti un ritratto, sai? In questa esatta posizione> Disse ad un tratto, facendomi sorridere.
< Mi piacerebbe molto vedere quel ritratto una volta terminato> Risposi facendola sorridere.
Era così bella: il vento le tirava indietro i lunghi capelli brillanti, mentre le grandi labbra erano curvate in un sorriso divertito che le faceva brillare il volto, illuminandole gli occhi.
Se fossi stato capace di dipingere, probabilmente le avrei fatto io un ritratto.
Di sicuro meritava più di me.
Non so per quanto tempo restammo così, a sorriderci come due idioti, ignorando tutto ciò che ci circondava.
So solo che quel momento, rimase impresso nella mia mente per sempre.
Magari non era granché, eppure fu quello il giorno in cui qualcosa cambiò.

Quando all’ora di pranzo la riaccompagnai a casa, tra di noi c’era qualcosa.
Non era amore, non ancora, ma non eravamo più due perfetti sconosciuti.
< Hai impegni per domani?> Domandai mentre stava per entrare nel suo giardino.
Si voltò cercando di nascondere un sorriso, ma i suoi occhi la tradirono.
< No, non credo> Rispose facendo la vaga.
< Allora ti aspetto domani pomeriggio alle cinque e mezza sul pontile. Porta la tavolozza dei colori e la tela: voglio questo dipinto>.


Note dell’autrice

Come sei autoritario Edward… Ahahah
Allora, che ne pensate del capitolo? Finalmente le cose iniziano un po’ a chiarirsi…
Per quanto riguarda il disegno di Bella, vorrei conoscere la vostra interpretazione, quindi vi chiedo di scrivermi anche solo qualche parola riguardo a ciò che pensate significhi.
E per quanto riguarda Alice, nel primo capitolo Edward aveva accennato della sua specialità, ebbene sì, ho voluto tenerla perché sinceramente mi faceva comodo xD nel senso che forse potremo capire qualcosa in più del passato di Bella grazie al folletto.
Per ora Alice sogna e basta, ma con Bella ed Edward succederà qualcosa di più…
Ok, ho già detto troppo!
Ricordatevi che, chi a recensito lo scorso capitolo, riceverà uno spoiler! Questo non appena avrò scritto il capitolo, ma abbiate fede perchè arriverà. è il minimo che possa fare per ringraziarvi
Ci vediamo la prossima settimana!
Baci, Chiara. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Note dell'autrice

Buonasera! Avevo corretto e messo le note, usando NVU, e ho fatto un casino, cancellando tutto. Dopo qualche attimo di disperazione ed imprecazioni, ho ricominciato tutto da capo u.u
Vorrei ringraziare tutte le 9 persone che hanno recensito lo scorso capitolo: grazie grazie e GRAZIE non avevo mai avuto così tante recensioni ad un capitolo!
Vi  ho mandato uno spoiler, spero vi sia arrivato e piaciuto! L'ho fatto per ringraziarvi di aver recensito ^__^
Questo capitolo lo dedico a Juls ed Annie due ragazze meravigliose che ho conosciuto da poco, alle quali voglio già bene: :*
Bene, ci leggiamo in fondo.
Buona lettura!


Capitolo 7

Bella Pov

Mi osservai con occhio critico allo specchio del mio armadio, intenta a trovare anche il più piccolo difetto.
Così non poteva andare…
Erano le cinque e un quarto, e sarei già dovuta essere fuori di casa.
Insomma, mica era un appuntamento! Un semplice incontro, giusto per parlare un po’, passare il tempo, fare un ritratto…
E allora perché stavo disperatamente cercando qualche vestito carino?
Calmati Bella, nessuno si aspetta niente da te. Vi vedrete solo per farvi due risate, mi ripetevo.
Aprii di nuovo l’armadio e tirai fuori un paio di pantaloncini ed una canottiera con scollo rotondo, bianca e azzurra. Ai piedi le infradito.
Non persi altro tanto guardandomi allo specchio, passai una mano tra i capelli, afferrai il necessario ed uscii di casa.
Il sole stava iniziando ad abbassarsi, e volevo sbrigarmi in modo di raggiungere il pontile al tramonto.
Il primo tramonto che guardavo con Edward…
Il primo tramonto che guardavo con un ragazzo, a dire la verità.
Mentre mi avvicinavo al pontile, sentivo il cuore battere sempre più forte e le mani sudare sempre di più.
E se non ci fosse stato? Se avesse cambiato idea? Se se lo fosse dimenticato?
E, mentre sentivo il panico sopraffarmi, intravidi una sagoma in lontananza, seduta alla fine del pontile.
Era lui, ne ero sicura.
Percorsi quei pochi metri che ci separavano con la sensazione di vederlo allontanare invece che avvicinare, e quando finalmente lo raggiunsi, tirai un sospiro di sollievo.
Si voltò, probabilmente avevo fatto abbastanza rumore, e si aprì in un sorriso a trentaquattro denti da ritenersi illegale: era quasi più luminoso del tramonto.
< Ciao> Salutò divertito.
< Hey> Risposi esitando.
< Dimmi come vuoi che mi metta> Sbottò all’improvviso, con una serietà spiazzante.
Rimasi immobile, a guardarlo con occhi spalancati, in cerca di una spiegazione.
< Il ritratto Bella. Ricordi?> Spiegò paziente.
Che stupida, il ritratto!
Scosse la testa, continuando a ridacchiare, mentre sentivo che tutto il sangue che avevo in corpo mi era salito alla testa.
Mi schiarii la voce prima di parlare. < Puoi rimanere lì> Sussurrai infine, sedendomi vicino a lui e preparando le mie cose.
Sentivo il suo sguardo penetrante osservare ogni singolo movimento delle mie mani, come rapito da ciò.
Ed io sapevo di avere grossi problemi se pensavo che fosse rapito dai miei movimenti.
< Ok, rilassati ed osserva il mare> Dissi quando fui pronta.
< Sissignora> Rispose con tanto di salute militare, strappandomi un sorriso.
Non ero granché come pittrice, ne ero certa, eppure qualcosa mi diceva che Edward era rimasto colpito dai miei dipinti. O almeno, da quelli che gli avevo mostrato.
Il sole stava tramontando e le scintillanti nuvole bianche del pomeriggio si erano dipinte, trasformandosi in pastelli, colorando tutto il cielo di un colore tenue e romantico, un miscuglio tra arancione chiaro e rosa antico.
Ma, la cosa più bella, era che con quella luce, i capelli di Edward si accendevano, accentuando i riflessi rossicci, ed il suo viso concentrato ad osservare l’infinito era come illuminato dalla luce soffusa di una candela.
Quasi senza accorgermene, le mie mani iniziarono a muoversi sulla tela, e le linee che il carboncino aveva tracciato prendere vita.
Come se stessi vivendo un’esperienza extracorporea: ero lì, stavo ritraendo il suo volto, e allo stesso tempo lo osservavo, attenta, lo sguardo penetrante, pronta a cogliere anche la minima sventolata di ciglia scure.
Non era da me usare il carboncino, ma non me l’ero sentita di usare i colori: i suoi occhi erano troppo belli, non potevo permettermi di sminuirli usando un colore non degno.
Sarebbe stata già un’impresa rendere giustizia al suo volto, ritrarre perfettamente tutti i suoi lineamenti, figuriamoci rispettare persino i colori naturali.
Già sapevo che sarebbe stato diverso, ma in fondo era normale. Ciò non mi impediva però di renderlo il più simile possibile.
Mi soffermai ad osservare la sua bocca: carnosa, rosa, morbida solo a vederla… E, per la prima volta, pensai a come sarebbe stato baciarlo. E i brividi s’impossessarono di me.
Avrei voluto chiudere gli occhi, sfiorare il suo viso con due dita, passarne una sulle labbra, avvicinarmi ancora e ancora finchè non avrei chiuso gli occhi, le sue labbra morbide sulle mie.
E, mentre nella mia mente nasceva questa fantasia, sentii uno strano calore nel mio basso ventre.
E sapevo esattamente che cos’era. Imbarazzata, distolsi un attimo lo sguardo, sperando che Edward non si accorgesse di ciò.
Quando alzai lo sguardo, i miei occhi s’intrecciarono ai suoi, e tutto ciò che ci circondava svanì: non c’era più l’oceano sotto di noi, né i gabbiani che volavano sopra le nostre teste, né il vociare dei bagnanti in lontananza. C’eravamo solo noi, e come la prima volta, sentii una serie di brividi. Ma a differenza di quella volta, la sua mano, calda e morbida, accarezzò la mia.
Stavo volando. Ero certa di essere sospesa ad almeno tre metri sopra terra.
Era come se il mio cuore avesse tirato fuori le ali, avesse iniziato a svolazzare e mi avesse portato con sé, su nel cielo.
Non so quanto tempo rimanemmo così, so solo che nessuno dei due, in quel momento voleva staccarsi. E forse, proprio come me, bramava dalla voglia di avvicinarsi ancora di più. Eppure non lo fece mai.
< Allora, hai finito?> Domandò parecchio tempo dopo.
Ridacchiai. < Se continui a muoverti staremo qui tutta la notte> Risposi ripulendo il lavoro.
< Non credevo che ci avresti messo più di un’ora… Nessuno mi aveva mai fatto un ritratto prima> Mormorò cercando di mantenere la stessa espressione concentrata.
< Mi sento ingessato, probabilmente rimarrò paralizzato a vita con quest’espressione> Continuò facendomi ridere.
< Accipicchia quanto ti lamenti! I soldati non dovrebbero essere tutti pazienti, immobili, determinati e quelle cose lì?> Domandai prendendolo in giro.
Si voltò di scatto, un lampo passò per quei due smeraldi verdi, e la sua bocca si curvò in un ghigno malefico.
< Che hai detto?> Domandò cercando di non ridere.
< Che sei un terribile brontolone> Stetti al gioco, mettendo giù il disegno e incrociando le braccia al petto.
< Ah si eh? E sai cosa fa ora il brontolone?> Domandò retorico avvicinandosi sempre più.
Scossi la testa, indietreggiando.
E, mentre aspettavo la risposta, capii che cosa sarebbe successo, e per la prima volta in vita mia, fui agile: mi alzai di scatto, iniziando a correre verso la spiaggia a piedi nudi, ridendo e gridando.
Non ero mai stata così felice, così spensierata.
La mia goffaggine si era momentaneamente addormentata, ritrovandomi così a correre velocemente, senza incespicare nei miei stessi piedi.
Con la coda dell’occhio lo vedevo, dietro di me,  che mi rincorreva, e sentivo la sua risata allegra.
Mi sembrava ancora di volare.
Raggiunsi la spiaggia e maledissi la sua morbidezza che mi faceva sprofondare ogni passo di più.
E, quando feci per voltarmi, ormai sicura che la mia goffaggine fosse davvero morta, incespicai in qualcosa, probabilmente un paio di piedi-i suoi- e mi ritrovai con la schiena per terra ed un corpo caldo sopra il mio.
Il suo.
Aprii gli occhi continuando a ridere, ma ben presto realizzai di essere schiacciata contro di lui, il suo petto muscoloso contro il mio, le sue gambe sulle mie, il suo volto a pochi centimetri dal mio, e tornai seria.
Sentivo il suo respiro caldo sfiorarmi il viso, e i suoi occhi erano nei miei.
Avrei dovuto avere paura di quel contatto, avrebbe potuto approfittarne. Eppure non lo fece.
Rimanemmo lì, occhi negli occhi, corpo su corpo, ad osservarci con un’intensità tale capace di bruciare un pezzo di carta.
Perché in fondo non so cosa successe, solo mi accorsi che mai e dico mai, mi ero lasciata andare così con qualcuno, e mai avevo visto tanta passione come nei suoi occhi.
E sperai con tutto il cuore che si avvicinasse a me e posasse le labbra calde e morbide sulle mie.
E ancora una volta, sperai l’impossibile.
Si rialzò sorridendo, un sorriso sincero e forse un poco imbarazzato, e mi porse una mano.
< Tutto bene?> Domandò poi.
Annuii. < Ti ho già detto che sono tremendamente goffa, vero?>.
Ridacchiò, allungando un braccio verso il mio volto.
Ed io rimasi perfettamente immobile.
Sentii le sue dita accarezzarmi piano i capelli, passarvi in mezzo e scuoterli dolcemente, e quasi chiusi gli occhi e mugugnai di piacere nel sentire quel contatto.
< Non voglio farti tornare a casa con i capelli pieni di sabbia> Mormorò, ma sapevamo entrambi che la verità era un’altra.
Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che lui sapesse qualcosa. Insomma, aveva paura di toccarmi, di osare troppo. E ciò era strano.
Non vi prestai troppa attenzione e camminai al suo fianco mentre tornavamo al pontile.
< Allora questo ritratto è finito o no?> Domandò impaziente, facendomi di nuovo ridere.
< Diciamo che la parte più difficile è completata. Non devi più stare immobile, ma devo sistemarlo un po’> Spiegai mentre lo coprivo facendo attenzione a non farglielo vedere sia a non rovinarlo.
< E non posso vederlo?> Domandò esitante.
Scossi la testa. < No. Tranquillo, te lo darò una volta terminato>.
Sospirò distratto, osservando di nuovo il mare.
< Hai voglia di fare un giro?> Domandò sorridendomi di nuovo in quel modo assurdo, capace di farmi impazzire.
< Mi piacerebbe ma devo tornare a casa… Sai, Jake non è molto bravo a cucinare, e mia madre non credo ci sia> Spiegai sentendomi subito in colpa.
Avrei davvero voluto mandare tutto e tutti al diavolo, ma dovevo tornare a casa, alla mia vita normale.
Sembrò dispiaciuto, ma si riprese subito.
< Allora posso accompagnarti a casa?> Propose di nuovo.
Alzai gli occhi al cielo ridacchiando e, insieme, ci avviammo verso casa mia.

< Posso aiutarti?> Domandò diversi minuti dopo, seduto al tavolo della cucina di casa mia.
< Sai cucinare?> Domandai fingendomi scioccata.
< Ah ah ah, divertente> Rispose facendomi una smorfia. < Sono un cuoco provetto, vuoi mettermi alla prova?> Mi sfidò, lanciandomi un’occhiata ammiccante.
< Ok mr Cullen, vediamo che cosa sa fare> Risposi costringendolo a lavarsi le mani.
Iniziammo a cucinare un piatto di ravioli ai funghi, lui pensando ai fornelli, io a tagliare la pasta e i funghi.
< Allora ragazza, posso farle una domanda?> Chiese scherzando, facendomi ridere.
< Spari sir> Stetti al gioco, continuando ad spezzettare i funghi.
< Mi hai detto che andrai alla New York University, giusto?>
Annuii, lasciandolo proseguire. < Stai scrivendo qualcosa? Insomma, se vuoi studiare scrittura creativa, hai già qualche lavoro in cantiere o ancora niente?>.
Rimasi sorpresa da quella domanda, e non tentai di mascherarlo.
Nessuno di solito si interessava a ciò che scrivevo.
< Sono molti anni che scrivo, mi piace, mi diverte… Ho iniziato con qualche racconto, poi con storie più lunghe e articolate, poesie e cose del genere, e sto cercando ispirazione> Spiegai.
Alzò lo sguardo dai fornelli. < Ispirazione?> Domandò confuso.
< Sì. Vorrei tanto scrivere qualcosa di lungo, articolato, mio. Ho già qualche idea, ma sono in cerca di una sorta di “avventura”, qualcosa di vero che mi aiuti a scrivere> Spiegai.
< Wow> Sussurrò, e fui quasi certa che lo avesse per sbaglio detto ad alta voce.
Rimanemmo in silenzio qualche istante finchè non ci scherzò su. < Beh, hai incontrato un soldato. Cosa vuoi di più dalla vita? Un bel libro intitolato “ Il sergente maggiore capo Edward Cullen ed il salvataggio del secolo”> Sbottò facendomi ridere.
< Ed io sarei la povera ragazza salvata?> Domandai.
< No, tu saresti la fortunatissima ragazza salvata da me> Calcò con attenzione quel “me”, facendomi quasi sperare in un doppio significato.
< Mmmh, ci penserò su. Mi daresti il via libera a scrivere qualcosa su di te?> Continuai scherzando.
< Potrei diventare famoso!> Esclamò imitando una voce stridula, a gallina.
< Sei davvero incredibile>.
Continuammo a scherzare così, parlando di stupidaggini, finchè Jacob non entrò in cucina, sorprendendoci a ridere come due pazzi per una sua battuta.
< Hey Jake!> Salutai ricomponendomi.
< Ciao…> Rispose incerto, alternando lo sguardo tra Edward e me.
< Buonasera> Salutò educato Edward, pulendosi le mani e togliendosi dai fornelli.
< Che sta succedendo qui?> Sbottò mio fratello, strappandomi un’occhiata glaciale.
< Stiamo cucinando la cena> Risposi a denti stretti, sperando che la smettesse di comportarsi come un bambino.
< Oh questo lo vedo> Continuò guardando con sguardo Edward con sguardo duro e penetrante. Minaccioso.
< Ok> Sbottai arrabbiata, posando di scatto il coltello.
< Finisci da solo Jake, accompagno Edward> Dissi mentre facevo cenno a Edward si seguirmi fuori.
Una volta fuori sospirai cercando di calmarmi.
< Scusalo Edward, lui… è abituato a proteggermi, a vedermi sola… Mi dispiace se si comporta così> Mi scusai.
Sorrise. < Non ti preoccupare, pure io ero così con mia sorella. Anzi, lo sono anche oggi>.
Ci fermammo fuori dal cancello di casa, al riparo dietro la siepe.
< Grazie per oggi, mi sono divertita> Dissi sorridendo.
Ricambiò. < Grazie lo dovrei dire a te che ti sei impegnata per farmi il ritratto e per avermi fatto compagnia>.
< Oh, figurati> Risposi imbarazzata.
< Allora ci vediamo in giro> Continuai.
Non ero molto esperta di queste cose, non sapevo cosa dire, come comportarmi.
Annuì.
Ti prego di qualcosa, ti prego, pregavo dentro di me.
Non che mi aspettassi qualcosa, certo, però… non volevo separarmi da lui.
Era incredibile, lo so, eppure non riuscivo a stare senza.
Adesso sapevo di non essere più due sconosciuti, ma volevo di più.
< Senti… ti va di uscire domani sera? C’è il Luna park. Mangiamo qualcosa fuori, ci divertiamo a sparare ai birilli e massimo entro le undici e mezza ti riporto a casa. Che ne dici?> Domandò continuando a ballettare sui suoi piedi, le mani in tasca.
< Non sono birilli, ma barattoli> Lo corressi, strappandogli una finta occhiataccia.
Sorrisi. < Direi che è perfetto. Facciamo al pontile per le sette?> Proposi.
Si aprì di nuovo nel suo sorriso sghembo. < Direi che è perfetto> Rispose ripetendo le mie parole di poco prima.
Annuii sorridendo,  ma ben presto il mio sorriso si spense: Edward aveva di nuovo alzato una mano verso il mio viso, ed ora la sua mano destra era sulla mia guancia.
Sentivo la sua pelle morbida e fresca sulla mia, calda e arrossata, il respiro corto.
Le sue lunghe ed affusolate dita tracciavano linee immaginarie, e mai nessuno era stato così dolce, così cauto con me. Mai.
I suoi occhi verdi mi guardavano intensamente, illuminati da una nuova luce mai vista prima, tenendo una muta conversazione con i miei.
Quando si allontanò, il suo viso era più rilassato. < A domani> Mormorò con voce suadente, facendomi triplicare i battiti cardiaci.
< Ciao> Risposi flebile e non seppi mai se mi avesse sentito.
Ed io rimasi lì, un sorriso idiota sulle labbra, le guance rosse, la testa leggera e le gambe molli ad osservarlo allontanarsi, le mani nelle tasche dei jeans, le spalle dritte.
Avevo ufficialmente un appuntamento con Edward Cullen.


Note dell'autrice

Aww!  Edward si è fatto avanti!
Un appuntamentoo!!
Chissà che cosa succederà... forse un pochetto sadica lo sono xD
Grazie ancora a tutte le persone che hanno aggiunto la storia alle seguite/preferite/ricordate, chi mi ha aggiunto come autrice preferita , chi ha recensito e recensità, e chi si è fatto sentire anche fuori da qui.
Se vi interessa, vi metto il mio account Twitter. Non vi chiediìo niente, solo se avete voglia di contattarmi, potete farlo lì: sono sempre felice di parlare con le mie lettrici  http://twitter.com/#!/ChiaraRouge
Un'ultima cosa!  Date un'occhiata a questa FF di Julia, merita davvero u.u   Sunrise
Al prossimo aggiornamento, sperando di continuare ad essere puntuali!
Un bacio, Chiara. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Note dell’autrice

Io. Non. Ho. Parole.
Davvero, non so cosa dire.
11 recensioni. 11.
Sto sicuramente sognando, ma non svegliatemi.
Grazie, grazie e ancora GRAZIE. È poco, lo so, ma avrò modo di esprimervi tutta la mia gratitudine.
Avevo pensato di mandarvi uno spoiler per ringraziarvi ma purtroppo non ho davvero tempo e i capitoli non sono pronti, per cui perdonatemi.
Davvero grazie mille, non potete immaginare quanto sia estasiata da ciò. Spero di non deludervi.
Ecco qui il capitolo, postato nel giorno del mio onomastico appositamente per ricevere gli auguri u.u Ahahah Spero vi piaccia, c’è molta dolcezza *___*
Ci leggiamo di sotto, ho due cosine importanti da dirvi, buona lettura.

 
Capitolo 8


Edward Pov


Osservai di nuovo l’orologio che portavo al polso. Le diciotto e trentacinque.
Alzai di nuovo lo sguardo ed osservai il mio volto riflesso nello specchio del bagno, passandomi di nuovo un po’ di gel nei capelli.
Era incredibile essere così tesi, avevo affrontato situazioni ben peggiori.
E, in fondo, avrei voluto che quei venticinque minuti passassero velocemente.
Volevo vederla, Dio se volevo vederla.
Sapevo che non dovevo aspettarmi molto da lei, quella sera, ma ero certo che con calma sarei riuscito ad ottenere qualcosa di più.
Non dovevo pensare al tempo che diminuiva, dovevo rimanere calmo e concentrarmi sul mio obbiettivo.
Sistemai ancora il colletto della camicia a quadri blu che indossavo e tornai in camera mia.
Forse avrei dovuto portarle dei fiori. Insomma, era un appuntamento, saremmo usciti insieme, di sera.
Ed io non le avevo comprato niente.
Cosa avrebbe pensato però Bella, se mi fossi presentato con un mazzo di rose?
Magari avrebbe avuto paura e tutti i miei tentativi di avvicinamento sarebbero andati perduti.
E se invece avesse pensato che non m’importava di lei e che non avevi nemmeno pensato a portarle un fiore?
Oddio…
Perché non avevo una palla di cristallo, una bacchetta magica… perché non avevo un qualche potere sovrannaturale?
E, mentre imprecavo, mi si accese una lampadina. Alice.
Senza indugiare oltre andai in camera sua, entrando senza nemmeno bussare.
Alice se ne stava seduta sul suo letto, le gambe crociate ed una rivista sul letto.
Senza nemmeno alzare lo sguardo iniziò a parlare. < Non farò la spia Edward> Disse con voce annoiata, cambiando pagina senza nemmeno guardarla.
< Ti prego, farò quello che vuoi> La supplicai, mettendo un momento da parte la mia dignità.
Il folletto non si scompose, sfogliando ancora una volta pagina, senza nemmeno degnarmi di un’occhiata.
< No> Disse autoritaria.
Emisi una specie di ringhio, ma non si scompose nemmeno a quello.
< Almeno dimmi se devo portarle un mazzo di fiori!> Sbottai disperato, alzandomi di scatto.
< Fai quello che ti senti di fare> Rispose semplicemente.
Ero lì, quasi inginocchiato accanto al suo letto, la stavo letteralmente supplicando e lei non alzava nemmeno lo sguardo.
< Sei una strega Alice> Borbottai uscendo dalla sua stanza.
< Lo so che mi vuoi bene> Gridò per farsi sentire.
Non le prestai attenzione e volai giù per le scale.
Il mio orologio segnava ora le diciotto e quaranta.
Dovevo andare, dovevo arrivare per primo, in modo da farle capire quanto ci tenessi a quella serata.
Salutai velocemente mia madre che mi lanciò un’occhiata orgogliosa, quasi sull’orlo delle lacrime.
Una volta uscito in giardino, la mia attenzione venne catturata dalle sue rose.
Esme adorava adornare il giardino e diceva che le rose rendevano l’atmosfera romantica.
Vi perdeva molto tempo a curarle, ma i risultati erano eccellenti: centinaia di rose, solo ed esclusivamente rosse, ornavano il giardino, crescendo qua e là, profumando ogni cosa.
Il fioraio della zona veniva persino a comprarle per poi rivenderle al suo negozio.
Senza farmi vedere da mia madre afferrai le cesoie poggiate sul dondolo e mi avvicinai ad un cespuglio di rose, recidendone una e togliendole le spine.
La portai al naso e rimasi inebriato dal suo profumo fresco e dolce.
MI avviai così al molo, sforzandomi di non iniziare a correre.
Quando arrivai, il sole era quasi sparito dietro il mare, un’enorme palla di fuoco che colorava di un incredibile colore rossiccio la superficie dell’oceano.
Mi sedetti sul bordo, il mio posto fisso ormai, ed inspirai forte il profumo di salsedine, d’estate.
E mi sentii subito più tranquillo.
Se fossi rimasto nervoso per tutta la serata, Bella avrebbe capito che mi aspettavo qualcosa, e di conseguenza sarebbe fuggita da me.
E invece io non mi aspettavo proprio niente da lei, ma da me.
Nei miei ventisei anni di vita avevo avuto qualche storia, ma solo una era stata più o meno importante.
Victoria, la donna che mi ha rovinato la vita.
Stavamo insieme da due anni e già pensavamo al matrimonio quando la trovai a letto con il mio migliore amico.
Un clichè, naturale.
La mia vita si basava sui cliché, ormai.
Dire che mi aveva deluso era un eufemismo.
E la cosa peggiore era che lei continuava a negare, a dire che mi amava, che ero tutta la sua vita e che aveva fatto sesso con il mio migliore amico James solo perché io non volevo ancora farlo.
Come se fosse una cosa normale, andare a letto con un altro solo perché il proprio ragazzo non vuole avere rapporti sessuali.
Da quel giorno le cose cambiarono. Ero già militare, ma da quel giorno firmai una leva di tre anni. Ed affrontai tragedie ben peggiori.
A distanza di quattro anni ho ancora l’amaro in bocca se ci ripenso, ma in fondo è meglio così: almeno ho aperto gli occhi prima di trovarmi sposato con una traditrice.
Victoria e James si erano sposati pochi anni dopo ed erano ormai diventati genitori di Riley, uno splendido bambino di un anno e qualche mese.
Avevo visto le foto e dovevo dire che era davvero molto bello: capelli rossicci come la madre, occhi azzurri come il padre.
< Ehilà soldato> Una voce limpida e dolce mi riscosse da quei pensieri facendomi alzare di scatto.
 Bella era splendida, con indosso un semplicissimo abitino bianco con fiorellini rosa e rossi che le arrivava poco sopra il ginocchio, un cardigan vecchio e marrone sopra e un paio di infradito ai piedi.

 I capelli lasciati sciolti risplendevano sotto la luce del tramonto, mostrando i suoi riflessi rossicci.
Non era truccata e forse proprio per questo era così bella.
Aveva un grande sorriso sulle labbra che mi scaldava il cuore.
< Ciao> Salutai porgendole la rosa che avevo accuratamente nascosto dietro la schiena.
Le guance di Bella s’imporporarono, eppure il sorriso rimase lì.
Portò la rosa al naso ed inspirò il suo profumo, chiudendo gli occhi.
Era così dolce, così vulnerabile…
Quando si accorse del mio sguardo penetrante aprì gli occhi e l’incatenò ai miei, per quella che parve un’eternità.
< Vogliamo andare?> Domandai infine.
Annuì, incamminandosi al mio fianco, la rosa stretta tra le mani.
< Così il tuo super fratello ti ha lasciato uscire, stasera?> Le domandai mentre percorrevamo il pontile.
Sorrise. < Mia madre mi ha lasciato uscire. Credo che Jacob non le parli più da ieri sera> Rispose sorridendo.
< Tua madre mi piace, è simpatica> Osservai lanciandole un’occhiata.
Rise piano, un suono irresistibile. < Sì, leggermente pazza forse>.
< è molto giovane per avere due figli> Non sapevo da dove veniva tutta quella curiosità, volevo però sapere tutto di lei.
< Trentasette anni compiuti il mese scorso. Sai, è rimasta incinta di me quando aveva solo diciannove anni e dopo soli due anni di Jacob> Spiegò tranquillamente.
< Ah voleva una famiglia numerosa?> Domandai realmente sorpreso.
Scosse la testa, sorridendo. < No no, anzi. Non ce l’ha mai detto esplicitamente, ma sia io che Jacob sappiamo di essere entrambi due errori di passaggio. Sono sicura che se potesse tornare indietro ci penserebbe due volte prima di rifare lo stesso errore.> Continuò: < Sai, non è il genere di persona a cui piace rimanere a casa alla sera a cucinare o guardare i suoi figli, è per questo che ha divorziato. È venuta qui a Phoenix proprio per la vita notturna, i divertimenti. Non è una persona molto… tranquilla>.
Annuii, sforzandomi di capire.
< E non ti da fastidio? Insomma, non vorresti che si preoccupasse di più per te?> Continuai.
Alzò le spalle, giocando con il gambo della rosa. < Lei si preoccupa per me, anche se in maniera diversa. Sono cresciuta da sola, Edward, ci sono molte cose che non ho mai avuto il coraggio di confessarle ma non perché non mi fidavo di lei, piuttosto perché non sarebbe stata in grado di affrontarle. È come un’adolescente>.
Ma io mi ero perso già prima. “Ci sono molte cose che non ho mai avuto il coraggio di confessarle ma non perché non mi fidavo di lei, piuttosto perché non sarebbe stata in grado di affrontarle”.
Quella frase mi risuonava nelle orecchie, accendendo tutti i campanelli d’allarme.
Avrei voluto insistere, continuare a cercare di scoprire la realtà, ma forse era solo questione di tempo.
Forse, con calma, ci sei riuscito.
Rimanemmo per un po’ in silenzio, il solo rumore di sottofondo era il fruscio delle onde.
< Posso farti una domanda?> Intervenne lei, spezzando quel silenzio.
< Certo> Risposi sincero.
Parve esitare un po’, come a cambiare idea. Infine si decise a parlare, anche se fui quasi certo che avesse cambiato la domanda.
< Quella sera, sulla spiaggia, hai detto di essere in licenza per tre mesi quando di norma hai pochi giorni per un incidente sul campo… posso sapere cos’è successo?>.
Di solito eludevo la risposta, eppure con Bella mi venne naturale essere sincero. In fondo, se volevo saperne di più su di lei, dovevo essere totalmente sincero.
< Quando sei in guerra, pensi solo a due cose: salvarti e salvare il tuo compagno. Non importa pensare a dover uccidere qualcuno, tanto succederà ugualmente, che tu lo voglia o no. Altrimenti è inutile essere lì. T’insegnano cosa fare, come agire, ma la verità è che nemmeno i soldati più anziani sanno come funziona. Puoi avere tattiche, d’accordo, ed essere organizzati è senza dubbio un punto a tuo favore, ma quando ti trovi lì è difficile ricordare tutto. Ti affidi ai tuoi sensi, al tuo istinto e al caso. Ed io ho sbagliato. Un mio compagno è stato ferito ed io non ci ho pensato due volte e, senza preoccuparmi di salvare qualcun altro, l’ho aiutato. Anche se tornassi indietro, mi comporterei allo stesso modo perché quella era una persona, una vita, e non possono permettersi di rinfacciarmi di aver provato a salvarla. Comunque, mentre cercavo di trascinarlo via, sono stato colpito anch’io. Però io non sono morto, sono ancora qui. Non era la prima volta che succede una cosa del genere, però era la prima volta che perdevo uno dei miei migliori amici>.
Spostai lo sguardo altrove, e quando tornai a prestare attenzione alla strada davanti a me, intravidi con la coda dell’occhio l’espressione dispiaciuta di Bella e mi maledissi di averle raccontato la verità. Non perché non volevo che sapesse, ma perché volevo evitarle di conoscere i lati più tragici della guerra.
< Mi dispiace> Mormorò.
Un religioso silenzio cadde di nuovo su di noi e questa volta ci accompagnò fino al nostro “ristorante”, ovvero un chiosco ambulante che vendeva Hot Dog sulla spiaggia, appena fuori il luna Park.
< Le va di cenare qui, signorina Swan?> Domandai facendole l’occhiolino.
< Ottima scelta soldato> Rispose stando al gioco.
Altri ragazzi avrebbero scelto un ristorante vero, magari anche di lusso, avrebbero risparmiato settimane per una cena a base di pesce lussuoso.
Io no.
Avrei voluto farlo, Bella si meritava qualcosa del genere, però sapevo che se l’avessi fatto, le avrei dato l’impressione sbagliata e sarebbe sembrato fuori luogo.
In fondo, poco importava dove fossimo, a me bastava averla vicina.
Ordinammo il nostro pasto, ovvero due hot dog con chili di senape-scoprimmo infatti di amare questo condimento- ed una lattina di coca-cola.
Ci sedemmo poco più un là su una panchina. Davanti a noi, l’oceano.
< Posso farti una veloce intervista amichevole?> Esordii infine, pulendomi le mani ad un tovagliolo.
Annuì masticando il suo Hot Dog.
< Qual è il tuo colore preferito?> Iniziai.
Seppur futile, era un particolare di vitale importanza. O almeno lo era per me.
Ci pensò su, bevendo un sorso di coca. < Non ho un colore preferito, mi piacciono tutti. È stupido averne uno da preferire agli altri, perché ciò che ci circonda non può essere solo rosa o blu o verde. Anche il mare, per esempio, non è solo blu. È un miscuglio di colori> Rispose addentando un pezzo del suo panino.
< Non ci avevo pensato> Risposi sincero.
Alzò le spalle, continuando a mangiare.
< La tua pietra preferita?> Continuai.
Distolse lo sguardo, imbarazzata, e mi chiesi in che modo avesse potuto fraintendere la mia domanda.
< Mi piacciono gli smeraldi> Rispose infine, senza guardarmi.
< Piacciono molto anche a me. Come mai? Insomma, credevo che alle ragazze piacessero i diamanti> Scherzai cercando di strapparle un sorriso.
< Sono il colore dei tuoi occhi> Sussurrò avvampando subito dopo.
Dopo qualche attimo di stupore sorrisi cercando di non mettermi a gridare dalla felicità.
< Bella scelta> Commentai infine, sperando di essere riuscito a nascondere il mio euforismo. 


*****

Qualche minuto più tardi, eccoci lì, in fila alle Montagne Russe.
< Sei proprio sicura che vuoi farle? Insomma, possiamo cercare qualcosa di più… tranquillo…> Ripetei per quella che doveva essere la decima volta.
< è la terza volta che me lo chiedi, Edward. Non sono di porcellana> Rispose Bella fingendosi seccata, anche se avevo capito che era felice che mi preoccupassi per lei.
< Scusa> Borbottai prendendo i biglietti.
< Sicuro di non essere tu ad avere paura?> Mi prese in giro mentre prendevamo posto.
Le feci una linguaccia, sporgendomi verso di lei per chiuderle l’imbracatura.
Le nostre mani si sfiorarono, ed un nuovo brivido percorse il mio corpo, dalla testa ai piedi.
Prima che la giostra partisse, Bella mi sorrise, un sorriso rassicurante, incoraggiante, colmo di gratitudine.
Cercai di ricambiare e, a giudicare dalla reazione di Bella, ci ero riuscito.
Quando finalmente-o sfortunatamente, a seconda dei punti di vista-partimmo, fu quasi peggio dell’essere sopra un Caccia alla velocità di 300 km/h che faceva le piroette nel cielo.
Sentivo il mio seggiolino andare giù in picchiata, i piedi volare via così come la testa e per un attimo mi chiesi se non avessi perso le scarpe.
Avrei voluto girarmi verso di Bella, ma ero quasi sicuro che se l’avessi fatto mi si sarebbe troncato l’osso del collo.
La giostra si muoveva veloce, l’adrenalina pulsava nelle mie vene, e quando ci ritrovammo fermi, scoprii con mia grande sorpresa di voler fare un altro giro.
Quando posai i piedi per terra barcollai, pensando di schiantarmi al suolo.
Per i primi secondi mi sentii stordito, ma subito mi ripresi.
Ero ubriaco. Ubriaco di adrenalina.
< Allora soldato, ti sono piaciute le montagne russe?> Domandò Bella mentre camminavamo tra altre attrazioni.
< Devo ammettere che non sono niente male> Risposi affiancandola.
< Ora sta a te scegliere la prossima attrazione> Annunciò Bella, regalandomi uno splendido sorriso.
Mi guardai intorno e i miei occhi si posarono su una giostra illuminata da lucine identiche a quelle dell’albero di Natale se non per un particolare: tutte le lucine, assieme, formavano un disegno, ovvero un teschio.
E, sotto al gazebo che faceva le veci della biglietteria, un cartello grande con scritto “vietato l’ingresso ai deboli di cuore”.
< Allora hai scelto?> Domandò Bella osservandomi.
Non  le risposi ma lei seguì il mio sguardo, soffermandosi sul cartello.
< Allora, che ne pensi? Sei una debole di cuore?> La sfidai, le labbra arcuate in un ghigno.
Deglutì, spalancando gli occhi. < O-ok> Balbettò infine, ricomponendosi.
< Sicura di non avere paura?> Continuai sussurrandole quelle parole all’orecchio, facendola rabbrividire. Ma non ero sicuro che quei brividi fossero di paura…
Comprai i biglietti, tenendole aperta la porta della giostra.
< In ogni caso, sei con un soldato, ricordi?> Mi lanciò un’occhiataccia, strappandomi una risata.
Una volta dentro, la porta si richiuse di botto dietro di noi, le pareti vennero illuminate da una specie di laser rosso sangue ed una risata malefica la fece sobbalzare.
Ridacchiai, avvicinandomi a lei.
< Se vuoi uscire non esitare a dirmelo, d’accordo?> Domandai prima di proseguire.
Non volevo certo traumatizzarla con una stupida giostra. Volevo guadagnarmi la sua fiducia, non perderla.
Scosse la testa, facendomi segno di andare avanti.
C’inoltrammo in un’altra stanza, molto più piccola rispetto alla precedente, e questa volta, appena la porta dietro di Bella si richiuse, un enorme pupazzo di plastica piombò sulle nostre teste, facendo gridare Bella.
E, quasi senza accorgersene, entrambe le sue braccia erano arpionate alla mia.
Avanzammo ancora, entrando in stanze sempre nuove e con diversi stupidi pupazzi che sbucavano dal nulla, saltandoti addosso.
Ed ogni volta non mancavano le strette sempre più forti di Bella contro il  mio corpo.
Non sapevo se fosse giusto o sbagliato ma quando, ormai alla fine del percorso, un’enorme sarcofago di legno si aprì di scatto ed un uomo travestito da mummia ci rincorse per qualche metro, la mia mano scattò automaticamente alla vita di Bella mentre l’altra si posò sulla sua testa.
< Tutto bene?> Le sussurrai all’orecchio, massaggiandole la schiena con una mano.
Annuì. < Sì grazie però… usciamo di qui, ti va?> Mormorò con un filo di voce.
Ma il mio sguardo era preso da ben altro, come i suoi denti che mordicchiavano sensualmente le sue labbra grandi e morbide.
Una volta fuori, Bella tirò un sospiro di sollievo ed io allontanai le mani dal suo corpo, seppur controvoglia.
< Stai per svenirti? Avere un infarto?> Domandai facendola ridere mentre scuoteva la testa.
< Quindi non vuoi picchiarmi per averti portata là dentro?>.
Rise forte, alzando gli occhi al cielo < No! E poi, tutto sommato, mi sono divertita> Borbottò guardando altrove.
< Bene> Esordii riprendendo a camminare. < Direi che allora posso mostrarti le mie doti militari vincendo un enorme pupazzo che ti regalerò>.
Mi seguì sorridendo, riallacciando il braccio al mio.
E mi sembrò di volare su nel cielo, di essere sollevato da terra, di essere morto e finito in paradiso.
Quando arrivammo davanti al chiosco del tiro a segno le feci un’occhiolino prima di prendere il mano l’insulsa pistola a pallini e tirare giù tutti i barattoli di pesto.
< Complimenti, ha vinto il panda gigante> Si congratulò la proprietaria, lanciandomi un’occhiata carica di malizia e sott’intesi a cui non diedi importanza.
< Ecco a lei, Madame> Porsi a Bella il panda, facendo tanto d’inchino.
Dovevo ammettere che tra le sue braccia sembrava più grande il pupazzo di lei.
< Sei tenerissima con il peluche tra le braccia> Le dissi imitando una vocina infantile, facendola ridere forte.
< Vuoi provare a sparare?> Domandai prima di allontanarci da quel chiosco.
I suoi occhi s’illuminarono ed annuì, posando il panda a terra.
< Stai attento che sono pericolosa con questa in mano> Mormorò impugnando la pistola.
< Cerca di non uccidermi> Risposi lasciandole un po’ di spazio per tirare.
Facendo attenzione, Bella prese la mira e pigiò il dito sul grilletto, facendo così partire il primo colpo che puntualmente fece cadere un barattolo.
< Dì la verità, ti sei allenata tutta la notte per questo> La presi in giro, orgoglioso di lei.
Mi fece una linguaccia e fece esplodere il secondo colpo, prendendo un altro barattolo.
< La solita fortuna del principiante> Commentai sminuendola per gioco.
< Signor Cullen non mi dirà che si sente minacciato dalla mia bravura?> Stette al gioco, facendomi l’occhiolino.
Qualche minuto dopo ci stavamo allontanando da quel chiosco, Bella con il panda in braccio, io con un orso poco più piccolo dell’altro peluche.
< Che ore sono?> Domandò Bella indicando il mio orologio da polso.
< Le undici> Risposi sentendo il cuore stringersi.
Pochi minuti ancora e la serata sarebbe finita.
Bella sospirò forte, facendomi capire che anche lei la pensava al mio stesso modo.
Nella mia testa di accese una lampadina, e quasi senza accorgermene mi ritrovai a parlare.
< Hey, ti andrebbe di fare un’ultima giostra prima di tornare a casa?>.

Ed ora eccoci lì, sulla grande ruota panoramica semi deserta eccetto per una famigliola seduta lontana da noi, a dominare su Phoenix.
< Caspita che bella vista> Mormorò rapita Bella, osservando le milioni di luci sotto di noi.
< Caspita?> La presi in giro, beccandomi un pugno amichevole sulla spalla.
< Hai capito che cosa intendo. Tu come dici? Accipicchia? Cacchio? Oppure usa un linguaggio scurrile, signor Cullen?> Rispose ridacchiando.
Le feci una linguaccia, staccando a fatica gli occhi da lei.
Quando mi voltai di nuovo, mi persi ad osservare il suo viso rilassato: candido, perfetto, a cuore, proprio come una bambina, con la bocca rossa e carnosa e i grandi occhioni color del cioccolato. Sì, una bambina un po’ cresciuta. Era irresistibile.
Bella si voltò a sua volta, e mi beccò in flagrante ad osservarla in quel modo, quasi a metterla a nudo, eppure non ne sembrò turbata, tutt’altro. Rimase così, immobile, a guardarmi a sua volta.
Perché in fondo i nostri incontri andavano sempre così: ogni singola volta che ci vedevamo, passavamo minuti interi ad osservarci.
Ed il tempo smetteva di esistere, tutto ciò che ci circondava si ovattava, spariva. Restavamo solo io e lei, lei ed io.
Edward e Bella.
Perché in fondo noi eravamo proprio questo: Edward e Bella.
E in quelli che parvero pochi secondi ci ritrovammo di nuovo con i piedi per terra, fuori dal luna park.
Per strada non c’era nessuno, regnava un silenzio quasi incredibile per una città come Phoenix.
Ma qui eravamo lontani dai locali, per cui forse era normale una tranquillità del genere.
< Allora, il mio dipinto a che punto è?> Domandai rompendo quel silenzio.
Alzò gli occhi al cielo, ridendo. < Sei peggio di Narciso> Commentò scuotendo la testa. < Manca poco, credo che domani pomeriggio puoi venire a prenderlo>.
Sorrisi, e di sicuro non fu un sorriso di gentilezza.
Adesso avevo un’ottima ragione per vederla anche l’indomani e la cosa più bella era che aveva preso lei l’iniziativa.
Il viaggio di ritorno sembrò cortissimo, quasi pensai di aver camminato troppo velocemente.
Quando parlavo con Bella, anche delle cose più futili come il suo cibo preferito o la persona che la ispirava, il tempo volava.
Così, di fronte al suo cancello, ci ritrovammo a ciondolare entrambi sul posto, leggermente imbarazzati.
< Grazie della serata, è stata bellissima> Disse con voce bassa e dolce. Letale.
Sorrisi. < Posso dire lo stesso. Era da tempo che non passavo una serata così> Aggiunsi.
< Idem>.
< Allora… Posso venire domani?> Domandai esitante.
Sorrise. < Certo. Mia madre è fuori città e Jacob dormirà da un’”amico”> Rispose imitando le virgolette con le dita.
Ridacchiai.
< Quindi puoi venire quando vuoi: mattina, pomeriggio, sera… Fai tu> Riprese.
< Non dire così, altrimenti ti prendo alla lettera> E quella non fu proprio uno scherzo, era una mezza verità.
Sorrise, stringendo in una mano il panda e nell’altra la rosa che teneva stretta sin da quando gliel’avevo data.
< Allora… buonanotte> Dissi senza muovere un muscolo.
Vidi diverse emozioni passare velocemente sul viso di Bella: imbarazzo, incertezze e, infine, dolcezza.
Senza preavviso si mosse velocemente, avvicinando il viso al mio.
E pochi secondi dopo, le sue labbra calde e morbide si posarono sulla mia guancia, restandovi per qualche secondo e depositandovi un bacio bollente.
Quando si allontanò, gli occhi le brillavano di luce propria e le guance erano arrossate: una bambina.
< Buonanotte> Mormorò continuando a sorridermi in quel modo dolcissimo.
Le donai il più bel sorriso mai nato sulle mie labbra e, con un cenno del capo, mi allontanai sentendo  la testa incredibilmente leggera.
Isabella Swan mi aveva baciato.

 
Note dell’autrice

*coro di Alleluja si espande su EFP*
Si sono baciati *____*
So che molte di voi, se non tutte, erano sicure che si sarebbero baciati sulle labbra, ma abbiate pazienza, secondo i miei calcoli manca meno di quanto crediate u.u
Che ne pensate del capitolo? Troppo smielato?
Devo ammettere di aver liberato tutto il romanticismo in me… ma andiamo, il romanticismo è il sale della vita!
Ok, arriviamo al dunque u.u Ho una notizia buona e una cattiva.
La buona è che ho finito l'altra mia storia, Wherever you will go, ed ora potrò concentrarmi sulle due Edward e Bella che ho in corso (questa e Matrimonio a Las Vegas)
La cattiva notizia - sempre che non siate felici di questo- è che mi prendo una piccola vacanza e non garantisco prossimi aggiornamenti. Con molta probabilità, se non ci rivedremo la prossima settimana, ci rivedremo i primi di settembre...
 Bene, credo sia tutto.
Buone vacanze a tutti e... ci rivediamo presto!
Un bacio, Chiara. 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Note dell'autrice

Buonasera!
Sono tornata a casa ieri sera e anche se avevo il capitolo pronto ho preferito fare le cose con calma. Mi ero abituata ad oziare in spiaggia tutto il giorno, devo abituarmi pian piano ai ritmi frenetici invernali u.u
Comunque, parlando seriamente, le vacanze sono durate poco ma sono state splendide, a parte il fatto che sto saltando come una matta per il dolore e il prurito della scottatura alla schiena ç_ç
Sono riuscita a scrivere due interi capitoli (questo incluso) e ad iniziarne un altro. Ma non temete: ho tutto nella mia testolina! In realtà qualche notte fa, alle 3 del mattino, ho avuto un'illuminazione e mi sono scritta qualche appunto sulla successione dei capitoli per cui, motivi personali a parte, non ci saranno enormi ritardi. O almeno lo spero u.u
Ho blaterato abbastanza, vi lascio al capitolo.
Ci leggiamo in fondo, buona lettura.
P.s: ora che ho scoperto NVU amo inserire foto, per cui ne troverete un paio.
P.P.s: questo è davero l'ultimo, lo giuro. Troverete un suggerimento musicale: ascoltatelo mentre leggete perchè questa canzone sarà un pò la colonna sonora de "Il mio Soldato".
Dedico il capitolo alle mie lovely Monna e JuJu :P


Capitolo 9

Jeff Buckley - Hallelujah


Edward Pov

Quella che era iniziata come una normale e banale mattina si era tramutata in qualcosa di completamente differente.
Invece di svegliarmi e veder sbucare i primi raggi del sole, erano  sbucate dal nulla grandi nuvole grigie, cariche d’acqua.
Il mare era molto mosso, le barche si scontravano le une con le altre e le strade erano deserte.
Quando scesi al piano di sotto, trovai i miei genitori intenti a preparare qualche cestino da picnick da portare nello “scantinato anti uragano”, come lo chiamava mia madre quando eravamo piccoli.
< Che succede?> Domandai osservando la crescente agitazione tra i miei familiari.
< è in arrivo un uragano, figliolo, meglio che ci prepariamo per tempo> Rispose mio padre aiutando mia madre a preparare i pasti.
< Un uragano?> Domandai sorpreso.
Questa volta intervenne Alice. < L’ha detto anche il telegiornale>.
Rimasi leggermente perplesso di fronte a quella scoperta.
Insomma, un uragano a Phoenix, la città del sole?
< Non pensate che tutto questo sia un po’ esagerato?> Domandai indicando il tavolo della cucina completamente occupato da sacchi a pelo, torce e altre attrezzature da campeggio.
< Edward, per favore, è una cosa seria. Accendi la televisione, sentiamo cosa dicono> Mi ammonì mia madre.
Mi sedetti sul divano, sintonizzandomi sulla CNN.
“Si avvisano gli abitanti di Phoenix di recarsi in un posto sicuro e di non uscire assolutamente di casa per nessuna ragione. È in arrivo un violento uragano dal sud, in questo momento distante poche centinaia di miglia. Raccomandiamo di mantenere la calma”.
Nel soggiorno piombò un silenzio abissale: mia madre lasciò cadere una bottiglia di vetro piena d’acqua che si schiantò sul pavimento, scheggiandosi in mille pezzi; mio padre rimase immobile ad osservare il televisore ormai spento mentre i miei fratelli borbottavano preoccupati tra di loro.
Decisi che era ora di intervenire. < Avete sentito cos’ha detto il giornalista, no? Mantenere la calma. Se è ancora distante abbiamo tempo, quindi non c’è motivo di agitarsi prematuramente>.
I miei seguirono le mie istruzioni e pochi minuti dopo ci ritrovammo a scendere nel buio e umido seminterrato.
Aiutai mia madre ad accendere le torce e le lampade ad olio, a sistemare le nostre cose e ad accendere la piccola radio di mio padre.
Quando finimmo di sistemarci e mi sedetti su un sacco a pelo, fu allora che mi tornarono alla mente le parole di Bella, la sera precedente.
“Mia madre è fuori città e Jacob dormirà da un’ amico”, Aveva detto.
Bella era sola, e lo sarebbe stata per tutto il giorno.
Oh mio Dio.
Ancor prima di pensare a qualsiasi cosa mi ritrovai in piedi, pronto ad uscire fuori.
< Santo cielo Edward che cosa vuoi fare?> Gridò mia madre preoccupata quando mi vide correre sulle scale.
< Bella è da sola! Non posso lasciarla ora!> Gridai a mia volta, preso ormai dal panico.
< Edward non è sicuro uscire ora, non sappiamo dove sia arrivato l’uragano. Magari Bella è andata da un conoscente, un nonno, il padre…> Intervenne mio padre, afferrandomi per un braccio.
Scossi la testa. < Il padre non è qui, non so dove siano i suoi parenti ma so che in questo momento è sola! Non posso lasciarla> E così dicendo, mi liberai dalla sua stretta e mi diressi verso la botola.
< Non uscite di qui, per nessuna ragione al mondo. Se non farò in tempo a tornare rimarrò la, ma che nessuno esca di qui> Ordinai prima di farmi forza, aprire la botola e iniziare a correre.
Fuori il cielo era nero, la pioggia aveva iniziato a scendere forte, facendomi quasi male e il vento era talmente forte che dovevo concentrarmi per non lasciarmi portare via.
Correvo, correvo e correvo, veloce e disperato come non mai.
Niente poteva fermarmi, né le palme che, piegate dal vento, cadevano intorno a me né le tegole dei tetti che si frantumavano ai miei piedi.
Forse ero ferito, stavo sanguinando o forse piangevo, non lo so, solo continuavo a correre sperando di arrivare in tempo, sperando di riuscire a trovarla. Viva.
Mai come allora quei pochi metri che separavano le nostre case mi erano sembrati più lunghi.
Quando finalmente intravidi la casa, cercai di aumentare il ritmo.
Caddi, inciampai in qualche tegola, mi tagliai con dei rami, ma mi rialzai, ancora e ancora, il dolore fisico annientato dall’adrenalina.
Intorno a me regnava il caos più totale: non si sentivano voci, cinguettii ma fischi, boati inquietanti e l’allarme uragano che suonava imperterrita.
Dentro di me continuavo a ripetermi solo una cosa “fa che non sia troppo tardi”.
Quando arrivai al suo cancello e la vidi, il mio cuore perse un battito.
Bella era inginocchiata a terra, il viso nascosto e una macchia scura sulla sua camicetta azzurra.
Sangue?

*****

Bella Pov

Per la prima volta in tutta la mia vita, mi svegliai con il sorriso sulle labbra.
Non c’erano raggi di sole che illuminavano la stanza, non c’erano uccellini che cinguettavano o gabbiani che stridevano.
Un vento freddo entrava dalla finestra, facendomi tremare e il cielo era scuro, con grandi nuvole cariche di pioggia.
Ma nonostante il brutto tempo, ero felice come non mai.
I ricordi della sera precedente mi tornavano alla mente e sentivo le farfalle nello stomaco, il cuore battere forte e le guance arrossarsi.
Avevo baciato Edward Cullen.
Io, Isabella Swan, avevo preso l’iniziativa.
Certo, non l’avevo proprio Baciato con la B maiuscola, ma per me quel gesto era già molto.
Nella mia vita avevo sempre avuto difficoltà nei rapporti con ragazzi del sesso opposto per ovvie ragioni, e fare quel passo avanti era un notevole progresso. Ero fiera di me stessa.
Certo, lo conoscevo da poco, eppure sin dall’inizio sapevo che di lui poteva fidarmi.
Non chiedetemi come, solo lo sapevo.
E pensare che di lì a poche ore l’avrei rivisto, mi riempiva di gioia.
Fu quello il motivo per cui mi buttai letteralmente giù dal letto invece di rimanere a crogiolarmi ancora un po’ tra le lenzuola.
Mi affacciai fuori dalla finestra della mia stanza e rimasi perplessa di fronte al brutto tempo, decisamente raro per gli standard di Phoenix, la città del sole.
Dato che ero già da sola e lo sarei stata per le prossime 24 ore, mi concessi un lungo bagno rilassante nella vasca.
Accesi perfino un paio di candele profumate che conservavo gelosamente nel mio beauty-case.
Non era da me fare una cosa del genere, ma per una volta non me ne preoccupai.
Quando esaurii le cose da fare al piano di sopra, mi diressi in cucina, preparando la colazione.
Non ero abituata ad essere sola e senza cose da fare, e se non avesse iniziato a piovere probabilmente avrei fatto una passeggiata o sarei scesa in spiaggia.
I miei occhi si posarono sulla splendida rosa rossa sistemata dentro ad un vasetto di vetro, con acqua fresca.
Non era ancora appassita e continuava ad emanare il suo delizioso profumo.
Solo osservarla mi procurava una piacevole stretta allo stomaco, e la fame con cui mi ero svegliata se ne andò e la sola idea di ingerire del cibo mi dava il voltastomaco.
Decisi allora di andare nel mio “studio”, ovvero un minuscolo sgabuzzino con tanto di porta a soffietto mezza rotta e le pareti completamente imbrattate.
Tutte le mie tele, i miei disegni, i pennelli e altri strumenti vari erano lì, stipati in un angoletto.
Non era granché eppure era tutto per me.
Accesi la lampadina che oscillava sopra la mia testa e scoprii il famoso ritratto.
Era ormai terminato, ma volevo ritoccare qualche linea.
Non avevo mai lavorato prima con i carboncini, eccetto un solo disegno, per cui non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori.
Di sicuro era molto realistico, o almeno lo era per i miei standard.
Mi sedetti sul minuscolo sgabello di legno, intagliai il carboncino e mi rimisi al lavoro.
Mentre rifinivo il suo viso, inserivo qualche riflesso, qualche ricciolo nei capelli, mi accorsi di avere un sorriso enorme stampato sulle labbra.
Era gratificante vedere come il suo viso prendeva forma, come i lineamenti si univano formando un volto, un paio d’occhi o una mascella.
Sembrava un volto divino, un’opera della fantasia di un qualche famoso scultore.
E pensare che le mie labbra si erano posate su quella guancia che proprio ora stavo rifinendo, mi fece tremare le mani.
Fui costretta a fermarmi qualche minuto prima di poter riprendere.
Ero stupida, un’adolescente alla sua prima cotta, forse persino patetica, ma non riuscivo a pensare ad altro.
Edward e i suoi occhi luminosi, Edward e le sue mani morbide, Edward e la sua risata allegra, Edward e la sua voce roca…
Mi chiesi se quello non fosse un sogno, uno stupido, bellissimo sogno dal quale mi sarei svegliata presto.
Come poteva un ragazzo come Edward essere interessato ad una ragazzina come me?
Insomma, lui aveva ventisei anni, io diciotto; lui era bellissimo, io no; era un militare, una notevole carriera alle spalle mentre io stavo per iniziare il mio primo anno come matricola alla New York University…
Era come se lui fosse il sole, la stella più luminosa di tutte, ed io una delle tante, uguali e monotone stelle senza nome.
Mi sentivo insignificante in confronto a lui.

Quando qualche ora dopo ebbi realmente completato il ritratto, lo firmai con il carboncino, scrivendo il mio nome e cognome in corsivo minuscolo in basso a destra.
Lo coprii e sistemai a fianco al divano.
Tornai di sopra, mi lavai le mani e cambiai i vestiti.
Sapevo che era stupido, nella mia vita non avevo mai dato molta importanza a ciò che indossavo, ma non quel giorno.
Anzi, quell’estate…
Aprii l’armadio e tirai fuori una camicetta azzurra ed un paio di jeans scuri.
Pettinai di nuovo i capelli e li lasciai sciolti.
Mi sedetti quindi sul divano, guardandomi intorno.
Chissà a che ora sarebbe arrivato Edward…
Sentii il panico montare e decisi allora di leggere un libro, giusto per distrarmi un po’.
Optai per Jane Eyre, il mio libro preferito in assoluto, e mi rannicchiai sul divano a leggere, illuminata dalla debole luce soffusa della lampada da terra che si trovava a fianco del divano.
E mi immersi nelle campagne inglesi assieme a carri trainati da cavalli e lunghi abiti con pizzi e merletti.

Non so quanto tempo era passato, ma dopo quella che a me parve un’eternità, sentii un rumore assordante proveniente dal piano di sopra, tutte le finestre intorno a me si aprirono di scatto,  i vetri scoppiarono ed un vento fortissimo fece volare ogni cosa: fogli, piatti di ceramica, lampade, lampadari, centri e altre mille cose.
Mi alzai di scatto, presa dal panico, e corsi alla finestra.




 E ciò che vidi mi lascio senza fiato: un’enorme tromba d’aria si muoveva velocissima, avvicinandosi sempre di più.
 Con gli occhi sbarrati dal terrore e le mani sanguinanti per i vetri infranti a cui mi ero appoggiata, corsi fuori.
 Non avevo mai assistito ad un uragano, ma sapevo che la botola nel giardino apriva lo scantinato e che dovevamo nasconderci lì in casi come quello.
 Il vento era talmente forte che mi sentivo volare via. Mi tenevo con le mani a qualsiasi superficie trovavo, ma quando inciampai nella radice di un albero estirpato e      Sentii un dolore lancinante alla caviglia, non riuscii più ad aggrapparmi a qualcosa e mi lasciai cadere per terra.
 Provai a rialzarmi, ancora e ancora, ma non ci riuscivo.
Sentii lacrime calde colarmi giù dalla guance e la consapevolezza di essere sola assalirmi, schiaffeggiandomi.
Ero sola, ferita, e pochi minuti ancora e sarei stata spazzata via da una tromba d’aria.
Fu allora che lo sentii.
Una, due, tre volte.
Pensai di stare sognando, di avere un’allucinazione.
< Bella!> Questa volta lo sentii di nuovo, più vicino.
Mi voltai e lo vidi: come un miracolo, lui era lì, i vestiti bagnati e sporchi di terra, gli occhi spalancati e terrorizzati, eco dei miei.
Continuò a correre, piegato dal vento, verso di me.
E quando fu a pochi centimetri da me, lo presi per mano e lo tirai verso di me, facendolo cadere in ginocchio accanto a me.
Senza pensare, mi strinsi a lui, il mio corpo circondato dalle sue braccia calde e rassicuranti, i miei singhiozzi sul suo collo.
Ci stringemmo forte, come se quelli fossero i nostri ultimi minuti insieme , e forse era davvero così.
Quando infine ci staccammo, i miei occhi si spalancarono, terrorizzati.
< Ed… Edward> Mormorai incapace di dire altro, osservando l’enorme tromba d’aria dietro di noi, a pochi metri da noi.
< Vieni!> Gridò prendendomi per mano ed aiutandomi ad alzarmi.
La botola dello scantinato non si apriva, cigolava, sbatteva ma non si apriva.
Aiutai Edward a tirare, ancora e ancora, supplicando chiunque purché si aprisse e, quando successe, entrambi ci buttammo dentro, cadendo rovinosamente per le scale, ma entrambi senza sentire dolore.
Una volta dentro, Edward la chiuse e l’oscurità piombò su di noi.
< Edward?> Singhiozzai incerta nell’oscurità.
< Ssh, sono qui. Resta ferma dove sei, cerco una torcia> Rispose muovendosi nel buio.
Sentii dei colpi, qualche imprecazione, strani acciottolii e diversi boati.
E proprio mentre stavo per domandare qualcosa, una luce si accese e il volto di Edward venne illuminato.
< Stai bene?> Chiese avvicinandosi a me.
Annuii, scossa. < Ho solo preso una storta> Risposi stupendomi di sentire la mia voce così strana, così acuta…
E, mentre Edward stava per posare la torcia ed abbracciarmi, sentimmo un lamento.
Entrambi spalancammo gli occhi, guardandoci interrogativi.
< Cos’è stato?> Domandai cercando di sentire dell’altro.
< Non lo so> Rispose Edward, imitandomi.
< Resta qui, vado a vedere> Disse dirigendosi verso le scale.
Afferrai il suo braccio, provando a fermarlo. < è pericoloso!> Gridai terrorizzata.
Edward mi accarezzò la mia mano, facendomi mollare la presa sul suo braccio.
Puntò la luce verso il mio viso, e mi guardò dritto negli occhi, con una determinazione che mai gli avevo visto dentro.
Ordinò prendendomi la mano, depositarvi la torcia ed aprire di nuovo la botola.
Iniziai a contare mentalmente il tempo, ordinandomi di non piangere.
Mai come in quel momento mi ero sentita tanto inutile.
Sentii dei colpi, acciottolii, boati.
Continuai a contare, ancora e ancora, ma quando i minuti continuavano a passare, i colpi a farsi sempre più vicini, non resistetti e uscii fuori, fregandomene degli ordini di Edward.
Osservai l’enorme ammasso d’aria continuare il suo percorso, ormai lontano qualche metro da noi, ma non fu certo quello a catturare la mia attenzione.
E fu in quel momento che la grandezza di quella catastrofe mi colpì, facendomi capire quanto fossi stata vicina a perderlo mentre io ero al sicuro nello scantinato sotto di lui.
Edward si voltò di scatto, ma non gli lasciai tempo per dire o fare niente.
Le mie gambe presero a muoversi da sole ed ebbe solo il tempo di afferrarmi per la vita e sollevarmi prima che le nostre labbra s’incontrassero, dando vita al mio primo, vero bacio.





  E dentro di esso c’erano milioni di emozioni: terrore, spavento, morte, gioia, incredulità, amore.
 Eravamo vivi, sani, in salute, e anche se intorno a noi regnava la morte, la distruzione, una catastrofe, il nostro amore era più grande di qualunque altra cosa.
 Il suo corpo bagnato premeva contro il mio, la sua bocca bollente sulla mia, la sua lingua sul mio palato, il suo sapore nella mia bocca.
 La pioggia continuava imperterrita a cadere su di noi, continuando ad inzuppare i nostri vestiti, a bagnare le nostre bocche.
 Ma nessuno dei due sentiva freddo.
 C’eravamo solo io e lui, Edward e Bella, due ragazzi  appena scampati da una catastrofe, due ragazzi che avevano appena visto la morte nei loro occhi.


Note dell'autrice

Non so per voi, ma io mi sono commossa a scrivere questo capitolo. 
Finalmente l'atteso bacio... So che lo avreste immaginato diversamente, ad essere sincera pure io, ma è l'unica cosa che mi piace del capitolo xD
Prima di dimenticarmene, vorrei chiarire una cosa: la macchia sulla camicetta di Bella non è sangue, ma terra bagnata xDD
Voglio ringraziare le splendide persone che hanno recensito numerose lo scorso capitolo, chi ha aggiunto la storia alle preferite/seguite/ricordate e chi mi ha contattato privatamente per posta o su Twitter: il vostro supporto è importante per me e sentirvi è un'enorme piacere!
Alla prossima settimana!
Un bacio, Chiara. 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Note dell’autrice

Buonasera!
Questo è un momento piuttosto triste, dato che sto postando l’ultimo capitolo estivo.
Non so voi, ma Lunedì ricomincia la scuola per me… E insieme ad essa le lezioni di danza e tutti gli altri impegni…
Quindi, oltre alla disperazione per il non poter più andare a letto alle quattro del mattino e svegliarsi a mezzogiorno, fare tutto il giorno ciò che voglio, scrivere quando voglio, si aggiunge il dispiacere per il non sapere se sarò ancora puntuale.
Questo era l’ultimo capitolo pronto, ne ho ancora metà del prossimo, ma è poco più di un paio di pagine, per cui dovrò allungarlo e sistemarlo.
Spero vivamente di riuscire a continuare a postare una volta a settimana, mi impegnerò per questo, in ogni caso spero che capiate e colgo l’occasione per informarvi che, nella mia pagina di autore, alla fine della presentazione, c’è un angolo dedicato agli avvisi inerenti agli aggiornamenti. Quindi, se non troverete i capitoli, fateci un salto.
Vorrei ringraziarvi di cuore per tutte le recensioni che mi avete lasciato: non ne avevo mai ricevute così tante, grazie di cuore.
Vorrei mandarvi spoiler, ve li meritereste, ma non ho tempo per rispondere alle vostre recensioni, figuratevi mandarvi lo spoiler a tutti… E sinceramente non so nemmeno come fare.
Avevo pensato di creare una pagina Facebook ma ho paura che non sia seguita… che ne pensate?
Ok, vi lascio al capitolo, ho parlato troppo.
La canzone che mi ha ispirato è questa, ascoltatela se volete.
Ci leggiamo in fondo!


 
Capitolo 10

Bella Pov

Erano passati tre giorni dall’uragano. Tre lunghi giorni in cui i nostri occhi si erano a malapena incrociati.
Ogni volta che uno di noi era vicino all’altro, lo sentivamo: l’aria intorno a noi diveniva carica e senza neanche accorgercene alzavamo gli occhi, ritrovandoci.
Ci sorridevamo, dal lato opposto della strada, tutti quanti intenti a sistemare i danni di quella catastrofe.
Tutti noi cittadini collaboravamo, come un grande gruppo unito.
Alcuni avevano perso delle persone, altri delle case. Una disgrazia.
Ero giovane e stupida, me ne rendo conto, ma quando Edward era davanti a me, tutto il dolore e la morte si ovattavano.
Non sparivano, non potevo dimenticare la realtà in cui vivevo, ma quando lui era vicino mi sentivo al sicuro, tutto il dolore passava in secondo piano.
Perché in fondo per me c’era solo lui, e non vederlo per giorni di fila era un dolore quasi fisico.
Mi mancava. Tanto.
Con indosso un paio di vecchi jeans, stivaletti di gomma, una canottiera ormai sporca di terra ed una bandana per tenere indietro i capelli, stavo spazzando la veranda, raccogliendo i numerosi ciottoli da terra.
Il giardino sembrava ancora un cimitero senza lapidi, il dondolo di mia madre era ormai un vecchio ammasso arrugginito di ferro, portato a far sgomberare alla discarica più vicina.
Per fortuna in casa i danni non erano stati poi così grossi. Certo, avevamo impiegato un intero giorno per raccogliere tutti i vetri ed eravamo con poche lampade, ma in confronto ad altre case, la nostra era ancora integra.
Il caldo torrido era tornato, così come il sole, ma in giro non c’era nessuna voglia di correre in spiaggia, di uscire alla sera.
La gente amava piangersi addosso, farsi compatire dagli altri, mentre io avrei voluto gridargli in faccia: “Smettetela di compatirvi, di piangere per le vostre case distrutte. Siete vivi, e questo è ciò che conta!”.
Gli unici che sembravamo essere grati di esserne usciti illesi eravamo noi, la famiglia Swan.
Nel bel mezzo di quella disgrazia, però, non riuscivo a smettere di pensare a lui.
Mi vergognavo di me stessa, di ciò che sentivo, dei miei pensieri perfino, ma non potevo farci niente.
Non avevo mai provato qualcosa del genere per un ragazzo, e sentivo le emozioni sopraffarmi, confondermi.  
Ero innamorata?
Forse.
Avevo paura?
Sì, certo che sì, ma di cosa non riuscivo a capirlo.
Erano cambiate così tante cose…
Dovevo prendermi qualche minuto per me, per pensare a ciò che era successo, ma nessuno mi concedeva quel minuto.
Dovevo sempre fare qualcosa: cucinare, portare la zuppa alla vicina, lavare, spazzare…
In fondo era quello che avevo sempre fatto, e non potevo lamentarmene.
Eppure mi sembrava tutto così diverso… Io ero diversa.
E non sapevo come comportarmi. Non ero mai stata un’esperta di queste cose e non avevo migliori amiche alle quali chiedere consigli.
Beh, certo, c’era mia madre ma… era diverso.
Alzai lo sguardo, intenta a rimirare il giardino, quando la mia attenzione venne catturata da qualcos’altro: Edward era lì, appena fuori dal mio cancello, il suo bellissimo sorriso sghembo sulle labbra.
Alzò una mano, sventolandola leggermente, e solo qualche secondo dopo mi accorsi del biglietto che vi teneva.
Lo indicò, si guardò intorno e, velocemente, lo nascose nella cassetta della posta che avevo appena rimesso al suo posto.
MI fece l’occhiolino, mimando con le labbra un “Ti sto aspettando” e se ne andò tenendo le mani in tasca.
Non potei trattenermi dal sorridere come una cretina mentre lo osservavo allontanarsi.
Sentivo il cuore battere forte e le mani sudare.
Mi guardai intorno a mia volta e, quando fui certa che nessuno mi vedesse, aprii la cassetta della posta e vi trovai il biglietto.
“Non ho più avuto modo di vederti in questi giorni… mi manchi.  Ti aspetto oggi pomeriggio alle due al pontile, cerca di liberarti.  Voglio vederti, Bella. Con affetto, Edward”.
Sentii le mie labbra incurvarsi in uno dei sorrisi più grandi che avessi mai fatto e non tentai nemmeno di riprendermi: non ci sarei mai riuscita.
Nascosi il biglietto nella tasca dei miei jeans e tornai a lavoro: avrei dovuto sbrigarmi se volevo davvero incontrarlo.

*****

< Sai Bella a che cosa stavo pensando?> Esordì mia madre, seduta davanti a me al nostro tavolo della cucina, intenti a mangiare la mia zuppa.
< Cosa?> Domandai prendendo un’altra cucchiaiata di quella brodaglia.
< Dovremo portare dei biscotti ai Cullen> Disse seria, facendomi quasi strozzare con la minestra.
< Perché?> Domandai terrorizzata.
Forse sapeva qualcosa… Insomma, una madre si accorge sempre di certe cose, o no?
< Hai dimenticato che cosa ha fatto Edward per te? E non mi riferisco solo a qualche giorno fa…> Mi lanciò un’occhiata indecifrabile, ma in fondo sapevo bene che cosa intendesse.
Mi ricomposi immediatamente. < Oh ehm… certo. Potrei prepararli nel pomeriggio? Volevo andare a fare una passeggiata… così, per schiarirmi un po’ le idee>.
Mia madre ridacchiò, ma non aggiunse altro.
< Fai quello che vuoi tesoro> Rispose infine.
Nel frattempo, non riuscii a non notare lo sguardo di Jacob che si alternava tra me e mia madre.
< Che cosa c’è?> Sbottai seccata, guardandolo dritto negli occhi.
Mi guardò a lungo con fare inquisitore. Poi posò il cucchiaio nel piatto, unì le mani sul tavolo e iniziò a parlare con tono grave.  < Che cosa c’è fra te e quello là?> Sbottò.
< Quello là ha un nome, Jake> Gli feci notare, posando a mia volta il cucchiaio nel piatto. < Si chiama Edward>.
< Come ti pare. Allora?> Continuò sfidandomi con lo sguardo.
< Non c’è assolutamente niente, siamo solo amici> Risposi svelta, spostando lo sguardo altrove.
< E allora perché ogni volta che ne parli diventi tutta rossa? Non sei brava a mentire, Bella!> Continuò al limite della sopportazione.
< Senti Jake, datti una calmata. Non c’è niente tra di noi, e se continui a fare così non ci sarà mai niente> E non appena pronunciai quelle parole, mi pentii subito di averle dette.
Osservai Jake che mi guardava a sua volta, gli occhi fuori dalle orbite e la mascella a toccare terra.
< Che cosa? > Gridò, lasciando cadere qualcosa per terra.
Oh cavolo…
< Senti Jacob, non pensi che anch’io abbia il diritto di farmi una vita?> Domandai non proprio gentilmente.
Sbuffò, spostando lo sguardo altrove come un bambino testardo.
< Tu non hai Rebecca?> Intervenne mia madre, calmissima.
Jacob aprì la bocca per protestare, ma la richiuse subito. < E Bella ti ha mai fatto almeno la metà di tutte le sceneggiate che stai facendo tu?> Continuò.
Jake scosse la testa, lo sguardo basso.
< Non voglio che ti succeda niente, tutto qua> Ammise infine, lanciandomi uno sguardo d’intesa che a mia madre sfuggì, ma non a me.
Sorrisi debolmente.
< E te ne sono grata Jake, davvero, ma Edward è un bravo ragazzo, non ha mai fatto niente che mi abbia dato fastidio. Ti chiedo solo di fidarti di me>.
Sbuffò sonoramente, sapendo di essere nel torto.
< OK> Mormorò infine.
Sapevo che la “Questione Edward” non era ancora terminata, ma almeno per il momento era l’ultima cosa a cui volevo pensare.

*****


Qualche ora più tardi eccomi lì, appena fuori dal cancello di casa con il cuore a mille.
Sapevo che era stupido e infantile, eppure non riuscivo a calmarmi.
Non ero nervosa, piuttosto, eccitata.
Sì perché al solo pensiero di vederlo avrei iniziato a correre.
Volevo vederlo, sfiorarlo, sentire le sue braccia calde e forti intorno al mio corpo a rassicurarmi che tutto andava bene.
Quando arrivai al pontile, quasi iniziai a correre vedendolo di spalle, seduto al suo solito posto.
MI tolsi le infradito, sperando di non far rumore per sorprenderlo e stranamente non si voltò, anche se ero abbastanza sicura che mi avesse sentito.
Avrei voluto abbracciarlo da dietro, cingergli le spalle con le mie braccia e strappargli un bacio, ma non mi sembrava il caso. Non ancora, almeno.
< Ciao> Salutai eccitata, fallendo miseramente al tentativo di mostrarmi normale.
Mi regalò di nuovo il suo sorriso, facendomi perdere un battito.
< Ciao> Ripeté facendomi segno di sedermi accanto a lui.
Lo feci e mi avvicinai il più possibile.
Tutto ciò era incredibile per me, dato che avevo sempre mantenuto le distanze da tutti.
Eppure sapevo che di lui potevo fidarmi.
< Come stai?> Domandò continuando ad osservarmi.
Sentivo il suo sguardo penetrante scorrere sul mio viso, come in cerca di qualcosa o, semplicemente, cercando di immagazzinare quanti più dettagli possibili, proprio come facevo io quando dipingevo.
< Bene, adesso> Mormorai sentendo le mie guance avvampare.
< Sei tenera quando diventi rossa> Mormorò con voce bassa, roca. Mortale.
Distolsi lo sguardo, lo stomaco sottosopra.
< Mi sei mancata, Bella> Continuò e, a quel punto, non guardarlo diventò praticamente impossibile.
Volevo vedere i suoi occhi mentre sussurrava quelle parole che avevo sempre sognato mi dicesse.
< L’altro giorno sono successe un bel po’ di cose e non abbiamo avuto occasione di parlarne…>.
Già, l’altro giorno.
Iniziai a mordicchiarmi le labbra, sia per evitare di sorridere come un’ebete sia per l’agitazione.
Lui mi aveva semplicemente salvato, ero io quella che gli era saltata addosso…
< Perché sei venuto da me?> Domandai improvvisamente. < Voglio dire, durante l’uragano. Perché sei venuto?> Aggiunsi spostando lo sguardo sull’oceano sotto di noi.
Sentii le sue mani, morbide e calde, alzarmi il mento, obbligandomi a guardarlo negli occhi.
< Perché Dio solo sa quanto tengo a te, Bella. Ogni volta che non sei con me, impazzisco. Quando so che sei da sola non riesco a controllarmi… Non c’è un perché Bella. Io… io sento che devo proteggerti. Da tutto. E quando mi sono ricordato che eri da sola… Non lo so. È scattato qualcosa. Eri in pericolo ed io dovevo salvarti. Ci tengo molto a te, Bella, e perderti… perderti sarebbe come perdere una parte di me stesso>.
Sentii il respiro spezzarsi in gola, il cuore prendere il volo.
< Lo so, sembra impossibile, ci conosciamo appena da qualche settimana, ma… è come se ci conoscessimo da tutta la vita> I suoi occhi brillavano talmente forte da farmi capire quanto sincere fossero quelle parole.
< Dì qualcosa Bella, ti prego> Supplicò dopo quelle che parvero ore di silenzio.
< Io… non so cosa dire> Sussurrai senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi.
< Quello che hai detto… sono i miei pensieri> continuai giocando con le mie dita.
< Che cosa sta succedendo Edward?> Mormorai talmente piano da credere che non mi avesse sentito.
Eppure non fu così.
< Non lo so… Che cosa vorresti che succedesse, Bella?> Domandò, e questa volta, le sue dita sfiorarono le mie, facendomi rabbrividire.
Alzai lo sguardo, osservando i suoi occhi: quei due smeraldi erano capaci di parlare al posto suo.
Poi, con una lentezza esasperante, avvicinai il viso al suo, fino a posare le mie labbra sulle sue.
< Questo> Sussurrai dolcemente, dando vita al bacio più dolce che avessi mai dato in vita mia.


Note dell’autrice

Troppo sdolcinato? Spero di no.
Secondo me la canzone era perfetta per quest’ultima parte, ditemi la vostra.
MI dispiace se non risponderò alle recensioni puntualmente, ma non ho davvero tempo…
Vorrei avere giornate di 36 ore per poter rispondere a tutte voi, per conoscervi…
Fatemi sapere che ne pensate dell’idea della pagina e del capitolo.
Spero di riuscire a postare giovedì, in ogni caso, buon inizio a tutte!
Un bacio, Chiara.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Note dell'autrice

Buonasera! Come sono andati i primi giorni di scuola? I miei uno schifo, tante novità inutili. Ho passato i primi due giorni in una stato di depressione, adesso mi sono ripresa xD
(S) fortunatamente, mi sono convinta a fare la pagina Facebook! La trovate QUI, mi sto impegnando per esserci e anche se per ora è ancora in fase di "sperimentazione" spero che in qualche giorno riesca a sistemarla.
Detto questo, vi lascio al capitolo che, se avesse dovuto avere un titolo, si sarebbe chiamato "I Cullen"... Chissà perchè...
è il più lungo, fino ad ora, spero vi piaccia.
Le prime pagine le avevo scritte sulla spiaggia, in campeggio qualche settimana fa, e ricopiarle qui è stato traumatico O.o
In questo capitolo ci saranno qualche piccola novità, spero vi piacciano!
Ci leggiamo in fondo, buona lettura!


Capitolo 11

Bella Pov

Passai nuovamente la spazzola nei capelli. Una, due, sei volte.
Calmati Bella, non c’è motivo di essere nervosa, mi ripetevo come un mantra.
In fondo, non era mica una presentazione ufficiale?
Sarei andata là, la mia teglia di biscotti allo zenzero in mano, un sorriso gentile sulle labbra. Avrei poi detto frasi formali, gentili, e avrei dato il via ad una conversazione di circostanza, mostrandomi interessata a tutto ciò che i Cullen avrebbero detto.
Un gioco da ragazzi, certo.
Sicuramente.
E allora perché mi sentivo così nervosa, come se fossi stata invitata ad un pranzo con la Regina?
Il perché lo sapevo pure io: per quanto le cose fra me e Edward non fossero ufficiali, stavo pur sempre andando a conoscere i suoi genitori.
Sapevano di noi?
Ma soprattutto, che cosa eravamo io e Edward?
Una coppia?
Mille domande, nessuna risposta.
Penserete che fossi stupida, che la verità era visibile persino ad un cieco.
Beh, sapevo che due amici non si baciavano sulle labbra, non si tenevano per mano, ma non potevo nemmeno avere la presunzione di dire “Sì, siamo una coppia”.
Era passato solo un giorno dal nostro secondo bacio, e il poco tempo che avevamo avuto a disposizione lo avevamo usato per… approfondire la conoscenza delle nostre labbra.
Non che mi dispiacesse, tutt’altro.
Baciare Edward era un qualcosa di magico, indescrivibile.
Era come prendere il volo senza paracadute e ritrovarsi sospesi nel cielo, una delle cose più belle che avessi mai provato in tutta la mia vita.
D’accordo, non avevo esperienze nel campo, non potevo confrontarlo con altri baci, ma dubitavo di poter provare qualcosa di simile con un’altra persona che non fosse Edward.
Diciamo pure che non m’interessava provare questo genere di cose con qualcun altro.
Non riuscivo a capacitarmi della sfortuna sfacciata che avevo avuto: Edward.
Era cento volte meglio che vincere alla lotteria: quello era un premio materiale, soldi, qualcosa di esauribile.
Edward no.
C’erano tanti dubbi: cosa avremmo fatto alla fine di quell’estate, quando avremmo preso strade completamente differenti?
Nessuno lo sapeva, nessuno.
L’amore e la guerra non vanno d’accordo, dicevano, ma era davvero così?
Potevamo essere l’eccezione?
Non volevo pensarci troppo, in fondo potevano accadere ancora moltissime cose…
Speravo solo i non arrivare mai al voler dimenticare lui e quei momenti. Il voler dimenticare era anche peggio del dimenticare stesso: triste, penoso, senza senso.

*****

Tolsi i miei biscotti dal forno e ne rimasi abbastanza soddisfatta: le forme erano quasi perfette, la crosta dorata e croccante.
Ne assaggiai uno e, soddisfatta, li riposi in un vassoio d’argento.
Mi piaceva cucinare, era una cosa rilassante.
Non ero brava a cucinare primi o secondi piatti, ma dolci: torte, pasticcini, pancakes, biscotti, cupcakes e chi ne ha più ne metta.
Probabilmente ero brava a prepararli perché amavo mangiarli una volta pronti…
< Hey tesoro> Venni distratta da mia madre che fece il suo ingresso in cucina, sbucando da chissà dove.
< Stai andando dai Cullen?> Domandò prendendo furtivamente un biscotto dalla teglia.
Attesi il verdetto finale coprendo il vassoio con la pellicola da cucina, in modo da proteggerli, anche da lei.
Chiuse gli occhi e iniziò a mugolare come da copione per ogni dolce, segno che apprezzasse.
< Sono sublimi tesoro> Disse finendo di masticare il biscotto.
Sorrisi soddisfatta e mi avviai verso la porta, autoconvincendomi di essere calma.
Uscii di casa con il sorriso sulle labbra, ormai sicura di esserlo davvero.
< Ehm, Bella, tesoro? Hai dimenticato la teglia in cucina>.
Come bugiarda ero davvero scarsa…

*****


Arrivata davanti il cancello di casa Cullen, mi sentii venir meno.
Le gambe tremavano, le mani erano sudate e il mio cuore sembrava schizzare fuori dal petto.
Era una reazione spropositata, lo sapevo bene, eppure non riuscivo a calmarmi.
Non essere codarda, Bella, mi dissi posando l’indice sul campanello.
Lo tenni premuto qualche secondo, poi ricominciai a saltellare sul posto, nervosa come non mai.
< Entra pure!> Sentii una voce giovanile e dolce gridare, probabilmente nascosta da qualche parte in giardino.
Con una lentezza estenuante aprii il cancello ed entrai.
Il giardino non era enorme, eppure mi aveva rapito: l’erba era di un verde brillante, corta, tagliata in modo perfetto; Tutt’intorno al giardino, c’erano centinaia di bellissime rose rosse, con petali grandi, scuri, ed estremamente profumati.
Le riconobbi subito: erano identiche a quella che Edward  mi aveva portato la sera del luna park.
< Tu devi essere Bella> Mi voltai, osservando attentamente la proprietaria di quella voce calda.
Era una giovane donna, avrà avuto più o meno l’età di mia madre, ma sembrava molto più dolce.
Aveva i capelli lunghi raccolti in uno chignon basso e ordinato, il viso tondo e gli occhi di un castano talmente chiaro da sembrare dorati.
Indossava una salopette di jeans, con sotto una t-shirt azzurra. Ai piedi, un paio di stivaletti di gomma.
Notai subito i guanti da giardiniere e le cesoie che teneva in mano.
Annuii, allungando una mano. < Piacere, lei deve essere Mrs Cullen> Dissi cercando di controllare almeno la voce.
I suoi occhi si illuminarono, e la sua bocca si distese in un largo e dolce sorriso.
Si sfilò il guanto e mi strinse la mano, dolcemente.
Aveva le unghie laccate di rosso.
< Mi dispiace farmi trovare così, ma il giardino aveva bisogno di essere sistemato. Fortunatamente l’uragano non ha distrutto le mie rose> Disse indicando quei meravigliosi fiori.
< Ha delle rose stupende> Constatai, pentendomene subito dopo.
Bene, adesso sembravo una ruffiana.
< Ma vieni, entriamo. Vuoi una tazza di thè?>.

*****


Dieci minuti dopo, eccomi seduta sul divano di pelle bianca nel salone di casa Cullen, una tazza di thè freddo tra le mani.
Eravamo solo io ed Esme, nessun altro.
Probabilmente la cosa avrebbe dovuto intimorirmi, eppure quella donna era così dolce e materna da non  riuscire a mettermi in soggezione.
< I tuoi biscotti sono davvero, davvero squisiti. Vorrò la ricetta, cara> Disse sorridendo.
Ricambiai, sentendomi più rilassata.
Il salone era piuttosto luminoso, con tre enormi finestre ai lati, ed una colonna antica vicino all’arco che portava all’ingresso.
C’era un tavolino rotondo, di cristallo, con sopra un bellissimo vaso di cristallo pieno di rose rosse; c’erano diversi tappeti, tutti quanti rossi, antichi, di dimensioni più o meno grandi.
C’erano candele, anch’esse rosse e nere, sperse ovunque, spente.
Un enorme lampadario di cristallo faceva bella mostra di sé sul soffitto affrescato, anch’esso antico, dando l’impressione di essere in un museo invece che in una casa al mare.
L’arredamento era impeccabile.
< Allora, Isabella, come vanno le cose? Siete riusciti a sistemare i danni dell’uragano?> Domandò pacata Esme.
< Siamo stati fortunati, rispetto ad altre persone, i danni sono stati minimi> Risposi torturandomi le mani non più sudate.
Annuì, posando la sua tazza sul tavolo di cristallo.
< Anche noi. Come puoi vedere, non ci sono stati danni all’interno, e davvero pochi all’esterno> Rispose con naturalezza.
< Sai, Isabella, Edward ci ha parlato molto di te, e appena ti ho intravisto fuori dal cancello, ho capito subito che eri tu la famosa Bella>.
Sentii le mie guance andare a fuoco, e ringraziai me stessa di avere ancora la tazza tra le mani, in modo da poterla stringere.
Sorrisi, imbarazzata, sperando non si accorgesse del mio nervosismo.
< Spero cose carine> Mormorai con un filo di voce.
Sorrise ancora, come a cercare di addolcire l’atmosfera e avvicinò il viso verso di me, seduta di fronte a lei.
< Ad essere sincera aspettavo da tempo la tua visita> Confessò posandomi una mano sulla gamba coperta dai pantaloncini a pinocchietto che indossavo.
Rimasi leggermente perplessa di fronte a quelle parole, così si affrettò ad aggiungere: < Come ti ho già detto, Edward ci ha parlato molto di te, nelle ultime tre settimane, e avevo davvero voglia di conoscerti>.
Rimanemmo in silenzio: io perché ero troppo terrorizzata per parlare, lei probabilmente per riordinare le idee.
< Sai, Edward ha un passato difficile alle spalle, so che ti ha accennato qualcosa, e ciò mi stupisce moltissimo, dato che non ne parla mai con nessuno> Sospirò, sistemandosi una ciocca di capelli sfuggita dallo chignon.
< Il suo lavoro è molto duro, e negli ultimi anni lui vi si è gettato a capofitto, rischiando moltissimo. Quando ha accettato di venire qui, per l’estate, non sembrava molto entusiasta. Anzi, sono certa che l’abbia fatto per noi, per accontentarci, per convincerci che andava tutto bene> Si fermò un attimo, sospirando ancora.
< Volevo che quest’estate lo aiutasse a riflettere, a schiarirsi le idee> Mi lanciò un’occhiata intensa.
< Volevo che scegliesse una strada differente> Sussurrò.
< Differente dall’esercito?> Domandai con un filo di voce.
Annuì, sospirando ancora e passandosi la mano sulla salopette, lisciandola.
< Probabilmente penserai che sia un egoista, ma per me è troppo difficile svegliarmi la mattina con la paura di ricevere una telefonata nella quale qualcuno mi dirà che ho perso mio figlio>.
< No, invece. Signora Cullen…> Mi bloccò, alzando una mano.
< Chiamami Esme, cara>.
< Esme,> Ricominciai. < io la capisco. Non ho esperienze simili, posso solo immaginare cosa significhi, ma quando Edward mi ha raccontato dell’incidente di qualche mese fa, ho avuto paura. Per lui, perché aveva quasi sfiorato la morte, e per me, perché non volevo affezionarmi ad una persona che tra qualche mese tornerà a combattere in guerra da qualche parte nel mondo>.
MI osservò da sotto le sue ciglia lunghe e scure.
< Le cose sono cambiate, però. O, almeno, così sembra> Aggiunse pacata.
Sospirai, posando la tazza accanto alla sua e giocando con la cucitura dei miei pantaloni.
< Vede, per quanto non volessi affezionarmi a lui, nell’istante in cui ho avuto quel pensiero, ho capito che era già troppo tardi. In fondo, se non mi ero già affezionata, che bisogno c’era di farsi quella promessa? Ero già rimasta fregata> Confessai.
Ridacchiò, annuendo.
< Sai, all’inizio, quando tornava a casa con il sorriso sulle labbra e parlava di te, ho sperato che cambiasse idea, riguardo all’esercito. Ho sperato che, avendo trovato qualcuno di importante per lui, decidesse di rimanere. Lo spero ancora, a dir la verità>.
< Nel suo passato c’è molta violenza, e so che è per questo che ha scelto l’esercito. Speravo che i sentimenti che nutriva verso di noi bastassero a tenerlo qui, e invece mi sbagliavo. Tu sei la mia- e sua-unica speranza>.
Aggrottai le sopracciglia, riflettendo.
< Mi sta chiedendo di… convincere Edward a rimanere qua?> Domandai.
Sospirò di nuovo. < No. Non posso chiederti una cosa del genere. Penso però che anche tu voglia saperlo vivo, o sbaglio?>.
Annuii veloce.
< Non posso convincerlo, forse tu sì, ma non ti chiederei mai una cosa del genere. Vorrei chiederti di provare a parlargli, ma so che non ascolterebbe. L’unica cosa che vorrei chiederti, è quella di stargli vicino.
Da come ti ha descritto, sembri veramente una cara ragazza, Isabella, e lui si merita una persona come te.
Resti comunque una speranza per tutti noi: se il vostro rapporto continuerà a crescere, magari sarà lui stesso a scegliere di rimanerti accanto e a dimettersi>.
< Non ti sto mettendo  pressioni addosso, tranquilla. Non mi aspetto nulla da te, voglio che sia chiaro. Lascerò che le cose facciano il loro corso, avendo però una speranza in più che tutto questo finisca, grazie a te. E se non dovessimo riuscirci, tutti quanti noi gli staremo vicino>.
< Fate quello che volete, ragazzi. Conoscetevi, diventate amici, qualcosa di più, non importa. Pensate solo a voi stessi, a godervi questo breve mese che vi rimane e ad essere felici. Questo è ciò che conta, il resto verrà da solo> Concluse.
Sorrisi. < Grazie Esme, grazie davvero>.

*****


Non so quanto tempo passai da sola con Esme, quel pomeriggio. Fu un bel pomeriggio, però.
Quando diversi minuti, forse ore dopo, eravamo ancora sedute sul divano a parlare e ridere tra di noi, la porta si aprì, un’Edward stupito e, forse, sconvolto si bloccò, lasciando sbattere forte la porta di casa.
< B… Bella?> Domandò stupito, rimanendo fermo nell’ingresso.
< Che modi sono, tesoro? Non ti ho forse insegnato come si saluta un’ospite?> Esme lo stava chiaramente prendendo in giro, e ciò lo confuse ancora di più.
< Devo andare a finire il giardino, prima che faccia buio. Sono qui fuori se avete bisogno, ragazzi> Velocemente Esme si congedò, lasciandoci soli.
< Hey> Salutai Edward, ricominciando a torturarmi le mani.
< Hey> Ripeté lui, questa volta rilassato e sorridente.
< Sono venuto a presentarmi. Dopotutto, siamo vicini. E poi mia madre ha insistito troppo> Borbottai sorridendo mentre lui si avvicinava a me.
< Penso che sia una splendida idea> Sussurrò accarezzandomi la mano.
Stavo per svenire, me ne rendevo conto.
Edward si sedette sulla costola del divano, proprio accanto a me, continuando ad accarezzarmi la mano.
< Stavi giusto pensando di venirti a trovare… E invece ti ho trovato qui> Le sue mani salirono verso il mio viso, iniziando ad accarezzarmi.
Stavo per chiudere gli occhi, ma sapevo che il meglio stava arrivando.
Con una lentezza esasperante,  abbassò il viso verso il mio, facendo scendere le sue mani sul mio collo.
I miei occhi si stavano chiudendo mano a mano che il suo viso si avvicinava al mio.
E quando sentii il suo respiro caldo su di me, mi sentii persa.
Ma allo stesso tempo, sapevo di essere a casa.
< Mi hai fatto proprio una bella sorpresa> Sussurrò un attimo prima di posare le labbra calde sulle mie, umide.
Le sentivo, morbide e calde, muoversi sulle mie, lentamente, passionalmente.
Le sue mani erano sul mio collo, i pollici tracciavano cerchi invisibili, facendomi rabbrividire ed eccitare al contempo.
Schiusi le mie labbra, e Edward non perse tempo per intrufolarvisi.
Quando le nostre lingue iniziarono ad accarezzarsi, non riuscii a reprimere un gemito.
Quando ero con Edward, perdevo ogni ritegno…

*****

< E questa… Beh, questa è la mia camera> Concluse passandosi una mano tra i capelli, leggermente imbarazzato.
< Se entriamo dici che i tuoi si offendono?> Domandai esitante.
Rise forte, posando le mani sui miei fianchi e spingendomi dolcemente dentro la stanza.
< Non sono mai entrata nella stanza di un ragazzo che non fosse mio fratello> Confessai guardandomi intorno.
La camera di Edward era forse la stanza più semplice di tutte.
Piccola ma abbastanza spaziosa, con le pareti azzurre e piccole stelline di quelle che si illuminano al buio attaccate al soffitto, un lampadario rotondo di topolino, una grande lampada da terra, un letto singolo azzurro anch’esso ed un’enorme libreria di quercia.
Mi avvicinai ad essa, sfiorando con le dita le copertine dei libri, alcune piuttosto antiche e malconce.
Ci saranno state qualche centinaia, forse di più.
Cioè che mi stupì erano le pareti: vuote, prive di posters, figurine o foto.
Forse era proprio vero che Edward non veniva quasi mai a Phoenix…
< Allora signorina Swan, qual è il verdetto finale?> Scherzò continuando a tenermi per la vita.
Appoggiai la schiena al suo petto, posando il capo sulla sua spalla ed osservando il suo viso al contrario: sembrava ancora più bello.
< Mmmh, devo ammettere che non mi dispiace…> Sorridemmo nello stesso istante, osservandoci dritti negli occhi.
< Voltati> Mormorò con voce roca, aiutandomi a voltarmi verso di lui.
Mi ritrovai con la schiena poggiata contro la libreria, mentre il mio petto era schiacciato contro quello di Edward, le sue mani sul mio viso.
Senza dire niente, mi guardò negli occhi, avvicinandosi pian piano, come ad attendere un mio consenso.
E, quando non mi opposi, le sue labbra trovarono di nuovo le mie.
La sua lingua trovò subito la mia, e questa volta fu lui a gemere, schiacciandomi ancora di più contro la libreria.
Avrei dovuto aver paura, e invece volevo di più, volevo sentirlo contro di me, ancora di più.
Gemetti anch’io, piano, e fu in quel momento che si staccò velocemente da me.
< Scusami Bella, scusa> Si affrettò ad aggiungere, passandosi una mano sul viso leggermente arrossato.
< Quando sono con te rischio di perdere il controllo, mi dispiace. Stai bene?>
Rimasi perplessa di fronte a quell’atteggiamento, ma in fondo me lo aspettavo.
Edward non era uno stupido, sapevo che aveva capito qualcosa.
Non volevo mostrargli il mio disagio, per cui gli accarezzai il viso, tranquillizzandolo.
< Io non ho paura di te, Edward. Se l’avesse fatto qualcun altro probabilmente sì, ma tu sei tu, e non posso avere paura di te, non ci riesco> Sussurrai senza guardarlo negli occhi.
Sentii le sue labbra posarsi sui miei capelli, mentre le sue mani correvano alla mia vita.
< Bella… Io non so cosa…>
< Ciao!> Un grido mi fece sobbalzare, e Edward venne interrotto.
Edward non mi lasciò andare, si limitò solo a spostarsi accanto a me, lasciandomi vedere la nostra “interruttrice”.
Una giovane ragazza, più o meno mia coetanea, mi guardava con i suoi enormi occhi neri.
Era piuttosto bassa, ed era difficile darle un’età.
Aveva i capelli scuri come gli occhi, corti, molto scalati, fermati con una molletta fatta a teschio, nero e rosa.
Indossava una minigonna nera e viola ed un top, sempre in tinta con la gonna, che le lasciava l’ombelico scoperto.
Era truccata piuttosto pesantemente, con gli occhi sfumati di nero e viola ed un rossetto rosso piuttosto scuro.
Era una dark, ed era bellissima.
< Ciao! Tu sei Bella! Io sono Alice!> Gridò entusiasta, correndo ad abbracciarmi come se mi conoscesse da una vita.
Rimasi leggermente perplessa di fronte a quella reazione, eppure non riuscii a reprimere un sorriso.
Edward ridacchiò, togliendomela di dosso e caricandosela sulle spalle.
< Edward! Mettimi giù!> Gridò lei, dandole un pizzicotto sulla pancia.
< Questa> Disse scrollandosi di dosso Alice. < è la causa dei miei guai. Alice Cullen, la rompiscatole della famiglia> Alice gli fece una linguaccia, avvicinandosi a me.
< Oh volevo conoscerti da così tanto tempo! Ma non preoccuparti, abbiamo tutta la sera per farlo! So già quello che mi dirai a proposito di…>
< Va bene, va bene Alice, lasciala respirare> La interruppe Edward, lanciandole un’occhiata intensa, come per impedirle di dire qualcosa.
Non vi prestai troppa attenzione, non mi sembrava il caso.
< Gli altri sono di sotto, perché non scendete?> Domandò Alice prendendomi per mano e trascinandomi con sé.
< Prima però io e Bella dobbiamo fare una cosa> Annunciò mentre Edward la seguiva.
< Ah sì?> Domandai incerta.
< Sì> Disse Alice, sicura.
< Alice per favore, non traumatizzarla> La pregò Edward mentre Alice gli sbatteva la porta in faccia.
Si voltò verso di me con un’enorme sorriso. < Questa> Disse indicando la stanza in cui ci trovavamo. < è la mia camera>.
Mi guardai intorno, stupendomi di quell’atmosfera così cupa ed estremamente affascinante.
Le pareti erano molto scure, praticamente nere, con qualche dettaglio viola; le tende erano viola e argentate, e la stanza era illuminata dalle centinaia di candele accese, poste in ogni angolo della camera.
Un grande letto matrimoniale, di ferro nero, occupava gran parte della stanza.
< Ti piace?> Domandò eccitata, saltellando qua e là.
< Wow è molto… Affascinante> Mormorai rapita.
Batté le mani, saltellando sul posto. < Aww lo sapevo! L’ho arredata io!>.
Sorrisi di fronte a tutta quella vivacità.
Alice mi stava già simpatica, dovevo ammetterlo. Era dark, pazza… Dolcissima.
< Sono felice che finalmente ci conosciamo! Da quando mio fratello ti ha incontrato non fa altro che girare per casa con un tremendo sorriso ebete>  Fece una smorfia di disgusto, sedendosi sul letto.
< Allora… Ti piace mio fratello? Siete andati oltre ai baci? Raccontami tutto!> Esordì con naturalezza, come se fosse una cosa normale.
Avevo già detto che era pazza?

*****

Parlare con Alice, però, si rivelò una cosa quasi naturale.
Passati i primi, scomodi e traumatizzanti minuti in cui mi aveva più volte chiesto se io e Edward avessimo fatto sesso, mi ero sciolta, e parlare con Alice era stato davvero liberatorio.
Avevamo parlato per moltissimo tempo: io di me stessa, della mia famiglia e dei miei progetti, lei del suo viaggio in Italia organizzato per il mese seguente.
< Credo di averti rapito a sufficienza… Hai voglia di scendere di sotto a conoscere gli altri?> Domandò alzandosi.
La seguii, trovando Edward davanti la porta.
< Ci stavi spiando?> Domandai sorridendo.
Scosse la testa, sorridendo. < Stavo solo ascoltando un’interessante scambio di opinioni tra due ragazze>.
Alzai gli occhi al cielo, ridendo, mentre Edward poggiava una mano sui miei fianchi e scendevamo di sotto.
Seduti sul divano di pelle, c’erano tre uomini ed una ragazza.
Riconobbi subito Carlisle, seduto al posto sul quale ero io qualche ora prima.
Fu il primo ad alzare lo sguardo ed accorgersi di noi.
E prima ancora di poter dire qualcosa, i suoi occhi si illuminarono.
< Non ci credo! Caso C, amo conficcato in un orecchio! Isabella Swan sei proprio tu?> Domandò avvicinandosi a me con cautela.
Sentii il sangue inondarmi il viso, ma nonostante l’imbarazzo non riuscii a non sorridere.
< Sì dottor Cullen, sono io> Risposi piano.
< Oh, per favore, chiamami Carlisle. È un piacere rivederti in circostanze ben diverse!> Disse allegro, stringendomi la mano.
Annuii.
< E così sei tu la ragazza di Edward! Ah, chi l’avrebbe mai detto?> Esclamò unendo le mani e guardando me ed Edward con un’enorme sorriso.
< Carlisle tesoro, puoi venire a darmi una mano?> Gridò Esme dalla cucina.
Carlisle sorrise, alzando gli occhi al cielo.
< Scusate, mia moglie mi reclama> E così dicendo sparì in cucina, lasciandoci soli.
Soli per modo di dire.
< Bella, questi sono Jasper ed Emmett> Fu Edward a fare le presentazioni, indicandomi due ragazzi.
Il primo, Jasper, era alto, abbastanza muscoloso, con i capelli dorati e talmente ricci da farlo sembrare un leone. Il suo viso era sereno, rilassato, e sprizzava tranquillità da tutti i pori.
Il secondo, Emmett, era molto alto, molto più muscoloso persino di Jacob, con i capelli scuri più di quelli di Alice, gli occhi di un blu talmente scuro e intenso da farmi ricordare il colore dell’oceano la notte.
Quando si voltò verso di me, mi accorsi di un particolare: su tutta la superficie della guancia destra si estendeva una lunga e profonda cicatrice biancastra e lucida, che limitava le sue espressioni.
Ma non per questo era meno affascinante: anche se aveva una bella stazza, potente, e quella cicatrice, era un bellissimo ragazzo, e non potevo averne paura.
Dovevo solo stare attenta a non fissare troppo a lungo la sua cicatrice.
Feci un sorriso, abbastanza sincero, prima di venire presentata alla ragazza: Rosalie.
Anche lei era molto alta, la più alta delle donne di casa Cullen. Con i suoi lunghi capelli biondi dello stesso colore di quelli di Jasper, solo più brillanti, ed una pelle perfetta, Rosalie era la versione moderna della Venere.
In poche parole, era femminilità e bellezza.
Dall’esterno sembrava piuttosto fredda e distaccata, ma quando le feci un sorriso incerto, la sua bocca grande si distese ed il suo volto s’illuminò.
< è un piacere conoscerti, Bella> Anche la sua voce era bellissima, come lei: bassa, profonda, estremamente melodica.
Ci sedemmo tutti quanti sul divano, a parlare e guardare Alice ed Emmett che giocavano a scacchi.
Alice se la cavava egregiamente, come se riuscisse a prevedere le mosse di Emmett.
< Non vale Alice, tu sei avvantaggiata, e lo sai> Protestò Emmett, ridendo, quando Alice mangiò il suo ultimo scacco.
< Vuoi giocare Bella?> Domandò Emmett sorridendo.
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso alla parete e mi sentii morire: le otto.
Ero stata fuori tutto il pomeriggio.
Edward notò il mio disagio perché si alzò, porgendomi la mano.
< è ora di tornare a casa, per Bella> Disse al posto mio.
Esme e Carlisle sbucarono fuori dalla cucina, evidentemente non si stavano perdendo nemmeno una parola, e mi vennero a salutare.
< Hey Emmett> Lo fermai mentre stava per salire di sopra.
Si voltò.
< Ricordati che ti devo una partita a scacchi>.
< Buonanotte Bella> Mi salutò ridendo.
Salutai tutti quanti con la promessa di ritornare presto.
Edward insistette per accompagnarmi a casa,  così ci ritrovammo a passeggiare per mano, per i pochi metri che separavano le nostre case.
Sembrava piuttosto pensieroso, e per diversi minuti non parlò.
< Mi spieghi una cosa?> Sbottò infine, fermandosi.
< Spara> Risposi leggermente spaventata dalla sua domanda.
< Che cosa ci facevi con un amo infilato nell’orecchio?>.
Risi di gusto, non tanto per la domanda, quanto per la sua espressione seria.
< Volevo un orecchino particolare e sul tavolo della cucina trovai un piccolo amo di mio padre. Non ci pensai due volte e me lo attaccai. Avresti dovuto vedere l’espressione terrorizzata che aveva Charlie quando mi vide> Ridemmo insieme, fermandoci di fronte al mio cancello.
< Eccoci qua> Sospirò lui, spostandosi dal cancello in modo da non essere visto dall’interno della casa.
Lo seguii.
Posò entrambe le mani sul mio viso, accarezzandomi.
Mi imposi di stare calma, di non stramazzare al suolo come una stupida.
< Avrei voluto avere qualche minuto in più per noi due> Sussurrò sul mio viso.
Fu in quel momento che tutte le mie domande vennero a galla, formando un nodo stretto nello stomaco.
< Edward noi… dovremmo parlare un po’ di quello che… quello che sta succedendo> Mormorai mordicchiandomi le labbra, nervosa.
< Domani sera. Sette e mezza al pontile. Metti un vestito elegante, so dove portarti> Rispose avvicinando il viso al mio.
< Dolce notte, Isabella> Alitò sul mio viso un’istante prima di catturare le mie labbra con le sue.
< Buonanotte, Edward> Risposi sulle sue labbra, entrambi incapaci di staccarci.


Note dell'autrice

Ma quanto saranno dolci questi due ragazzi? E quante di voi vorrebbero essere al posto di Bella?
Abbiamo una Alice giovane Dark (personalmente io la immagino così, e mi piace moltissimo) ed un Emmett particolare... Ed arriveranno ancora molte novità, in queste ore il mio cervello si è messo in moto e sto seriamente pensando alle modifiche da apportare.
Vorrei ringraziare di cuore le magnifiche persone che hanno recensito il capitolo, chi l'ha aggiunta tra le preferite/seguite/ricordate ed Emanuela per averla segnalata tra le scelte!
Anche se non sono sicura di meritarlo, grazie mille.
Spero di essere puntuale con il prossimo capitolo, in ogni caso troverete informazioni (spoiler e altre cosine) nella pagina FB, mentre per chi non ha un'account, non mancherò di aggiornare l'angolo delle storie nella mia pagina di autrice!
P.s: Avete mai conosciuto i genitori di un ragazzo/ragazza importanti per voi? Com'è andata?
Se avete voglia, io sono curiosissima *___*
A presto (spero)
Un bacio, Chiara. 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Note dell'autrice

Buona sera donzelle! Come va? La scuola, il lavoro?
Ancora una volta qui puntuale come un'orologio svizzero... E vi dico subito che l'aggiornamento della prossima settimana salterà. Domani mattina parto, e sarò di ritorno non prima di lunedì, per cui, a meno che non scriva il capitolo sulla mia isola, non arriverà prima degli inizi di  Ottobre.
Detto questo, passiamo al capitolo. Ad essere sincera, è l'unico capitolo che davvero mi piace. L'ispirazione è nata per caso, ascoltando una canzone, e in un'ora e mezza ho scritto tutto, sorprendendomi. So che non è perfetto, ma lo è per me. Pensate pure che sia presuntuosa, non importa.
è un capitolo molto delicato, c'è davvero tanto romanticismo. Spero vi piaccia.
Troverete un'unico link nel capitolo: ascoltatelo senza interruzione se potete, è questa la canzone di cui parlerà Edward ed è la colonna sonora di questo capitolo ;)
Ci leggiamo in fondo, buona lettura.
P.s: Dedico questo capitolo alla mia Cleo che sta passando un momento non molto roseo. Ti voglio bene tesoro, tanto tanto  :***


Capitolo 12

Suggerimento musicale

Edward Pov

Abbottonai l’ultimo bottone della camicia bianca che indossavo, sospirando.
C’erano mille emozioni dentro di me: gioia, aspettativa, emozione, orgoglio.
Ciò che stavo per fare era un qualcosa di estremamente importante, o almeno lo era per me, e volevo farlo per bene.
Ero nervoso, ma una volta tanto, ero felice di esserlo.
Significava l’importanza che questa serata aveva.
Avrebbe cambiato la mia vita.
Adesso vi chiederete: non è un’esagerazione?
No, non lo era.
Nella mia vita c’era sempre stato poco spazio per l’amore, la famiglia o gli affetti in generale, e in quel momento stava cambiando tutto.
Il resto dell’estate e non solo, dipendeva da questa serata.
Afferrai la giacca, riposta con cura sul letto, e la misi sotto braccio.
Sistemai meglio la cravatta, in modo che non stringesse troppo, e la lisciai con le dita.
Infine, passai un po’ di gel nei capelli, mettendoli leggermente più in ordine del solito.
Uscii dalla stanza, la sensazione di dejavù che si faceva pian piano largo dentro di me.
Non sprecai tempo andando da Alice, affacciata alla porta della sua camera, e non mi preoccupai nemmeno di risponderle al suo “Buona fortuna Edward”.
Scesi di sotto, lasciando che mia madre mi accarezzasse dalla testa ai piedi, commuovendosi, neanche fosse il ballo di fine anno del liceo.
Mi trovavo in una bolla: i rumori esterni, le voci o i visi dei miei familiari erano un sottofondo, un miscuglio confuso e sfumato di colori.
Pensavo solo ad una cosa: Isabella.
Uscii nel giardino, tagliando una rosa per Bella, per la seconda volta.
Le rose di mia madre erano afrodisiache, portavano amore, secondo la leggenda familiare.
Speravo almeno fosse una specie di buon auspicio.
Uscii dal cancello, rimanendo sempre nella mia bolla, e quasi non mi accorsi di essere già sul pontile.
Questa volta non mi sedetti: rimasi in piedi, con la paura di sporcarmi o semplicemente di non essere in grado di comandare il mio corpo e farlo sedere.
Non sapevo descrivere i miei pensieri, non sapevo dire se sotto di me ci fosse stato l’oceano o la sabbia.
L’unica cosa che seppi descrivere, fu la visione che mi si parò davanti: una ragazza dalla pelle candida, stretta in un abitino azzurro che le sfiorava il ginocchio, con qualche balza ed un corpetto attillato, ed i capelli acconciati in una magnifica pettinatura, con perline che risaltavano i riflessi ramati di quello specchio lucente.
Il tempo si fermò.
Non come quando stai per morire e riesci a cogliere particolari che non noteresti mai, no.
Semplicemente, la mia bolla scoppiò.
Ma non fu uno scoppio assordante, violento.
Fu come l’interruzione di un sogno confuso.
E al posto della bolla scoppiata, se ne creò un’altra, ma completamente diversa dalla precedente: questa volta non era la mia bolla. Insieme a me, dentro vi era Bella.
Lanostra bolla.
Non capii se stessi parlando, se lei avesse detto qualcosa.
Le porsi la rosa, e il suo sorriso valse più di mille parole.
Sentivo il cuore pulsare nelle mie tempie, il cuore aveva ormai preso il volo da tempo, e il mio petto lo reclamava a gran voce.
Non mi ero mai sentito così stordito: Bella era la mia droga.
< Vieni con me> Le dissi prendendola per mano.
La sua pelle era calda, morbida, dolce.
Fu quasi uno shock per la mia mano fredda, tesa.
Parlammo.
Nei dieci minuti che impiegammo ad arrivare a destinazione parlammo.
Di cose futili, come il tempo, cosa avevamo fatto quel pomeriggio.
Cose di vitale importanza, per me.
Quando arrivammo in prossimità del luogo scelto, mi fermai.
< Chiudi gli occhi> Mormorai mettendomi davanti a lei.
Mi osservò curiosa, ma nei suoi occhi non c’era paura.
< Starò con te, ti guiderò, ma tu chiudi gli occhi. Ti fidi di me, Bella?> Domandai con un filo di voce.
La risposta avrebbe già inferito sulla serata.
Quando le sue labbra si distesero in un piccolo ma dolce sorriso, capii di essere stato stupido a preoccuparmi inutilmente.
< Sì Edward, mi fido> Rispose.
Non so se ero io ad essere inebriato dalla sua presenza dall’udire differente la sua voce o se fosse lei ad aver usato un tono più dolce, pacato. Micidiale.
Bella chiuse gli occhi, abbandonandosi completamente a me.
Strinsi le nostre mani unite e feci passare delicatamente una mano dietro la sua schiena, tenendola per i fianchi, guidandola.
Camminavamo piano, lentamente, senza fretta.
Non perché indossasse tacchi alti, anzi ai piedi aveva le stesse ballerine di vernice nere della sera della festa sulla spiaggia, piuttosto per goderci quell’improvvisa ma dolce distanza, quel bisogno che avevamo di contatto fisico.
Quando arrivammo a destinazione, senza staccarmi da lei, le sussurrai all’orecchio: < Adesso puoi aprirli>.
E quando lo fece, fui più che felice del fatto che stessi osservando lei invece che la spiaggia davanti a noi.
I suoi occhi si illuminarono, la sua mano aumentò la stretta sulla mia, e quasi mi sembrò di vedere una lacrima rigarle la guancia.
Spostai allora lo sguardo verso la spiaggia, e sentii il mio cuore gonfiarsi di orgoglio: al centro della sabbia bianca, alla luce del tramonto, c’era un piccolo tavolo di legno, con due sedie ed una tovaglia candida.
Sopra, piatti in ceramica e calici in cristallo completavano il tutto, assieme ad una candela rossa che faceva compagnia alla rosa del medesimo colore all’interno di un vaso di cristallo.
E alla destra del tavolo, un piccolo falò riscaldava l’atmosfera.
Avevo fatto un buon lavoro, ed ero orgoglioso di me stesso.
Sarò anche stato fortunato ad avere una madre arredatrice, ma l’idea era stata mia.
< Ti piace?> Domandai con un filo di voce.
Bella spostò lo sguardo verso di me, e i suoi occhi inchiodarono i miei.
Si aprì in un dolce sorriso e mormorò < Sarei una pazza, se rispondessi di no>.

*****

Bella Pov
Arrivati al dessert, ovvero fragole con panna e cioccolata, mi stavo sciogliendo.
Esattamente come la candela accanto a me.
Edward era… un’altra persona.
Era stata una serata perfetta, ed eravamo ancora a metà.
Non osavo pensare che cosa sarebbe successo dopo…
Intorno a noi regnava la tranquillità, l’unico rumore di sottofondo era il fruscio delle onde.
Mi sentivo bene, bella, importante.
Desiderata.
La consapevolezza che Edward avesse fatto tutto per me si stava pian piano facendo strada in me, ed anche se stentavo a crederci, era una verità palese.
< Vieni qui> Mormorò Edward, scostando la sua sedia e facendomi segno di sedermi su di lui.
Un po’ titubante ma fiduciosa in lui mi avvicinai, seguendo le sue istruzioni.
Sentivo il mio viso scottare, probabilmente anche dal di fuori davo questa impressione perché le sue labbra s’incurvarono nel suo sorriso sghembo mentre le sue dita accarezzarono le mie guance, rinfrescandole.
< Se sei a disagio dimmelo, hai capito?> Mormorò guardandomi dritto negli occhi.
Annuii, distogliendo lo sguardo.
C’era un’intensità talmente forte tra di noi che mi sentivo lacerata.
Nel senso buono, s’intende.
< Volevi parlare, giusto? Bene, siamo qui per questo> Continuò accarezzandomi il viso.
Il mio sguardo era rivolto alla sua camicia, mentre le mie mani giocavano con la cravatta.
Avrei voluto guardarlo negli occhi, davvero, ma ero sicura che mi sarei sciolta, se l’avessi fatto.
< Posso parlare io?> Domandò cauto, continuando ad accarezzarmi.
Annuii, incapace di parlare.
< Sono nato a Chicago nel 1976, da una famiglia benestante. Mio padre era un famoso avvocato, con una certa carriera e fama alle spalle. Ciò che gli mancava, però, era l’amore. Era un uomo freddo, privo di sentimenti, incapace di dare amore. In tutta la mia infanzia non ricordo mai di aver ricevuto una carezza da parte sua. Mia madre, Elizabeth, era una donna bellissima, dolce, una vera madre. Quando avevo otto anni morì di tubercolosi polmonare, lasciandomi solo, vuoto>.
Tacque, chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
Gli baciai delicatamente una guancia, rabbrividendo quando le mie labbra morbide toccarono la sua pelle liscia e calda.
Quel gesto però servì a farlo continuare.
< Prima di morire, mi disse qualcosa che allora non capii. Disse: “Sei un ragazzo speciale Edward, sei intelligente, bello… Hai tutte le doti necessarie per essere un grande uomo. Io non ci sarò quando lo diventerai, ma da lassù ti guarderò. Ti prego, rendimi orgogliosa ti te, fai ciò che ti renderà felice, non seguire le orme di tuo padre e credi sempre nell’amore. Sono sicuro che quando incontrerai la ragazza giusta capirai tutti gli errori che tuo padre ha commesso. Sii presente per i tuoi figli, Edward, e ricorda: la chiave per la felicità si trova solo qui. Apri il tuo cuore e la troverai”> Tacque ancora, riordinando le idee.
< A otto anni non potevo sapere che cos’era l’amore, eppure quelle parole sono ancora qui, nel mio cuore. Otto anni dopo, quando ne avevo sedici, persi anche mio padre. Ci fu una rapina, nel suo studio, e fu ucciso: un solo colpo mirato alla testa bastò a trapassargli il cranio.
A quel punto non era più sicuro per il figlio dell’avvocato più famoso di Chicago rimanere nella grande villa tutto solo, visto che la banda di ladri si avvicinava sempre più alla nostra zona residenziale.
Fu la notte del primo settembre 1992 a cambiarmi la vita.
Ero in casa con Brigitta, la mia balia nonché unica figura materna e madre di Esme. Mi stavo coricando quando sentii dei vetri infrangersi, grida e un rumore assordante di stoviglie cadere a terra.
Corsi allora nel salotto nel quale si trovava Brigitta, e nel momento in cui misi a fuoco l’orrenda immagine che mi si presentava davanti, un colpo di pistola esplose e un caldo fiotto di sangue mi macchiò la camicia.
Passarono non so quanti secondi prima di accorgermi che quel sangue era della mia Brigitta.
I ladri fuggirono ed io rimasi tutta la notte inginocchiato accanto al corpo sanguinante e privo di vita di quella donna che era stata come una seconda mamma per me.
Fu la vicina, la signora Gage,  a trovarmi ancora lì, sporco del sangue di Brigitta.> Tacque, posando il viso sulla mia spalla, in cerca di conforto.
Le mie mani corsero ai suoi capelli, iniziando ad accarezzarlo dolcemente, massaggiandogli ogni singola ciocca.
< Furono Esme e Carlisle a salvarmi, prendendomi con loro e portandomi a Forks.
< Nonostante una casa, una nuova famiglia che mi voleva davvero bene, nuovi fratelli, mi sentivo fuori luogo. Ogni singola notte facevo lo stesso incubo: rivivevo la morte di Brigitta. Fu allora che capii quale fosse davvero la mia strada: l’esercito>.
Le mie dita scesero sul suo viso, correndo sulle sue guance, i suoi occhi, e infine, sulla sua bocca.
Mi baciò delicatamente le dita, il suo respiro caldo sulle mie mani, e sembrò trovare il coraggio di continuare.
< Ti chiederai come possa capire un diciottenne che la sua strada è l’esercito> Riprese, le sue labbra incurvate in un sorriso amaro.
< Beh, non lo so nemmeno io, a dirla tutta. La violenza ha sempre fatto parte di me, della mia vita, e questa è l’unica spiegazione plausibile che posso darti. Nell’esercito trovavo conforto, potevo sfogarmi, proteggere altre persone. Forse ero convinto che in questo modo avrei riavuto indietro i miei cari… Non so cosa pensavo, non lo so nemmeno adesso. Nell’esercito sono cambiato, sono diventato uomo. Adesso ti chiederai perché ti sto raccontando tutto questo. Beh, è semplice: quando sono con te, non sono più il sergente maggiore Edward Cullen. Sono Edward. Quando sono con te, la morte, la distruzione, il dolore, passano in secondo piano. Potrei essere nel bel mezzo di una guerra e pensare a te, al tuo modo di sorridere, al tuo modo di arrossire, alla tua voce da bambina.
Quando sono con te non ragiono con la testa, ma con il cuore. Un mese fa non conoscevo ancora il significato delle parole di mia madre. Ora sì. Tu mi hai fatto conoscere quel significato, tu mi hai aiutato a tornare alla realtà e tu allievi il mio dolore. Quando sono con te il tempo smette di passare, tutto ciò che in cui non ho mai creduto inizia a diventare qualcosa di solido, qualcosa in cui credere. Quando sono con te, sono come stordito. Tu sei come una droga per me, Isabella. Non  riesco a fare a meno di te. Ogni volta che vedo allontanarti mi sento morire. Anche prima, quando eri seduta davanti a me, avevo bisogno di un contatto.
Tu sei capace di farmi perdere la ragione, di riportare a galla la dolcezza che c’è in me, la voglia di affezionarmi ed amare qualcuno, la voglia di costruire qualcosa di concreto.
Tu sei la chiave per la mia felicità. Tu sei amore, Bella. Ed io… io sono sicuro di non poter vivere senza di te. Ciò che sento è talmente forte da stordirmi, farmi impazzire. Quando sono con te, vivo>.
Non so per quanto tempo rimasi lì, in silenzio, a cercare di formulare un pensiero coerente.
Non avevo più la percezione del tempo né dello spazio… Era come essere in una bolla. Una bolla tutta nostra.
< Quello che sta succedendo è evidente, Bella, ma non scontato. È qualcosa di… di talmente forte a cui faccio fatica a dare un nome. Perché amore lo sminuisce>.
Incapace di parlare, di fare qualsiasi cosa, feci ciò che mi riusciva meglio: piansi.
Non solo per la perfezione della serata, piansi per lui, per il suo passato, per tutte le emozioni che mi ero tenuta dentro.
Piansi per la felicità, perché per la prima volta nella mia vita, ogni tassello era al proprio posto.
Quella sera nacque una nuova me stessa.
Quando diversi minuti dopo riuscii a parlare, la mia voce era quasi irriconoscibile.
< Tu sei… sei perfetto. Dal primo momento che ti ho visto, su quel pontile, ho provato una strana sensazione. Era come se sapessi che la mia vita sarebbe cambiata. Perché in fondo è proprio ciò che è successo: tu mi stai cambiando, Edward. Ogni giorno che passa, ogni ora che passo con te, la mia personalità muta, si fortifica, ed anche io, come te, lascio da parte tutti i dolori, tutte le sofferenze. Quando sono con te non c’è spazio per nient’altro, perché ciò che provo per te mi riempie completamente. C’è troppo poco posto nel mio corpo per contenere l’amore che provo per te> Mormorai, stringendomi a lui.
< Sei speciale Bella, non posso rinunciare a te, e in ogni caso è troppo tardi per allontanarmi> Sussurrò sul mio collo.
< E allora non farlo> Mormorai flebile, lasciandomi accarezzare da lui.
< Non ne ho la minima intenzione>

*****

 < Vedi il mare, Bella?> Domandò diversi minuti dopo Edward, seduto sotto di me.
< Sì> Risposi continuando a tenere il viso premuto contro il suo collo.
< Questo è il mare dell’amore> Sussurrò al mio orecchio, facendomi rabbrividire.
Sorrisi piano.
< Ho trovato il vero amore sul pontile nord di Phoenix, mentre stavo per morire affogata per colpa di un’idiota> Sussurrai facendolo sorridere.
< No, non mi hai trovato. Non mi stavi neanche cercando. Sono io ad aver trovato te>
Deglutii a vuoto. < Tu… tu mi stavi cercando?> Domandai incerta.
Il suo sorriso si aprì, e il suo fiato caldo mi riscaldò. < Da una vita>.

*****

< Sei stanca?> Mormorò Edward dopo un lasso di tempo che parve infinito ma, allo stesso tempo, troppo breve.
< No> Mentii, più che a lui, a me stessa.
Rise piano, sommessamente.
< Possiamo fare una cosa, prima di andare via?> Domandò calmo.
Annuii. Ormai mi fidavo troppo di lui, per avere paura.
< Alzati>.
Si alzò insieme a me, facendomi segno di rimanere lì.
Si allontanò per qualche istante e, quando tornò verso di me, notai un piccolo stereo posato su un tronco lì vicino.
< Mi concede questo ballo, madmoiselle?> Domandò inchinandosi teatralmente.
< Non so ballare…> Ammisi in imbarazzo.
Sorrise e, senza dire niente, portò una mano alla base della mia schiena, mentre con l’altra prendeva la mia mano.
Con cautela, strinse la presa sui miei fianchi e, prima che potessi rendermene conto, mi ritrovai sopra i suoi piedi.
Dallo stereo provenivano dolci note suonate da una chitarra classica.
< Questa canzone l’ho scritta io, per te. La registrazione è autentica, solo che la voce non c’è> Spiegò Edward mentre ci muovevamo in cerchio.
< Canta, Edward. Canta per me> Mormorai con il volto in fiamme.
E prima che potessi aggiungere altro, la sua voce roca iniziò a cantare.
Ed io non potei fare a meno che stringermi contro di lui, bramando un contatto ancora più intenso, cullata dal suono afrodisiaco della sua voce.
Quelle parole valevano molto di più che di una normale e scontata dichiarazione.
Non c’era perfezione o altro.
In quel momento ogni cosa era così bella, così naturale, così poco scontata, che non avevo bisogno della favola: avevo Edward e la realtà era l’unica cosa che volevo vivere.


Note dell'autrice

*______*
Che ne pensate? Questa volta sono davvero curiosissima di sapere le vostre reazioni, quindi vi prego fatemi sapere!
Ho creato una paginetta FB ( QUESTA QUI), nella quale posto qualche spoiler, link o semplicemente parlo con voi: siete le benvenute, vedere le richieste di amicizia aumentare è qualcosa di incredibile.
Avete mai preparato una cenetta romantica? Qualcuno vi ha mai fatto una sorpresa del genere? Sono curiosa xDD
Vorrei ringraziare tutte le fantastiche persone che hanno recensito, chi ha aggiunto la storia tra le preferite(seguite/ricordate, chi si fa vivo su FB, msn o twitter!
E grazie anche ai numerosi lettori silenziosi: lo so che ci siete, vi vedo! Ricordate che il silenzio ha un prezzo... Ahahaha!
Buona settimana a voi e buone vacanze a me!
A presto!
Baci, Chiara. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Note dell’autrice

Buonasera.
Questo aggiornamento è del tutto imprevisto dato che fino a questo pomeriggio ero senza capitolo.
Come molte di voi sapranno questo non è un bel periodo per me, ho diversi problemi familiari e non riesco più a scrivere come prima, o se lo faccio, vorrei cancellare tutto.
Questo capitolo è molto importante, viene svelato il passato di Bella, la ragione per cui non sa nuotare.
è stato difficile da scrivere per me, però ci sono riuscita e sono orgogliosa di ciò.
E anche se non mi convince molto non saprei come modificarlo.
La storia deve andare così, si sta scrivendo da sola.
Vorrei ringraziare le splendide persone che hanno recensito il capitolo precedente: Grazie dal profondo del cuore, non sapete quanto sia importante ricevere un vostro parere.
Grazie inoltre ai nuovi lettori, ha chi ha aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chi mi ha contattato anche fuori da EFP.
Detto questo, vi lascio al capitolo, sperando di aver fatto un lavoro almeno decente. Troverete un suggerimento musicale, una delle mie canzoni preferite: vi chiederei di ascoltarla durante la lettura, mi ha ispirato.
Dedico questo capitolo a tutte le persone che mi hanno supportato in questo periodo, con i loro messaggi e la loro presenza: grazie a Beatrice, Simona, Gloria, Emanuela e tutte le altre che si sono fatte sentire. E naturalmente al mio trio di topini: Cleo, Annie e Juls :*
 Fatemi sapere e buona lettura, ci leggiamo in fondo.



Capitolo 13
 
Bella Pov

Anche quella mattina, quando la sveglia suonò puntualmente alle 8, alzarsi non fu tragico.
Non come tutte le mattine precedenti, quando a svegliarmi erano stati incubi o peggio ancora le mie stesse grida.
Per la terza mattina di seguito, mi svegliai con una consapevolezza che pian piano si stava facendo strada dentro di me, nel mio cuore: Edward mi aspettava.
E con molta probabilità, era quello il motivo che mi spingeva ad alzarmi, a sorridere prima ancora di aver messo piede fuori dal letto.
Rimasi diversi minuti rannicchiata sotto le coperte, pensando e sognando ad occhi aperti.
Avevo smesso di vivere nei miei programmi, di scrivere in un’agenda ora per ora tutto ciò che avrei fatto.
Avevo smesso di pensare sempre e solo alle mie sofferenze, al mio passato.
Adesso esisteva solo il presente e, qualche volta, il futuro.
Quando mi alzai, la prima cosa che feci fu aprire le tende ed inspirare il profumo di salsedine, sentendo la pelle scaldarsi sotto i raggi del sole.
Mi sembrava di volare.
Mentre scendevo le scale, mentre preparavo la colazione, mentre canticchiavo sotto il getto caldo della doccia, era come avere un paio d’ali ai piedi.
Volavo.
A volte raso terra,  a volte atterravo e, spesso, toccavo il cielo con un dito.
I miei voli dipendevano tutti dai miei pensieri, ed essi dipendevano da Lui.
Tornai con i piedi ben piantati a terra quando gli altri si svegliarono.
Non che volessi nascondere ciò che sentivo, assolutamente no.
Semplicemente non avrebbero potuto capire e mi avrebbero etichettato come la “Bella adolescente alla sua prima cotta”.
Non mi era mai importato del giudizio degli altri, eppure stavolta sentivo che era una cosa troppo grande, troppo intensa, troppo… nostra, per permettere a qualcuno di ricamarci sopra o, ancora peggio, renderla squallida.
Volevo proteggerci.
Per la prima volta, sentivo il bisogno di proteggere qualcosa.
Ero stata violata una volta, e da allora avevo smesso di proteggermi.
Era come se fossi rimasta nuda per anni, vulnerabile.
Anche ora lo ero, ma la differenza era che avevo indosso un leggero lenzuolo bianco, e seppur semitrasparente, non era come essere senza.
< Anche oggi di buon umore?> Domandò retorica mia madre, sorridendomi mentre cercava invano di accendere la macchina del caffè.
< Buongiorno> Risposi aiutandola.
< Dov’è Jake?> Domandai quando mi accorsi che la sua sedia era vuota.
Mia madre mi lanciò un’occhiata che valse più di mille parole, sorridendo.
< Ohh> Risposi distogliendo lo sguardo, imbarazzata.
Capii subito che aveva passato la notte fuori, con Rebecca.
Non che fosse una novità, certo, ma volevo evitare di immaginare mio fratello in certi… atteggiamenti.
Non che fossi una persona estremamente pudica, in fondo era una cosa naturale, piacevole, e anche se non avevo ancora avuto la possibilità di provare certe emozioni sulla mia pelle, non ci trovavo nulla di male.
< Allora, quali sono i tuoi programmi per oggi?> Domandò mia madre quando mi sedetti accanto a lei, con la mia tazza di caffè tra le mani- l’unico lusso che mi concedevo- e la mia copia di Jane Eyre nell’altra.
Sollevai a malapena lo sguardo dal libro, sorridendo imbarazzata.
< Ti vedi con Edward> Concluse ridendo, soddisfatta.
Annuii, tornando alla mia lettura.
Ero talmente presa dai miei pensieri che quasi non mi accorsi di star leggendo al contrario.
Con le guance rosse dall’imbarazzo e lo sguardo divertito di mia madre puntato contro, chiusi la copia e mi affrettai a lavare le tazze.
Avrei passato tutto il giorno con Edward, in spiaggia.
Non sapevo ancora che quel giorno sarebbe cambiato qualcosa… Non sapevo che io sarei cambiata.

*****

Quando, un paio d’ore dopo, uscii di casa, il sole era alto nel cielo terso, senza nemmeno l’ombra di una piccola nuvoletta bianca.
Era una giornata quasi perfetta, e sapevo che presto lo sarebbe diventata completamente.
Mi sbrigai a raggiungere il pontile, ormai diventato il nostro ritrovo personale, senza nemmeno più sforzarmi di camminare piano.
Per quale motivo, poi?
Per perdere quei due preziosi minuti che potevamo passare insieme?
Edward se ne stava seduto all’estremità, i piedi pendoloni e lo sguardo perso nell’oceano.
Si passò una mano tra i capelli, ignaro del mio sguardo penetrante dietro di lui.
Osservai attentamente come le sue braccia muscolose si allungavano, come le sue lunghe dita affusolate si intrufolavano tra i capelli, come la bocca si arricciasse impercettibilmente.
Quando non riuscii più a resistere, iniziai a camminare velocemente sulla passerella di legno, facendolo voltare.
E persi ancora un battito quando mi regalò uno dei suoi sorrisi più belli.
Pochi secondi dopo ero tra le sue braccia, riscaldata dal suo calore e stordita dal suo odore.
Le sue dita s’intrecciarono alle mie, posandosi entrambe sui miei fianchi, mentre le sue labbra corsero alla mia fronte.
Mi sentivo come un essere invertebrato, priva di spina dorsale e completamente sciolta contro il suo petto.
Era una bella sensazione, quella dell’abbandono a lui, al suo corpo.
Scostai il viso dal suo petto ed alzai lo sguardo verso il suo viso, scontrandomi con i suoi occhi, quei meravigliosi, enormi fari color smeraldo, accesi da una luce nuova, diversa.
Quella dell’amore.
Le sue mani corsero al mio viso, ed entrambi ci avvicinammo trattenendo il fiato per ciò che stavamo per fare.
< Mi sei mancata> Mormorò roco sulle mie labbra, un istante prima di catturarle in uno dei baci più intensi che avessi mai dato.
Fu strano baciarlo.
Non come le volte precedenti, quando credevo di volare.
Questa volta non sentii quelle ali, non toccai il cielo con un dito.
Sentii piuttosto come una forza violenta incollarmi a lui, uno strano calore bruciarmi dentro.
Sentivo la testa girare ed era come essere sdraiati lì, su quel pontile.
Eppure non ebbi paura.
Forse avrei dovuto averne. Probabilmente. Eppure non fu così.
Quando ci staccammo eravamo entrambi visibilmente scossi, eppure ci sorridemmo imbarazzati.
Era una situazione… strana.
Sì, strana era la parola giusta.
< Che cosa facciamo oggi?> Domandai prendendogli la mano mentre ci allontanavamo dal pontile.
Ridacchiò, avvicinandosi a me e stringendo la mia mano.
< Ci rilassiamo> Annunciò guidandomi sulla spiaggia.
< Sembra una cosa interessante>Risposi aiutandolo a stendere l’enorme telo scuro che aveva portato.
Senza timori si sfilò la maglietta, davanti a me, rimanendo a petto nudo.
Oh Dio.
Non era la prima volta che lo vedevo così, eppure tutti quei muscoli rigidi, perfettamente scolpiti…
Sperai con tutto il cuore che non si fosse accorto del mio sguardo da adolescente con gli ormoni impazziti, distogliendo lo sguardo e concentrandomi sull’oceano di fronte a me.
Quando mi voltai Edward era sdraiato accanto a me, gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il sole.
Come richiamato dal mio sguardo voltò la testa verso di me, socchiudendo gli occhi e osservandomi da sotto quelle lunghissime ciglia nere.
Sembrò voler dire qualcosa, il suo sguardo vagò sul mio corpo, ma subito spostò di nuovo lo sguardo verso di me e la sua mano catturò la mia.
< Vieni qui> Sussurrò aprendo le braccia.
Senza pensarci due volte mi sdraiai sul fianco verso di lui, la testa sul suo braccio, una mano intrecciata alla sua, l’altra sul suo petto.
Posò la guancia sulla mia fronte e rimanemmo così per quella che sembrò un’eternità.
I nostri respiri si mescolavano tra loro, in perfetta sincronia.
< Sono questi i momenti che preferisco> Sussurrò ad un tratto. < Quando mi sento perfettamente in pace con me stesso, quando non esiste nient’altro all’infuori di noi. Sono questi i momenti in cui davvero so chi sono>.
Avrei potuto dire qualcosa.
Probabilmente avrei dovuto.
Eppure ero così sicura che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe stonato con quella situazione che mi limitai a stringermi a lui, rimanendo in silenzio.

****


Fix you-Coldplay

Non so quanto tempo passammo lì, sul quel telo da mare, abbracciati, a guardarci negli occhi o semplicemente a goderci quel momento.
Quando però Edward si mise seduto, il sole non era più cocente come prima.
Era pomeriggio.
Lo imitai, sentendomi leggermente indolenzita e accaldata.
La mia pelle bruciava e probabilmente mi ero scottata, eppure non sentivo dolore.
Stavo bene.
Non avevo preoccupazioni, solo un’intera giornata da passare con Edward.
Questo finchè non fu proprio lui a parlare.
< Andiamo a farci una nuotata?>
Il suo tono era dolce, felice, normale.
E sarebbe dovuto essere proprio così.
Avrei dovuto sorridere, mostrarmi felice e rincorrerlo fino a riva e tuffarmi con lui.
E invece mi sentii soffocare.
< Non so nuotare, lo sai> Borbottai cercando di sottrarmi dal suo sguardo indagatore, attento.
< Puoi sempre imparare, no? Innanzitutto potresti iniziare a non temere così tanto l’acqua> Rispose tranquillo.
Mi prese la mano, aiutandomi ad alzarmi e raggiungere la riva.
La distanza che separava il nostro telo dalla riva sembrava infinita.
Sentivo le tempie pulsare e tutto, intorno a me, girare.
Mi sentivo come un coniglio in un laboratorio, studiato attentamente dallo scienziato pazzo.
Ero come una bambola di porcellana tra le sue mani, priva di vita, priva di voce o corde vocali.
Un oggetto.
Il suo oggetto.
Improvvisamente sentii l’acqua arrivarmi poco sotto la pancia, fredda, violenta.
Non vedevo più i colori, era tutto sfuocato, tutto in bianco e nero.
Sentii un paio di mani sui miei fianchi, e ciò bastò a farmi perdere il controllo.
Non riuscivo più a capire niente, niente.
La sensazione di déjà-vu era fortissima, mi soffocava.
Non so cosa feci.
Sentii qualcuno ansimare, probabilmente ero io.
Era come se l’aria non riuscisse ad arrivare ai polmoni, come se la mia bocca si fosse improvvisamente asciugata.
I ricordi mi stavano assalendo.
Pochi minuti ancora e sarei crollata.
E questa volta non sapevo se sarei riuscita a riemergere.
 Mi sentivo sola.
Una fragile bambina di otto anni al suo primo corso di nuoto.
Un’ingenua bambina di otto anni nel suo costumino viola con i pesciolini.
Un’ingenua bambina di otto anni che non capiva cosa stesse succedendo.
< Bella>.
Mi chiamò.
La sua voce sembrava così reale, così vicina che mi ritrassi.
Le gambe cedettero e mi ritrovai in ginocchio con l’acqua che mi arrivava al petto.
Ma ormai non avevo più la forza di alzarmi, di scappare.
Sapevo che sarebbe successo ancora.
E sapevo anche che nessuno mi avrebbe sentito gridare, all’interno di quello spogliatoio dalle pareti grigie.
Nessuno sarebbe venuto a salvarmi.
Sarei rimasta di nuovo sola, a subire le sue violenze senza poterne parlare con nessuno, senza poter sospirare di sollievo.
Quella porta non si sarebbe mai aperta.
< Bella>.
Sentii di nuovo quella voce, ma questa volta non era la solita voce dura, eccitata, violenta.
Era una voce morbida, dolce, preoccupata.
< Edward> Singhiozzai con un filo di voce.
Non vedevo più niente, ero accecata.
Dall’odio, dalla paura, da tutte quelle violenze che avevo subito.
Sentivo un’enorme morsa comprimermi il petto, impedendomi di respirare.
Non sentivo più né il caldo né il freddo.
Ero come morta.
< Bella vuoi uscire?  Parlami Bella, ti prego. Parlami, amore mio>.
Parlami.
Nessuno mi aveva mai chiesto questo.
Nessuno mi aveva mai chiesto che cosa non andasse.
Nessuno mi aveva mai chiesto come era andata la lezione.
Nessuno si accorgeva che stavo male.
Nessuno.
Scossi la testa, violentemente, e tutto iniziò a girare.
Avrei voluto gridare, ma non ci riuscivo.
< Bella, amore, sono qui, ci sono io, va tutto bene>.
E all’improvviso vidi un debole bagliore.
Ero in un tunnel buio, freddo, isolato.
Eppure c’era una debole luce che filtrava.
La fine del tunnel.
Ritrovai la voce.
La mia voce perduta, quella che non avevo avuto la forza di far uscire molti anni prima.
La stessa voce che avrebbe potuto salvarmi quando nessuno sapeva ciò che mi stava succedendo.
E quando iniziai a parlare, il volume era sempre troppo basso da udire.
Volevo che tutte quelle persone che avevano fatto finta di non sentirmi piangere la sentissero; volevo che chi non sapeva che cosa avevo passato, chi pensava che fossi semplicemente “strana” sentisse ciò che non avevo mai avuto il coraggio di raccontare.
Ed iniziai a parlare.
Gradavo, piangevo, singhiozzavo.
Eppure parlavo.
Stavo facendo ciò che avrei dovuto fare molti anni prima, ciò che probabilmente mi avrebbe salvato.
< Quando avevo otto anni mia madre mi mandò ad un corso di nuoto per imparare a nuotare>.
Mi sembrava di impiegare anni a raccontare tutto, eppure non mi importava.
Volevo solo tirare fuori tutto il dolore che avevo tenuto nascosto ed accumulato in quei dieci anni.
< Avevo un istruttore giovane, un ragazzo di soli 28 anni. Era simpatico, carino, mi faceva sempre ridere.
< Non vedevo l’ora che fosse mercoledì per nuotare insieme a lui>.
Mi fermai, cercando di respirare.
< Poi un giorno mi toccò. Come se fosse una cosa normale, una cosa che fanno tutti.
< Le sue mani ruvide si muovevano su di me, mi violavano. Non si preoccupava di farmi male, non si preoccupava di niente. Una stupida bambina di otto anni che cosa ne capisce? Niente.
< Sentivo le sue dita ovunque nel mio corpo, in punti che nemmeno sapevo di avere> .
Rivivevo tutto nella mia mente, tutto. Ogni singolo dettaglio, ogni singola sensazione.
Sentivo le sue dita su di me, una ad una, i suoi gemiti rochi.
E poi vedevo me stessa, rannicchiata in un angolo, gli occhi sbarrati dal terrore e gonfi di lacrime, deboli lamenti uscire dalla mia bocca.
< Non sapevo che cosa stava succedendo, non capivo niente. Era come un brutto sogno, un incubo.
< Non avevo la percezione del tempo, non sapevo quanto quelle violenze durassero. Sembravano sempre incredibilmente lunghe. E quando finalmente finivano, il senso di colpa mi dilaniava. Credevo che fosse colpa mia, che avrei dovuto oppormi, oppure accontentarlo. Non sapevo che cosa dovevo fare, che cosa mi stesse facendo. Eppure sentivo dolore. E l’unica cosa che sapevo era che il dolore faceva male e c’era sempre un modo per placarlo. Eppure in quel caso non esisteva>.
< Rimanevo immobile, in un angolo, senza dire o fare nulla, semplicemente a sperare che qualcuno venisse a salvarmi, che lui si allontanasse.
< Avevo paura Edward. Ero terrorizzata. Ed ero sola> Gemetti.
Le sue braccia calde mi strinsero forte come non avevano mai fatto, e lacrime calde caddero dai miei occhi e dai suoi.
Piansi.
Piansi per me, per quello che avevo passato, per tutto il dolore provato, per tutte le parole che avevo appena detto.
Piansi per lui, per tutto quello che stava facendo per me, per tutto quello che aveva passato e tutto quello che aveva ascoltato per me.
Piangemmo insieme, per un lasso di tempo che sembrò infinito.
Eppure questa volta, piangendo, mi sentii bene.
Finalmente ero libera, libera da quel peso che mi ero portata dentro per tutti quegli anni, libera dal dolore che mi opprimeva il petto ogni giorno, ogni ora, ogni notte.
Libera dal fantasma del mio passato, libera da quei dolorosi ricordi che erano rimasti chiusi in un cassetto per troppo tempo.
Libera da me stessa, da quella che ero diventata dopo quegli episodi.

*****


< Come si fa a cancellare i ricordi?> Domandai molto tempo dopo, quando ormai l’acqua intorno a me sembrava calda e le mie dita erano vizze.
< Non si può cancellarli, ma Esme mi ha insegnato un modo per metterli via e non vederli più> Rispose continuando a tenermi stretta a lui.
< Insegnamelo>.
< Chiudi gli occhi. Sì, così, brava. Ora immagina>
< Che cosa?> Domandai stanca.
< Lasciami parlare. Prendi delle scatole immaginarie che hai in testa. Aprile e mettici dentro tutte le cose brutte, i ricordi che vuoi cancellare dalla mente. Ora sigilla le scatole con del nastro adesivo mentale. Non guardarmi così, chiudi gli occhi e fallo> Mi riprese bonario, sorridendo.
< Adesso accatastale in un angolo lontano, remoto. Un angolo buio, lontano da te e nascondile sotto una coperta>.
< Di che colore?> Domandai.
< Come?>
< La coperta. Di che colore è?> Domandai ancora, tenendo gli occhi chiusi.
Ci pensò su un attimo.
< è nera> Rispose infine. < Nera come l’oscurità in cui si trova e nella quale rimarrà per sempre>.
Lo feci.
Visualizzai le scatole, il nastro adesivo e la coperta nera come la pece.
Presi la scatola, la aprii, vi ficcai tutto il dolore, tutte le immagini, i suoni, tutto ciò che mi ricordava quegli episodi e la chiusi con un doppio strato di nastro adesivo, come ad assicurarmi che i ricordi non uscissero.
Lo feci e li trascinai con tutte le mie forze nell’angolo più buio e remoto della mia mente, quello che avrei chiuso con una chiave ed assicurato con i residui di quel nastro mentale magico.
< Ha funzionato?> Domandò quando riaprii gli occhi.
< Chiedimelo domani, quando sarò sicura di non aver sognato tutto>.
 

*****

< Perché non ne hai mai parlato con nessuno?> Domandò Edward.
Eravamo seduti sulla sabbia ormai fredda.
Il sole stava per tramontare e la maggior parte dei bagnanti avevano lasciato la spiaggia.
Alzai le spalle, tirando su col naso. < Jacob lo sa. È l’unico a cui ho raccontato tutto>.
Edward annuì, osservandomi preoccupato.
< Non voglio che mi guardi così, non voglio che pensi che io sia fragile, che stia per crollare. Quello che è successo oggi… >
< Ti sei pentita?> M’interruppe.
Corrugai le sopracciglia, sforzandomi di capire.
Mi sentivo stanca, la mente annebbiata.
< Sei pentita di avermi raccontato tutto?> Ripeté paziente.
< No> Risposi soltanto.
< E allora quello che è successo oggi è importante, ma non cambierà la mia opinione su di te. Sei sempre tu, Bella. Sempre la solita e dolce Isabella Swan. Penso ancora quello che pensavo ieri su di te, e continuerò a pensarlo anche domani e dopodomani>.
< Che cosa pensi di me?> Domandai con un filo di voce.
Mi sorrise, dolce e furbo, e si avvicinò a me, lentamente.
< Penso che sei dolce> Si avvicinò. < Che sei tenera> Continuò ad avvicinarsi.
Ogni passo era una parola, ed ogni parola era un passo verso di me, verso il mio corpo.
< Intelligente, impossibile, timida, riflessiva e bellissima>
Era ormai sdraiato sopra di me quando sussurrò al mio orecchio: < Sei speciale. È per questo che mi sono innamorato di te. Non per il tuo passato. Per te>.
E in quel momento un nuovo proposito per quell’estate si fece largo dentro di me: Ricominciare a vivere.
 

Note dell’autrice

Ed eccoci qua. Finalmente il misterioso passato di Bella è stato svelato.
Deluse? Spero di no.
Che cosa avevate immaginato?
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Sinceramente penso che sia molto importante, e con questa storia mi sto esponendo moltissimo.
Spero di non pentirmene.
Mi piacerebbe ricevere le vostre opinioni, sapere che ne pensate.
Spero di riuscire a postare regolarmente la prossima settimana.
In caso contrario, vi lascio il link della mia PAGINA FACEBOOK che aggiornerò puntualmente in caso di ritardo etc.
A presto.
Un bacio, Chiara.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Note dell'autrice

Felice Halloween a tutte. Spero che almeno voi vi stiate divertendo, io sono bloccata a letto con una borsite trocanterica, la solita fortuna che va in vacanza proprio ad Halloween. 
Vi chiedo scusa per questo ENORME ritardo. Davvero. Ripeto che non sto passando un bel periodo, non riesco più a scrivere come prima, e c'è stato un momento in cui ho seriamente pensato che non sarei più riuscita a scrivere. Fortuna che è passato riuscendo a scrivere questo capitolo.
Quindi, mi scuso sin da ora in caso di eventuali ritardi che spero non arrivino. 
Ho cercato per un'ora la canzone da mettervi, ma non ne sono venuta a capo.
Il capitolo l'ho scritto ascoltando un paio di volte il nuovo cd dei Coldplay, fate voi. Ci leggiamo in fondo, buona lettura. 


Dedico il capitolo a tutte quelle persone che questa sera, invece di  festeggiare, staranno a casa e, naturalmente a M: capirai il perchè leggendo la parte finale del capitolo.

Capitolo 14

Bella Pov

< Com’è che dicevi? “Edward non ho intenzione di alzarmi da questo asciugamano”> Come una bambina capricciosa mi volta dall’altra parte, le braccia incrociate sotto al seno.
Lo sentii ridere forte, e pochi istanti dopo le sue braccia erano strette attorno al mio corpo.
Non avevo intenzione di cedere così facilmente, per cui rimasi immobile, fingendomi ancora offesa.
Beh, non dovevo faticare poi così tanto…
< La tua voce è odiosa quando mi imiti> Borbottai sforzandomi di non scoppiare a ridere.
< Andiamo Bella! Quanti anni hai?> Esclamò Edward esasperato, voltandomi verso di lui.
Alzai il dito medio senza indugiare, facendolo ridere anziché provocarlo.
< Capisco che tu abbia paura, che non sei abituata a metterti nelle mani di qualcuno, che fai sempre tutto da sola, che sei indipendente, ma per una volta, una fottutissima volta, puoi lasciarti andare?> Domandò prendendo il mio viso tra le mani e costringendomi a guardarlo negli occhi.
< Io non ho paura> Borbottai distogliendo lo sguardo.
< Dio quanto sei testarda!> Esclamò alzando gli occhi al cielo.
Gli feci il verso, continuando a pensare di avere ragione quando era evidente il contrario.
Odiavo essere contraddetta.
< Dio quanto sei… insistente!> Provai ad imitarlo, ma il risultato fu piuttosto scarso.
Si morse le labbra per evitare di scoppiarmi a ridere in faccia.
< Vai a quel paese> Borbottai ancora, allontanandomi da lui a grandi passi.
Sapevo quanto avesse ragione, e sapevo anche quanto fossi nel torto ma… Non volevo che vedesse la mia debolezza, e se avessi ceduto, mi sarei messa a nudo con lui.
Mi corse dietro, afferrandomi per i fianchi e facendomi cadere sulla sabbia calda, il suo corpo sopra il mio.
< Per favore> Sussurrò a poche spanne dal mio viso.
Il suo fiato caldo mi solleticava la pelle arrossata mentre le sue dita giocavano con qualche ciocca dei miei capelli.
< Dieci minuti. Dammi dieci minuti. Se non ti sentirai a tuo agio, se non ti piacerà, ci fermeremo> Continuò, il suo viso sempre più vicino al mio.
< Così non vale però…> Sussurrai senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi, grandi, sinceri.
< Mi stai seducendo> Confessai, maledicendomi subito per averlo detto a voce alta.
I suoi occhi si illuminarono e si aprì in un enorme sorriso divertito.
< Pensavo di averlo già fatto, amore>.
< Cosa… Cosa hai detto?> Balbettai con gli occhi fuori dalle orbite.
Non poteva… Di sicuro non mi aveva… non mi aveva chiamato… Amore.
Edward mi guardò confuso, ripercorrendo con la mente i pochi istanti precedenti, finchè non si rese conto di ciò che gli era scappato.
Ma invece di abbozzare un sorriso mortificato o peggio ancora pentito, si aprì in un largo, caldo sorriso.
Talmente bello e sincero, che capii ciò che quella semplice parola significasse per lui.
< Vorrei poter dire che volevo dirtelo, il che è vero, però non adesso, non così… Volevo che fosse un po’ meglio, più romantico, più…> Lo interruppi posando il mio indice sulle sue labbra.
< Sssh. Zitto> Iniziai. Non potevo vedermi, ma ero sicura che sul mio viso ci fosse un terribile sorriso ebete.
< Non hai sbagliato proprio niente, anzi. La perfezione, Edward, è uno stupido cliché irraggiungibile, e anche se tu ci vai molto vicino, anche se sei il prototipo di Fidanzato Perfetto barra Principe Azzurro delle favole,  sei umano, ed è giusto che il tuo cuore prenda possesso della tua bocca e delle tue corde vocali e che i pensieri che vorticano dentro quella tua testolina dura escano fuori, qualche volta>.
Edward tacque, e sembrò combattuto con le sue labbra, come se avesse voluto muoverle e aggiungere altro, ma alla fine si limitò a sorridermi e accarezzarmi di nuovo i capelli in quel modo assurdamente piacevole.
Inaspettatamente, allungai il viso verso il suo, posando le mie labbra calde sulle sue soffici, dando vita al bacio più lungo e calmo che avessi mai dato.
Con Edward, ogni cosa nuova, era una scoperta, e dovevo ammettere di aver iniziato a fare progressi enormi.
Con lui tutto veniva naturale, non mi sentivo mai costretta a fare qualcosa, per cui ogni singolo bacio, ogni carezza, ogni abbraccio, era un gesto dettato dal mio cuore, ed ogni volta che riuscivo ad aprirmi, ero grata a lui per aspettarmi sempre ed essere paziente.
Edward era speciale.
Lo sapevo io, lo sapeva mia madre, lo sapeva chi lo conosceva.
Non  aveva poteri speciali, non era un nome noto, eppure aveva un cuore enorme, capace di dare e ricevere amore da tutti quanti.
Quando ci staccammo, entrambi avevamo il fiato corto.
Forse era la posizione- in fondo, eravamo praticamente come un toast ed una sottiletta sdraiati a terra- o forse, più semplicemente,  era tutto troppo forte per due semplici esseri umani.
Edward prese un bel respiro, tenendomi la mano, e si avvicinò di nuovo a me, calmo ma deciso.
< Allora, signorina Swan, è pronta?> Domandò sorridendomi dolcemente.
Sbuffai. < Non è che hai studiato tutto a tavolino per farmi cedere? Nel caso, sarei molto arrabbiata con te, sarei davvero, davvero molto…> Questa volta fu lui a non permettermi di finire la frase, ricominciando a baciarmi.
Ed io non sapevo davvero come fare per fermarlo. Non sapevo come fermare me e l’assurdo desiderio di baciarlo sempre e per sempre.
Era come una droga: una volta che hai provato l’esperienza, capisci che è una cosa nuova, forte, non vedi l’ora di rifarlo, e quando poi lo rifai, ormai ne sei dipendente.
Mi staccai da lui, a malincuore, e mi presi un minuto per pensare.
Spostai lo sguardo verso l’oceano, quell’enorme massa d’acqua che pareva immobile, e di nuovo, guardai lui, concentrandomi sui suoi occhi.
Il suo sguardo era calmo, dolce, impossibile da sostenere.
Aspettò per minuti interi, osservandomi.
Non aveva fretta, voleva accertarsi solo che fossi pronta.
Lo ero?
La scelta spettava a me.
Avrei potuto dire di sì e passare l’intero pomeriggio con lui, superando un difficile ostacolo, oppure avrei potuto  tirarmi indietro dal problema, come ultimamente ero diventata brava a fare.
Prima ancora di poter elaborare una risposta, i miei occhi si posarono nuovamente su di lui.
E non ci fu bisogno di rispondermi.

*****


Edward Pov

“Io mi fido di te”.
Ecco cosa aveva detto.
Mi fido di te.
Poche parole, una frase all’apparenza fatta, ma con un significato totalmente nostro.
Non solo aveva detto di sì, accettando quindi di superare la sua più grande paura, ma aveva detto di sì mettendosi nelle mie mani.
Era… indescrivibile.
Così come indescrivibile erano le emozioni che si erano impossessati di me, del mio cervello, del mio corpo perfino.
Mi sentivo un’altra persona, un pazzo.
Pazzo di lei.
“Sei pronta?” Domandai tendendole la mano perché l’accettasse.
Nervosa e- probabilmente-imbarazzata dal suo… abbigliamento Bella annuì, afferrando con decisione la mia mano e lasciandosi trascinare a riva.
Indossava un aderente costume intero, nero, come tanti… Eppure addosso a lei faceva completamente un’altra impressione.
Seguiva perfettamente le sue curve non certo prorompenti ma delicate, il suo seno piccolo ma rotondo, la sua schiena dritta e leggermente abbronzata, la piega del fondoschiena, leggermente più grande rispetto a quello che pensavo e le lunghe gambe affusolate, eleganti.
Era bellissima.
Talmente bella e genuina che dovetti ben presto cancellare alcuni sogni recenti.
Spostai lo sguardo altrove, non potevo permettermi di farmi beccare in flagrante da lei, o almeno, era ancora troppo presto.
< Ci sei? Possiamo andare?> Domandai stringendole la mano, ricordandole di me, della mia presenza costante.
Sospirò forte ma infine annuì.
Iniziammo ad avanzare cautamente verso acque più profonde, facendo pochi piccoli passi, senza preoccuparci di altro all’infuori di noi.
Quando l’acqua le arrivò al bacino, ci fermammo.
Mi piegai sulle ginocchia, lasciando che l’acqua mi arrivasse alle spalle, stringendole forte la mano e aspettando che seguisse il mio esempio.
I capelli erano legati in un alto chignon disordinato che la rendeva estremamente elegante, aggraziata.
Una ballerina.
< E se una corrente sottomarina mi porta via?> Domandò all’improvviso.
Seduto com’ero, potevo ammirarla dall’alto verso il basso, visione ancor più estasiante.
Risi piano, scotendo delicatamente il capo.
< Siamo in neanche un metro d’acqua, a poca distanza da riva, che correnti vuoi che ci siano?> Domandai retorico.
< E anche se ci fossero, non sono come nei film horror o fantascientifici, non è che ti risucchiano o ti trascinano via alla velocità della luce, ho tutto il tempo per riprenderti> Aggiunsi.
Mi guardò dubbiosa, ma non aggiunse altro.
< Non lascerò mia la tua mano, d’accordo?> Continuai stringendola ancor più.
Si morse le labbra, probabilmente senza accorgersi dell’effetto che quel piccolo gesto ebbe su di me, e infine annuì.
Con un sospiro, si abbassò come me, lasciando che l’acqua tiepida le bagnasse il resto del corpo, lasciando fuori la testa.
Inaspettatamente, ancorò le braccia al mio collo, lasciandomi senza fiato.
Non mi sarei mai immaginato un contatto del genere, MAI.
Non sapevo cosa dire, come comportarmi… Era tutto nuovo, imprevedibile…
< Non lasciarmi affogare, d’accordo?> Domandò con voce flebile.
Sorrisi piano, senza muovermi.
< D’accordo> Risposi infine.
< Tienimi forte Edward> Mormorò talmente piano che credetti di aver immaginato tutto.
Eppure quando le sue braccia si strinsero attorno al mio collo, le mie corsero automaticamente ai suoi fianchi, stringendola forte a me.
Continuai ad avanzare verso acque più profonde, compiacendomi delle sue braccia che si stringevano a me sempre più.
Camminavo avanti e indietro, lasciando che l’acqua bagnasse i nostri corpi e che Bella prendesse confidenza con essa.
Non so quanto tempo passammo così, a camminare in silenzio, abbracciati l’uno all’altra senza paura, senza timori, senza vergogna.
So solo che ad un tratto, Bella mi chiese di fermarmi e lasciarla andare.
Non perché volesse uscire o perché fosse imbarazzata, tutt’altro.
Una volta libera, strinse la mia mano e, lasciandola, iniziò a passeggiare accanto a me, senza tenersi a niente.
Le ore passavano, e noi passeggiavamo avanti e indietro, senza fretta, parlando di qualunque cosa ci passasse per la mente.
< Che dici, proviamo a fare qualcosa di più?> Domandai ad un tratto.
Bella si fermò, ma non sembrò turbata o impaurita, tutt’altro.
Ormai aveva preso dimestichezza con l’acqua, e anche se eravamo ancora lontani dal nostro obbiettivo, avevamo pur sempre raggiunto un importante traguardo.
< Cosa vuoi fare?> Domandò prendendomi la mano e sfiorando le nostre dita vizze dalle molte ore passate in acqua.
< Nuotiamo come due cani> Annunciai facendola ridere.
< Non ridere sai? I cani sono ottimi nuotatori> Scherzai ridendo.
Le mostrai come fare, cercando di non essere troppo goffo: in fondo, era quello stile a rendere tutti un po’ goffi…
Dopo una decina di tentativi, di cui la maggior parte rischiò di immergersi anche con la testa, Bella iniziò a nuotare qua e là, in modo goffo e buffo, è vero, ma stava pur sempre nuotando alla sua prima lezione.
< Non ridere di me, lo so che stai cercando di trattenerti> Sbottò ad un tratto, improvvisamente dietro di me.
Non capivo come c’era arrivata.
Probabilmente mi ero distratto un attimo.
< Non sto ridendo> Mi difesi, purtroppo lasciandomi scappare una mezza risata.
Bella incrociò le braccia al petto, lanciandomi una finta occhiata assassina.
< Beh, non rido di te, almeno> Aggiunsi.
< Bravo, parati il culo> Sbottò fingendosi offesa.
Mi finsi scioccato da ciò che aveva appena detto, continuando con quello stupido gioco.
< Oh Mon Dieu, che linguaggio scurrile, signorina Swan! Da lei non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, devo ammetterlo>.
Bella mi fece una linguaccia, e prima ancora che potessi voltarmi, mi tirò una manciata d’acqua in faccia, facendomene bere qualche mezzo litro.
< E istiga persino alla violenza un giovane soldato!> Esclamai schizzandola a mia volta, naturalmente evitando di farla bere.
Non so quanto tempo passammo così, a schizzarci e rincorrerci, andando sempre più verso acque profonde.
Ero però certo che Bella non si fosse accorta di star ormai nuotando da sola, data la profondità dell’acqua.
La afferrai per la vita, stringendola a me, per evitare spiacevoli inconvenienti capaci di traumatizzarla, e beandomi di quel meraviglioso contatto.
Lo spensierato sorriso sulle sue labbra non accennava ad andarsene, e sperai che non lo facesse mai.
Le sue braccia si strinsero intorno al mio collo, e questa volta, le sue gambe si arpionarono ai miei fianchi.
Probabilmente non si era resa conto del modo in cui mi stava provocando, dato che continuava a sorridere tranquilla.
Rimasi concentrato, sforzandomi di non fare l’adolescente con gli ormoni in subbuglio, e cercando di non farle capire ciò che provavo in quel momento.
< Sai che non ho la minima intenzione di uscire da qui, vero?> Chiese retorica Bella, sospirando e posando la guancia contro la mia.
Sorrisi, baciandola proprio lì, sentendola rabbrividire.
La sua guancia era morbida, liscia, profumava di sale.
Il sole era ormai tramontato all’orizzonte, e sulla spiaggia non c’era quasi nessuno.                  
Sarei rimasto la dentro anche tutta la notte, ma i nostri stomaci non la pensavano così, dato che iniziarono a ruggire quasi all’unisono.
< Mi sa che non posso fingere di non essere umana a lungo, quando sono con te, vero?> Brontolò Bella, facendomi ridere.
< Siamo solo due poveri esseri umani…> Mormorai stringendola forte a me.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto ancora, a contemplare l’oscurità che man a mano che il tempo passava ci investiva.
< Direi che potremo uscire…> Esordii infine, sistemandola meglio contro di me per poter raggiungere la riva nuotando.
< Aspetta> Mi bloccò afferrandomi l’avambraccio.
Voltai il viso verso il suo, accorgendomi che aveva iniziato a mordicchiarsi le labbra, nervosa.
Aspettai che parlasse, ma ancora una volta mi stupì: invece di aggiungere qualcosa, le sue dita s’intrecciarono ai miei capelli e l e sue labbra trovarono subito le mie, dando vita ad un lungo ed appassionato bacio, di quelli con poche labbra e molta lingua, come mai prima d’ora ci eravamo scambiati.
Sentivo i nostri nasi premere forte l’uno contro l’altro, le nostre lingue rincorrersi e i nostri sapori mescolarsi.
Stavo tremando. Sentivo i muscoli tremare dentro di me, ed il cuore battere talmente forte che avevo paura riuscisse a sentirlo.
Avrei voluto continuare a baciarla ancora e ancora, ma dovevo respirare.
Mi staccai a malincuore da lei, premendo la fronte contro la sua e cercando di calmare il respiro.
< Tu mi farai prendere un infarto, un giorno> Mormorai scoppiando a ridere, lei con me.
< c'est la vie> Rispose ridendo.
< Oh Mon Dieu, C'est le paradis> Risposi, lasciando che si ancorasse nuovamente a lei.
< Non sapevo conoscessi il Francese> Osservò stringendosi contro di me.
< Non sai molte cose di me> Le feci l’occhiolino, preparandomi a nuotare fino a riva.
< Vorrei iniziare a conoscerle…> Ammise spostando lo sguardo altrove.
Continuai, facendola ridere.
< L’accento francese ti dona> Le sue labbra si posarono calde e bagnate sulla mia guancia, facendola prendere fuoco.
Era il momento perfetto per dirlo.
Sarebbe stato davvero il momento più adatto, più romantico.
< Je t’aime> Sussurrai con un filo di voce, roca dall’emozione.
Bella si voltò verso di me, con lo stesso sorriso di prima.
< Hai detto qualcosa?> Domandò tranquilla.
Sospirai. < Possiamo uscire?>.
Forse ero uno stupido, però pensavo che quando sarebbe stato il momento, il destino mi sarebbe venuto in contro.
Magari, dietro a quella sordità, c’era lo zampino di chi sapeva cosa far succedere e quando.
Se fosse stato destino, per noi, tutto sarebbe venuto a suo tempo.
Ci credevo fermamente.


Note dell'autrice

Eccoci qua.
Spero vi sia piaciuto, a me ha dato molto scriverlo.
Ringrazio tutte quelle magnifiche persone che hanno recensito lo scorso capitolo, chi ha aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite, e tutte le ragazze che mi seguono anche sulla PAGINA FACEBOOK
Spero di postare puntualmente la prossima settimana, in caso contrario, nella pagina  troverete spoiler o eventuali avvisi.
Grazie a tutte, e Felice Halloween. 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Note dell'autrice

Buonasera.
Inannzitutto, scusate per il mancato aggiornamento la scorsa settimana, ma è stato davvero un delirio. Spero che questa settimana sia migliore, me lo auguro con tutto il cuore.
Non posso garantirvi un aggiornamento fisso, ma posso assicurarvi che  prima o poi, in maniera discontinua, purtroppo, l'aggiornamento ci sarà. Ripeto: NON HO INTENZIONE Nè DI SOSPENDERE Nè DI CANCELLARE LA STORIA! 
Spero possiate capirmi che continuare a seguirmi, anche se non puntualmente una volta a settimana.
Per chi ha chiesto in quale giorno cade l'aggiornamento, non ho una risposta sicura, ma più o meno penso di continuare a postare il lunedì.
Eccovi qui il capitolo. Non è molto bello, la prima parte è noiosa, lo so, ho avuto moltissime difficoltà nello scriverlo, ma purtroppo è un capitolo importantissimo per lo sviluppo della storia, ci doveva essere.
Detto questo, spero comunque di sentire una vostra opinione. Scusate nel caso ci siano alcuni errori, ma ho appena scritto il capitolo e gli occhi mi si stanno praticamente chiudendo causa insonnia notturna.
 Ci leggiamo sotto, buona lettura :)


Capitolo 15

Edward Pov

Point of no return

“Allora, allenatore, quali acrobazie sono previste per questo intenso pomeriggio di allenamento?” La voce tranquilla di Bella, ormai immersa nell’acqua fino alle clavicole, allontanò tutte le preoccupazioni nate grazie alle parole di Alice, quella mattina.
Un litigio con Jacob Black. Ecco cosa aveva sognato.
Credevo fermamente ai presagi di Alice, ma spesso le sue sensazioni cambiavano, i suoi sogni si realizzavano in modo completamente diverso… E non riuscivo proprio ad immaginare un mio litigio con lui…
“Sei pronta per imparare lo stile della rana?” Tornai a concentrarmi su di lei, cosa che tra l’altro non mi veniva nemmeno difficile.
Bella sorrise, le sue labbra si incurvarono dolcemente verso l’alto e i suoi occhi si illuminarono.
Ero fiero di lei, dei suoi progressi: aveva sconfitto la sua paura più grande, grazie a me.
Annuì tranquilla, schizzandomi con l’acqua, come molte volte aveva fatto.
“Però” Aggiunse avvicinandosi a me, fino ad arrivare al mio orecchio. “Voglio un premio dopo” Sussurrò facendomi rabbrividire.
“Vedremo, vedremo” Sussurrai Bagnandomi i capelli, recuperando il controllo.
Era passata ormai una settimana da quando avevamo iniziato con le nostre lezioni, e Bella aveva davvero superato sé stessa, stupendomi ogni giorno di più.
Erano le dieci del mattino, il sole era ormai alto nel cielo, e l’oceano era ancora calmo, l’acqua era calda, molto di più rispetto al normale.
In quella settimana di lezioni, la pelle di Bella era completamente cambiata: si era abbronzata.
Invece di essere bianca come il latte, la sua carnagione era dorata. E le donava incredibilmente.
“Terra chiama Edward” Solo in quel momento mi resi conto che, probabilmente, me ne stavo fermo a fissare il vuoto da parecchio ormai.
“Non credi che sia meglio che tu mi mostri cosa fare?” Disse ridacchiando, spostandosi i capelli all’indietro.
Sembrava una sirena.
“Dimostrazione. Uhm, certo” Borbottai ritornando con i piedi ben piantati a terra.
Le mostrai quello stile che tanto amavo, cercando di essere il meno imbranato possibile.
Quando fu il suo turno di provare, si mosse con un’agilità e coordinazione che nemmeno lei pensava di avere.
“Come sono andata?” Domandò eccitata fermandosi per riprendere fiato.
Sorrisi. “Direi che non c’è bisogno di me, a questo punto.”
Ridacchiò, prendendomi per mano e avvicinandosi a me.
“ Ti sbagli, invece. È proprio ora che mi servi” Rispose facendomi l’occhiolino, scoppiando a ridere subito dopo.
Non capii subito ciò che intendesse dire, e al momento non vi prestai nemmeno troppa attenzione, concentrandomi di nuovo di quella sorta di lezione.
In fondo, anche se continuavamo a chiamarla tale, era molto, molto di più di una semplice lezione di nuoto…
“Prova ad aprire un po’ di più le gambe, come un ranocchio” Suggerii, vedendo il viso di Bella avvampare, facendomi scoppiare a ridere.
Mi divertivo a provocarla in quel modo, amavo le sue guance rosse, il suo sguardo imbarazzato. La facevano sembrare ancora più viva, più allegra, più bella.
In quel momento, Bella tirò un urlo talmente soffocato che temetti fosse scivolata nell’acqua.
Mi voltai istintivamente, trovandola a pochi passi da me, in piedi, una smorfia di dolore sul suo viso.
“Che succede?” Domandai affiancandola immediatamente.
“Non lo so, credo mi abbia punto qualcosa” Rispose alzando la gamba destra e ispezionando la pelle alla ricerca del danno.
Ma non c’era poi da cercare molto, dato che una serie di bolle facevano bella mostra di sé in alto, sulla sua coscia.
“è una medusa. Ti fa molto male?” Domandai sfiorando delicatamente una delle tante bollicine.
“Direi di sì” Borbottò Bella, evidentemente in imbarazzo.
“Andiamo via, coraggio” Dissi passandogli una mano dietro la schiena, tenendola stretta a me.
Sapevo che non era niente di preoccupante, avevo visto ferite ben peggiori, eppure era diverso.
Come se Bella fosse una bambola di porcellana, delicata, fragile, ed io fossi il suo proprietario, il suo custode.
Eravamo come una barca e il suo marinaio: affonda una, affonda anche l’altro.
Non osavo pensare che cosa sarebbe successo qualche mese più tardi, quando a separarci non sarebbero stati solo centinaia di kilometri, ma una guerra vera e propria…

*****

Una volta tornati a casa, avevo fatto sedere Bella sul divano, andando alla ricerca della cassetta del pronto soccorso.
La trovai nascosta dentro l’armadio dell’ingresso, ma avevo altro a cui pensare che alla sua strana quanto insolita ubicazione.
Raggiunsi di nuovo Bella sul divano, e mi inginocchiai davanti a lei, tra le sue gambe.
Dovevo ammetterlo: come posizione era leggermente imbarazzante, ma di nuovo, non persi tempo a fare il ragazzino imbarazzato.
Disinfettai la ferita con una manciata abbondante di bicarbonato, facendo attenzione a non farle male.
Osservai più da vicino la pinzatura, e intravidi i tentacoli attaccati alla pelle di Bella.
“Credo che adesso ti farò un po’ male” Dissi calmo, cercando di farla sorridere.
“Più di adesso? Nah, non credo” Rispose tranquilla Bella, sorridendo.
“Non è colpa mia se hai la pelle estremamente delicata” Borbottai  solleticandole i fianchi, facendola scoppiare a ridere mentre si divincolava tra le mie braccia.
Quando tornai a concentrarmi sul mio lavoro, il suo viso era finalmente disteso, le sue labbra curvate all’insù.
Se stava bene lei, allora, stavo bene pure io.
“Ok, sei pronta? Inizio a staccare questi stupidi tentacolini”.
Bella annuì, e con estrema cautela, iniziai a rimuovere quei piccoli frammenti usando le mie stesse mani, evitando così la lacerazione dei tessuti , in modo da non far fuoriuscire tossine dannose.
Bella gemette piano, il capo volto all’indietro, posato sul divano, mentre le sue mani si torturavano le une con le altre.
Sapevo che la puntura di una medusa poteva essere dolorosa, ed imprecai dentro di me chiedendomi perché avesse punto lei e non me.
In quel momento, sentimmo una porta sbattere, e prima che potessimo fare o semplicemente dire qualcosa, Jacob entrò nel salotto.
Si bloccò immediatamente non appena ci scorse sul divano.
Non ero mai stato bravo a capire le persone, ciò che gli passa per la mente, eppure in quel momento fu come se riuscissi a leggere nel pensiero.
Qualcosa in lui scattò.
Da tranquillo che era, il suo sguardo s’incupì, finchè le sue braccia non caddero rigide, i pugni serrati con forza, sui fianchi.
Successe tutto in pochi secondi.
Un attimo prima ero lì, inginocchiato tra le gambe di Bella, mentre un attimo dopo, ero in piedi, davanti a lui: mi stava fronteggiando.
Non so se domandò “che cosa sta succedendo qui?” o se lo pensò soltanto. In ogni caso, riuscii a sentirlo.
Forse, dopotutto, quando riguardava Bella avevo persino i superpoteri.
Misi a tacere la vena ironica che pian piano stava smettendo di pulsare e mi concentrai su ciò che stava succedendo.
Ero un soldato, e forse solo grazie a questo riuscii a schivare il pugno che rischiò di tirarmi in pieno volto.
“Jacob NO!” Gridò Bella spaventata, posizionandosi subito in mezzo a noi, tenendo le braccia indietro, verso di me.
“Cosa diavolo stai facendo?” Ringhiò lui, cercando di toglierla di mezzo.
“Cosa diavolo stai facendo tu?! Dì un po’, ti ha per caso dato di volta il cervello??!” Gridò così forte che quasi temetti di vederle la testa scoppiare.
La sua faccia era simile ad un’aragosta cotta qualche minuto in più del lecito.
“ Che cosa stavate facendo? Cosa?” Continuò.
“Mi ha punto una medusa, mi stava semplicemente DISINFETTANDO. Vuoi che ti faccia lo spelling?” Domandò sarcastica, con un tono che non le avevo mai sentito usare prima.
Jacob la guardò intensamente, gli occhi ridotti a due fessure.
Poi, dopo qualche istante, spostò lo sguardo verso di me, esaminandomi dall’alto in basso.
Quando fu certo che nessuno dei due gli stesse mentendo, chiuse gli occhi e fece un bel respiro profondo.
Si allontanò da noi, facendo avanti e indietro per il salotto, mentre Bella mi stringeva la mano, esausta.
“scusate” Sputò Jacob, senza guardarmi negli occhi.
“Credevo che… Avevo frainteso la situazione” Borbottò ancora cupo in volto.
Bella alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Come sempre” Sbottò infine, prendendomi per mano e trascinandomi al piano di sopra.
“Dove state andando?” Domandò il fratello, bloccandole il passo.
“Nella MIA stanza, quella in cui non entrerai per le prossime ore se hai un minimo senso di sopravvivenza” Disse Bella dura, autoritaria.
Jacob rimase stupito di fronte a quell’atteggiamento, alle dure parole di Bella.
“Non sono più una bambina, Jake. Lasciami vivere, per favore” Mormorò triste, passandogli velocemente e con delicatezza le dita sul dorso della mano, ancora stretta a pugno.
Seguii Bella al piano di sopra, incerto su come muovermi, cosa dire…
Una volta entrati nella sua stanza, si lasciò scivolare lungo la porta di legno chiaro, chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
Quando li riaprì, mi osservò per qualche secondo da sotto le sue ciglie lunghe e scure: sembrava un piccolo cerbiatto.
La stanza, intorno a me, era piccola, estremamente semplice, ma con un tocco di eleganza e romanticismo in cui Bella si specchiava completamente.
La piccola finestra di legno color panna era socchiusa, il sole entrava da lì, creando uno strano quanto dolce gioco di ombre tutto intorno a noi, sul suo viso, sul suo corpo.
“Tutto bene?” Domandai osservandola attentamente.
Fece un mezzo sorriso, spostandosi verso di me.
Solo in quel momento si accorse del luogo in cui eravamo, ovvero a un metro dal suo letto, soli, nella sua camera.
Rimasi immobile:  doveva spettare a lei qualsiasi decisione.
Non volevo né tantomeno pretendevo nulla, e speravo che lo capisse.
Volevo solo che fosse tranquilla, serena, felice.
Senza dire una parola, mi superò, sedendosi sul letto, dietro di me.
Vedevo chiaramente l’imbarazzo nei suoi gesti, eppure vedevo anche la decisione nei suoi occhi.
“Vieni a sederti qui con me” Sussurrò piano, come se le mancasse improvvisamente la voce o come se fosse talmente emozionata da non riuscire a parlare.
Eravamo lì, seduti a pochi centimetri di distanza, su un letto-il suo- a guardarci negli occhi così intensamente da sembrare due pazzi.
Era come tenere una muta conversazione: i nostri occhi parlavano da soli.
Poi, imbarazzata e con le guance in fiamme per la confessione che da lì a pochi secondi avrebbe fatto, iniziò a torturare con le dita il copriletto di pizzo bianco.
“è la prima volta che un ragazzo entra nella mia stanza. Eccetto Jacob, certo” Sussurrò nervosa, osservando attentamente il pezzo di stoffa che teneva in mano.
Risi piano. Era estremamente dolce quando era imbarazzata.
“Beh, adesso siamo pari” Risposi allungando una mano verso di lei.
Esitò un attimo prima di prenderla, ma non per paura, piuttosto per distrazione.
Quando finalmente le sue dita sudaticce si intrecciarono alle mie, tirai un debole sospiro di sollievo.
Le massaggiai piano il palmo, sentendola sospirare piano, la bocca socchiusa come quella di un bambino mentre dorme tranquillo nella sua culla.
“Sei nervosa?” Domandai continuando ad accarezzarla.
Si morse con tanta forza il labbro inferiore che temetti se lo fosse rotto.
Due secondi dopo, il mento le iniziò a tremare, dapprima piano, impercettibilmente, poi sempre più forte finchè non alzai gli occhi ed incontrai i suoi, rossi e pieni di lacrime.
Rimasi un attimo interdetto, spaventato all’idea dell’aver detto qualcosa di sbagliato.
“Stenditi qui insieme a me” Sussurrò flebilmente pochi istanti dopo, facendomi spazio accanto a lei nel suo piccolo lettino a una piazza e mezzo.
Mi sdraiai goffamente accanto a lei, aprendo le braccia e chiudendole come una morsa intorno al suo corpo quando si stese con me, nascondendo il viso nel mio petto.
“Hey, che succede?” Domandai pacato, accarezzandole i capelli.
“Sono un disastro” Singhiozzò Bella, iniziando a bagnarmi la camicia.
“Perché lo pensi Belli?” Domandai perplesso.
Non riuscivo davvero a capire come potesse pensare una cosa del genere.
Dato che continuava a singhiozzare senza parlare, presi un bel respiro, iniziando con il mio monologo.
“Tu non sei un disastro, amore mio. Non riesco a capire come tu possa anche solo pensarlo. Non sei perfetta, è vero, ma lo sei per me. Ed è tutto ciò che conta”. Mi fermai un attimo, aspettando che ricominciasse a parlare, o almeno a singhiozzare.
Niente.
Se ne stava con la testa premuta contro il mio petto, i pugni stretti attorno alla stoffa della mia camicia, senza dar cenno di voler mollare la presa.
Non che mi dispiacesse, certo, ma avrei voluto vederla in viso, o almeno ricevere un qualche segnale di vita.
“Perché pensi che tu sia un disastro? Per le lezioni di nuoto? Per il piccolo incidente di percorso di prima? Bella, cose del genere capitano ogni giorno. Sono piccole disavventure della vita. Certo, tu hai il pallino per queste cose, ma cosa importa? Ci sono sempre io a salvarti. Il Sergente Maggiore Capo Edward Cullen” Riuscii a farla ridacchiare, e non potei far altro che sentirmi meglio.
Con un sospiro lunghissimo, Bella si staccò da me, e le porsi un fazzolettino che usò per soffiarsi piuttosto rumorosamente il naso.
Si voltò verso di me, leggermente imbarazzata ma estremamente grata per quello che avevo detto.
“Vieni qui” Mormorai sedendomi accanto a lei e aprendo le braccia.
Senza farselo dire due volte, si accoccolò velocemente contro di me, chiudendo gli occhi e lasciandosi accarezzare.
“Quando sono con te, io non ho paura” Ammise infine, sospirando. “Non so perché. A volte persino stare con Jacob mi mette a disagio, a volte non riesco a farmi coccolare da lui. Con te no. È come se sapessi che posso fidarmi ciecamente di te, come se tutto questo l’avessi già vissuto… Non è per niente razionale, me ne rendo conto, eppure… Quando sono con te… Tutto il resto perde importanza, valore. Non mi interessa mangiare, bere, dormire, osservare il cielo, il mare… non mi interessa niente. Solo tu. Sei… il mio centro, Edward. E anche se forse dovrei aver paura di questo… di questo sentimento, di questo legame talmente forte da stordirmi, non ci riesco. Più tempo passo con te, più separarci è dura. Probabilmente penserai che sono la solita ragazzina adolescente innamorata ma… non ho mai provato nulla di simile, Edward. E sono certa che anche se avessi alcuni… come dire… Campioni di Paragone, non sarebbe la stessa cosa. Io… Io mi sono innamorata di te, Edward. E… ti amo” Le ultime parole furono un soffio, sì, ma capace di bloccarmi il respiro e farmi salire le farfalle nello stomaco.
MI aveva detto Ti amo.
Forse era stupido sentirsi così… non potevo descrivere le mille emozioni che il mio cervello viveva  subito scartava, facendo spazio ad altre, ancora più grandi, travolgenti.
Non avevo mai creduto all’amore vero, eppure lo stavo toccando.
“Dì qualcosa, ti prego” Mormorò con voce flebile Bella, e solo in quel momento mi resi conto di essere rimasto immobile come un’idiota per minuti interi.
“Dico che… Ti amo. E non sai da quanto volevo dirtelo, solo che volevo… volevo il momento perfetto, la musica… Volevo un’atmosfera surreale ma è vero: la perfezione è solo uno stupido cliché irraggiungibile. Ed io sono stato uno stupido”.
Bella sorrise, gli occhi le risplendevano di luce propria.
“Ti amo, Edward Cullen” Mormorò sulle mie labbra, un’istante prima di sugellare quelle parole con un dolce e lungo bacio, di quelli talmente dolci da farmi venire il diabete.
Per una volta, non importava essere perfetto, fare in modo che tutto fosse perfetto: la perfezione era banale, uno stupido cliché inesistente, dopotutto.
E anche se probabilmente avevo speso più energie del necessario a cercare un modo per dire quelle due parole semplici ma al contempo cariche di significato, riceverle era stato ancor più bello, ancor più emozionante.
Perché in fondo, quel “ti amo”, era soltanto il modo più conosciuto per tirar fuori i propri sentimenti, ma per noi non bastava.
Erano due parole troppo piccole, troppo apatiche per noi.

*****

Quando, parecchie ore dopo, uscii da casa di Bella, il sole stava iniziando a tramontare.
Era il momento della giornata che preferivo, quello in cui buio e giorno si incontravano, non prima di essersi uniti ed aver formato un colore nuovo, come un’arancio rosato, antico, romantico.
Ero un semplice ragazzo poco più che ventenne, è vero, ma ero un soldato, i miei sensi erano molto affinati, allenati.
Per questo mi accorsi subito che qualcuno mi stava seguendo.
Feci finta di nulla per vedere quanto ancora avrebbe continuato.
Quando arrivai a poca distanza da casa mia, mi fermai improvvisamente, sorprendendolo.
“Jacob” Dissi con voce piatta, calma, incolore.
“Edward” Mi imitò, con la sola differenza che la sua voce era dura, ferma, carica di odio, di rancore.
“Sono così interessante da meritare di essere seguito per più di un isolato?” Domandai sarcastico, voltandomi verso di lui, in modo da fronteggiarlo.
Come altezza e muscoli non era messo male, dopotutto, ma non possedeva certo le mie doti.
Se ce ne fosse stato bisogno, sarei stato in grado di cavarmela, e piuttosto alla grande, oserei dire.
Rise piano, ma il suono della sua risata era cattivo.
“Sono solo venuto a rinfrescarti la memoria. Oggi ti è andata bene, ti ha difeso mia sorella, ma non sarà così per sempre. Ascolta bene il messaggio, Cullen, perché non lo ripeterò più: stai alla larga da Bella”.
Scossi la testa, un sorriso amaro sul mio volto.
“Non puoi chiedermi una cosa del genere così, Jacob. Dovresti pensare anche ai sentimenti di tua sorella… E comunque, non permetterebbe mai un mio allontanamento”.
“Se solo oserai toccarla anche solo con un dito, io giuro che…”
Lo interruppi prima che potesse continuare.
“Che cosa? Avanti, spiegami cosa vuoi fare. Sai bene che non dipende tutto da me. Siamo una coppia, Jacob, che tu lo voglia o no. Queste decisioni non spettano a te” Dissi duro, stringendo i pugni talmente forte da produrre un debole ma minaccioso scricchiolio.
“Io sono suo fratello. Lo sto facendo per il suo bene” Rispose guardandomi dritto negli occhi: nei suoi, sembrava fosse scoppiata una tempesta, tanto erano scuri, solidificati.
Mi aprì in una risata sarcastica, scuotendo la testa. “Per il suo bene dovresti imparare ad accettarmi”.
Questa volta fu lui a sorridere, le sue labbra si stesero in un ghigno terrificante.
“Preferirei Morire che accettare uno come te nella mia famiglia” Sputò come veleno.
“Se questo è tutto, adesso vorrei tornarmene a casa. Arrivederci, Jacob”.
Voltai le spalle, ma proprio mentre stavo per riprendere a camminare, la sua voce mi bloccò, spezzandomi il respiro.
“Cosa pensi che succederà quando tu partirai per la guerra e lei resterà da sola?”.
Detto questo, si allontanò a grandi passi, con la vittoria in tasca, mentre una parte del mio cuore si sgretolava.

*****

Bella Pov

Scesi nel salotto, sedendomi sul divano, quando la porta si aprì e un insolito Jacob si affacciò, il viso stravolto.
“Dove sei stato?” Domandai mentre si toglieva le scarpe, venendosi a sedere accanto a me.
“A sistemare delle questioni giù al molo, nulla di cui tu ti debba preoccupare, sorellina” Disse regalandomi un’enorme sorriso.
Lo guardai sospettosa, ma sembrava tranquillo come non mai.
“Mi dispiace per oggi, Jacob. Non volevo alzare la voce con te, però è vero, e sai che ho ragione. Io… Apprezzo moltissimo tutto quello che fai per me, ogni singolo giorno, davvero. Ma ho una vita pure io ed è giusto mettere un po’ di distanza, staccare il cordone, capisci? Quindi, telo chiedo per favore, Jake, per favore: non vedere Edward come una minaccia per me, o per il nostro rapporto fraterno. Tu sarai sempre, e sottolineo sempre, il mio fratellino” Mormorai abbracciandolo forte.
“Lo so Bella, lo so” Rispose.
Eppure, per la prima volta in 18 anni di vita, la sua voce aveva un qualcosa di differente. Di crudele


Note dell'autrice

Eccoci qua.
Probabilmente avrete molti dubbi, molte perplessità, vi capisco, io stessa le ho, per quanto sembri incredibile.
Molte di voi probabilmente non si sarebbero mai aspettate una cosa del genere, spero di non aver deluso nessuno, ma la storia, nonostante qualche piccola difficoltà, si sta scrivendo da sola, io mi limito a seguirla.
Come si suol dire, ogni cosa a suo tempo, e in questo caso, prima o poi tutto verrà spiegato per bene.
Dovete solo cercare di essere pazienti...
Spero di riuscire a continuare ad aggiornare ogni 7, 10, massimo 15 giorni, ma in ogni caso, sappiate che sono viva e che sto solo cercando un pò di tempo per scrivere o per riacchiappare la mia ispirazione viaggiatrice.
Un grazie di cuore a tutte quelle lettrici che mi seguono dall'inizio, a chi lo faceva già prima, e a tutte le nuove arrivate.
Vi metto l'indirizzo della mia PAGINA FACEBOOK, dove troverete spoiler o eventuali avvisi.
Buon inizio settimana ma, soprattutto, buona visione di Breaking Dawn!
Un bacio, Chiara. 

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Capitolo 17
*** Avviso ***


Avviso


Mi scuso sin da ora per avervi fatto credere in un aggiornamento. Da lettrice odio leggere avvisi nelle storie che seguo, figuratevi inserirli nelle mie, però mi sembrava giusto darvi mie notizie.
Non sono morta e la storia non è assolutamente annullata.
Diciamo solo che io e la scrittura abbiamo preso strade differenti. Aggiungiamoci poi i vari casini che con il tempo sembrano triplicarsi ed ecco spiegata la mia assenza.
Non voglio annoiarvi né essere compatita spiegandovi cos’è successo, spero che capirete e sarete ancora qui ad attendere un aggiornamento che spero arrivi presto.
Comprendo chi ha deciso di non seguire più questa storia e sappiate che non vi biasimo minimamente.
La scrittura è sempre stata il mio rifugio segreto e nonostante apra word ogni giorno, non riesco più a scrivere come prima.
Mi odio per questo anche perché so che starei mille volte meglio se riuscissi a fissare tutti i miei pensieri su carta, il problema è che non ci riesco proprio.
Ho impiegato quattro mesi per scrivere il sedicesimo capitolo e sono ancora a pagina quattro.
Voglio ringraziare tutte le fantastiche persone che ci sono ancora, che mi contattano privatamente tramite posta e che mi spronano a combattere questo blocco momentaneo: grazie, davvero: sapere che ci siete significa molto per me.

Scusate ancora, un bacio,

Grace.

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