Jeans

di WYWH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Hause ***
Capitolo 3: *** Training ***
Capitolo 4: *** Idioms ***
Capitolo 5: *** Herkunft ***
Capitolo 6: *** Fahrrad ***
Capitolo 7: *** Werk ***
Capitolo 8: *** Nennen ***
Capitolo 9: *** Fußball (I° Parte) ***
Capitolo 10: *** Fußball (II° Parte) ***
Capitolo 11: *** Doktor ***
Capitolo 12: *** Probleme und Losungen ***
Capitolo 13: *** Kleid ***
Capitolo 14: *** Softball Handschuh ***
Capitolo 15: *** Schlechtes Wetter ***
Capitolo 16: *** Zuneigung ***
Capitolo 17: *** Marienplatz (I°Parte) ***
Capitolo 18: *** Marienplatz (II°Parte) ***
Capitolo 19: *** Liebe ***
Capitolo 20: *** Koffer ***
Capitolo 21: *** Mann ***
Capitolo 22: *** Abflug ***
Capitolo 23: *** Familietreffen (I° Parte) ***
Capitolo 24: *** Familietreffen (II° Parte) ***
Capitolo 25: *** Familietreffen (III° Parte) ***
Capitolo 26: *** Wählen ***
Capitolo 27: *** Versprechen ***
Capitolo 28: *** Eine neue Familie ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Jeans

Quando Maki scese dalla macchina e vide la mia “casetta”, fece un’espressione talmente tanto sconvolta che non resistetti all’impulso di mettermi a ridere.

-… ma questo è un palazzo!!-

-Esagerata, guarda che non è mica così grande.-

-Stai scherzando spero?! Qui potrebbe starci almeno un reggimento!-

-… in effetti mia madre era solita organizzare delle feste qua …-

Nel frattempo Friedrich aveva scaricato i bagagli di Maki, e quando questa notò il lavoro dell’uomo, si voltò immediatamente e fece un inchino, guardandolo successivamente.

-D … Dank …- (grazie)

Friedrich la guardò molto sorpreso, per poi sorriderle con aria grata.

-Bitte Miss.- (prego signorina)

-Junge Meister!- (padroncino)

Oh santo cielo, adesso arrivava il momento più imbarazzante.

Isolde si era affacciata alla porta principale, e senza darmi il tempo di, quanto meno, bloccarla, mi arrivò addosso e mi abbracciò con tutta la sua forza, facendo come al suo solito la sua scena lacrimosa di “dolce balia che accoglie il suo piccolo padroncino”.

Io fui così avvolto e stretto dalle grosse braccia della governante, e tentai a fatica a di calmarla, dandole dapprima delle leggere pacche sulla schiena per poi ricambiare il suo abbraccio. Ma niente, quando Isolde ci si metteva era iper affettuosa … e imbarazzante.

Appena la vecchia donna mi sciolse, infatti, sentii come una risata soffocata, e immediatamente mi voltai verso Maki: si era messa una mano davanti alla bocca e una sulla pancia, e solo Dio sa quanto stava ridendo, tentando in tutti i modi di soffocare il suo divertimento.

Io, nel frattempo, avrei voluto scavarmi una fossa e buttarmici dentro, Dio che imbarazzo, e proprio davanti a quella che mi aveva conosciuto come “l’ombroso uomo che a fatica esterna i suoi sentimenti”!

Tuttavia, vederla ridere in questo modo, se da una parte mi stava mettendo nel totale imbarazzo, dall’altro mi provocò un piacere che non mi sarei mai sognato di provare in tutta la mia vita: era strano, non era la soddisfazione, come di un buon allenamento, o di una partita riuscita. Non era neanche la felicità o la gioia, sentimenti che molto difficilmente fanno parte della mia persona.

Era qualcos’altro, e quel qualcos’altro mi provocò un sorriso mentre la donna si calmava, permettendomi così di rispondere a quell’atteggiamento con il mio solito modo di fare.

-Bene, hai finito?-

-Si … per ora.-

Faceva pure la spiritosa la signorina!

-Junge Master, der diese Dame ist?- (padroncino, chi è questa signorina?)

Ah giusto, non avevo formato Isolde.

-Isolde, diese ist Maki Akamine Hyuga, und jetzt leben hier bei uns.- (Isolde, questa è Maki Akamine Hyuga, e da oggi vivrà qui con noi)

Non vi dico com’era la faccia della mia governante quando seppe della novità, mentre Maki si presentava educatamente con il suo tedesco … veramente stentato.

-Freude, ich bin Maki.- (piacere, io sono Maki)

La sua pronuncia non era forte, e anche i suoi accenti erano un po’ sballati; tuttavia, quando porse la mano ad Isolde e le sorrise con aria amichevole, la mia vecchia governante non poté restare a lungo scioccata, allungando la mano e sorridendo con aria … forse un po’ troppo entusiasta.

-Willkommen, liebe.- (benvenuta cara)

E con un cenno della mano la invitò ad entrare.

Maki allora guardò me, ed io semplicemente le feci un cenno del capo, permettendole così di superarmi.

E mentre la vedevo varcare la soglia della mia casa, sentii nuovamente l’agitazione prudermi le mani, mentre Isolde mi si faceva accanto.

-Ist wirklich sehr schön, junger Herr.- (è veramente molto carina, padroncino)

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Capitolo 2
*** Hause ***


I: Hause

(Casa)

 

Il mio incubo cominciava sempre in modo diverso, ma lo capivo chiaramente che era lui, perché era l’esatta sensazione che avvertii quella sera, quando io e Kojiro fummo aggrediti: di colpo, nel buio, quel gruppo di … ragazzi, perché in fondo non dovevano avere più di venticinque anni, ci si fece vicino, e un lungo, intenso brivido mi prese dal bacino fino al collo.

E anche quella volta, nonostante stessi sognando il mare, la luce dell’estate, la spiaggia vicino al ryokan, all’improvviso quel brivido mi colse e mi attraversò come una scossa elettrica, irrigidendomi all’istante.

E forse lo avvertii di più perché stavo sognando di essere sola.

Già, ero sola: mio marito, in fondo, era morto da più di un anno. E anche nei miei sogni, lentamente, la sua presenza cominciava a svanire, e se da una parte soffrivo, dall’altra mi rendevo conto che non poteva essere altrimenti.

Ma in quel momento, mentre la luce baluginante di quel panorama cominciava a farsi debole, desiderai ardentemente che mio marito fosse lì con me. O che Genzo fosse lì accanto a me.

Quel testardo, orgoglioso, presuntuoso orso che mi aveva portato via dalla mia tristezza con i suoi modi di fare bruschi ma sinceri.

Il buio continuò a calare, e d’istinto cercai di chiamare qualcuno.

-Ah … Gen … o.-

Con mio orrore sentii la mia voce strozzarsi, come se la mia gola non riuscisse a tirarla fuori; e nel frattempo, delle ombre si avvicinarono, e io le riconobbi tutte.

C’era il ragazzo con la giacca di pelle e i pantaloni strappati, c’era quello con i capelli a cresta, perfino quello con in mano una bottiglia semi piena, e più li guardavo più sentivo crescere in me la paura, la stessa paura che mi aveva assalito la prima volta, quando mio marito mi aveva fatto schermo con il suo corpo.

Ma ora, ora che ero da sola, anche se era in un incubo, alla paura sopraggiunse il terrore. Perché sapevo esattamente cosa mi avrebbero fatto. E per tale motivo che io iniziai a correre, o almeno ci provai.

Era inutile: quando la paura ti assale, qualsiasi cosa tu faccia ti sembrerà sempre non sufficiente, soprattutto nel mondo onirico; mia nonna, quando avevo dei brutti sogni, m’insegnava canzoni, filastrocche, modi diversi per scacciare via i brutti sogni, raccontandomi storie e coccolandomi.

Tuttavia, quando l’uomo con la cresta mi afferrò per i capelli, proprio come l’altra volta, sapevo che quelle parole non sarebbero servite a niente, così come i miei pugni e i miei calci.

Nonostante ciò combattei strenuamente, lanciando schiaffi, sputando, dimenandomi più che potevo; ma mentre l’uomo con la cresta combatté contro di me, il giovane con il chiodo mi afferrò da dietro le spalle, stringendomele con la forza dei polsi e facendomi male mentre l’altro mi apriva le gambe.

Da lì in poi non respiravo più, o se lo facevo era in modo molto stentato: avevo il cuore in gola, le mie forze cominciavano a mancare e anche i miei tentativi di liberarmi si rivelarono un fallimento dietro l’altro; guardavo la cresta, poi alzavo lo sguardo verso il terzo uomo che in mano, al posto della bottiglia adesso, aveva un coltello. Ed era sporco.

Ricordo che mio marito fu aggredito prima di me, difendendomi; ricordo anche che non ci fu il tempo di dirci qualcosa. Avrei voluto sentire la sua voce ancora una volta, prima di vedermelo crollare davanti mentre l’uomo con la cresta mi afferrava per i capelli, erano corti ma per lui erano più che sufficienti.

Mi abbassò i pantaloni con talmente tanta forza da graffiarmi le gambe, e le mutande quasi me le strappò via.

Poi mi penetrò, e a quel punto urlai, completamente senza voce. Urlai talmente tanto in quel modo assolutamente afono … che mi svegliai.

Spalancai gli occhi che stavo ancora gridando, e mi tirai su con la schiena con tutta la forza che avevo, stringendo spasmodicamente la coperta, fino a piegarmi in avanti con la testa. Avevo ancora, in corpo, un tremendo dolore che mi prendeva tutto il bacino. Ma quel dolore era il reale, mi era appena arrivato il ciclo; e con esso i miei problemi con l’Endometriosi.

Nessuno può comprendere quanto può far male. Un dolore tale che viene proprio dal tuo corpo, e non da un qualcosa di estraneo. Anche per questo ti fa stare ancora peggio.

Rimasi piegata in avanti, e sentii che alla paura e al dolore fisico, adesso, si aggiungeva anche il pianto; in quei momenti, c’era sempre Kojiro che mi abbracciava e mi coccolava come una bambina.

Ma questa volta ero sola.

… no, non era vero: c’era Genzo.

-… Genzo …-

Lo chiamai con voce stonata, anche nella realtà la mia gola faceva fatica ad emettere suoni; e lui, al mio primo richiamo, non venne. Come poteva venire? Il volume era basso, e io stessa mi rendevo conto che non bastava.

-Genzo …-

Ci riprovai, stavolta con più forza; volevo scendere dal letto e andare in camera sua, ma non appena posai i piedi a terra le gambe mi cedettero, e io crollai sul tappeto, con addosso la tremenda sensazione che non solo stavo male, ma avevo anche caldo.

Altro problema causato dall’Endometriosi: l’infiammazione mi provocava un aumento della temperatura corporea.

Erano quelli i momenti in cui pensavo che, effettivamente, a quel male non c’era altra soluzione dell’asporto; ed era sempre in quei momenti che Kojiro mi restava più vicino, consolandomi e dandomi forza.

Ma ora che lui che non c’era, ora che non poteva contare sull’aiuto neanche della mia famiglia (prima fra tutti Tomoko, che dormiva nella mia stessa stanza), a chi potevo rivolgermi?

-Maki!-

Alzai lo sguardo, e tra le lacrime vidi un’ombra che mi prese tra le braccia. E riconobbi subito quegl’arti, così come avevo riconosciuto quella voce, che utilizzava un volume e un tono decisamente più forti del mio.

-Maki, avanti piccola fatti forza. Isolde!-

Mi sollevò come se fosse stata fatta d’aria, e quella sensazione di leggerezza mi fece stare subito meglio mentre Genzo, con la sua solita irruenza, scostava le coperte, restando qualche momento immobile. Sapevo cosa stava guardando, di sicuro stava guardando la grossa macchia di sangue sulle lenzuola.

Dio che vergogna.

-Mi … mi dispiace.-

-… aah, non dire cazzate. Isolde!-

Tuonò quel nome una seconda volta, facendomi accomodare sul mio letto e sedendosi accanto a me, tenendomi in questo modo tra le sue braccia; io chiusi gli occhi e strinsi i denti, una nuova fitta prese il sopravvento e mi veniva da urlare e da piangere mentre sentivo qualcuno avvicinarsi.

-Padroncino?-

-Svelta Isolde, vai in bagno e prendi la scatola dei farmaci azzurra e un bicchiere d’acqua. Adesso ti porta le tue medicine Maki, tranquilla.-

Mi scostò parte della frangia dagl’occhi, e mi sentii proprio come una bambina, coccolata da quell’uomo che mi baciava le spalle, la testa, e mi sussurrava piano nell’orecchio.

-Shh, adesso starai meglio, vedrai.-

Devo ammettere che non capita tutti i giorni di vedere Genzo Wakabayashi comportarsi in questo modo affettuoso; ma in quelle carezze ruvide, in quella voce che cambiava continuamente volume, a volte assordandomi, nei suoi gesti un po’ impacciati, mi sentivo meglio. Sofferente, ma meglio.

-Quali di queste pillole devi prendere, Maki?-

Mi tirò su un po’ come un sacco della spesa, ma non mi lamentai e con la mano debole frugai tra le mie medicine, tirandone fuori una compressa che mi misi subito in bocca. A quel punto Genzo mi passò il bicchiere, posandomelo sulle labbra e tirandolo su un po’ troppo presto, rischiando di strozzarmi.

-Ah, scusami.-

-Padroncino piano, con calma.-

Isolde si sedette dall’altro capo del letto e prese lei il bicchiere, mentre la mano libera di Genzo cercò immediatamente la mia. Io gliela strinsi mentre la domestica mi portava nuovamente l’acqua alla bocca, stavolta con la dovuta calma.

Io bevvi uno, due, tre sorsi, ricordandomi che dovevo idratarmi ora più che mai, e quando lasciai andare il bicchiere mi ritrovai nuovamente appoggiata al petto dell’uomo, il quale continuò a tenermi strettamente tra le sue braccia.

-Come stai? Un po’ meglio?-

Io ebbi solo la forza di annuire, il dolore ancora non passava e nuovamente strinsi occhi e denti, gemendo leggermente mentre la presa delle sue mani si fece un po’ più forte, rivolgendosi un’ultima volta ad Isolde, tornata nella stanza.

-Grazie Isolde, ora può andare, qui me la cavo io.-

-Come vuole padroncino. Se ha bisogno mi chiami.-

Lui non le rispose, limitandosi a tirarmi presso di sé, anche in modo un po’ rozzo, tanto che mi lamentai leggermente, irrigidendolo.

-Ti fa ancora male?-

-No … sei tu che mi fai male … orso che non sei altro ...-

Aprii gli occhi e alzai lo sguardo verso di lui, trovandomi il suo volto a metà fra la sorpresa e l’impaccio, provocandomi un sorriso.

Era inutile: per quanto fosse rozzo e scontroso, era proprio in quei momenti che il suo impaccio era per me fonte preziosa di sollievo. Perché era in quei momenti che capivo quanto fossi importante per lui; tirai su una mano e gli accarezzai a fatica il volto.

Lui, di rimando al mio atteggiamento, sorrise.

Gli parlai a bassa voce.

-Io sapevo che i principini e i figli di papà avessero maniere da gentiluomini.-

-Certo, ma nelle feste di gala, per mostrarsi come pavoni nell’harem.-

La sua vena critica nei confronti del resto del mondo non cambierà mai.

-Ah, quindi anche tu fai il pavone?-

-Temo purtroppo di essere l’unico orso in quello zoo.-

Ci sorridemmo a vicenda, e io allungai decisa l’altra mano, accarezzandogli le guance.

-Niente da fare, tu sarai sempre e comunque un Bär.- (orso)

Era da qualche giorno che lo chiamavo così, da quando stavo imparando a parlare più correttamente il tedesco, anche perché Wakabayashi aveva cominciato a parlarlo anche in casa, obbligandomi a rispondergli allo stesso modo.

Quando però arrivò l’ennesima fitta, lui continuò a parlare giapponese, stringendomi di nuovo la mano nella sua.

-Stai ancora molto male?-

-No … l’antinfiammatorio sta cominciando a fare effetto …-

-Meno male.-

-Mi dispiace, domani so che hai allenamento.-

Lui mi tirò nuovamente a sé, e nuovamente le sue maniere furono brusche.

-Non dire sciocchezze: in questo momento mi preoccupa di più che tu riesca a dormire serenamente, ed a costo di passare la notte in bianco starai meglio.-

È vero: questi suoi modi di fare, queste sue attenzioni, non sono proprie da SGGK. Ma io sono donna, e mi facevano davvero piacere.

Mi baciò dolcemente la fronte, e continuò a tenermi la mano mentre io, lentamente, cominciai a sentire l’effetto di sonnolenza del medicinale e la stanchezza prendere il sopravvento, addormentandomi in quella piacevole posizione.

 

Mi risvegliai il giorno dopo in posizione prona, e mi trovai da sola. Mi tirai faticosamente su con i gomiti, guardandomi intorno, ma non vidi alcuna traccia di Wakabayashi, e mi resi conto che sicuramente era andato agl’allenamenti; sbuffando, ributtai la faccia nel cuscino, sfregandomi contro la stoffa, per poi guardare verso il comodino, dove c’erano sia la scatola azzurra delle medicina che il bicchiere d’acqua.

Lentamente, come una lumaca sull’asfalto, mi allungai verso il comodino, e frugai di malavoglia nella scatolina, tirando fuori per la seconda volta l’antinfiammatorio, assieme ad una compressa di vitamina C che misi subito in acqua, lasciandola frizzare mentre cercavo di mettermi in una posizione più consona.

Il mio medico giapponese mi aveva prescritto l’acido L-ascorbico, meglio notò come vitamina C, per rinforzare ulteriormente i vasi sanguigni del mio debole apparato riproduttivo, ma un tempo ne dovevo prendere molto più di una semplice pastiglia la mattina; fortunatamente ho potuto ridurre il dosaggio con il tempo, e soprattutto non l’ho più dovuta prendere per via venosa, in certi giorni il mio braccio sembrava quello di un drogato!

Appoggiai la schiena al cuscino e mi guardai intorno, ammirando ancora una volta il mobilio in legno della stanza, sentendomi un po’ come Jane Eyre a casa del signor Rochester; appena la compressa finì di sciogliersi, mi misi in bocca la seconda medicina e bevvi avidamente, aveva un buon sapore di arancia.

Erano passati oramai tre mesi da quando mi ero trasferita in Germania, e solo adesso cominciavo ad abituarmi alle tante piccole cose, come per esempio al mio letto.

Erano passati molti anni da l’ultima volta che avevo dormito in un letto occidentale; anche quando ero sposata con Kojiro usavamo i futon, e la prima volta che avevo dormito lì, quando mi ero svegliata, mi ha fatto uno strano effetto sentirmi più alta del resto dei mobili.

Anche l’arredamento era completamente diverso, a cominciare dalle tende del baldacchino: già non dormo su un letto occidentale, figurati con uno con le tende! Mi sembrò la cosa più assurda del mondo.

Comunque nella mia casa, per quanto fosse un ryokan tradizionale, la parte riservata a noi aveva le comodità classiche occidentali, ma cose come quella non me la sarei mai immaginata se non in un catalogo di arredamento.

Mi alzai lentamente, e mi ricordai della notte passata, voltandomi verso il letto: c’era una bella e grossa macchia di sangue, ed ero certa che anche il mio pigiama fosse sporco. Sospirai pesantemente, e cercai nel cassettone il ricambio e gli assorbenti, andando nel mio bagno.

Avevo persino un bagno personale … pazzesco!

Tornando in camera, come prima cosa, tolsi lenzuola e coprimaterasso, e come avevo temuto la macchia era entrata anche dentro la stoffa del mio materasso; l’idea che Isolde lo sapesse m’imbarazzò, per quanto fosse una domestica quello rimaneva sempre e comunque sangue. Sospirai scoraggiata, quello non era proprio un buon inizio di giornata.

Quando uscii fuori dalla mia stanza vidi, per prima cosa, la porta della camera di Genzo. Era proprio davanti alla mia, e ci ero entrata già un paio di volte, ma vederla chiusa mi dava la sensazione di un mondo a parte.

Ed effettivamente lo era veramente, all’interno: per quanto il mobilio e lo stile fosse uguale per ogni stanza, là dentro anzitutto il letto era matrimoniale, e poi c’erano diversi dettagli di Wakabayashi, come una foto di quando era piccolo, vari riconoscimenti calcistici, una serie di scatti con i suoi compagni giapponesi.

E tra di loro c’era anche mio marito.

Mi mancava, ogni volta che mi addormentavo e mi svegliavo: mi mancava quando mi fermavo dal lavorare dal ryokan, e mi mancava in quei minuti di silenzio, quando quella grande casa mi sembrava ancora estranea. Guardai il corridoio del primo piano, e lentamente mi avviai verso le scale, avvertendo la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua.

Lentamente mi diressi verso la cucina, e sentii un buon odore di cibo, assieme al rumore di qualcuno che si stava muovendo; mi venne subito in mente mia madre, e mi affacciai, riconoscendo immediatamente la governante della casa, Isolde.

-Buongiorno …-

Si voltò, e il suo sorriso mi fece sentire meglio.

-Ah, buongiorno cara! Come ti senti?-

-Meglio, grazie.-

-Siediti, siediti che ti do la colazione.-

Mi accomodai sullo sgabello, di fronte al grosso tavolo di legno spesso dove, con mia curiosità, vidi una ciotola coperta da un panno.

-Isolde, cos’è?-

-Quella? È un impasto la torta salata che sto preparando. Deve prima lievitare.-

Mia madre, ogni tanto, aveva fatto della cucina occidentale, ma per me rimaneva ancora un grande mistero, come il fatto che quella cosa dovesse “lievitare”; oltretutto Isolde mi aveva sempre dato l’idea di essere una parente prossima della Fata Turchina di Cenerentola, aveva lo stesso modo di fare.

La mia colazione era fatta di succo di frutta, biscotti, marmellata, burro e una fetta di torta se avevo ancora fame; io che di solito avevo riso, miso e altri piatti salati, quella roba dolce per me rimaneva sempre una novità. Anche perché era molto più “Dolce” dei nostri dolci tradizionali.

-Genzo è già uscito?-

-Da circa un’ora, ha detto che sarebbe tornato per cena: stamane deve passare dal medico per controllare lo stato di salute della gamba.-

Ah già, lui era venuto al ryokan per guarire dal suo strappo muscolare. Sgranocchiai il mio biscotto, ripensando alla prima volta che l’avevo visto.

Il mio pensiero era stato “Eccolo! Speriamo in bene …”.

Com’è strana la vita: prima ero in un ryokan, a Naha, con tutta la mia famiglia. Ora sono qui in Germania a fare una colazione a base di dolci in compagnia di una signora di mezza età che sembrava uscita da un libro di fiabe.

Probabilmente Kojiro avrebbe detto “è quello che volevi, no? Il destino è una scemenza, conta solo quello che tu dai per realizzare i tuoi sogni.”

E i miei sogni? Cosa sognavo una volta?

Il softball, le Olimpiadi; e poi, con Kojiro, una famiglia.

Non ho ottenuto l’una, e l’altra mi è stata portata via; in quella cucina mi sentii ancora più spaesata, mi chiedevo cos’avrei fatto, adesso, della mia vita. Di certo non potevo stare con le mani in mano; al ryokan lavoravo, ma qui, dove non conoscevo neanche troppo bene la lingua, mi sentii persa.

Sospirai, e mi misi in bocca un altro biscotto.

-Tutto bene, Maki? Stai ancora male?-

Mi voltai e guardai il volto di Isolde, sorridendole.

-No, no tranquilla.-

Poi mi ricordai della grossa macchia di sangue nel letto.

-Isolde!-

-Si? Dimmi pure Maki.-

-Ah … mi serve …-

Accidenti, come si diceva “lenzuolo” in tedesco? Isolde mi guardò incuriosita, e mi sforzai di ricordai.

-B … blatt …-

-Blatt? Ti servono delle foglie?-

Scossi la testa, maledizione! Rifletti Maki, Genzo ti aveva detto che quella parola era simile a quella indicata per dire “foglia”.

-Bla … Blätter!-

-Ah! Lenzuola.-

-Si! Mi servono lenzuola per il letto.-

Volevo mettere le altre a lavare, quando vidi la governante sorridermi e fare un cenno con la mano.

-Ah, lascia perdere, ci pensiamo dopo io e Marta.-

-Ma …-

-Non ti preoccupare, può capitare nelle tue condizioni, no? Ora rilassati e finisci la colazione.-

Annuii, e obbediente terminai il mio pasto mattutino; ma, dentro di me, avevo il timore di non fare niente tutto il giorno. Per cui, appena terminato il pasto, chiesi subito a Isolde di farmi fare qualche lavoro, qualcosa per tenermi impegnata.

Non vi dico che espressione fece! Era totalmente inorridita!

Però, forte della mia decisione e del mio carattere, alla fine riuscii a convincerla a lasciarmi cambiare a me le lenzuola, e non solo: aiutai anche Marta, l’altra cameriera, a sistemare casa, e sebbene anche questa mi guardava stranita, alla fine mi divertii non poco, riuscendo addirittura a scambiare qualche chiacchiera con la giovane.

Da quando Genzo aveva iniziato a parlarmi in tedesco le cose si erano complicate, e quel tipo di esercizi mi sarebbero serviti non poco dato che la parlata dell’uomo era fluida e pulita, forse troppo veloce per una come me che, a scuola, non era proprio un gran genio.

Quando c’era Isolde, poi, facevo come i bambini piccoli quando imparano qualcosa a scuola: indicavo un oggetto e pronunciavo ad alta voce la parola tedesca, e in caso la governante mi correggeva la pronuncia; poi, dopo averla ripetuta più volte, cercavo di formare una frase che comprendesse anche quell’oggetto. La governante sorrideva ed annuiva, a volte anche rispondendomi, e io mi sentivo più sicura; anche perché, onestamente, non potevo mica fare quel tipo di esercizi con Genzo.

Ve lo immaginate che mi ascolta mentre formule frasi da terza elementare? Rischierei di provocargli la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. E con la sua presunzione, a volte mi domando se non ne soffra veramente …

Ad un certo punto, però, mi resi conto che dovevo dare spazio a quella povera signora, la stavo praticamente tartassando di domande; oltretutto, a furia di pronunciare bene, mi faceva anche male la gola. Silenziosamente mi alzai dalla sedia in cucina e mi diressi verso il grande salotto della casa.

Mamma mia, era una vera e propria reggia! Non ero mai stata in un posto del genere.

L’unico posto che mi ricordava qualcosa di simile era a Torino, quando ancora stavo insieme a Kojiro.

… Kojiro. Oramai è passato più di un anno dalla tua scomparsa, ma guarda fin dove sono arrivata: in una grande e splendida casa a Monaco con un’enorme libreria che mi lascia senza fiato. E indovina un po’ a chi appartiene questo posto? Al tuo rivale di sempre, spesso argomento delle nostre telefonate quando partecipavi alla Champions o ai ritiri della Nazionale.

So che ti sembrerà scemo, ma a volte mi domando se il fatto di averlo seguito … e la mia scelta di provare a restare con lui … non lo so, ti faccia arrabbiare, o ingelosire. In fondo si tratta di uno dei pochi che hanno parato i tuoi tiri. Un po’ di fastidio?

Ok, ora la smetto, so perfettamente che questi discorsetti stupidi non ti piacciono, soprattutto se vengono da me.

Mi avvicinai allo scaffale più vicino, e cominciai a toccare le copertine di tutti i libri presenti: c’era un po’ di tutto, da enciclopedie a romanzi vari, vecchi e nuovi, piccoli e grandi di forma, con la copertina bella ed elegante o di carta spessa e stropicciata. La mia mano si fermò su quello che sembrava il più recente, un giallo che aveva le orecchie ai bordi delle pagine, come se in quella casa potessero mancare segnalibri!

Andavo avanti e indietro, leggendo i vari titoli, la maggior parte erano inglesi o tedeschi e ci mettevo un po’ a tradurli, catalogandoli molto spesso come “non letti”; mi soffermai poche volte, notando autori giapponesi come Banana Yoshimoto o Murakami Haruki, non me lo aspettavo da una persona così occidentale come Wakabayashi.

E poi vecchi 45 giri mescolati a cd di vari artisti, molti ovviamente sconosciuti a me, riconoscevo solo nomi famosi che ho sentito alla televisione di sfuggita; ma la maggior parte della musica che vidi, per quanto mi riguardava, mi era del tutto estranea.

Ad un tratto, però, riconobbi un nome: Frank Sinatra. Ah, non era quello che cantava “Fly me to the Moon”? Ma si, quella canzone piaceva tantissimo ad una mia vecchia compagna di softball, la cantava sempre quando facevamo la doccia, a squarciagola e facendoci ridere con il suo pessimo inglese.

Presi il cd, controllai le canzoni sul retro, ma quella che mi ricordavo non c’era; in compenso riconobbi “Singing In The Rain”, e impaziente cercai il lettore cd, posto proprio al centro della libreria, le casse erano dentro l’enorme mobile, in alto; per quanto fosse grosso e scuro, riconobbi più o meno i tasti dell’accensione, dell’apertura e chiusura del lettore e dell’avvio del cd, abbassando il volume al massimo, temendo che potesse spararsi in tutta la casa, Tomoko aveva la brutta abitudine di tenere lo stereo troppo alto.

Lo alzai pian piano, e la voce dell’uomo mi raggiunse le orecchie fino alla base del collo, provocandomi un brivido emozionato mentre aumentavo ancora il volume, sentendo quella canzone familiare e restando immobile davanti al lettore. L’ascoltai dall’inizio alla fine, fino all’ultima nota.

-… padroncina, è pronto il pranzo.-

Ma come, di già?! Davvero ero riuscita a far passare tutta la mattinata?! Stavo per spegnere il lettore, ma mi fermai all’ultimo: ma si, un po’ di musica in quella casa non avrebbe fatto male.

Condivisi il pasto non solo con Isolde, ma anche con l’autista Friedrich, e le loro chiacchiere in tedesco mi aiutarono ulteriormente con lo studio della lingua, portandomi anche a fermarli e a fare loro qualche domanda, soprattutto riguardo ai verbi.

-Che vuol dire be … begleite ich?-

-Significa che va assieme alla nipote.-

-Ah! L’accompagna!-

Isolde annuì, riprendendo poi la conversazione come se niente fosse successo. Io, da parte mia, mi sentivo come da bambina, quando la nonna mi teneva accanto mentre chiacchierava con mia madre sorseggiando the mentre io sgranocchiavo i biscotti secchi: ascoltare e non capire la conversazione, ma farne parte, mi divertiva.

Quando, poi, i due signori tornarono ai loro compiti, io mi diressi nuovamente in libreria, e immediatamente capii che il cd di Frank (gli do anche del tu) era finito, e che una donna stava cantando; frugai attorno al lettore, e trovai la custodia vuota di Barbra Streisand. Stava cantando “Send In The Clowns”.

Mi sentii trasportata dalla canzone, e senza starci a pensare presi quello stesso libro giallo con le orecchie sulle pagine, accomodandomi sul grande divano (era tutto grande lì dentro, mi sentivo così piccola!) e iniziando a leggere molto lentamente: il testo era in tedesco.

Lo ammetto, non lessi granché, ma ogni volta che capivo una frase avevo sempre meno voglia di smettere di leggere, al punto che m’immersi pienamente nella mia “lettura”, se così si poteva chiamarla.

E per questo che non mi resi conto del tempo che passava, della porta che si apriva, delle voci che parlavano fra loro, né di Wakabayashi che entrava nel salone; mi accorsi di lui solo nel momento in cui mi baciò i capelli, com’era sempre solito fare.

Alzai di scatto la testa, e quando vidi la sua faccia rimasi ancora stupita, e ci misi un momento prima di riuscire a biascicare un saluto.

-… ciao.-

-Buonasera. Ti piace?-

Indicò il libro con il cenno del capo, e io me lo girai tra le mani, tirando fuori la pagina con l’orecchia.

-Insomma. Tu che ne pensi?-

-A dire la verità non l’ho mai finito.-

-Però non mi aspettavo che lo trattassi male.-

-Lo ammetto, quella volta non mi andava di alzarmi in piedi.-

-E di quanto tempo fa stiamo parlando?-

-Hmm … direi prima di venire al ryokan.-

Sorrisi divertita, e a quel punto decisi di smuovermi dalla mia posizione, alzandomi in piedi e riuscendo, in questo modo, a vedere completamente Wakabayashi: come sempre non me l’aspettavo di vederlo così elegante, più che un calciatore sembrava un manager appena tornato dall’ufficio.

-Beh? Che c’è?-

-… sei andato davvero ad allenarti?-

-È il mio lavoro, no?-

-Sicuro che in realtà non mi nascondi che lavori come ragioniere?-

-Ok, lo ammetto: in realtà nascondo la mia vera identità sotto i panni del SGGK, il portiere della squadra più forte della Germania. La verità è che sono un comune banchiere.-

-Ah-ha, spiritoso. No sul serio Wakabayashi …-

-Genzo.-

Ah, giusto, lui voleva che lo chiamassi per nome. Però per me non era facilissimo: un po’ perché sono sempre stata abituata a chiamare in modo rispettoso gli altri, ma onestamente anche perché le uniche persone a cui mi rivolgevo chiamandole per nome erano i miei parenti, i miei più cari amici … e mio marito.

Pietà Wakabayashi! Non lo volevo fare per cattiveria.

-Ge … Genzo, mi sembri uno appena tornato dall’ufficio, un po’ scompigliato ma di certo non sudato e puzzolente!-

-Ma vuoi che torni a casa che sembro un camionista?!-

-No! Ma …-

Lui mi guardò stralunato, e io da parte mia non avevo alcuna scusante se non quella della burla, tanto che mi misi a ridere per l’assurdità di quella conversazione e per l’imbarazzo. Fortunatamente lui sorrise a sua volta, togliendosi la giacca e rivelandomi la camicia; aveva il busto così ampio, eppure la stoffa gli calzava perfettamente.

-Piuttosto, com’è andata la giornata? Sei stata ancora male?-

Mi piaceva che si preoccupasse per me.

-No, anzi ho dato una mano con le faccende.-

-… ma come, ti porto via dal ryokan per trattarti da signora e tu mi fai Aschenputtel?!-

-Mi sembrava giusto dopo … dopo quello che ho combinato stanotte.-

Ah, che imbarazzo ricordarlo!

-Ma finiscila!-

Mi diede un leggero pugno sulla testa, e poi cominciò a scompigliarmi i capelli, una cosa che mi faceva impazzire!

-Ah no!-

-Ascoltami bene: quello che è successo è dovuto al fatto che hai un problema fisico, va bene? Non è colpa tua se è successo, perciò non assumerti responsabilità e cazzate simili, sono stato chiaro?!-

Non avrebbe ammesso repliche; anche Kojiro aveva lo stesso atteggiamento, ma mentre lui riusciva a smontarmi ogni scusante, Wakabayashi non voleva neanche sentirle, ritenendole inutili. Da questo punto di vista, la sua presunzione mi era quasi di conforto.

Io annuii, non avevo altra scelta in quel caso; lui sospirò, lasciando andare la mia testa, accarezzandomi subito dopo la guancia. Lo fece in un modo così dolce da farmi alzare la testa e guardarlo negl’occhi. E gli sorrisi.

-Com’è andata la visita medica?-

-Ah, bene: posso riprendere ad allenarmi seriamente!-

-Perché, fino adesso che hai fatto?-

-Spiritosa.-

-Hai anche giocato un’amichevole, la visita medica non ti è servita a molto, no?-

Scossi la testa divertita. Era uno sportivo con la passione nelle vene, era ovvio che avrebbe ricominciato ad allenarsi anche senza il parere medico.

Continuammo a chiacchierare in salotto fino a quando Isolde non ci chiamò per la cena; ma prima che potessi muovermi, l’uomo mi bloccò sul divano, infilandosi una mano in tasca e tirandone fuori un piccolo involucro di carta color argento.

Genzo Wakabayashi che mi faceva un regalo?! L’orso SGGK che mi porgeva quel … pacchettino?!

-E questo?!-

-Aprilo dai.-

Lo disse apparentemente infastidito, ma quando gli vidi la faccia notai subito che era imbarazzato, e sorrisi divertita, prendendo lentamente l’involucro e aprendo altrettanta lentezza, facendogli saltare i nervi.

-Eddai sbrigati!-

-Con calma, con calma …-

In realtà morivo dalla voglia di vedere cos’era, ma vederlo così imbarazzato e impaziente mi divertiva da morire!

Alla fine, però, aprii il pacchetto.

-Ah …-

Non avevo portato effettivamente niente del ryokan, solo i miei vestiti e qualche oggetto a me caro; quando vidi il fermaglio per capelli con sopra tre piccoli fiori, pensai immediatamente al mio Furisode e a tutti i miei kimono lasciati alla locanda, probabilmente li avrebbero sistemati in modo che li avrebbe potuti indossare Tomoko.

Presi il fermaglio, era piccolo ma mi sorprese così tanto da lasciarmi senza parole; sapevo che Wakabayashi era ancora davanti a me e che si aspettava un commento, ma proprio non sapevo cosa dire, pertanto mi limitai a mettermi il fermaglio tra i capelli, mostrandolo.

-Come sto?-

Lui non mi rispose, e io sorrisi contenta: meno male che lui era imbarazzato quanto me!

-Grazie, mi piace tantissimo.-

Lui annuì, e fece per andare verso la cucina a cenare, quando lo fermai all’ultimo momento prendendogli il polso e alzandomi sulle punte. (Quell’uomo è veramente alto!)

Non … non facevo spesso una cosa del genere a Kojiro, perché non ci ero abituata. Ma sapevo che era la cosa giusta da fare in quel caso, per tanto presi un profondo respiro e gli baciai la guancia; dopo, sono sicura, ero viola dall’imbarazzo, e praticamente mi precipitai in cucina per mangiare, confidando nella capacità di Isolde di farci passare il rossore.

Mi tolsi il fermaglio solo quando andai a dormire, e lo guardai in silenzio mentre mi prendevo la mia medicina, sorridendo come una scema.

 

**

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Capitolo 3
*** Training ***


II: Training

(allenamento)

 

Per la settimana successiva, la situazione non cambiò molto: Wakabayashi andava ad allenarsi, e io rimanevo in casa.

Se prima ero intrappolata nel ryokan, adesso ero intrappolata in mura di mattoni tedesche! Serviva poco il mio aiuto nelle faccende di casa, e i libri che prendevo in mano sistematicamente non li finivo, oppure non riuscivo a proseguire nella lettura della lingua.

In parole povere, mi annoiavo da morire!

Anche per questo motivo, quella sera, chiesi a Wakabayashi com’erano andati gli allenamenti con maggiore interesse; ma lui, come sempre, non mi disse molto. Tutto si poteva dire di quell’uomo, tranne che fosse esplicativo.

E a quel punto, quando non riuscivo neanche a ricevere notizie dal mondo esterno, mi irritai non poco.

-Tutto qui?!-

-Beh, non c’è molto da dire.-

-Magari sei tu che non vuoi dirmi niente.-

Lui non mi rispose, ma mi guardò con il suo solito cipiglio infastidito. Ah, quando faceva così mi faceva innervosire ulteriormente! Burbero e ombroso orso che non era altro!

-A questo punto, se tu non vuoi dirmi niente, verrò io a vedere i tuoi allenamenti.-

Il cipiglio severo scomparve in un espressione sorpresa, e il cibo che aveva in bocca quasi lo sputò o, peggio, gli andò di traverso; quella reazione mi riempì di soddisfazione, poteva fare l’arcigno quanto gli pareva, ma sapeva bene che io non mi piegavo ai suoi sbalzi di umore.

-Tu vuoi cosa?-

-Vedere gli allenamenti. Perché? Ti da fastidio?-

-Si. Non voglio che tu venga.-

-Eh?! E perché mai?-

-Perché qui non siamo al ryokan, pacifico e lontano dal mondo: qui siamo quasi in pieno centro a Monaco, sotto gli occhi di tutti.-

-E allora? Anche Kojiro veniva spesso seguito dai giornalisti, e ci hanno addirittura fotografato alcune volte.-

-Ma qui la situazione è diversa.-

-Perché è diversa?-

-Perché qui non siamo a Torino, e tu non sei mia moglie.-

-E allora?-

-E allora io non sono Hyuga!-

Rimasi impressionata nel sentirlo alzare la voce, ma al tempo stesso mi arrabbiava il fatto che fosse così evasivo nelle sue risposte: mi spiegasse perché non potevo farmi vedere! Come se non ci fossi abituata!

Tuttavia, quando stavo per ribattere ancora una volta, notai che il suo volto aveva un’aria di sofferenza che bloccò le mie parole.

In pochi attimi, il silenzio cadde in tavola: non avevo più voglia né di chiacchierare né di discutere con quell’uomo, volevo solo finire il mio pasto.

Quelli erano i momenti in cui sentivo maggiormente la fatica di quel viaggio e di quell’impresa; avrei voluto, paradossalmente, vedere il volto di Wakabayashi e sentire quella sicurezza che di solito avevo quando chiacchieravo o scherzavo con lui. Invece fissai insistentemente il mio pezzo di carne, e continuai a mangiare.

Quando anche l’ultimo boccone non era più nel piatto mi alzai in piedi, e cercai di sorridere a Isolde per rassicurarla, ma la vecchia domestica sembrava non essere turbata di quella situazione, anzi mi ricambiò il sorriso con la sua solita tranquillità. Perché? Era abituata a questo? Allora litigavano spesso in quella casa? E con chi litigava Wakabayashi, se Isolde era sempre così pacifica?

Mi allontanai dalla cucina con la convinzione che dovevo togliermi immediatamente quelle domande dalla mia testa.

Ma quanto ero stupida! Era ovvio che l’uomo avesse frequentato altre donne: aveva trent’anni e poteva fare quello che voleva della sua vita.

Qui però si trattava di un carcerato che agognava la sua ora d’aria, e io non ero una prigioniera in quella casa.

Se non potevo vedere Wakabayashi agl’allenamenti, potevo sempre andare in giro per Monaco: il mio tedesco era migliorato abbastanza per permettermi di andare a zonzo per il centro senza qualcuno che mi facesse da balia …

-Maki!-

Mi voltai a guardarlo, e mi resi conto, mentre incrociavo lo sguardo, che ci ero rimasta male proprio come un bambino, e che la mia libertà non dipendeva certo dal suo umore; rimasi ferma sul mio scalino, e lui cominciò a raggiungermi.

-Senti, mi dispiace di essermi alterato in quel modo; è solo che io non sono uno stinco di santo, lo sappiamo perfettamente tutti e due, e i media … diciamo che ne hanno sempre approfittato.-

Beh, si, da lui me l’aspettavo.

-Ma a me non m’interessa quello che dicono su di te.-

-Lo so, ma il problema è che non si limiteranno a dire cose “poco carine” al sottoscritto; cercheranno anche di sapere di te, e chissà che assurde favole s’inventeranno.-

Stavo per dirgli “ e chi se ne frega”, con il mio solito modo di fare, quando mi bloccai e mi resi conto che, se ricominciavo a pestare i piedi come prima, non sarei andata da nessuna parte, e incrociai le braccia serrando la bocca mentre Wakabayashi, oramai, era arrivato davanti a me, lo scalino più basso ci permetteva di guardarci dritti negl’occhi.

-Non voglio che tu venga semplicemente perché non voglio che la stampa scandalistica approfitti di te.-

Non m’interessava: volevo solo uscire da lì e passare una giornata interessante. Non gli risposi, ma continuai a guardarlo negl’occhi, tenendo le braccia strette al corpo; lui sbuffò e si mise le mani sui fianchi.

-Ma a te questo non t’interessa, giusto?-

-Io non sono una prigioniera.-

-E non lo sei di certo!-

-Sarà, ma dalle tue parole sembra che non possa uscire di casa!-

-Certo che puoi uscire! Solo che non dobbiamo farci vedere insieme.-

E lì mi venne il colpo di genio.

-E chi ti ha detto che dobbiamo per forza andare al tuo allenamento insieme?-

Mi guardò stralunato, il mio piano aveva preso forma nella testa. Quando voglio so essere un genio!

-Tu vai ad allenarti, e io verrò più tardi per i fatti miei; nessuno potrà certo dire che sono tua conoscente, dato che siete più di undici uomini dietro un pallone!-

A quel punto non saprei che descrivervi che faccia fece: da una parte sembrava impressionato da quel lampo di genio, dall’altra sembrava infastidito! Storse la bocca, e fece un’espressione tipica di un bambino in procinto di fare i capricci.

Ah no, Wakabayashi capriccioso lo sopporto poco, non glielo lascerò certo fare!

-Ammettilo, è una buona idea.-

-Si, lo è, però …-

-Però?!-

C’era un però?! Ma come! È un’idea geniale! Non è possibile che abbia delle contraddizioni!

Lo guardai storto, stavolta mettendo le mani sui fianchi; lui sviò lo sguardo, ma se pensava di andarsene si sbagliava di grosso! Adesso gli avrei fatto da sbarramento fino a quando non mi avrebbe dato una spiegazione a quel “però”.

-Però?-

Incrociai i suoi occhi scuri, e mi sorpresi che, effettivamente, aveva un’espressione incerta sulla faccia; tutto potevo dire del SGGK, ma non di certo che fosse un tipo indeciso!

-No, niente, hai ragione tu: è una buona idea.-

Sospirò con aria rassegnata, e mi passò una mano tra i capelli, spettinandomeli mentre io ero assolutamente … insoddisfatta; ma come, prima faceva tutta quella scena, e ora si arrendeva così?!

-Allora domani chiedo a Friedrich di accompagnarti vicino al campo dove mi alleno.  Quando entri dì che sei una mia conoscente, non dovrebbero farti storie.-

-… le tue conoscenze hanno l’esclusiva di vederti all’allenamento?-

-Beh, sono uno a cui piace essere ammirato.-

E sorrise con la sua solita aria strafottente, ma lo ricambiai con fastidio, vedendolo salire le scale lasciandomi indietro e assolutamente confusa: possibile che quel cambio d’idea fosse dovuto a qualcosa che avevo fatto di sbagliato? E perché non me lo diceva in faccia?! Genzo Wakabayashi era di sicuro uno degl’uomini più chiusi che io avessi mai conosciuto, una cassaforte sarebbe stata più facile da aprire!

-Wa …-

Ah, no, odiava farsi chiamare in quel modo. Meglio non aumentare ulteriormente il suo fastidio.

-Genzo!-

Aveva raggiunto la cima delle scale, e lo raggiunsi saltando i gradini due alla volta, afferrandogli l’avambraccio e guardandolo dritto in faccia.

-Tutto bene?-

-Si, certo.-

-Non mi raccontare balle.-

Lo vedevo chiaramente quando mi raccontava una bugia: non si vedeva fisicamente perché era un ottimo attore, ma lo avvertivo in qualcosa. Chiamatelo sesto senso, ma in quel momento quell’uomo mi stava mentendo, e strinsi con maggiore decisione la mano sul braccio, ripetendogli in silenzio la domanda.

Lui sbuffò, e con il braccio che stavo stringendo mi prese per la vita, portandomi vicino a lui; sentii chiaramente il suo petto vicinissimo al mio, e per qualche istante m’irrigidii, considerandolo comunque un corpo estraneo al mio.

Mi accarezzò nuovamente, stavolta la mano scese sulla guancia, e nuovamente rividi i suoi occhi turbati.

Oh Kami ma che c’è? Perché fa così?!

-E che … vorrei tenerti lontana dagl’occhi di tutti il più possibile, perché … so come vanno a finire queste cose, e credimi: questa volta non voglio fare cazzate con te.-

Ah cavolo, quando dice queste cose mi fa venire il groppo allo stomaco! Soprattutto poi se mi guarda in quel modo! Da una parte mi sento talmente tanto imbarazzata che vorrei sprofondare per terra, e dall’altra sono così emozionata che lo abbraccerei. Controllo Maki, controllo!

Ma come faccio a calmarmi se lui, oltretutto, mi poggiava la sua fronte sulla mia? Ah, era così vicino il suo volto che ne sentivo chiaramente l’odore.

Avevo le mani sudate, avevo anche lasciato andare il suo braccio e ora non sapevo proprio dove appoggiarmi, mi pareva che ogni parte del suo corpo mi avrebbe fatto avere “strane reazioni”.

-Ho combinato … parecchi casini qui, con diverse persone, e la stampa ci ha sguazzato dentro … e di rimando ammetto che alcune volte l’ho fatto apposta.-

-Davvero? Non me lo immaginavo da te.-

Grazie al cielo, la mia ironia non era morta!

Lui sorriso amaro, beccandosi in pieno la mia stoccata, e io alla fine poggiai le mani sul suo petto, sentendolo ampio sotto le dita; aveva una felpa addosso, ma mi sembrò quasi di sentire la sua pelle.

-Touché. Ma ora è diverso.-

Ah, che frase fatta! Sentii l’atmosfera di qualche momento prima smorzarsi, e riuscii ad allontanarmi di qualche passo, deviando il mio sguardo con evidente diffidenza.

Ma che si aspettava, che ci credessi? Io ricordavo bene i primi giorni del ryokan.

Lui però mi tenne con forza, impedendomi di staccarmi nuovamente, e m’impose di guardarlo in faccia.

-È diverso, perché tu sei importante per me.-

Oh cazzo, e me lo diceva così?! Senza la minima incertezza?! Va bene che lui era stato capace di dirmi che mi amava ad alta voce (d’accordo, eravamo soli in una spiaggia, però …), ma a cose del genere io non ci ero abituata! Kojiro mica mi diceva cose del genere tutti i giorni!

Non ce n’era effettivo bisogno … non ti distrarre!! Wakabayashi, Wakabayashi!

-Se potessi, ti terrei dentro una campana di vetro.-

-… la sfonderei a calci.-

-Si, ne saresti capace.-

Lui sorrise, e mi contagiò. Continuava ad accarezzarmi, con il pollice, la pelle della guancia, scendendo poi sul collo; era così calda e grande quella mano, e scendendo sul mio collo mi faceva venire i brividi. Quelle erano carezze nuove per me, totalmente nuove e inaspettate: attraverso quel contatto sentivo, chiaramente, la ruvida tenerezza dell’uomo.

Il suo sguardo, però, era ancora incerto.

Ti prego, fidati di me.

-Starò attenta, promesso.-

Sbuffò, ma mi abbracciò e mi strinse a sé, baciandomi i capelli.

-Lo so. Lo so.-

Ora sentiva chiaramente la consistenza del petto sulla mia guancia: era veramente ampio, e soprattutto tonico; passai le braccia sulla sua schiena, e anche lì la sentii estesa sotto le dita, tanto che mi aggrappai alle sue spalle per non perdermici.

In quei momenti il cuore accelerò, mano a mano che sentivo il calore e riconoscevo l’odore dell’uomo; avevo quasi la sensazione che il muscolo cardiaco mi sarebbe esploso, e per tanto mi strinsi maggiormente a lui.

Wakabayashi rispose, e sentii chiaramente le sue mani scivolare lungo la mia schiena, per poi risalire sulle mie spalle, facendo una leggera pressione per chiedermi di sciogliere l’abbraccio.

Lo so cosa voleva fare. Mi sentii avvampare.

Lo guardai negl’occhi, emozionata, e poi inevitabilmente i miei occhi scesero sulle sue labbra.

Quando mi baciava, lo faceva sempre con estrema cautela, quasi temesse di rompermi; quella lentezza, a me, faceva impazzire. Mi sentivo come un petardo quando la sua bocca si univa, piano, alla mia. Anche in quel momento, quando ci baciammo, mi sentii sopraffare, e mi aggrappai ulteriormente alla sua schiena. Lui, in risposta, salì con le mani sul mio volto, sembrava così piccolo in confronto a quei palmi.

Fece ulteriore pressione, e mi sentii piegare la testa all’indietro, la sua bocca si mosse leggera sulla mia; socchiusi gli occhi, e non vi dico che colpo mi venne quando vidi che le sue iridi stavano osservando il mio volto, e probabilmente le mie reazione. Imbarazzante!

La sua bocca si mosse ancora, e io potei solo rispondergli, facendomi travolgere da quei movimenti, fino a sentire la sua lingua. Oh cavolo, la lingua!

Mi sentii tremendamente incerta, e riaprii gli occhi. Lui, alla mia reazione, si staccò e mi guardò con ansia.

Ero senza fiato, e con le guance in fiamme, non credevo che saremmo arrivati fino a quel punto, a quel contatto nel bacio. Mi sentii bloccata, e la mia mente, bastarda, mi mostrò il volto di Kojiro, e il ricordo di come lui mi baciasse e toccasse: era completamente diverso da Wakabayashi.

Lui, intanto, sciolse l’ansia dello sguardo, e mi baciò una tempia, facendomi rabbrividire emozionata, prima di staccarsi lentamente da me, tenendomi solo la mano fino all’ultimo istante.

-Buonanotte, ci vediamo domani.-

E si allontanò, lasciandomi completamente stravolta.

Aaaaah! Ma perché mi ero bloccata in quel modo?! In fondo … in fondo, io volevo essere baciata da lui.

 

Dormii non molto bene quella notte, ero insoddisfatta e stizzita da me stessa e dal mio atteggiamento, oltre che ad essere imbarazzata al ricordo del nostro bacio; per di più quella carogna della mia testa me lo ripropose nella notte più volte di fila, e non contenta me lo mostrò anche in altre prospettive, come se ci fosse stato del pubblico ad assistervi!

Riposai solo perché, alla fine, ero stravolta.

E la mattina dopo mi svegliai più stanca di quando ero andata a dormire. Quello che mi fece alzare dal letto era il pensiero che, quel giorno, andavo a vedere Wakabayashi allenarsi.

Il fatto, di per sé, non era entusiasmante, non era la prima volta che andavo ad assistere a degli allenamenti di calcio, era quasi una routine: prima c’era stato Kojiro, e lì ho cominciato ad apprezzare il calcio, poi c’era stato Jin, che ogni tanto andavo a prendere agl’allenamenti quand’era più piccolo. E adesso toccava a Genzo.

Posso dire con certezza che il primo, vero allenamento che vidi, fu quello di Kojiro in montagna, quando stava preparando il suo “Raiju shot”: ancora mi ricordo bene che ero salita perché ero preoccupata per lui, non lo vedevo più sulla spiaggia ad allenarsi, e solo Takeshi sapeva dov’era finito.

La prima cosa che vidi, quando trovai la casupola, erano le bottiglie di coca-cola, all’epoca era malato di quella bevanda!

Poi delle scarpe distrutte. Che ridere: mi ricordo che, quando ci siamo sposati, come regalo di nozze e per scherzare, gli regalai un paio di scarpe Nike rinforzate, affermando che quelle non sarebbe mai riuscite a distruggerle.

Alla fine lo trovai steso a terra, più morto che vivo, che si rialzava e tirava un calcio contro il grosso tronco di un albero, per sfondarlo. Ammetto che, inizialmente, pensai che fosse impazzito, ma poi guardandolo mi resi conto che, tutto quel lavoro, lo stava facendo con vero entusiasmo e passione, e mi contagiò non poco.

Ripensando al giorno della mia sconfitta, alla partita del mio liceo, cercai degl’abiti comodi da indossare, voltandomi a guardare il mio riflesso allo specchio.

Aveva cominciato a piovere verso la fine, come a segnare la nostra disfatta. Quello, credo, era il primo temporale della stagione; e con quel temporale arrivò Kojiro.

Oddio, Maki! Ma che pensiero sdolcinato che hai fatto! Eh ragazza mia, perdi colpi!

Ad attendermi Friedrich, che come stabilito mi portò al campo d’allenamento di Wakabayashi, facendomi fare per l’occasione un rapido giro panoramico di Monaco.

Ah, non l’avevo detto? Prima del mio arrivo, Wakabayashi aveva firmato un contratto che lo ingaggiava nel Bayern Monaco, e si era trasferito nella casa di famiglia. Così mi aveva detto Isolde, e sinceramente non chiesi ulteriori informazioni sul parentado dell’uomo, se lo voleva mi avrebbe detto di più lui stesso.

Comunque, nonostante il freddo di metà Ottobre, la giornata era limpida, e per la prima volta mi resi conto che Monaco era splendida: rimasta nel mio “maniero”, infatti, non avevo avuto modo di guardarla, e mentre passavamo accanto al profilo di una grande chiesa cristiana, pensai che nei giorni successivi avrei fatto la turista, e me la sarei vista TUTTA.

Avevo fatto una cosa simile a Torino, con un inglese stentato ma tanta curiosità.

Le città europee mi avevano sempre affascinato, proprio perché erano così diverse esteticamente a quelle giapponesi: sembravano delle belle signore, avanti con l’età e un po’ forti di fisico, mentre le mie città nostrane erano per la maggior parte delle donne longilinee, vestite con kimono o con degl’abiti super appariscenti.

Il campo d’allenamento di Wakabayashi era in una zona periferica della città, circondata da alberi e verde, e non troppo distante c’erano altri centri sportivi, riconobbi i pali di un campo da rugby alla mia sinistra; la prima cosa che mi colpì però, quando scesi dalla macchina, fu il freddo! Oddio, gelavo!

-Dank, Friedrich!-

L’uomo mi fece un cenno della testa e sorrise, e io lo guardai andarsene, prima di cercare, per sicurezza, la macchina di Wakabayashi, l’avevo vista una volta sola ma era così … di bella presenza, che la riconobbi subito, faceva sfigurare quelle Mini lì accanto.

Io non sono un genio in fatto di macchine, ma ritengo che una con su scritto sopra “Audi” sia una macchina alquanto costosa, giusto? E per quanto fosse scura e, lo ammetto, elegante, appena la vidi subito immaginai il sorriso strafottente di Wakabayashi, e sorrisi.

Seguii alla lettera le istruzioni che mi aveva dato Genzo, e sulle prime ci fu diffidenza, seguita da alcuni cenni di diniego; poi però, una signorina che lavorava lì mi sorrise, e mi guidò verso il campo d’allenamento, un corridoio collegava la palestra al campo, e mentre lo percorrevo sentii distintamente il suono di un fischio, e una serie di richiami in tedesco.

Uscii alla luce del sole, e mi emozionai nel vedere i giocatori in campo ad allenarsi.

Non perché fosse la mia squadra preferita, ma semplicemente perché stavo assistendo all’allenamento di professionisti; la signorina m’indicò degli spalti coperti, e poi mi lasciò sola. Silenziosamente, cercando di non farmi notare, salii sulle gradinate, sedendomi su una delle più vicine, al di sopra della rete che la separava dal campo da calcio.

E, come prima cosa, notai che non erano tutti biondi come mi aspettavo, anzi: c’era anche un giocatore di colore!

Poi rivolsi lo sguardo alla porta, e riconobbi subito il berretto rosso di Wakbayashi, aveva addosso un’uniforme scura ed era pronto per parare.

Lo guardai attentamente, notando come le ginocchia fossero piegate e le braccia aperte, ad occupare più spazio possibile; proprio in quel momento, uno dei giocatori gli tirò contro una cannonata da dentro l’area di rigore, e Wakabayashi si buttò lateralmente a prenderlo, rilanciandolo subito in gioco, tornando al suo posto.

Lo avevo già visto parare, quando mio “fratello” Jin gli aveva lanciato la sfida, ma questa era la prima volta che lo vedevo allenarsi seriamente: i suoi compagni di squadra gli lanciavano tiri dalle posizioni più disparate, e lui aveva solo il tempo di rialzarsi e tornare al suo posto, arrivando a rimandare un tiro semplicemente sferrandogli un tremendo cazzotto. Mi ritrovai, più di una volta, a trattenere il fiato per lui.

Il più feroce di quei giocatori era, senza dubbio, il loro capitano, il biondo Karl Schneider che tirava delle cannonate pazzesche, ogni volta che aveva il pallone in mano ed era davanti alla porta pensavo al peggio.

Wakabayashi, però, era imperscrutabile: qualsiasi tiro gli arrivasse riusciva sempre, se non a parlarlo, quantomeno a deviarlo, compiendo balzi anche molto ampi, atterrando con una capriola e rimettendosi velocemente in piedi.

Ah, questa la devo raccontare!

All’improvviso uno dei suoi compagni di squadra tirò una cannonata, ma con mia sorpresa Wakabayashi rimase fermo al suo posto, e per qualche istante pensai che si fosse sbagliato; invece il pallone aveva una strana traiettoria, e alzandosi colpì il palo, tornando indietro mentre il portiere si metteva dritto con la schiena, sistemandosi i guanti quasi come segno di provocazione al compagno di squadra.

-Parola mia, Genzo, la dea della fortuna ti ama!-

-Dev’essere il suo fascino orientale!-

E sentii alcuni compagnia mettersi a ridere mentre io prendevo fiato, guardandoli e cercando di capire chi fossero, se le loro facce mi erano familiari.

In fondo mio marito è stato un calciatore, e qualche volta mi raccontava dei suoi avversari!

-Qualcosa di caldo?-

Mi voltai sorpresa, e un signore avanti con l’età mi porse un bicchiere di plastica con dentro quello che sembrava essere caffè.

Lo accettai stupita, non l’avevo visto arrivare, troppo concentrata a guardare quegli allenamenti.

-Grazie.-

-Posso?-

-Ah, certo, prego.-

E si accomodò accanto a me mentre io soffiavo sul bicchiere, notando che non c’era odore di caffè ma cioccolata calda. Meglio, a me il caffè non mi ha mai fatto impazzire.

-Mi sono permessa di offrirle il cioccolato perché il nostro caffè lascia a desiderare.-

-Ah, la ringrazio … signor …-

-Franz, mi chiami pure Franz.-

-Io sono Maki, molto piacere.-

Aveva la fronte alta e grandi occhiali da sole che gli coprivano gl’occhi. Aveva un’aria severa, da vero tedesco, eppure sembrava divertirsi molto nel vedere la squadra allenarsi.

-Lei è una parente di un nostro giocatore?-

-Ah, sono … una conoscente di Wakabayashi.-

-Capisco, sa è la prima volta che incontro una sua conoscente: non è un tipo molto aperto, se vogliamo metterla in questo modo.-

-Ah, non si preoccupi: io spesso lo chiamo Bär.-

E l’uomo sorrise divertito a quel nomignolo, tornando a guardare i giocatori assieme a me.

Vi dirò, sorseggiare la cioccolata assistendo all’allenamento si rivelò molto piacevole, e mi scaldò assieme alla presenza del signore, ogni tanto si permetteva di farmi qualche domanda, dandomi la possibilità di migliorare il mio misero tedesco.

-Quindi è da poco qui a Monaco?-

-Due-tre mesi.-

-Lei già conosceva il tedesco?-

-No, anzi sono un disastro. Ma dal mio arrivo l’ho parlato, e pian piano ci sto prendendo … abitudine.-

Non mi ricordavo la parole tedesca per “confidenza”, ma mi feci comprendere dal signore.

-Allora le posso dire che è molto brava.-

-Grazie!-

Che bello! Un tedesco che mi faceva i complimenti per la mia parlata! Che soddisfazione!

In fondo era merito di Wakabyashi: se non si fosse intestardito in quel modo a parlarmi solo in tedesco, probabilmente, a quest’ora con il signor Franz starei parlando con i segni!

-E da quanto tempo conosce Genzo?-

-Ah, lui … era un amico di mio marito fin da quando erano piccoli.-

-Suo marito?-

-Kojiro Hyuga.-

Per la prima volta vidi il signor Franz sorpreso, e io mi sentii in imbarazzo; subito dopo lo sguardo dell’uomo si adombrò, di quel periodo non ricordo molto ma so per certo che quella notizia aveva fatto il giro del mondo nei giornali sportivi.

-Sincere condoglianze, avevo sentito dire che era sposato, ma non mi sarei mai aspettato di conoscerla.-

Io mi limitai a fargli un cenno del capo, sentendo la situazione farsi difficile, forse non avrei dovuto dirlo …

-Ho visto suo marito dal vivo in una partita proprio qui a Monaco, e sono rimasto molto colpito dalle sue capacità fisiche.-

-Si, in effetti mio marito, in campo, era simile ad un bulldozer.-

Quella parola l’avrei riciclata molto spesso, era una delle poche che, dovunque io andassi, si capiva sempre!

Il signor Franz sorrise, ma scosse il capo, gesticolando per farsi comprendere meglio.

-Quello che voglio dire … è che riusciva a trascinare tutti i suoi compagni, e quando tirava, beh, dimostrava di essere davvero il più grande cannoniere che avessi mai visto.-

Sentito Kojiro? Non sei orgoglioso? Io l’ho sempre detto che saresti stato ricordato anche dopo che avresti smesso di giocare. Peccato, però, che io dicendo questo pensavo al tuo ritiro, non certo alla tua morte.

Dovevo distrarmi dai quei pensieri.

-Anche lei giocava, giusto? In che ruolo era?-

-Tendenzialmente ero difensore.-

-E per quanto tempo ha giocato?-

-Ah, fin quando le gambe mi hanno retto! Effettivamente smisi di giocare nell’84, e feci l’allenatore per circa sei anni.-

Rimasi affascinata dal suo racconto, e lo ascoltai attenta mentre mi raccontava della sua vita, distraendomi sia dagl’allenamenti che dai miei ricordi.

E anche dal mondo intorno a noi, dato che all’improvviso l’uomo s’interruppe, alzando lo sguardo da me, e io seguii i suoi occhi, voltando la testa e notando che, dietro di me, alcuni giornalisti (sicuramente non sportivi) ci stavano guardando e scattando delle foto.

Quando rivolsi loro lo sguardo, poi, aumentarono gli scatti, e si agitarono come un pollaio quando dentro ci entra una volpe.

-Lei attira molta attenzione, signorina Maki.-

Era questo a cui si riferiva Genzo? Quelle persone che si animavano?

-Tuttavia non mi aspettavo di vederne qui al campo d’allenamento: forse qualcuno ha spifferato il vostro arrivo.-

-Addirittura?-

-Lei forse non è abituata, ma da noi i giocatori e la gente dello spettacolo sono sempre sotto l’attenzione di tutti; una volta, forse, noi sportivi potevamo avere il lusso di compiere qualche sciocchezza, ma adesso che questo sport è diventato uno dei più seguiti al mondo, ogni minimo errore di noi professionisti è registrato e commentato, dentro e fuori dal campo di calcio.-

Già, mi ricordavo che uno dei fastidi più grandi per Kojiro erano proprio i giornalisti, specie quelli scandalistici; ogni cosa che riguardava il nostro rapporto veniva scritta e amplificata più di cento volte, così che le nostre discussioni diventavano furiosi litigi, e i momenti in cui non stavamo insieme erano visti come segni di un una separazione.

Però non era così forte quella presenza, e dopo un po’ ci hanno lasciato perdere, dato che i nostri caratteri e i nostri stili di vita male si accordavano con il desiderio di drammaticità di quelle testate.

Ma qui? Come sarebbe andata avanti? Wakabayashi mi aveva accennato che lui era spesso “fonte” di notizie per i giornalisti, e che sarebbe stato difficile per me. Ma com’era per lui?

-Wakabayashi ha fatto molti errori di questo tipo?-

Il signor Franz si limitò a scrollare le spalle e a tornare a guardare gl’allenamenti.

-Certamente, se ha fatto degl’errori, erano al di fuori del campo da calcio, e non hanno mai coinvolto le squadre in cui ha giocato, come l’Amburgo o la Nazionale Giapponese.

Una cosa certa, di Genzo, è che è un serio professionista, e che da sempre il massimo impegno all’interno di quei pali.-

Mi voltai a guardarlo, cercandolo con lo sguardo, e lo vidi asciugarsi un attimo il sudore sulla fronte, risistemandosi il berretto sulla testa e aspettandosi un altro tiro da parte dei suoi compagni di squadra. Ripensai alla sera prima, a quando era stato così incerto da non sembrare lui, e mi resi conto di quanto fosse preoccupato.

Arrossii: oh cavolo, non mi rendevo mai conto di quanto ci tenesse sul serio a questa nostra relazione! Che scema!

-L’accompagno dentro, tra poco termineranno l’allenamento ed è meglio che incontri Genzo in un posto quanto meno riparato da occhi indiscreti.-

-Ah, la ringrazio signor Franz.-

-Dammi del tu.-

-Allora anche tu chiamami Maki.-

Ci allontanammo dai fotografi, o almeno così sperai mentre rientravo dentro l’edificio, notando che anche i giocatori stavano tornando agli spogliatoi per cambiarsi; Franz mi accompagnò vicino all’uscita dei spogliatoi, tenendomi compagnia per la successiva mezz’ora, fino a quando la porta non si aprì.

E il primo ad uscire fu proprio Genzo.

-Ah eccoti.-

-Ciao.-

-Ti sei divertita?-

-Moltissimo, ho anche avuto modo di conoscere il signor Franz.-

Wakabyashi alzò lo sguardo verso il vecchio signore, facendo un’espressione … direi divertita, che m’insospettì leggermente mentre l’uomo si congedava, entrando nello spogliatoio per parlare con gli altri giocatori.

-Allora? Come ti sembra il signor Franz?-

-Perché hai quell’aria così divertita in faccia?-

-Tu non sai chi è, vero?-

Scossi la testa, e lui mi parlò a bassa voce, mettendo un braccio attorno  alle spalle per avvicinarsi ulteriormente al mio orecchio.

-Lui è Franz Anton Beckenbauer, il più grande libero di tutti i tempi nella storia del calcio; lo stesso Pelé lo ha inserito nel FIFA 100, la graduatoria dove sono elencati i più grandi nomi del calcio.-

Se da una parte questo mi sorprese non poco, dall’altro mi fece sentire ulteriormente … contenta di aver conosciuto quel signore.

-In effetti ha l’aria di un esperto di calcio.-

-E lo è. È il presidente onorario del Bayern Monaco e … merda.-

Mi voltai davanti a me: all’ingresso c’erano un gruppo di sconosciuti, alcuni di loro avevano delle macchine fotografiche.

Giornalisti, che stessero aspettando proprio noi?

-Maki, dietro agli spalti dov’eri seduta c’è un’uscita secondaria, va a chiedere al guardiano di passare per di là, ti vengo a prendere con la macchina.-

Io obbedii. Velocemente mi diressi al campo di calcio e, riconoscendo un uomo come il possibile guardiano, mi avvicinai e gli spiegai con il mio stentato tedesco la situazione; lui mi guardò storto, ma alla fine mi accompagnò a quella seconda uscita, aprendomela e chiudendola subito dopo alle sue spalle, con considerevole stizza. Ma tu guarda!

Wakabayashi arrivò poco dopo, e salii più velocemente che potei sulla macchina, che sgommando scappò via, dirigendosi nuovamente verso il centro di Monaco.

Quando tentai di rivolgergli la parola, vi dico solamente che aveva l’aria di uno che avrebbe buttato sotto i pedoni sulle strisce pedonali come il protagonista di Gran Theft Auto.

 

**

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Capitolo 4
*** Idioms ***


III: Idioms

(modi di dire)

 

Quando Wakabayashi entrò dentro la casa, per istinto di sopravvivenza mi fermai sulla soglia qualche secondo.

Mettetevi nei miei panni: l’uomo che vi ha letteralmente portato via dal vostro Paese è incazzato nero, e apre la porta con la stessa forza con cui tirerebbe un pugno ad un sacco da boxe. Sinceramente, non gli stareste alla larga?

Però io non mi faccio spaventare molto da quelle scenate, ne avevo viste anche di peggio da parte di Kojiro (una volta fu così arrabbiato da spaccare un piatto mentre lo asciugava!); pertanto mi limitai a prendere un profondo respiro, prima di entrare dentro e chiudermi la porta alle spalle.

Quando mi voltai, Isolde mi stava guardando con aria incuriosita.

-Che succede?-

Avrei voluto dirgli “niente, un po’ di luna storta”, ma come tradurlo bene in tedesco per dargli senso? Non ci volli perdere tempo mentre mi sfilavo il cappotto.

-Qualche problema … con la stampa.-

-Ah! Da haben wir den Salat!- (Ecco l’insalata!)

Che c’entra l’insalata?! Il mio sguardo stranito fu piuttosto evidente, e la donna sorrise divertita, spiegandosi.

-È un modo di dire. Significa “ecco il guaio!”; indichiamo l’insalata perché è disordinata.-

-Ah! Capito! Questo me lo devo ricordare …-

-Comunque, non mi sorprendo che sia così arrabbiato: il padroncino ha sempre avuto problemi con i giornalisti.-

Era appena entrato un uomo grande, grosso e maturo, visibilmente incazzato, che a momenti sfondava la porta d’ingresso, e lei lo chiamava “padroncino”!!

Beh, ripensandoci, a me quando c’erano le riunioni di famiglia, e facevo il mio ingresso appena tornata dagl’allenamenti di softball sporca e sudata (per la gioia di mia zia), mi chiamavano sempre “signorina” ...

Guardai la scalinata, sicuramente era salito in camera sua. E io dovevo andarci.

-Ci penso io Isolde.-

-Hals - und Beinbruch.- (Rottura del collo e della gamba!)

La guardai ancora una volta allibita, ma intuii che forse mi stava dicendo “buona fortuna”.

Sentire la domestica usare quei modi di dire mi faceva una tremenda nostalgia, anche mia nonna era solita parlare per proverbi o filastrocche quando era con me o con qualche suo nipote più piccolo.

Salii le scale due per volta, presi il corridoio davanti a me e frenai la mia corsa davanti alla porta d’ingresso della stanza di Wakabayashi: non ci ero mai entrata prima di allora, dovevo ammetterlo.

E che mi sembrava una cosa … invasiva, entrare nella stanza privata di qualcun altro. Al ryokan era diverso, erano come “stanze d’albergo”, e io ero solo una cameriera.

Ma lì ero Maki. E Maki stava per entrare nella stanza di Wakabayashi.

Bussai leggermente, ma non sentii alcuna risposta, osando aprire lentamente l’uscio, per sporgermi a vedere.

Era seduto pesantemente sulla poltrona, e la prima cosa che mi sorprese fu proprio la presenza di quel mobile, io non avevo una poltrona in camera. Mi guardai velocemente intorno, e mi resi conto che quella stanza non aveva niente di simile a quella mia, decisamente più spoglia.

Anzitutto, quella era una stanza che rispecchiava perfettamente il carattere del suo proprietario: aveva una grande finestra, che illuminava totalmente la camera, ma al tempo stesso c’era un camino in pietra, dall’aspetto severo. Il pavimento era in legno, e sotto la poltrona c’era l’unico tappeto presente.

Elegante e non pomposa, con un’aria rigorosa.

Rivolsi lo sguardo verso Wakabyashi, e mi resi conto che ancora non aveva alzato gli occhi, trovando l’interno del camino, al momento spento, più interessante della mia presenza; ma come, era la prima che entravo, mi aspettavo almeno un pochino di stupore da parte sua!

(Sto cercando di buttarla sul ridere, dato l’atmosfera di quel momento era … beh, diciamo molto cupa.)

Il suo silenzio rabbioso aveva la capacità di ammutolire, ma io presi un profondo respiro e mi avvicinai, tenendo le mani dietro la schiena e guardandolo: aveva lo sguardo torvo, una mano a coprirgli la bocca che, di sicuro, era storta in un’espressione infastidita.

E tutto quello perché avevo insistito nel vederlo allenarsi. Lo ammisi, era colpa mia.

-Mi dispiace, non pensavo che ti saresti arrabbiato in questo modo.-

Era una formula che usavo sempre quando volevo scusarmi con Kojiro: gli dicevo quella frase, per cercare di sbollirgli la rabbia, e poi m’inginocchiavo verso di lui, dato che di solito non usavamo le poltrone. Ci piaceva stare seduti sul tappeto, come i bambini.

A questo punto mio marito mi rivolgeva lo sguardo, e il suo fastidio scemava leggermente; Wakabayashi, al contrario, continuò a guardare altrove, sembrava che io non avessi parlato in quei secondi. Possibile che dovesse rendere tutto più difficile?!

Beh, in fondo lui non era mio marito: per quanto avessero tante cose in comune, infatti, erano proprio quelle piccole cose a farmi comprendere quanto fossero diversi. Wakabayashi era … un bambino sdegnoso, e quanto si arrabbiava, anche se per validi motivi, finiva sempre che qualsiasi cosa lo irritava molto più facilmente del normale.

Isolde, in quei casi, mi diceva che dovevo essere “accondiscendente”.

IO?!

Potevo sforzarmi in quel caso, ma non assicuravo grandi risultati!

M’inginocchiai verso di lui, le mie mani per pochissimo non sfiorarono i suoi polpacci, e cercai il suo sguardo, cercando le parole migliori.

-… è colpa mia, lo ammetto. Ti prometto che non succederà più.-

Ah! I suoi occhi si spostarono verso i miei.

È incredibile, anche con quell’espressione stizzita mi faceva sorridere divertita, era proprio un bambinone!

-Se vuoi, non verrò più a vederti agl’allenamenti.-

Lo stavo dicendo solo per convincerlo a smettere di tenermi il muso, intendiamoci! Posso assicurarvi che le mie intenzioni erano quelle di vederlo allenarsi il più possibile, era stato troppo interessante!

Lui prese un respiro talmente tanto importante che sembrava dover prendere una decisione di vita o morte. Invece stavo solo cercando di sbollirgli un pochino di rabbia.

E forse ci stavo riuscendo: infatti tolse la mano dalla bocca, e vidi quella smorfia nascosta che, lentamente, si sciolse mentre mi guardava.

-Non sono arrabbiato con te. È che lo sapevo che sarebbe successo: sapevo che qualcuno avrebbe parlato di te alla stampa.-

Una donna, per di più orientale, che chiede di Genzo Wakabayashi, uno dei portieri più importanti della lega tedesca. Ci arrivavo anch’io.

Nel frattempo, lui si sporse verso di me, tenendo le braccia appoggiate alle ginocchia.

-Sai, però, cosa mi da fastidio? Il fatto che, da questo momento, faranno di tutto per riuscire ad ottenere una mia foto con te. E la cosa peggiore, cercheranno di sapere di te, e diranno qualsiasi cosa su di te e sul fatto che … sei … la moglie di Kojiro.-

Non m’interessava che dicessero qualcosa di me, ne avevo sentite di cotte e di crude sul mio conto, anche all’interno della mia stessa famiglia; ma non volevo in nessun modo che venisse detto a qualcosa di mio marito. Non con tutto quello che aveva passato nella vita.

Io lo conoscevo, gli altri no. E tutto quello che dicevano di lui, fidatevi, era sbagliato.

Abbassai lo sguardo, e in quel momento Wakabayashi si alzò in piedi, allontanandosi dalla poltrona e portandosi verso la finestra; non lo guardai, in quel momento mi stavano tornando in mente le motivazioni che mi avevano spinta ad arrivare fino a quel punto.

-Beh … questi erano i rischi che dovevo capire … quando ho deciso di raggiungerti …-

Mi aspettai che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa: dal commento acido, che ci avrebbe portato a litigare (molto probabile), a qualcosa di un po’ più tenero per smorzare la difficoltà della situazione (meno fattibile, conoscendolo.)

Pertanto, quando non lo sentii parlare, alzai lo sguardo verso di lui preoccupata: per la seconda volta non mi stava guardando negl’occhi, ma mi spaventai di più perché ci vidi nel suo sguardo un’aria turbata, diversa da quella della sera prima.

Stavolta era ferito, e l’avevo ferito io, con le mie parole.

Oh cavolo!

-Però non sono pentita, non sono pentita affatto di essere venuta qui!-

Ti prego Wakabayashi, mi devi credere!

-Io, se non fosse stato per te, mi sarei ritrovata da sola a Tokyo.-

E tu lo sapevi che per me, stare da sola, era come buttarmi dalla scogliera: sarei impazzita nel ricordare costantemente Kojiro e soprattutto te! Mi sarei scervellata come una deficiente, rimpiangendo ogni giorno che ho passato con te e, al tempo stesso, soffrendo della mancanza di mio marito. Sarei finita in manicomio!

-Tu hai fatto così tanto per me. E io ho solo combinato questo pasticcio. Mi dispiace, davvero mi dispiace.-

L’ho dissi con profonda angoscia, avevo paura che la reazione dell’uomo sarebbe stata di distacco; in effetti non avevo detto parole troppo carine, ma non  me n’ero resa conto, le avevo mormorate sovrappensiero!

Strinsi i pugni, mi ero alzata in piedi mentre gli dicevo quelle cose, ma rimasi accanto alla poltrona perché, inconsciamente, avevo paura di avvicinarmi a lui, non sapevo come avrebbe reagito.

Lui si voltò a guardarmi, e continuò a rivolgermi lo sguardo, avevo una tale ansia che mi sarebbe venuto da piangere dal fastidio.

-… mi dispiace Genzo.-

-Va bene, va bene, ora basta.-

Si staccò dalla finestra e si avvicinò a me.

Il mio primo istinto fu quello di ritrarmi, ma alla fine sentii le sue braccia avvolgermi, la sua mano che spingeva la mia nuca sulla sua spalla, e il petto che si alzava in un grosso sospiro.

-Sta tranquilla. Te l’ho detto, non sono arrabbiato con te. Accidenti, non mi immaginavo che ti agitassi tanto.-

-… è colpa tua: hai l’aria perennemente incazzosa, non so quello che pensi, e mi metti ansia quando non mi parli.-

Non gliel’avrei fatta passare liscia, e che cavolo mi aveva fatto venire un colpo!

Lui, però, sollevò e abbassò il petto in una leggera risata, tenendomi ancora tra le braccia, e io mi calmai lentamente, respirando a fondo l’odore che proveniva dai suoi vestiti, sentendomi però frustrata: maledizione, non credevo di essere così emotiva in quelle situazioni; dov’era finita la Maki che una volta, perché il suo “futuro marito” si era messo a tirare pallonate alla rete del campo da gioco, gli aveva svuotato la bibita e obbligato a farle da ricevitore?

Quanto sarebbe andata avanti quella situazione? Per quanto ancora mi sarei spaventata per qualsiasi cosa?

Mi sciolsi dalla sua presa con ancora quella sensazione di debolezza che m’innervosiva, volevo uscire da quella stanza.

-Scusa, vado a mettermi qualcosa di più comodo.-

-Ehi, aspetta, che ne dici di uscire stasera?-

… Eh?! E il discorso fatto appena cinque secondi prima?!

-Prego?-

-Ma si: un mio compagno di squadra mi ha chiesto se volevo passare la serata con lui e alcuni membri, c’è anche Karl. All’inizio ho pesato di rifiutare, ma vista la situazione ci farebbe bene uscire, no?-

-E i giornalisti?-

-Vestita così non si accorgeranno mai che sei una donna.-

Ah che scemo! Gli tirai un pugno sul braccio, ma lui reagì ridendo, afferrandomi quel polso e avvicinandosi a me.

-Allora? Vieni?-

-Mi sembra una pazzia: fino a cinque minuti fa abbiamo discusso sul fatto che non vuoi che la stampa chiacchieri di noi, lo capisci vero?-

-Si che lo capisco, ma se rimaniamo qua dentro sono sicuro che ti deprimerai, e questo non mi sta bene: sbaglio o sono io il musone di casa?-

Volevo dirgli di no, che avremmo peggiorato le cose, che non me la sentivo; ma aveva in faccia un’aria da mascalzone tale che non seppi proprio dirgli di no, come quella volta, quando accettò la sfida di Jin, e cominciò a prenderlo in giro davanti a tutti.

Sbuffai in modo plateale, mettendomi le mani sui fianchi.

-E va bene. In fondo qualcuno deve tenerti d’occhio, no?-

-Hai paura che possa incontrare qualche bella tedesca?-

-Conoscendoti la faresti scappare a gambe levate con la tua presunzione.-

-Oh, ma guarda un po’ chi parla, miss modestia!-

-In confronto a te puoi dirlo forte! Io sono l’unica in grado di poterti sopportare.-

-E di questo te ne sarò sempre grato.-

Argh, non dirlo con quel tono di voce, mi fai venire la pelle d’oca dall’imbarazzo!

-… Sarà meglio che mi metta qualcosa di più femminile: non vorrei che sfigurassi andando in giro per Monaco con questo “maschiaccio”!-

E corsi in camera, chiudendomi dietro le spalle la porta e prendendo fiato, l’ultimo commento dell’uomo ancora mi stava facendo storcere le budella dall’emozione. Diceva poche volte cose del genere, ma quando le diceva … beh, vedete anche voi i risultati!

Non c’ero proprio abituata, e non mi aspettavo che quell’orso potesse dire cose del genere!

Se penso a Kojiro, mi viene da ridere: non era assolutamente un marpione, e dalla sua bocca era raro sentire qualcosa di simile.

Wakabayashi, invece, credo ci sia piuttosto abituato, e ho capito che apprezza la compagnia femminile.

Io, al contrario, mi sentivo così imbranata!

Mi buttai sull’abbigliamento, e il mio umore si ravvivò: quanto ero contenta di non essere obbligata a mettermi costantemente il kimono!

Jeans, magliette, canottiere, felpe, maglioni, adoro i vestiti occidentali! Sono comodi, mi fanno sentire libera di saltare e correre quanto mi pare e piace. E le scarpe da ginnastica mi fanno impazzire! È bellissimo poter correre senza rischiare d’inciampare o di rompere un laccetto, come capitava con i sandali.

Il primo ricordo bello che ho della mia infanzia sono proprio il mio primo paio di scarpe da ginnastica. Erano rosse sgargiante, me le aveva comprate mio padre, ed avevano i lacci; consumai la suola e la punta per quanto le usai, ma piuttosto che buttarle le riparavo con scotch, stoffa e pezzi di cuoio, facendole diventare grigie per via del nastro telato. Quelle calzature mi facevano davvero sembrare una teppista.

Nel frattempo che ricordavo, presi un paio di Jeans neri, aderenti, e me l’infilai velocemente, scoprendo che mi erano leggermente larghi, frugando poi alla ricerca di qualcosa da mettermi sopra.

Quando iniziai a giocare a softball comprai un paio di scarpe rosse simili, ma più resistenti: ci feci la mia prima partita, quella che persi. Da allora le considerai le mie scarpe porta-fortuna.

Trovai una maglietta con lo scollo a barca e le maniche aderenti, e me la infilai svelta, schizzando nel bagno per pettinarmi un momento i capelli.

Kojiro, per il nostro primo anno insieme, mi regalo una paio di scarpe da ginnastica. Io, come ho già detto, gli regalai le Nike al matrimonio!

Mentre terminavo di prepararmi, notai il fermaglio che mi aveva regalato Wakabayashi, e un po’ emozionata me lo misi fra i capelli, uscendo di gran carriera dal bagno e infilandomi le ballerine nere, afferrando la borsa e mettendoci dentro quel poco che avevo, portafoglio e cellulare.

Scesi giù dalle scale, e mi accorsi che ero la prima ad essere pronta, Isolde si sporse ad affacciarmi mentre si asciugava le mani con un canovaccio.

-Oh Maki! Sei veramente carina!-

-Ti ringrazio Isolde.-

-Tu e il padroncino uscite?-

-Si, mi dispiace è un’idea di Wa … di Genzo, è stato invitato da uno dei suoi compagni di squadra.-

-Sicuramente Karl, lui è il padroncino sono sempre stati molto amici, anche se non l’ammetteranno mai.-

Guardai incuriosita Isolde, e la seguii dentro la cucina, accomodandomi su una sedia mentre lei continuava nelle sue faccende, dandomi la schiena mentre parlava.

-Certo, sono due persone molto orgogliose, ma il signorino Schneider è uno dei pochi ad essere riuscito a superare la diffidenza del padroncino. Beh, non senza difficoltà!

D’altronde, “Ohne Fleiß kein Preis”, non si ottiene nulla senza impegno.-

Doveva essere un altro modo di dire, me lo sarei fatto spiegare da Wakabyashi mentre andavamo.

Sentii quest’ultimo scendere le scale veloce, chiamandomi, e io sbucai fuori dalla cucina con aria curiosa: quelle volte che l’avevo visto in abiti casual era stato al ryokan, e più che altro erano stati jeans larghi, magliette o tute, oltre allo yukata che davamo noi. Questa era la prima volta che lo vedevo con addosso qualcosa per la “serata”.

E per tale motivo, quando lo vidi, mi prese quasi un colpo: aveva una maglia a collo alto e jeans, oltre ad una giacca di pelle foderata. E il tutto … beh, era … bello da vedere. Non posso negarlo, Wakabayashi era davvero un bell’uomo, specie vestito così bene.

Ma anche lui, come me, fece una faccia a pesce; tuttavia, proprio al contrario di me, alla fine sorrise con aria deliziata.

-Stai davvero bene così. sono contento di vederti vestita in questo modo.-

Per me era come se mi avesse detto che ero bella come miss universo! Cavolo, ero troppo contenta!

Salutammo Isolde, che ci augurò buona serata, e velocemente entrammo dentro la macchina privata dell’uomo, uscendo fuori dal cancello. E notai, con sorpresa, che la strada attorno a noi era vuota. Ma come, e l’orda di giornalisti che doveva esserci?

-Ma … non c’è nessuno …-

-Beh, direi che è un po’ tardi per passeggiare, ti pare?-

-No, voglio dire che non ci sono giornalisti.-

-Non possono avvicinarsi a casa mia: mi è stato convalidato un ordine restrittivo per qualsiasi giornalista non invitato dal sottoscritto, o che non abbia preso appuntamento a casa mia. Se si azzardano a venire anche a dieci metri dalla proprietà, posso chiamare la polizia e farli arrestare.-

Mamma mia, che linea dura! Però me l’aspettavo da lui una simile decisione: lui è uno di quelle persone che una cosa, se la si fa, si fa bene.

Anch’io sono così, ma forse quell’ordine restrittivo era un po’ esagerato.

Comunque quell’informazione mi ammutolii, e lui forse se ne rese conto, perché cercò di alleggerire il discorso.

-Comunque riguarda solo i giornalisti: se vuoi invitare qualcuno a casa, ben venga.-

-Se conoscessi qualcuno.-

-Beh, intanto conoscerai i miei compagni di squadra, e loro sono persone in gamba, ti piaceranno.-

-Anche Karl?-

Lui fece una smorfia con la bocca, e io sorrisi divertita. Isolde aveva ragione.

-Con lui puoi anche non farci amicizia, è solo un borioso tedesco.-

-Oh, ha parlato l’umile giapponese.-

-Semi-giapponese, ti faccio presente che al tuo ryokan non avevo la minima idea della differenza tra Onsen e Ofuro.-

A quel ricordo mi misi a ridere, la macchina sfrecciava veloce tra le vie di Monaco, e io chiacchieravo a ruota libera con l’autista alla mia destra, cosa che mi faceva confondere da morire: le prime volte che salii in macchina, infatti, salivo dalla parte del guidatore, perché in Giappone vige la guida a sinistra; fortunatamente non mi sbagliavo più, però mi confondeva non poco!

Arrivammo al pub neanche in mezz’ora, ma prima di scendere dalla macchina Wakabayashi mi fermò con una mano sulla spalla, uscendo per primo e guardandosi intorno, come notai stupita, anche questo era per via della stampa? Alla fine mi aprii la portiera, e mi mise un braccio sopra le spalle, coperte dal cappotto, spingendomi quasi di prepotenza dentro il pub.

Quando superai la porta, sentii subito l’odore della birra e il caldo soffocante del locale, quella notte era gelida e fortunatamente non avevamo messo la macchina troppo lontano; in compenso, Wakabayashi continuò a tenermi il braccio sulle spalle, guidandomi lui nel semi-buio del locale, fino a salutare con la mano un gruppo di uomini e, per mia fortuna, due donne, almeno non ero la sola!

Riconobbi subito Karl: era veramente, veramente, veramente … biondo!

-Buonasera a tutti.-

-Come al solito ti fai desiderare Genzo!-

-Dovete prendervi due sedie.-

-Ah no, fa sedere la signorina sulla poltrona, maleducato.-

Mi sentii assolutamente a disagio: le persone davanti a me erano tendenzialmente caotiche e rumorose, io che fino a qualche giorno prima ero vissuta in una bolla di silenzio mi sentii quasi rintronata, e quando Karl si alzò in piedi per presentarsi, beh ero ancora più confusa, tanto che lo salutai alla mia maniera, facendo l’inchino alla giapponese.

Che stupida! Ma che fai?! Salutalo all’occidentale!

-… Hallo …-

Fortunatamente, il tedesco si limitò a sorridermi divertito, allungando la mano mentre il resto del gruppo commentava, parlavano velocemente e con delle cadenze che non mi facevano capire niente.

Wakabayashi comprese la mia confusione, o fece semplicemente il cavaliere; fatto sta che si sedette accanto a me sulla poltroncina, mentre i due che ci erano seduti prima si cercavano delle sedie, riprendendosi gli enormi boccali di birra.

Incredibile! Ma avrebbero bevuto davvero tutta quella roba?!

Me li presentò tutti, ma io mi ricordavo di nome solo Karl, e lui mi presentò semplicemente come Maki, tralasciando il dettaglio che ero la moglie di Kojiro; mi sembrava giusto, quel particolare avrebbe solo ingrigito la serata.

Lo lasciai fare con le ordinazioni, stabilendo invece un contatto con una delle due ragazze, Adina, e parlando con lei forse più a gesti che parole, dato che era veramente veloce nella parlata.

-Ragazzi!  Das ist eine Affenhitze!- (è un caldo da scimmia!)

Quella fu una delle cose più strane che sentii in tutta la serata, mentre arrivava la cameriera con i pasti che avevamo ordinato.

Anche qui, beh, è tutto da dire.

Uno degl’uomini aveva ordinato dei Rollmops: involtini di aringhe marinate in aceto, verdure e aromi, arrotolate intorno a un cetriolino sott'aceto; un altro le classiche salsicce, e io ero terrorizzata a quello che Wakabayashi aveva chiesto per me, soprattutto perché la birra non mi piaceva, e di solito Isolde non faceva sempre e solo cucina tedesca; quello che mi arrivò furono delle frittelle, o almeno così mi sembrarono mentre l’uomo si sporse per dirmi di che si trattava.

-Reiberdatschi: patate grattugiate, mescolate a cipolla tritata, legate con uova e poca farina, e fritte-

Gli ripetei la parola, e poi le assaggiai.

E volete saperlo? Erano buonissime! Glielo dimostrai con tutto il mio volto, e per poco l’uomo non si mise a ridere, bevendo il suo gigantesco boccale di birra, io fortunatamente me la cavai con dell’acqua.

-Allora, Maki, cosa ti ha portato qui a Monaco?-

-Ah, beh …-

Oddio, che gli dico?! Beh, la verità, ovvio.

-Diciamo che sto uscendo da una situazione spiacevole, avevo bisogno … di cambiare.-

Adina, fortunatamente, non mi chiese altro, anche perché gli altri ragazzi ci coinvolsero nella loro conversazione, era strano non sentirli parlare di calcio, ma in fondo mica erano così malati di sport!  Insomma, anche Kojiro, Ken e Takeshi, le rare volte che riuscivamo a vederci, non parlavano solo dei loro successi sportivi!

-Se conosci Genzo conoscerai anche il resto della Nazionale, giusto?-

-Beh, si, un pochino li conosco.-

-Potremmo farci dire qualche segreto per poterli battere ai prossimi mondiali.-

-Non credo che Genzo permetterà a Maki di dire qualcosa.-

E il portiere portò una sua mano sopra la mia bocca, facendomi ridere con quell’atteggiamento.

Mi divertii in quel modo per tutto il resto della serata, anche perché Wakabayashi, senza che me ne rendessi effettivamente conto, mi rimase sempre vicino, spiegandomi certe volte, all’orecchio, quello di cui parlavano.

È strano quell’uomo: i suoi sbalzi di umore sono imprevedibili, e con lui a volte faccio una fatica pazzesca a parlarci.

Però, quella sera, nonostante il suo modo di fare burbero, mi fece divertire da morire, tenendo sempre il suo braccio sulle mie spalle, a rassicurarmi della sua costante presenza.

 

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Capitolo 5
*** Herkunft ***


IV: Herkunft

(Origini)

 

Scesi giù dalle scale, quella mattina, con un asciugamano sulle spalle e i capelli ancora umidi, notando il quotidiano e una serie di riviste sul mobile vicino all’ingresso; mi sporsi, e subito vidi la mia foto in prima pagina. Oh kami! E questo?!

Eravamo io e il signor Franz, proprio nel momento in cui mi ero voltata verso l’orda di giornalisti.

Ma com’erano conciati i miei capelli!? E aveva ragione Wakabayashi: con quella felpa sembravo veramente un ragazzino.

Sotto delle scritte grandi e strane, e il modo in cui erano scritte me le rese incomprensibili, tanto che mi ci fermai più di cinque minuti per tradurlo.

„Das Geheimnis des Genzo: relative oder Flamme?“

Il … mistero di Genzo: … mi sembri che questo significhi “parente” … o … fiamma?!

A quel punto mi venne da sorridere, sebbene fosse un sorriso amaro: che stupidi questi giornalisti, solo perché ho dei tratti simili a quelli di Wakabayashi pensano che sia una loro parente? Non ha avuto relazioni, in Germania, con orientali?

Quel pensiero portò a perdere l’interesse nel titolo: che tipo di donna piace a Wakabayashi? Le occidentali? O non fa distinzioni?

-Buongiorno Maki.-

-Ah, ciao Isolde. Hai visto?-

La governante mi si avvicinò mentre gli mostravo la fotografia e la scritta, ma lei, al contrario di me, fece una faccia contrariata, e ritornò nel suo mondo (la cucina) borbottando in tedesco mentre io, incuriosita, presi anche il resto dei giornali, portandoli in cucina e mettendoli non molto distanti dalla marmellata di pesche che Isolde aveva tirato fuori.

Aprii la rivista, cercando l’articolo che parlava di “me”, e lo trovai quasi alle prime pagine, riconoscendo quella testata come una di gossip, tipo la “Bubka” che ogni tanto mia cugina comprava, per poi nasconderla alla vista della zia dentro l’armadio a muro, dove mettevamo i futon.

“Ieri, al campo d’allenamento della Bayern Monaco, i nostri occhi (ma perché usano sempre il plurale? Manie di ego?) hanno trovato il presidente onorario della squadra di calcio, Franz Anton Beckenbauer  (che buffo, ho conosciuto un grande nome del calcio! Kojiro schiatterebbe d’invidia!) sugli spalti, ad osservare la squadra più forte della Germania allenarsi (quello che scrive deve esserne un grande tifoso) e, cosa più importante, a intavolare una piacevole conversazione (e se fosse stata spiacevole? Per caso ci ha sentiti? Tzé) con una sconosciuta di evidenti origini orientali, probabilmente cinese (TI SEMBRO CINESE? IGNORANTE COME UNA CAPRA!!).

Tale sconosciuta, da alcune fonti (mi piacerebbe sapere chi ha fatto la spia!), sembra essere una “conoscente” di Genzo Wakabayashi (Sembra? E perché quelle virgolette? Che cazzo, anche l’ironia della carta stampata!), noto per aver avuto “conoscenti” famose, e non, durante la sua carriera calcistica nell’Amburgo; e sembra che voglia mantenere intatta la sua fama anche qui a Monaco.”

A questo punto ero seriamente intenzionata a smettere di leggere quelle assurdità, anche perché l’ultima parte non mi era piaciuta molto, sebbene non dovessi sorprendermi più di tanto.

Tuttavia i miei occhi continuarono a scorrere sulle parole, oramai avevo preso il ritmo giusto di traduzione e, pertanto, non riuscivo a smettere.

 “Tuttavia, rispetto al suo atteggiamento nell’Amburgo, che tutti sappiamo a cosa ha portato (E questo? Che significa? A cosa ha portato?), sembra che l’SGGK della Nazionale Giapponese voglia fare le cose in grande, visto e considerato che questa è una delle rare volte in cui una delle sue fiamme si presenta addirittura ai suoi allenamenti.”

Ma come? Un minuto prima ero solo una sua conoscente (e non era neanche tanto “sicuro”), e un minuto dopo ero considerata la sua nuova fiamma?! Oltretutto, cos’era successo nell’Amburgo da spingerlo a firmare il contratto con il Bayern? C’erano stati problemi? Perché non ne ero a conoscenza?

Alzai lo sguardo e cercai Isolde, la donna in quel momento mi stava offrendo una tazza di latte bollente e una fetta di torta ai pinoli; mi sorrise come al solito, ma quando riconobbe la rivista che avevo tra le mani sforzò l’espressione, tornando verso i fornelli e parlandomi con tono severo.

-Non dovresti leggere quella roba: non dice niente di buono che ti possa aiutare a familiarizzare con la Germania, solo a spingerti a scapparne.-

Sorrisi intenerita dalle parole della donna, e per suo rispetto richiusi la rivista e cominciai a sorseggiare il latte. Però non avevo dimenticato la domanda che le volevo porre.

-Senti, Isolde … per caso sai perché Wa (aaah! Maki il nome, il nome!) … Genzo ha lasciato l’Amburgo?-

-Il padroncino non parla mai del suo lavoro con me, sa bene che non lo comprendo molto …-

Come temevo.

-… però so che ha avuto dei problemi con il suo allenatore, che l’hanno spinto a lasciare la squadra.-

Con l’allenatore? Guardai insistentemente Isolde, e questa alla fine si arrese al mio dolce e supplichevole sguardo (… beh, più o meno).

-Qualche giorno prima dell’arrivo del padroncino qui a Monaco, ho ricevuto una sua telefonata nel quale mi avvertiva del suo arrivo; gli ho chiesto quanto tempo rimaneva, e quando mi ha detto che si sarebbe trasferito qui … ho avuto l’impressione … che non fosse soddisfatto della sua scelta.-

Non sapevo da quanto tempo quella vecchia donna vivesse in quella casa e si occupasse di Wakabyashi, ma di certo era molto più tempo di me, e quando mi disse quelle parole ci credetti dall’inizio alla fine. Bevvi ancora un sorso di latte, indecisa se chiederle qualcosa in più, magari riguardante il soggiorno di Genzo prima del mio arrivo, quando lei stessa riprese la parola.

-In ogni caso, da quando tu sei qui, il padroncino sembra più rilassato e sereno: ogni volta che veniva in questa casa aveva un muso da qui a lì, e tendeva ad essere molto silenzioso. Anche perché, le poche volte che veniva, era per qualche avvenimento in famiglia.-

Ah, giusto, la famiglia di Wakabayashi. Mi ero sempre chiesta chi fossero e che rapporto ci fosse tra di loro, conoscendo il carattere del loro figlio, e quella si presentava un’ottima occasione per sapere qualcosa di più.

-Tu hai … hai sempre lavorato nella famiglia Wakabayashi?-

-Oh, certo: sono stata la cameriera della signora, poi la balia dei due fratelli maggiori del padroncino per molto tempo, e poi mi sono dedicata alla cura di questa casa.-

Così aveva due fratelli maggiori! Non me lo aspettavo, ha un carattere così presuntuoso e tendenzialmente egocentrico (no, non tendenzialmente) che non mi sarei sorpresa se fosse stato figlio unico.

-E i fratelli? Com’erano?-

-Di sicuro molto più socievoli di lui! Soprattutto Akio, ha sempre avuto un carattere così allegro quel ragazzo. Ichirou, invece, era il più tranquillo, forse perché era il maggiore.-

In effetti il suo nome veniva usato spesso, una volta, per indicare il primo figlio, un po’ come Jiro per il secondo o Hachiro per l’ottavo. Quelle piccole informazioni stimolarono ancora di più la mia curiosità, volevo sapere tutto il possibile adesso!

-E assomigliano a … a Genzo, fisicamente?-

-Hanno tutti capelli neri e occhi neri, e solo Akio ha qualche tratto di sua madre, ma soprattutto Genzo è il ritratto del padre! Ora più che mai, quando sono sovrappensiero, mi capita che i miei occhi lo scambino con il padrone.-

Addirittura il padrone! Beh, in fondo Wakabayashi era il “padroncino”.

-E la madre? Com’è la signora Wakabayashi?-

A quella domanda, finalmente, Isolde si voltò verso di me, e aveva in faccia un’espressione così rapita da lasciarmi senza parole.

-È la donna più elegante che si è mai vista: questa casa, quando vi abitava, era solita riempirsi della buona società tedesca ed europea; abiti eleganti, musica, chiacchiere basse, spumante …-

E più raccontava, più rimanevo affascinata: io cose del genere le avevo lette sempre solo nelle favole, o guardate in quei tremendi drama che mia cugina era solita costringermi a vedere la sera, dopo che avevamo finito di lavorare. Ma sentire qualcuno che ci era stato, credetemi, è tutta un’altra cosa; soprattutto se la persona in questione, poi, era anche una governante.

-Non ti dico! Eravamo sempre in movimento, da una parte all’altra della stanza! Dovevamo tenere d’occhio che i bicchieri fossero pieni, portare via i vassoi vuoti, fare in modo che non ci fosse neanche una macchia sui divani o i tappeti. E quando se ne andavano, non ti dico la confusione che lasciavano! Sarà stata anche la buona società, ma senza di noi era la società dei disordinati!-

Mi venne da ridere, e nel frattempo mi preparai pane e marmellata, addentandola con gusto mentre la donna si avvicinava, sedendosi di fronte a me, mentre io le parlavo ingoiando il boccone.

-E la madre di Genzo era disordinata?-

-La padrona? Uff, altroché! Era una signorina di buona famiglia, non aveva certo bisogno di tenere in ordine come fai tu.-

Mi era sempre stato insegnato ad avere rispetto delle mie cose e dei miei oggetti, soprattutto perché, nonostante fossimo una famiglia importante, non avevamo stuoli di camerieri come nelle case europee, anche se questa mia visione possa sembrare che riguardi l’ottocento vittoriano.

-Eppure non mi dispiaceva metterle in ordine la stanza … quando lo facevo, infatti, era solita restare fermare sull’uscio della stanza, e chiacchierarmi tranquillamente. Ricordo che al suo matrimonio chiese anche la mia presenza.-

Accidenti, che bello!

-Da quanto tempo lavori per la famiglia Wakabayashi?-

-Ho cominciato a lavorare per la signora quando avevo ventuno anni e lei sedici, e da allora sono sempre stata con lei, e quindi con i suoi figli.-

-E il signor Wakabayashi? Com’è?-

In quel momento suonò il campanello, rovinando il momento magico: aaah, maledizione, volevo sapere qualcosa di più! Ancora molto di più!

Invece vidi la governante allontanarsi, e io mi limitai a finire la mia fetta con la marmellata, bevendo il latte e masticando a lungo, ripensando alle parole di Isolde e facendo un rapido calcolo.

… ok, in matematica sono uno schifo, però ci provai: allora, Isolde e la signora Wakabayashi hanno cinque anni di differenza, e Wakabayashi mi aveva detto che la governante ha 61 anni. Questo significava che la signora Wakabayashi aveva … contai con l’ausilio delle dita, e arrivai a quota 56; e contando che Wakabayashi ha trent’anni, lei lo aveva avuto a 26 anni. E gli altri figli? Chissà quant’era la differenza di età tra i tre!

-Maki, c’è un pacco per te!-

… cosa?

Mi alzai dalla cucina e raggiunsi Isolde all’ingresso, notando subito l’enorme scatolone che occupava quasi tutto l’ingresso, e mi ci avvicinai colpita, la donna si voltò porgendomi una busta con, sopra, i classici segni laterali rossi e blu della posta internazionale.

Casa, era sicuramente un messaggio da casa.

Non avevo mai pensato che, nonostante me ne fossi andata, avrei comunque ricevuto posta da loro, e sulle prime mi sentii nervosa, afferrando la busta con le mani sudate; la guardai e ripensai ai volti di mia nonna, dei miei genitori, di mia cugina e di Jin, perfino della zia. E, inizialmente, non volli aprirla.

-Spostiamo la scatola in salotto.-

La spingemmo, dato che era troppo pesante per sollevarla, e a darci una mano arrivò persino Fredrich; il pavimento non subì danni, e arrivò in salotto sana e salva, ma lasciando me senza fiato, tanto da farmi sedere su un bracciolo del divano mentre l’uomo tornava alle sue faccende e Isolde aspettava, paziente, che quanto meno aprissi quella busta.

Ma più la guardavo, più mi sentivo assalire dall’ansia: che cosa ci sarebbe scritto dentro? Pensai al peggio, ma subito mi resi conto che era una scemenza, che loro stessi mi avevano dato il permesso e che erano stati contenti della mia scelta. E se avessero cambiato idea? Si, era impossibile, però...

Oh basta! Continuare a pensarci non sarebbe servito a niente, dovevo aprire e vedere con i miei stessi occhi; afferrai la busta e rischiai quasi di strapparla per la foga, tirandone fuori la carta leggera, giallognola, che emanava un profumo di fiori che mi ricordava tanto le mani di mia nonna, e la aprii lentamente, sentendola scricchiolare.

La calligrafia di mia nonna era sempre stata leggera ma decisa: aveva studiato calligrafia, e pertanto il modo in cui era scritto era perfetto. Ma quando lessi già le prime parole, mi sentii assalire dalla commozione, e respirai a fondo per non mettermi a piangere.

“Tesoro mio, sono sicura che tu sei felice, e che combatti per la tua felicità. Noi stiamo bene, la vita nel ryokan prosegue normalmente, ma sappi che sei sempre nei miei pensieri e in quelli di tutte le persone che ti vogliono bene.

Mi sono permessa di mandarti delle cose che ti appartengono e che è giusto che rimangano a te: perché non devi mai dimenticare le tue radici, perché sono queste che ti faranno crescere forte, proprio come un magnifico albero.

E soprattutto non devi mai dimenticare chi sei, quello che è stato il tuo passato, nel bene e nel male: con il passato noi creiamo il presente, e sogniamo il futuro.

Ti voglio bene.

Al mio raggio di sole.”

… mia nonna concludeva sempre in questo modo messaggi, lettere e persino telefonate che mi rivolgeva: mi diceva sempre “al mio raggio di sole”. E anche se, ogni volta, io finivo per imbarazzarmi e arrossire, oltre alle guance rosse, questa volta, mi scesero perfino le lacrime; perché sapevo che, per molto tempo, io non sarei riuscita a tornare a casa.

Me le asciugai con la manica della maglia, tirando su col naso, fino a riuscire a calmarmi mentre adesso, l’ostacolo più grande, era proprio la scatola. Cosa ci avrei trovato dentro? Avevo la sensazione di saperlo, e per questo, anche questa volta, ci misi un po’ a muovermi dal bracciolo, posando la lettera sul tavolino lì vicino e toccando, la punta delle dita, lo scotch che chiudeva la scatola.

Avevo bisogno di un coltello. O un taglierino. O un paio di forbici.

-Tieni, ti serviranno queste.-

Mi voltai, e con sorpresa vidi che Isolde mi passava proprio il paio di forbici a cui stavo pensando. Quando era andata a prenderlo? Lei sorrideva, ma io aveva la testa vuota in quel momento, e non seppi bene cosa fare per i primi minuti, fissando la scatola e tenendo in mano le forbici con la punta rivolta verso l’alto.

-… vuoi aspettare ad aprirlo?-

Potevo farlo? La guardai, e lei continuava a sorridermi, come se non avesse bisogno di chiedermi perché ero così indecisa. Ma io stessa mi sentii in dovere di dirgli il perché: dopotutto mi aveva anche aiutato a trascinare quel pesante coso dentro il salotto, e ora non volevo nemmeno aprirlo!

-È che … so quello che c’è dentro.-

I miei kimono sicuramente. E tra questi, anche il mio Furisode; l’avevo lasciato ad Okinawa perché non credevo di averne più bisogno, perché credevo che fosse giusto non portarlo con me, perché significava una parte di vita che, oramai, avevo lasciato dietro di me. Invece, quasi come un essere dotato di vita propria, mi aveva seguito anche in Germania.

-E … ha con se dei ricordi … che non volevo portarmi dietro.-

Kojiro. Ogni cosa contenuta in quella scatola, nel bene e nel male, mi avrebbe riportato in mente Kojiro; già facevo una fatica incredibile a non soffermarmi più di una volta al giorno a ripensare a lui, e ora quegl’oggetti non avrebbero fatto altro che rimarcarmi la sua assenza e il perché era assente, il perché ero lì e soprattutto con CHI ero lì adesso.

E mi sarebbe salito il senso di colpa, quella stessa emozione che mi aveva impedito di parlare subito a Wakabayashi al ryokan, rischiando di farlo partire senza dirgli niente; quella sensazione che ancora adesso mi impediva di baciarlo più profondamente, o di dormire con lui nella stessa camera.

Non ce la facevo. E non riuscivo ad aprire lo scatolone.

Abbassai le forbici, e mi rimisi seduta sul bracciolo della poltrona.

-Ho paura.-

Sentii la mano di Isolde nei miei capelli, e mi voltai verso di lei, guardando quel sorriso affettuoso che mi aveva accolto i primi giorni, in quel posto estraneo e dal clima freddo.

Mi sentii una vigliacca, che si stava aggrappando in tutti i modi ad ogni scusa possibile per non andare avanti; ma io stessa non volevo rimanere rinchiusa in quella casa, senza fare niente.

La carezza della donna mi provocò un moto di fastidio nei miei stessi confronti, e la scostai arrabbiata, afferrando le forbici e guardando la scatola: no Maki, hai deciso che avresti cambiato la tua vita, hai seguito Wakabayashi perché sai bene che non puoi rinchiuderti in te stessa, non sarebbe giusto nei confronti di Kojiro, lui voleva che tu continuassi a vivere.

Ma più pensavo a queste cose, più la mia mano si faceva debole, e più quella scatola diventava insormontabile, come un pesante masso di roccia che cresceva sempre di più, e le mie braccia non erano in grado di spostarlo o romperlo.

Per la seconda volta, Isolde si avvicinò a me, e mi tolse gentilmente le forbici di mano.

-Le prendo io, potresti combinare qualche guaio e rovinare la scatola.-

Feci di sicuro una smorfia, che nella mia testa era il comando a sorridere, e mi limitai a stringere le mani tra loro, restando appoggiata a quel bracciolo, a fissare quello scatolone. Non potevamo neanche spostarlo da salotto, c’era bisogno di un altro paio di braccia oltre a quelle di Friedrich; a quel pensiero mi allarmai leggermente, perché Wakabayashi avrebbe domandato di quella scatola, e di certo non potevo mentirgli.

Io sapevo che una nostra barriera era Kojiro: mi veniva spesso di pensare a lui, al fatto che, forse, se fosse stato ancora vivo, probabilmente ci saremmo trasferiti in Italia, avremmo cercato una cura o comunque dei farmaci che mi avessero permesso di stare meglio e di avere, finalmente, un bambino tutto nostro. E Wakabayashi conosceva questi miei pensieri, o quanto meno li intuiva.

Non ci voleva.

Volevo un mondo di bene a mia nonna, ma quel pacco proprio non ci voleva; o almeno, in quel momento non lo volevo io. E tanto ero convinta di questo che per tutto il giorno volli starne alla larga, evitando accuratamente di entrare in salotto, già con addosso l’angoscia che avrei dovuto attendere fino a quella sera per sbarazzarmene.

Invece, con mia enorme sorpresa, sentii Wakabayashi tornare a casa per pranzo.

-Ehilà.-

-Che ci fai tu qui?-

-… beh, fino a prova contraria, questa è casa mia.-

-Intendo dire, che ci fai a quest’ora?-

-Gli allenamenti sono finiti prima perché domani abbiamo una partita, e l’allenatore vuole che siamo riposati.-

Rimasi indecisa sull’entrata, quasi tenendolo fermo con il mio corpo, e questo non passò certo inosservato, tanto che mi lanciò un’occhiata dubbiosa.

-Qualcosa non va?-

-Ecco …-

Fece un passo in avanti, per spingermi sia a parlare che a farmi da parte, e io riuscii solo a scostarmi, guidandolo lentamente verso il salotto, restando sull’uscio e indicandogli, con un cenno della testa, la grossa scatola proprio al centro della sala.

-… è per me?-

-No, è mia. Viene da casa.-

-Ah! E come mai è ancora chiusa?-

Gli si avvicinò con aria tranquilla, e io sulle prime rimasi sorpresa da quell’atteggiamento, io a malapena restavo sulla soglia della sala; lui toccò la scatola e la studiò, prima di voltarsi verso di me con aria incuriosita.

-Allora? Perché è chiusa?-

Quanto gli dovevo dire? E quanto potevo dirgli senza farlo arrabbiare troppo?

Lo guardai indecisa, torturandomi le mani, e gli ripetei meccanica le stesse cose che avevo detto ad Isolde.

-È che … so quello che c’è dentro, e con questi ci sono ricordi … che non volevo portarmi dietro.-

Lui si limitò ad annuirmi, e io a disagio mi passai una mano tra i capelli, scostando lo sguardo verso il pavimento.

-Per me e Isolde è troppo pesante, volevamo che tu e Friedrich la portaste in camera mia.-

-… certo, non c’è problema. Vado a chiamarlo.-

Lo ammetto: mi aspettavo che quanto meno si adombrasse, che mi dicesse di no nel portare la scatola. Invece la scena si svolse nella più assoluta tranquillità, e i due uomini salirono le scale trasportando lo scatolone (Wakabayashi che faceva l’omino di casa! Ma perché non avevo una macchina fotografica?!), dicendosi in che modo muoversi a vicenda.

L’unica sulle spine ero solo io: da una parte non volevo che rovinassero persino la scatola, ma dall’altro avrei desiderato che, al piano di sopra, la buttassero fuori dalla finestra; invece mi limitai ad aprire loro la porta della mia camera, dicendogli di appoggiare pure accanto a letto l’ingombro, ringraziando Friedrich e lasciandolo andare mentre io mi sedevo sul letto, guardando di volta in volta Wakabayashi o la scatola.

Lui rimase fermo in piedi, accanto al letto, e solo dopo qualche minuto (e un profondo e paziente respiro, o povero il grande saggio!) si accomodò accanto a me.

-Allora … per quanto tempo la lascerai così?-

-… non lo so. È che … non mi sento pronta in questo momento.-

-Ancora troppi ricordi?-

Guardai la forma dell’oggetto davanti a noi, ma in realtà la mia testa stava pensando ad altro: alla notte dello stupro. E parlai a voce molto bassa.

-Tu lo sai che sono stata stuprata.-

Lui annuii, ma rimase in silenzio, e io presi un profondo respiro.

-Quando mi sono risvegliai, il giorno dopo, ho subito pensato a quanto mi avesse fatto male, a come mi avevano aggredito e fatto del male; e pensai che, invece, volevo che Kojiro mi abbracciasse, mi accarezzasse, mi facesse sentire ancora amata.

Poi ricordai, e … il resto lo sai.-

Annuii nuovamente, e io gli cercai la mano, stringendogliela e sentendola debole tra le mie dita; gl’indicai nuovamente la scatola con la testa, e parlai ancora a voce bassa.

-Quella scatola mi ricorda quel giorno, quando mi svegliai dallo stupro: mi fa subito pensare a ricordi dolorosi e spiacevoli, e istintivamente cerco mio marito con il pensiero, perché ho la certezza che lui mi farà sentire meglio.

Ma non c’è lui qui. Ci sei tu.-

A quel punto lo sentì stringermi le dita con dolcezza, e io appoggiai la testa sulla sua spalla, parlandogli adesso con un filo di voce, il cuore aveva preso a battermi l’impazzata, solo il pensiero di fargli quella domanda m’imbarazzava.

E dovevo fargli quella domanda chiamandolo per nome; non potevo più insistere con il cognome, perché adesso era una delle persone più importanti per me.

-Genzo, mi ami?-

Lo sentii irrigidirsi, e poi il respiro me lo passò attraverso il contatto del mio orecchio sulla sua spalla.

-Si.-

Respirai anch’io, sollevata, e continuai a stringergli la mani, adesso era quasi una gara a chi aveva la presa più forte tra i due; scostai la testa, e lo guardai dritto negl’occhi.

-Allora aiutami. Ho bisogno di te. Voglio avere a te al mio fianco.-

Perché, quando quel giorno, portandolo alla tomba di mio marito, sono riuscita a parlargli a cuore aperto, piangendo e mostrando, per la prima volta dopo un anno di resistenza, la mia sofferenza, ricominciando a respirare e vivere; e sempre in quel luogo, Genzo si era confessato a me con una tale umiltà da farmi comprendere quanto davvero ci tenesse a me.

E, al tempo stesso, perché con il suo carattere, e i suoi modi di fare rudi e presuntuosi, mi aveva spinto ad affrontarlo e combatterlo, restituendomi la voglia di fare e di provare a mettermi in gioco di fronte alla vita.

Ma soprattutto perché …

-Io voglio amarti, Genzo, e vivere con te.-

E vidi la sua sorpresa, scatenandomi un sorriso: in effetti, dopo quel giorno al mare, vicino al mio ryokan, non gli avevo più detto simili parole. Dovevo averlo lasciato spiazzato, e volli approfittarne di quel momento, sporgendomi verso di lui e baciandogli dolcemente le labbra, osando sfiorargli la guancia con la punta delle dita.

Qualche momento dopo, lui prese la mia mano e la strinse sul mio petto, liberando l’altra per stringermi, sempre con la sua solita lenta ma appassionata dolcezza. E questa volta lo lasciai fare: quando mosse le labbra, io seguii il suo movimento, e quando la punta della sua lingua osò accarezzare la mia bocca, io la schiusi, permettendogli di approfondire il contatto.

Fu come se fossi stata baciata per la prima volta: non pensai a mio marito, ma solo alla passione che l’uomo stava frenando quasi con ansia, per non spaventarmi, e che mi stava donando a piccoli sorsi. Ma più mi abbeveravo a quella fonte, più mi facevo assetata, al punto che non volevo più smettere di baciarlo.

Non ricordo più perché, alla fine, ci separammo; ma quando accadde, e i nostri sguardi s’incrociarono, lo vidi emozionato quanto me, e intenerita lo abbracciai forte, ricambiata con altrettanta energia.

E la scatola, a quel punto, non mi fece più paura, ma rimase ancora chiusa, come ad aspettare, paziente, il giorno in cui l’avrei aperta.

 

**

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Capitolo 6
*** Fahrrad ***


V: Fahrrad

(Bicicletta)

 

All’inizio di quel pomeriggio uscii dal portone della casa, infilandomi la mia felpa preferita (quella che rubai tempo prima a Kojiro, blu con il cappuccio), e quando scesi le scale sentii immediatamente il freddo sulla faccia, tanto che il primo istinto fu di tornare dentro: se c’è una stagione che non sopporto è l’inverno, detesto il freddo.

Ma quel giorno ero uscita per “scrostarmi la muffa dalla schiena”, per tanto mi strinsi ulteriormente nella grossa felpa, guardandomi intorno.

Non ci ero mai stata attenta al giardino: la strada era lastricata, e una piccola via entrava nel prato portando verso il retro della villa, affiancata da qualche albero.

Uno in particolare attirò la mia attenzione, non solo per la sua altezza, ma soprattutto perché c’era un’altalena lì appesa.

Di sicuro stava là da prima della guerra: la corda era sfilacciata in più punti, e il legno dava l’idea di essere marcio. Però avevo tanta voglia di provarla! Era uno di quei giochi che, fin da piccola, mi faceva impazzire, tanto che diventavo quasi prepotente quando ci salivo (quasi … va bene, lo diventavo, lo diventavo …).

Mi avvicinai, e cautamente ci posai sopra le mani, facendo pressione: stranamente, nonostante aumentavo costante la spinta, il legno non cedette, e incoraggiata provai a sedere, stando molto attenta; sentii il legno scricchiolare, e per un attimo mi preparai alla caduta.

Invece, inaspettatamente, l’altalena reggeva. Che bello! Provai a muovermi, e le corde gemettero: avevano l’aria di non essere state usate da anni, le funi sembravano sempre sul punto di rompersi; ma non me ne fregava niente, mano a mano che dondolavo dimenticavo quanto fosse vecchia l’altalena, e pretendevo sempre di più, arrivando a non toccare più il terreno con i piedi.

Guardai sopra di me, e rimasi senza parole: il cielo era incredibilmente terso, ed era così immenso che, per qualche attimo, mi sentii smarrita, e persi il respiro mentre l’altalena mi riportava nuovamente verso terra, prima di ributtarmi verso l’alto.

Sentii il freddo arrivarmi addosso, rispetto ad Okinawa lì l’inverno era gelido, e infilai il mento e parte della faccia dentro il collo della felpa, sentendo ancora l’odore del detersivo che la signora Hyuga aveva usato per lavare l’indumento, prima che lo portassi via con me. Era la prima volta che la indossavo da quando ero arrivata.

Quella era una delle felpe preferite da Kojiro, si capiva perché il tessuto era rovinato sul collo e le maniche; dato che era una delle più pesanti, spesso gliela prendevo di nascosto, e da una parte questo lo divertiva, tanto che mi dava sempre della “freddolona”, dall’altro restituirgliela diventava una scusa per qualcosa di più “intimo”.

A quel ricordo mi tornò in mente la sera precedente, quando avevo baciato Wakabayashi, e inchiodai l’altalena con i piedi, portandomi lentamente una mano verso la bocca, notando però qualcosa sulle dita: erano nere, letteralmente. Mi alzai in piedi, e voltandomi mi resi conto che il legno non era marcio, ma tremendamente sporco. Oh cavolo, i miei jeans!

Tentai di pulirmi le mani, e fortunatamente lo sporco era abbastanza secco, quindi anche con i pantaloni me la cavai, allontanandomi a malincuore dall’altalena; ci sarei tornata per risistemarla, e poi nessuno sarebbe più riuscito a staccarmi da lì.

Ripresi il lastricato in mezzo all’erba, e presto spuntarono davanti ai miei occhi delle siepi di rose, accompagnate da altri alberi che non conoscevo; nel retro della villa lo spazio era immenso, c’era perfino un gazebo tra gli alberi, avvolto da un rampicante spoglio e un po’ lugubre a mio parere, sembra la mano di qualche strega che lo arpionava.

Il luogo era così vasto che sicuramente ci si potevano organizzare delle feste, ricordando le parole di Isolde a proposito della madre di Wakabayashi.

Per la seconda volta mi tornò in mente la sera precedente, e di nuovo mi sentii impreparata a quel pensiero: gli avevo rivolto delle parole così intense, e neanche me n’ero resa conto. E poi quel bacio … accidenti, ora le cose si sarebbero evolute ulteriormente e io … io non mi sentivo per niente pronta ad affrontare il passo successivo.

Mi allontanai, seguendo per la terza volta il lastricato, e questa volta mi trovai di fronte la macchina della famiglia, almeno così avevo capito dato che Wakabayashi ne aveva una per i fatti suoi; Freidrich se ne stava prendendo cura in quel momento, lavandola con un tubo di gomma, ma quello che mi colpii fu che vicino alla macchina, appoggiata al muro, c’era una vecchia bicicletta.

Era blu, con il fanale e il campanello, tenuta bene, e pensai che fosse dell’uomo.

-Freidrich ist dieses Fahrrad dein?- (è tua questa bicicletta?)

-Nein, es ist der Herren Wakabayashi.- (no, è dei signori Wakabayashi)

Per un attimo pensai a Genzo sopra la bici, e poco ci mancò che scoppiassi a ridere in faccia a Freidrich, che immagine assurda!

Invece mi avvicinai al mezzo, e tenendolo per il manubrio e il sellino cominciai a spingerla, impaziente di provare a salirci sopra. Freidrich sembrò intuire le mie intenzioni, perché mi abbassò il sellino; feci un giro di prova, seguendo il lastricato del giardino, e poi guardai verso il cancello, intenzionata ad uscire.

Ma appena lo pensai mi resi conto che non era una buona idea: la mia faccia era sulle riviste, e sicuramente i giornalisti si sarebbero fatti vedere in zona; tuttavia Genzo mi aveva assicurato che c’era un ordine restrittivo, e che almeno per dieci metri non ci doveva essere nessuno.

Che fare? Rischiare o restare dentro il giardino? In fondo c’era sempre l’altalena.

Eh no, che cavolo! Mica potevo restare segregata lì!

-Ich gehe raus!- (io esco fuori!)

Lo dissi ad alta voce, in modo che Friedrich mi sentisse (e imbarazzandomi, temevo di non averlo detto bene); mi avvicinai con la bici al cancello, aprendolo quel tanto che mi bastò per passare con il mezzo. Per sicurezza, mi misi sulla testa il cappuccio della felpa, e appena ebbi la certezza che non c’era nessuno nei paraggi, partii di corsa in bici.

E vi giuro, è stato fantastico!

Ero fuori da quelle mura, su una strada aperta che mi portava chissà dove; certo faceva freddo, ma ero troppo contenta e non smisi di pedalare, tanto che la velocità mi abbassò il cappuccio, e sentii chiaramente il vento arrivarmi sul collo, facendomi rabbrividire.

Quando raggiunsi una velocità sostenuta smisi di pedalare, e lentamente staccai le mani dal manubrio.

All’inizio, dopo pochi secondi, mi ci attaccai spasmodicamente, ridacchiando e pedalando energicamente per riacquistare velocità; dai Maki, ce la puoi fare!

Presi un profondo respiro e, alla fine, lasciai andare le mani, tenendo le braccia tese in orizzontale, e smettendo di pedalare: per dieci secondi mi sentii padrona del vento, e alzai lo sguardo verso il cielo, pensando a quanto mi stavo sentendo viva, a come tutto era diverso rispetto a quando stavo nel ryokan.

Un leggero vibrare della bicicletta mi fece acchiappare e stringere con forza il manubrio, temendo di cadere, e mi resi conto che, in quegl’attimi, avevo trattenuto il fiato.

La bici, nel frattempo, mi stava portando verso il centro della città, e senza rendermene conto mi trovai nel traffico di Monaco, cercando di riconoscere nelle indicazioni stradali le piste ciclabili, terrorizzata all’idea di trovarmi schiacciata da un autobus tedesco.

Non voglio certo finire in questo modo i miei giorni! Non senza aver prima capito con che razza di uomo sto vivendo!

Alla fine riuscii a salire lungo la pista ciclabile, ma pian piano persi interesse su dove stavano andando le mie ruote, guardandomi intorno e constatando dove mi aveva portata la mia fuga.

Il libro di favole, che sfogliavo da piccola, era vecchio e con le pagine ingiallite, ma ricordo chiaramente che le favole occidentali che conteneva erano sempre accompagnate da illustrazioni eleganti, stampate ma fatte in originale con l’acquarello; e lì i castelli spiccavano alti, con merlature e graziose guglie, che venivano sempre incorniciate da cieli mozzafiato o nuvole arricciate.

Ebbene, mentre mi muovevo verso le strade più piccole di Monaco, perdendomi, mi parve di essere finita proprio dentro quelle immagini, persino la gente che mi passava accanto aveva qualcosa che mi faceva pensare, in alcuni momenti, che non fossero reali.

Rallentai, fermai e scesi dalla bici, proseguendo la camminata e guardandomi attorno, sentendomi sempre di più sperduta in una favola di Handersen, o dei fratelli Grimm. E io chi ero?

Di sicuro non la Bella Addormentata, certe volte dormo addirittura troppo poco per mia madre.

Cenerentola? Beh è la mia favola preferita, e per un po’ lo sono stata; ma ora era tutto diverso, adesso questa Cenerentola (o meglio Aschenputtel, come la chiamano da queste parti) viveva in una splendida casa. No, decisamente no …

Biancaneve? Ma figurati! e dove sono finiti i sette nani? E la matrigna?

La Bella e la Bestia? Beh, considerando qual’era il padrone di casa, c’ero molto vicina. A quell’idea sorrisi, e mi fermai in una piazza, notando divertita una bambina che dava da mangiare ai piccioni, alcuni di questi le arrivavano persino sul braccio, per nulla intimoriti.

Guardai la piccola intenerita, aveva un cappotto rosa, delizioso per quel piccolo visino, aveva le guance e il nasino arrossato per il freddo; ad un tratto vidi la madre avvicinarsi, inginocchiandosi accanto a lei mentre il padre si metteva davanti a loro, per farle una foto.

Strinsi il manubrio della mia bicicletta, la mia tenerezza fu subito seguita, accompagnata e sommersa dalla mestizia: avevo sempre desiderato un maschio, e Kojiro lo voleva tanto quanto me, ma mi confessò che se fosse stata femmina lui sarebbe stato comunque felice, anzi l’avrebbe viziata, proprio come aveva sempre voluto fare con sua sorella.

Avere un figlio con lui era solo questione di tempo, una cosa assolutamente naturale, come la nostra convivenza e il nostro matrimonio.

Non sono mai stata una persona che si lamenta, non sopporto piangermi addosso in quanto so che è inutile; ma in quel momento pensai … perché mi era successo tutto questo?

Ho sempre saputo cosa volevo e cosa potevo avere dalla mia vita; e nonostante il softball non potesse esserne più una componente fondamentale, avevo ancora Kojiro, e la certezza che la mia vita sarebbe proseguita insieme a lui, a prescindere dai miei problemi di salute e familiari.

Invece … non avevo più nemmeno questo.

Anzi, adesso ero in un’altra città, di un’altra Nazione, di un’altre parte del Mondo, con un altro uomo a cominciare un’altra vita.

“Chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa cosa perde … ma non sa cosa trova.”

E per il momento non avevo trovato tantissimo: avevo l’amore di Wakabayashi, questo si. Ma io sarei riuscita ad amarlo allo stesso modo? E soprattutto sarei riuscita a non essergli più di peso?

Perché in fondo questo ero: un’inquilina della sua villa, che si grattava la pancia dalla mattina alla sera, cosa che non sopportavo più. Ero una “sofferente” vedova (e mi riferisco alle mie condizioni fisiche), ma ero ancora in vita, con molti anni a venire; dovevo ricominciare a darmi seriamente da fare.

Con quella nuova spinta mi rimisi in movimento, sempre al fianco della bici, guardando intorno a me i palazzi, le stradine, la gente, i colori, il movimento, e poi le vetrine: un negozio di giocattoli, libreria, vestiti, bar … aspetta un momento.

“Kellnerin Gesucht”

Cameriera … cercasi.

Era un semplice foglio di carta, con la scritta stampata, ma rimasi immobile, con il manubrio della bici fra le mani, e d’istinto strinsi la gomma dell’estremità: era assolutamente non premeditata, neanche veramente sensata, non sapevo neanche dove mi trovavo!

E poi il mio tedesco non era ancora buono, rischiavo di combinare solo danni.

Mi sporsi dall’ingresso, e subito sentii l’odore del caffè; c’erano tre persone dentro, una seduta al tavolo e le altre che chiacchieravano al bancone, e un uomo con barba e baffi bianchi, come i capelli folti, dietro il bancone, probabilmente il proprietario.

No Maki, no! Questo è folle! Queste cose bisogna prima pensarle per bene.

E poi c’è Genzo! e soprattutto la stampa! Assolutamente no!

Mi guardai intorno, notando la gente che andava e veniva.

Non puoi lasciare incustodita la bici! E se qualcuno la ruba? Come torni a casa? Non hai neanche il portafoglio o il cellulare con te!

-Braucht half, fräulein?- (ha bisogno di aiuto, signorina?)

Voltai lo sguardo, e mi ritrovai gli occhi nocciola del barista di prima. Si era sporto dal bar con aria incuriosita, e per i primi secondi mi sentii assalire dall’imbarazzo; tuttavia il mio corpo aveva un meccanismo che, in queste situazioni, si attivava, permettendomi  sempre di rispondere al meglio.

-Suche nach einer Kellnerin? Ich interessiere. Aber wo … mein Fahrrad zu setzen? (Cercate una cameriera? Sono interessata. Ma … dove appoggio la bicicletta?)

Lui mi guardò stupito, per poi ridacchiare divertito. Io a quel punto mi sentii profondamente imbarazzata: Kami, gliel’avevo detto bene? Con il corretto tedesco? E se avesse capito male?

Lui però si appoggiò allo stipite dell’ingresso, continuando a sorridermi divertito ma gentile e parlandomi, scandendo le parole da sotto la folta barba bianchissima.

-Possiamo anche parlarne qui, non c’è problema. Da quanto tempo sei in Germania?-

-Due … tre mesi.-

-Sei una studentessa? Stai studiando all’università?-

-No signore.-

Avevo rinunciato ad andare all’università ancora prima di fidanzarmi ufficialmente con Kojiro: sapevo che la mia testa non mi avrebbe portato lontano, mentre i miei lanci e il mio spirito agonistico si.

-E come mai vuoi lavorare qui? Come vedi è piccolo, e non c’è molto movimento, a parte il pranzo e la sera tardi.-

Dovevo formulare una frase lunga in tedesco, perciò m’impegnai a fondo, sebbene fossi lenta.

-Ho … lavorato per molti anni in … (non sa cos’è un ryokan, un sinonimo, un sinonimo…) una locanda, come cameriera. Non ho lavoro, e questo è abbastanza per me.-

Sapevo che la lingua pesava molto in quei casi, e strinsi i denti infastidita: di sicuro non mi avrebbe dato il lavoro, con quella mia difficoltà.

Mi guardò a lungo, e ricambiai sempre lo sguardo senza timore.

-… facciamo così: domani sei libera?-

-Si signore.-

-Allora vieni verso le nove, e lavora qui in prova: se non sarà troppo difficile, hai il lavoro. Ma credo che andrà tutto bene.-

Quasi non ci credevo! Avevo un lavoro! Ero in prova, certo, ma cavolo, lavoravo!

-Grazie mille signore.-

-Albert, chiamami Albert.-

-Ah, io sono Maki.-

-Molto lieto.-

Gli strinsi la mano cercando, il più possibile, di trattenere un sorriso troppo grande per la mia faccia; quando poi tornò dentro al bar, invece del sorriso soffocai un esclamazione di gioia, ma proprio non riuscii a non fare un salto d’entusiasmo, guardandomi poi intorno imbarazzata.

Ce l’avevo fatta! Visto Kojiro? Non era molto, ma era un inizio; non sapevo dove mi avrebbe portata quell’inizio, ma era sempre meglio che starsene perennemente dentro quella casa nascosta al resto del mondo, no, Kojiro?

Mi guardai intorno, ammirando la piazza e cercandone il nome sui muri dei palazzi, per poi prendere la bicicletta, incamminarmi … e pregare Kami perché mi mandasse un aiuto, un indicazione o qualcos’altro per riuscire a tornare indietro!

C’era riuscito con il bar, questo era una sciocchezzuola, no?

Provai a fare mente locale, a ricordarmi quello che avevo visto prima di entrare nella piazza, e un po’ incerta presi la stradina che mi pareva più familiare, ripercorrendola all’indietro con molta calma, guardandomi perennemente intorno per scorgere ogni minimo dettaglio che la mia testa riusciva a riconoscere.

Il freddo cominciò a salirmi dalle mani nude, arrivandomi alle spalle, e nascosi nuovamente il volto dentro la grossa felpa, coprendomi la testa con il cappuccio.

Con quel passo lento ritrovai la strada principale, e da lì ero certa di essere sempre andata dritta, per cui mi rimisi in sella e ripresi a pedalare mentre la luce del giorno si stava velocemente spegnendo intorno a me, accidenti non mi ero accorta che fosse così tardi, Isolde sarà di certo preoccupata.

E Genzo? Quel giorno aveva la partita. Se fosse tornato prima di me? Oddio, non osavo immaginare quanto fosse incazzato.

Pedalai più velocemente, e arrivai davanti al familiare cancello con il fiatone, tanto che mi dovetti fermare prima di aprirlo; scesi dal sellino e abbassai la testa affaticata, accidenti se avevo pedalato! Non mi ero accorta che la villa era leggermente in salita, e io non c’ero più abituata a quel movimento.

Mentre respiravo sentii la porta principale aprirsi, e pregai che fosse Isolde.

-… ti sembra l’ora?-

No, sfortunatamente non era Isolde.

-Mi dispiace Genzo …-

-Isolde era preoccupatissima, voleva addirittura chiamare la polizia.-

-Beh, me lo hai detto tu che si agita troppo …-

-Peccato che ero d’accordo con lei!-

Mi sorprese più la frase che il volume della sua voce. Certo, mi dava fastidio che alzasse la voce, ma in quel caso ero sinceramente stupita della sua ansia, tanto che alzai lo sguardo: vi giuro solennemente che in faccia, oltre alla solita espressione incazzosa, Genzo Wakabayashi era seriamente angosciato.

Tanto ero meravigliata che non gli riposi, e lui continuò a parlarmi, con il cancello che ci separava.

-Dove sei stata?! Quando sono tornato Isolde mi ha detto che ti ha solamente sentito dire “io esco fuori!” e da allora non ti ha più vista!-

-Ah io … volevo solo fare un giro in bicicletta.-

-E non potevi farlo qui nei dintorni?-

-Non mi sono resa conto di dove andavo.-

Si passò una mano sulla faccia, e poi mi guardò irritato; a quel punto cominciai ad irritarmi anch’io, e le sue successive parole non migliorarono di certo il mio umore.

-Sei un incosciente! Questa non è Okinawa, è Monaco! Non sai cosa puoi trovare, chi puoi incontrare!-

-Lo so benissimo da me, cosa credi?!-

-Ma a quanto pare sembra non interessarti, dato che vai in giro in bicicletta senza neanche il cellulare!-

-Credevo di tornare subito!-

-Sei stata veramente una pazza! Proprio non capisco cosa ti è preso!-

Eh no, gl’insulti di quel tipo non mi andavano proprio giù.

-Volevo uscire un po’ da quella casa prima di fare la muffa! Sono tre mesi che sono qui e non ho visto effettivamente niente!!

Ma a te tanto cosa ti frega?! Tu ci abiti qua! Conosci tutto qua! Sai perfettamente che il mondo è pieno di pericoli, e pertanto io devo rimanere rinchiusa in casa come una brava bambina, no?!-

A quel punto la mia voce era decisamente più alta della sua, e con forza aprii il cancello, entrando dentro con la bici e saettandolo con un’occhiata, sibilando.

-Vai al diavolo Wakabayashi.-

Mi avevo rovinato la giornata. Era andata così bene! Avevo pure voglia di dirgli di quel lavoro, sapere cosa ne pensava; invece quella discussione aveva fatto crollare il mio entusiasmo, e non volli dirgli più niente.

Lui, però, sembrava non intenzionato a cedere.

-Io dovrei andare al diavolo?! Senti un po’, sei tu quella che se n’è andata fuori così all’improvviso.-

-E io ti ho detto che mi dispiace, ma tanto se non m’inginocchio ai tuoi piedi e invoco il tuo perdono non sei contento, no?-

-Adesso stai esagerando, non fare la bambina.-

-Io non devo fare la bambina?! Chi è che ha cominciato questa assurda discussione? Chi è che si è permesso di dirmi che sono pazza, sconsiderata e altro, quando lui è sempre fuori e torna quando cazzo gli pare e piace.-

-Io ho un lavoro …-

-Lo so perfettamente, e t’invidio per questo maledizione!-

A quel punto stavo gridando, ma se non urlavo mi veniva il nodo alla gola, e io odio, odio piangere!

-Credi che mi piaccia stare sempre qua dentro? Ho bisogno di fare qualcosa Genzo!

E oggi qualcosa l’ho fatta finalmente! Ho visto Monaco, e l’ho trovata bellissima! Ho chiesto di essere assunta come cameriera in un piccolo bar in una piazza carina, e mi ha detto che domani sono in prova! In prova, capisci? Ho finalmente la possibilità di darmi da fare anch’io! E volevo sapere che ne pensavi!

Ma tu che fai? Esci di casa e la prima cosa che mi dici è “Ti sembra l’ora?!”.

Io non sono tua figlia, Genzo: sono la donna che ti ha seguito fin qui di sua spontanea volontà perché è fermamente convinta di poter avere una seconda possibilità.-

A quel punto feci una pausa e lo guardai negl’occhi: era ancora irritato, si vedeva, ma era decisamente molto più sorpreso che arrabbiato, e quel’espressione disarmata mi impedì di vomitargli addosso ulteriori offese; anche perché, sinceramente, oramai la mia rabbia era scemata completamente, e quello oramai era solo uno sfogo dovuto alla stanchezza.

E fu soprattutto perché ero distrutta che mi scappò qualche lacrima. Accidenti! Me le asciugai malamente con la manica della felpa, guardando da un’altra parte per non farle vedere a Genzo: io non ero e non sono una donna debole, e non mi andava che lui lo pensasse.

-A me piace stare qui. Voglio darmi da fare per dimostrarti che so cavarmela da sola.

Per piacere Genzo, per piacere, lasciamelo fare.-

Ed a quel punto sentii le sue braccia sulla mia schiena, e il suo petto sulla mia faccia; mi strinse con così tanta forza che quasi rimasi senza fiato. Mi baciò i capelli e li accarezzò prima di immergercisi con la faccia, sentivo il suo naso all’altezza del mio orecchio. Io, di rimando, lo strinsi a me con tutte le mie forze, le mie mani si aggrappavano alle sue spalle.

Com’era difficile, certe volte, amare quell’uomo prepotente: si comportava come un bambino, ma nessuno lo sgridava veramente. Io, al contrario, non ne ero minimamente intimorita, abituata com’ero con mio marito; ma lui non era Kojiro, e le mie risposte, le mie parole, qui avevano tutt’altro significato e senso.

Insomma, amare e stare con Genzo Wakabayashi era ricominciare completamente da zero nello costruzione di un legame. Praticamente una fatica immane, conoscendo anche il tipo.

Eppure ogni volta che mi abbracciava e mi toccava in quel modo, che mi guardava e si rivolgeva a me con tono affettuoso, sentivo la fatica scomparire, sostituita da un grande senso di benessere.

In quel caso lui mi prese il volto, e poggiò la sua fronte contro la mia, parlandomi sottovoce.

-Ieri mi hai chiesto di stare al tuo fianco e di sostenerti, e ti giuro che voglio farlo con tutto me stesso; ma anch’io ho bisogno del tuo aiuto e sostegno, e soprattutto della tua pazienza.-

-… ti sei scelto la persona peggiore: sono peggio di un petardo.-

E sorridemmo divertiti alle mie parole.

-Beh, io sono peggio di te.-

-Questo di sicuro.-

E ridemmo leggermente. Poi lui tornò serio.

-Lo vedi? Tu mi migliori. Io mi sento migliore accanto a te.-

Io annuii, ma mi sentii presa da un’emozione pazzesca, tanto che sono sicura di aver arrossito: mi aveva detto una cosa che mai mi sarei aspettata. Io lo miglioravo? Io?

Ma lui non mi diede tempo di pensare.

-Ti prego, Maki.-

… ok, lo ammetto: avevo sbagliato.

-Scusami, la prossima volta starò più attenta.

-… e tu scusami per la mia reazione, ma avevo paura ti fosse successo qualcosa.-

Sorrisi intenerita, e poggiai la mia mano sopra sulla sua, ancora mi stava trattenendo il volto. Lui, di rimando, mi baciò castamente le labbra, e mi strinse un’ultima volta, prima di lasciarmi andare, continuando a tenermi per mano.

Per mano!! Non ci ero abituata!! Mi sentii come un adolescente alle prese con il primo amore.

Lui, al contrario di me, si mise tranquillamente l’altra mano in tasca, prendendo un respiro di sollievo, prima di parlarmi nuovamente.

-Allora? Questa storia del lavoro?-

E per il resto della serata ne parlammo, assieme alla sua partita (ovviamente vinta, ma non credo sia necessario dirlo, no?).

 

**

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Capitolo 7
*** Werk ***


VI: Werk

(Lavoro)

 

Quella mattina mi svegliai così presto che la luce del sole era ancora grigia e pallida, e la striscia di luce tra le tende, che tagliava una parte della mia stanza, era altrettanto grigia; mossi le braccia, e mi resi conto di averle sopra la testa, e che stavo dormendo decisamente in una strana posizione.

Era colpa del letto: era così grande, mi stavo abituando male a tutta quell’immensità. Se fossi mai tornata a dormire in un futon sarebbe stato molto scomodo.

Già, ma quando sarei tornata a dormirci? Oramai le possibilità si erano ridotte così tanto …

Non che mi mancasse il Giappone, sia chiaro, però …

Il mio sguardo si spostò verso sinistra, lì dove c’era la scatola, il fascio di luce la tagliava quasi a metà.

Ancora chiusa, ancora in mezzo alla stanza. E personalmente non mi andava né di aprirla, né tantomeno di spostarla.

Osservai in silenzio la polvere che, alla luce debole dell’alba, si agitava e ballava sopra l’involucro di cartone rinforzato; mi misi seduta e continuai a guardarla con aria assonnata, cercando di figurarmi cosa ci avrei trovato dentro, come una bambina che immagina il regalo avuto da Babbo Natale, aspettando che i genitori si svegliassero e scendessero a vedere.

Solo che io, al contrario della bambina, non ero entusiasta a quella vista.

Comunque, di sicuro dentro c’erano i miei kimono. Però, in quel caso, non ci voleva una scatola così grande.

Provai a ricordarmi cos’avevo lasciato al ryokan, ma non riuscivo proprio a ricordarmi cosa c’era di così grande o ingombrante; e poi … ci sarebbe stata anche roba di Kojiro?

A quel punto mi alzai in piedi, e aprii le tende della camera, lasciando che la luce entrasse, sebbene fosse debole e grigiolina.

Anche quell’alba era completamente diversa da tutte quelle che avevo passato: nel ryokan la luce era molto più limpida, e non c’erano di sicuro così tante nuvole come in quel momento; anche d’inverno si poteva dire che era abbastanza limpido.

Le mattine di Torino, invece, erano livide, ma stranamente piacevoli, come il risveglio di una vecchia signora snob; inoltre ero solita risvegliarmi tra le braccia di Kojiro, ed era sua abitudine abbracciarmi nel sonno quando stavano insieme, provocandomi spesso qualche braccio o mano “addormentata”. Però mi faceva sempre una tremenda tenerezza: eravamo sempre lontani per lavoro, quando stavamo insieme mi voleva accanto anche nel sonno.

Forse anche per quell’abitudine che dalla sua morte, quando mi svegliavo la mattina, sentivo sempre freddo alle braccia.

O forse perché mi ero intestardita a dormire con una maglietta e pantaloncini corti del pigiama, invece di mettermi qualcosa di più pesante, mica ero ad Okinawa!

A tal proposito, forse era il caso di muoversi, visto che quello e il mio primo giorno di lavoro; non ufficiale, certo, ma era il caso di presentarsi un pochino prima per dimostrare la buona volontà.

Mi lavai e cambiai velocemente, scendendo poi al piano di sotto e aspettandomi, come sempre, Isolde, che preparava la colazio …

-Oh, buongiorno.-

Genzo era seduto sul tavolo della cucina, sorseggiando il suo caffè, e d’Isolde nemmeno la traccia.

Che strano, era la prima volta che lo vedevo di mattina, solitamente quando mi svegliavo lui era già andato ad allenarsi.

-Buongiorno. Isolde?-

-È andata a fare il bucato, ma come vedi ha fatto in modo che tu non avessi fame.-

Latte, succo di frutta, caffè, pane tostato, torta, brioche, biscotti, burro, marmellate di due tipi diversi, miele, zucchero … sorrisi divertita, mettendomi davanti all’uomo e versandomi un po’ di succo di frutta mentre questo finiva di bere il suo caffè.

In quel momento notai che indossava un completo diverso dal solito: era decisamente più scuro, e la cravatta era molto più elegante, aveva persino dei gemelli al posto dei soliti bottoni della camicia; vederlo vestito in quella maniera lo faceva sembrare ancora più grande della sua età.

Continuai ad osservarlo, non aveva nemmeno il suo berretto rosso, e i capelli neri sembravano essere stati appena lavati; ma quello che mi colpì di più fu la colonia che aveva addosso, non l’avevo mai notata fino a quel momento, ma era veramente buona e soprattutto forte.

Lui alzò lo sguardo verso di me, e si fermò dal sistemarsi i polsini della camicia bianca, sembravano dargli fastidio.

-Che c’è?-

-No, niente, è che … non mi sembra il tuo solito completo per andare ad allenarti.-

-Infatti oggi non ci vado: devo andare in azienda da mio padre, sembra che il vecchio voglia fare un discorso a me e agl’altri due.-

“Azienda” e “padre” fecero scattare la mia curiosità: allora suo padre lavorava ancora! Chissà che lavoro faceva! E gli “altri due” erano i suoi fratelli, vero? Quanto mi sarebbe piaciuto andare con lui per conoscerli!

-Mi piacerebbe venire con te.-

Lui fece una faccia a metà fra il dubbioso e il divertito.

-Non credo: sarà una noiosa riunione di lavoro per ricordarci che siamo la famiglia Wakabayashi e che io, specialmente, devo ricordarmi che “per quanto la tua carriera sportiva ti abbia dato meriti e successi, devi anche occuparti della gestione dell’azienda.”-

Sorrisi mentre lo vedevo imitare il suo genitore, e in quel momento mi ricordai che Isolde mi aveva detto che, dei tre, Genzo era quello che assomigliava maggiormente al padre.

-Tuo padre è molto severo?-

Lui si fermò dall’imitazione, e subito dopo prese una fetta di pane tostato, rispondendomi.

-No, non direi severo. Piuttosto è esigente: sa di aver tre figli intelligenti che sanno come si gestisce un’impresa, e pretende da noi sempre il massimo.-

In quella frase riconobbi qualcosa di familiare, e sorrisi intenerita mentre bevevo un altro po’ di succo.

-Sei orgoglioso di lui, non è vero?-

A quella domanda non mi rispose subito, ma gli andò di traverso il boccone di pane che si era preso, e dovette bere un bicchiere di latte per cercare, quanto meno, di tornare a respirare; a quella reazione, invece, a me scappò da ridere, e dovetti coprirmi la bocca e dargli persino le spalle mentre Genzo mi lanciava una delle sue solite occhiatacce.

-La vuoi finire?!-

-Scusami, scusami, e che non mi aspettavo che t’imbarazzassi.-

-Imbarazzato io?! Non sono imbarazzato! È che … la tua domanda è stata inaspettata.-

-Perché? Non ti piace parlare della tua famiglia?-

-Non più di tanto. Voglio dire … non abbiamo tutto questo gran rapporto.-

-Però non mi sembra che tu li detesti o cose del genere, no?-

-Ma figurati se li detesto! Solo perché non siamo tutti insieme appiccicati come la famiglia di Oozora non significa che non ci vogliamo bene. Siamo fatti in un certo modo, tutto qua.-

Non ho mai conosciuto la famiglia di Oozora, ma capii cosa intendeva dire, e per tanto annuii mentre lui si alzava in piedi, controllando l’orologio che portava al polso (oh dio! L’orologio al polso! Ma con che razza di bestia muta forma vivevo?!).

-Bene, sarà il caso di andare: non voglio essere l’ultimo ad arrivare.-

-Già, sarà meglio che vada anch’io, dato che sono in bicicletta.-

-Cosa? Vuoi andare in bici? Pensavo che ti portassi io.-

-E farmi vedere con te da mezza Monaco? Ci credo che la stampa si sia divertita con te, non hai proprio idea di cosa sia la discrezione.-

-Certo che lo so, e comunque non saremmo andati con la mia, e non ti avrei certo portata fino davanti al bar.-

Fin dalla sera precedente si era dimostrato preoccupato sul fatto che il bar non si trovasse molto vicino a dove abitavamo, ma mica era colpa mia se casa sua era in periferia mentre il bar era nel centro storico!

Mi infilai la giacca a vento e presi il mio zaino mentre l’uomo prendeva il suo cappotto, fuori di sicuro c’era Friedrich che lo aspettava con la macchina.

-Sta tranquillo, andrà tutto bene. Me la sono cavata anche la prima volta, no?-

-Già, ma almeno questa volta io e Isolde sappiamo dove stai andando e quando pensi di tornare.-

-Pensa, io non so ne l’una ne l’altra per quanto ti riguarda, eppure sono assolutamente tranquilla.-

-Perché io sono un uomo grande e maturo.-

-No, perché so che Friedrich ti fa da babysitter.-

E lui prese la frecciatina con un sorriso ironico e tanto stile, prima di darmi un bacio e mettermi in testa un cappello, e lo calcò talmente tanto che per qualche momento mi coprì la visuale; quando me lo sistemai sentii subito che si trattava della visiera di un berretto.

-E questo?-

-In caso di sole o pioggia. Riportamelo indietro stasera, mi raccomando.-

-Perché?-

Non mi rispose, così andai a vedere allo specchio.

Oh cazzo, ma era il suo berretto rosso! Ecco perché, oltretutto, mi stava così grande!

Me lo aveva dato … come porta fortuna, lui lo aveva sempre durante le partite … oh accidenti!

-Genzo!-

Uscii fuori, ma lui stava entrando in macchina, e Friedrich chiuse la portiera, portandosi verso il suo posto di autista; io corsi velocemente verso il suo finestrino, e lui lo abbassò, guardandomi sorpreso.

Volevo dirgli qualcosa come “buon lavoro”, oppure “passa una buona giornata”, ma mi sembravano così banali che mi rifiutavo persino di pensarle, così il mio cervello dovette lavorare il doppio della velocità normale.

-… ci … ci si vede stasera, va bene?-

Lui fu sorpreso, ma poi sorrise con aria tremendamente scanzonata, allungando una mano verso la mia guancia, accarezzandola e arrivando fino ai capelli, annuendo.

-Certamente. Buon lavoro.-

Poi mi lasciò andare, alzò il finestrino e la macchina si allontanò, uscendo mentre io restavo ancora qualche minuto imbambolata, guardando il retro dell’automobile dirigersi verso Monaco.

Il suo sorriso mi aveva completamente spiazzata, era così diverso dalla solita aria ironica o affettuosa: per un attimo mi era sembrato un ragazzino, i trent’anni erano scomparsi lasciando il posto ad un diciassettenne un po’ cresciutello.

Il vento freddo mi riportò alla realtà, e io mi sistemai meglio che potei il berretto, raggiungendo la bicicletta.

Mentre mi stavo avviando, vidi Isolde sbucare dalla porta principale, aveva in mano il cestello con dentro le mollette del bucato, doveva aver appena finito. Le sorrisi entusiasta, mi sentii come al mio primo giorno di liceo: quando mia madre e mia nonna erano venute a salutarmi, la mamma aveva in mano il battipanni perché stava facendo prendere aria ai futon.

-Isolde, ich gehe!- (io vado)

-Guten Job.- (buon lavoro)

E pedalai energicamente verso Monaco, questa volta stavo attenta a dove andavo, Genzo mi aveva pure mostrato il percorso più veloce per raggiungere il bar senza incontrare tutto il traffico del centro, e in batter d’occhio era di nuovo in quella bella piazzetta, con la facciata della chiesa e i piccioni, questa volta nutriti da due turiste straniere che ridevano come pazze appena lo stormo cominciava a volare.

Ora che lo notavo meglio, gl’infissi del bar erano di un piacevole color crema, e la muratura interna era rosso fuoco; beh, non era certamente un “bar tradizionale tedesco”, ma l’aspetto estetico era interessante.

Questa volta legai la bicicletta con la catena, e bussai timidamente alla porta, notando che le luci erano spente e che tutto pareva calmo e fermo; ero arrivata troppo in anticipo?

Ah, no, vidi il proprietario dietro il bancone, e bussai di nuovo, facendomi notare e salutandolo gentilmente con la mano; questo mi venne ad aprire, con aria felicemente stupita.

-Bene, siamo mattiniere!-

-Buongiorno signor Albert.-

-Buongiorno a te … Maki, giusto? Ah, meno male, sai sono un disastro con i nomi. Ma vieni, vieni pure, stavo per aprire, sistemavo solo le ultime cose.

Allora, in quell’angolo ci sono il bagno e lo spogliatoio, dovrebbe esserci un grembiule pulito, va pure a prenderlo che poi ti spiego un po’ di cose.-

Obbedii, entrando nella porta a sinistra. La stanza era un po’ stretta, ci si entrava massimo in due, e aveva l’odore di essere stata appena intonacata mentre aprivo l’armadietto e mi prendevo il grembiule, mettendoci al suo posto la giacca a vento; mi tolsi anche il berretto, e sorrisi come una cretina, tastandolo fra le mani.

Genzo me lo aveva dato come porta fortuna … Ah, andiamo Maki! Al lavoro su, non perderti dentro alle scemenze!

Risposi il cappello nell’armadietto e tornai nel bar, Albert stava per aprirlo ufficialmente.

-Ah, eccoti. Beh, il grembiule sembra un po’ grande, ma non credo che sia un problema, no?

Allora, cominciamo con le basi: sai usare una macchina del caffè?-

La guardai, e mi venne in mente quando ancora giocavo a softball: quando avevamo i ritiri, negl’alberghi, ero solita trovare quel tipo di macchine, anche perché alcune mie compagne erano grandi consumatrici di caffè.

Ma allora, come in quel momento, non mi sarei mai azzardata di metterci le mani; scossi scoraggiata la testa ad Albert, ma lui sorrideva divertito.

-Non mi sorprende, non credo che nella locanda dove lavoravi avevi una cosa del genere, giusto?-

-In effetti era una locanda tradizionale.-

-E di cosa ti occupavi?-

-Ah, più che altro della pulizia delle camere e della cucina.-

-Sai cucinare?-

-Beh … ho imparato pian piano, però le cose più semplici le so fare.-

-Bene, in caso potrebbe tornarci utile per l’aperitivo, che ne pensi?-

Io sorrisi emozionata, oh si questo era pane per i miei denti! Finalmente!

Mi mostrò come usare la macchina del caffè e i congegni della birra, e mi spiegò che l’orario di punta era verso il tardo pomeriggio dato che, in quella zona, era uno dei pochi bar presenti, e quindi chi voleva fare una bevuta o un semplice aperitivo si dirigeva lì; disse queste informazioni in maniera abbozzata, ma non ebbi bisogno di sapere altro mentre i primi clienti cominciavano ad entrare.

E fortunatamente, per la maggior parte delle volte ci pensava Albert a loro: con il mio tedesco stentato, infatti, ero a malapena capace di capire le loro ordinazioni e di rispondere per monosillabi, muovendomi dietro al bancone da una parte all’altra come un’indemoniata.

Inoltre non ci avevo mai fatto caso, ma a Monaco i turisti abbondano!

Riconobbi persino dei giapponesi, e mi permisi di salutarmi: loro venivano da Hokkaido, e scherzavano sul clima, dicendo che “non era così freddo, da loro è peggio!”, e instaurando così un allegro battibecco con altri turisti, svizzeri.

In quel momento Albert mi disse di fare una piccola pausa, offrendomi una cioccolata con panna, e io feci da giudice tra i due turisti, anche se si vedeva lontano un chilometro che si stavano semplicemente divertendo, anche se facevano un po’ di rumore all’interno del locale.

Subito dopo arrivarono dei vecchi signori, tutti allo stesso tavolo, che chiesero il miglior liquore del bar; ancora una volta, il proprietario mi venne in aiuto, mostrandomi un vassoio con sopra una bottiglia e quattro piccoli bicchieri da whisky.

-Servili tu, così ti conoscono. Tranquilla, non mordono.-

Io annuì, e portai il vassoio, porgendo i bicchieri sul tavolo e riempiendo ognuno con del liquore; quello che sembrava il più vecchio di tutti sorseggiò la bevanda, e l’approvò con un semplice movimento delle labbra (o meglio dei suoi lunghi baffi bianchi). A quel punto lasciai loro la bottiglia e tornai al mio posto dietro al bancone, e loro chiamarono Albert.

-Albert! Wer ist die süße Dame?- (chi è la dolce signorina?)

Arrossii leggermente al complimento, e l’uomo mi presentò ai quattro signori. Da come si comportavano parevano essere loro i proprietari del bar, ma al tempo stesso erano molto educati, e mi presero in simpatia, chiamandomi “enkelin” (nipotina).

Anche se, personalmente, questo nome mi pare più quello di una pubblicità di mele tedesche (Enkelin, la mela naturale al 100%).

-Te la stai cavando molto bene.-

Albert posò dei sandwich sul bancone, e io finii di asciugare l’ultimo bicchiere, addentandone uno e scoprendo che, anzitutto, ero affamata, e poi che erano veramente buoni!

I quattro signori erano ancora là, a bere e ridere, chiacchierando del più e del meno, ma a giudicare dai loro abiti non parevano essere barboni o degli alcolisti: erano solo quattro anziani che si godevano la giornata.

-Rimarranno qua fino alle sei, poi torneranno a casa. Vengono sempre due o tre volte alla settimana, e ogni volta chiedono sempre il liquore più forte. Sono degli abitudinari, e presto ti abituerai a loro.-

Quell’ultima frase mi fece voltare verso Albert, sorpresa e speranzosa. Lui mi fece spallucce.

-Beh, sei brava, non posso negarlo, e il tuo aiuto è stato molto prezioso, soprattutto con quei giapponesi; ti ripeto, la paga non è granché, ma non credo che questo t’interessi davvero, no?-

Ero così felice che mi sarei messa ad urlare e piangere, ma non feci ne l’uno ne l’altro, annuendo e mangiando con maggiore gusto, preparandomi invece alla tornata del pomeriggio.

Il tempo di Monaco, nel frattempo, peggiorò mano a mano, fino a che non arrivò la pioggia, e con essa i quattro signori prolungarono la loro permanenza nel bar.

-Gut, la pioggia è sempre benvenuta: le persone verranno a ripararsi e noi gli daremo da bere, formando il “circolo del barista contento”.-

Sorrisi ad Albert, il quale aprì la porta e si accese una sigaretta, fumando davanti all’uscio del locale, guardando fuori il tempo e la gente che passava, facendo così entrare almeno cinque persone di fila, finendosi con calma la sigaretta mentre io li servivo, sempre andando da un lato all’altro del bancone, anche servendo ai tavoli.

Appena terminò di fumare, il mio capo ebbe “voglia” di aiutarmi, e non capii se si comportasse così ancora per mettermi alla prova o perché se l’era presa molto comoda. Il suo modo di fare mi ricordava un po’ mia zia, ma lui era decisamente più simpatico e disponibile.

-Ancora decisa a lavorare qui?-

Alzai lo sguardo, avevo aperto il frigo sotto il bancone per tirare fuori delle bibite, approfittandone per prendere fiato dato che, dai nove clienti che c’erano (i quattro vecchietti compresi), ne erano arrivato almeno una ventina (sempre con i quattro vecchietti compresi).

Lo guardai con sguardo provocatorio, e sorrisi divertita, credeva davvero che mi sarei arresa per così poco?

-Absolut ja.- (assolutamente si)

E ripresi a lavorare con maggiore entusiasmo, lanciando diversi sguardi all’orologio appeso in alto, notando come stesse segnando le sette e mezzo. Avevo detto a Genzo che sarei tornata per le otto, ma con tutta questa gente non me la sentivo di lasciare Albert da solo; gli chiesi di fare una telefonata, e chiamai Isolde.

-Isolde, sono io. Ascolta, non credo di riuscire a tornare per le otto, non mi aspettate per cena mi arrangio da sola.-

> Va bene Maki. Ah senti, il padroncino Genzo è fuori a cena con il signor Wakabayashi, mi ha raccomandato di dirti che tornerà a casa tardi questa sera.

Ah, peccato: avrei voluto parlargli della giornata di lavoro, e avrei voluto chiedergli com’era stata la sua, ma me lo aspettavo, da quel poco che avevo capito l’azienda del padre di Genzo doveva essere una cosa molto grossa e seria, se aveva spinto l’uomo a vestirsi in quel modo così elegante e professionale.

-Grazie Isolde, ci vediamo più tardi.-

> Maki! Un’ultima cosa: ti stai divertendo?

Io le sorrisi, pensando per un momento che potesse vedermi, rendendomi poi conto che lei era dall’altro capo del telefono.

-Si, tantissimo. Ci vediamo a casa.-

E tornai a lavorare, e per un momento pensai che avrei passato lì tutto la notte; invece, inaspettatamente, verso le otto e mezza una ragazza arrivò fino al bancone, e Albert si affrettò a salutarla, presentandomela in seguito.

-Ehi Maki, ti presento Gerdi; per stasera fa lei il turno di notte, poi da domani ci mettiamo d’accordo per gli orari, va bene?-

Io mi limitai ad annuire, togliendomi il grembiule mentre la ragazza passava dall’altro lato, salutandomi a distanza ravvicinata e facendomi riconfermare la prima idea che avevo su di lei: era una … metal … incallita, aveva più borchie lei di un giubbotto di pelle, con tanto di trucco nero sugl’occhi e pelle bianca.

Però era, nonostante tutto, carina.

Comunque aveva l’aria “da tosta”, e ci scambiammo si e no tre parole prima che prendesse gl’ordini e Albert mi portasse in un angolo un po’ più buio per dirmi che mi rivoleva vedere il giorno dopo alla stessa ora, e io glielo confermai, rifugiandomi in seguito nello spogliatoio e riprendendomi sia la giacca a vento che il berretto rosso di Genzo, sollevata nel ritrovarlo lì dove l’avevo lasciato.

Non ebbi  neanche il tempo di salutare l’uomo o la nuova venuta, perché la folla nel frattempo era aumentata, così come anche la pioggia fuori, e io non avevo neanche l’ombrello porca miseria!

Uscii fuori dall’aria calda e soffocante del bar, e sentii subito lo scroscio d’acqua arrivarmi addosso sulle spalle e sul berretto, ben presto la stoffa non fu più in grado di coprirmi e sentii i capelli cominciare a bagnarsi mentre toglievo la catena dal palo e dalla bici, pronta per andarmene.

Feci i primi metri a piedi, e già ero abbastanza bagnata da rischiare la febbre quando vidi una macchina con i fari accesi avvicinarsi verso di me, fermandosi a pochi centimetri mentre il finestrino del passeggero si abbassava.

Ma dov’ero, in un film in bianco e nero? Magari anche francese!

-Ciao, bisogno di un passaggio?-

-… ma tu non eri ad una cena?-

-Nah, ho altre occasioni per cenare con mio padre. Dai vieni.-

Vidi Friedrich avvicinarsi e, con un sorriso, prendermi la bici per sistemarla nel bagagliaio mentre Genzo mi apriva la portiera della macchina, facendomi entrare.

-A te piacciono molto le entrate in scena ad effetto, eh?-

-… si, lo ammetto: fanno parte del mio fascino.-

-Chissà quanto ci sono cascate con questo trucchetto.-

-Meno di quante me ne aspettassi.-

Mi voltai verso di lui, contrariata dalla risposta, ma lui mi passò una mano sui capelli bagnati, spettinandomeli per non darmi il tempo di controbattere. Ah! Il solito!

-Tu non ci caschi mai ad esempio.-

-… anche queste battute fanno parte del tuo repertorio.-

Lui sorrise, e io contraccambiai mentre Friedrich risaliva in auto zuppo quanto me.

-Ah, mi dispiace Friedrich! A casa chiedo ad Isolde di prepararti qualcosa di caldo e di darti degl’asciugamani, e non accetto rifiuti!-

-… la ringrazio, signorina.-

-Allora? Com’è andata al bar?-

-Beh, domani vado a lavorarci ufficialmente! Non è grandioso?-

Non rispose, ma mi spettinò nuovamente i capelli bagnati mentre la macchina ci riportava a casa.

 

**

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Capitolo 8
*** Nennen ***


VII: Nennen

(chiamata)

 

I successivi giorni di lavoro divennero sempre più facili e pieni di momenti interessanti, che rendevano le mie chiacchiere con Isolde e Genzo sempre molto concitate: a dire la verità parlavo sempre io, e raramente prendevo pause anche solo per respirare, ma avevo la sensazione che se non dicevo tutto non sarebbe bastato.

Comunque lui si divertiva, e soprattutto mi prendeva in giro, con il suo solito sorriso sbilenco in faccia e il suo atteggiamento da “uomo maturo” che io, a mia volta, mi divertivo a smontare, finendo così, ogni volta, a battibeccare animatamente. Isolde però non se ne preoccupava, sorridendo con la stessa affettuosità di una madre con i figli. Per lei eravamo tutti pulcini, e lei era la grande mamma chioccia.

Però c’erano  alcuni momenti, specie quando Isolde non era presente, in cui, quando alzavo lo sguardo verso Genzo, lo trovavo a fissarmi con aria profonda, i suoi occhi neri dritti verso di me senza niente che li ostacolasse; e sembrava, ogni volta, cercare di andare oltre quello che vedeva, oltre i miei vestiti e la mia stessa pelle.

In quei momenti non riuscivo più a parlare, ed effettivamente non riuscivo più a pensare (non che ci riesca adesso quando mi guarda così, però uno cerca di darsi un tono …), e rimanevo muta a guardarlo; e lui tutte le volte non parlava, ma neanche si muoveva. Rimanevamo così, come due statuine, e mi rendevo conto che se non facevo qualcosa la situazione non si sarebbe evoluta.

Ma che potevo fare? Che dovevo dire? O forse non dovevo dire niente? Oh kami, ma perché era così complicato? Ero troppo imbranata, troppo incerta.

Meno male che c’erano Isolde. E soprattutto il lavoro.

Fare la barista era simile a lavorare al ryokan: eri a diretto contatto con la gente e i loro umori, che fossero rabbia, tranquillità, allegria o quant’altro, e al contrario di noi nipponici spesso te la esibivano senza il minimo imbarazzo.

Forse era proprio questo che mi bloccava di più con Genzo: io ero sempre stata abituata al controllo e alla calma (certo, che poi dessi cazzotti in faccia ai miei compagni di liceo era tutto un altro discorso …), o quanto meno mi era sempre stato (tentato eh, mai riuscito davvero) insegnato che le reazioni troppo forti era un segno di scortesia, soprattutto in quanto futuro capo famiglia degli Akamine.

Ma tutte quelle emozioni diverse, con l’unica barriera di un bancone, che si frapponeva tra me e il cliente, delle volte erano capaci di spiazzarmi.

Una sera che avevo il turno notturno (eh si, ero anche una barista notturna!! Pazzesco! Era troppo divertente!!) sono entrate un gruppo di ragazzine, delle adolescenti, già abbastanza sbronze; nell’ordinare da bere, una di loro praticamente mi rise in faccia, scusandosi in seguito.

Quella risata aveva frenato non poco il mio solito entusiasmo, tanto che Albert avevo preso il mio posto nel prendere le ordinazioni mentre io scambiavo posto con lui, finendo di lavare quello che c’era.

-Kleine Japanische fa fatica con l’entusiasmo tedesco?-

“Piccola Giapponese”, mi chiamava sempre così quando mi prendeva in giro, e ben presto anche Gerdi prese a chiamarmi in quel modo, anche perché Albert la chiamava sempre “Königin der Nacht”, la regina della notte, visto che faceva spesso e volentieri i turni dalle otto di sera fino alle due di notte.

-Beh, in effetti … siete tutto così … aperti.-

-Già, specie dopo essersi fatti almeno due bicchieri della nostra birra …-

E indicò nuovamente il gruppetto di adolescenti, sempre più entusiaste, che facevano un brindisi e rischiavano di versarsi la birra addosso, continuando però a ridere a crepapelle.

Guardandole ripensai alle mie compagne di squadra, e anche a Yayoi: l’avevo conosciuta ad un ritiro, e avevamo fatto amicizia con estrema facilità e calma. Lei incarnava, proprio come Sawada, alcuni tipici aspetti giapponesi: la compostezza, la naturale eleganza, la disponibilità e la cortesia.

Chissà come stava, era da molto che non la chiamavo: lei e Jun stavano di sicuro insieme, ma chissà cosa stavano facendo, se non sbaglio lei seguiva un corso d’infermieristica. Di sicuro era la prima della classe, con quel suo spirito da crocerossina che, lo ammetto, mi ha salvato quando è morto Kojiro.

Ero talmente tanto presa da quei pensieri che non mi resi conto di quello che avevo intorno, fino a quando Albert non mi si avvicinò, prendendomi il braccio e scuotendomi leggermente, indicando in seguito il famigerato gruppetto di adolescenti.

-Nennen.-

Mi chiamavano? Perché poi proprio io?

Mi asciugai le mani e raggiunsi il lato del bancone, che loro avevano preso di assedio, una aveva un cocktail, e tutte sembravano essersi calmate; quando però mi feci avanti, due di loro mi notarono e parlottarono fra loro, un’altra si trattenne dal ridere mentre la più bassa, forse la loro leader, si fece avanti, parlandomi biascicando per via dell’alcool.

-Come ti chiami?-

Eh?

-… Maki, mi chiamo Maki.-

E di nuovo vidi il gruppetto parlottare fra loro mentre il loro capo continuava con quella specie d’interrogatorio; un po’ mi faceva ridere, con quello sguardo spento e il tentativo di essere seria, ma dall’altra parte mi sembrava così convinta che rimasi in rispettoso silenzio.

-Tu conosci … Genzo Wakabayashi?-

… oh  cavolo, e adesso?

-… Si, certamente.-

Di sicuro erano delle lettrici di quelle riviste scandalistiche, o comunque di qualsiasi rivista un po’ femminile che parlasse dei loro “divi”, tra i quali lui.

-Sei la sua ragazza?-

Ecco, lo sapevo che avrebbe fatto questa domanda. Ma Maki Akamine non racconta mai bugie, e non avrebbe cominciato quella sera.

-Si.-

In fondo ero andata in Germania proprio per lui, per capire e stare con lui. Mentire sarebbe stato come prendere in giro me stessa, e io sono sempre stata sincera con me stessa: anche al ryokan, quando mi resi conto che mi stavo innamorando di Genzo, all’inizio non volevo vederlo per timore nei confronti di Kojiro; ma alla fine mi ero convinta che dovevo accettarlo, ed ora ero qua.

Intanto il leader delle adolescenti mi guardava dritta negl’occhi mentre le altre non parlottavano più fra loro. Io, d’istinto, mi preparai al peggio.

Alla fine, con mia grande sorpresa, la leader mi allungò la mano.

-Sembri in gamba, non sei come le altre. Facciamo il tifo per te.-

… questa poi …

-Beh, grazie.-

E strinsi la sua mano mentre le altre mi facevano versetti e segni d’incoraggiamento, imbarazzandomi e spingendomi a trovare una scusa per fuggire da loro, ma Albert sembrava divertirsi a quella scena e non mi venne in aiuto mentre loro mi tartassavano delle domande più assurde su Genzo, da “cosa mangiava” a “in che posizione dormiva”, passando anche per la fatidica domanda “lo avete già fatto?”.

-A quel punto volevo sprofondare dietro il bancone del bar! Voglio dire, erano così dirette e sfacciate! Sarà stato l’alcool, ma è stato comunque imbarazzante.-

-… e ti hanno solo chiesto come ti chiamavi?-

Alzai lo sguardo verso Genzo, gli stavo raccontando com’era andata quella strana serata ma, rispetto al solito atteggiamento divertito, sembrava preoccupato.

-Si, solo questo. E se stavo con te.-

-E che gli hai detto?-

-Ovviamente di si, che gli dicevo di no?-

-Forse era meglio.-

Cosa? Voleva pure che mentissi? Dopo tutto il discorso fatto prima a proposito dell’essere “sempre vicino all’altro”?!

-Io non sono capace di mentire su queste cose.-

-Ed è anche per questo che ti amo, ma qui le cose non sono semplici.-

Sinceramente la seconda parte del discorso (quella dopo la virgola) la seguii un po’ a fatica, perché la prima parte della frase mi aveva leggermente spiazzata. Lui forse non se n’era reso conto, ma aveva usato due parole che ancora non avevo sentito dentro i nostri discorsi; oh kami, ma non stavamo correndo un po’ troppo?!

Intanto lui si era alzato e aveva proseguito, ma io ne avevo ignorato almeno una buona metà.

-… quindi la prossima volta, se ti chiedono qualcosa, se non vuoi mentire almeno svia il discorso, capito?-

-Ah, si.-

Aveva le braccia conserte al petto e mi guardava con aria severa. Io distolsi lo sguardo e presi un sorso di thé.

-… non hai ascoltato quello che ti ho detto, vero?-

-No, ho ascoltato, sul serio! È solo che non sono d’accordo.-

-Ah davvero? E su cosa non sei d’accordo? Sul fatto che la stampa ti vuole come agnello sacrificale o sul fatto che è un bene che non possano venire sotto casa?-

Oh-oh, pizzicata.

Lui sbuffò e si sedette accanto a me.

-Che succede? Sono giorni che hai la testa fra le nuvole.-

E mi accarezzò i capelli e la guancia. Oramai quei tocchi non mi facevano più venire l’ansia, e anche a quella distanza ravvicinata mi sentivo tranquilla; il problema erano proprio i suoi occhi, ma perché avevo quello sguardo così profondo? E perché io non riuscivo a sostenerlo al meglio? Qual’era il problema?

Che io … non fossi convinta?

-È che … ultimamente sono successe tante cose: la stampa, il lavoro nuovo … io e te.-

Ma che stavo dicendo? Di che stavo parlando?

Ecco, vedi, vedi? Eccolo sulla difensiva: sguardo torvo, indietro con la schiena, mano che lascia la mia guancia.

Maki, riacchiappa quella mano e metti le cose in chiaro.

-Non ci sono più abituata. Anzi, non ci sono mai stata abituata: sai, con … Kojiro (ahia, sempre argomento delicato questo) … è sempre successo in maniera naturale. Ma qui è tutto un iniziare da capo, e ogni volta che faccio un passo avanti mi sento troppo insicura, non mi riconosco più!-

Dov’era finita la ragazza decisa, che sapeva quello che voleva del suo futuro? Dov’era la giocatrice di softball, la nipote della capofamiglia Akamine, l’amica di Ken e Takeshi, la fidanzata e poi moglie di Kojiro?

La sua mano spettinò i miei capelli, aaah mi dava così fastidio!!

-Maki, datti tregua: Hyuga … non c’è più sai da quanto? Solo un anno e mezzo. Eppure guarda quanto hai fatto in questo breve lasso di tempo, un’altra al posto tuo non ci sarebbe riuscita.

Tu sei straordinaria, non ti sei mai arresa; ma Maki, cavolo, sei umana, e se continui così altro che depressione, rischi direttamente un esaurimento nervoso!-

Sorrisi, oddio com’era vero, non mi ero fermata neanche un momento.

Questa volta fu lui a stringermi la mano, portandosela verso di sé.

-Io ti ammiro tremendamente, io non credo che riuscirei a risalire il fondo come hai fatto tu.-

-… c’entra qualcosa il fatto che hai lasciato l’Amburgo?-

Mi guardò sorpreso, ma oramai avevo buttato il discorso e non sarei tornata indietro, perciò mi feci avanti con la schiena, e gli presi la mano che mi stringeva.

-Ho … ho chiesto a Isolde e … mi ha detto che hai avuto … divergenze … con il tuo allenatore.-

-Divergenze … da quando sai usare questa parola in tedesco?-

-Beh, una volta al bar è venuto un professore di lettere, ed è stato faticoso ma interessante ascoltarlo e parlargli.-

Pregai che sorridesse, perché quando sorrideva, anche in quella maniera sbilenca da ragazzaccio, sapevo che un pochino del suo malumore se n’era andato, anche se non del tutto; ma niente, il sorriso non accennava da arrivare. Dovevo insistere! In questi casi ammutolirsi era peggio.

-Ascolta, non so perché non ne vuoi parlare, però … io sono venuta da Okinawa fino a Monaco, e non ne sono pentita ma … sono sinceramente incerta su me e te, perché tu sei così sicuro dei tuoi sentimenti mentre io …-

-Mentre tu?-

Alzai lo sguardo, e nuovamente trovai quegl’occhi, gli stessi con cui mi guardava spesso. No, sempre.

Aveva sempre quello sguardo profondo, che riusciva ad andare oltre la mia pelle e guardarmi fin dentro l’anima; in quei momenti gli avrei voluto chiedere cosa c’era dentro la mia anima, perché nemmeno io lo sapevo davvero.

-Io … ogni volta che ti guardo negl’occhi … non riesco più a pensare, ma voglio soltanto … che tu continui a guardarmi così, anche se m’imbarazza … e so che dovrei fare qualcosa ma … ho paura di sbagliare … di farti stare male o …-

Sentii la sua mano sulla mia guancia, e mi ammutolii, appoggiando la mia testa su quel palmo grande e caldo; si, le mani di Genzo erano meravigliose, sentivo sempre di potermici addormentare, come su di un cuscino. E quando alzai lo sguardo verso di lui, lo vidi sorridere, un sorriso talmente pieno di affetto e amore che mi veniva da piangere.

Un sorriso del genere … solo Kojiro me lo aveva dato.

Da un anno e mezzo non sentivo più quelle emozioni. Era da un anno e mezzo che non mi sentivo più amata così: non come figlia, o nipote, o amica. Ma come donna.

Era questo che mi terrorizzava, allora? Essere amata come donna? Ma quanto ero bambina...

-Tu non potrai mai sbagliare: qualsiasi cosa che tu fai, la fai perché ne sei convinta al cento per cento, e niente e nessuno ti può far cambiare idea. Lo sai quante persone sono come te? Poche, pochissime.-

Poggiò nuovamente la sua fronte contro la mia, e sentii il mio cuore accelerare vertiginosamente. E con essa anche la mia ansia stava salendo; però, stranamente, per quanto mi stessi irrigidendo, volevo con tutta me stessa che non si fermasse, che continuasse a coccolarmi in quel modo, con gesti e parole.

Volevo con tutta me stessa che Genzo Wakabayashi, l’SGGK, l’orso, non si fermasse.

-Maki … io …-

Non riuscì ad andare avanti con le parole, e a quel punto io chiusi gli occhi, invitandolo in quel modo ad azzerare la distanza tra di noi; e come sempre, Genzo mi baciò con la stessa delicatezza con cui avrebbe tenuto tra le mani un cristallo di neve. Poi, sempre con gentilezza, mi spinse a sedermi sulle sue gambe.

Com’era forte l’uomo come mi amava, com’era dolce l’uomo che mi amava. Come mi guardava, l’uomo che mi amava: mi staccai lentamente dal suo bacio e lo guardai negl’occhi, e mi venne da piangere, un emozione così forte che m’impediva di respirare, e lo baciai di nuovo, questa volta più intensamente, cercando nelle sue labbra l’aria per poter respirare.

Erano grandi e forti le braccia dell’uomo che mi amava, e mi strinsero con passione, facendo pressione sulla mia schiena per far aderire il mio corpo al suo; erano ruvide le mani dell’uomo che mi stava amando, accarezzandomi il volto mentre staccava la bocca dalla mia e scendeva con tanti, piccoli baci lungo il mio collo.

Sentii il mio bacino avvampare, il mio intero corpo aveva la sensazione di accartocciarsi su se stesso per tutte le sensazioni che stavo vivendo; a fatica mi rendevo conto di dov’eravamo e dei rumori intorno a noi, come per esempio lo squillo del telefono. Era tutto ovattato e irreale.

Lo strinsi ancora di più mentre tornava alla mia bocca, ma questa volta il bacio durò molto meno, e lentamente Genzo si spense, fino a staccarsi con mia sorpresa e, lo ammetto, disappunto. Lui, di rimando, sorrise e mi baciò la punta del naso, prima di fare un cenno verso la porta.

Isolde.

… OH CAZZO ISOLDE!!

Da seduta sulle ginocchia, in piedi, ci misi un nanosecondo.

-Isolde, dimmi.-

-Maki, nennen.-

In mano aveva la cornetta del telefono. Ma tutti mi cercano, com’è questa storia?! Poi mi cercano nei momenti peggiori.

Mi passai una mano tra i capelli, cercando di recuperare calma (si), dignità (forse) e serenità (no, quella decisamente no), e presi la cornetta, parlando in tedesco (o almeno provandoci).

-Si, qui Maki.-

> Maki, sei tu?-

… non ci potevo credere!

-Yayoi-chan!-

> Maki! Quanto tempo, come stai?!-

-Bene, bene, accidenti è tantissimo! Scusami se non ti ho più chiamata.-

> Ma figurati, immagino che eri molto occupata, con tutto quello che ti è successo!

-Puoi dirlo forte, ma ora è tutto a posto, ho persino un lavoro!-

> Si … l’ho letto … dev’essere bello lavorare in un bar lì a Monaco …

L’aveva letto?!

-L’hai letto?!-

Non mi rispose subito, ma sentii chiaramente che stava prendendo un profondo respiro, e che stava sfogliando qualcosa.

Oh no, vi prego, tutto ma non anche lì!

> Maki, ho qui una rivista con una fotografia che ti ritrae davanti al bar con il berretto rosso di Genzo, e il titolo dice “La signora Hyuga lavora a Monaco: nuova vita … in tutti i sensi?”. Capisci anche tu che questo è molto ironico.

Oh merda, oh merda no, non anche in Giappone!

-E che cosa dice l’articolo?-

> Vuoi davvero che lo legga? Non ti farà bene.

-Se non me lo leggi tu lo dovrò chiedere a qualcun altro , e sarà molto peggio. Ti prego Yayoi.-

>… va bene, ma non sarà piacevole.

-Lo so.-

La sentii prendere un altro respiro, e io di rimando presi un respiro a mia volta, poggiandomi con la schiena sul muro del corridoio, davanti a me c’erano il mobile con l’apparecchio dove appoggiare il cordless.

> … “Da una soffiata con un nostro corrispondente tedesco, siamo venuti a scoprire che la vedova Hyuga, a solo un anno e mezzo di distanza dalla morte del noto calciatore Kojiro Hyuga, campione della famosa Generazione D’oro, si trova a Monaco e, attualmente, lavora in un bar del centro storico, di cui non faremo nome; non si sa ancora dove alloggia, ma ulteriori indiscrezioni e un articolo di una nota rivista tedesca hanno confermato la sua conoscenza con il grande SGGK Genzo Wakabayashi, portiere ufficiale del Bayern Monaco.”

Più Yayoi leggeva l’articolo e più mi sentii tremare le vene ai polsi. No, non per le parole o la cattiveria, ma perché quello era un articolo giapponese, e io ricordavo bene che Tomoko amava leggere le riviste scandalistiche, quindi di sicuro l’articolo sarebbe arrivato anche a casa. Quindi anche sotto gli occhi della nonna … e della zia. Oh Kami.

> “Siamo …” dai Maki, ora basta.

-Yayoi.-

> Ti stai solo facendo male, come quando leggevi gli articoli su tuo marito quando era morto, con tutte le parole di commiato dei giornalisti.

-Yayoi ti prego, continua a leggere.-

Mi faceva male la testa, non mi pulsava così tanto da quando c’erano stati i preparativi del funerale di mio marito.

> “Siamo tutti vicini al dolore della vedova per la perdita di suo marito, il grande Kojiro Hyuga, ma immaginiamo che il brillante rubacuori Genzo Wakabayashi sia molto più vicino di noi. Dopotutto il fascino di un simile uomo ha fatto piegare anche famose celebrità nipponiche, come la famosa cantante Ayumi Shikawa, nota per essere la relazione più duratura, parliamo tre mesi! Un record per lo scapolo più ambito di tutto il Giappone e di tuttaa la Germania, come ci confermano i nostro amici tedeschi.”

Ironia volgare che mi faceva solo del male. Per il mondo io ero una delle tante. Non lo ero per Genzo, giusto?

Giusto?!

> Maki, non voglio andare avanti …

-Yayoi, continua a leggere per favore.-

> Ti fa male la testa, non è vero? Adesso basta.

-Devo sapere.-

Volevo sapere fino a che punto ero diffamata, fino a che punto la memoria di mio marito era stata calpestata; fino a che punto io non sarei più riuscita a guardare Genzo in faccia.

> Questo non è sapere, è autolesionismo. Tanto sai bene che è una cosa passeggera Maki …

-Yayoi!!-

Non volevo che mi dicesse quelle cose. Volevo solo che mi leggesse quello stupido articolo. E dopo un minuto di silenzio continuò.

> …“Che il nostro seduttore ora sia interessato all’ambito sportivo? Dopo lo scandalo con la modella tedesca Achillina Von Zugar e la storia della droga, che l’ha portato forse a lasciare l’Amburgo, il nostro scapolone ha puntato ad una preda molto più interessante. E forse tale preda è già nella sua trappola.” … e questo è tutto.

-… grazie Yayoi.-

Rimanemmo qualche momento in silenzio. Io non sapevo cosa pensare, aveva una gran confusione e mi faceva male da morire la testa.

> Maki, credimi, so quanto queste cose possano fare del male. Perciò dimmi qualcosa per favore, non mi piace che tu stia in silenzio.

È vero, anche lei ci era passata, chissà quante volte era stata masticata, sputata e ri-masticata nuovamente dalla stampa.

-… Ti ammiro molto Yayoi: sei sempre andata avanti a testa alta.-

> Anche tu lo hai fatto, Maki.

-Già, ma una volta ero con Kojiro, e non mi sentivo in colpa di niente perché lo amavo. Io … lo amavo.-

Più della mia stessa famiglia. E nessuna chiacchiera scandalistica avrebbe mai potuto farmi cambiare idea; ma adesso ero in grado di sopportare questo? Io, che fino a cinque minuti prima sembravo esserne convinta?

Ma allora perché le parole lette da Yayoi mi avevano fatto così tanto male, che adesso il pianto non riuscivo proprio a frenarlo?

> Maki … Maki ti prego non piangere, tu non stai facendo nulla di male, stai solo cercando di vivere la tua vita! Lo capisci, vero? Lo sai perfettamente, ti conosco e so che sei una ragazza sveglia che capisce queste cose.

-Si, lo so, le capisco. Però … però è dura. Anche qui in Germania, quando leggevo di Genzo, non esitavano anche solo ad accennare il fatto che ha avuto tante relazioni; mi sento strana Yayoi, non so più cosa fare, che pensare.-

Mi accasciai, lentamente, sul muro del corridoio, lì dove c’era il telefono, e mi passai una mano in faccia, tentando di asciugare le lacrime che, maledizione, non volevano proprio passare.

Lo stavo baciando fino a cinque minuti prima, porca miseria, e ora questo! Ma perché?! Maledizione a questo groviglio di emozioni! Io non sono così emotiva! Io sono forte, sicura di me, decisa.

> Maki non essere così severa con te stessa: hai perso la persona più importante al mondo, è normale che provare a stare con un altro ti faccia sentire così insicura, credimi.

-Ma io non sono una persona insicura! Perché lo sono? Tu ne hai idea?-

-Forse perché non ti fidi di me.-

Alzai lo sguardo, e vidi Genzo in piedi, davanti a me.

No, no ti prego non dirmi che hai ascoltato tutta la mia conversazione. Davvero Genzo, io …

Ma non mi diede il tempo di dare voce ai miei pensieri, perché si piegò e mi prese il ricevitore, parlando con Yayoi.

-Aoba, sono Wakabayashi. Si … ah, ho capito. Si, si certo sta tranquilla. In qualche modo sistemeremo questa situazione. No, no. Certo, lo immagino. Lo so che non sono una persona affidabile, ma ti posso assicurare che non ho nessuna intenzione di combinare casini: ne ho fatti anche troppi in vita mia.-

Aveva un tono di voce tranquillo, inflessibile, forse un po’ freddo, e io lentamente mi alzai in piedi, asciugando le ultime lacrime che mi scendevano dalle guance.

-Si, si andrà tutto bene, fidati. Salutami Misugi. Certo, con piacere. A presto. Ciao.-

E chiuse la telefonata, voltandosi in seguito verso di me.

Io non sapevo cosa dirgli. Non sapevo cosa fare. Avevo solo una parola in testa.

-… scusa.-

La dissi talmente tanto a bassa voce che, di sicuro, non mi aveva sentito. Cosi provai a ripeterla, ma avevo sempre un filo di voce, pertanto strinsi i pugni e tanti di alzare il volume, ma mi uscii un verso abbaiato, anche perché avevo la gola chiusa; io però insistetti, dovevo chiedergli scusa!

-Scusa. Mi dispiace. Scusami! Scusa … scusa!-

-Basta!-

Mi azzittì con un tono di voce infastidito, e io mi ammutolii all’istante mentre lui si avvicinava, e mi guardava con aria ferita.

Ma non mi disse niente, ne fece qualcosa. Si limitò a guardarmi a lungo, con il fastidio che, pian piano, si spegneva, lasciando solo l’aria ferita con cui poi, alla fine, si allontanò, andandosene in camera sua.

Quando lo sentii chiudere la porta della sua stanza, a quel punto, mi voltai, ma ovviamente lui non c’era.

Cos’era appena successo?

-Maki …-

Mi voltai, e vidi Isolde avvicinarsi a me, accarezzandomi affettuosamente una guancia; a quel tocco esplosi, abbracciandola e mettendomi a piangere come una bimba di cinque anni, cercando di soffocare i lamenti nella sua spalla mentre lei mi accarezzava la testa, parlandomi a bassa voce.

-Tranquilla, tranquilla bambina … andrà tutto bene, andrà tutto a posto …-

La mia mamma chioccia …

 

**

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Capitolo 9
*** Fußball (I° Parte) ***


VIII: Fußball

(calcio)

I°Parte

 

La settimana che seguì … beh, la settimana che seguì fu una delle più tremende che avessi mai passato in Germania, neanche i primi giorni, quando mi ero trasferita e non capivo assolutamente niente, non mi sentivo così sperduta e sola. Tremendamente sola.

Oltretutto Genzo sembrava essere deciso a fare la presenza fantasma in casa. Era difficile che ci trovassimo perfino a cena, quando invece eravamo soliti ritrovarci in cucina a chiacchierare, con Isolde che ci teneva compagnia; adesso, mentre mangiavo la mia zuppa, fissavo lo spazio vuoto davanti a me, e ripensavo all’articolo che Yayoi mi aveva letto.

Di sicuro quel giornale aveva ragione, che Genzo era uno scapolo molto ambito; ma nessuno di loro sapeva che era un dispotico, capriccioso bambinone, che quando le cose non giravano come gli andava a lui faceva quel tipo di scenate.

Se inizialmente mi ero sentita in colpa per quello che avevo detto, adesso ero arrabbiata con lui, proprio perché lui faceva così e si rifiutava di vedermi; ma che credeva, che le cose si sarebbero sistemate in questo modo, senza discuterne?!

E tuttavia, ogni volta che mi approcciavo a quella porta, decisa a bussare e ad entrare senza aspettare il suo permesso, in modo da cominciare la nostra discussione con un bel carico d’incazzatura da parte di entrambi, mi bloccavo, e rimanevo a guardare il legno con le sue incisioni, sentendo il coraggio e il fastidio scemare molto velocemente.

Andare al lavoro, oltretutto, non mi faceva sentire meglio, anzi mi sembrava che le cose si dilatassero troppo.

Che stupida! Non avevo preso la palla al balzo e non ci avevo parlato subito, e adesso eravamo impantanati in quella spinosa situazione.

-Hai intenzione di asciugare quel bicchiere per le prossime tre ore?-

Guardai Albert, poi abbassai lo sguardo verso le mani: effettivamente mi stavo accanendo un po’ troppo su quel bicchiere, e imbarazzata lo misi al suo posto, proseguendo ad asciugare; l’uomo, però, non sembrava intenzionato a lasciarmi nei miei pensieri, mostrandomi invece una rivista con una mia foto, forse la stessa che Yayoi aveva visto.

Ecco, lo sapevo, adesso mi avrebbe licenziato perché gli danno fastidio queste cose. Grande, perfetto! Ci mancava solo questa.

Mi fermai, abbassando la testa con aria colpevole verso il lavabo, prima di rivolgere lo sguardo verso di lui. Forse era il caso di chiedergli se voleva che me ne andassi subito, o che prima finissi di sistemare tutto.

-Da quanto tempo state insieme?-

La sua domanda mi spiazzò, e per qualche momento non riuscii nemmeno a pensare ad una risposta corretta, tanto che lui mi guardò dubbioso.

-Hai capito la domanda? Da quanto tempo avete una relazione.-

-Si, si ho capito la domanda, scusa … ehm, direi che sono circa …-

Dunque, lui si è dichiarato che era Giugno, poi però per un mese sono stata dalla signora Hyuga (oddio, la devo chiamare!), e ad Agosto mi sono trasferita da lui. Adesso stavamo a metà Novembre …

-… Circa quattro mesi.-

-Vivi da lui?-

-Si.-

Era inutile mentirgli, tanto era ovvio che mi avrebbe licenziato: i giornalisti sarebbero venuti ad assaltare questo posto, il locale sarebbe stato sulla bocca di tutti e questo avrebbe portato solo grane di ogni tipo; faceva bene a mandarmi via! Ero come il virus dell’influenza: arrivavo, appestavo tutti ed ero solo un fastidio.

Lui però aveva sempre la sua espressione tranquilla, non pareva turbato dalla faccenda.

-Ed è vero che sei vedova?-

-Si signore. Da un anno e mezzo.-

-E che tuo marito era Kojiro Hyuga?-

-Si.-

Sentire il suo nome sulla bocca di uno sconosciuto mi diede una strana sensazione: mi faceva ricordare che mio marito, nonostante tutto, era una persona famosa.

A quel punto Albert poggiò i gomiti sul bancone, guardando il bar, a quell’ora ancora non era arrivato nessuno, e c’era una relativa calma.

-Sai, io ho un nipote che vive a Torino: è sempre stato un fan sfegatato di tuo marito.-

Un fan di Kojiro? Sentire una cosa del genere, dopo un anno mezzo, mi fece nuovamente uno strano effetto, e d’istinto mi avvicinai interessata mentre Albert sorrideva divertito, tirando fuori dal taschino della camicia il pacchetto di sigarette, prendendone una, senza però accenderla.

-Ogni volta che ci troviamo siamo soliti sempre fare lunghe discussioni calcistiche, dato che io ho sempre in testa la mia squadra nel cuore.-

E m’indicò sopra il mobile, lì dove c’erano foto e una sciarpa dei colori de Bayern, e annuii.

-Ebbene, alla fine ci fermiamo sempre sui nostri due giocatori preferiti: Karl Heinz Schneider e Kojiro Hyuga, e indovina? Non siamo mai riusciti ad andare d’accordo su chi fosse il migliore.-

Hai sentito Kojiro? Eri sulla bocca di tutti, anche dei tifosi delle altre squadre.

-Quando abbiamo sentito della sua morte mio nipote mi ha raccontato che i tifosi e la squadra di calcio hanno fatto una fiaccolata in sua memoria.-

Ah si, mi ricordo: mi avevano invitato a parteciparvi, ma io ero talmente dentro il mio buco di depressione che neanche avevo dato una risposta a Ken quando me l’aveva detto.

-Forse non è nulla per te, in fondo sei sua moglie, ma ti posso assicurare che ben poche persone, e parlo di sportivi, rimangono così tanto nel cuore da spingere una serie di sconosciuti a riunirsi insieme per ricordarli.-

Kojiro, eri molto amato anche da altre persone, persone che avevano riconosciuto la tua bravura e il tuo talento. So che la strada che avevi scelto non era stata la più facile, ma ancora adesso la gente ti ricorda; persino il signor Franz ha parlato di te con stima.

Ma questo non cambia la situazione; questo momento di orgoglio non cambia il fatto che io e Genzo non riusciamo ad avere una situazione tranquilla. E se questo coinvolgesse anche la tua memoria io non me lo potrei mai perdonare; e dalle parole di Albert, avevo capito che questa mia nuova relazione toccava proprio questo nervo scoperto.

Cosa potevo fare, Kojiro? Io ti amato, e ti amo ancora. Sei stato proprio tu a dirmi che bisogna sempre andare avanti con la vita, e se non seguissi questa tua unica volontà cos’altro potrei fare?

Intanto era calato il silenzio tra me e Albert.

-Tu ami Genzo Wakabayashi?-

Oddio, queste domande a bruciapelo! Però ci pensai attentamente, ricordando ogni momento speso con lui, dal nostro primo incontro fino agl’ultimi avvenimenti. Lo amavo davvero?

-… ora come ora non saprei come risponderti: se ti dicessi di si, probabilmente, non ne sarei convinta, ma se dicessi di no sarebbe come mentire. Anche per questo motivo sono in Germania.-

Lui annuì, ma come me era dubbioso sulla risposta. Tuttavia, in quel momento, per me la cosa più importante era sapere se mi avrebbe mandato via dal locale o se, al contrario, mi avrebbe tenuta lì nonostante tutto. Dovevo dimostrargli che, anche se c’era la stampa, io non avevo alcuna intenzione di mollare quel lavoro.

-Albert, ti prometto che farò di tutto affinché la stampa non si accanisca su di te e su Gerdi, te lo assicuro.-

-Si, e domani io verrò vestito con una gonna di tulle; Maki, sappiamo tutti e due che, anche se ti sforzi, quelli verranno. Non ti devo ricordare il fan club di Genzo di una settimana fa.-

Oddio, si; oltretutto sono anche tornate più di una volta, portandosi dietro amici che mi hanno subito chiamata e conosciuta, con mia grande vergogna.

-Tuttavia mi sei di troppo aiuto perché ti possa mandare via: sei brava e fai il tuo lavoro con piacere, cose difficili da trovare. E ancora più difficile da trovare è una persona che non se ne cura se la pago come una schiava.-

Sorrisi divertita, scuotendo il capo e riprendendo il lavoro mentre Albert preparava due caffè con la macchina, terminando di parlare.

-E poi chi ti dice che non voglio la stampa? Lo sai quanti litri di caffè si fanno ogni giorno per riuscire a fare un articolo decente? Sono una miniera d’oro, altroché!-

E il mio sorriso si aprì maggiormente, sollevata all’idea che, almeno, il mio lavoro era salvo, e preparandomi alla serata che sarebbe venuta, lanciando solo un ultimo sguardo alla rivista, guardando la mia foto in copertina: avevo la bicicletta e il berretto rosso, ed ero proprio di fronte al bar. E sotto la scritta “Rivelata la misteriosa identità del berretto rosso!”.

Ora anche la Germania conosceva la mia identità.

Ma nessuno sapeva chi era davvero Maki Akamine. Nemmeno io stessa.

 

Quella notte tornai a casa Wakabayashi alle due e mezza passate. Appoggiai la bicicletta sul muro dell’edificio e, silenziosamente, raggiunsi ed aprii la porta d’ingresso, sperando che il caldo interno potesse scacciare via quel fastidioso gelo di Novembre, faceva davvero troppo freddo!

La casa era silenziosa e buia, e presi un profondo respiro mentre mi toglievo le scarpe, lasciandole vicino al mobile dove, solitamente, poggiavamo le chiavi di casa; la casa era in stile occidentale, ma ritrovare la consuetudine dello scalino sollevato da terra che portava al parquet, che portava al gesto di togliersi le scarpe, era una di quelle piccole cose che mi confortava.

Mi mossi verso la cucina, tastando il muro alla ricerca dell’interruttore, notando come la tavola fosse vuota, e tutto fosse pulito; ma, conoscendo la mia “mamma chioccia”, di sicuro c’era qualcosa di preparato in frigo o in forno, e cercai sia qualcosa da mangiare che da bere.

Salsa tonnata! Oddio impazzivo per quella cosa! I crostini, i crostini …

Sentii la porta d’ingresso aprirsi con uno scatto, e mi abbassai dallo sportello della cucina: mi ero alzata in punta di piedi per afferrare il sacchetto, e continuai a guardare l’uscio della cucina, privo di porta, sentendo quella d’ingresso chiudersi, qualcuno poggiava le chiavi nel porta oggetti.

Per un momento ebbi la sensazione di essere dentro un film dell’orrore, con la classica scena della bella ragazza che viene ammazzata o mangiata dal mostro di turno.

In qualche modo sapevo chi fosse, ma la cosa non mi confortava per niente mentre aspettavo, in silenzio, di vedere la sua figura.

-… Maki!-

-Ciao.-

Era vestito per una serata, e la cosa mi piacque ancora meno, obbligandomi a muovere verso il tavolo mentre lui restava fermo sull’uscio della porta. Indugiammo nel nostro silenzio, e questo peggiorò il mio umore: porca miseria dimmi qualcosa! Dimmi perché sei vestito così e perché sei tornato dopo di me a casa!

-Come mai sei uscito?-

-Isolde non te l’ha detto? C’era una cena con i compagni di squadra.-

Cazzo Maki, era solo una cena tra compagnia, solo una cena! Dannazione, perché mi da così fastidio saperlo adesso?

-Non mi ha detto niente …-

-Capisco …-

Dimmi qualcos’altro, dimmelo ti prego!

-Allora buonanotte.-

-Non vuoi niente? Io sto morendo di fame.-

-No, siamo stati in un buon ristorante.-

Cretina, cretina, cretina! Era ovvio che era sazio, era uscito per una cena! Perché fai così?!

-C’era anche il signor Franz?-

-Si, ma lui se n’è andato presto.-

-E tu, invece? Perché sei tornato solo adesso?-

-Cos’è, un interrogatorio?-

Oooh, scusa tanto se sono preoccupata perché l’uomo che dice di amarmi torna alle due e mezza da una CENA con i COMPAGNI di SQUADRA!

-Beh sono curiosa di sapere che hai fatto!-

-Ho cenato e poi sono uscito a bere una birra.-

-Con chi?-

-Con la fata turchina. Con chi vuoi che sia andato?-

-Non mi parlare in questo modo! Ho solo fatto delle domande!-

-Domande molto stupide.-

-Ah, scusami se faccio la stupida, ma sai com’è, sono tornata dal lavoro mentre tu, da una cena, sei tornato alle due e mezza.-

-E questo cosa c’entra?!-

-C’entra perché …-

Perché in queste ore potresti aver conosciuto un’altra!

…oh merda, ma che cazzo di pensieri avevo in mente?!

Strinsi i denti e chiusi la bocca, guardando Genzo che prendeva un profondo respiro, dandomi le spalle e muovendosi verso le scale.

Maki fermalo! Maki fa qualcosa per kami-sama!

-Genzo!-

Lo richiamai che stava già cominciando a salire le scale, ma continuava a darmi la schiena.

-Scusami …-

-Ti ho detto che avevo combinato tanti casini, ma che con te stavo facendo sul serio, non è vero?-

Si voltò verso di me, ed io annuii, non riuscendo a rispondergli a voce.

-Ti ho detto che sei la persona più importante per me, è vero o no?-

-… Si, è vero.-

-Mi credi?-

-Certo che ti credo!-

-E allora cosa vuoi che faccia di più per dimostrartelo? Dimmelo, così lo faccio e ti accontento!-

Non ne avevo la minima idea. E comunque non sarei riuscita a dirgli niente perché il tono che aveva usato nel parlare non mi piaceva per niente.

Lui continuò a guardarmi, aspettando la mia risposta, ma siccome non arrivava alla fine si passò una mano in faccia e riprese a salire le scale. Eh no eh, queste piazzate da film mi davano sui nervi, adesso gli avrei parlato, e stavolta mi avrebbe guardato in faccia!

Salii le scale a tre a tre, riuscendo a superarlo e bloccandolo con il corpo, era buio ma riuscivo a vedergli in qualche modo gli occhi grazie alla luce della cucina, e gli dissi l’unica cosa che mi passò per la testa.

-Posso avere il diritto di avere paura? Posso avere diritto di essere incerta su questa situazione?

Lo so che ti ho detto che voglio stare con te, l’ho detto e sono qui, pronta di nuovo a dirtelo a cuore aperto; ma maledizione Genzo, sento cose di te che non sapevo prima, e che ora devo affrontare una dietro l’altra.

E soprattutto non voglio, in nessun modo, che il nome di Kojiro venga infangato dalla stampa per colpa mia e soltanto perché ho deciso di stare con te.-

-... dunque preferiresti non continuare, se questa situazione tocca Kojiro?-

-Non ho detto questo!-

-Ma è la cosa che al momento ti preme di più, no?-

-Non puoi farmene una colpa! Era mio marito … il mio migliore amico.

Io voglio stare con te, ma non è giusto che per stare con te qualcun altro debba rimetterci.-

-E allora cosa vuoi fare?-

Alzai le mani, avevo voglia di toccarlo, di appoggiarmi almeno alle sue spalle per sentirmelo vicino; ma avevo la sensazione che quel tocco lo avrebbe solo innervosito, perciò me le portai al collo, stringendomelo mentre pensavo a cosa potevo effettivamente fare adesso, dopo quella discussione.

-… non lo so cosa voglio fare.-

Ed era la verità.

Per qualche momento rimase di fronte a me; poi, lentamente, riprese a salire verso la camera, chiudendosi la porta alle spalle mentre rimanevo sulle scale, ancora le mani sul collo, la luce della cucina accesa in quello spazio semibuio.

No, di certo questo non era il “finale idilliaco” che avevo sperato quel giorno, quando era venuto a prendermi all’aeroporto.

Tornai in cucina molto più distrutta di quanto non lo fossi quando ero tornata a casa, il mio stomaco si era chiuso e rimisi a posto quello che avevo preso per mangiare.

Stavo per andare nella mia stanza, quando mi voltai verso il porta oggetti nell’atrio, avvicinandomi e cercando le chiavi della sua macchina. Sia chiaro, non volevo guidarla! È solo che volevo vedere se l’aveva usata per uscire; la trovai in cima al mucchio.

Ma quello che mi sorprese di più fu che, accanto al porta oggetti, c’era un biglietto per una partita che si sarebbe svolta il giorno dopo.

“Bayern Monaco – Hamburger Sport Verein”

Lo guardai a lungo. Poi spensi la luce del corridoio, salii le scale e chiusi la porta della mia camera; appoggiai la schiena e scivolai a terra, continuando a guardare il biglietto e tenendolo in mano.

Stava per affrontare la squadra con cui aveva giocato per molto tempo, e che aveva lasciato per un motivo così grave che non voleva parlarne, eppure mi aveva preso quel biglietto perché voleva la mia presenza in quel momento così importante. E io, invece, mi ero lasciata affogare dalla mia continua ansia.

Pensai a Kojiro, a tutte le volte che io andavo alle sue partite senza che lui avesse bisogno di chiedermelo, come se fosse stata una cosa ovvia; Genzo, al contrario, mi aveva comprato il biglietto, e di sicuro me lo avrebbe chiesto se io non mi fossi comportata da paranoica.

Quando litigavo con Kojiro eravamo capaci di urlare per ore, dicendoci di tutto; poi però ci calmavamo, respiravamo, e riuscivamo sempre a fare pace e a riprendere la nostra vita di sempre. Qui invece parlare con Genzo era sempre difficile, perché effettivamente non potevo sempre dire tutto quello che pensavo.

Mio marito era un uomo orgoglioso, onesto, coraggioso e altruista verso i suoi amici. Ma era anche testardo, aggressivo, diffidente e poco propenso a lasciarsi mettere i piedi in testa dagl’altri.

Genzo è un uomo altrettanto orgoglioso, ma diversamente da Kojiro questo suo atteggiamento è dovuto anche dal fatto che è una persona chiusa: nel poco tempo che l’avevo conosciuto, poche volte l’avevo visto mostrarsi in tutto e per tutto con altri. Certo è arrogante, dall’ironia pungente e facilmente irritabile; ma forse, parte di questo, è dovuto anche dal fatto che si fida poco degl’altri.

Lui si fidava di me. Si fida di me. E io gli avevo gettato addosso tante di quelle stupidaggini; certo, ero confusa, ma che cavolo! Non potevo farmi piegare da tutte le cretinate della stampa, lo sapevo perfettamente da me che una buona parte erano inventate oppure raccontate molto male da persone che non sapevano niente della situazione.

Ma che vergogna Maki Akamine. Ti sei fatto proprio abbindolare per bene. E adesso sai che farai? Andrai a quella partita, ti siederai, ti farai fotografare da tutti i giornalisti possibili e immaginabili e non contenta sai cos’altro farai? Risponderai alle loro domande, onestamente come sempre.

Perché era la cosa giusta da fare nei tuoi confronti, nei confronti di Kojiro e, soprattutto, nei confronti di quella persona che ti aveva sempre parlato a cuore aperto. Genzo Wakabayashi.

 

Il giorno dopo feci un po‘ di telefonate. La prima, la più importante, alla signora Hyuga.

> Pronto?

-Signora Hyuga? Sono Akamine Maki.-

> Maki! Tesoro, come stai?

-Tutto bene signora, la ringrazio. Naoko e gli altri stanno tutti bene?-

> Si, certamente, Naoko è qui con me vuoi che te la passi?

-Ah no, no la ringrazio. Piuttosto volevo parlare con lei.-

La signora non mi rispose, ma io presi un profondo respiro, cercando le parole adatte.

-Sicuramente ha letto qualcosa che riguarda la mia situazione in Germania. Ebbene volevo telefonarle per assicurarle che quello che i giornalisti dicono sono solo stupidaggini, e che non potrei mai dimenticare Kojiro con la velocità con cui vogliono far intendere e poi …-

> Maki calmati, prendi fiato.

Io obbedii. In quegl’attimi di silenzio sentii la signora Hyuga muoversi, allontanarsi dalla stanza di prima, dove c’era Naoko, mettendosi in un posto più silenzioso e tranquillo.

> Io non ho letto assolutamente niente, e non sono interessata a leggerne perché quello che io so di te me l’hai detto tu stessa, e i giornalisti non possono conoscere la verità: solo tu ed io sappiamo la verità su quello che ti ha spinta ad andare via dal Giappone.

Mentalmente ringraziai la signora Hyuga, e lanciai una preghiera alle divinità perché mantenessero sempre in buona salute quella donna, apparentemente così delicata eppure con una tempra d’acciaio. Lei aveva sofferto quanto me la perdita del suo figlio più grande, ma era stata proprio lei, assieme a Yayoi, ad avermi risvegliato dal mio “coma”.

Ah, giusto, dovevo chiamare Yayoi; ci eravamo lasciate male con quella telefonata, di sicuro si sentiva tremendamente in colpa per quanto era accaduto.

> A proposito, come vanno le cose? Tutto bene?

Non volli mentirle.

-Purtroppo non molto, ma credo di sapere cosa fare per risolvere la situazione.-

> … bene, ne sono contenta. Dopotutto sei sempre stata una ragazza sveglia.

-… La ringrazio di tutto, davvero. Lei e i suoi figli siete sempre nei miei pensieri.-

> … e tu sei sempre nei nostri. Sappiamo che è dura, ma sappi che quando vuoi la nostra casa è sempre aperta.

Avrei voluto farle un rispettoso inchino, ma ero al telefono e non sarebbe servito, pertanto chiusi la telefonata commossa, e mi preparai alla seconda chiamata, la più difficile di tutte.

> Pronto, qui ryokan Akamine.

-Sono Maki, vorrei parlare con la proprietaria.-

> … e perché dovrei passartela? Per permetterti di usare una delle tue scuse nel confronti del capofamiglia?

Oba-sama. Mi concentrai il più possibile.

-Chiedo perdono per essermi permessa di chiamare, ma ho urgente bisogno di parlare con mia nonna, e se non potrò parlarle oggi la chiamerò ancora.-

> Abbassa la cresta, tu oramai non sei più niente nella famiglia.

-Non sono più niente per te, zia, ma credo di essere ancora la figlia di mia madre e mio padre e, soprattutto, la nipote di tua madre, cioè mia nonna, la capofamiglia.-

> Come osi usare questo tono!

-Uso questo tono così quello che ti chiedo ti arriva al cervello! Devo parlare con mia nonna, subito!-

Ci fu qualche momento di silenzio, e per un attimo ebbi paura che mia zia mi chiudesse il telefono in faccia.

-Oba-sama, per favore, mi faccia parlare con mia nonna!-

> Oba-sama è tornata alle sue faccende cara.

Nonna, nonna!

-Nonna, stai bene?-

> Benissimo, soprattutto nel sentire la tua voce. Come stai tesoro?

-Oh nonna, sapessi quanto tu e gli altri mi mancate!-

> E tu manchi molto anche a noi, specialmente ai tuoi e a Jin.

Jin … purtroppo non potevo farmi distrarre da quei pensieri.

-Nonna ascolta, ci sono degl’articoli che sparlano di me e Genzo. Non devi dargli credito, anzi devi fare in modo che i giornalisti non vi prendano d’assalto!-

> Se è per questo che ci hai chiamato non devi temere: noi sappiamo come tenere a bada gli sciacalli.

Meno male, che sollievo.

> Tu piuttosto, vedi di darti da fare per allontanarli a tua volta; sembra che tu abbia dimenticato che sei una Akamine, e che queste cose non possono piegarci. Ricordati sempre che la nostra famiglia è una delle poche che discende dalla grande Amaterasu.

Annuii, prendendo un profondo respiro e raddrizzandomi con la schiena. Forse erano tutte favole, ma ogni volta che sentivo quelle parole ero rincuorata,

-Si nonna.-

> Brava piccola, così mi piaci. Dai, ora devo andare, abbiamo del lavoro da sbrigare.

-Nonna, vi chiamerò ancora.-

> Ci conto.

-A presto nonna.-

> Al mio raggio di sole!

Chiusi la telefonata, e guardai l’ora: accidenti, ma era tardi! Rischiavo di arrivare in ritardo alla partita di Genzo!

Yayoi l’avrei chiamata il giorno dopo, me lo ripromisi mentre prendevo la mia borsa e urlavo, aprendo la porta: -Isolde, ich gehe!-

-Spaß!- (divertiti)

Lo sperai con tutta me stessa mentre vedevo Friedrich aprirmi la porta della macchina, e io mi ci fiondai dentro di corsa, supplicandolo di fare il più presto possibile; lui prese quell’ordine alla lettera, e tutto ciò che ricordo fu che stavamo correndo talmente tanto forte che d’istinto chiusi gli occhi, aspettando il momento in cui la macchina si sarebbe fermata.

-Miss …-

Quando li riaprii, avevo davanti la rossa Allianz Arena.

Era talmente grande che, per qualche secondo, temetti di perdermi là dentro; tuttavia ringraziai frettolosamente Friedrich e scesi dall’auto, correndo dentro lo stadio, compiendo meccanicamente tutte le operazioni di mostrare il biglietto, farmelo segnare e cercare il mio posto, chiedendo anche indicazioni.

Mi trovai verso l’anello più basso, a circa metà campo, proprio sopra l’apertura degli spogliatoi; e mentre mi accomodai, tutti i giocatori fecero il loro ingresso in campo.

 

**

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Capitolo 10
*** Fußball (II° Parte) ***


IX: Fußball

(calcio)

II°Parte

 

Riconobbi le uniformi rosse e bianche del Bayern, quelle dell’Amburgo in trasferta invece erano nere, con una striscia blu sul petto; tornai alla squadra di casa, e riconobbi la prima testa bionda che sfilò. Nonostante l’avessi visto una sola volta, il profilo di Karl mi era rimasto impresso. Dovevo ammettere infatti che si, era un bell’uomo.

Alcune facce della squadra mi parvero familiari, tutte dannatamente serie mentre sfilavano, affiancati ai loro avversari.

Mentre passavano sentivo i tifosi, attorno a me, urlare come dei dannati, chiamando i loro nomi e agitandosi, chi con in mano le semplici sciarpe, e altri con grandi bandiere; il mondo intorno a me era chiassoso, agitato, frizzante come il liquido di una bibita gassata agitata. E soprattutto era rosso e bianco.

Poi tutto rallentò non appena lo vidi: l’ultimo della fila, il primo che mi fece effettivamente battere il cuore. Tutta l’emozione di prima era solo un contagio, da parte delle persone che mi circondavano; questa volta, invece, era proprio la sua figura che mi faceva tremare le ginocchia.

La sua uniforme era nera e grigia, e l’unica macchia di colore, come sempre, era il berretto rosso che teneva calcato sulla testa, lo stesso che avevo indossato anch’io qualche giorno prima; sotto di questo, vedevo chiaramente i suoi capelli neri, le mani coperte dai guanti scuri, la sua figura con quelle spalle e la schiena tremendamente ampie, che mi facevano sempre sembrare uno scricciolo al confronto.

Camminava tenendo la testa alta e lo sguardo fiero, come un soldato che sfilava con orgoglio.

Kojiro, al confronto, pareva un gladiatore che entrava in arena: i pugni stretti, le maniche dell’uniforme arrotolata, i capelli neri lunghi e liberi sulla schiena, dove spiccava con prepotenza il suo numero. Quello di Genzo, invece, era grande ma luminoso come un faro, soprattutto per via di quello sfondo nero.

Osservai tutta l’operazione in silenzio: le due squadre si misero in riga, davanti a noi c’erano i tifosi amburghesi, selvaggi nelle loro incitazioni quanto i tifosi di casa; appena suonarono l’inno, l’entusiasmo si smorzò leggermente, e un coro tedesco mi assordò, portandomi quasi a coprirmi le orecchie con le mani.

I miei occhi continuavano a guardare i giocatori del Bayern, e il mio sguardo cercava soprattutto il volto di Genzo. Fui sorpresa nel vederlo pronunciare l’inno, non mi aspettavo che lo sapesse; teneva un braccio sopra le spalle del compagno, ma non era un gesto amichevole quanto qualcosa di automatico, una cosa che andava fatta e basta.

Sentivo la mia sedia piena di spilli, mi veniva voglia di alzarmi in piedi mentre l’ultima parte dell’inno veniva praticamente urlata dai miei vicini di posto; le urla d’incitamento ben presto tornarono, assieme alle bandiere che sventolavano con più forza, vedevo anche grandi striscioni appesi, ma in parte erano illeggibili, e in parte non capivo a cosa si riferissero.

I due capitani si strinsero le mani, e si scambiarono quelle specie di bandierine; poi l’arbitro tirò la famigerata moneta, e alla fine tutti presero posto tra di loro. Osservai Karl, e poi spostai lo sguardo, trovando Genzo sistemato alla sua porta, pronto per la partita.

Strinsi i pugni, e quando l’arbitro fischiò il calcio d’inizio mormorai a me stessa in giapponese, rivolta a quell’uomo vestito di nero: -Koun.- (buona fortuna).

Erano due anni che non assistevo ad una partita di calcio, com’era strano: durante il lutto mi ero rifiutata, all’inizio, persino di assistere alle partite di Jin, durante il campionato del suo liceo, e se c’era qualcosa di simile in tivù la spegnevo. Certe volte arrivando persino a sgridare mio padre o chi la stava guardando.

Volevo diventare cieca e sorda: mi faceva troppo male, anche perché ogni volta che sentivo parole come “gol” o “cannoniere”, mi veniva subito in mente mio marito, il suo talento e la sua passione; avevo persino delle videocassette, dove avevo registrato le sue partite migliori, e c’era stato un giorno in cui avevo pensato di buttarle via. Durante il percorso però mi fermai, rendendomi conto che era una stupidaggine; alla fine le regalai alla famiglia Hyuga. I fratelli ne furono così entusiasti che vollero subito vederle, ricordando con orgoglio quel loro fratellone; anch’io, quando lo vidi nello schermo, mi sentii riempire d’orgoglio

Il pubblico attorno a me aumentò le grida, e subito cercai la porta, temendo che fosse successo qualcosa alla difesa di Genzo; ma no, mi ero sbagliata, l’azione era stata del Bayern contro l’Hamburger, ma era andata a vuoto in quanto il pallone era finita troppo in alto rispetto alla porta. Che sollievo.

Guardai Wakabayashi, ma sembrava molto tranquillo, limitandosi a dare qualche indicazione al giocatore più vicino, facendolo spostare in avanti.

Sembrava un generale nella sua fortezza, niente poteva buttarlo giù o farlo allontanare da quel posto.

Mi venne in mente quando lo vidi per la prima volta, quando era venuto a ryokan con la gamba conciata male: quanto si sentisse a disagio in quell’ambiente, e soprattutto quanto il mobilio gli avesse dato non pochi problemi, soprattutto il letto a terra.

Il portiere avversario, intanto che mi facevo i miei viaggi mentali, passò ad un suo compagno, che subito mandò la palla in avanti, verso i centrocampisti; gli attaccanti del Bayern avevano già iniziato a fare pressing, marcando quanti più giocatori possibili. Tuttavia, uno dell’Hamburger riuscì a superare quella tattica, avanzando e facendosi passare il pallone, andando avanti.

Oh kami marcatelo! Marcatelo stupidi! Fermatelo!!

Sembrava un razzo tanto era veloce, o magari io lo stavo trasformando, con la mia immaginazione, in una specie di Flash del pallone; comunque lo vedevo avanzare troppo alla svelta, tanto che quando vidi la difesa sbarrargli la strada mi sentii sollevata. Ma il sollievo durò poco: i suoi compagni lo stavano raggiungendo, e nonostante anche il Bayern si fosse portato indietro, l’Hamburger aveva tutte le intenzioni di segnare.

Guardai Genzo, e lo vidi muovere leggermente le gambe, tenendo le mani in avanti, gridando qualcosa ai suoi compagni e muovendosi troppo poco rispetto agl’altri giocatori, se stava così fermo non l’avrebbe mai parata!

Eccoli, eccoli sono vicini, SEGNANO!!

Genzo afferrò il pallone con entrambe le mani, uscendo dalla porta per via della sua stessa spinta, e sentii il mare di persone, attorno a me, gridare il suo nome e agitarsi per quella parata. Io, personalmente, presi fiato e cercai di calmare i miei battiti cardiaci, per un attimo avevo temuto il peggio.

Lo guardai aspettare che i suoi avanzassero, e poi rimise in campo la palla, accidenti aveva un calcio molto forte, non me l’aspettavo!

Beh, in effetti non avevo mai visto effettivamente Genzo giocare: alle partite lo guardavo, si, ma controllavo più che altro che non permettesse agl’avversari di segnare, come deve fare un buon portiere; chi guardavo veramente, ovviamente, era Kojiro, mentre correva verso la metà campo avversaria come una furia, pronto a tirare ogni volta che se ne presentava l’occasione.

Ora i miei occhi, però, erano concentrati su Wakabayashi, e sul suo ruolo. E ammisi che quello era un ruolo impegnativo rispetto a quello degl’altri giocatori, e che soprattutto era un ruolo dove i nervi erano messi a dura prova: ti vedevi arrivare addosso gli avversari, decisi a segnarti, in una porta che potevi difendere solo con il tuo solo corpo. Certo, potevi contare sull’aiuto dei difensori, ma tu eri l’unico che, in caso, poteva e doveva prendere la palla.

E le occasioni di segnare, per la squadra avversaria, se ne presentarono ancora. Spesso i giocatori del Bayern li fermavano, quando avevano appena superato la linea di metà campo, ma altre volte gli avversari andavano fino in fondo, ed erano loro stessi a commettere degl’errori, che fossero passaggi troppo lunghi o troppo stretti. Ma almeno altre due volte furono sul punto di segnare. Per altre due volte, quindi, rischiai un infarto.

La prima volta il giocatore era così vicino alla porta che ci sarebbe entrato dentro, e tuttavia Genzo riuscì a deviare il pallone con il pugno, afferrandoglielo in seguito e gridando ai suoi compagni; ed ero certa che non stesse facendo loro dei complimenti. Ma non era incazzato come poteva sembrare: era solo tremendamente serio nel suo ruolo.

In quei momenti, mentre passava la palla al suo compagno, cominciai a provare ancora più stima nei suoi confronti come giocatore: comprendevo perché anche gli avversari lo temessero e lo rispettassero, mio marito in prima fila.

Ora rivelerò una cosa che mi disse, ma che non condivise mai con nessuno se non con me: stavamo proprio guardando una partita dell’Hamburger, quando ancora Genzo ci giocava, e sebbene io non ci prestassi troppa attenzione stavo comunque guardando la partita, e una situazione simile mi si era proposta; allora avevo commentato dicendo “Accidenti com’è incazzato! Se non stesse giocando forse tirerebbe qualche cazzotto!”.

E allora Kojiro mi disse “Ma no, Wakabayashi non tira cazzotti, al massimo ti butta giù a colpi affilati di lingua; ma in questo caso ha ragione, dovevano stare più attenti i suoi.”

Io, con due occhi così, gli risposi “Tu dai ragione a Wakabayashi? Ti senti bene?”

A quel punto mi mise il suo braccio attorno al collo, rispondendomi “Fa poco la spiritosa! Per quanto mi stia sui coglioni è il miglior portiere del mondo, nessuno potrebbe dire il contrario. L’unico che sembrò riuscire a superarlo era Muller, ma anche lui fu battuto da me e gli altri.”

E io “Ma tu gli segnato in porta, no? Perché lo ritieni allora più forte degl’altri?”

A quel punto mi sorrise divertito, e non mi volle rispondere, minando apposta la mia pazienza; da lì partì una battaglia con i cuscini del divano, tra risate e quant’altro, fino a quando non finimmo abbracciati stretti e stremati, mentre la partita andava avanti.

Lui continuò a guardarla, e io assieme a lui, sebbene non la seguissi molto attentamente.

Allora non compresi il suo silenzio, ma forse adesso, mentre guardavo l’Hamburger tentare l’assalto alla porta di Genzo, cominciavo a intuire qualcosa.

Questa volta gli avversari avevano fatto un gioco di squadra, per sviare i difensori del Monaco e tentare di confondere le idee anche a Genzo, e per un istante ebbi proprio la sensazione che lui non se la sarebbe cavata questa volta: si passavano continuamente la palla, come se li stessero prendendo in giro, tanto che mi alzai irritata dalla mia sedia, e senza rendermene conto mi unii al coro degl’altri tifosi.

-PORCA MISERIA, FATE QUALCOSA!!-

-BLOCCATELI, BLOCCATELI MALEDIZIONE!-

-NO SULLA DESTRA, SULLA DESTRA!!-

Vidi uno degl’attaccanti avversari prendere il pallone, girarsi verso la porta e sferrare un tremendo destro.

Urlai il nome di Wakabayashi mentre mi sporgevo dal mio posto, guardando la palla, sicura che stavolta andava dritta in rete; all’ultimo momento, però, Genzo smentì le mie certezze, tuffandosi e afferrando il pallone appena in tempo, finendo a terra mentre tutti noi tifosi urlavamo a quell’azione pazzesca.

Altro che allenamento, quello era Genzo sul campo da calcio! Ed era stato fenomenale! Si era buttato con una velocità incredibile, e aveva preso il pallone senza alcun timore, finendo a terra e facendosi scappare il berretto dalla testa.

Quando si rialzò in piedi era troppo lontano perché lo potessi vedere in faccia, ma vederlo libero da quella barriera mi fece quasi tremare, avevo una voglia tremenda di correre verso la sua metà di campo, giusto per vederlo in faccia. Invece rimasi al mio posto mentre lui rimandava la palla ai suoi compagni, prendendo il berretto da terra e risistemandoselo in testa.

Accidenti, ma sarebbe andato avanti così? Facendomi morire ogni volta d’ansia??

-DAI KARL, DAI!!-

-AVANTI, AVANTII!!-

Mi voltai, riconoscendo il giocatore biondo che correva verso la porta avversaria, e mi sporsi emozionata, seguendo la sua azione: era incredibile! Correva come il vento, e sebbene passasse la palla ai suoi compagni, era lui che faceva la regia di tutta l’azione. I suoi avversari venivano come spazzati via dal turbine che generava, e per quanto si avvicinassero e cercassero di riprendere il possesso di palla, rimanevano sempre spiazzati da quella macchina da combattimento.

Era la prima volta che assistevo ad una partita simile: quando guardavo mio marito, era come vedere una tigre selvaggia che prendeva dominio del campo e sbranava i suoi avversari. Qui, invece, la strategia e la tecnica la facevano da padrone, e sembrava di assistere ad una guerra, una specie di Risiko. Ma era altrettanto emozionante, proprio perché così diversa. E nuovamente, senza rendermene conto, incitai gli attaccanti del Bayern a tirare in porta.

Vidi l’ennesimo passaggio di Karl, fatto per poter superare un avversario; il suo compagno gliela mandò alta, e lo vidi praticamente tirare in aria, riuscendo a non colpire un avversario con la gamba, mentre la palla s’insaccava dentro la rete.

Lo scoppio dei tifosi fu simile a quello di una bomba: tutti si agitarono tremendamente, spingendomi da una parte all’altra per l’entusiasmo e io, dopo un primo momento di confusione, mi unì al loro entusiasmo, cercando in seguito la porta di Genzo.

Batteva le mani, e pareva soddisfatto nonostante fossi lontana da lui e non riuscissi a vederlo.

L’entusiasmo dei giocatori sfumò velocemente mentre tornavano tutti in posizione, ma non appena partì il calcio d’inizio l’arbitro fischiò la fine del primo tempo, facendomi prendere un attimo di respiro.

Ma non appena notai che i giocatori tornavano negli spogliatoi, proprio dall’apertura sotto di noi, mi sporsi più che potei, e non appena vidi Genzo avvicinarsi, non resistetti proprio all’impulso.

-GENZO!!-

Lo chiamai con tutta la mia voce. All’inizio non mi sentii, così tentai un’altra volta, più decisa.

-GENZO! SONO QUI!! QUI SOPRA!!-

Lo vidi guardarsi un attimo intorno, e alla fine alzò lo sguardo verso di me. Appena vidi i suoi occhi neri mi agitai con le mani, per richiamargli la mia attenzione. Ma niente, non sembrò proprio vedermi; al contrario, i tifosi attorno a me notarono che il loro portiere si era fermato, ed entusiasti gli lanciarono un sacco di complimenti urlati. Lui fece un cenno con la mano, e tornò nello spogliatoio.

No, non mi aveva vista. Beh per forza, con tutta quella gente era impossibile che mi vedesse, che scema che ero stata!

-Ehi, ma tu sei la nuova ragazza di Genzo!-

Non so cosa mi diede più fastidio, se il tono troppo urlato e pieno d’entusiasmo o l’appellativo “nuova ragazza”, fatto sta che proprio non evitai di guardarlo male, e lui di rimando alzò le mani in segno di scuse.

-Ah scusami, non l’ho detto in modo molto carino. Comunque sei tu, giusto?-

Se gli dicevo di no avevo l’impressione che non mi avrebbe comunque lasciata in pace, ma se gli dicevo di si lo avrebbe detto a tutto il resto della curva?

-… Beh si, sono io.-

-Che forza, piacere! Io sono Derik! Tu come ti chiami?-

-Maki, mi chiamo Maki Akamine.-

-Che bel nome! Ma è vero quello che dicono, che sei la vedova di Kojiro Hyuga?-

-Si, è vero.-

-Mi dispiace tantissimo, ho letto di quello che ti è capitato, dev’essere stata dura.-

Annuii, non potendo dire altro, anche perché un altro uomo, meno giovane di questo, si fece avanti con aria interessata.

-Ehi Derik, chi è la tua amica?-

Ecco lo sapevo. Sei pronta per la diffusione a macchia d’olio Maki?

-Ferd questa è Maki. Signorina Maki questo è Ferd, un mio caro amico.-

-Piacere di conoscerla.-

-L’hai riconosciuta Ferd? È la donna di cui ti ha parlato mia sorella, la ragazza di Genzo Wakabayashi.-

-Ma dai! Fammi vedere … accidenti, è davvero carina! È persino meglio che in foto!-

Devo ammettere che quei commenti mi fecero molto piacere, e in fondo quel ragazzo, Derik, si limitò a presentarmi al suo amico, raccontandomi che erano grandi tifosi del Bayern e che erano lì per una scommessa persa dall’altro uomo, Ferd.

-Vedi, avevamo detto che se riuscivo a laurearmi entro questo mese mi avrebbe portato alla partita, ed eccoci qua!-

-Quindi ti sei laureato, complimenti! In cosa?-

-Ingegneria, non ti dico la specializzazione perché ci perderemmo il resto della partita.-

Erano tipi molto divertenti, e mi raccontarono un pochino della loro vita così come io gli raccontai un po’ della mia: per lo più quello che avevo fatto in precedenza, compreso l’ambito sportivo.

-Hai giocato a softball? Che forza! Mia sorella sai gioca in una squadra di softball.-

-Sul serio?!-

-Si! Ovviamente sono a livello amatoriale, ma sono brave. In effetti mi ha detto che cercavano un battitore, in caso saresti interessata?-

Lo guardai un po’ sospettosa, e se fosse stato un trucco? Lui però alzò nuovamente le mani.

-Ti posso assicurare che è la verità, posso anche darti la loro pagina web con le foto.-

-Si si, fidati: sua sorella è grande amica della mia ragazza, e anche lei gioca in questa squadra. Anzi, ci siamo conosciuti proprio grazie a loro.-

A quel punto non potei proprio dire di no: mi mancava troppo il softball, e mi ero sempre detta che, se ne avessi avuta l’occasione, avrei di sicuro ricominciato a giocarci. Mi feci dare l’indirizzo internet e il numero di telefono mentre sentivo i tifosi intorno a me ricominciare la cagnara, segno che le squadre stavano tornando in campo.

Lo cercai di nuovo, ma lo vidi semplicemente correre al suo posto, stavolta alla porta opposta, e non me la sentii di ritentare a chiamarlo: adesso doveva solo concentrarsi sulla partita.

E la seconda parte fu ancora più agguerrita: dopo il gol subito, gli avversari intensificarono il numero di attacchi, com’era ovvio, ma al tempo stesso più aumentavano e più sembravano perdere di potenza, tanto che i giocatori del Bayern riuscivano sempre a rimandare indietro la palla, nonostante la difesa si fosse alzata maggiormente, impedendo loro di provare a segnare una seconda volta.

Sembrava che la partita fosse già segnata, quando accadde l’impensabile: all’improvviso ci fu uno scontro tremendo tra due giocatori, e quello dell’Hamburger si accasciò a terra, sofferente, mentre il giocatore del Bayern protestava; arrivarono persino i medici mentre alcuni delle due squadre si avvicinavano. Il giocatore “colpevole” continuava a protestare, e presto Karl intervenne per cercare di calmarlo.

Alla fine l’arbitro, con mia grande sorpresa, tirò fuori addirittura un cartellino rosso, scatenando lo sdegno dei tifosi del Bayern.

-NON PUOI ELIMINARLO!-

-NON ERA FALLO! ARBITRO PAGATO!-

-NON È GIUSTO!!-

Anche il giocatore era d’accordo con i tifosi, ma Karl e un altro biondino lo presero e lo portarono via, raggiunti anche da un altro giocatore che, ora che lo notavo, mi resi conto che aveva dei tratti orientali! Un giapponese?! Ma non mi pareva di conoscerlo, e poi non mi sembrava nipponico.

Fatto sta che tutti si organizzarono per il calcio di punizione. E li veramente mi sentii morire: c’era solo il giocatore e Genzo. Il calciatore e il portiere. Nessuna barriera tra i due.

Se non erano bastati gl’infarti di prima, questa era definitivamente il colpo di grazia per il mio povero cuore.

Osservai la scena nervosissima, tanto che restai alzata sulla sedia, incapace di sedermi; gli altri giocatori erano tutti lontani dalla porta, e due dell’Hamburger stavano parlottando fra loro, probabilmente decidendo su chi dovesse tirare in porta.

Guardai attentamente Genzo, il suo atteggiamento: sembrava così tranquillo, invidiai i suoi nervi d’acciaio. Si stava sistemando tra i pali, mettendosi bene in testa il berretto, per poi posizionarsi mentre il giocatore avversario si portava sul dischetto.

Sentii il cuore aumentare i battiti, oramai tutti i suoni intorno a me erano ovattati; vidi il giocatore avversario prendere la rincorsa, per poi scagliarsi contro il pallone. Ebbi per qualche istante la voglia di chiudere gli occhi, invece li tenni bene aperti: vidi la palla andare in porta, compiendo una curva angolata.

Genzo si piegò più in basso che poté, sporgendosi lateralmente per incrociare la palla, e prenderla con le mani, compiendo al tempo stesso un movimento in avanti per non finire gambe all’aria.

Non ci potevo credere: l’aveva effettivamente … PRESA!!

Urlai con tutto il fiato che avevo in gola, e il resto dei tifosi con me, Derik mi prese per un braccio ma io continuavo ad urlare entusiasta mentre gli altri giocatori del Bayern raggiungevano Genzo, complimentandosi con lui prima di tornare a giocare.

Oramai, però, io non riuscii più a seguire bene la partita: avevo usato tutte le mie energie per quell’urlo, e quando sentii il fischio dell’arbitro che segnava la fine della partita mi sentii quasi sollevata, altre emozioni di quel tipo erano veramente troppo cavolo!

Aspetta … ma era finita la partita! Dovevo raggiungere Genzo al più presto!

-Derik, senti sai come si arriva agli spogliatoi??-

-Ah si: al corridoio qui,  dopo essere scesa le scale vai subito a destra e continua a scendere. Dopo ci sono i cartelli che ti guidano.-

-Grazie! È stato un piacere!-

-Spero di poterti vedere giocare a softball con mia sorella!-

-Si, mi farò sentire!!-

E corsi via, arrivando a spingere gli altri tifosi per poter scendere per prima le scale; seguii le sue indicazioni alla lettera, scendendo la prima rampa di scale e poi andando a destra, notando subito i cartelli fino a raggiungere il corridoio … e anche il cordolo che m’impediva di andare oltre, verso la porta degli spogliatoi.

Beh non mi sarei mai sognata di entrarci dentro! Ma quanto meno avevo raggiunto il posto.

-Ehi, ma quella è Akamine!-

-Si è Maki!-

Mi voltai, e vidi con orrore che una serie di flash mi stavano arrivando addosso, assieme ad alcuni giornalisti, uno di loro per poco non mi colpì con il loro microfono.

-Lei è Maki Akamine, non è vero? È venuta per salutare Genzo?-

-Allora conferma le voci sulla vostra relazione?-

-Da quanto tempo sta andando avanti?-

… avanti Maki, ti eri prefissata l’obbiettivo che, se fosse accaduto qualcosa del genere, avresti risposto alle loro domande con onestà e cortesia. Sei un Akamine, quindi alta la testa e dritta con la schiena! E soprattutto niente paura: loro sono sciacalli, ma tu sei stata addirittura la moglie di una tigre!

-Si, sono Maki Akamine, e si, confermo la mia relazione con Wakabayashi.-

Le mie risposte entusiasmarono i fotografi e i giornalisti, ma mantenni il mio distacco: ogni volta che facevano un passo avanti, io ne facevo uno indietro, e anzi arrivai a chiedere loro di non venirmi troppo addosso, che stavo soffocando.

-Genzo Wakabayashi la sta aiutando a superare il lutto della perdita di suo marito?-

-Inizialmente io e Wakabayashi neanche ci siamo riconosciuti: la nostra conoscenza reciproca era dovuta solamente a mio marito. In seguito abbiamo avuto modo di diventare buoni amici.-

-È vero quello che si dice, che è fuggita dalla sua famiglia per venire qui in Germania?-

-No, sono tutte menzogne: la mia famiglia sa perfettamente che sono qui, anzi ho chiesto loro il permesso di trasferirmi in questo bellissimo paese.-

-Le piace la Germania? Pensa di restarci a lungo?-

-Di certo in questo paese sono stata accolta con molta cortesia dalla sua gente, e mi trovo molto bene. Non so per quanto tempo ancora ci rimarrò, ma spero di poterla visitare, in modo da apprezzarla ulteriormente.-

-Le sembra che lo scandalo successo con l’Hamburger abbia minato la rendita sportiva di Genzo?-

-… Wakabayashi è un uomo molto in gamba, che sa sempre reagire ad ogni situazione: a mio parere non è per niente calato, anzi oggi credo abbia dimostrato ulteriormente le sue capacità, specie quando ha parato quel rigore.-

-Secondo lei quel rigore era regolare?-

-Me lo chiede come tifosa o come sua ragazza?-

E questo provocò qualche risata mentre sentivo una presenza raggiungermi e toccarmi la spalla: mi voltai sorpresa, e subito riconobbi il volto di Genzo, ancora coperto dal suo berretto rosso.

-Genzo …-

-Tutto bene Maki? Ti stanno dando fastidio?-

-No, ho solo risposto ad alcune loro domande.-

-Bene. Signori, ora se volete scusarci, io e Maki vogliamo tornare a casa.-

E come Mosè con le acque del Mar Rosso, i giornalisti si aprirono ai nostri lati, permettendoci di allontanarci, per poi accanirsi su Karl e sull’allenatore della squadra; noi andammo avanti senza mai voltarci indietro, io sentivo la mano di Genzo sulla mia spalla, e solo quando fummo effettivamente fuori, nell’aria gelida di Monaco, lui si staccò da me.

-Sei venuta in bicicletta?-

-No, con Friedrich, ma gli ho detto di tornare a casa perché … sarei tornata con te.-

-Va bene. Vieni allora.-

Non mi guardava neanche in faccia! Non capivo se era arrabbiato o stanco, maledizione!

-Sei arrabbiato con me?! Perché ho parlato con quei giornalisti? Non mi andava più di nascondermi!-

-… no, non sono arrabbiato.-

-E allora cosa c’è Genzo?!-

-… sono contento … che tu sia venuta … e mi dispiace … per … per come mi sono comportato, scusami.-

Mi veniva da sorridere: non mi guardava in faccia perché era imbarazzato! E forse perché un pochino, ma proprio un pochino, si sentiva in colpa di quanto era successo; lo abbracciai dietro la schiena, strofinandomi il volto sul suo giaccone, sorridendo contenta.

-Anch’io sono contenta di essere qui … e mi scuso anch’io: è stata colpa mia, ho avuto paura … ma ora siamo qui, giusto?-

Lui si voltò verso di me, e mi accarezzò il volto, sorridendo divertito come me.

Sarebbe stata ancora dura, quello era solo l’inizio. Ma, almeno, questa prima difficoltà stavamo cominciando a superarla.

 

**

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Capitolo 11
*** Doktor ***


X: Doktor

(Dottore)

 

> Quindi è tutto a posto? Meno male! Sono sollevata! Mi sono sentita così male ieri, mi sono davvero comportata come una stupida …

-Non dire così.-

> Lo sai anche tu che è vero!

Sorrisi divertita, quando Yayoi voleva avere ragione lo voleva e basta. Un po’ come Genzo, ma lei era molto più carina di quell’orso; e poi si poteva dire che lei, un tempo, era stata la mia “infermiera”, e che per tale motivo siamo state molto in contatto, conoscendo l’una i difetti dell’altra. Forse anche per questo ci volevamo così bene.

E soprattutto per questo capivo che il suo modo di fare era stato strano: non era da lei telefonare per un semplice articolo, almeno che non si fosse trattato di qualcosa di grave. Ma quella era la mia semplice foto mentre andavo a lavoro al bar!

-Piuttosto, tutto a posto? Come vanno le cose con Misugi?-

> Ecco …

Bingo. Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava, e conoscendo Yayoi erano essenzialmente due i motivi che l’avrebbero fatta preoccupare o stare male: o la sua famiglia (di cui ci è tremendamente affezionata!) o il suo fidanzato.

-Tutto bene, vero?-

Tecnica del contrappasso: se tu metti una cosa in positivo, l’altro ti darà la versione negativa dei fatti. Ha sempre funzionato con Tomoko, o comunque con quelle persone dal carattere piuttosto tranquillo, che cercano sempre di evitare i conflitti.

> … veramente non proprio. Anzi, non va affatto bene.

Ah-ha! Funziona ancora!

Mi misi comoda sul divano, continuando a tenere il cordless all’orecchio.

-Perché?! Cos’è successo?-

-Diciamo che, ultimamente … Jun è molto nervoso.

-Nervoso? In che senso?-

> Non lo so, non l’ho capisco nemmeno io: inizialmente sembrava solo nervosismo da stanchezza, e da quando ha terminato il tirocinio allo studio medico credevo che le cose si sarebbero appianate come sempre …

-Ma?-

> Ma … le cose non sono affatto migliorate: il giorno che ti ho chiamato, la mattina, avevamo litigato.

Ok, Yayoi Aoba LITIGA?! Yayoi Aoba è la ragazza più tranquilla e dolce che avessi conosciuto! Sentirla dire che “litigava” con qualcuno era come se un canarino cantasse “Welcome To The Jungle” dei Guns N’ Roses! (da quando frequento Genzo, e la sua casa, ho cominciato ad ampliare la mia cultura musicale, e il rock sta diventando il mio genere preferito)

-Accidenti, e perché avete litigato?-

> Se devo essere sincera non me lo ricordo più, era un motivo così stupido che anche se mi sforzo non me lo ricordo proprio: fatto sta che inizialmente abbiamo discusso, poi lui ha alzato la voce dicendo che la colpa era mia, che ero appiccicosa e che lui non riusciva a riposare tranquillo.

Cavolo! Per quanto mi sforzavo, non riuscivo proprio a figurarmela la scena; la prima volta che li avevo conosciuti era stata ad una rimpatriata tra i giocatori della Nazionale, e li avevo fatto amicizia con le altre ragazze. Ricordo che Kojiro voleva assolutamente che io conoscessi Misugi, me ne aveva sempre parlato con grande ammirazione e rispetto, e io fui altrettanto emozionata nel conoscerlo.

Mi era sembrato, fin da subito, un uomo molto amichevole e dal carattere tranquillo, proprio come Yayoi; beh, Maki, mai giudicare un libro dalla copertina! In effetti mi era sempre stato detto che le persone calme sono quelle che, quando si arrabbiano, fanno più paura di tutti.

-E allora tu? Che hai fatto?-

> … niente. Non gli ho detto niente.

-Ah, Yayoi …-

> Ma cosa potevo dirgli?! Ero senza parole! Non l’avevo mai sentito dire una cosa del genere! Ho cercato di chiedergli perché mi dicesse quelle cose, ma non mi ha detto niente.

Sempre la solita: quando le discussioni diventavano difficili si ammutoliva. Sono certa di non averla mai vista veramente arrabbiata.

-Non sarà che ha di nuovo qualche disturbo?-

> Ma no, oramai sono passati anni dall’operazione, e se ci fosse stato qualche problema si sarebbe manifestato prima. Non so cosa fare Maki, non me la sento nemmeno di stare a casa adesso.

-Addirittura?!-

Non mi rispose, ma io intuì che le cose si, erano abbastanza gravi, soprattutto perché Yayoi era una giovane donna con un cuore molto più fragile di quello di cristallo di Misugi: quando ci eravamo conosciute mi ha sempre raccontato, con l’entusiasmo che l’accendeva, di quanto l’uomo era un bravo giocatore, fin da ragazzino, e di quanto lei gli volesse bene. E io intuito che l’affetto che la legava a lui era molto profondo, anche troppo.

Mi ricordai un giorno, dopo la morte di Kojiro, in cui ascoltai involontariamente una loro telefonata: era la prima volta, dopo mesi di convivenza forzata con me, con me che in alcuni giorni ero così giù da poter creare un vuoto dimensionale, che la vedevo trattenere l’emozione, parlando con una voce tale che m’imposi di allontanarmi da lei per rispetto.

> Sto pensando di tornare a casa dai miei, mi sembra la cosa giusta.

-Non sono d’accordo. C’è un problema Yayoi, e non è scappando che lo risolverai.-

> Lo so, ma non cosa fare!

-Ribellati, maledizione! Dice che la colpa è tua, ma se tu sai che non gli hai fatto niente, allora è solo un problema suo! E poi che diamine, tu fai l’appiccicosa?! Ma se è lui che aveva bisogno dell’infermierina fino a qualche anno fa, adesso si permette di criticarti?! Che arschloch!- (stronzo)

> Maki! Non conosco il tedesco, ma di sicuro non hai detto una gentilezza!

Mi venne da ridere, stavo cominciando a prendere confidenza con il tedesco. E poi si sa che le parolacce sono le prime cose che impari quando studi una nuova lingua.

Mi ero alzata in piedi, ma ero talmente presa dalla conversazione che adesso mi era impossibile tornare a sedere, e andavo da una parte all’altra della stanza come un’anima in pena.

-Dai Yayoi, non dirmi che non hai ancora detto niente su questa situazione!-

> … beh … in effetti …

-Yayoi …-

> … baka … (stupido)

-Puoi fare di meglio.-

> … Rokudenashi … (stronzo)

-Ecco, già va meglio!-

> … pezzo di merda … bastardo … vigliacco, vigliacco, vigliacco!!

-Così mi piaci piccola! Ti ricordi quello che dicevi a me? Bisogna sfogarsi in qualsiasi modo, perciò non ti fermare!-

> Maledizione, io mi sono fatta in quattro per dargli una mano, con tutti che mi criticavano e mi davano una stupida! Ma io lo amo davvero e adesso guarda! Guarda in che cavolo di situazione siamo finiti! E da la colpa a me! È lui che vuole sempre strafare, vuole sempre dimostrare di essere il più bravo! Ho fatto infermieristica perché mi piaceva, non per stargli appiccicata, cazzo!

-Accidenti piccola, attenta o ti fai male.-

Tentai di buttarla sul ridere, ma la sentii chiaramente sull’orlo di una crisi di pianto, e mi passai una mano tra i capelli, accidenti che brutta situazione. Meno male che avevo (più o meno) risolto la mia, così potevo concentrarmi meglio sul problema.

-Dai Yayoi, puoi piangere se vuoi.-

> Scusa … scusami, mi dispiace. Quando ho letto il tuo articolo non so cosa mi è preso.

-Io lo so: ci chiama gelosia. E grazie ne soffri anche tu!-

> Si ma è diverso! Tu non meriti questo: sei in gamba, lo hai sempre dimostrato dopo la morte di Hyuga. Sei andata avanti, sempre. Forse Jun ha ragione, forse sono infantile.

-AH! Ti ha detto anche questo? Lo sai che comincio ad odiare il tuo ragazzo?!-

Lei non mi rispose, forse perché stava singhiozzando ancora più forte di prima. Accidenti, non so proprio come comportarmi di fronte alle lacrime degl’altri; mi avvicinai alla grande finestra del salotto, da lì la vista dava sull’ingresso, con il cancello e, davanti, la strada che portava in città. Oltre di questa, un parco con alberi e verde.

-Scusami, questo era troppo.-

> No, hai ragione. Hai ragione tu, in tutto: devo restare qui, provare a parlarci di nuovo, o quanto meno a farmi sentire.

-E comunque, se vuoi davvero una pausa, puoi sempre venire qui da me. Tanto un piccolo spazio per te lo troviamo, al massimo dormo io sul divano!-

La sentii sorridere, meno male. Ma tanto non dovevo preoccuparmi: se c’era una cosa che avevo imparato, è che Yayoi Aoba aveva una tempra d’acciaio.

> Invece, cambiando discorso, ora cosa farai? Ricomincerai a giocare?

-Mi piacerebbe, è da tanto che non gioco più. Oltretutto qui non è livello agonistico, quindi non credo ci saranno complicazioni.-

> A proposito, hai poi cercato un medico?

-Beh no, devo ammettere di no.-

> Perché non chiedi a Wakabayashi? In fondo deve ancora fare qualche visita di controllo, se non mi sbaglio; potresti chiedergli di accompagnarti dal medico, e da lui farti suggerire uno bravo.

-Non lo so …-

> Maki, ora sono io che devo sgridare te? Oltretutto sempre per la stessa storia?

Uffa, non mi piaceva quando Yayoi aveva ragione sul mio stato di salute, perché tutti avevano sempre avuto ragione sul mio stato di salute!

> Lo so che è difficile perché sarà un ginecologo nuovo, ma tu più di tutti devi farlo.

-Va bene, va bene, ne parlerò con Genzo.-

> Sai, sono contenta che hai cominciato a chiamarlo per nome: significa che il vostro rapporto si è fatto più profondo, giusto?

Sorrisi, un po’ imbarazzata.

-Si, è vero. Per quanto a volte sia un orso arrogante, sono felice di stare con lui.-

> Ci credo: l’ultima volta che ti ho sentita così piena di vita è stato durante il ritiro della Nazionale, quando eravamo solite uscire con Sanae e le altre.

-Ah già! Sanae! Come sta?! Il bambino?-

> Sta bene, mi ha mandato una foto via mail, è bellissimo, assomiglia tanto a Tsubasa.

-Me la puoi mandare in qualche modo?-

> Se conoscessi la tua mail! Ma tu sei sempre stata un po’ la preistorica.

-Ehi, al ryokan non c’era la connessione internet!-

Ma lì si, e c’era anche un computer. Hm, forse era il caso di pensare seriamente ad aprirmi una nuova finestra. Anche perché Derik mi aveva dato l’indirizzo blog della sorella, per poter vedere le foto e conoscere in qualche modo la suqadra.

E forse … forse avrei potuto capire la storia di Genzo con l’Hamburger, non mi ero certo scordata della domanda che mi aveva fatto il giornalista: lui aveva parlato di scandalo, e nell’articolo letto da Yayoi si parlava di una modella e di droga. Lui non è assolutamente un tipo da usare droghe o cose del genere, ma se era coinvolto un motivo c’era, e per il momento lui non me lo avrebbe detto.

> Ora devo andare, tra poco inizio il turno all’ospedale.

L’avevo chiamata verso le dieci della mattina dopo la partita. Contando che c’erano otto ore di fuso orario, erano le sei di pomeriggio, doveva cominciare il turno notturno.

-Va bene, allora ci sentiamo presto. E mi raccomando: se succede ancora qualcosa con Misugi mi devi chiamare, SUBITO, chiaro? E comunque ricordati che, davvero, se vuoi venire qui sei la benvenuta.-

> Grazie Maki, ci penserò, davvero. Tu stammi bene, e mi raccomando cercati un ginecologo.

-Lo farò, promesso. Ciao.-

Presi un profondo respiro, guardando il paesaggio fuori dalla vetrata, nonostante il cancello m’impedisse di avere una buona visuale; si, Yayoi aveva ragione, il mio fisico doveva ancora essere tenuto sotto controllo, anche se questo significava metterlo nelle mani di uno sconosciuto, per quanto qualificato che fosse.

È strano: non avevo mai considerato il mio corpo con grande stima. Era atletico, ma mi causava dei problemi, e dovevo sempre stare attenta a come lo usavo; non ero particolarmente bella, ma non me ne preoccupavo perché non pesavo ad avere ragazzi, o a fare sesso. Poi ho conosciuto Kojiro, e il mio problema mi apparve per quello che era davvero.

Temevo che fare l’amore con lui mi avrebbe provocato dolore, o peggio mi avrebbe causato un sanguinamento, e quindi lo avrei disgustato; per molto tempo ebbi paura quando mi baciava e mi toccava, e quando gli raccontai del mio problema la paura non se ne andò di certo, anzi si fece ancora più forte, adesso credevo che mi avrebbe addirittura lasciato.

Invece l’unica cosa che io lasciai fu il softball, il mio più grande amore dopo Kojiro. Ne soffrii così tanto che adesso che avevo una possibilità mi sentivo tremendamente in ansia.

Poi, quando cominciammo a parlare di matrimonio, mi si presentò davanti il fatto che, di sicuro, non avrei mai potuto avere figli: l’Endometriosi provoca, infatti, infertilità, e questo non potevo accettarlo. Avevo sempre sperato, se mai mi fossi sposata, che avrei voluto crescere almeno tre figli. I figli miei e di Kojro. Invece, dopo la cerimonia, avevo sempre il terrore di non riuscirci, e quando rimasi incinta fu davvero un sollievo. Ma il mio corpo non ebbe la forza necessaria, e abortii.

Però i dottori mi dissero che c’era ancora la possibilità, e già mi preparavo a riprovarci; ma venni stuprata, e persi mio marito. Durante la depressione pensai che fosse colpa del mio corpo se Kojiro era morto: se fossi stata in grado di dargli un figlio, allora non ci saremmo ritrovati ad uscire fuori da quel maledetto cinema, e non saremmo stati aggrediti, e Kojiro non sarebbe … non sarebbe morto.

In effetti, ho sempre odiato il mio corpo: non mi ha permesso di diventare una sportiva, né una madre. È sempre stato un ostacolo insormontabile per tutti i miei progetti; e lo sarebbe stato a lungo, molto a lungo.

-Maki?-

Mi voltai, stupita: Genzo.

-Tu che ci fai qua? Non hai allenamenti oggi?-

-Il lunedì è libero, per tanto me la sono presa comoda.-

-Ah, Genzo Wakabayashi fa il pigro, questa è una novità!-

Lui sorrise ed entrò nel salotto, avvicinandosi. Io avevo ancora il telefono in mano.

-Hai parlato con Aoba? Mi avevi detto che dovevi assolutamente telefonarle.-

-Si, le ho detto che, in qualche modo, abbiamo sistemato la faccenda. L’abbiamo sistemata, vero?-

Lui sorrise divertito, e mi spettinò i capelli come al solito. Ma quanto mi dava fastidio!

-Ah smettila!-

-Avete parlato d’altro?-

-A quanto pare lei e Misugi hanno dei problemi: hanno litigato, e lui le ha rinfacciato che è troppo appiccicosa.-

-Aoba è sempre stata una ragazza affettuosa …-

-Non hai idea di quanto mi abbia aiutata durante il lutto, per uscire fuori dalla depressione, e posso dirti che non è assolutamente quel tipo di persona!-

Lui mi guardò un po’ sorpreso, poi annuì.

-Le ho detto che, se voleva, poteva venire qui. Ti da fastidio?-

-No, per niente. Anzi, forse ti farebbe bene rivedere qualche faccia amica.-

Ok, mi appoggiava, bene!

-Altro?-

Ah, cavolo, gliene dovevo parlare.

Però le sue domande erano state un po’ troppo specifiche. Non era che forse …

-Genzo, ma mi hai ascoltata?-

-Solo l’ultima parte, quando vi siete salutate, giuro. Però la telefonata è stata lunga, no? Ti ho sentita chiamare circa tre quarti d’ora fa.-

-In effetti non sentivo Yayoi da tanto, abbiamo parlato del più e del meno.-

Glielo dovevo dire, glielo dovevo chiedere, dopotutto l’avevo promesso a Yayoi, e dovevo comunque farlo anche se non mi piaceva.

-Senti, volevo chiederti …-

-Si?-

-Devi fare un’altra visita di controllo per caso?-

-Beh, devo prenotarmi per l’ultima, e pensavo di andarci oggi che ho il giorno libero. Perché?-

-Ecco … vorrei parlare con il tuo medico.-

-Se è per le medicine guarda che le prendo! Non faccio i capricci come al ryokan.-

Mi venne da ridere, ma che scemo!

-Non è per questo! È che …-

Dio, com’è imbarazzante! Ma se non lo dico a lui, a chi mai potrei dirlo.

-Si tratta della mia Endometriosi: devo trovare qualcuno qui, per fare i miei accertamenti.-

Lui mi guardò sorpreso. Cinque secondi dopo lo vidi farsi più serio, aveva l’aria pensosa e questo m’incuriosì.

-Si, mi sembra la cosa migliore da fare; per altro il dottor Shnauzer è un medico molto qualificato, e sono sicuro che conoscerà un ottimo specialista.-

-Grazie Genzo.-

-Figurati, questo e altro.-

E mi baciò affettuosamente i capelli, facendomi sorridere. Al tempo stesso, però, quel bacio, e soprattutto il nostro discorso, mi spinsero di nuovo nei pensieri precedenti, e mi chiesi quanto poteva piacergli il mio corpo, e se mai gli poteva piacere.

In fondo lui aveva conosciuto modelle e donne molto belle, dai corpi splendidi. Io … potevo dire che ero un’atleta, potevo dire com’era fatto il mio corpo, ma quello che volevo sapere era se accettava un corpo con un problema con il mio, se mai desiderasse farci sesso. Ma era una domanda talmente intima e imbarazzante che non me la sentii di farla.

-Senti, pensavo di fare una corsa al parco qui davanti, ti va di venire? Tanto, oramai la nostra relazione è di dominio pubblico!-

-Ti ho già detto che non mi andava più di nascondermi! E ti ho anche chiesto scusa!-

-Si, infatti, infatti.-

E mi mise un braccio attorno alle spalle, trascinandomi con me fuori di casa, avvertendo Isolde all’ultimo momento mentre io gli prendevo il berretto rosso, alzandomi in punta di piedi per metterglielo in testa.

-Così, perfetto. In questo modo ci vedranno sicuramente.-

-E ci faranno un sacco di foto.-

-Pensi che mi sarei dovuta mettere un po’ di trucco?-

-Non ne hai bisogno, sei bella così come sei.-

Accidenti a lui e alle sue uscite imbarazzanti! Aprì la porta d’ingresso, e quel giorno il sole era bello luminoso, tanto da accecarmi, nonostante il freddo che ci arrivava addosso; con mia grande sorpresa, si voltò verso di me e portò il braccio indietro, aprendo la mano come ad offrirmela.

-Allora, andiamo?-

-… si!-

Gli presi la mano contenta, e chiudemmo la porta alle nostre spalle, avviandoci verso una lunga e tranquilla passeggiata nella zona verde di fronte alla villa.

 

L’appuntamento di Genzo dal dottore era previsto alle cinque, ma io già dalle quattro e mezzo ero nervosa, e ora che stavo aspettando con il portiere dentro lo studio ero ancora più nervosa; stringevo spasmodicamente le mani sopra i jeans, e la mia testa era completamente vuota mentre continuavo a guardare prima la porta, chiusa, dello studio, poi la sala d’attesa, a parte noi due non c’era nessun altro, la sua segretaria era in un’altra stanza.

-Ehi, calmati, guarda che deve controllare me.-

Mi bisbigliò all’orecchio, e inizialmente la vicinanza mi fece venire un colpo; poi spostai lo sguardo verso di lui, e lo vidi sorridermi, ma più cerca di dimostrargli che stavo bene, più mi sentivo prendere dall’ansia. Forse anche per questo si sporse una seconda volta verso di me, cinque minuti dopo.

-Non ti piacciono questi posti, vero? Hai le spalle così rigide che rischi di farti male.-

-… è che … ogni volta che andavo dal dottore, non erano mai buone notizie.-

-Beh, se vai da un medico, non è per dirgli “ehi, guardami! Sono un sano come un pesce, tiè!”-

Mi venne da ridere, ma soffocai comunque la risata nonostante fossimo gli unici esseri viventi (pianta a parte) all’interno di quella stanza.

-Questo è vero. Però … ogni volta che mi presentavo da un medico … erano sempre cose serie.-

“Temo che dovrai lasciar perdere il softball per un po’”

“Se continui così metti a rischio la tua salute.”

“È necessario asportare, non c’è altra scelta.”

“Devi scegliere se vuoi continuare a fare sport, o se vuoi rinunciarvi.”

“Sarà difficile per lei rimanere incinta, se ne rende conto?”

“Mi dispiace, ma il bambino non c’è l’ha fatta.”

-È strano: l’unica volta che ho avuto buone notizie da un medico, è stato quando sono rimasta incinta. Ma poi ho perso il bambino.

Ah scusami, non dovrei dire cose del genere …-

-Finsicila.-

L’ho disse in modo secco, ma mi prese la mano e me la strinse, facendomi sentire la sua vicinanza. Lo guardai sollevata, e lentamente gli feci sciogliere la presa, solo per poter intrecciare le mie dita con le sue; la mia mano, in confronto alla sua, era come quella di una bambina.

-Hai le mani enormi, sai?-

-Meno male, altrimenti non potrei fare bene il mio lavoro, no?-

-Sei stato incredibile alla partita! Sul serio! Mi hai fatto venire almeno uno o due infarti, specie a quel calcio di rigore.-

-Già, anch’io ero abbastanza nervoso.-

Notai che i suoi occhi si erano incupiti, probabilmente stava pensando a quello che era successo con la sua vecchia squadra; beh, quello era un buon momento per chiederlo, non c’era nessuno, ed eravamo entrati tranquillamente in argomento. Però chiederglielo direttamente di sicuro lo avrebbe ammutolito, perciò dovevo trovare un modo per essere delicata.

-Com’è stato … affrontare i tuoi ex compagni?-

Lui prese un profondo respiro.

-Non è quello che m’innervosiva: ogni volta che mi scontro con Tsubasa, o con gli altri, è sempre un’emozione. Non hai idea di come ero eccitato ogni volta che dovevo avere a che fare con Hyuga!-

-La stessa eccitazione che aveva lui quando doveva scontrarsi con te.-

-Davvero?-

Mi guardò con un’aria entusiasta, e mi venne da sorridere, in quel momento mi ricordava proprio Kojiro.

-Si: si svegliava prestissimo la mattina della partita, e fino a quando non andava in campo non faceva altro che dire “Oggi gli faccio almeno tre tiri! Gliela buco quella porta, altroché!”-

-Il solito pallone gonfiato.-

-Ehi, guarda che sono sicuro che dicevi più o meno le stesse cose.-

Gli presi il berretto che teneva sulle gambe, me lo misi in testa e cercai, provando a non ridere come una matta, d’imitarlo il più possibile.

-“Tzé, oggi mi batterò contro Hyuga! Non gli farò passare nemmeno un tiro! La tigre non ha speranza contro il portiere più forte del mondo!”-

-Ehi, io dicevo solamente “della Germania!”-

E ci mettemmo entrambi a ridere. Proprio in quel momento si aprì la porta, rivelandomi, per la prima volta, la faccia del dottor Shnauzer: un uomo di cinquant’anni con i capelli sale e pepe, in quel momento portava gli occhiali, e aveva il volto sbarbato.

-Signor Wakabayashi? Prego, si accomodi.-

-Può venire anche la signorina Akamine? Avrebbe bisogno di parlarle dopo la mia visita.-

-Ma certo, prego. È un piacere conoscerla finalmente di persona, se non sbaglio ho parlato con lei qualche mese fa.-

-Si, certamente, il piacere è mio.-

-Prego, lei si accomodi pure sulla sedia, il signor Wakabyashi invece si metta pure sul lettino e si tolga i pantaloni.-

Oh kami! Cosa?!

Seguii Genzo con lo sguardo, e lo vidi effettivamente avvicinarsi al lettino, slacciandosi per prima cosa la cintura; ma non appena lo vidi sbottonarsi i pantaloni, cercai subito qualcosa sulla scrivania del dottore che potesse distrarmi da quello che stava accadendo. Oh cazzo! Non avevo mai visto Genzo in mutande! Neanche al ryokan!

-Bene, si metta pure seduto. Adesso mi dica se le faccio male da qualche parte.-

Ci fu qualche secondo di silenzio, e molto timidamente tentai qualche occhiata, trovando per prima il conforto del camice bianco del dottore, ma trovando subito dopo la pelle del … ginocchio? Polpaccio? Non sapevo nemmeno che punto era del corpo, ma appena lo vidi distolsi subito lo sguardo.

Ah, se Oba-sama avesse assistito la scena sarebbe sbiancata! Che ridere!

Presi nuovamente coraggio, e di nuovo guardai prima il bianco della stoffa, e in seguito ritrovai quella pelle, era del ginocchio, poi vidi la coscia … e le mutande di Genzo! Waaah!!

-Bene, mi sembra che non ci siano problemi. Come hai sentito il muscolo durante la partita? Reagiva bene?-

-Si, normalmente, sono riuscito a dare una prestazione discreta.-

-Ah, discreta? Dottore, se lei avesse visto la partita avrebbe visto a cose incredibili.-

Mi permisi di commentare, guardando i due uomini, e qualche secondo dopo mi resi conto che stavo guardando le gambe aperte di Genzo … e ovviamente anche quello che c’era in mezzo, e come può l’occhio non cascarti?! Anche perché … aveva delle gambe davvero muscolose e lunghe, vero, però nonostante lo slip nero … beh, un po’ si vedeva la forma … di quello che c’era sotto.

OH KAMI!! IMBARAZZO TOTALE!!

Deviai assolutamente lo sguardo mentre il dottore parlava tranquillamente con il suo paziente.

-Sembra che la signorina Akamine abbia molto apprezzato la partita, vero?-

-Si, molto, mi sono molto divertita.-

-Bene signor Wakabayashi, vada pure dietro la tenda che concludo il suo esame.-

Captai i loro movimenti, e quando scomparvero dietro la tenda mi rilassai un pochino, sentendo solo del frusciare e poi un lungo momento di silenzio, prima che il dottore parlasse di nuovo.

-Bene, anche questa zona è a posto. È tutto a posto, vero? Funziona in modo regolare?-

-Direi di si.-

-Anche per quanto riguarda i rapporti intimi?-

Rapporti intimi? Oh cavolo!

-Ultimamente non ne ho avuti, ma non credo ci siano problemi.-

-Bene, mi fa piacere sentirlo. Allora si può rivestire, che intanto faccio una chiacchierata con la signorina Akamine.-

Aveva indossato i guanti di gomma, e li tolse buttandoli nel cestino, prendendosi anche una salvietta umida e profumata.

-Allora, mi dica, come potrei esserle d’aiuto?-

Ora diventava difficile; volevo aspettare Genzo, ma non potevo certo far attendere il dottore.

-Ecco, vede, io soffro di Endometriosi …-

Controllai il suo volto, ma non vidi nessun cambiamento, perciò andai avanti con più tranquillità, cercando di ricordarmi bene il discorso che mi ero preparata a mente in tedesco.

-In Giappone ero sotto il controllo di uno specialista, ma ora qui in Germania devo trovare un altro ginecologo, soprattutto perché devo fare controlli periodici e mi devo far prescrivere i farmaci specifici; mi chiedevo se lei potesse indicarmi qualche nome, o comunque indirizzarmi verso persone che potevano consigliarmi.-

Genzo arrivò in quel momento, accomodandosi accanto a me mentre il dottor Shnauzer si prendeva qualche secondo, prima di parlare, muovendo le mani sulla sua scrivania, prendendo carta e penna.

-Conosco un ottimo ginecologo … un mio caro amico di università … che potrebbe fare al caso suo; s’interessa a questo tipo di patologie, e credo che potrebbe trovare in lui una persona molto affidabile.-

E mi diede il foglietto di carta. “Aaron Himler”. Non so perché, ma quando lessi quel nome mi sentii sollevata.

-La ringrazio dottore.-

-Si figuri. Quanto a lei, signor Wakabayashi, per quanto si sia messo d’impegno per rendermi la vita difficile, posso affermare che lei è perfettamente guarito, nonostante i suoi tentativi di sabotaggio.-

Già, proprio tipico di Genzo. Mi scappava da ridere, e lui aveva il solito sorrisetto da ragazzaccio.

-Spero proprio di vederla su un campo di calcio, la prossima volta, e non qui in clinica.-

-La ringrazio dottore. Le auguro buona giornata.-

-Altrettanto a lei. Signorina.-

-Grazie dottore, arrivederci.-

Gli stringemmo la mano, e uscimmo dalla clinica. Appena io fui fuori, provai un certo piacere nel sentire l’aria gelida di Novembre.

-Allora. Hai ricevuto notizie buone o cattive oggi?-

Io guardai Genzo, sorpreso, non credevo che avrebbe ripreso quel discorso; gli sorriso, contenta.

-Direi buone notizie, no?-

 

**

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Capitolo 12
*** Probleme und Losungen ***


XI: Probleme und Losungen

(Problemi e soluzioni)

 

So che a Genzo piaceva bere, l’avevo intuito al ryokan. Quando aveva cominciato? Sicuramente prima di conoscermi. Probabilmente, però, lui era una di quelle persone che semplicemente godeva nel sorseggiare l’alcol, e non ne rimaneva assuefatto.

Personalmente non ho mai imparato ad apprezzarlo: il saké non mi piaceva, il suo sapore era troppo forte. Anche Kojiro, come me, non beveva, l’ho visto al massimo bersi la birra con gli amici, ma sembrava farlo più per compagnia.

Non saprei dire se mi piace o meno questo vizio di Genzo. Ma quando lo sbirciai quella sera, dalla porta semichiusa della sua stanza, e lui mi dava la schiena sorseggiando quel calice di liquore, il semplice movimento di tastare il liquido sule sue labbra mi tenne con i piedi bloccati, la mano incapace di aprire la porta: la scena, infatti, mi lasciò addosso una malinconia tremenda, profonda e cupa, così come lo era il suo sguardo, quando mi mostrò il suo profilo. Fortunatamente era sera, e il corridoio buio mi nascondeva alla sua vista.

La mia intenzione di parlargli, di dirgli della mia visita dal ginecologo, delle novità e, soprattutto, del mio desiderio di partecipare alla festa al quale era stato invitato, a cui mi aveva chiesto di partecipare con il solito sorriso ironico mentre diceva “oramai è ufficiale, perciò voglio mostrare a tutti la mia donna, in modo che nessuno si permetta di starti troppo accanto”, si spense nella crescente ansia di capire dov’erano i suoi pensieri in quel momento.

Ma andiamo con ordine.

Subito dopo la visita di Genzo dal dottor Shnauzer, tornata a casa avevo preso la cornetta del telefono e contattato il signor Himler; a rispondermi fu lui di persone, e io gli parlai di me e del mio problema.

-…e dunque comprende che avrei bisogno di farmi visitare da un esperto, e il dottor Shnauzer mi ha raccomandato a lei.-

> Si, capisco. Allora senta, lei sarebbe disponibile a presentarsi qui domani mattina? Ho un buco alle dieci, per lei sarebbe un problema?

Avevo il turno a lavoro di pomeriggio, non potevo chiedere di meglio!

-No, no anzi! È perfetto!-

Forse avevo messo troppo entusiasmo nel mio tono di voce: vidi Genzo sorridermi con aria divertita, appoggiato allo stipite della porta, ma mi limitai a fargli la linguaccia mentre il dottor Himler continuò a parlarmi, ripetendo l’orario del nostro appuntamento e dandomi l’indirizzo della sua clinica; quando chiusi la telefonata, mi sentii confusa, direi quasi sollevata.

-Allora? Che mi dici?-

Alzi lo sguardo verso Genzo, era ancora appoggiato allo stipite della porta della cucina con le braccia incrociate.

-Ho appuntamento per domani mattina alle dieci!-

-Non mi sembri entusiasta.-

Sorrisi alla sua ironia, e rimasi appoggiata al mobile dov’era il telefono, abbracciandomi e prendendo un profondo respiro: che sollievo, avevo trovato un ginecologo anche qui a Monaco. Dovevo avvertire mia nonna e i miei, ero sicura che anche loro fossero preoccupati per il mio stato di salute.

Le braccia di Genzo mi strinsero, e io appoggiai le mani sul suo petto, sentendo il calore che veniva da sotto la sua felpa.

-Tutto bene?-

-Si, tranquillo: sono contenta di essere riuscita a fare anche questo, ora devo solo avvertire i miei della novità.-

-Sempre che tua zia ti permetta di chiamarli.-

-Oh, figurati, male che vada mi contatteranno per sapere.-

-Sicura che sia tutto a posto? Non ti vedo contenta.-

-Ma si, si non ti preoccupare.-

E gli sorrisi intenerita, e guardai la sua espressione corrucciata distendersi leggermente.

-Tu piuttosto, stamattina avevi l’aria musona. Non che sia una novità, però eri più pensieroso del solito.-

Il nostro continuo punzecchiarci, ad occhi estranei, poteva sembrare una strana quotidianità. Lui sorrise con la sua solita aria da ragazzaccio, per poi spingermi verso la cucina.

-Ho ricevuto una telefonata dal signor Beckenbauer: ci sarà una festa di beneficienza tra una settimana, alla quale noi della squadra dobbiamo partecipare.-

-Dovete?-

-Dobbiamo.-

Genzo non era tipo da accettare quel tipo di imperativi (lo so per esperienza personale, ricordate la lotta per fargli prendere la medicine? Che sudata!), per tanto ero sorpresa dal suo modo di fare accondiscendente. Anche per questo motivo continui a guardarlo mentre si prendeva il caffè, aspettandomi da lui una risposta ai miei interrogativi.

Sospirò.

-È una serata di beneficenza, non uno dei soliti “party” che si danno per compiacere la stampa, pertanto non mi da fastidio esserci. Anche perché ci sarà obbligatoriamente anche Karl.-

-Quindi ci vai solo perché c’è il tuo amico a doversi sorbire i vari discorsone, giusto?-

-In più lui dovrà fare un discorso a nome della squadra, dato che è il capitano: sarà un piacere prenderlo in giro per tutta la serata.-

-Ma quanto sei simpatico.-

-Si, lo so.-

Sorrisi divertita, e mi presi un boccone della nuova torta di Isolde, se la donna aveva intenzione di farmi ingrassare beh, aveva buone possibilità di riuscita, anche perché tutto quello che preparava era sempre maledettamente buono!

-Ah, è richiesta anche la tua presenza: il signor Beckenbauer mi ha espressamente chiesto di invitarti e di esortarti a venire.-

Eh?

-Eh?-

-Di che ti sorprendi? A volte mi chiede di te agl’allenamenti, sembra che il tuo fascino esotico lo abbia stregato!-

Doveva fare poso lo spiritoso, si trattava di un evento mondano, una di quelle cose a cui io partecipavo solo come membro della famiglia Akamine, e molto raramente come moglie di Kojrio, anzi: onestamente, né io né mio marito amavamo farci vedere a quel tipo di eventi, li ritenevamo solo uno spreco di boria e noia.

-Non credo sia una buona idea.-

-Spiacente, non sono accettati rifiuti. Inoltre il nostro rapporto è ufficiale, perciò voglio mostrare a tutti la mia donna, in modo che nessuno si permetta di starti troppo accanto; permetto solo a Beckenbauer di farti le galanterie perché lui è uno dei miei capi.-

Da una parte mi faceva sorridere la sua “possessività”, se così vogliamo chiamarlo. Dall’altro, però, non mi sentivo comunque a mio agio.

-Non sono mai stata ad una cosa del genere.-

-Tranquilla, se stai con me e fai quello che faccio io, andrà più che bene.-

-Hm, non credo che fare la sarcastica presuntuosa con tutti migliorerà la mia immagine ai presenti.-

-Touché.-

Pensavo che con il lavoro avviato e la visita confermata avessi la strada spianata verso una vita più tranquilla, invece mi ritrovavo anche quell’incombenza! Sorseggiai il the e ci rimuginai sopra.

-Avrò bisogno di un abito elegante, vero?-

-Beh, jeans e maglietta non sono propriamente adatti per una serata di beneficenza, ma se ti fanno sentire tranquilla.-

-E farti sfigurare con il mio splendido fisico? Non credo me lo permetteresti.

… è che non ho niente di appropriato con me, dovrò cercarlo. E non so neanche cosa potrei prendermi.-

-Perché non chiedi ad Isolde di aiutarti? Anzi, perché non chiedi a Yayoi di venire e di darti una mano? In fondo l’hai invitata a passare un po’ di tempo qui, e se vieni anche lei alla serata ti sentirai meno a disagio, no?-

L’idea, inizialmente, mi sembrava assurda, ma ripensandoci non era poi così malsana: Yayoi aveva bisogno di staccarsi dai suoi problemi con Jun, anzi dovevo contattarla per sapere come stavano andando le cose, e io avevo assolutamente bisogno di un parere a proposito di moda occidentale, dato che a serate di quel tipo ero spesso vestita con il kimono, e non ne avevo più nemmeno uno con me.

Ah no, aspetta: c’era ancora la scatola chiusa in camera mia, due settimane e ancora non mi ero decisa ad aprirla. E ancora non volevo.

-Ma si: le telefonerò e le chiederò se può venire. Anzi, lo faccio subito che se no me lo dimentico.-

-Io invece devo andare: ho gli allenamenti.-

Ci salutammo velocemente, e lo vidi sfrecciare via sulla sua macchina, prima di chiudere la porta dietro di me e tornare, per la seconda volta quella mattina, ad usare il telefono; chi chiamare prima? Yayoi o i parenti? Meglio i parenti, la faccenda era più seria.

> Pronto? Qui ryokan Akamine.

-Tomoko? sono Maki.-

-Maki!! Che bello sentirti!-

-Meno male che hai risposto tu Tomoko! non avrei sopportato un’altra sparata di Oba-sama.-

> Sta tranquilla, la zia è uscita per delle commissioni. Ma dimmi piuttosto, come stai? Tutto bene? Wakabayashi è gentile con te? E Monaco com’è?

Quella valanga di domande mi fece sorridere, e per qualche momento ebbi voglia di risponderle a tutto, ma la il motivo della telefonata mi fece cambiare idea.

-Scusa Tomoko, ma ho urgente bisogno di parlare con la nonna o con i miei, puoi passarmeli?-

> Purtroppo sono sola al ryokan: la nonna e gli zii sono usciti per un incontro con gli altri membri della famiglia.

-E la zia non è andata con loro? Come mai?-

> È stata una scelta della nonna, è da qualche giorno che discutono.

La zia era molto affezionata alla nonna, sapere che stavano litigando mi incuriosì non poco.

-Sai del perché discutono?-

> Riguarda Jin: data la tua assenza, Oba-sama ha messo in discussione la sua presenza qui al ryokan.

Perché la vera garante di Jin sono io: era sotto la tutela della nonna solo su carta, ma effettivamente ero io che mi occupavo di lui. Possibile che la zia Moe stesse cercando di cancellare ogni traccia di me? D’accordo che io e lei avevamo la stella malattia e io avevo avuto il coraggio di affrontarla per quello in cui credevo, ma non mi aspettavo che mi odiasse tanto.

> Ovviamente la nonna l’ha rimproverata, e adesso temo seriamente che la zia stia rischiando il suo posto nella famiglia.

-Addirittura la nonna è arrivata a questo? Perché non sono stata avvertita?-

> Perché è accaduto tutto negl’ultimi giorni: adesso tua nonna è andata a parlare al resto della famiglia della situazione, ma mi preoccupo più per Oba-sama che per Jin.

In fondo la zia si era sempre presa cura di Tomoko, era chiaro che l’affetto della giovane la spingesse ad essere preoccupata per lei; per quanto la vecchia donna cercasse sempre di mettere in discussione il mio comportamento, le mie decisioni e me stessa, l’affetto che la legava alla nipote era sincero. Anche per questo la mia irritazione e rabbia erano contenute nei suoi confronti.

-Sono sicura che le cose si sistemeranno, non ti devi preoccupare.-

> Si, lo spero. Invece, vuoi lasciare un messaggio per la nonna?

-Oh, si: dille che ho trovato un ginecologo qui a Monaco, e che è uno dei migliori, e che mi farò sentire al più presto.-

> Va bene.

-Ti prometto che alla prossima telefonata risponderò a tutte le tue domande.-

>Ci sentiamo presto one-san.-

Accidenti, quattro mesi assente da Okinawa e farsi chiamare “sorellona” mi fece venire un groppo in gola.

-A prestissimo, Tomoko-chan.-

Chiusi la telefonata preoccupata: l’ultima volta che la famiglia aveva subito uno smottamento era stato al mio fidanzamento con Kojiro. Anche allora Oba-sama si era fatta sentire, e anche allora me n’ero andata dal ryokan, abitando per qualche tempo con la famiglia Hyuga; ora mi ero trasferita perfino a Monaco, e questa volta sentivo maggiormente la rivoluzione in atto nella famiglia, anche se ero a chilometri di distanza.

Cosa sarebbe successo adesso?

… dovevo chiamare Yayoi: adesso non solo per invitarla, ma anche per parlare con qualcuno della situazione, dato che Genzo non era a casa, e non me la sentivo di dirlo a Isolde.

>Pronto?

Ah, voce di uomo. Jun.

-Misugi? Sono Akamine.-

> Ah, Akamine. Vuoi parlare con Yayoi?

Voce atona, fare distaccato. Hmm, non era un buon segno quella risposta.

-Si, grazie.-

Non sentii rumore per qualche secondo, poi la voce di Yayoi mi arrivò flebile.

> Pronto, Maki?

-Ehi, Yayoi-chan, che succede?-

> Aspetta …

E rimasi ancora in attesa, sentendo dei rumori provenire dalla cornetta, evidentemente la ragazza si stava spostando in un’altra stanza.

> Eccomi, sei ancora in linea?

-Si, certo. Che sta succedendo?-

> Ecco, ho seguito il tuo consiglio, e ho parlato con Jun.

-Ah, e com’è andata?-

> Gli ho detto che se continuava a trattarmi in quel modo avrei fatto le valigie e me ne sarei andata, e adesso i sembra di camminare sulle uova, sembra che ogni cosa che facciamo rischiamo d’irritare uno o l’altra.

Temo a questo punto che la situazione sia irrisolvibile: io non so cosa fare, Jun non sembra voler cambiare qualcosa, e comincio anche ad avere dei dubbi sul fatto di continuare o meno a stare insieme.

Oh mio Kami, il mondo si sta ribaltando pericolosamente. Possibile che mi allontano dal Giappone e scoppiano tutti questi casini?! I Maya, con la loro fine del mondo, mi fanno un baffo.

-Va bene, io un’idea ce l’avrei: Genzo ha una cena di beneficenza a cui è richiesta anche la mia presenza, ma non ho niente da mettere e non ho idea di cosa mettermi. Tu hai bisogno di staccare da Jun, assolutamente, e non voglio sentirti dire no; perciò voglio che entro massimo due giorni mi telefoni e mi dici a che ora arriva il tuo aereo, chiaro?-

E dire che volevo parlarle di quello che era successo con mia zia; invece dovevo preoccuparmi per Yayoi. Però la sua situazione era più complicata, io per lo meno mi ero allontanata dalla mia famiglia mentre lei conviveva con la fonte del suo stress.

-Va bene. Ma solo una settimana.-

-Per me va bene, tanto se ne diventano due puoi dare la colpa al jet-lag.-

La feci ridere, con mio sollievo, ma chiusi la telefonata preoccupata, rimanendo bloccata davanti al mobiletto del telefono.

-Maki? Tutto a posto?-

Alzai lo sguardo verso Isolde, la donna stava scendendo le scale con in mano un cesto con il bucato da lavare, e velocemente mi avvicinai a lei per darle una mano, dato che il canestro era veramente grande; ci dirigemmo in cucina, andando in direzioni della enorme lavatrice, nascosta dietro una porta.

-Ho trovato un medico per me, ho appuntamento domani mattina.-

-Bene.-

-Ho chiamato i miei parenti per avvertirli, ma sembra che abbiamo dei problemi in famiglia, e temo che la causa sia io.-

-E questo è meno bene.-

Aprii la lavatrice e la aiutai a mettere dentro la roba da lavare, continuandole a parlare.

-Genzo mi ha detto che ci sarà una serata di beneficenza tra una settimana a cui devo andare, ma non ho il vestito adatto, così Genzo mi ha suggerito di invitare una mia amica a trascorrere una po’ di tempo qui per farmi aiutare.-

-Va bene, farò preparare la camera.-

-Solo che, quando ho telefonato a questa mia amica, mi ha informata che lei e il suo ragazzo hanno seri problemi, e non sa cosa fare, e io l’ho invitata a venire qui anche per staccarsi.-

-Hai fatto bene.-

Chiudemmo la lavatrice, e Isolde impostò il lavaggio mentre io la osservavo, ripensando a tutto quello che le avevo detto.

-Pensavo che dopo il chiarimento tra me e Genzo, e dopo aver trovato un dottore, le cose sarebbero andate meglio. Invece … era solo l’inizio di un grande casino!-

Isolde alzò lo sguardo verso di me con aria intenerita, e io cercai nei suoi occhi un consiglio, un aiuto o anche solo un po’ di conforto per la mia preoccupazione.

-Non so cosa fare, Isolde.-

La donna sembrò pensare alla mia affermazione, e io la seguii in silenzio per la cucina e su per le scale, dirigendomi con lei dentro la stanza di Genzo, in quel momento stava cambiando le lenzuola del grande letto.

-Io credo che, per il momento, hai fatto tutto quello che potevi: hai chiamato la tua famiglia, chiesto di loro, e ti sei prodigata per la tua amica.

Credo che sia inutile pensare a cos’altro fare, le cose devono venire spontaneamente in certe situazioni, altrimenti rischi solo di peggiorarle, ti pare?-

La aiutai a cambiare le lenzuola, e devo ammettere che quella era la prima volta che toccavo, tastavo e armeggiavo sul letto di Genzo, la mia parte irrazionale l’aveva sempre considerato una specie di tabù quel posto, come se io non potessi avvicinarmici; ma mentre compivo quel lavoro, mi rendevo conto che da quel mobile non potevano uscire fuori serpenti o fantasmi, e che prima o poi sarebbe successo … quello che doveva succedere.

Comunque, ascoltai le parole di Isolde, e sebbene anche la domestica affermasse che quelle erano cose ovvie, per me fu di conforto sentire qualcuno pronunciarle ad alta voce, aiutandomi così a liberarmi dalla preoccupazione eccessiva.

-Grazie, Isolde.-

-Grazie a te per avermi aiutato a sistemare la camera del padroncino. Certe volte quell’uomo è così disordinato …-

Mi venne da ridere, non vedevo l’ora di usare quelle parole per prenderlo un po’ in giro.

 

E il giorno dopo ci fu la visita medica.

Lo ammetto: ero tesissima, ma non avevo voluto che Genzo mi accompagnasse, anche perché lui doveva allenarsi, e quella era una faccenda di cui mi ero sempre occupata da sola, anche a Kojiro avevo sempre detto che le visite preferivo farle da sola e senza scorta, come dicevo solitamente per scherzare.

Ma anche quella volta, come tutte le volte, ero nervosa: l’unico ginecologo che mi aveva fatto sentire leggermente più tranquilla era stata una donna, molto tempo prima, quando avevo fatto le mie prime visite, ma anche quando mi avevano dato i primi risultati sull’endometriosi. Non dico che i ginecologi uomini non siano altrettanto bravi, anzi.

Tuttavia, quando il dottor Himler mi aprì la porta, mi sentii ancora più a disagio, e mi appellai a tutta la mia forza per riuscire a sorridergli e stringerli la mano.

-Benvenuta signora. Prego si accomodi.-

La stanza era calda, tanto da farmi togliere il cappotto e la sciarpa, che fino a pochi secondi prima avevo tenuto addosso anche per l’ansia; mi fece accomodare sulla sedia imbottita, e io lo guardai sorpresa, notando che pareva giovane, molto giovane, nonostante il dottor Shnauzer aveva detto che erano stati compagni di università.

-Allora, mi dica tutto l’ascolto.-

-Si. ho cominciato a soffrire di Endometriosi dai quattordici anni, e i primi esami avevano suggerito l’asporto come soluzione migliore; tuttavia convinsi i miei genitori a seguire una cura medica, e pertanto ancora adesso devo prendere farmaci specifici.-

-Quindi sta proseguendo la Terapia del dolore?-

-Si.-

Terapia del dolore. FANS. Significa utilizzare farmaci anti-infiammatori e analgesici; se non fossi sicura di essere malata, avrai paura di essere drogata in certi momenti. Una volta misi in fila tutti i medicinali che dovevo prendere, e ne rimani così sorpresa da mettermi a piangere; fortunatamente, allora c’era Kojiro.

-Non l’è stata suggerita nessun altro tipo di terapia? Solo l’asportazione.-

-Si signore.-

-Mi pare strano. Ha con se le sue cartelle cliniche?-

Fortunatamente, tra le poche cose che mi ero portata dietro, mia madre saggiamente mi aveva messo in valigia una copia delle mie analisi, e velocemente le porsi al medico, guardandolo intensamente mentre le controllava con aria seria. Passò qualche minuto prima che riprendesse a parlarmi.

-Signora Akamine, lei conosce o ha sentito parlare di laparoscopia o laparotomia?-

-… ho fatto delle ricerche, e so che sono degl’interventi chirurgici.-

-Esattamente sono di tipo diagnostico e, in caso di tipo interventistico: si praticano 3 - 4 fori di piccole dimensioni sull’addome dove vengono introdotti gli strumenti, e si esplora la cavità addominale ricercando eventuali cisti o noduli. Nel caso in cui fossero presenti lesioni ben visibili, si procede all’eliminazione delle stesse e al prelievo di materiale per la biopsia. La differenza è che la laparotomia è più invasiva.-

Devo ammettere che l’idea di farmi fare dei buchi in pancia non mi allettava per niente, anzi credo di aver fatto una faccia intimorita, perché il dottore subito mi addolcì la pillola.

-Ovviamente la paziente è sotto anestesia, e si predilige la laparoscopia in quanto meno aggressiva; ho controllato le sue analisi, e ritengo che continuare la terapia del dolore sia solo un rischio per la sua salute, in quanto i medicinali possono dare assuefazione o altro.-

Lo sapevo perfettamente, per questo cercavo di prenderli il meno possibile.

-Faremo qualche visita, e le darò anche qualche altra analisi da fare, ma se tutto va bene potrebbe tranquillamente compiere l’operazione. Lei cosa ne pensa?-

Cosa ne pensavo? Ero totalmente sorpresa: era la prima volta che sentivo parlare di operazione chirurgica senza metterci accanto la parola “asportazione”. Possibile che ci fosse una cura e non ne sapevo niente? Perché non mi era stato detto niente?

-Scusi, ma sono più di dieci anni che ho questa malattia, perché solo adesso so di questi interventi?-

-La ricerca su questa malattia si è sviluppata negl’ultimi anni, e probabilmente in Giappone non tutti gli specialisti sanno delle ultime novità mediche.-

Oh cazzo … cazzo. Potevo guarire. C’era una cura. C’era una possibilità.

-Signora Akamine, vuole un po’ d’acqua?-

-Come? No, no la ringrazio, sto bene.-

-Immagino che per lei sia una grossa sorpresa questa.-

-Altrochè.-

Ero felice, ma mi veniva da piangere: Kojiro, avevi sentito Kojiro? C’era la cura, c’era la possibilità di sistemare tutto, e forse anche in Italia esisteva qualcosa di simile. Maledizione, se lo avessi saputo prima, solo un anno e mezzo prima.

-Vuole continuare la visita, se la sente?-

-Si, si assolutamente.-

E per la prima volta, complice anche lo shock di quell’informazione, la visita risultò veloce e senza troppo imbarazzo da parte mia; anche quando uscii dall’ufficio, notando malamente quello che c’era nella sala d’attesa, continuava a rimbombarmi in testa l’idea di quell’operazione.

Volevo dirlo a Genzo, gridarglielo con tutto l’entusiasmo che avevo addosso; ma mi trattenni per tutto il mio turno di lavoro, ripensandoci quasi come un ossessa, al punto da rischiare di rompere qualche bicchiere.

Quando quella sera tornai a casa, notai subito che, per quanto fosse tardi, la luce di camera sua era ancora accesa. E lo vidi bere con quell’espressione turbata.

E ancora una volta, decisi di tenermi tutto per me. Prima o poi sarebbe capitata l’occasione giusta.

 

**

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Capitolo 13
*** Kleid ***


XII:Kleid

(Vestito)

 

Chiesi a Friedrick di aspettare in macchina nel parcheggio, perché avevo voglia di andare a prendere Yayoi da sola: anzitutto volevo abbracciarla e stringerla fino a strizzarla per quanto mi era mancata. E poi mica sono chissà quale diva, che ha bisogno della guardia del corpo appresso! E questa frase me la ripetei spesso mentre mi aggiravo per l’aeroporto, oramai la mia conoscenza della lingua era tale per cui comprendevo le varie scritte.

E pensare che, quando ero atterrata a Monaco la prima volta, ero finita in un sgabuzzino dove gli addetti tenevano le scope! Questa cosa non l’ho mai raccontata a Genzo per troppo imbarazzo, me la porterò fin dentro la tomba, giuro!

Adesso, invece, mi aggiravo tranquillamente, tenendo alto il colletto del mio cappotto per nascondermi il più possibile a sguardi indiscreti, e per aiutarmi ulteriormente avevo anche il collo della mia maglia di lana alto e gonfio.

L’altoparlante annunciò, con un trillo, che l’aereo proveniente da Tokyo era atterrato, e mi portai verso gli arrivi, facendo anche un po’ la prepotente e posizionandomi proprio davanti all’uscita, davanti a tutti: odio aspettare dietro la folla e non vedere la persona perché un mare di teste mi copre la visuale, mi è successo un po’ di volta con Kojiro e l’ansia mi snervava, così ho adottato la tattica del “sto davanti io e tu non mi guardi male, perché io ti guardo peggio!”.

Quando riconobbi, tra volti occidentali, anche i tratti della mia terra nei volti dei passeggeri, ammetto che mi salì un magone nello stomaco: mi venivano subito in mente mia nonna e i miei genitori, poi Jin e Tomoko, e ripensando a quanto mi aveva detto la cugina qualche giorno prima mi saliva un po’ d’ansia.

Si, lo so, lo so che mia zia non si era comportata bene e che questa era una giusta punizione; tuttavia non me la sentivo proprio di biasimarla, perché in fondo era arrivata a quel punto facendo, all’epoca, una scelta totalmente opposta a quella che presi io: lei pensò al bene e l’onore della famiglia, io all’amore per Kojiro.

I miei pensieri a tal proposito furono presto messi da parte, perché riconobbi quella capigliatura rossiccia e quei modi di fare silenziosi e quieti, aveva un trolley bello grande e una borsetta sottobraccio.

-YAYOI!-

Agitai un braccio per attirare la sua attenzione, e lei subito mi rivolse lo sguardo, sorridendomi con entusiasmo e raggiungendomi a passo svelto.

AAAAHH!! YAYOI!!!! Me l’abbracciai e me la strinsi con tutte le mie forze, al punto tale che lei, ridendo, mi chiese di lasciarla perché le facevo male; ma oramai mi aveva persa, ero entrata nella modalità “Maki - coccole e dispetti”: per prima cosa la sollevai in braccio, non si direbbe ma quella ragazza è una piuma, non pesa niente. E poi le spettinai i capelli, proprio come Genzo fa sempre con me.

-Aaah Maki! Smettila!-

-Allora allora allora?! Che mi racconti? Com’è il tempo in Japan?-

-Fa piuttosto freddo e spesso tira vento. I meteorologi dicono che, quest’anno, potrebbe arrivare a nevicare un po’ su tutta l’isola.-

-Addirittura?! Beh allora non posso certo lamentarti per il freddo qui a Monaco, anche se non lo sopporto.-

-Ti vedo bella imbacuccata.-

-Lo sai che odio il fredddooo.-

E feci una voce lamentosa, provocando il sorriso da parte di Yayoi; assieme al programma di “posti da visitare”, avevo aggiunto a mente una postilla, “fai divertire Yayoi, e lascia che sia lei a parlare per prima dei suoi problemi”.

Inoltre mi sentivo a mio agio in aeroporto perché nessuno mi guardava, solo pochissimi: ero in un luogo internazionale, e grazie al cielo storie come la mia relazione con Genzo non servivano certamente a far decollare meglio l’aereo o a far arrivare tutti i bagagli a destinazione!

-E il lavoro, invece?-

-Adesso mi sto interessando ad un centro di salute mentale che si trova fuori città, ma continuo ancora a lavorare nella clinica privata, sebbene comincio a stufarmi.-

-Come mai?-

-Troppa competizione: gl’infermieri vogliono tutti essere i più bravi e riuscire a salire di livello in men che non si dica, e questo significa che cercano di accaparrarsi più pazienti possibili. Ma ovviamente non sanno gestirseli tutti, e alla fine si creano dei problemi anche seri, e personalmente sono stanca di risolvere i problemi degl’altri.-

Le posai affettuosamente un braccio attorno alle spalle, le avevo preso il trolley e lo stavo trasportando con la mano libera; lei, a quel contatto, mi poggiò per qualche momento la testa sulla spalla.

-Sai, ho pensato parecchio nell’ultimo periodo, e mi sono resa conto che ho sempre dato priorità ai problemi degl’altri più che a me stessa, primo fra tutti Jun.

Mi domando se questo mio modo di fare non mi abbia bloccata troppo.-

-Non dire sciocchezze! Sei una delle persone più mature e pazienti che conosca! E sai anche farti valere.-

-Però mi rendo conto che sono molto insicura quando si tratta di me stessa: divento timida e ci metto molto prima di prendere una decisione; inoltre mi sono resa conto, quando ti ho fatto quella telefonata per l’articolo, che provo invidia per gli altri.-

-Beh, credo che sia una cosa comune…-

-Però non ne avevo mai provata prima, o magari non me n’ero mai resa conto: pensavo, anzi, di essere fortunata ad avere Jun con me, e adesso invece provo invidia per te e Genzo. Mi domando in quante altre cose mi sono ingannata.-

-Adesso basta, ti stai solo facendo del male così: sei una persona in gamba, ma in questo momento hai perso la tua solita stabilità per via di incomprensioni e paure. Sono sicura che, alla fine di questa vacanza, avrai le idee chiare su cosa vuoi e cosa farai.-

Me la strinsi più vicina mentre uscivamo al freddo, dirigendoci verso il parcheggio dove ci aspettava Friedrick. Per un paio di minuti rimanemmo in silenzio, poi Yayoi mi rivolse nuovamente la parola.

-Sono felice di vederti Maki. L’ultima volta che ci siamo viste ti stavi trasferendo al ryokan…-

-Già, è vero! tu venivi sempre dopo il lavoro a dare una mano e cucinare per noi con la signora Hyuga.-

-Allora ti stavi aggrappando alla vita per poter andare avanti, e credevo che ci sarebbe voluto molto tempo prima di vederti sorridere e sentire parlare così come stai facendo ora.-

Non ho veri ricordi di quei giorni: dopo il funerale l’unica cosa che ricordo è che, un giorno, presi tutti gli scatoloni vuoti che avevo nell’appartamento e cominciai a svuotare tutto, buttando quello che non volevo tenere dentro grossi sacchi della spazzatura, incaricando a turno Ken e Takeshi di andarli a buttare. Più i giorni passavano e più mi tornano in mente i ricordi, ma è ancora tutto confuso, e temo lo sarà per molto tempo.-

-Io non ho dimenticato Kojiro, Yayoi.-

-Nessuno di noi lo pensa. Anzi, noi siamo convinti che in fondo è stato proprio Kojiro stesso a spingerti verso questa strada.-

-Già, e conoscendolo ha mandato la persona che credeva più capace di sopportare il mio carattere belligerante, ma decisamente la meno adatta a fare da cavaliere sull’armatura splendente; anzi, Genzo è un orso, e niente potrebbe farmi cambiare idea.-

-Però, proprio perché è così, forse era davvero l’unico a poterti aiutare. Non lo credi anche tu? In fondo Wakashimazu e Sawada ti sono sempre stati accanto, ma solo Genzo ti ha spinta a lasciare il ryokan.-

Sorrisi, ripensando al suo soggiorno al ryokan, a tutti i momenti passati  con lui e a quelli in cui riflettevo su quello che stava accadendo, a metà fra l’emozionata e la terrorizzata: la mia paura più grandi, infatti, era ed è quello che un giorno mi sveglierò e non ricorderò più nemmeno il volto di mio marito Kojiro. Una cosa del genere è naturale, lo so, ma per me sarebbe come non essere stata completamente vera con Kojiro: io l’ho amato davvero, e non voglio che il tempo me lo porti via.

Però…

-Genzo … non ha mai provato a consolarmi, nemmeno una volta. Semplicemente cercava di evitare l’argomento, oppure cercava di farmi trovare gli aspetti positivi; quando parlavamo, parlavamo sempre di me e di lui, e non di quello che era accaduto.

Quando gli ho parlato della mia malattia lui l’ha accettata, quando gli ho parlato della morte di Kojiro mi ha ascoltato. Non aveva parole di conforto, e io sentivo che non ne volevo più.

Poi abbiamo discusso, litigato, riso, ci siamo presi in giro e ci siamo sempre guardati dritti negl’occhi; e quando mi disse che mi amava mi aveva guardata fin dentro l’anima, ed era stato semplicemente se stesso, niente fronzoli sul mio lutto o sul suo atteggiamento, nessuna promessa tipo “Sarai per sempre felice con me” oppure “Sarò l’uomo migliore del mondo”.

Semplicemente …-

Rimasi qualche momento in silenzio, ripensando alle sue parole quel giorno, sulla spiaggia, mentre Yayoi rimaneva ferma al mio fianco, aspettando che terminassi la frase. Allora presi un profondo respiro.

-Semplicemente mi promise che, qualunque cosa sarebbe accaduta, mi sarebbe rimasto accanto, e che mi avrebbe fatto conoscere tutto di lui. E sta mantenendo la parola.

Ma ora finiamo di parlare di me, è imbarazzante.-

La mia amica sorrise, ed a quel punto ripresi a camminare, e velocemente presentai Yayoi a Friedrick, che caricò la valigia mentre noi salivamo in macchina.

-Invece, non vedo l’ora di portarti un po’ in giro! Ovviamente prima ti riposi a casa, e quando ti senti pronta cominciamo a fare follie!-

-Tanto ho dormito in aereo, mi basta solo sistemare le mie cose e poi sono a tua completa disposizione.-

-Ehi, guarda che l’ospite sei tu, sono io che devo farti da valletta. E sappi che ti tratterò come una regina; dopotutto ho lavorato in uno dei ryokan più rinomati del Giappone.

Inoltre questa vacanza serve a te, e dunque sei tu che devi scegliere.-

-Beh, intanto mi piacerebbe che Friedrick alzasse la radio un attimo, ho appena riconosciuto i Queen.-

E io chiesi all’autista di alzare il volume. “Don’t Stop Me Now” cominciò a prendere ritmo, e Yayoi cominciò a canticchiarla, con me che le facevo il coretto.

Il ritmo ci prese, e dentro la comoda macchina cominciammo ad agitarci come forsennate, con Friedrick che, davanti, ci guardava dallo specchietto retrovisore, all’inizio perplesso ma lasciandosi coinvolgere anche lui dai Queen, come testimoniarono le sue dita sul volante, che andavano a ritmo.

Isolde ci aspettò sull’entrata di casa, e io la salutai mentre ridevo con Yayoi, ci stavamo ricordando delle prime volte che ci conoscevamo, e di alcuni momenti assolutamente spassosi, come quando Sanae volle fare uno scherzo a Kumiko, colorandole i capelli di verde.

-Ma si! Che poi lei si è svegliata, e mi sono ritrovata a doverle separare!-

-Io ricordo che dopo aiutai Kumiko a togliersi la tintura, e addirittura fui costretta a tagliarle i capelli.-

-Che volle vendicarsi, ricordi?-

-Si!! Oddio usò il Kimchi nel caffè e nel vestito di Sanae! Ho creduto che stesse per svenire.-

-E imperterrita inseguiva Kumiko per tutto l’albergo.-

-Ricordo che fu Tsubasa a bloccarla, se no l’ammazzava sul serio. Che scene!-

-Isolde! Ti presento Yayoi Aoba, la mia più cara amica.-

-Molto piacere.-

-Il piacere è tutto mio. Volete mangiare qualcosa?-

-Non so, tu hai mangiato in aereo?-

-Si, ma avrei voglia di un the.-

-Allora ve lo preparo, intanto mostragli pure la sua stanza Maki.-

-Grazie Isolde.-

La domestica ci sorrise affettuosa, lasciandoci mentre io trascinavo Yayoi, con tutto il mio entusiasmo, su per le scale, mi sembrava di tornare ragazzina, quando le mie amiche delle superiori venivano a trovarmi a casa.

La sua camera era subito dopo la mia, e quando mi voltai verso di lei la vidi davanti all’ingresso di camera mia, e io sapevo cosa stava fissando con sorpresa.

-E quella?-

Tornai sui miei passi lentamente, guardando la scatola, ancora chiusa, al centro della stanza.

-Ma l’ha mandata nonna un mese fa. Non l’ho ancora aperta.-

-E se ci fosse qualcosa da mangiare?-

-No, tranquilla, mia nonna non mi spedisce cose da mangiare, e in caso si sentirebbe il cattivo odore, no? Dai vieni.-

La portai via quasi con prepotenza, mostrandole invece la sua stanza; lei ebbe più o meno la mia stessa reazione quando vidi camera mia la prima volta: occhi spalancati, bocca schiusa, espressione da pesce all’amo.

-Cavolo.-

-Vero?-

-Non mi aspettavo che Genzo vivesse in un posto così, io sapevo che aveva un appartamento ad Amburgo.-

-Infatti, ma l’ha venduto ed è tornato qui alla casa di famiglia.-

-Che bella! Sembra uscita da un libro di Jane Austen!-

-Tu invece? Stai ancora in quell’appartamento?-

-Si, ma credo che a breve tornerò nella casa dei miei.-

Allora faceva sul serio: voleva proprio lasciare Jun. Mi sembrò una sciocchezza questa sua decisione, non credo che andandosene avrebbe risolto la sua situazione.

-Tu ami ancora Jun?-

Lei mi mostrò il volto, ma i suoi occhi non mi guardarono, trovarono il tappeto a terra molto più interessante.

-Non lo so. Me lo sono chiesta anch’io, ma non so rispondermi.-

Brutto segno, Yayoi non era una tipa confusa, anzi aveva sempre avuto la testa abbastanza lucida su queste cose, e sentirla così incerta mi fece capire ulteriormente quanto era delicata la sua situazione al momento; dovevo cambiare  discorso alla svelta.

-Forza, andiamoci a prendere questo the, così assaggi i dolci tedeschi!-

-Si … si, non ne vedo l’ora.-

E per l’ora successiva rimanemmo in cucina a chiacchierare del più e del meno su tutto quello che ci passò per la testa, evitando però di parlare di Genzo, avevo come la sensazione che se avessi accennato all’uomo Yayoi avrebbe subito pensato a Jun, e non mi sembrava il caso.

-Invece, tu sai usare il computer, giusto?-

-Si, cavernicola, cosa ti serve?-

-Non mi prendere in giro, devo controllare un indirizzo.-

E ci spostammo in salotto, sebbene Yayoi avesse cercato di mangiarsi l’ultima fetta di crostata con la marmellata.

-È buonissima!-

-Vero? Dai, tecnologica, datti da fare.-

-Afpetta, h le dta unte.-

-Ingoia il boccone Yayoi.-

E ci venne da ridere, sebbene la ragazza si trattenesse tenendo entrambe le mani davanti alla bocca; appena ci calmammo, Yayoi si sedette davanti l’apparecchio, toccandolo inizialmente con un po’ di timore, per poi arrivare a digitare sulla tastiera senza troppi problemi.

-Allora, che devo fare?-

-Controlla questo indirizzo.-

E le passai il biglietto dove Derik aveva segnato il sito internet della squadra di softball; Yayoi lo digitò, e quasi subito ci apparve la grande fotografia della squadra amatoriale, dieci ragazze sorridenti con le loro magliette e le varie attrezzature, con sotto il nome della loro squadra, Gof, “Girls Of Monaco”.

Yayoi disse qualcosa, ma già vedere quelle uniformi e le mazze mi aveva irrigidito, qualcosa dentro di me si stava agitando come il bacino di un vulcano, e se non avessi stretto la mano sullo schienale della sedia forse mi sarei agitata; la foto scomparve, ma ne apparvero tante altre, assieme a scritte e risultati. Non erano molto forti, ma giocavano con assiduità, e anche se era un gruppo amatoriale partecipava più che volentieri a tornei e partite amichevoli. Il minimo di giocata era una volta al mese.

Mi sembrò quasi di sentirla la terra sotto gli scarpini, la palla in mano e il guantone di pelle che mi proteggeva l’altra, l’odore inconfondibile del cuoio e, davanti a me, il mio avversario e il ricevitore che mi faceva i segnali, la nostra squadra si era fatta un codice tutto suo, e al posto dei numeri c’erano gesti, parole e altro ancora per cui nessuno poteva comprenderci.

Poi alla nazionale ricordo le divise bianchissime con il numero dietro la schiena e il capellino con sopra il cerchio rosso della bandiera. Avevo il mio portafortuna appeso al collo, il pupazzetto di Kojiro con la maglia della nazionale giapponese, e ogni volta prima di tirare lo stringevo forte, concentrandomi.

Non … non ricordo più … dove l’avevo messo. Non credo di averlo smarrito, forse è rimasto al ryokan.

Quei pensieri mi riportarono alla realtà.

-… sembra interessante, ci andiamo domani? Maki?-

-Cosa? Scusa, dicevi?-

-Guarda, domani hanno una partita, e sembra essere interessante, che ne dici se domani andiamo a vederle?-

-Si, si perché no?-

-A cosa stavi pensando? Ti ho vista nel tuo mondo.-

-È che mi sono ricordata del portafortuna che avevo fatto per me e Kojiro, ricordi quel pupazzetto di stoffa?-

-Ah, si.-

-Non ricordo più dove l’ho lasciato. Uno, però, sono certa di averlo lasciato a Kojiro. Era … era appeso accanto alla fotografia durante il funerale.-

Ah, ora ricordavo: era l’unica macchia di colore tra i fiori e la fotografia in bianco e nero. Ricordare quell’immagine ebbe un impatto tale che dovetti sedermi mentre Yayoi si alzava in piedi, avvicinandosi e accarezzandomi la testa.

-Hai bisogno di un po’ d’acqua?-

-No, no sto bene. Sai … era da un po’ che non ricordavo il funerale.-

-È un bene questo, capisci cosa intendo?-

-Si, però … sai, io non ricordo chi venne al matrimonio; voglio dire, so che c’erano amici e la squadra, e so ce c’eri anche tu, però non ricordo chi mi ha detto cosa, non mi ricordo nemmeno cosa mi hai detto tu, se mi hai abbracciato o no. È tutto … tutto così confuso.-

E Yayoi mi abbracciò, stringendomi forte. Ah, ora ricordavo … e con il ricordo mi uscì anche qualche lacrima.

-Già … mi hai abbracciato, proprio come adesso.-

-Maki …-

-Lui non tornerà. Non c’è più.-

E quelle parole mi riportarono indietro tutto: mi riportarono tutta la mia vita con Kojiro, dal primo incontro al matrimonio, ai nostri sogni e speranze, le nostre chiacchiere e i nostri sorrisi. Tutto il mio passato. Merda.

Mi ero ripromessa che non l’avrei più fatto, che non avrei scavato nuovamente in quelle sensazioni che mi provocavano il pianto, ma oramai avevo aperto di nuovo gli argini, e mi sentii nuda e … e violentata, è brutta questa parola, ma non saprei come descrivere quella sensazione che provavo dentro il mio corpo, come se qualcuno mi avesse strappato via, ad uno ad uno, tutti gli organi del mio corpo, lasciandomi solo muscoli e scheletro.

-Sono stata dal medico, l’ho trovato … e mi ha detto … che c’è una cura … che posso guarire, esiste … un’operazione … e già da qualche anno esiste … capisci, c’era ma … ma io non lo sapevo … non lo sapevo.-

Yayoi mi strinse più forte, e io piansi più forte. Non credevo che avrei di nuovo pianto per questa cosa: dopo tutto quello che era successo tra me e Genzo credevo, forse speravo che quella l’avessi oramai superata. Invece eccola di nuovo a fare capolino: la voglia di riavere Kojiro, di costruire con lui la famiglia che desideravamo, di portare a compimento tutti i nostri progetti.

Ma non ci sarebbe stata più occasione. Non con Kojiro.

Ora c’era Genzo, Genzo maledizione: Genzo mi amava, voleva stare con me e aveva fiducia in me. Non potevo tornare indietro.

-Andiamo … andiamo a cercare il vestito.-

-Va bene.-

E Yayoi mi lasciò andare, permettendomi di allontanarmi. Praticamente scappai in bagno, e mi guardai allo specchio: gli occhi arrossati, e una lacrima ancora sulla guancia. Mi guardai dritta nelle pupille, e mi accigliai.

-Cretina.-

Mi sciacquai il viso, e quando tornai da Yayoi lei si era già messa il cappotto e mi aspettava sorridendo, contagiandomi mentre io m’infilavo il mio cappotto, avvertendo Isolde che uscivamo nuovamente.

E l’aria di Monaco, con il suo rumore, mi aiutò a superare il momento, assieme alle chiacchiere con Yayoi; pian piano, le vetrine dei negozi divennero sempre più interessanti, e le sue domande sulla serata di beneficenza mi fecero dimenticare il mio sfogo.

-Io non credo di essere adatta ad un abito lungo.-

-Preferiresti qualcosa come un tubino?-

-Mi sembra un po’ da ragazzina.-

-Restare solo a guardare le vetrine però non serve: entriamo dentro e vediamo cosa troviamo.-

-Va bene.-

Mi resi conto che ero restia ad entrare: avevo i soldi, questo si, però non me la sentivo di provare un abito occidentale elegante, era come se fosse una cosa assolutamente aliena a me.

Yayoi, al contrario, sembrava a suo agio: girava tra i vari porta abiti con molta tranquillità, valutandoli tutti con occhio esperto, prima di tirarne fuori due o tre.

-Che te ne pare?-

-Belli …-

-Dai Maki, se non li provi non saprai mai come ti stanno.-

-Lo so, però …-

-Non farmi la timida, dai provati questo intanto.-

E mi spinse a forza dentro il camerino, chiudendomi la tendina mentre io valutavo l’abito che mi aveva passato: era nero, con il collo alto e la gonna lunga, molto aderente. Forse troppo per i miei gusti; tolsi a fatica i miei vestiti, sentendo subito freddo, e me lo infilai, scoprendo che era veramente aderente, sottolineando il seno e i fianchi. Oh dio mio, ma che ho addosso?

-Allora? Hai fatto.-

-Si, eccomi, eccomi.-

Uscii fuori con lo sguardo basso, dio mio che imbarazzo. Yayoi mi venne incontro, e mi scrutò da ogni angolo possibile, con aria pensosa.

-Non è male, ma non credo sia lo stile giusto per te. Tu come lo senti?-

-Mi sembra di essere nuda, è veramente aderente. E poi la gonna è troppo lunga, non mi piace.-

-Però questa è la lunghezza giusta. Forse ti ci vuole qualcosa di più leggero. Provati il secondo, io intanto vedo cosa trovo.-

Secondo abito: senza spalline, cosa che mi metteva panico, avevo la tremenda sensazione che sarebbe scivolato giù e mi avrebbe lasciato a seno scoperto. No!! Non voglio questo.

-Ti prego dimmi che non va bene.-

-Si vede lontano un chilometro che sei a disagio. Tranquilla, non piace neanche a me. Invece del terzo che ti ho dato provati questo.-

Terzo abito, cambiato: rosso, e il colore non mi dispiaceva. Invece di due aveva una sola spallina a destra, e la stoffa sul fianco sinistro faceva una piega diagonale, per poi scendere giù nella gonna, che aveva uno spacco al centro che saliva fino al ginocchio. Vi dirò, non mi dispiaceva per niente.

-Bello! Bello, mi piace proprio! Tu come te lo senti?-

-Dei tre è quello che mi piace di più. Però mi sento un po’ bassa.-

-Un paio di tacchi e starai benissimo. Secondo me è quello giusto.-

-A me piace.-

-Allora prendiamolo!-

Con Yayoi era semplice fare acquisti.

-Sanae, al contrario ci metteva delle ore per trovare l’abito giusto, non sai quanto tempo perso dentro i camerini.-

-Non ce la facevo, mi sembrava una tipa così alla mano.-

-Credo che da quando si sia sposata, e soprattutto da quando lavora nel settore giornalistico, abbia cercato di trovare l’immagine adatta a lei. E a me non mi dispiace affatto.-

-Invece, tu l’abito c’è l’hai?-

-Si si non ti preoccupare per me. Pensiamo invece alle tua scarpe.-

Tacco medio. Rosse. Con laccetto.

-E le puoi usare anche con i jeans.-

-Che carine! Non mi va più di toglierle.-

E ridemmo spensierate, girando ancora un po’ per Monaco e prendendoci un aperitivo al bar dove lavoravo.

-Ciao capo!-

-Ma guarda chi c’è, la Kleine Japanische! E la tua amica?-

-Lei è Yayoi.-

Era divertente, parlavo tedesco e giapponese senza sosta, per tradurre e parlare e per rispondere e chiedere; fortunatamente, Yayoi era amichevole sempre, e ben presto non ci fu quasi bisogno di tradurre ogni parola.

-È una persona interessante.-

-Già, ma quando è di bon umore tende ad essere molto pungente, a me prende spesso in giro per le mie origini.-

-Beh, si dice che il bambino tira le trecce solo alla bambina che gli piace.-

Tornammo a casa che era oramai ora di cena, e ad accoglierci Genzo.

-Bentornate! Benvenuta Aoba.-

-Grazie dell’invito.-

-Che avete preso?-

-Non si guarda!! Lo vedrai alla cena.-

-Va bene, allora vi aspetto in cucina per cenare.-

-Ok!-

Tuttavia scesi solo io a cena; Aoba avvertì il jet lag farsi avanti, e preferì andare a dormire mentre io stavo morendo di fame.

-Come sta?-

-È un po’ frastornata da quello che le è successo, ma se la caverà alla grande. Te com’è andata oggi?-

-Bene, Beckenbauer è molto contento che tu abbia accettato l’invito, e Aoba è più che benvenuta.-

-Sono contenta. Ah, senti: domani io e Yayoi andiamo a vedere la squadra di softball che ti ho accennato, forse staremo fuori tutto il giorno.-

-Per me non ci sono problemi. Hai poi contattato i tuoi per dirgli del medico?-

Il medico. La cura, la guarigione. Guardai Genzo per qualche momento, ma mi sentii mancare il coraggio per dirglielo, come se dirglielo avesse comportato a qualcosa d’importante; in effetti, avevo sempre voluto guarire per avere una famiglia, ma una cosa del genere ero sicura che avrebbe irrigidito Genzo, e con un rapporto come il nostro che si stava costruendo lentamente, quella novità doveva attendere.

-Ho telefonato ma loro non c’erano: Tomoko mi ha avvertito che ci sono delle divergenze, e che pertanto la nonna e i miei genitori erano con il resto della famiglia.-

-Fammi indovinare: la zia calva ha combinato qualcos’altro, vero?-

-Siccome non sono più al ryokan, sostiene che Jin non possa continuare a rimanere alla locanda, in quanto lui è sotto la mia tutela e responsabilità, anche se su carta è scritto che la tutrice è la nonna.-

-Non perde occasione per rendersi odiosa quella donna.-

-Si, è vero.-

Ma io non riuscivo a puntarle contro il dito.

-Maki, non mi piace quella faccia, non mi va che tu prenda le difese di tua zia.-

-Non sto prendendo le sue difese, davvero. È solo … che mi fa tristezza questa sua ansia di voler eliminare tutto quello che le ricorda di me: sai … lei soffre di Endometriosi come me ma … al contrario, ha rinunciato a sposarsi per salvare l’onore della famiglia Akanime. Io, per lei, forse sono quello che ha rinunciato con la sua scelta, progetti e speranze...-

-Colpa sua, avrebbe dovuto pensarci allora, invece di prendersela con te solo perché tu sei stata più coraggiosa. No Maki, questa volta non ti permetto di provare compassione per lei, non se la merita.-

Sapevo che i due avevano discusso a proposito di me, e spesso mi ero chiesta cosa si erano detti, sebbene nessuno dei due non mi abbia mai rivelato nulla.

Genzo. Ripensai ai discorsi fatti con Yayoi, e mi sentii tremendamente fortunata ad essere lì in quel momento, con lui davanti  che mi sgridava e sottolineava ogni difetto di mia zia, calcandoli in maniera esagerata.

Avevo una famiglia, desideravo una famiglia con Kojiro … e Genzo mi aveva offerto la sua famiglia, sebbene fosse composta solo da lui, Isolde e Friedrick. Ma per me era la più calda e accogliente del mondo.

Avevo avuto dei progetti, io e Kojiro avevamo sognato … e qui con Genzo avevo avuto la possibilità di cominciare qualcosa di nuovo. Non era proprio quello che volevo, ma per nulla al mondo sarei voluta tornare al mio lavoro di cameriera al ryokan.

Amavo la mia famiglia, amavo ancora Kojiro … e ora stavo imparando ad amare sempre di più Genzo.

Mi alzai in piedi, portandomi verso di lui, e lo abbracciai di spalle, stringendolo forte. No, questa volta non mi sarei lasciata sfuggire quella possibilità, sarei stata attenta e prudente, e non mi sarei lasciata scappare Genzo. Questo, intanto, al mio gesto si era giustamente irrigidito dalla sorpresa.

-Che … che c’è? Maki?-

-Voglio tenerti con me … voglio stare con te … non permetterò a niente e nessuno di portarti via da me.-

-… io non voglio nessun’altra che te Maki. Nessun’altra.-

E pose una sua mano sul mio braccio, facendomi lentamente sciogliere la presa e alzandosi in piedi dal tavolo, guardandomi dritto negl’occhi. Sentii una scarica di brividi scendere fin dentro il bacino, dove prese fuoco come un fiammifero nella benzina; con le mani cercai di nuovo il suo corpo, e gli strinsi le braccia, arrivando alla sua schiena e stringendomi a lui il più possibile mentre mi accarezzava il volto senza mai distogliere lo sguardo.

Mi baciò con intensità, stringendomi a se. E io volevo sentirlo sempre di più, toccare ogni centimetro della sua pelle; le mie mani si spostarono al suo volto, e accarezzai le sue guance, sfiorando i capelli mentre le sue mani scivolavano sulla mia vita, stringendomi a se. Le bocche si aprirono lentamente, e il nostro contatto si approfondì ulteriormente.

Sentii che lui mi stava spostando, e non mi resi conto dello spazio fin quando non sentii il muro della cucina sulla schiena, le sue mani stavano scivolando verso i miei fianchi per poi salire, arrivando allo stomaco e al seno. Ah, mi stava accarezzando, era la prima volta che mi accarezzava così; ed era bello, tremendamente bello. Anch’io, anch’io volevo toccare il suo corpo così.

Dal volto, le mie mani scesero al suo collo, raggiungendo il petto e scivolando fino alla vita, per poi andare dietro la schiena e toccargli le scapole.

Lentamente lasciò andare la mia bocca, e lo sentii baciarmi dietro l’orecchio per poi scendere giù, fino al collo mentre le sue mani lasciavano andare il seno e raggiungevano il fondoschiena, il suo petto si appoggiò a me e io sentii il tremendo calore della sua pelle e il freddo del muro, provando un leggero brivido; lui lo avvertì, perché si fermò, guardandomi negl’occhi.

Mi sentivo così viva, mi sembrava di sentire il sangue che scorreva dentro ogni mia cellula, e sentirlo fermarsi mi diede la sensazione che sarei diventata di pietra, fredda e dura; così gli accarezzai di nuovo il volto, le guance e il collo, e lo baciai io, con tutta l’intensità che stavo provando in quel momento.

Lui rispose timidamente, e allora lentamente mi staccai, e lo abbracciai con forza, stringendolo.

-Ho freddo Genzo. Stringimi forte.-

Fammi sentire sempre così viva: Io sono viva tra le tue braccia, nel tuo sguardo, dentro ogni tuo bacio.

 

**

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Capitolo 14
*** Softball Handschuh ***


XIII: Softball Handschuh

(Guantone da softball)

 

Stavo sognando, perché il mare ai miei piedi era scintillante era troppo scintillante nonostante le nuvole grigie di quel giorno d’inverno. Si, fu d’inverno che Kojiro mi chiese di sposarlo: era appena arrivato dopo aver avuto un breve periodo di permesso per visitare la sua famiglia, e gli ultimi due giorni li avrebbe trascorsi con me al ryokan.

Quel giorno avevamo deciso di farci una passeggiata e di stare lontani dal mio parentado, anche perché era da almeno tre-quattro mesi che non ci vedevamo e io avevo tante cose da dirgli, da raccontargli e soprattutto da chiedergli; nonostante facesse freddo, e nonostante gli avessi fregato come al solito la sua felpa, Kojiro sembrava più sereno del solito.

Anche per quello mi resi conto che era un sogno: quel giorno, mentre passeggiavamo, era nervosissimo, mentre il Kojiro del mio sogno era molto più aperto e allegro, e io mi sentivo ancora più felice nel rivederlo, tanto che non esitai ad abbracciarlo, e lui mi fece girare mentre i nostri piedi nudi venivano bagnati dall’acqua fredda di mare.

Continuammo poi a camminare, e mi portò verso lo scoglio attaccato alla parete rocciosa, lì dove ora c’era la sua tomba; proprio come allora mi obbligò a sedermi sullo scoglio, dando poi la schiena per l’imbarazzo.

-Ko, ma che hai?-

-Aspetta! Sto cercando le parole …-

-Le parole per cosa?-

-Aspetta ti dico!-

Mi sarei arrabbiata se non fosse stato che non lo vedevo da troppo tempo, per tanto mi ammutolii indispettita, osservando poi incuriosita come lui si stesse barcamenando per trovare le parole, fino a quando non parlò ad alta voce con se stesso, prendendo un profondo respiro.

-Ah basta! Te lo dico e basta!-

Si voltò verso di me.

-Maki, sposami.-

Ed io … rimasi senza parole. Lui, al mio mutismo, abbassò lo sguardo imbarazzato. Era proprio come quel giorno, come allora.

-Si, te l’ho detto male, sono sicuro che avresti preferito altre parole, ma lo sai come sono fatto, non mi piacciono queste cose per cui.-

-Si.-

-Eh?-

Mi veniva da piangere, mi stava davvero chiedendo quello che avevo tanto sperato per il futuro con lui; sapevamo che sarebbe stato un passo ovvio nella nostra relazione, ma sentirselo dire fu comunque una sorpresa incredibile, e riuscii solo a pronunciare quella parola.

-Si, si, si!!-

Lui però mi capì lo stesso, e fu sorpreso quanto me, tanto che io riuscì solo a scendere dallo scoglio e abbracciarlo, e lui riuscì solo a stringermi forte tra le sue braccia, tanto da farmi male.

Si, si, si. Quel giorno era stato forse uno dei più felici della mia vita.

Ma quando riaprii gli occhi, Kojiro non era più con me; anche questo mi fece capire che era solo un sogno. davanti a me, invece del mare che circondava il mio ryokan, c’era una piramide di fiori bianchi su uno sfondo a righe bianche e nere, e tutto attorno a me era grigio, bianco e nero, come un vecchio film. Ma non era un film, perché al centro di quella piramide c’era proprio la fotografia di Kojiro.

Era una fotografia che gli avevano scattato al matrimonio. Che orrore ripensarci adesso, l’ironia tagliava il mio corpo come una lama.

Sentii distintamente, nonostante fosse un sogno, il rumore della pioggia, e mi guardai intorno, notando che c’era la signora Hyuga poco distante, con uno dei figli maschi che le teneva l’ombrello, anche loro era tremendamente grigi mentre la donna e Naoko non riuscivano a smettere di piangere.

Io non ero accanto a loro, ero davanti alla piramide da sola.

Quando mi voltai a destra, vidi un volto stinto di qualcuno che, di sicuro, mi faceva le sue condoglianze, per poi lasciare il posto al successivo, anche questo con un volto stinto, come se la pioggia avesse cancellato i loro tratti, disegnati con l’inchiostro; tante persone in nero, praticamente tutte uguali.

Poi, all’improvviso, una macchia di colore, e fui abbracciata da Yayoi; ricordo ancora il suo odore, ma ho dimenticato ciò che mi disse. Forse, se non mi avesse abbracciato il giorno prima, non sarei riuscita a sognarla così nitidamente.

Però ero ancora confusa, e non la strinsi a me, il mio sguardo tornò alla piramide di fiori, e mi avvicinai alla foto, notando in quel momento qualcosa di colorato, di diverso rispetto a tutta quella monotonia monocromatica.

Eccolo. Allora avevo ragione, l’avevo lasciato lì.

Il pupazzetto in stoffa, la macchia di colore era la faccia e le mani di mini-Kojiro, avevo cercato una stoffa scura per farlo più rassomigliante possibile. Aveva la sua maglietta, i pantaloncini, persino le scarpe con tacchetto e, non contenta, le maniche della maglietta arrotolate, come faceva sempre.

Sentii chiaramente che mi stavo rimettendo a piangere mentre le mie mani si allungavano verso l’oggetto, prendendolo delicatamente e tastandolo; era ruvido, perché Kojiro lo teneva sempre appeso sulla borsa, e quindi si rovinava.

Però lo aveva tenuto sempre con sé, sempre.

Perché … perché tutto questo, perché mi era accaduto tutto questo? Kojiro, Kojiro …

-Condoglianze.-

Quella voce … mi voltai di scatto, e riconobbi subito, in tutto quel grigio, in quella pioggia simile a quella dei film, una macchia rossa. Il suo berretto rosso.

E non solo quello … aveva addosso la felpa che usa di solito quando era in casa, i jeans e le scarpe da ginnastica. E soprattutto lui, a dispetto di tutti gli altri, non era bianco e nero, non era apatico o scolorito; era proprio lì, davanti a me.

-Genzo …-

Lo guardai negl’occhi, e riconobbi i suoi occhi fieri, arroganti, ma anche teneri.

Lui era lì.

-Maki, dai andiamo.-

E mi offrì la sua mano. Ma non potevo prenderla, che ne sarebbe stato di Kojiro? Mi voltai verso la fotografia, ma era scomparsa, tutto il funerale non c’era più; c’era solo il bagno asciuga, lo scoglio con la tomba, la parete con sopra il piccolo bosco, e il mare davanti a noi. E io non avevo addosso gli abiti del lutto, ne i miei kimono; anch’io ero in jeans e felpa, e nuovamente guardai sorpresa l’uomo davanti a me.

-Genzo?-

-Andiamo via da qui. Non restiamo in questo posto.-

E a quel punto, sorridendo e con qualche lacrima rimasta sugl’occhi, annuii e presi la sua mano, stringendogliela forte e cominciando a camminare sul bagno asciuga, andando chissà dove.

A quel punto mi svegliai.

Mi guardai intorno, notando come la luce fosse stranamente grigia, e pregai che fosse solo dovuto alle nuvole, e non alla pioggia. Non oggi, non oggi che dovevo andare a vedere la partita, tutto ma non la pioggia!

Dovevo ammettere che, per quanto riguardava la mia carriera sportiva ho sempre avuto una certa sfiga con il tempo: Okinawa era sempre soleggiata, ma guarda caso le partite più importanti erano sempre contornate dalla pioggia, che iniziava o prima o in mezzo al match, rendendo tutto più difficile. Non parliamo poi di quando entrai in Nazionale! Il mio grande debutto si svolse sotto una pioggerella infame, di quelle leggere che tu non senti ma che t’inzuppano i vestiti.

Ma stavolta no, eh, la mia sfiga meteorologica non poteva avermi seguito anche lì! Certo, oramai era metà Novembre, ma i Kami (il padre eterno, dato che ero in un paese dalla diversa religione) dovevano darmi una mano, soprattutto dopo un sogno del genere.

Probabilmente quel sogno era dovuto dalla mia chiacchierata con Yayoi: nonostante le spese, ero un po’ depressa quando ero andata a dormire, nonostante il mio “incontro” con Genzo. Oh cavolo, solo a ripensarci m’imbarazzavo da morire!

Era stato tutto così … così intenso: il suo corpo che mi stringeva, i baci che si facevano sempre più approfonditi, il suo corpo … waaah!! Imbarazzo!!

-Maki, posso entrare?-

Yayoi bussò alla mia porta parlandomi, e io le risposi biascicando, passandomi una mano sui capelli spettinatissimi; lei entrò dentro la mia camera con addosso la vestaglia e i capelli tenuti dietro da un fermaglio, sedendosi sul bordo del letto e sorridendomi con aria affettuosa.

-Buongiorno, come va?-

-Tutto bene. Tu invece? Hai dormito bene?-

-Si, anche troppo, quando mi sono svegliata per un attimo non capivo dov’ero!-

Sorrisi divertita, mettendomi seduta.

-Anche per me è stato lo stesso, all’inizio.-

-Senti … forse sono indiscreta … ma perché tu e Genzo dormite in camere separate?-

Teneva lo sguardo basso per il disagio nel pormi quella domanda, ma io sorrisi divertita, stiracchiandomi la schiena e sentendo le vertebre scricchiolare sotto la mia pelle; lentamente uscii dal letto, per vedere se effettivamente era così brutto il tempo, incrociando mentalmente le dita.

-Lo ha fatto per me, per farmi abituare pian piano a questa nuova vita.-

-Wow, non mi aspettavo tanta delicatezza.-

-Si, ma non dirgli che te l’ho detto: quando me l’ha spiegato, era arrossito fino alla punta dei capelli.-

Yayoi sorrise divertita, e io aprii le tende. Grazie al cielo non pioveva! Era parecchio nuvoloso, ma se le ragazze erano delle vere appassionate non si sarebbero certo fermate per un po’ di nuvole sopra la testa.

Mi soffermai a guardare il parco davanti alla finestra, la mia camera era sopra la porta d’ingresso, potevo vedere lo spiazzo con il cancello, la macchina di Friedrick e, sotto il pergolato, la mia bicicletta, oggi saremo andate al campo con quella, e con sorpresa notai che l’autista era alle prese con una seconda bicicletta, tanto da farmi sorridere.

-Sembra che oggi, alla fine, non dovrò trasportarti sul retro della bici: Friedrick ne ha trovata un’altra.-

Yayoi si alzò e mi raggiunse alla finestra, e io le indicai l’uomo che si dedicava al mezzo, notando come questo fosse decisamente più da signora, con addirittura un vecchio cesto impolverato sul manubrio.

-Sembra carina!-

-La trovo molto adatta a te: già ti vedo, in bicicletta con un sorriso, una gonna lunga elegante e una margherita tra i capelli.-

-Ma finiscila, ti stai troppo occidentalizzando Maki.-

-Già, lo penso anch’io, anzi è da un po’ che mi piacerebbe fare qualcosa di orientale.-

-Allora pensiamo a qualcosa, dato che siamo qui! Che ne diresti di una cena stile ryokan?-

-Ma dove li troviamo gl’ingredienti giusti? Ti ricordo che siamo a Monaco.-

-Sono sicura che la tua “fata madrina” Isolde sa dove andare, e sono certa che vorrà darci una mano.-

Sorrisi, Yayoi mi stava convincendo sempre di più, e alla fine decidemmo di prepararci, facendo anche un po’ le ragazzine e bisticciando in bagno, schizzandoci l’acqua del lavello e spintonandoci, finendo poi a ridere a crepapelle prima di separarci giusto per cambiarci e scendere giù in cucina.

E come sempre, Isolde ci stava aspettando per la colazione.

-Buongiorno care, siamo mattutine vedo.-

-Si, ma Genzo è sempre più mattutino di noi!-

Isolde conosceva bene il giapponese, per quanto non lo parlasse da anni, ma comunque lei e Yayoi si comprendevano e questo era un vantaggio, almeno non dovevo tradurre tutto quello che la governante diceva.

-Invece Isolde … stasera volevamo fare una cena tradizionale giapponese, e ci domandavamo se conosci un posto dove poter comprare vivande orientali.-

-Ah ma certo, conosco una persona che ogni tanto mi forniva ingredienti tipicamente giapponesi: la signora Wakabayashi, per quanto fosse occidentalizzata, a volte mi chiedeva di preparare qualche piatto tipico della sua terra, e io volentieri mi cimentavo in cucina, anche se non ero certo brava.-

Ecco un’altra cosa che scoprivo della famiglia Wakabayashi, ma Yayoi mi precedette nel chiedere qualcosa in più alla donna.

-Apprezzava solo la cucina?-

-No, non solo quello: la signora ha sempre ricordato le sue origini. Ad esempio, le piaceva molto fare l’Ikebana, molte delle sue creazioni venivano esposte in salotto; e poi aveva sempre avuto, fin da bambina, la passione per l’origami.-

Questa non me l’aspettavo, le piaceva lavorare con la carta? Isolde, alla mia silenziosa domanda, sorrise intenerita, ricordando qualcosa di particolarmente bello.

-Ricordo che un giorno la signora era incinta del signorino Genzo (nel sentire “signorino” Yayoi si portò una mano alla bocca per trattenere una risata, e ci scambiammo un’occhiata eloquente), e venne qui proprio in cucina, e cominciò a fare delle gru di carta; allora i signorini Ichirou e Akio le si avvicinarono e le chiesero “mamma, che cosa fai?”, e la signora rispose: “faccio delle gru di carta per il vostro fratellino; sapete, se si riescono a fare mille gru di carta la fortuna verrà nella nostra casa. Volete aiutare la mamma?” e tutti e tre cominciarono a lavorarci.

Ovviamente i signorini non erano molto abili, ma vederli impegnarsi tanto era davvero commuovente.-

Questo era davvero … davvero sorprendente: Genzo aveva parlato poco dei suoi fratelli o di sua madre, quasi niente, e avevo saputo qualcosa solo da Isolde, e quello che sapevo non mi descriveva una famiglia così rigida e di alta classe, anzi: l’immagine della signora incinta che faceva le gru mi arrivò dritta al cuore, e mi fece ripensare a mia nonna, a come lei invece m’insegnava le filastrocche per passare il tempo.

Cavolo. Cavolo.

Yayoi rispose a Isolde per me.

-È bellissimo.-

-La signora è sempre stata molto fiera di aver messo al mondo tre figli maschi sani e forti; peccato che abbiano però avuto sempre pochi contatti.-

Questo mi risvegliò di nuovo.

-Pochi contatti? In che senso?-

Il sorriso d’Isolde si spense mentre si muoveva verso il lavabo, finendo di sistemare gli oggetti mentre Yayoi, per prima, prendeva qualcosa da mangiare, versandomi del latte nella tazza e passandomelo.

-Vedete la signora, oltre a badare alla casa, era una dei soci dell’azienda del signor Wakabayashi, e pertanto doveva spesso essere assente da casa, e questo le impediva di occuparsi dei figli, soprattutto di Akio e Genzo.

Quando si trasferirono qui in Germania, poi, il rapporto con il signorino Genzo divenne ancora più sottile, nonostante ci sia molto affetto fra il signorino e i suoi genitori; la distanza non fece altro che renderlo più chiuso, ma in realtà il signorino è una persona affettuosa, e lei lo sa, vero?-

Mi venne da sorridere, e annuii mentre Yayoi mordeva la sua fetta con burro e marmellata. Isolde, dopo quel momento di malinconia, ritorno a sorridere, e velocemente cercò un foglietto e una penna dove ci segnò l’indirizzo del suo fornitore, dandoci istruzioni sulla via e sul posto, e ascoltammo annuendo più di una volta, prima di alzarci per andare.

Fuori di casa, Friedrick ci aspettava con le due biciclette, e questa volta potemmo vedere meglio la seconda: era di un marrone scuro, l’uomo l’aveva ripulita dallo sporco e lucidata, il cestino era stato tolto perché era decisamente troppo vecchio, e il fanaletto sul davanti era stato aggiustato.

-Danke Friedrich.-

-Guten Tag meine Damen.- (buona giornata signorine)

Yayoi era solita andare al lavoro in bicicletta, per tanto non ebbe i problemi che ebbi io la prima volta che salii sul mezzo. Invece ci divertimmo, facendo perfino una piccola gara su chi andava più veloce, vinta da me (perché ho veramente troppo spirito competitivo certe volte).

Sopra di noi, durante la pedalata, il cielo si schiarì, e le nuvole si allontanarono; nonostante il freddo, fui entusiasta di quella bella novità, e d’istinto spalancai le braccia verso l’alto per qualche momento, tornando poi a stringere con forza il manubrio, con Yayoi che mi dava della matta, continuando ad affiancarmi.

Il campo era opposto alla solita direzione che prendevo per andare a lavorare al bar, e la strada divenne sempre più deserta mentre il parco, alla nostra destra, si diradava fino a scomparire, lasciando il suo posto ad un viale alberato e, subito dopo, ad una serie di campi sportivi, c’era chi faceva tennis e chi giocava a calcio (ovviamente). Ma soprattutto, c’era il campo da baseball, e quando lo vidi il cuore cominciò a battermi freneticamente.

Rallentai e mi fermai, scendendo velocemente dalla bici e rimanendo a contemplare il campo, deserto al momento: l’emozione mi salii ancora di più mentre riconoscevo la terra battuta, le basi, gli spalti, le panche per i giocatori. Tutto insomma.

-Contenta?-

Mi voltai verso Yayoi, e fece una faccia divertita, segno che dovevo avere un’espressione assolutamente entusiasta. Io annuii, tornando poi a guardare il campo mentre la mia amica si guardava intorno.

-Immagino che sia presto, facciamo quattro passi?-

-… io … io vorrei entrare in campo.-

Avevo una voglia così matta di sentire il terreno sotto le scarpe che supplicai Yayoi con lo sguardo, e lei mi sorrise divertita, annuendo e cercando con me un posto dove legare la bici, prima di entrare timidamente dentro il campo.

Ah cavolo! Cavolo! Ero tornata nel mio mondo, il mio ambiente naturale!! Che bello vedere le scarpe sporcarsi di terra, riconoscere tutte le basi, mettersi nel posto del lanciatore e sentire il brivido e la voglia di fare un tiro!

Cominciai a scaldare un po’ le braccia, decisa a fare almeno qualche prova, chissà quanto ero arrugginita!

Mi concentrai un attimo, e la mia mente figurò un battitore con il ricevitore dietro; mi preparai come al mio solito, e finsi di lanciare, ma la mia mente mi mostrò come il mio tiro fosse completamente sballato, aaah anche il mio cervello era d’accordo che fossi fuori allenamento.

Provai un altro paio di volte, ma entrambe mi diedero lo stesso risultato; mi voltai verso Yayoi, che mi guardava dagli spalti, e le aprii le braccia divertita.

-Sono completamente fuori allenamento!-

-Lo posso immaginare!-

-Entschuldigung.- (scusa)

Mi voltai sorpresa, e vidi delle ragazze in uniforme sportiva entrare nel campo. Eccole, oh dio eccole!

Vedere quelle uniformi, e soprattutto la loro attrezzatura, fu come ricevere un colpo nello stomaco, non mi aspettavo un’emozione così forte; una delle giocatrici più basse, con i capelli biondissimi, si fece avanti, aveva la mazza con appeso il guantone.

-Scusateci, noi vorremmo allenarci.-

-Ah certo, certo. Voi siete le “Girls of Monaco?”-

-Si, certo. Ci conosciamo?-

-No, ma conosco uno dei vostri “fan”, un certo Derik …-

-Aah, il fratello di Abigail. Abigail! C’è una conoscente di Derik.-

Mi si avvicinò una ragazza alta almeno due metri, o almeno così mi sembrava, con cortissimi capelli neri e un’aria stupita quanto la mia.

-Tu conosci Derik?-

-Ah si, ci siamo conosciuti ad una partita del Monaco. Maki, piacere.-

-… oh mio dio, ma tu sei Maki Akamine?!-

-… ah, si.-

-WOW!! Ragazze!! questa è Maki, la ragazza di Genzo!-

Non so cosa accadde precisamente, e non seppi nemmeno spiegarlo a Yayoi successivamente, ma in cinque secondi mi ritrovai circondata da almeno la metà delle ragazze della squadra, entusiaste quanto Abigail della mia presenza, e la cosa andò avanti fino a quando la donna di prima, che probabilmente era il loro capitano, non le chiamò fischiando due dita e alzando la voce.

-Dai ragazze, piantatela e fatela respirare, che noi dobbiamo allenarci.-

-Dai Holly, come sei rigida!-

-Ah, possiamo io e la mia amica assistere agl’allenamenti?-

-Certo! Volentieri.-

E tornai sugli spalti, spiegando quello che era appena successo ad una Yayoi intontita, che si era preoccupata quando quell’ammasso di ragazzo mi era arrivata addosso.

-Ad un certo eri scomparsa in mezzo a quelle magliette rosse e bianche! Ho pensato che ti avessero inglobata!-

Io risi, ma subito dopo mi concentrai sui loro allenamenti, e nonostante fossero delle amatoriali giocavano come si doveva: certo erano imprecise, tardavano nella corsa da una base all’altra, e le lanciatrici dovevano migliorare nella forza del tiro, ma s’impegnavano davvero tantissimo. Quello che faceva loro da capitano, poi, era battitrice eccezionale! Non ne mancava una, e aveva uno stile molto pulito e deciso.

-Pianeta Terra chiama Maki.-

Mi voltai stupita verso Yayoi, che sorrideva divertita.

-Se continui a stringere così forte le dita finirai per farti male.-

Abbassai lo sguardo, ed effettivamente notai che le nocche erano sbiancate pesantemente, e quando sciolsi le dita mi fecero male, tanto che dovetti scuoterle, senza però perdere di vista la lanciatrice che eseguiva uno slow pitch, un lancio lento, permettendo alla battitrice di colpire la palla e spedirla lontano, tanto che la ricevitrice di turno dovette correre per andarla a recuperare.

-Si!! Grande!-

Mi alzai in piedi per l’entusiasmo, e alcune ragazze si voltarono a guardarmi sorpresa, ma oramai ero entrata nel vivo dell’allenamento, e senza accorgermene urlai un paio di volte.

-Attenta! Devi andare più a destra, a destra se no non la prendi! Brava così!-

La ricevitrice prese la palla al volo, e fece un cenno di ringraziamento mentre io tornavo seduta, ma la pance di pietra per me aveva gli spilli, non riuscivo proprio a starmene tranquilla mentre un’altra scena mi faceva scattare in piedi.

-Sei partita troppo presto nella scivolata! Devi contare fino a cinque prima di buttarti, così ti dai il tempo!-

-Senti un po’, ma sai davvero giocare?-

Abbassai lo sguardo sorpresa, il capitano Holly aveva le mani sui fianchi e mi guardava in cagnesco.

-Le tue strilla stanno disturbando i nostri allenamenti, se proprio devi fare baccano cercati un’altra squadra!-

Ah, è così? mi provochi? Ora ti sistemo io.

-Sempre meglio di te che non dai suggerimenti! Guarda che non possono imparare tutto da sole!-

-Guarda che stiamo solo giocando.-

-Anche nel gioco ci sono dei suggerimenti da fare per migliorarsi.-

-Ma che ne sai?! Hai mai giocato.-

-Certo, e sono entrata anche nella squadra nazionale!-

-Uuuh, ma davvero? E allora fammelo vedere! Dai, scendi e fammi vedere quanto sei brava, signorina nazionale!-

Ecco, in questo io, Kojiro e Genzo ci assomigliamo: se provocati, facciamo terra bruciata dove passiamo.

Yayoi, che poveraccia non aveva capito molto, mi vide togliermi il cappotto.

-Scusami Yayoi, sistemo la signorina-padrone e torno.-

-… dacci dentro!-

E mi sorrise come incoraggiamento. A quel punto nessuno poté fermarmi; scesi le scale e mi avvicinai alla tipa, che era anche più bassa rispetto a me di qualche centimetro. Lei sorrideva strafottente.

-Lancio o battuta?-

-Lancio.-

-Ooooh.-

E mi passò il suo guanto; io quasi glielo strappai di mano, portandomi sul posto del lanciatore e guardando l’avversaria davanti a me. una scossa elettrica mi parti dai piedi arrivando fin dietro la nuca: ecco, ora non c’era più niente che volessi. Ero nel mio posto, nel posto dove mi sentivo a mio agio, più della mia camera al ryokan.

Ero nata per stare al centro di quello spazio, ero nata per calzare quel guantone nero di cuoio, per sentire la palla stretta tra le mie dita. Ero nata per sentire l’odore del terreno e avvertirlo sotto le suole delle mie scarpe; ero nata per studiare il mi avversario, per vedere come teneva la mazza e come la muoveva, capendo se era brava o meno, se preferiva lanci veloci o lenti, curvi o dritti come il proiettile di una pistola.

Il ricevitore non mi diede alcun segnale, ma restò fermo nella sua posizione, e io decisi cosa fare.

Per un solo istante, il mio cervello mi suggerì che ero fuori allenamento, che avrei fatto solo brutta figura; ma le parole che un giorno mi rivolse Kojiro mi tornarono in mente.

“Non importa se sei ammalata, fuori allenamento o con la pioggia che ti batte in testa: finché ci metti passione, andrà sempre e comunque bene, perché saprai fino in fondo all’anima di aver giocato con tutta te stessa.”

E pensai a Genzo, a quanto mi sarebbe piaciuto che mi vedesse in questo momento; sarebbe stato fiero di me.

Caricai il tiro, e calibrai il lancio, dandogli una traiettoria curva, certa che la battitrice avrebbe trovato difficoltà a colpirla; male che andava, la palla sarebbe andata per i fatti suoi.

Invece, come se non avessi mai smesso di giocare, la palla eseguì perfettamente il mio comando, descrivendo la parabola come l’aveva pensata, finendo dritta nel guantone del ricevitore mentre la battitrice colpiva l’aria con la sua mazza.

Yayoi scattò in piedi entusiasta, e io mi rivolsi a lei.

-SII!!-

-Banzai!! Hai visto che roba Yayoi?-

-Sei sempre la più forte!-

-Capirai, chissà cos’ha fatto. E poi Frauke non è neanche la nostra migliore battitrice.-

Holly prese il posto della sua compagna, e roteò la mazza, facendomi intuire che aveva comunque ragione per darsi arie, era brava, doveva giocare da un bel po’. Con lei traiettorie curve non sarebbero servite, e nemmeno tiri dritti, li avrebbe presi comunque.

Non avevo scelta: non l’ho usavo da un po’, ma il Riser Ball non mi aveva mai tradita, e sono sicura che non l’avrebbe fatto adesso.

Ripensai a tutti i giorni in cui mi ero allenata per migliorarlo e renderlo perfetto, a come mi aveva sempre aiutato ad andare verso la vittoria nei momenti difficili, e quasi gli parlai come ad un vecchio amico.

“Riser Ball, siamo sempre stati la coppia vincente, non mi deluderai, so che sarai anche questa volta il mio colpo vincente.”

Yayoi, probabilmente, mi stava incitando, così come alcune ragazze, ma io non le sentivo più, troppo concentrata a preparare il tiro, a fissare gli occhi azzurrissimi e guerrieri di Holly, dritta davanti a me; entrambe eravamo delle giocatrici che sapevamo di aver di fronte un avversario temibile, e nessuna delle due voleva perdere.

Caricai il tiro, e sentii il mio polso strisciare contro il fianco, la mano che lasciava all’ultimo momento la palla, e questa che partiva dritta come un razzo, per poi cambiare traiettoria all’ultimo momento, proprio quando sembrava che la mazza di Holly la stesse per colpire; la palla si alzò quei pochi centimetri per evitarla, finendo nuovamente nelle mani della ricevitrice.

Rimanendo entrambe in silenzio, a guardare mentalmente la scena appena avvenuta; Yayoi, invece, scattò come una molla, tenendo fra le mani il mio cappotto.

-SIII!! BANZAAII!! GRANDE MAKI!!-

Presi fiato, e poi mi unii alle grida di Yayoi, gridando più volte “Banzai” e “Yatta!”, come facevo spesso con le mie compagne di squadra; le altre giocatrici, per la seconda volta, mi circondarono e mi riempirono di complimenti e domande. Ma io stavo aspettando Holly, la quale non si fece attendere, raggiungendomi tenendo la mazza sulla spalla.

Ci squadrammo qualche secondo, poi lei allungò la mano, e io gliela strinsi, sorridendoci reciprocamente.

-Ehi, ma sei davvero una bestia!-

-Grazie, anche tu sei brava!-

-Figurati, quella palla non sarei mai riuscita a prenderla!-

-Nah, se ti alleni forse ce la fai.-

-Vacci piano, occhi a mandorla.-

E ridendo cominciammo a farci dei piccoli dispetti mentre il resto della squadra e Yayoi ridevano divertite.

Alla fine passai il resto della giornata a giocare con loro, pranzando tutte assieme e presentando Yayoi, per poi farmi dare una delle loro magliette di riserva e continuare a fare quello che, in fondo, mi ero tanto allenata a fare: giocare a softball.

-Mi dispiace, ti sarai annoiata a guardarmi giocare.-

-Stai scherzando?! È stato incredibile, non ti avevo mai vista giocare e devo ammettere che sei davvero brava!-

-Esagerata, sono anni che non mi alleno seriamente.-

-Però la differenza con loro era ben visibile, te lo posso assicurare, e io non me ne intendo.

Piuttosto, che ti hanno detto?-

-Mi hanno invitata ad entrare nella loro squadra, pare che a Marzo ci sarà un torneo tra squadre amatoriali, e vogliono assolutamente che partecipi con loro.-

-Ma è fantastico!-

-Intanto ho lasciato il mio recapito, ovvero la mail che tu mi hai fatto, anzi di questo te ne sono profondamente grata, e mi hanno detto che a breve mi faranno sapere per altri allenamenti e partite amichevoli.-

-Insomma, Maki torna nel giro sportivo.-

-Già finalmente!-

Quasi non mi sembrava vero! Avevo giocato, e il mio corpo non ne aveva risentito. Avevo di nuovo provato l’ebbrezza di correre su quel campo dopo tanti anni.

-Kojiro sarebbe fiero di me.-

-Sono sicura che lo è, così come lo sarà Wakabayashi.-

-Stasera sarà una bella serata.-

-A proposito, dobbiamo andare da quel fornitore.-

-Cavolo, è vero! speriamo non sia troppo tardi!-

Salimmo sulle bici e pedalammo più in fretta che potemmo. Fortunatamente il fornitore datoci da Isolde era ancora aperto, e insieme decidemmo cosa prendere e cosa no, tornammo a casa con almeno quattro buste della spesa piene di verdure e altri ingredienti.

Ad attenderci Isolde … e Genzo.

-Eccole qua le disperse! Si può sapere dov’eravate?-

-Scusaci, siamo passate a fare un po’ di spesa.-

-Già, oggi si cucina giapponese.-

-Davvero?! Come mai?-

-Beh, era da un po’ che volevo mangiare qualcosa di nostrano, e Yayoi era d’accordo con me.-

Genzo approvò con aria interessata, e per l’ora successiva io e Yayoi ci demmo di gomito ai fornelli, preparando Tonkatsu (che sapevo piaceva molto a Genzo), Donburi e onigiri di vari sapori; Isolde e Friedrich furono invitati a partecipare al banchetto, e quella sera raccontammo la nostra giornata al campo sportivo.

-Ah Wakabayashi, dovevi vedere Maki sul campo! Pareva una belva! Si è letteralmente divorata una lanciatrice dietro l’altra!-

-Esagerata.-

-In effetti non mi stupirei se le avessi aggredite con il tuo “carisma”.-

-Sempre meglio di te che pari insensibile a tutto.-

Io e Genzo sorridemmo alle nostre frecciatine, e la serata andò avanti così, fino a quando Isolde e Friedrich non andarono a dormire, e subito dopo Yayoi si allontanò un momento.

A quel punto mi sentii leggermente nervosa, ricordavo ancora bene la serata prima, e mi domandai se anche questa volta ci sarebbe stato qualcosa di simile; ma sorseggiai il mio the e Genzo continuò a guardarmi tranquillamente, con un sorriso divertito in faccia, tanto da insospettirmi.

-Beh? Che c’è?-

-… è che ti vedo veramente felice oggi.-

Rimasi colpita dalle sue parole, e annuii poggiando la tazza sul tavolo, parlandogli a voce bassa.

-Sai, non gioco a softball … da più di … cinque anni circa. Tornare su un campo … è stato … incredibile: il mio corpo non sembrava aver perso niente in tutti questi anni, mi ricordavo chiaramente ogni movimento che dovevo fare, ogni pensiero che dovevo avere. Ricordavo la postura giusta, le scelte giuste, tutto insomma.

Come se … come se cinque anni non fossero mai passati davvero.-

Gliene parlavo con sgomento, davvero non riuscivo a credere a quella giornata andata così bene.

Genzo bevve la sua bevanda e poi parlò.

-Io sono contento che il tuo corpo non abbia avuto problemi: mi tranquillizza sapere che la tua salute non abbia inciso sulla giornata.-

Ah, giusto, l’Endometriosi. La cura. Dovevo dirglielo. Assolutamente. Ora o mai più.

-Senti … Genzo … sai che sono stata dal ginecologo.-

-Si, certo.-

-Ecco … durante la visita … mi ha detto … che esiste una cura definitiva … all’endometriosi.-

Mano a mano che parlavo la voce mi calava sempre di più, e dovetti schiarirmela per riuscire ad avere un tono consono, che arrivasse alle sue orecchie, per l’imbarazzo e l’ansia neanche lo guardavo negl’occhi, chissà cosa stava pensando in quel momento …

-È … è un’operazione chirurgica … si chiama laparoscopia … si tratterebbe di … di piccoli fori per rimuovere cisti o isole endometriosiche, come ha detto il medico … e sarebbe definitiva.-

A quel punto mi azzittii, incapace di andare avanti, cosa stava pensando Genzo? Era contento? Non lo era? Perché non parlava? Alzai lentamente lo sguardo verso di lui, e lo vidi completamente senza parole, tanto che mi alzai in piedi, decisamente nervosa.

-Vado … vado a dormire! Buonanotte Genzo.-

-Aspetta un attimo!-

Mi afferrò per il braccio e mi fece girare, con abbastanza irruenza (tipica sua) verso di lui, il suo sguardo era ancora sorpreso ma anche innervosito.

-Prima mi dai questa notizia e poi te la squagli così? E no bella mia! Adesso mi stai a sentire!-

Chiusi gli occhi, ecco, ecco lo sapevo! Adesso diceva che non gli andava bene!

-Maki, Maki guardami, lo sai che non mi piace quando non mi guardi negl’occhi. Avanti guardami.-

Accidenti! Alzai lo sguardo, e lui sciolse lentamente la sua aria nervosa, così come pian piano sciolse la presa sul mio braccio.

-… è fantastico. Vuol dire … che potresti davvero guarire, è così?-

Io annuii lentamente. A quel punto mi abbracciò e mi strinse con tutte le sue forze.

-Maki! È magnifico!-

-Genzo, Genzo mi fai male!-

-Scusa, cavolo scusami. Ma questo è fantastico! Ci pensi? Potresti davvero guarire!-

-Allora … sei contento?-

-Certo che sono contento! Perché?-

-Ecco, credevo … credevo che ti saresti preoccupato.-

-Preoccupato?! Ma stai scherzando! Ma che ti passa per la testa?!-

-Non lo so, io … io quando l’ho saputo … ho pensato …-

Merda, mi veniva da piangere, la tensione di prima si stava sciogliendo troppo velocemente; ma Genzo mi tenne ancora tra le sue braccia, parlandomi a bassa voce.

-Hai pensato a Kojiro. Giusto?-

Io annuii, per poi fiondarmi sul suo petto.

-Scusami, scusami, non dovevo pensare a lui però …-

-Maki, non dire cazzate.-

La sua mano sopra la mia testa mi staccò prepotentemente dal suo petto, e io lo guardai negl’occhi stupita, mentre lui mi squadrava deciso.

-Possibile che mi devi far incavolare?! Ascoltami bene: Hyuga non c’è da un anno e mezzo, noi stiamo insieme da circa quattro mesi. Non siete riusciti ad avere una famiglia per colpa del tuo problema, e adesso hai scoperto che c’è una cura.

Sarò anche geloso di Hyuga, ma non sono così idiota da non capire che comunque questa notizia ti fa pensare che, se l’avessi saputo prima, a quest’ora le cose andavano diversamente!-

Sentire quelle parole, quei miei pensieri proprio dalla sua bocca mi scossero non poco, era così brutto sentirlo dire proprio da lui!

-La cosa non mi piace, è ovvio, perché io ti amo. Ma diamine, Maki! Si tratta della tua salute, della possibilità che tu possa stare meglio, che tu possa guarire! Non c’è niente che potrebbe rendermi più contento nel sapere che puoi guarire e avere una vita molto più facile!-

A quel punto s’azzittii, e a me venne di nuovo da piangere: mi sentivo egoista ad aver pensato una cosa del genere, una vera egoista, e lo abbracciai, stringendolo a me.

-Genzo … Genzo.-

-Cretina, adesso perché piangi?-

-Mi dispiace … scusami … scusami.-

-Smettila dai. Smettila.-

Ma mentre diceva questo mi abbracciò e mi strinse forte, baciandomi i capelli mentre io mi calmavo.

-Genzo … voglio stare con te.-

-Lo so. Per questo sono ancora più felice di questa notizia. Ti amo, Maki.-

Lo strinsi ancora di più, e respirai a fondo, sentendo il cuore quasi esplodere per quelle parole, per quella frase che mi aveva sempre detto, e che non ero mai riuscita a rispondere.

Ma forse, questa volta, con un po’ di coraggio … forza Maki, respira a fondo, così …

Coraggio Maki, coraggio …

-E … e io … io amo te, Genzo.-

Lui rimase qualche secondo immobile, poi mi strinse di nuovo, cercando in un secondo momento gli occhi e incastrandoli perfettamente nei miei. Oh dei, aveva uno sguardo così fragile in quei momenti, sembrava davvero un bambino mentre mi guardava così … così dolcemente.

-Davvero?-

Aveva la voce che tremava, e a me faceva venire ancora più voglia di piangere, ma ingoiai le lacrime e sorrisi, annuendo, accarezzandogli le guance e poggiando la mia fronte sulla sua.

-Si, si Genzo. Io ti amo.-

L’avevo capito con quel sogno, quando mi aveva offerto la sua mano e io l’avevo accettata senza paura; quando gli avevo parlato di quella notizia e, nervosa, stavo per scappare via. quando aveva detto a voce i miei pensieri e li ritenevo così ingiusti nei suoi confronti, così egoisti. E ancora adesso, mentre vedevo quello sguardo così fragile davanti a me, tale che mi veniva voglia di stringerlo al mio petto.

Io l’amavo.

Amavo … e amo … Genzo Wakabayashi.

 

**

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Capitolo 15
*** Schlechtes Wetter ***


XIV: Schlechtes Wetter

(Maltempo)

 

Non ci potevo credere: alla fine mi ero dichiarata a Genzo. Ripensarci mi fece salire la temperatura della faccia, e mi coprii con il cuscino, prendendo fiato e sentendo il buon profumo di sapone della federa, scoprendomi qualche secondo dopo, quando il mio cuore si era “leggermente” calmato.

Ma, sono sicura, che anche dopo che liberai la faccia, avevo le guance rosse, sentivo la pelle accaldata, e cercai di concentrarmi sul qualcos’altro mentre guardavo il soffitto sopra di me: la partita di softball, l’invito delle ragazze … a quel punto mi venne da sorridere.

Yayoi, i suoi problemi con Jun … il mio sorriso svanì, ripensando a com’era arrivata a Monaco: aveva le guance più pallide del solito, e avevo subito cercato di distrarla da qualsiasi pensiero la portasse a sbiancarsi, ma non credo di essere così brava; ero certa che, quando era sola, Yayoi ci ripensasse alla sua situazione. Non che facesse male, però volevo che si distraesse con quella piccola vacanza.

Con quel pensiero mi alzai dal letto: avevo voglia di raggiungerla io, stavolta, in camera, e di parlarle della sua situazione; mi ero ripromessa di non parlarne per prima, ma mi accorgevo, ogni volta che calava il silenzio, che il suo sguardo s’incupiva. E gli occhi di Yayoi non sono adatti per tali sguardi, credetemi: io, ogni volta che ripenso al periodo successivo al funerale, la prima cosa che ricordo è lo sguardo brillante della mia amica, e il suo sorriso, che m’invitava a sorridere a mia volta.

Aprii la porta della mia camera, e mi diressi lentamente verso quella di Yayoi, trovandola come sempre aperta. Era sempre stata una sua abitudine: dovunque lei fosse, anche nel ryokan, lasciava sempre uno spiraglio, per permetterle di uscire se avevo bisogno di lei, oppure di farmi entrare se la cercavo.

Credevo che dormisse, così mi avvicinai molto lentamente. Invece Yayoi era sveglia.

-Pronto, Jun? Ciao, sono Yayoi.-

Mi sorprese più sentirla telefonare a Misugi che sentirla sveglia: Yayoi è sempre stata mattiniera, anche per via del suo lavoro. Rimasi ferma davanti all’uscio, senza farmi vedere.

-Si, sto bene, Monaco è molto bella. Si, stanno bene. Maki l’ho vista … serena, come non la vedevo da tempo.-

Ma tu, Yayoi? Tu come stai? Perché l’hai chiamato? Non è giusto che tu faccia questo passo, dovrebbe essere lui a farlo, no?

-Non lo so, la prossima settimana dovrei essere a lavoro, ma non credo … non credo che ci andrò. A meno che … a meno che tu non mi venga a prendere.-

Strinsi i pugni, in quel momento non seppi cosa pensare: da un lato ero contenta che Yayoi avesse chiesto qualcosa del genere, ma dall’altro mi sembrava una richiesta molto azzardata: e se lui le avesse detto di no? Che non voleva o non poteva? Cos’avrebbe fatto Yayoi?

-Jun, ascoltami: io … io ti sono sempre stata vicina, e non ho mai voluto pretendere niente da te, lo sai. Tutto quello che ho fatto … l’ho fatto perché ci credevo, ho sempre creduto in te e nelle tue capacità, non ho mai avuto dubbi. Ma adesso … adesso è diverso, perché non si tratta più solo di te: si tratta di noi.-

Yayoi è sempre stata, in un certo senso, pragmatica: tutto quello che faceva, lo faceva perché ci credeva e sapeva di avere la capacità per farlo. Ma mentre la sentivo parlare al telefono, avvertivo che questa sua fiducia barcollava. Ma lo stava facendo, perché sapeva che era la cosa giusta.

-Noi … noi stiamo insieme … da molto tempo e credimi, io sono felice di stare con te. Ma questo non significa … che solo perché sono felice non veda i problemi che si stanno ammassando. E sono tanti.

No aspetta, fammi, fammi finire, per piacere: non cominciare a pretendere di poterli risolvere tu tutti da solo, perché alcuni di questi problemi riguardano anche me, e tra questi c'è … c'è il fatto che ora voglio di più.-

Yayoi amava i matrimoni: a quello di Sanae, in cui c’ero anch’io, vidi di sfuggita la sua espressione sognante, mentre vedeva la coppia scambiarsi le promesse. E accanto a lei, Misugi mi era sembrato tranquillo, sicuro di sé, come se quello sarebbe stato un passo ovvio nella loro relazione.

Probabilmente, come tutti, vedevo solo la punta dell’iceberg. Però possibile che anch’io, anche se ero sua amica, non fossi riuscita a percepire niente? ... forse ero troppo presa da me stessa e da quello che mi stava accadendo per accorgermene; c’è anche da dire che, quei due, hanno sempre avuto la capacità di essere tremendamente riservati, e di non far notare niente a nessuno.

-Io voglio di più, Jun. Ma tu non lo vuoi.

Ti prego non negarlo, credi davvero che sia stupida?

Jun, sono quanti? Sei anni? Sette? Io non posso aspettare ancora: tu sei cambiato, ma lo sono anch’io. E so quello che voglio: io voglio te, voglio vivere accanto a te, aiutarti e farmi aiutare, parlarti e litigare con te; e questo … questo non può accadere in questo modo, semplicemente perché mi consideri ancora la ragazzina di sei anni fa.-

Conobbi effettivamente Yayoi tempo dopo l’operazione chirurgica di Misugi, quando oramai le cose si erano sistemate: mi era sempre sembrata felice della sua relazione con lui. Ma la felicità è uno stato che va costruito passo dopo passo, e se lo dico io che mi sono addirittura trasferita in un altro Paese per costruirla, forse non è così assurdo questo discorso.

Alcuni parlano della felicità come di uno stato momentaneo, impossibile da mantenere; questi “alcuni” mi fanno tristezza, perché significa che non sono in grado di poterla davvero costruire: è vero, non si può essere tutti i giorni felici, ma guardando indietro si può scoprire di esserlo stati per molto tempo, anche se la mente è impegnata in problemi che poi si è risolto. Non è uno stato, ma una parte di noi, da coltivare e far crescere.

-Questo non cambia le cose, Jun; anche se mi dici questo, rimane sempre un fatto: il problema, per te, sono io. Tu non vuoi me.

Ma … se non sono io il problema, allora vieni a prendermi. Vieni, raggiungimi a Monaco, e riportami a casa con te, perché io non ho nessuno intenzione di tornare così, in questo modo.

Tranquillo, mi cercherò un appartamento, prenderò le mie cose e mi trasferirò. Ma non tornerò da te; questa volta non sarò io a venire, perché io non credo di essere il problema.

Ora devo andare.-

Non lo salutò, chiudendo la telefonata e mettendosi seduta sul letto, prendendo fiato; a quel punto mi mossi, bussando due volte sulla porta ed entrando dentro, sorridendole.

-Ehi, buongiorno.-

-Ciao. Mi hai sentita, vero?-

Annuii, non si poteva farla franca a Yayoi Aoba; mi avvicinai al letto, sedendomi accanto a lei, e si conseguenza la ragazza poggiò la testa sulla mia spalla, sospirando nuovamente, tenendo il cellulare tra le mani.

-… dovevo dirgli quelle cose.-

-Ne sei sicura?-

-Era da tempo che volevo dirgli tutto questo, ma … non ne avevo il coraggio, temevo la sua reazione, temevo mi dicesse “hai ragione”, come sempre. Ora più che mai, vorrei non avere ragione.-

-Sono sicura che non ne hai.-

-Non sei convincente.-

Le sorrisi. Non si può proprio farla franca a Yayoi Aoba. Lei alzò la testa dalla mia spalla, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla finestra che dava sull’esterno, questa volta il cellulare lo aveva lasciato sopra il letto sfatto.

-… ho paura, Maki.-

Non era la prima volta che ne aveva. Ma era la prima volta che me lo diceva. E non avrei mai avuto il coraggio di mentirle e di dirle “andrà tutto bene”: quando stavo male io, non mi disse mai una cosa del genere, ma mi disse sempre “migliorerai”. Era sempre stata onesta, come potevo io dirle una cosa di cui non ero assolutamente convinta?

Mi alzai in piedi, raggiungendola, e l’abbracciai lentamente, sentendola appoggiarsi a me e lasciarsi al pianto, avvertendo chiaramente le lacrime bagnarmi la maglietta e toccarmi la pelle sopra il seno.

-… qualunque cosa accada, sei in gamba, e andrai avanti.-

Lei annuì, stringendomi ulteriormente mentre io sospiravo, lasciando che si calmasse e accarezzandole i capelli.

-Oggi … che facciamo oggi?-

-Beh, stasera c’è la serata di beneficenza, ricordi? Per tanto non possiamo scatenarci come al solito.-

-Quindi restiamo … restiamo a casa?-

-Per ammuffire? Certo che no! Adesso ci cambiamo, tu ti sciacqui la faccia, e poi ci facciamo una passeggiata nei dintorni. Che ne pensi?-

-Si, va bene. Va bene.-

Si staccò da me, asciugandosi gli occhi con le dita, sorridendomi e rifugiandosi in bagno mentre io uscivo dalla camera, lasciandola sola per riprendere un po’ fiato, andando a lavarmi e cambiarmi.

Fuori, mentre stavamo camminando, la giornata ci si presentò uggiosa: le nuvole del giorno prima erano come triplicate, e stavolta sembrava davvero che si sarebbe messo a piovere, tanto che entrambe decidemmo di non allontanarci troppo da casa, certe che la pioggia sarebbe partita da un momento all’altro.

Camminavano vicine, cercando di chiacchierare di argomenti futili e divertenti, che ci potessero distrarre da qualsiasi pensiero, che fossero quelli pesanti di Yayoi o quelli imbarazzanti della sottoscritta.

-E i capelli? Li lasci sciolti?-

-Beh, sto pensando di legarli in parte, di fare una piccola crocchia e lasciare qualche ciocca sciolta; dopotutto saremo al chiuso, e ho l’impressione che avremo caldo.-

-Già, sono contenta che qui a Monaco tengano i riscaldamenti al massimo, però ogni volta che esco fuori è un inferno.-

-A proposito di uscire, il tuo capo non sarà contento di averti lasciato tanti giorni per oziare; quando tornerai la bar sarà un disastro!-

-Ehi, ho fatto la cameriera al ryokan per anni. Non saranno certo quattro o cinque giorni a farmi perdere la fiacca.-

-Ah, senti … in caso … ti darebbe fastidio se … se prolungassi la mia permanenza qui? Non sarò di peso, promesso, anche perché ho portato anche i libri per studiare e …-

-Yayoi, io ti ho invitata qui, e sarei felice di averti qui ancora per un po’. Mi basta sapere che, dopo, sarai pronta ad andare avanti.-

Ci eravamo fermate dal camminare, e lei annuì con forza, smuovendo qualche ciocca di capelli ai lati della testa. Io le sorrisi, e ripresi a camminare, seguita qualche momento dopo da Yayoi, che subito cambiò argomento. Beh, non proprio …

-A proposito di cambiamenti, tu che mi dici?-

-Eh? In che senso?-

-Maki, non sai dire le bugie, e io ieri sera sono dovuta restare chiusa in bagno per dieci minuti. O mi dici cos’è successo, o mi metto a urlarlo.-

-… tu … tu non oseresti.-

Yayoi sorrise con aria cattiva, e prese fiato, mettendo le mani attorno alla bocca per amplificarla.

-MAKI AKAMINE SI E’ DICHIARATAAAA!!-

-WAAAAHHH!!! YAYOI SMETTILA SUBITO!!-

Le saltai addosso, e lei si mise a ridere mentre io mi vendicavo spettinandole i capelli. Ero così imbarazzata!! Ma che le saltava in mente?!

-Mi arrendo, mi arrendo smettila!!-

-Meno male che lo hai detto in giapponese, altrimenti sarei sprofondata.-

-Ma dai!-

-Guardami in faccia e dimmi che sono bianca come un cencio.-

-… no, sei decisamente fucsia.-

Le lanciai un’ “affettuosa” occhiataccia, riprendendo a camminare, nascondendo parte del viso dentro la felpa che indossavo. Ma Yayoi non mi avrebbe lasciato in pace a riguardo.

-Allora? Non mi vuoi dire niente?-

-Insomma Yayoi! È imbarazzante!-

-Maki, hai appena detto che, fortunatamente, stiamo parlando in giapponese, perciò o mi dici qualcosa oppure mi rimetto ad urlare.-

-Va bene, va bene.-

Ma cosa le potevo dire? Sai Yayoi, ho detto a Genzo che posso guarire, ma avevo talmente tanta paura che stavo per scappare, e lui incazzato mi ha fatto la ramanzina, e subito dopo io gli ho detto che lo amavo, non ti pare la confessione più romantica del mondo?

-Ecco … stavamo parlando … e …-

-E?-

-… e gli ho detto … che …-

-Maki, non ti far cavare le parole con la forza, dai!-

-Gli ho detto che lo amo, va bene?! Uff, basta!-

-E glielo hai detto mentre parlavate così, di un argomento a caso? Maki, ti conosco abbastanza per dire che non diresti “ti amo” mentre parlate dell’andamento di una partita.-

-Ma da quando sei così pungente? Non è che frequentare me e Genzo ti fa male?-

Sorrise divertita, facendo spallucce, e io recuperai lentamente parte della mia tranquillità, parlando più liberamente.

-Stavamo parlando del fatto che c’è una cura alla mia Endometriosi.-

-Come l’ha presa?-

-Devo ammettere che ne era molto felice.-

-Perché? Ti aspettavi che non lo fosse?-

-È che avevo la sensazione che, dicendoglielo, lo avrei caricato di una qualche responsabilità.-

-Maki, Wakabayashi vuole stare con te. Lo vuole, si vede, benché le vostre conversazioni a volte sembrino più una guerra a chi è più bravo a prendere in giro l’altro, ma si vede che questo è il modo migliore per comunicare per voi.-

-Questo non è vero! Genzo sa essere anche molto affettuoso! Forse … forse anche troppo.-

Tutte le volte che mi diceva che mi voleva bene, che mi guardava negl’occhi e mi abbracciava … oh Kami ma che imbarazzo! Anche solo a ricordarlo! E presto avremo anche … aaaahhh!! Non voglio pensarci!! Mi passai una mano in faccia, sentendo le guance letteralmente bollenti.

-Non  ci sei abituata. Dopotutto stavi con Hyuga, e lui non è un campione di affettuosità.-

-Si però … però mi sembra di ritornare ragazzina, come le mie compagne di classe ai tempi delle prime storielle. Tzé! Erano assurde! Bastava che stringessero la mano dell’innamorato e subito lo dicevano a metà delle compagne di classe!-

-E tu non sei così.-

-Assolutamente no! Sono una donna adulta io.-

-Maki, sei stata solo con Hyuga, è stato il tuo primo e unico amore per tanti anni, e adesso sei con Wakabayashi, è normale che ti senta così imbarazzata: non hai avuto altre esperienze al di fuori di tuo marito, e adesso stai con un uomo che, con una donna, si relaziona in modo diverso rispetto a Hyuga.-

-Già, ricordo che Kojiro mi disse che “stavo bene” con un vestito solo mesi dopo che ci sentivamo e uscivamo; quando mi disse “ti amo” era così imbarazzato che se la prese con me e cominciammo a litigare, per poi scoppiare a ridere.

Genzo, invece … mi disse “ti amo” senza il minimo imbarazzo, e quando mi dice che sono bella … lui ne è sempre convinto.-

Sentii, ancora, la sensazione d’imbarazzo salire in faccia, ma rispetto a prima era molto meno forte, e non avevo così tanto caldo; Yayoi, a quel punto, mi prese sottobraccio, sorridendomi.

-Non sarai come le tue ex-compagne di classe, e questo non è il tuo primo amore. Ma certamente, Maki, tu sei innamorata.-

Presi un profondo respiro, alzando lo sguardo verso l’alto, e ripensai alla sera prima, alle parole e i gesti. E mi venne da sorridere.

-Si, è vero.-

Proprio in quel momento, una goccia di pioggia mi cadde sulla fronte, e subito dopo ne seguirono altre.

-Accidenti.-

-Presto, torniamo a casa!-

Io e Yayoi ci prendemmo per mano, e cominciammo a correre verso la villa. Non ce n’eravamo accorte, ma eravamo andate molto lontano nella passeggiata, e anche se correvamo, la pioggia ci stava bagnando ugualmente, tanto che quando aprii il cancello, facendo passare Yayoi per prima, oramai avevo i capelli fradici, e quando riuscimmo ad entrare in casa la mia felpa era zuppa, e il cappotto di lei era bagnato anche all’interno, come mi fece notare.

Eppure, quando ci guardammo in faccia, vedendo il nostro reciproco stato disastrato, ci scappò entrambe da ridere; Yayoi tentò di coprirsi la bocca con la mano, ma io oramai ero partita, e lei mi seguì subito dopo, e ridemmo, ridemmo così tanto che ci tenevamo la pancia con le mani per come cominciò a farci male.

Lei aveva i capelli spettinatissimi, quasi tutti appiccicati in faccia, e sembrava Sadako; io non ero messa meglio, la felpa bagnata mi faceva sembrare una specie di gatto buttato in una vasca d’acqua.

Neanche quando ci venne incontro Isolde, preoccupata, a sgridarci bonaria su come ci eravamo ridotte, smettevamo di ridere, ma anzi: dopo che se ne andò, per prenderci degli asciugamani, ci guardammo in faccia, e la ridarella tornò prepotentemente.

Alla fine ci infilammo ognuna nella doccia, iniziando così a prepararci per la serata; e mentre l’acqua calda mi toglieva il freddo, mi sentii crescere l’ansia.

Accidenti, pensavo, speriamo vada tutto bene …

 

**

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Capitolo 16
*** Zuneigung ***


XV: Zuneigung

(affetto)

 

-Maki.-

-Ja?-

-Nennen.-

Uscii fuori dalla mia camera con il vestito rosso addosso, mi mancavano le scarpe e poi mi sarei fatta aiutare da Yayoi con il trucco; Isolde mi porse il cordless, e sopresa lo presi, pensando inizialmente che fosse il gestore del bar, oddio che avessi dimenticato che dovevo lavorare quella sera? Ma mi sembrava che il permesso durasse fino a Domenica.

-Hallo?- (Pronto?)

> Maki-chan? Sono la nonna.

Mi sembrava anni che non sentivo la sua voce, ma effettivamente era solo qualche settimana; eppure, quando la riconobbi, mi venne subito un colpo allo stomaco, e lentamente mi avvicinai al letto, sedendo mici con altrettanta lentezza.

-Nonna … che bello sentirti … è … è da molto che non vi sento.-

> Sarai stata certamente impegnata, com’è giusto che sia. Stai bene? Come sta il signor Wakabayashi?

-Io … io e Genzo stiamo bene, ti ringrazio nonna.-

Mi rendevo conto che parlare di Genzo con mia nonna, pronunciando il suo nome, era un passo importante: significava che avevo accettato i suoi sentimenti, e che sarei rimasta assieme a lui. La mia è una famiglia tradizionale, e certi piccoli dettagli venivano sempre ascoltati con grande attenzione.

Tuttavia, la voce di mia nonna rimase calma e dolce come sempre; dopotutto, era stata lei stessa a darmi il permesso di partire e di lasciare la locanda.

> Bene, ne sono molto contenta.

-Nonna, ho saputo da Tomoko … che ci sono dei problemi in famiglia.-

> Per questo ti ho chiamata: ho indetto una riunione di famiglia, per decidere a proposito di tua zia Moe.

Allora era vero: rischiava veramente di essere cacciata dalla famiglia?! Ma era la figlia della nonna, possibile che potesse fare una cosa del genere proprio a sua figlia?

-Nonna, comprendo che le ragioni che ti spingono a fare una cosa del genere sono legate alla famiglia e al desiderio di mantenere la disciplina. Però … zia Moe è tua figlia, sei davvero sicura di volerlo fare? Nonna?-

Non la sentii rispondere, pertanto la chiamai. Questo confermava i miei pensieri: dopotutto, nonna Kyoko amava sua figlia, e fare una cosa del genere la stava straziando. È sempre stata una donna di polso, in quanto matriarca della famiglia, e non ha mai rivelato pienamente i suoi pensieri se non a me, la sua unica nipote femmina per un lungo periodo.

Per tanto, io la conoscevo meglio di tutti, meglio forse dei suoi stessi figli. E capivo che stava male.

-Nonna, ti prego: io lo so che la zia ha sbagliato, e non nego che spesso ho desiderato … che se ne andasse.-

> Tesoro, tu più di tutti hai subito la sua rabbia e frustrazione, non dovresti provare compassione per lei.

-Posso assicurarti che la mia non è compassione, nonna.-

In quel momento entrò Yayoi, già vestita, con i capelli acconciati, e le feci cenno di avvicinarsi, continuando però a parlare al telefono; le avevo detto la mia situazione familiare, e volevo una persona amica che mi sostenesse in quel pesante discorso.

-Il fatto … è che mi viene da pensare che, se avessi scelto voi invece della mia vita, come ha fatto la zia, forse mi ritroverei nella sua stessa situazione.-

> Maki, tu e Moe siete due persone completamente diverse, che hanno avuto esperienze diverse; ma anche fossi stata nei panni di tua zia, credimi, non ti saresti comportata in questo modo.

Presi un profondo respiro, passandomi una mano sugl’occhi.

-Cerca solo di fare il bene della famiglia.-

> Anche Jin è parte della famiglia.

-Gli ha fatto del male?-

> No, ma stava per convincere la famiglia ad allontanarlo, a rimandarlo a Kagawa. Sono dovuta intervenire io stessa.

Chiusi gli occhi, profondamente turbata: non lo avevamo mai rivelato a nessuno, e neanche Genzo lo sa. Yayoi probabilmente lo ha intuito, soprattutto perché sta seguendo gli studi di psicologia, ma per rispetto non mi ha mai voluto chiedermi niente.

È una delle cose che, forse, mi spaventano di più della nostra famiglia, e in particolare di mia zia Moe.

-Nonna, per caso la zia non ha preso più farmaci ultimamente?-

> Dice che non ne ha bisogno, e sta riducendo le dosi.

Maki, ho bisogno del tuo parere, lo sai che è uno di quelli che contano di più per me: cosa vorresti che io facessi?

Mi venne in mente quando conobbi la zia Moe la prima volta: mi aveva guardato con sospetto, ma io l’avevo salutata educatamente, e dopo qualche momento mi diede una carezza sulla testa, sorridendomi con aria amichevole. Avrò avuto si e no cinque anni massimo. Quella era stata una delle rare volte che Oba-sama mi aveva toccata con tanta delicatezza, neanche quando mi aiutava con i kimono era tanto gentile.

Ripensai a molte altre cose che io non vi rivelerò, perché non è giusto nei confronti di Oba-sama; vi basta sapere che, quando mi decisi di parlare, avevo lo sguardo corrucciato, sentivo le sopracciglia spingere sulla parte bassa della fronte.

-Ti chiedo … di farla rimanere nel ryokan. Se lo ritieni necessario, non permettere che abbia contatti con gli altri membri della famiglia. Ma ti chiedo di non cacciarla.-

> … e con Jin e Tomoko?

Giusto, adesso Jin si era trasferito nella mia camera, e quindi era sotto lo stesso tetto della zia; e c’era anche Tomoko, che si era affezionata alla zia, ma tenerla accanto a Oba-sama non era una buona idea, almeno fino a quando la situazione non si sarebbe appianata.

> Maki, so che questa tua scelta è a fin di bene, e non credere che ci abbia pensato; ma ti renderai anche tu che, per il bene di una, ci saranno altri ancora più cari che potrebbero soffrirne.

-Perché allora mi hai chiesto il mio parere, se sai già che è sbagliato?-

> Perché non volevo sentirmi l’unica dissennata della famiglia.

Sorrisi amaramente, e sono certa che anche mia nonna abbia sorriso allo stesso modo, dall’altro capo del telefono.

-… quando ci sarà la prossima riunione di famiglia?-

> Tra una settimana.

Mi sentivo in dovere di andarci, di parteciparvi. Alzai lo sguardo verso Yayoi, che per  tutto il tempo mi era rimasta accanto, in silenzio; la guardai in silenzio, e mi venne in mente che sarei dovuta stare lontana da Genzo dopo cinque mesi di convivenza. Dovevo lasciare il lavoro di nuovo, con il rischio di essere licenziata, e avrei perso delle partite della mia squadra.

Rischiavo di perdere la vita che avevo guadagnato per tornare indietro, e cercare di evitare di perdere un membro della mia famiglia, quell’unico membro che era stato sempre contrario alle mie scelte di vita! Lo ammetto, era un assurdo doppio senso.

Ma proprio non me la sentivo di abbandonare Oba-sama.

-… ci sarò.-

> Come desideri, raggio di sole.

Ci salutammo, chiusi la conversazione telefonica, e cercai la mano di Yayoi, stringendola e tenendo lo sguardo basso; Genzo si sarebbe arrabbiato quando gli avrei detto le mie intenzioni, e di sicuro non avrei ricevuto un caloroso “benvenuto” da parte della famiglia, escludendo i miei genitori, Jin e Tomoko.

Ma sentivo che la nonna aveva bisogno del mio sostegno: la sua voce mi era apparsa più affaticata del solito, la sua parlata era lenta, e anche per questo motivo mi stavo preoccupando ulteriormente; oltretutto, Moe era la figlia femmina più cara alla nonna Kyoko, nonostante tutto.

Mi sentii scuotere: il mondo che conoscevo, che credevo di essermi lasciata alle spalle, in realtà non mi aveva mai abbandonato, e soprattutto si stava come sfaldando, le mie certezze traballavano pericolosamente, proprio quando in Germania, al contrario, avevo appoggiato parte delle solide basi che mi servivano.

Temo di aver fatto male a Yayoi, perché stringevo la sua mano con tutta la mia forza. Lei però rimase in silenzio accanto a me, posando la mano libera prima sulla mia schiena, e poi sulla mano che stringeva; alla fine, mi parlò a voce molto bassa.

-Finiamo di prepararci?-

Annuii.

-Dai, raggiungimi in camera, che ti sistemo i capelli.-

Annuii di nuovo, e la lasciai andare, guardando il suo vestito azzurro fluttuare a pochi centimetri dal pavimento, come un’elegante medusa, sparendo dietro lo stipite della porta; presi un profondo respiro, e il mio sguardo si soffermò sulla scatola, ancora chiusa, che troneggiava nella mia stanza.

Mi alzai lentamente in piedi, avvicinando mici, e la tastai con le dita, sentendo lo scotch che, in un punto, aveva cominciato a staccarsi; lo tirai leggermente, e vedevo che si staccava via dal cartone rinforzato. A quel punto, diedi un forte strattone, e tolsi una prima parte, accanendomi subito dopo sulla seconda, sentendo una tremenda urgenza di aprirla.

La telefonata aveva sconvolto la mia mente, fino ad adesso chiusa in quel nuovo mondo occidentale; avvertii la sensazione di aver dimenticato le mie tradizioni e i miei ricordi legati alla mia casa e la mia famiglia. La mia sofferenza della perdita di Kojiro si era amalgamata con la mia vecchia realtà perfettamente, e quando avevo deciso di lasciare andare mio marito, inavvertitamente avevo lasciato andare via tutto il resto.

Tolsi la seconda parte, ma la terza scoprii che era ancora ben stretta al cartone, e mi guardai intorno, cercando nella stanza qualcosa che potesse aiutarmi; frugai nel cassettone, nell’armadio, e infine mi avvicinai alla scrivania. Niente, maledizione niente!

-Maki? Tutto bene?-

-Yayoi! Dimmi che hai un paio di forbici!-

-Ah, si … si aspetta, te le vado a prendere.-

Mi strofinai le mani, le passai sul viso, continuai a fissare quella scatola con crescente ansia, e quando Yayoi tornò con le forbici gliele strappai di mano, tornando verso il cartone rinforzato e aggredendo il terzo strato di scotch, strappandolo e rovinando la scatola, riuscendo finalmente ad aprirla.

A quel punto mi fermai: sentii, dalla scatola, provenire un familiare odore di Ikebana, tatami e Shoji in carta di riso; allungai molto lentamente la mano dentro la scatola, fino a tastare qualcosa di morbido, fatto di stoffa. Sempre con molta lentezza, decisi di aprirla, e la prima cosa che vidi fu del rosa antico.

Era un involucro color rosa antico, di stoffa, che presi delicatamente, scoprendo che dentro c’era una scatola di legno laccato, con sopra dei fiori di susino; Yayoi mi si avvicinò, ammirandola affascinata.

La liberai dalla stoffa, e l’aprii. E per un momento rimasi senza fiato: nell’interno di stoffa rossa, c’era il mio guantone da softball, le mie vecchie scarpe, riparate e pulite (per la prima volta in dieci anni veramente pulite!) e, soprattutto, il mio pupazzetto portafortuna di Kojiro, con la maglia della nazionale giapponese del World Youth.

Accidenti, mi veniva da piangere, ma misi la scatola da parte, frugando nuovamente dentro il grande pacco di mia nonna: i miei album di fotografie, le mie vecchie riviste, c’era persino la mia uniforme del liceo, e la guardai divertita.

E infine, in fondo alla scatola, loro. Sapevo che mia nonna me li avrebbe mandati: i miei kimono. Più precisamente i kimono con le calzature e gli accessori per trucco e capelli; c’erano i kimono con cui lavoravo al ryokan, quello per il lutto, quelli estivi. E c’era anche il mio Furisode, perfettamente piegato, in fondo a tutti.

Lo accarezzai, preferendo non toglierlo dalla scatola, come fosse una cosa troppo preziosa per esporla alla luce.

-Maki, Yayoi, Friedrich vi aspetta.-

Mi voltai, guardando Isolde sorpresa. poi guardai la ia stanza, e mi resi conto … che era un completo disastro! Oh kami avevo sparso la roba ovunque! Sembrava il campo di battaglia di un’adolescente, non la stanza di una donna.

-Oh, oh cavolo Isolde scusa! Metto subito tutto a posto!-

-Lascia perdere, faccio io. Piuttosto finitevi di preparare, se non volete fare troppo tardi.-

-Isolde ha ragione, dai andiamo di là Maki.-

-Ah aspetta.-

Mi fiondai in bagno, e dalla mensola di vetro sotto lo specchio afferrai il fermaglio che mi aveva regalato Genzo, tornando poi da Yayoi.

-Ti prego, acconciameli con questo.-

-Va bene, dai sbrighiamoci.-

Cercammo di essere veloci, e volammo giù dalle scale, afferrando i cappotti pesanti e uscendo dalla forte urlando a Isolde per salutarla, fortunatamente Friedrich ci aveva sentita e aveva aperto le porte, acceso la macchina e aperto il cancello, così fu solo necessario che noi entrassimo in macchina che questa partì, lasciando il cancello aperto mentre Isolde si affacciava dalla porta.

-Accidenti siamo in ritardo!-

-Ma no, tranquilla: Wakabayashi ha detto che la serata cominciava verso le nove e mezzo, e sono le nove adesso.-

-Ma c’è traffico stasera! Faremo tardi!-

-Maki calmati.-

-Non ci riesco!-

-Dammi le mani, forza.-

Obbedii, e cominciò a massaggiarmi i miei polsi. Era una cosa che Yayoi mi faceva empre durante il suo soggiorno al ryokan: quando mi vedeva troppo agitata, che fosse per rabbia o altro, mi obbligava a sedermi e mi prendeva le mani, massaggiandomi i polsi, per poi risalire fino ai gomiti; e, incredibilmente, riusciva sempre a rilassarmi, con in quel momento.

-Sta calma, andrà tutto bene.-

-E se faccio fare brutta figura a Genzo?-

-Ma finiscila.-

-… e se qualcuno mi dice qualcosa perché sono la sua ragazza?-

-Gli puoi sempre tirare un pugno sui denti. E comunque hai la lingua troppo affilata per non riuscire a rispondere a tono.-

Sorrisi divertita, ma sentivo chiaramente il cuore non calmarsi, per quanto Yayoi stesse facendo un ottimo lavoro; era terribile, ogni volta che la macchina rallentava mi sentivo morire, per poi riprendersi quando accelerava nuovamente.

Alla fine, però, rallentò e si fermò, e uno sconosciuto ci aprì la porta, porgendo la mano a Yayoi, che era prima di me ad uscire. Lei accettò con una naturalità da fare invidia, e io potei solo prendere fiato e accettare la mano, uscendo dalla macchina e guardarmi intorno, nervosa.

La scritta “Vier Jahreszeiten Kempinski München” era bianca e a grandi caratteri, l’aspetto esterno era molto elegante e pulito, e se non fosse stato per dei flash e per la gente che si muoveva al suo interno, forse non ci sarei mai entrata; invece l’uomo che ci aveva fatto uscire alla macchina ci aprì la porta, e a quel punto fui obbligata a compiere il primo passo verso l’interno.

La prima cosa che pensai fu: tappeti super-eleganti. Li sentii chiaramente sotto le scarpe. Poi pensai: troppa gente elegante; la quantità era incalcolabile, e la mia ansia era capace di far triplicare le persone presenti solamente nella hall. Ne vedevo gli abiti, ammiravo le acconciature, e li seguivo con lo sguardo fino alla sala, restando però paralizzata vicino alla porta.

Avevo solo un pensiero in testa: “Voglio scappare, che ci faccio qui?!”.

Cercai Yayoi con la mano, stringendole le dita e portandola verso di me.

-Ridimmi quello che mi hai detto prima.-

-Andrà tutto bene, forza andiamo.-

E fu lei a trascinarmi, perché io sentii letteralmente le gambe paralizzate, come due tronchi d’albero ben piantati nel terreno, tanto che dovette strattonarmi più di una volta per convincermi a camminare; seguimmo una coppia di anziani, molto eleganti, per i corridoi con legno e vetrate colorate, lampadari cadenti dalla luce dorata e persone eleganti che, di sicuro, erano molto a più agio di me in quegl’ambienti.

Alla fine la camminata si fermò davanti ad una grande sala … dove se io mi mettessi a descriverla, ci metterei troppo tempo. Sappiate solo che quando vidi tutta quella gente, in quella stanza, di quell’albergo, mi sentii completamente spersa, e il mio primo istinto fu quello di cercare la figura di Genzo; ma ovviamente non riuscii a trovarlo, troppi uomini, troppe donne, troppe persone.

“Maki, calma, calma, respira. Ricordati che Genzo ti ha detto che sarebbe arrivato di sicuro prima di te, perché la serata l’ha organizzata la società con altri sponsor. Quindi c’è.

Ora entra dentro e trova il tuo tavolo.”

-Pronta?-

Annuii a Yayoi, senza guardarla in faccia.

-Si, pronta.-

E feci un primo passo; un giovane cameriera mi si avvicinò, chiedendomi se avevo l’invito. Risposi meccanicamente, seguendo le istruzioni di Genzo.

-Ci devono essere due prenotazioni a nome di Wakabayashi.-

-Ah certamente, ben arrivate. Prego seguitemi.-

E il giovane ci fece strada, attraversando tavoli rotondi, gente in piedi che chiacchierava e sorseggiava, fino a raggiungere il nostro posto, un tavolo abbastanza centrale dove tutti, in quel momento, si voltarono  guardare me e Yayoi.

-Prego, datemi pure le giacche.-

“Maki, sei un Akamine! Testa dritta e sicurezza!”

Compii lentamente l’operazione, rivelando il vestito rosso, e aspettai la mia amica per potermi sedere mentre un secondo cameriere ci portava due bicchieri di spumante; Yayoi lo ringrazio con un sorriso, e io feci un semplice cenno con la testa, troppo nervosa per riuscire anche solo a parlare. La mia amica, al contrario, sembrava così a suo agio!

-Ma come fai?-

-Eh?-

-Come fai a stare così tranquilla! Insomma, hai visto in che posto stiamo?-

-Maki, questi sono tutti semplici uomini e donne. Mi preoccupa molto di più un paziente in una grave condizione fisica che tutta questa gente.-

Ancora una volta, ammirai la tranquillità di Yayoi, e la spinsi a fare con me un piccolo brindisi, sorridendo divertita e guardandomi intorno con molta più calma.

-Signora Akamine!-

-… signor Franz! Salve!-

Mi alzai in piedi per salutarlo, stringendogli la mano. Era elegantissimo e sembrava ancora più alto in quel completo, mentre mi parlava amichevolmente.

-Sono molto contento che sia venuta.-

-La ringrazio dell’invito. Questa è Yayoi Aoba, la mia amica.-

-Salve, Franz Beckenbauer.-

Ovviamente Yayoi non comprendeva il tedesco, e io mi affrettai a tradurle quello che dicevamo, in modo da poterla far partecipare.

-Allora, come ti sembra il posto?-

-Devo ammettere che sono un po’ nervosa, non mi è mai capitato di partecipare ad eventi simili.-

-Beh, sappi amica mia che tu e la signorina Yayoi siete assolutamente meravigliosa.-

Sentii un flash in faccia, e mi girai sorpresa, trovando un fotografo che ci fece altre due-tre foto, e solo all’ultima ebbi la forza di fare un microscopico sorriso; quando il fotografo se ne andò, presi fiato, ero scoraggiata! Le mie prime foto e sono sicura che avevo una smorfia tremenda in faccia!

-Tutto bene?-

-Yayoi, giustamente, dice che non sono abituata, ed in effetti non mi piace farmi fare le foto così; ma capisco che l’evento è molto importante, e per una buona causa.-

-Si, siamo soliti dare queste serate assieme ai nostri sponsor per finanziare dei progetti di solidarietà.-

Sinceramente non chiesi ulteriori specifiche, perché avevo la sensazione che fosse tutto molto bello e ridondante, ma anche estremamente … vuoto: la gente che chiacchierava mi pareva come fatta di cartapesta, dal sapore sciapo nonostante gli abiti eleganti. Il mio nervosismo di prima si stava lentamente spegnendo nelle chiacchiere con il signor Franz, che anche lui, nonostante tutto, pareva fatto di cartonato.

Per un attimo, temetti che anche Genzo fosse così quella sera, e me lo ricordai con addosso la sua felpa mentre chiacchieravamo sul tavolo della cucina.

-Maki Akamine?-

Mi voltai. Una sconosciuta.

-Si?-

-Salve, sono Idda Gruntig, della Bunt. Non so se conosce la rivista.-

Cronaca rosa. Ok, non è particolarmente scandalistica, possiamo essere gentili, anche se si è messa sedere nella sedia accanto a me che credo, anzi no sono certa, sia la sedia di Genzo.

-Si certo, mi dica pure.-

-Volevo farle qualche domanda su lei e Genzo Wakabayashi, se lo vuole.-

Tradussi la richiesta a Yayoi, chiedendole consiglio. Lei, per tutta risposta, annuì.

-Va bene, chieda pure.-

-Da quanto tempo state insieme?-

-Ufficialmente sono cinque-sei mesi.-

E già ne rimase sorpresa, cavolo Genzo! Ma che hai combinato fino adesso?

-E vi conoscevate già o no?-

-Lo conoscevo di fama tramite mio marito.-

-Suo marito?-

-Kojiro Hyuga, era un calciatore …-

-Oh ma certo! Oh santo cielo!-

E si agitò, facendomi dubitare sulla sua sanità mentale, tuttavia la giornalista si calmò e si spiegò.

-Sapevo che il suo nome mi era familiare: ho scritto un articolo per la stampa tedesca su lei e il suo defunto marito. Sono addolorata della sua perdita.-

-Anch’io, la ringrazio.-

-Immagino che Wakabayashi le abbia dato una mano nel suo lutto.-

-A dire la verità no.-

La faccia della giornalista mi fece sorridere divertita, e nel frattempo che si riprendeva tradussi quello di cui avevamo parlato a Yayoi, che a sua volta sorrise.

-Il fatto è che io e Genzo non ci conoscevamo per niente, gliel’ho detto. Quando ci siamo rivisti, quest’estate, eravamo due perfetti estranei.-

-E come siete finiti a stare insieme?-

Mi rivolsi a Yayoi.

-Le dico che lavoravo in un ryokan? O mi mantengo sul vago?-

-… mantieniti sul vago, credo che il loro concetto di “cameriera del ryokan” sia molto meno poetico del nostro.-

E allora mi rivolsi alla giornalista, cercando d’impastare qualcosa di più affine alla realtà che non facesse pensare male.

-Per una serie … di circostanze … c’è capitato di incontrarci e conoscerci, e pian piano siamo diventati amici … e successivamente abbiamo provato qualcosa di molto più forte dell’amicizia.-

La giornalista sembrava incantata dalla mia sintesi, pareva volermi divorare con gli occhi mentre cercava di carpire qualche informazione in più.

-E chi è stato il primo a dichiararsi?-

… oh dai, la tentazione era troppo forte!

-Lui.-

-Davvero?!-

Per la seconda volta la giornalista era stralunata, e stavo per raccontarle tutto quando sentii una mano sulla spalla, facendomi alzare lo sguardo. Genzo.

-Buonasera signorine.-

-Genzo.-

-Ah, signor Wakabayashi, sono Idda Gruntig, della Bunt.-

La guardò perplesso, ma non c’è da stupirsi dubito che lui abbia mai letto qualcosa di cronaca rosa, e gli dissi della rivista in giapponese; quando lo scoprì rimase ancora più palesemente perplesso, e a me venne da ridere, le sue sopracciglia parevano quelle dei cartoni animati.

-Stavo facendo qualche domanda alla signora Akamine a proposito di voi due, e mi ha rivelato che lei è stato il primo a dichiararsi dei due, può confermarmelo?-

Ahia, adesso mi sgriderà. Scusami Genzo, ma giuro che non ho saputo resistere!

-Si, è vero: Maki, ancora adesso, è profondamente legata a suo marito, che è stato mio amico e rivale nel calcio, per cui provo tutt’ora molta stima. Tuttavia i miei sentimenti per lei sono sempre stati sinceri, per quanto non abbia avuto relazioni degne di tale nome, e volevo dimostrarglielo, e l’unico modo che conoscevo era essere sempre sincero con lei, anche in quel momento.-

Se fosse stato un fumetto, la giornalista avrebbe avuto dei cuoricini al posto degl’occhi, mentre io avrei emanato fumo dall’imbarazzo; fortunatamente ero già seduta, perché dubito che dopo un simile discorso avrei avuto la forza per mettermi in piedi. Tuttavia ne ero tremendamente felice, e posai la mia mano sopra quelle di Genzo, sorridendogli.

Il fotografo che passò non perse l’occasione di farci una foto, e questo mi fece nuovamente abbassare la mano, e che cavolo era un momento intimo, non si può proprio fare niente in quei posti! Scommetto che anche quando vai in bagno ti fanno la foto.

La giornalista, intanto, si era ripresa.

-E lei, Maki? Come ha reagito?-

-… all’inizio ero sorpresa … e spaventata. Non da lui, ma dai miei sentimenti: mio marito è stato il mio primo amore, e non c’era che lui per me. E per di più Genzo ... all’inizio pensavo che con lui avrei avuto solo grattacapi e problemi.

Ma … conoscendolo … mi sono resa conto che forse era di questo che avevo bisogno: di ricominciare … totalmente da zero, con una persona … che non credevo capace di spingermi addirittura a trasferirmi in un altro Paese pur di starci insieme. Forse anche per questo l’ho fatto.-

E gli rivolsi un’occhiata piena di gratitudine. E lui? Lui s’imbarazzò, cercando di darsi un contegno mentre io sorridevo divertita.

La giornalista, intanto, sembrava veramente colpita dalla mia spiegazione, e si alzò in piedi, porgendomi la mano per stringergliela.

-Grazie, non credo di aver bisogno di altre domande. L’articolo sarà sul prossimo numero se è interessata.-

-La ringrazio, buona serata.-

E la donna si allontanò con il suo vestito viola scuro, mentre io sentivo quella mano prendermi la vita, Genzo si abbassò fino al mio orecchio per parlarmi.

-Amo e odio la tua schiettezza.-

Sorrisi.

-Come va?-

-Questa è la quarta intervista che concedo, non c’è la faccio più.-

-Vuoi già andare via?-

-E perdermi il discorso buonista di Karl? Scherzi?!-

Mi venne di nuovo da sorridere, lasciando che l’uomo si sedesse lì, dove prima c’era la giornalista, proprio mentre si stavano abbassando le luci; a quel punto mi accomodai anch’io, raccontando brevemente ciò che era accaduto a Yayoi, la quale mi si avvicinò ulteriormente per farsi aiutare nei minuti successivi.

 

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Capitolo 17
*** Marienplatz (I°Parte) ***


XVI: Marienplatz

(piazza di Maria)

I°Parte

 

-Miei cari amici …-

-Oooh, cominciamo bene …-

-Siamo qui riuniti non per parlare del nostro ennesimo successo come squadra …-

Si sentì qualche risata e commento a tal proposito, ma avvertii chiaramente Genzo dietro di me che commentava.

-Tzé, ma sentitelo.-

-Bensì siamo qui per un importante evento che, come ogni anni, ci coinvolge tutti: come sapete, la nostra associazione è da sempre propensa a partecipare a progetti di solidarietà, e ogni anno vi invitiamo a partecipare con le vostre offerte, che come sempre sono generose e dimostrano … la vostra profonda generosità.-

-Lo sapevo che l’avrebbe letta, guarda come storce la bocca! Ricordami di dirgli che mi deve dieci euro.-

Mi voltai verso di lui cercando di fare una faccia sconvolta e contrariata, ma mi scappava da ridere e lui ghignò alla mia reazione; tornai a guardare Karl, in piedi mentre parlava ai presenti, nascondendo sul piedistallo il foglio che teneva con sé.

-In quanto capitano della squadra sono qui per ringraziarvi e per annunciarvi che, anche per quest’anno, le donazioni hanno superato le nostra aspettative, e che ancora una volta riusciremo a realizzare l’ennesimo passo per dare a chi ne ha più bisogno un futuro sicuro e migliore. Grazie a tutti.-

E mentre partiva l’applauso, il tedesco scese giù dalla postazione, avvicinandosi verso dei signori di bell’aspetto che gli stringevano la mano e gli parlavano con un sorriso soddisfatto sulle labbra; il mio applauso fu piuttosto fiacco, non che ci credessi ai “progetti di solidarietà”, ma eventi di quel tipo mi erano estranei e, personalmente, non mi sapevamo veramente di “generosità”.

-Mi aspettavo che dicesse qualcosa di più, ma non importa, è più che sufficiente per prenderlo in giro per il resto del mese.-

In questo caso, però, non potevo certo essere d’accordo con il mostro seduto dietro di me! Mi voltai verso di lui, e provai a sgridarlo nonostante avessi ancora la risata di prima che si smaltiva in corpo.

-Genzo Wakabayashi, sei proprio una bestia! E soprattutto un maleducato, per colpa tua non sono riuscita a tradurre tutto a Yayoi!-

-Bah, non si è persa granché.-

-Ma dai!-

-La generosità non si dimostra con cene di gala ed eventi mondani come questo, e tu sei d’accordo quanto me.-

-… è vero. Però se non avvenissero eventi del genere, credi che la “generosità” di questi signori si smuoverebbe per fare qualcosa di utile?-

-Touché.-

Ci sorridemmo con aria complice, e proprio in quel momento Karl ci raggiunse.

-Allora Genzo, hai abbastanza materiale per darmi sui nervi?-

-Assolutamente si, nonostante hai tagliato metà del discorso e sei scappato appena ne hai avuta l’occasione.-

Ridacchiai divertita, poi mi alzai in piedi per fare le presentazioni.

-Karl, questa è la mia cara amica Yayoi Aoba.-

-Piacere.-

-Piacere mio.-

Fortunatamente per Yayoi Karl conosceva un pochino di giapponese, così non ci fu bisogno della mia onnipresenza, e Genzo se ne approfittò per rivolgermi nuovamente la parola.

-Allora, cos’avete fatto oggi mentre non c’ero?-

-Mah, niente di che, ci siamo fatte una passeggiata e ci siamo inzuppate con la pioggia di stamane.-

-Beh, mi sembra che sia stata una giornata proficua, no?-

Scossi il capo sorridendo, lanciando un’occhiata verso Yayoi, in quel momento stava tranquillamente conversando con Karl, mescolando al giapponese anche l’inglese, con il tedesco che sembrava comprenderla perfettamente, rispondendole con assoluta tranquillità, a volte alzando la voce per il rumore di sottofondo.

-E lei? Come sta?-

-… ha telefonato a Misugi. Gli ha dato un ultimatum.-

Genzo ne sembrò sinceramente sorpreso, e io mi avvicinai ulteriormente a lui, per quanto stessimo parlando in giapponese non mi andava che qualcuno ci sentisse.

-Gli ha detto chiaramente che lo ama, ma che non è disposta a continuare la situazione di prima; per tanto o lui si da una mossa, oppure lei lo lascia.-

-Beh, se per lei era la cosa migliore da fare non ho molto da dire.-

Io annuii, ma ero lo stesso preoccupata: per quanto Yayoi fosse una donna con la testa sulle spalle, nascondeva una fragilità che mi spingeva ad essere preoccupata per lei; se mai si fossero lasciati, quei due, non credo che la mia amica ne sarebbe uscita completamente illesa.

Sentii Genzo prendermi la mano, e alzai lo sguardo verso di lui, incontrando i suoi occhi penetranti ma rilassati.

-Aoba può affidarsi ad un’amica come te, quindi non corre pericoli, giusto?-

Era strano come, in certe occasioni, potesse rivelare questa fiducia nei miei confronti, mi metteva in imbarazzo, e io potei solo annuire, cercando di non arrossire come al mio solito.

-C’è altro?-

Ah, la telefonata di mia nonna. Dovevo dirglielo. Anche se non l’avrebbe presa bene.

-Ah si, mi ha chiamato …-

-Ehi Genzo!-

Alzammo entrambi lo sguardo, e per un attimo mi venne un colpo: in piedi, dietro di noi, c’era un secondo Genzo, con i capelli più lunghi e l’aria decisamente più gioviale dell’orso che, in quei secondi, mi lasciò la mano e si alzò in piedi per salutare il suo simile.

Pian piano, mentre scorrevano i secondi, trovai molte più differenze tra i due: lo sconosciuto aveva la pelle più chiara e i lineamenti più dolci di quelli duri e severi di Genzo, oltre ad essere molto più magro.

-Che ci fai da queste parti?-

-Vengo da parte di nostro padre, sai com’è non perde occasione di partecipare a queste manifestazioni.-

Il loro padre?! Oh Kami, quello era uno dei due fratelli di Genzo!! Che colpo di fortuna!! Mi alzai lentamente in piedi mentre Genzo e suo fratello si voltavano verso di me, quest’ultimo con aria colpita e cordiale; al contrario, il mio orso sembrava infastidito che io mi fossi mossa, come se sperasse che l’altro non mi notasse.

-Genzo?-

-Maki, questo è Akio. Akio, la signora Maki Akamine.-

-Molto lieto.-

Io mi aspettai che mi stringesse la mano, invece porto il dorso sulle labbra. Beh, non si poteva certo dire che non era un galantuomo, ma così era fin troppo imbarazzante, e l’orso accanto a me cominciò a rivelare qualcosa di più oltre al fastidio, così separai il più velocemente possibile la mia mano da quella del parente, che sorrise divertito.

-Non si preoccupi: sono sicuro che oltre a Genzo anche la mia fidanzata mi avrà lanciato un’occhiata di fuoco.-

E fece un cenno alla sua destra: mi sporsi, e notai subito la ragazza dai capelli lunghi e neri e l’abito blu che lanciava continue occhiate verso di noi.

-Temo che non si fidi di me, lei cosa ne dice?-

-… non mi sorprenderebbe.-

-Ah, colpito e affondato.-

E rise, dovevo ammettere che Isolde aveva ragione, Akio era così diverso da suo fratello: tanto per cominciare, teneva le mani in tasca e la camicia senza cravatta sbottonata sui primi tre bottoni. Eppure il suo completo era molto elegante, e il suo sorriso amichevole non gli dava l’aria di un ragazzaccio, solo di un tipo che facilmente faceva amicizia con gli altri.

-Allora, com’è vivere nella casa del mio scorbutico fratellino?-

-Di sicuro meglio della tua giungla amazzonica, nascondi ancora la biancheria sporca sotto il letto?-

Rimasi sorpresa da quell’informazione, ma l’altro sorrise divertito, passandomi una mano tra i capelli.

-Purtroppo no, da quando Amelia mi ha messo in riga posso assicurarti che ho dato una “potatina” alla giungla.-

-Mi sorprende.-

-Già, sarà anche per questo che alla mamma piaccia così tanto quella ragazza.-

-Allora sarai tu il primo a far felice la mamma e ad accasarti?-

-Ehi, vacci piano fratellino, sono ancora giovane e aitante io.-

-Se se, come no, credi che non abbia visto la pancia che nascondi sotto la camicia?-

-Solo perché sei cresciuto in altezza non significa che adesso riesci a sconfiggermi nella lotta.-

-Vogliamo vedere?-

-No dai, poi che direbbe la stampa sulla famiglia Wakabayashi?-

E gli diede una leggera pacca sulla spalla, sorridendo mentre io osservavo quella scena affascinata: sono figlia unica, pertanto mi colpisce sempre il legame tra fratelli. Kojiro, poi, era il fratello maggiore nella sua famiglia, e lo avevo visto prendersi cura dei suoi fratellini e di Naoko con amore immenso; qui, invece, era Genzo il più piccolo, e lo s’intuiva dall’atteggiamento del fratello nei suoi confronti.

E per quanto mantenesse il suo atteggiamento distaccato, vidi chiaramente negl’occhi di Genzo qualcosa di più morbido delle sue solite occhiate distaccate, e mi venne da sorridere. Akio, intanto, mi rivolse di nuovo la parola.

-Invece, come sta Isolde?-

-Ah bene. Mi ha parlato di lei e della sua famiglia.-

-Oh cielo, “di lei”?! Dammi del tu, già mi basta Genzo per farmi sentire vecchio.-

-Ma sentitelo, il matusa.-

-Ah, già, quanti anni di differenza ci sono tra di noi?-

-Tra me e Genzo tre anni, mentre tra me e Ichirou solo uno; in effetti tu sei stato quello inaspettato.-

-Già, e infatti sono sempre una sorpresa per lei.-

-Soprattutto quando si tratta di vederci, non sei venuto all’ultimo pranzo insieme, mamma ci è rimasta male.-

-Avevo un impegno.-

E mi prese per la vita, stupendomi e facendomi sentire in imbarazzo; guardai Akio intimidita, ma vidi che lui era sinceramente sorpreso, e sorrise ulteriormente, passandosi nuovamente una mano tra i capelli.

-Beh, questo mi sorprende.-

E Genzo annuì, sorridendo con aria soddisfatta, continuando a stringermi per la vita mentre io lo guardavo incuriosita: perché il fratello era tanto sorpreso? Le precedenti relazioni di Genzo non contavano più della famiglia. Ero quindi … così importante per lui? Oh Kami, ma che imbarazzo! Cioè si, lo so, io sono importante per lui, ma comprenderlo ulteriormente in quel modo era … insomma … kami-sama!

-Bene, allora ti lascio in mani sicure, ma voglio ricordarti che al prossimo invito non puoi dire di no: la mamma è abbastanza permalosa in questi casi.-

-Si lo so, verrò sta tranquillo.-

-Allora vi lascio soli. È stato un piacere Maki.-

-Ah, piacere mio.-

-Genzo.-

-Salutami Amelia.-

-Senz’altro!-

E si allontanò nel mare di gente davanti a noi mentre Genzo continuava a tenermi stretto a sé, tanto che oramai mi ero abituata a quella stretta, ma quando vidi la gente guardarci abbassai il capo imbarazzata, mormorando all’uomo accanto a me.

-Ci guardano tutti …-

-Beh? Che guardino pure, tanto la loro è solo invidia.-

E mi fece scivolare con tremenda facilità tra le sue braccia, prendendomi la mano e sorridendomi con aria divertita.

-Balliamo?-

-… sono una trave di legno.-

-Non importa, tanto non devi guidare mica tu: quello con i pantaloni, almeno stasera, sono io.-

E mi fece ridere, come ci riusciva a sempre, mentre mi accompagnava su quella zona dove c’erano altre coppie come noi, la musica a quella distanza si riusciva a sentire, nonostante il chiacchiericcio di sottofondo, e ben presto mi curai sempre meno degli sguardi che ci venivano rivolti.

All’inizio rivelai la mia natura di pezzo di legno con i tacchi, ma pian piano Genzo cominciò a farmi sciogliere, arrivando addirittura a farmi fare una piroetta, con mio incredibile imbarazzo, prima di prendermi di nuovo tra le braccia.

Era una sensazione cullante, piacevole e assolutamente nuova: non avevo mai ballato con Kojiro, lui era più rigido di me in quei casi, e ritrovarmi su una pista da ballo era strano, tanto che non sapevo davvero come muovere i piedi; poi, senza fretta, presi il ritmo, e ben presto mi resi conto che non c’era effettivamente bisogno di muovere così tanto i piedi, e che era più comodo tenere le mani appoggiate sul petto di Genzo.

Un brividi mi passò sulla schiena quando sentii le sue braccia stringermi a sé, e sorrisi imbarazzata, ritrovandomi quegl’occhi scuri che mi concedeva solo quando eravamo soli in cucina, o sulle scale, o in quei brevi momenti quando nessuno ci guardava.

Ma stavolta eravamo sotto gli occhi di tutti, eppure era capace di una tale espressione che proprio non riuscivo a non sentirmi felice; e, anche per quella felicità, mi resi conto che dovevo dirgli della telefonata con mia nonna: non gli sarebbe piaciuto, ma era giusto nei suoi confronti.

-Senti, Genzo.-

-Che c’è?-

Parlava a bassa voce, e mi mancò per un momento il coraggio, avrei di sicuro distrutto quel momento d’intimità con le mie parole, ma se non glielo avessi detto allora, probabilmente non ne avrei più avuto l’occasione.

-Oggi … oggi mi ha telefonato mia nonna.-

-Ah, come sta Kyoko-san?-

La chiamava per nome perché mia nonna glielo aveva chiesto, ma sentirlo pronunciare quel “san” mi faceva sorridere d’orgoglio, per il rispetto che comunque lui portava nei confronti dell’anziana.

-Non sta molto bene: ti ricordi che ti ho parlato di mia zia?-

-Si, certo. È successo qualcosa?-

-Beh, ecco … tra una settimana ci sarà una riunione di famiglia … per decidere sul da farsi …-

-E stai pensando di andarci …-

Terminò la mia frase, e per un momento ci fermammo dal ballare. Ecco, ecco lo sapevo, adesso si arrabbiava; alzai lo sguardo verso di lui, e in effetti vidi uno sguardo contrariato. Poi però, inaspettatamente, riprendemmo ad ondeggiare, e sbuffando appoggiò il suo mento sopra la mia testa, portandomi a chinarla leggermente mentre mi parlava.

-E come mai ci vuoi andare?-

-… perché mia nonna ha bisogno del mio aiuto: sai, lei non vorrebbe allontanare mia zia, è sua figlia, e nonostante tutto le vuole bene.-

-E tu sei d’accordo con lei, giusto?-

-Beh … si.-

Sospirò di nuovo, stavolta lo sentii chiaramente fare pressione sulla mia testa, facendomi anche male.

-Possibile che dopo tutto quello che ti ha combinato ancora ti ostini a prendere le sue difese?!-

-Ahio, ma io mica prendo le sue difese! Sono preoccupata per la nonna!-

-Balle!-

-Ehi!-

Alzai lo sguardo verso di lui e non lo vidi particolarmente arrabbiato, o deluso o risentito, ma era quanto meno infastidito, con lo sguardo accigliato; non mi accorsi nemmeno se ci fossimo fermati o stessimo continuando a ballare. Presi un profondo respiro e strinsi leggermente le mani sulla sua giacca.

-Lo so che sono diversa da mia zia, me lo hai già detto. Ma proprio non posso smettere di pensarci; oltretutto non hai idea di quello che ha passato e che sta ancora passando.-

Ancora una volta mi tornò in mente quando la zia, la prima volta, mi accarezzò la testa, sorridendomi gentile. No, per quanto mi avesse ferita in molti modi, non potevo proprio lasciare che le cose prendessero questa piega.

All’improvviso sentii qualcosa sulla tempia; alzai gli occhi, e mi accorsi che erano le labbra di Genzo, con mia enorme sorpresa. quando lui tornò a guardarmi aveva ancora uno sguardo infastidito, ma era più ammorbidito, e appoggiò nuovamente il suo mento sulla mia testa.

-Non c’è niente da fare: sei una ragazza troppo buona, quella lì non si merita proprio il tuo aiuto.-

Anche se era contrario, stava cercando di accettare il mio desiderio di tornare in Giappone. Accidenti, questo suo modo di fare mi stava viziando, avevo come l’impressione che non sarebbe stato capace di dirmi di no qualsiasi cosa gli avessi chiesto in quel momento; sorrisi, e mi strinsi al suo petto, sentendo l’odore della sua colonia provenire dalla stoffa.

-Grazie Genzo.-

-Guarda che non ti ho mica detto che ci vai.-

-… so che ti costa, ma prometto che tornerò presto.-

-… l’hai promesso, guarda che se manchi alla parola te lo rinfaccio per il resto della tua vita.-

Sorrisi divertita, stringendomi ulteriormente, e lui ne approfittò, prima di farmi ondeggiare un po’ più forte, portandomi a staccarmi e tornando a ballare, alla fine della musica mi accompagnò elegantemente al tavolo, avevano cominciato a servire la cena, e lui si allontanò un momento per parlare con qualcuno.

Yayoi ne approfittò per avvicinarmisi.

-Ti sconsiglio di assaggiare quell’antipasto.-

Guardai il pesce crudo sul piccolo piatto, e la composizione mi sembrò molto bella e raffinata, tanto che rivolsi un’occhiata titubante alla mia amica, e lo assaggiai lo stesso.

Volete sapere la verità? Avrei dovuto darle retta.

-Oh kami!-

-Io ti avevo avvertita.-

Ci guardammo, e un secondo dopo ci stavamo trattenendo dal ridere. Poi lei mi rivolse nuovamente la parola.

-Allora? Come l’ha presa Wakabayashi?-

Ma avevamo parlato forte? Com’era possibile che lei lo sapesse? Ah, certo, era la mia migliore amica, era ovvio che sapesse di cosa avevamo parlato io e lui, anche perché aveva anche ascoltato la conversazione telefonica.

-Insomma, mi lascia andare, ma di certo non è contento.-

-Però ti lascia andare, no? È un buon segno, giusto?-

E annuii. In quel momento Genzo tornò al tavolo, sedendosi accanto a me e guardando l’antipasto con aria chiaramente dubbiosa. Io e Yayoi ci avvicinammo a lui.

-Vuoi un consiglio?-

-Non assaggiarlo.-

E lui annuii gravemente, tenendo le posate intonse ai lati del piatto mentre i camerieri passavano tra i vari tavoli; la cena passò così tra una chiacchiera e l’altra, Karl si era unito al nostro tavolo e si stava divertendo a stuzzicare Genzo, che ricambiava con la stessa moneta, parlando prima delle loro sfide come rivali, e poi delle loro partite come compagni di squadra.

Però mi colpì anche che, ad un certo punto, si fossero messi a parlare anche di argomenti come politica e cultura: la conoscenza letteraria di Genzo m’impressionò non poco, nonostante ricordassi chiaramente la libreria che aveva in salotto. Karl scoprii che era un amante di Agatha Christie, mentre Genzo apprezzava molto di più Stephen King.

-Non mi sorprende che ti piace l’horror e il thriller.-

-Però neanche lui è riuscito a guardarsi “l’esorcista” del tutto.-

-Davvero?!-

-Io però ho resistito fino a metà, tu invece già alle prime scene ti eri volatilizzato in cucina, chissà come mai!-

E Karl si beccò in pieno la stoccata. Mi raccontarono di quella giornata, e di come non fosse la prima volta che loro e i compagni di squadra si riunissero per passare i pomeriggi fuori dagl’allenamenti.

-Una volta abbiamo avuto la pessima idea di fare un torneo di calcio con i videogame. Eravamo divise in squadre da due, e ti posso assicurare che Genzo si è mangiato il suo compagno!-

-Perché, tu? Ogni volta che perdevate gli lanciavi certe occhiatacce!-

Io e Yayoi ridevamo proprio di gusto, parlando però anche noi dei nostri momenti passati insieme, come per esempio le nostre riunioni con le altre ragazze della Nazionale.

-Sanae organizzava sempre tutto al minimo dettaglio, ce l’aveva proprio nel sangue.-

-Non mi sorprendere, li ha sempre fatti stare in riga quegli scatenati di Ryo e gli altri.-

E mi ritrovai ad ascoltare i racconti di quando ancora non li conoscevo, di quando erano molto più piccoli e, forse, più indiavolati; sentire com’era stato mio marito prima di conoscerlo mi sorprese non poco, e Yayoi si voltò verso di me, sorridendo mentre diceva quell’appunto.

-Da quando ti aveva conosciuta, mi era sembrato molto meno arrabbiato.-

-Davvero? Non lo sapevo.-

-Ti posso assicurare che non lo chiamavano “Tigre” per niente.-

-In effetti ricordo che spesso litigavamo io e lui durante i nostri primi appuntamenti; poi il tempo ci ha fatti calmare … almeno in parte.-

E sorrisi divertita verso Yayoi, prima di voltarmi verso Genzo; e per un istante, mi accorsi chiaramente di quello sguardo a metà fra il ferito e il malinconico. Cercai all’istante la sua mano, e gliela strinsi, sorridendo leggermente.

Genzo, mio stupido orso, quello era il mio passato; tu eri e sei il mio presente.

Continuammo a chiacchierare, io gli tenevo la mano senza pensarci troppo, e ben presto arrivarono i dolci e la frutta; e con essi, la gente ricominciò a rialzarsi, per andare a ballare o chiacchierare fra di loro.

E per la seconda volta, qualcuno raggiunse il nostro tavolo.

-Genzo!-

Era uno sconosciuto con i capelli biondo scuri, e quando lo vide Genzo si alzò subito in piedi per stringerli la mano, parlandogli in maniera confidenziale, ma con una strana aria in volto, come se il rivederlo fosse stata davvero una sorpresa.

-Non mi sarei mai aspettato di trovarti qui.-

-Che vuoi farci, sono stato mandato dal mio allenatore per spiarvi, no? Scherzi a parte, come stai? Ho saputo della vostra vittoria sull’Hamburger.-

-Già …-

-Come stanno? Sono sempre i soliti treni, che travolgono chiunque gli capiti davanti?-

-Nah, oramai si sono calmati.-

-Beh, dopo quanto è successo non mi stupisco.-

Era calata un’atmosfera strana, di quelle malinconiche ma tremendamente tese, che mi fece subito preoccupare e guardare Genzo, aveva ancora quell’aria di disagio, come se parlare con quell’uomo fosse più difficile che fastidioso; questo sembrava avere lo stesso atteggiamento.

-Non voglio infastidirti ulteriormente, volevo solo salutarti, era da un po’ che non ci si vedeva.-

-Già.-

-Allora buona serata. Signori.-

E facendo un cenno del capo se ne andò, e lo guardai andarsene incerta, mentre Genzo si sedeva accanto a me, l’aria serena che aveva qualche minuto prima era scomparsa, al suo posto c’era una sensazione amara, che gli aveva visto solo quando l’avevo spiato a bere in camera sua.

Karl prese la parola.

-È Jonah Sergevich, giusto? L’ex centrocampista dell’Hamburger.-

-Si, lui si è trasferito nel Colonia nello stesso periodo in cui sono venuto nel Monaco dopo quanto era accaduto.-

-Immagino che avesse avuto dei precedenti incontri.-

-Si …-

La sua risposta evasiva mi preoccupò ulteriormente, nonostante avesse richiamato qualcosa che da tempo mi aveva incuriosito, ovvero quello che era successo nella sua precedente squadra; avrei tanto voluto chiedergli di più, ma l’immagine di lui che beveva nella stanza e il suo atteggiamento adesso mi rattrappivano la voce in gola, impedendomi di parlare.

La serata, nonostante tutto, era andata così bene, ci eravamo anche divertiti; vederlo con quell’espressione, arrivata in meno di cinque minuti, mi infastidì profondamente, tanto che mi alzai in piedi e mi rivolsi a lui in giapponese, in modo che solo i presenti della tavola ci potessero comprendere.

-Genzo, facciamo una passeggiata.-

-… eh?!-

-Ho voglia di andare via da qui, dai facciamo quattro passi.-

E gli porsi la mano, guardando attentamente la sua reazione: all’inizio lo lasciai completamente spiazzato; poi, lentamente, la sorpresa lasciò il posto allo stupore, e poi ad un sorriso divertito mentre si alzava in piedi, offrendomi il braccio.

-Ogni suo desiderio è un ordine.-

Mi voltai verso Yayoi, che si alzò in piedi, e poi mi rivolsi a Karl.

-Vuoi venire con noi?-

-… perché no? Comincio a sentire caldo qui dentro.-

E tutti quattro ci dirigemmo, ovviamente sotto l’occhio attento di tutti, fuori dalla sala, dove ci ridiedero i nostri cappotti; uscimmo dall’hotel, e l’aria gelata di Monaco m’investì le guance, facendo mi rifugiare il collo e il volto dentro il bavero del cappotto. Genzo, invece, s’infilò le mani nelle tasche della sua lunga giacca, rivolgendosi poi verso di me.

-Allora, dove andiamo?-

-Ah?-

-Beh, tu volevi fare quattro passi, no? Dove si va?-

Ah, cavolo, non ci avevo pensato. In mio soccorso, arrivò Yayoi.

-Ci sono i mercatini di Natale a Marienplatz?-

Karl le rispose.

-Si, oramai dovremmo essere in periodo.-

-Ne ho sentito tanto parlare, vorrei andarci.-

-Mi pare una buona idea, tu cosa ne pensi Genzo?-

-Si, si può fare. Maki?-

Marcatini … di … Natale?

-… si, dai, andiamoci!-

 

**

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Capitolo 18
*** Marienplatz (II°Parte) ***


XVII:Marienplatz

(Piazza di Maria)

II°Parte

 

Uscimmo dall’hotel, e di colpo mi sentii ricaricare di una strana energia: sarà stato forse il freddo dell’ultima metà di Novembre, o magari camminare e chiacchierare, scambiando in diversi momenti l’interlocutore mentre la gente, camminando, riconosceva i due sportivi e a volte ci obbligava a fermarci, per una foto o un autografo.

Fatto sta che mi sentivo incredibilmente bene, nonostante cercassi di riparare costantemente le guance nel bavero del cappotto, accanto a me Yayoi osservava la scena: Schneider e Genzo erano attorniati da un gruppo di giovani fan, che facevano domande ai due uomini a proposito delle partite e del calcio mercato.

-Due sportivi nel loro vero ambiente naturale.-

La donna accanto a me sorrise mentre guardavo Genzo firmare l’ultimo autografo e, come me, alzare il bavero del suo cappotto, Schneider al contrario sembrava quasi avere caldo mentre tornavano verso di noi, riprendendo a camminare al nostro fianco.

-Scusate se vi abbiamo fatto aspettare.-

-Figuratevi.-

Guardavo Yayoi e Karl con una certa curiosità, ma cercavo di non pensarci troppo, rivolgendo invece i miei pensieri a Genzo, guardandolo e notando che il suo volto era decisamente più disteso rispetto a quando lo avevo spinto a seguirmi fuori da quella sala.

Aveva parlato con un ex-compagno di squadra dell’Hamburger; ancora una volta, quella storia tornava a tentare la mia curiosità e a spingermi a chiedere all’uomo cosa fosse successo. Ma chiedergli di quella storia proprio ora che ero riuscita a rilassarlo mi sembrò come gettarmi la zappa sui piedi, pertanto ricacciai la tentazione e continuai a camminare accanto a lui, rivolgendogli la parola.

-Come va? Meglio?-

Lui mi guardò, e ci volle qualche secondo prima che mi rispondesse, prendendo perfino un respiro profondo.

-Si, va meglio.-

Sorrisi divertita, scuotendo il capo e rivolgendogli lo sguardo: non avrebbe mai ammesso che aveva avuto bisogno di allontanarsi da quel posto, o forse non avrebbe mai ammesso che ero brava a intuire le sue emozioni; al contrario di Kojiro, che le nascondeva nel suo atteggiamento serio e maturo, Genzo le rivelava come un bambino, in modo chiaro e limpido. Anche per questo mi era facile comprenderlo.

Eppure, così com’era facile intuire cosa gli dava fastidio, era difficile vederlo lasciarsi andare in atteggiamenti affettuosi, percepibili solo tramite i suoi gesti irruenti; come in quel momento, quando all’improvviso mi prese la mano e quasi mi obbligò a prenderlo sottobraccio, stringendola a sé quasi possessivamente.

Lo guardai sorpresa, aveva ancora in volto l’espressione imbronciata, anzi sembrava ancora più infastidito; o forse era solo imbarazzato quanto me.

-C’è molta gente, stammi vicino o ci perdiamo.-

… una cosa che, ancora adesso, non comprendo fino in fondo, è quanto sono importante per Genzo: ho quasi l’impressione che, se lo scoprissi, potrei rimanere soffocata da tutto quell’amore, e perderei la mia indipendenza che, so perfettamente, è una delle cose lui mi ammira di più. Eppure, per tutte le volte che mi ha sfiorata, anche solo con le parole, non posso fare a meno di chiedermi quanta passione ci mette, e quanta effettiva ne trattiene.

Svoltammo l’angolo, e arrivammo a Marienplatz. E strinsi il braccio di Genzo, restando senza parole: era una piazza immensa, avvolta in una luce color ambra e oro, con la folla che passava tra di noi chiacchierando, avvolta nei cappotti, nelle sciarpe e nei copri capi; le bancarelle si estendevano per tutta la lunghezza, molte bianche ma alcune colorate da quello che contenevano e vendevano, e c’era un odore di dolciumi e cibarie inebriante.

Per me era la prima volta, la prima volta che vedevo una cosa simile: l’unico mercato che mi veniva in mente era quelli di Naha, ed era fisso tutto l’anno. Quelle, invece, erano bancarelle che adesso avrei visto, per poi non vedere più tra un mese o due, lasciando vuota l’enorme piazza.

-Vogliamo andare?-

Genzo me lo domandò a bassa voce, ma io lo sentii lo stesso, e sebbene a fatica (la sorpresa mi aveva bloccato letteralmente le gambe), m’incamminai, avvicinandomi a Yayoi che, al contrario di me, aveva un’espressione completamente entusiasta in volto, tanto che mi si avvicinò per portarmi via da Genzo; ebbi solo il tempo di rivolgergli lo sguardo, prima di seguire la mia amica.

-Vieni Maki! Non è fantastico?!-

-Come … come facevi a sapere dei mercatini di Natale?-

-Beh, prima di venire da te mi sono informata sugl’eventi qui a Monaco, e speravo che avessimo un’occasione per vederli. Guarda! Guarda qui che belli!-

E si avvicinò ad un bancone, dove c’erano degl’angeli in ceramica. Ero molto affascinata da quelle figurine, erano dei lavori così raffinati, e mi guardai intorno, domandandomi se c’erano banconi che vendevano cose simili; dolciumi, vestiario, borse con sciarpe e guanti, gioielli, bambole. Un momento …

Mi avvicinai al bancone che avevo visto con le bambole, alcune erano in porcellana, con dei vestiti bellissimi e i capelli acconciati, i loro abiti vittoriani erano così diversi da quelli delle bamboline della festa delle bambine; non c’erano kimono, visi con occhi a mandorla e capelli neri, ma pizzi e cuffiette, capelli biondi o castani e occhi azzurri fatti in vetro.

E sotto le bambole c’erano scatole laccate chiuse, così per curiosità ne aprii una … e ne uscì fuori una musica; una mia compagna di classe aveva ricevuto in regalo un carillion, quel giorno lo aveva portato in classe e per tutto il giorno aveva fatto andare la melodia.

Le canzoncine erano tutte diverse, ma ne riconobbi alcune, erano di musica classica; forse la mia preferita era quella del “Danubio Blu”, ma la scatolina dove usciva non mi piaceva, la fodera morbida all’interno e la ballerina erano decisamente troppo per i miei gusti. Forse qualcosa di più semplice, magari come …

-Trovato qualcosa?-

Alzai lo sguardo sorpresa, Genzo era arrivato dietro di me senza che me ne accorgessi; guardò le scatole da oltre la mia spalla, una delle due era piccola, con un bel giglio smaltato sul coperchio, l’aria un po’ vecchia e l’odore era di tabacco, probabilmente era una vecchia tabacchiera.

-Indecisa sulle due scatole?-

-A dire la verità no: ascolta …-

E aprii la scatola con la ballerina, facendo sentire la melodia a Genzo, che annuii.

-Il “Danubio blu”.-

-Si, ma la scatola non mi piace, mentre questa è carina ma non ha melodia. Probabilmente prenderò questa.-

-Aspetta …-

Mi prese le scatole, e si rivolse all’uomo dietro il bancone, un buffo signore con la barba e il volto magro, con gli occhiali tondi tenuti al collo da una catenina dorata.

-Buona sera.-

-Mi dica.-

-Senta, è possibile inserire in questa scatola la melodia del “Danubio blu”?-

-Verifico subito se ne ho un altro. –

Assieme al vecchio uomo c’era una donna anziana con i capelli grigi gonfi, che subito prese una scatola di metallo, aprendone il contenuto al marito, il quale rovisto tra i vari pezzi di metallo e legno, fino a trovare uno strano affare, a cui spinse una levetta, facendo partire la melodia. Era la stessa.

-Si, ne ho un altro. Se mi date la scatola posso sistemarlo subito.-

-Tenga.-

L’uomo si mise la scatola sulle ginocchia, avvicinandosi una lampada per vedere meglio mentre la moglie gli porgeva gli attrezzi, tornando poi a sistemare il volto di un burattino, portandomi a spostare dal suo lato, guardando ammirata la quantità incredibile di pupazzi.

Principesse, principi, re, regina, draghi, streghe, fate, gnomi, lupi. E sopra di queste sfere di vetro con la neve, e dentro figurine come palazzi, persone o persino animali.

Mi sembrò di tornare bambina, e Genzo mi raggiunse immediatamente.

-Hai visto? Sono bellissimi.-

Lui annuì, e alzai lo sguardo, notando chiaramente uno sguardo malinconico nei suoi occhi, rivolto chiaramente ai burattini. Ripensai al fratello, all’incontro avuto prima e il suo atteggiamento: per quanto fosse stato tendenzialmente possessivo nei miei confronti, era molto più aperto e rilassato di quando parlava con altri.

-Ci hai mai giocato?-

-No, no ma … ma mia madre li usava, ricordo che quando aveva cinque anni, prima di trasferirmi in Giappone, quando era a casa li tirava fuori. A me piaceva guardarli, anche se la strega m’inquietava.-

Guardai quella che era seduta davanti a noi, ed effettivamente i suoi occhi mi davano i brividi.

-E qual’era il tuo preferito? C’è qui?-

-Non lo so, non lo vedo … aspetta … eccolo!-

Scostò qualche burattino con la mano, e alla fine rivelò un burattino con armatura e lancia. Sorrisi.

-Credevo preferissi il mago.-

-Una volta mi piaceva, ma poi ho scoperto che il cavaliere mi affascinava di più, anche se lo detestavo: era sempre in giro alla ricerca di avventure, salvava tantissime principesse ma non gl’interessava nessuna di loro, e nemmeno le ricchezze che i sovrani gli offrivano. Lui faceva l’eroe solo perché gli andava, non lo capivo questo atteggiamento.-

-Questo perché sono sicura che, fin da piccolo, sei sempre stato un orso, con il broncio che faceva tanti capricci.-

-Ah, sei ingiusta, ma devo ammettere che Babbo Natale non mi ha mai portato molti doni.-

-Babbo … Natale?-

-Si, Santa Klaus, Bambin Gesù, chiamalo come ti pare. Lo conosci, no?-

-Veramente … non molto.-

-Cosa?!-

-Chiedo scusa, avrei terminato.-

Entrambi ci voltammo verso l’anziano, che ci mostrò la scatolina; me la porse molto gentilmente, e io l’aprii delicatamente, sentendo immediatamente “Danubio blu” suonare, sorridendo felice; ero pronta a pagare, quando vidi Genzo porgere i soldi all’uomo, ringraziandolo e augurandogli una buona serata. Rimasi esterrefatta.

-Beh? Che c’è?-

-Ma dovevo pagarlo io.-

-… ma finiscila, sciocchina. Tieni, mettilo qui dentro, la tua borsa è troppo piccola.-

Mi allungò una borsa di stoffa, e io obbedii, seguendolo verso le altre bancarelle, passando davanti a quella delle caramelle, c’era persino un bancone dove servivano birra!

-Piuttosto, non conosci Babbo Natale?! Ma sai almeno cos’è il Natale?-

-Si, si lo so, ma non l’ho mai festeggiato: siamo una famiglia scintoista, non seguiamo queste festività. Perché, tu si?-

-Beh, si.-

-Non sapevo che fossi cristiano.-

-In realtà non lo sono, ma ricordo che fin da piccolo si faceva l’albero, con palle luci e tutto. E Isolde faceva sempre il presepe, lei è una credente, ed è molto affezionata a questa festività.-

-Non mi stupisco, dopotutto parliamo di Isolde.-

E sorridemmo entrambi, proseguendo per la gente, voltandoci solo un momento a cercare Yayoi o Schneider, vedendoli che anche loro ci cercavano, indicando poi un bancone dove servivano dei pasti caldi; li avremmo raggiunti lì.

-Allora prepariamo l’albero di Natale questo Dicembre, ti va?-

-… davvero?-

-Beh, la tradizione vuole che si faccia l’albero l’otto Dicembre, all’Immacolata Concezione, ma chissà quando sarai di ritorno dal Giappone.-

-Ti ho promesso che tornerò presto! Ci sarò l’otto Dicembre!-

-Hmmm, siamo sicuri?-

-Si, si!!-

Volevo così tanto fare quell’albero, e non perché si trattava di Natale: perché era una cosa che avremmo fatto io e Genzo insieme, assieme ad Isolde. Una cosa di famiglia, una cosa legata a lui, una cosa che mi avrebbe avvicinata a lui ulteriormente. Lo volevo fare, assolutamente!

-E faremo anche il … il … come si chiama.-

-Il Presepe?-

-Si, quello! Albero e Presepe, promesso!-

-Va bene, va bene, mi hai convinto, ora calma.-

E mi accarezzò i capelli, sorridendo divertito, e io gli presi la mano, avvicinandomela alla guancia e sorridendogli, per poi abbracciarlo e stringerlo a me.

-Grazie del carillion. Lo porterò con me in Giappone.-

Lui non mi rispose, ma mi strinse, prendendo un profondo respiro tra i miei capelli, prima di staccarsi dolcemente e, tenendomi per mano, portarmi dove si erano seduto Schneider e Yayoi, la mia amica subito mi mostrò i suoi acquisti, aveva preso uno di quei bellissimi angeli in ceramica e uno scialle ampio e dai colori brillanti, c’erano persino dei fili d’oro.

-È bellissima …-

-Tu che hai preso?-

Le mostrai il carillion, spiegandole quello che era successo. Lei ascoltò la melodia con aria entusiasta, seguendo il mio discorso anche se il suo sguardo era concentrato sulla scatolina.

-Quindi festeggerete il Natale come si deve, che bello!-

-Voglio riuscire a tornare a Monaco per l’otto Dicembre, così rispetterò la tradizione.-

Yayoi mi sorrise affettuosa.

-Già, hai sempre cercato di rispettare le tradizioni della tua famiglia e quelle degli Hyuga.-

Quelle parole mi fecero ripensare a mia zia, alla necessità di tornare al più presto a Naha per discutere di quella situazione; ma anche al mio passato, alla mia educazione, alla mia vita al ryokan prima di conoscere Yayoi, Kojiro o Genzo.

-Quando ero piccola ero un maschiaccio: facevo la lotta, odiavo le gonne ed ero molto attiva, forse troppo. Ma c’era una festa in particolare dove io cercavo sempre di fare la brava: la festa delle bambine. Io sono stata l’unica femmina per molto tempo, per tanto mi dovevo difendere dai miei cugini; e in quella festa, io ero la principessina, non venivo presa in giro e i miei familiari mi difendevano. Era la mia festa.

Per questo amo le tradizioni: seguirle mi fa sempre pensare a quando, da bambina, mi mettevo accanto alle bambola della famiglia imperiale, e mi sentivo al settimo cielo.-

Alzi lo sguardo verso Genzo, lui e Schneider erano andati ad ordinare qualcosa alla bancarella, e si erano fermati a chiacchiere mentre io e Yayoi eravamo sedute al tavolo; ne approfittai per avvicinarmi all’amica e parlarle a quattrocchi.

-Tu invece, che mi dici di Schneider? Mi sembravi molto coinvolta nelle vostre chiacchierate …-

-T’interrompo subito Maki: Karl è molto gentile …-

-Oooh, lo chiamiamo Karl.-

-Dicevo: Karl è molto gentile, e mi ha dato dei buoni consigli per me e Jun, perché lui ha vissuto la mia stessa situazione con la sua attuale compagna.-

Sorrisi divertita, e Yayoi sorrise con me mentre i due uomini tornavano, portandosi dietro un vassoio di fritti e diverse bevande, riconobbi la birre dei due mentre, fortunatamente, a noi ci diedero della coca cola.

-Che buon odore! Mi fa venire una fame!-

-In effetti alla cena non abbiamo mangiato granché.-

-Ci credo, quella roba era tremenda!-

-No dai, la frutta non era male.-

-Fai, fai la spiritosa.-

-Dai Maki, lascia quell’oliva ascolana.-

-Ma come Yayoi, non dicevi che ti era piaciuta la cena all’hotel?-

-L’antipasto era la cosa più orrenda che abbia mai mangiato.-

-Non è vero, ti ricordi quando abbiamo organizzato la cena a casa di Henders?-

-Oh si, che voleva fare la pasta ma ci ha messo troppo sale e l’ha lasciata bollire mezz’ora!-

-È uscita una roba così collosa che non sapevamo dove buttarla.-

-Alla fine ci siamo ordinati una pizza.-

-Ehi tu! Guarda che ti ho visto.-

-Di che parli? Non ho fatto niente.-

E Genzo si mise in bocca la crocchetta mentre tutti noi ridevamo senza sosta, continuando a chiacchierare tra la gente che ci passava accanto, forse stupiti dei due calciatori ma, probabilmente, stupiti anche del nostro abbigliamento, quattro persone in abiti eleganti che mangiavano fritti nei mercatini natalizi!

Eppure passammo in quel modo due ore molto piacevoli, tra chiacchiere di vario stampo, io e Yayoi osammo perfino assaggiare la birra, e stranamente a me piacque mentre la mia amica la considerò troppo amara per i suoi gusti; alla fine fu la campana di mezzanotte, e il cominciare delle bancarelle a chiudersi, a spingerci ad alzarci.

-Peccato che non è in funzione il Glockenspiel.-

-Il cosa?-

Schneider rispose alla mia domanda, indicando un edificio.

-Quello è il Neue Rathaus, il Municipio, e lì si trova il Glockenspiel: si tratta di un carillion che funziona tre volte al giorno, alle 11, alle 12 e alle 17. Adesso non si vede, ma se ti capita ti consiglio di vederlo, è un bello spettacolo.-

Io annuii, guardando poi Yayoi ammirata.

-Ti sei proprio data da fare, eh?-

Lei fece spallucce, e poi riprendemmo a camminare. La strada al ritorno fu più facile e veloce dell’andata, e Freidrick era rimasto ad attenderci pazientemente, e io gli porsi un sacchetto con delle cialde.

-Grazie per averci aspettato.-

Lui rimase quanto meno imbarazzato dalla sorpresa, sorridendo e assaggiandone una entusiasta, rivelandomi che erano i suoi dolci preferiti; mi aveva suggerito Genzo di comprargliele, e mi voltai verso il portiere, vedendolo salutare Karl, che aveva la sua macchina parcheggiata da un’altra parte. Sorrisi.

Quando tornammo a casa era tutto buio, Isolde doveva essere già andata a dormire, e Yayoi velocemente ci augurò la buonanotte, dicendo che era stanca morta e salendo su per le scale ad una tale velocità che ebbi dei sinceri dubbi sul fatto che fosse “stanca”.

Mi voltai verso Genzo, e lui stava guardando me; ma invece che dirmi o farmi qualcosa, salì le scale molto lentamente, e io d’istinto lo seguii, arrivando fin dentro la sua camera, lasciandomi avvolgere nuovamente da quell’atmosfera calda ma severa, le poltrone lì vicino al caminetto e il letto grande, rifatto per bene, le pareti foderate di legno sulla parte alta, il finestrone dall’altro lato di dove mi trovavo io, con le tende chiuse.

Mi guardai intorno, e appoggiai silenziosamente le mie cose in un angolo accanto alla porta; quando rialzai lo sguardo, lui era davanti a me, facendomi salire il cuore in gola, i suoi occhi mi sembravano molto più scuri del solito, e mi guardavano talmente tanto a fondo che mi sentii toccare nell’anima; ma era uno sguardo turbato, persino ansioso, e mi preoccupai.

-… Genzo?-

-… ti … ti devo dire una cosa.-

Avete presente quando vi sale una sensazione spiacevole, una certezza che quello che sta per accadere potrebbe cambiarvi? Quel pugno allo stomaco. Ebbene, lo sentii chiaramente, ma mi feci accompagnare da Genzo verso la poltrona, facendomi aiutare a sfilare il cappotto, rimanendo con il vestito rosso, sedendomi e sentendo il cuscino tremendamente scomodo mentre lui si toglieva giaccone e giacca, rimanendo in camicia, sciogliendosi la cravatta.

Si prese da bere, c’era un bicchiere con una bottiglia di liquore, e come quella volta anche adesso rividi quella scena di malinconia e sofferenza che mi aveva lasciata ammutolita; ma attesi, paziente, stringendo i pugni sopra le ginocchia.

Mi rivolse di nuovo lo sguardo, e si sedette di fronte a me, prendendo un profondo respiro.

-Tu sai che giocavo nell’Hamburger, vero?-

Io annuii, la gola stretta in un nodo. Lui distoglieva lo sguardo, posandolo sul bicchiere, sulle dita che sfioravano quel bordo di vetro, per poi tornare su di me; quando mi diceva qualcosa, me la diceva sempre guardandomi dritto negl’occhi.

-Prima di conoscerti, prima del mio infortunio, la mia squadra ha … ha attraversato un periodo difficile.-

-… cioè?-

Avevo la voce rauca, tremendamente rauca, e ingoiai la saliva per cercare di schiarirla, o quanto meno di sciogliere il nodo al suo interno; lo guardai negl’occhi, e lui respirò a fondo, era in difficoltà quasi quanto me, e a dimostrazione prese un sorso di liquore, schiarendosi poi la voce.

-… due mesi prima del mio infortunio conobbi la sorella di uno dei miei compagni di squadra, Achillina Von Zugar …-

Ah, ricordavo quel nome: si, Yayoi lo aveva letto in quell’articolo, quando ci eravamo parlate al telefono. Nuovamente, la curiosità si riaccese, e questa volta sarebbe stata soddisfatta, il che da una parte mi spaventò, cos’avrei sentito e scoperto? Genzo, intanto, proseguì.

-Suo fratello, Markus, era uno dei difensori, e oltre al lavoro diventammo buoni amici, e mi presentò sua sorella, allora era conosciuta come modella, ma era stata anch’ella una sportiva, e ci trovammo subito in sintonia. Ovviamente, il nostro rapporto si approfondì.-

Alzò lo sguardo, come per cercare qualcosa sul mio viso, ma ero rimasta impassibile: non dico che non mi dava fastidio, ma ritenni più saggio mantenere la calma e la concentrazione, invitandolo con lo sguardo ad andare avanti nel racconto.

-Un giorno, nella sede dell’Hamburger, arrivarono dei poliziotti, dicendoci che la squadra era sotto inchiesta per sospetto spaccio e utilizzo di droga, e ci fu chiesto di fare i test: all’inizio gli altri si rifiutarono, ma io andai avanti per primo, in quanto non avevo nulla da nascondere.-

Sorrisi: si, lui si sarebbe comportato in quel modo, perché lui era sempre stato un uomo onesto, nonostante la sua scorza dura.

-Risultammo puliti, ma ognuno di noi fu sottoposto ad interrogatorio, e questo influenzò l’andamento del campionato: certo, eravamo i più forti, ma soffrimmo molto nelle partite successive, anche perché la polizia continuò a tenerci sotto controllo.-

Unii le mani, cercando di seguire la storia passo dopo passo. Genzo bevve un altro sorso di liquore, muovendosi avanti e indietro su quella poltrona, sentendo tanti spilli quanto ne avevo sentiti io.

-Io, Markus e Achillina discutemmo di questa situazione, e mi sembrò sempre che loro fossero estranei e sconvolti quanto me della faccenda. Mio Dio, che imbecille sono stato …-

Erano coinvolti. E lo avevano tradito. Una persona come Genzo Wakabayashi non sopporta che qualcuno lo possa ferire o peggio, tradire; lo vidi adombrare ulteriormente lo sguardo, e mi preoccupai, tanto che mi sporsi verso di lui.

-Genzo?-

Mi guardò, quasi colpito che lo stessi richiamando, e io mantenni lo sguardo fisso su di lui; alla fine respirò profondamente e proseguì il racconto.

-Una sera la polizia arrivò al mio appartamento, chiedendo di poterlo perseguire: gli era arrivata una denuncia anonima che affermava che io possedevo illegalmente della droga. Li lasciai fare, e loro la trovarono sotto il mobile della Tv. Fui arrestato e portato in centrale.-

Svuotò il bicchiere di liquore, raccontando stavolta con un tono basso, che rivelava la rabbia, anzi la furia, che il ricordo gli scaturiva.

-Venni interrogato, accusato, ma io non avevo fatto niente e non capivo chi mi aveva voluto incastrare e come era riuscito a farlo; alla fine … alla fine arrivarono mio padre e il suo avvocato, e fui scagionato dalle accuse in poche ore.-

Disse quell’ultima frase con vergogna, coprendosi lo sguardo con la mano, prima di rivelarmelo, svelandolo lucido di fastidio e ira, tanto che mi alzai dalla poltrona e mi avvicinai a lui, prendendogli la mano e guardandolo negl’occhi; lui mi accarezzò la guancia, poi si alzò in piedi e mi obbligò a sedermi al suo posto, muovendosi davanti al camino come un’anima in pena.

-Passai dei giorni d’inferno: la stampa mi era addosso, non riuscivo più ad allenarmi in santa pace e i miei compagni mi guardavano come un mostro. Solo … Solo Markus mi rimase amico … amico, bastardo …-

Rimasi colpita dalla sua reazione, ma lui respirò a fondo e proseguì, come se quel momento l’avesse cancellato con un colpo di spugna.

-… un giorno, in una partita, uno dei giocatori della squadra avversaria si fece molto male; gli vennero fatte le analisi, e si scoprì che era sotto effetto di sostanze stupefacenti. A quel punto il poveretto confessò che uno della nostra squadra gli aveva venduto la droga. Indovina chi era stato?-

Markus Von Zugar. Genzo adesso proseguiva il suo racconto accelerando nella parlata, la rabbia muoveva la sua lingua e le sue gambe.

-La verità venne a galla: lui era già da qualche mese che spacciava, e aveva coinvolto la sorella, e insieme avevano deciso di usare me come vittima in caso la faccenda sarebbe venuta a galla; tanto Achillina … mi veniva spesso a trovare, non l’era difficile “nascondere” la droga in un luogo sicuro.-

Mi rivolse lo sguardo, ma io rimasi impassibile: Genzo, ora più che mai, aveva bisogno che io lo stessi ad ascoltare, senza lasciare che gelosie o patemi mi distrassero dal motivo per cui ero lì, seduta su quella poltrona.

-Quando tutto fu chiarito, il mio nome venne riscattato, ma oramai capivo che non sarebbe più stato lo stesso nell’Hamburger: tra me e i miei compagni si era creato un abisso, e non riuscivo più a giocare come si deve. E poi m’infortunai … e conobbi te.-

Gli sorrisi, e lui mi si avvicinò, accarezzandomi nuovamente la guancia; cercai la sua grande mano, appoggiandomici con il volto, e a mia volta gli accarezzai la tempia e i capelli, alzandomi poi in piedi e abbracciandolo, sentendo le sue braccia stringermi con forza, al punto da farmi quasi male.

-Maki … Maki …-

-Sono qui, sono qui con te Genzo.-

Appoggiai la mia fronte sulla sua, respirando insieme a lui, guardandolo dritto negl’occhi; desideravo sentirlo stretto a me, con me, insieme a me. Era l’unica cosa che riusciva a passarmi in testa, e non perché provassi pietà o stronzate simili: ma perché lui aveva bisogno di me.

Mi guardò attentamente, e poi con la sua tremenda lentezza mi baciò le labbra, toccandole come fossero stato fatte di neve, che si scioglievano al minimo contatto; quando sentii il suo bacio, il mio cuore esplose nel petto, e mi strinsi ulteriormente a lui, lasciando che approfondisse il bacio.

Le mie mani, nervosamente, dalle sue spalle salirono al collo e alla nuca, prima di scendere sulle scapole mentre le sue dita scivolavano lungo la mia schiena, facendomi venire i brividi mentre le sue labbra percorrevano, una seconda volta, i lineamenti del mio viso e la linea del collo, fermandosi sulla spalla sinistra.

Sentii una sua mano sul seno, che poi scivolò lungo la linea del fianco, e i nostri occhi s’incrociarono ancora; mi alzi sulle punte, e lo baciai delicatamente, sentendo che lui mi rispondeva con passione crescente. Il suo intero corpo si piegò verso di me, e le mie braccia, il mio busto, sembravano insufficiente per accoglierlo pienamente. Ma lo strinsi, lo strinsi con tutta la forza che avevo.

I baci divennero sempre più profondi e dolci, sentivo chiaramente il sapore del liquore che aveva bevuto, ed ebbi la sensazione di ubriacarmi solo con il suo sapore, il mio corpo oramai era bollente e il mio sguardo non vedeva più chiaramente quello che c’era intorno a noi. Riuscivo solo a vedere Genzo. e lui vedeva solo me.

Le sue mani, kami le sue mani. La sua lingua, il suo corpo.

Mi sentii avvolgere dalla passione e dalla dolcezza, dal bisogno e dall’ansia di perdere tutte quelle sensazioni che il mio corpo, i miei sensi percepivano. Le mie mani, oramai fuori controllo, cercavano quasi di grattare via la camicia di lui per raggiungergli la pelle mentre le sue mani cercavano, più esperte, i bottoni per liberarmi del mio abito.

Ah, mi avrebbe vista nuda, era la prima volta; mi staccai dal suo bacio per guardarlo emozionata, e lui percepì il mio cambiamento, fermandosi un momento, per poi lentamente allontanare le mani, portandole verso la sua camicia e slacciandosi ogni bottone, anche quelli delle maniche. Allora io, lentamente, mi slacciai i bottone sul dietro del vestito rosso, ma prima che potesse scivolarmi giù dal petto lo tenni bloccato con una mano, guardando l’uomo davanti a me.

Non mi ero mai sentita tanto in imbarazzo. La prima volta che feci l’amore con Kojiro era stato tutto molto più naturale; ma l’uomo davanti a me era diverso, e mi guardò emozionato quanto me.

Dovevo farlo, era una di quelle cose che andavano fatte. Per fargli comprendere quanto io l’amassi.

Presi un profondo respiro, e lentamente feci scendere il vestito giù dai fianchi, abbassando lo sguardo a mia volta per l’imbarazzo, senza però coprirmi con le braccia. Attesi, paziente, ma lui rimase immobile di fronte a me; allora, lentamente, alzai lo sguardo. E lo vidi con le lacrime agl’occhi.

Cosa …

-Genzo?-

-… scusami … io … io non voglio più … farti alcun male … però … però ti desidero Maki … cosa posso fare?-

Non compresi subito le sue parole.

Poi mi venne in mente: tempo prima, al ryokan, Genzo Wakabayashi mi tirò uno schiaffo.

Uno dei tanti problemi dell’Endometriosi è che il rapporto sessuale, spesso, è doloroso nella penetrazione; la cura del dolore mi permetteva di limitare tale dolore solo all’inizio, ma l’uomo davanti a me sapeva bene che, inizialmente, sarei stata male.

Allungai le mani verso di lui, prendendogli il volto, e per la seconda volta appoggiai la mia fronte sulla sua, respirando assieme a lui.

-… amami Genzo … amami come hai sempre fatto. Ti amo, ti amo amore mio.-

Vidi delle lacrime scendergli dal volto, e gliele baciai, sentendo il sapore salato, baciandogli in seguito il resto del volto, lasciandogli per ultime le labbra; a quel punto le mie mani, delicatamente, gli sfilarono la camicia, lasciandolo a petto nudo.

E le sue braccia mi strinsero a se, mentre riprendeva a baciarmi. E mi sentii come se una grande onda mi travolgesse, facendomi dimenticare il mondo intorno a noi.

 

**

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Capitolo 19
*** Liebe ***


XVIII: Liebe

(Amore)

 

(Questo è un capitolo per entrambi, per tanto lo scriverò per entrambi. Dedicato a loro e dedicato a tutti voi.)

 

Le sue mani, Kami le sue mani …

Il suo corpo, Dio il suo meraviglioso corpo …

La baciò e la strinse così a sé da sollevarla da terra. Non la voleva più lasciare andare, voleva che galleggiasse nell’aria proprio come lui l’aveva sempre immaginata, sognata e vista; per lui ora, come mai era stata prima, Maki era una creatura che la terra non doveva nemmeno osare di toccare.

Maki pensò che era così stretta al corpo caldo di Genzo che la sua pelle si era attaccata, e lentamente si stava facendo assorbire dai muscoli e dal sangue dell’uomo. Ed era una sensazione a cui non poteva già più farne a meno, tanto da stringere le braccia attorno al collo, baciandolo tanto in profondità che sembravano divorarsi a vicenda.

Le mani dell’uomo oramai erano fuori controllo, toccavano e accarezzavano ogni singolo centimetro di pelle di quel corpo; dalle spalle, le dita scivolavano giù lungo le scapole, per poi precipitare nella schiena, dritta e liscia, frenando la loro caduta libera solo nella splendida curva dei glutei, così morbidi e al tempo stesso tonici che la tentazione fu troppo forte: trattenendo un ruggito d’eccitazione, Genzo strinse i glutei con le sue grandi mani.

Maki avvertì quella pressione e alzò la testa verso l’alto; da una parte strinse i muscoli, come difesa, ma al tempo stesso sentì una vampata salirle dal centro del suo corpo, e con il volto contrito dall’eccitazione si portò verso una delle spalle dell’uomo, mordendogliela senza usarci troppa forza.

Si guardarono negl’occhi, e per qualche istante entrambi sembravano due felini che si studiavano, pronti alla lotta; poi, sorprendentemente, fu Genzo a sciogliere l’espressione per primo, e dolcemente baciò la guancia di Maki. No, non con questa donna: aveva avuto molte donne, e con loro si era sempre dimostrato famelico, quasi distruttivo, certamente abile, ma privo di qualsiasi sentimentalismo.

Ma adesso aveva tra le braccia Maki, e non una donna qualsiasi.

Nel sentire quelle labbra sulla pelle premere con tanta gentilezza, Maki si sentì travolgere dalla dolcezza dell’uomo, e pensò che quella fosse solo la punta dell’iceberg, che in realtà c’era molto di più che quell’uomo stava trattenendo per lei, per non spaventarla o soffocarla; lo guardò nuovamente negl’occhi, commossa, e gli accarezzò le guance, per poi baciarlo a fior di labbra.

Al primo bacio ne seguì uno secondo, un terzo, sempre più affamati, sempre più smaniosi, e nuovamente le loro mani si mossero sui loro corpi, e Maki scese giù sulla pancia, sulle cosce … e lì avvertì, per la prima volta, l’effettiva eccitazione di Genzo; lo sfiorò con le dita, ma fu più che sufficiente per bloccarla un momento, forse rendendosi conto di come era fatto l’uomo davanti a lei “per intero”, che non era solo il corpo di uno sportivo, o quello di un uomo affascinante: era il corpo di un uomo … che amava, soprattutto nel senso fisico del termine.

E lei era … era assolutamente un’imbranata: aveva fatto sesso con un solo uomo in vita sua, e non era pienamente soddisfatta del suo corpo. Per la prima volta le venne in mente la possibilità che, probabilmente, avrebbe provato dolore. L’Endometriosi, infatti, rende difficili i rapporti sessuali, proprio perché si tratta di un’infiammazione; se ti tocchi una gengiva infiammata ti fa male, giusto? Figurati se l’infiammazione viene da lì sotto!

Genzo, intanto, aveva avvertito il cambiamento in Maki, e la guardò preoccupato, notando come questa fosse improvvisamente arrossita, e sul suo volto ci fosse un espressione simile al panico, con gli occhi spalancati e lucidi e la bocca semichiusa; a sua volta si fermò, pensando che forse c’era qualche problema con la sua malattia, o magari si sentiva a disagio.

Una delle mani dell’uomo scivolò lungo la linea della mascella, sfiorando l’orecchio e fermandosi dietro la nuca della donna, assaggiando la leggera consistenza di quei capelli; delicatamente le fece pressione, portandola a guardare gli occhi scuri e profondi dell’uomo. Lui non parlò, ma la sua domanda preoccupata si emanava attraverso le sue iridi.

Lei parlò con voce flebile.

-... non … non so come … come posso farti stare bene … con il mio corpo …-

Genzo si sarebbe a ridere se non fosse stata per l’espressione sinceramente preoccupata di Maki, proprio lei esternava quei dubbi, quando lui erano giorni, ogni volta che la baciava o l’abbracciava, che si sentiva affamato in ognuno dei suoi cinque sensi: il naso voleva sentire il profumo di quei capelli fino a perdere sensibilità, le dita consumarsi su quella pelle, le orecchie diventare sorde a qualsiasi altro rumore che non fosse la sua voce, gli occhi non volevano sbattere le palpebre quando la vedeva, rischiando di inaridirsi, e la bocca…

Il volto scese ai suoi capelli, baciandoglieli con dolcezza, accarezzandole la nuca mentre lei posava le mani su quel petto. Le parlò con lo stesso volume, basso e accarezzato.

-Se non fossi attratto dal tuo corpo difficilmente ti starei così vicino. Maki, ascoltami: io sarò il più delicato possibile, te lo prometto, non ti voglio fare alcun male; perciò tu sii te stessa, sii la stessa Amaterasu di cui sono così perso e innamorato.-

Maki sentì le sue preoccupazioni diventare più leggere, come una mongolfiera di carta Genzo aveva acceso la candela, e adesso quel peso si stava sollevando verso il cielo, che commosso si sarebbe messo a piangere, ma la donna abbracciò il collo dell’uomo, stringendosi a lui con tutta se stessa, alzandosi sulle punte, staccandosi solo per guardarlo negl’occhi.

E questa volta fu Maki a baciarlo con estrema lentezza, posando le dita sulle guance sbarbate, dapprima poggiando solo le labbra, approfondendo il contatto sempre di più, mentre la mano di lui, dalla nuca, scivolava sulla schiena, sentendo la pelle rabbrividire al suo contatto, e stuzzicandola con la punta delle dita, avvertendo la pelle d’oca e i mutamenti della donna mentre lo baciava.

I baci si fecero sempre più affamati, e nuovamente la spirale della passione li catturò, così come Genzo catturò Maki tra le sue braccia, sollevandola una seconda volta da terra e cominciando a muoversi verso il grande letto, la donna si rese conto dello spostamento solo quando sentì le gambe sentire la consistenza del materasso, inginocchiandosi su questo.

L’uomo si sedette lì accanto, senza mai smettere di baciarla, accarezzandole la guancia e facendola scivolare le dita sul petto, passando sopra una delle sue colline del seno e fermandosi a pochi millimetri dai capezzoli; la donna, di rimando, accarezzò il collo forte e saldo scendendo giù, dalle spalle fino al petto, fermandosi sopra il cuore.

Si fermarono un attimo a baciarsi, sentendo l’uno il battito cardiaco dell’altra e viceversa, e Maki sorrise felice, toccando la fronte dell’uomo con la sua, respirandolo. Lui chiuse gli occhi, e gli strinse la mano che ascoltava il suo cuore, prendendo poi anche l’altra mano, e baciandole insieme con profondo rispetto.

Ne baciò i dorsi e i palmi, e la donna sentì di nuovo quell’onda di dolcezza travolgerla con delicatezza, e non poté fare altro che restare ferma e lasciarlo fare; lui risalì ai polsi, all’incavo interno dei gomiti, alle spalle per poi scendere al centro del petto, tra i due seni, poi l’ombelico e risalire al volto di lei, baciandole le guance e spingendola sul letto, facendola sdraiare. E di nuovo scese giù, continuando a baciarla.

Quando lo sentì sfiorare, con le labbra, il centro del suo corpo, per troppo imbarazzo Maki si coprì gli occhi con un braccio, lasciando adesso che fosse il suo tatto a seguire Genzo mentre continuava sulle cosce, ginocchia, polpacci e dorso dei piedi. E la sua sensibilità moltiplicò per dieci, cento, mille volte quei baci.

Poi, per qualche istante, non lo sentì più, e lentamente si tolse il braccio, per vedere; tuttavia la mano di Genzo le coprì gli occhi, e la baciò con passione. Nuovamente il tatto della donna sentì moltiplicato per mille, e si aggrappò alle spalle dell’uomo, approfondendo ulteriormente; lui tuttavia si staccò, e la bocca scese giù, ai seni, stuzzicandoli.

A quel punto Maki avrebbe voluto vedere, perché non era possibile che stesse impazzendo fino a quel punto per quel contatto, e le sue mani afferrarono le dita di Genzo, per liberare lo sguardo, ma ogni volta che la lingua dell’uomo toccava, accarezzava, spizzicava le sue estremità, la donna sentiva le scariche di eccitazione, e la forza della sua presa si perdeva in quel piacere.

Alla fine riuscì nell’impresa di liberare lo sguardo solo quando l’uomo staccò la bocca dai suoi seni, e quando Genzo la vide quasi si pietrificò dalla meraviglia: gli occhi di Maki erano lucidi e le guance arrossate, le labbra della bocca erano gonfie da tutti i baci dati e quelli che voleva dare, e il sudore cominciava già a formarsi ai lati delle tempie.

La donna non lasciò il tempo all’amato di ammirare il suo volto, che subito lo baciò affamata, le mani dalle spalle scesero velocissime lungo la schiena, arrivando alle natiche, ancora coperte dai pantaloni, e afferrandole per far sentire tutta la passione che si stava scatenando; poi quelle stesse dita scivolarono, più timide, sull’erezione di Genzo. Questo sentì subito il piacere salire al suo ventre e scendere di nuovo, manifestandosi in un mugugno e a stento trattenne sulle labbra.

Baciò Maki con tutto se stesso, come se avesse cercato di riversarsi su quelle labbra per riuscire a entrare nel corpo dell’amata, in modo da scoprire il segreto di quel fascino che oramai lo rendeva pazzo, cieco, idiota nei confronti del mondo che li circondava. La baciò con tanta forza da spingerla sul materasso, e con una mano si libero della cinta, dei bottoni, dei pantaloni, dei boxer.

Quando Genzo lasciò andare Maki, lei si ritrovò l’uomo nudo sopra di lei; si sentì soprafatta dalla potenza che poteva avvertire nei muscoli delle spalle e dei bicipiti, attratta dalla tartaruga del suo ventre, imbarazzata non poco dal suo membro, completamente persa nel suo sguardo.

Lui guardò il fascino di quel volto, dall’aria mascolina ma con occhi così femminili e misteriosi, la delicatezza del seno, la maestà dei fianchi e la forza di quelle gambe bronzee; lentamente si avvicinò, e ancora le baciò le guance, per poi spostarsi in una carezza sulle labbra, accarezzandola con una mano mentre l’altra cercava quella della donna , stringendogliela. La mano che accarezzava scese giù con sapienza, arrivando al confine tra i fianchi e le cosce, e lì cominciò a giocare.

Per un attimo Maki si rese conto che l’uomo sopra di lei era così attento ed esperto perché lei non era stata la prima; tuttavia da come la guardava, la baciava e l’amava, la donna sentiva di essere l’unica.

Genzo, per un momento, ricordò che lei era stata la donna del suo amico e rivale di sempre, e si rese conto che la Tigre aveva avuto una fortuna sfacciata; eppure più la toccava e più sentì che non voleva che nessun altro, a parte lui e Kojiro, la potessero toccare così.

Alla fine l’uomo si abbassò verso la donna, sussurrandole all’orecchio, mentre le sue dita arrivarono a sfiorare il centro del corpo di Maki.

-Fa male?-

Maki avrebbe voluto dire di no, ma il piacere fu tale che rispose con un gemito, e lei per la sorpresa del suo verso per un momento si tappò la bocca con la mano; lui sorrise intenerito, e gliela baciò, spingendola a togliere quell’ingombro, e stavolta chiedendo per gioco, continuando ad accarezzare.

-Fa male?-

Stavolta lei strinse le labbra, per non cedere e dargliela vinta facilmente, ed entrambi risero divertiti di quel gioco così sciocco ma così intimo; lentamente la mano abbandonò quel punto, e lentamente, così lentamente da congelare il tempo, Genzo si preparò alla parte più difficile. Maki, dal canto suo, prese dei profondi respiri, e si sistemò a sua volta.

Entrò solo di punta, ma già sentì le mani di lei stringergli sulle spalle, e si fermò. Attese, e avanzò ancora, poi si fermò e attese nuovamente; lento, senza fretta, anche perché quel corpo lo stava facendo impazzire, ed era certo che se non fosse stato attento non avrebbe dato il tempo alla donne di sostituire il dolore con il piacere.

Maki respirava come aveva imparato, si concentrava nel rilassare i muscoli e nel creare spazio, e mano a mano sentì che le cose andarono sempre meglio, e che il piacere stava salendo a picchi vertiginosi, tanto che arrivava a non capire più niente, e alla fine le mani stringevano le spalle solo per il piacere.

-Ge … Genzo.-

L’uomo si avvicinò al volto di Maki, e le loro mani si strinsero ulteriormente; i movimenti furono lenti, proprio come le onde sul bagno asciuga quel giorno, quando andarono a trovare la tomba di Kojiro. I ricordi si perdevano nel fare l’amore, si confondevano, e le loro anime si ritrovarono ognuna a salire sulle stelle, pronta ad allungare una mano per sfiorare l’infinito del cosmo. Ma entrambi si fermarono prima, e si cercarono.

I movimenti fisici si fecero sempre più sicuri e ritmati, e ora il mare si gonfiava, proprio come allora, quando si confessarono i loro sentimenti; e con il rumore delle onde che s’infrangono sulla sabbia, le due anime si trovarono, e si presero per mano, per poi abbracciarsi e diventare un solo corpo.

E il sogno coincise con lo stato dei loro corpi: erano così vicini che la loro pelle si era attaccata, ed erano diventati un solo essere nel pieno compimenti dell’amore mentre le loro anime, unite assieme, si perdevano nella magnificenza dell’orgasmo, sorridenti e brillanti come diamanti.

Non ebbero bisogno di gridare o lamentare quando arrivarono all’apice, non avrebbero comunque fiato sufficiente per fare tale sforzo; ma si guardarono dritti negl’occhi, per non perdersi nuovamente, e respirarono insieme, stringendo le loro mani al punto da farsi male.

In ogni respiro sembrava esserci un messaggio, anche solo una parola, e in quel modo si parlarono a lungo, raccontando di se, di quei segreti che non avevano avuto occasioni di confessarsi a vicenda, dei loro sogni appena nati e quelli oramai persi, dei loro pensieri e di tutto l’amore che si erano dati, al punto da diventare l’uno estraneo all’altra e viceversa.

Poi Genzo fece un primo, piccolo movimento, e di nuovo la realtà del dolore paralizzò Maki, che riprese a respirare, a rilassarsi, a calmarsi, a non piangere, a stringere le mani di Genzo come boe nel mezzo dell’oceano mentre lui cercava di essere il più dolce, il più delicato possibile, mettendo di nuovo sottosforzo cosce e ginocchia. Quando fu fuori, entrambi presero un respiro di sollievo, e l’uomo crollò a fianco della donna.

Si guardarono come fosse stata la prima volta che si vedevano: non avevano nome, origini, età. Erano solo due corpi stanchi che avevano appena finito di fare l’amore.

Alla fine, con calma, Genzo allungò un braccio, e lo portò sulla vita di Maki, trascinandola verso di se mentre questa prendeva la coperta, per coprire entrambi i corpi; l’uomo del baciò i capelli e la tempia sudata, e lei accarezzò quel braccio e sorrise al suo sguardo. Unirono le loro fronti, in quel gesto così intimo e dolce, e si ripeterono con gli occhi quanto si amavano.

E stretti in quel modo si addormentarono, senza pensare al domani, forse arrivando a sognarsi a vicenda, mano nella mano, sulla riva di quel mare, lei con il suo splendido Furisode, lui con il berretto sulla testa, che sorridevano e iniziavano a camminare verso un punto lontano dell’orizzonte.

 

**

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Capitolo 20
*** Koffer ***


XIX: Koffer

(Valigia)

 

Mi svegliai, ma tenni gli occhi chiusi: mi sentivo avvolta da una calda morbidezza, e stavo bene, tremendamente bene. Leggera, serena. E questo perché … perché … avevo fatto … con Genzo.

In un momento la mia mente divenne lucida come uno specchio, ma il ritorno alla realtà fu tale che, quando alzai la testa dal cuscino, la sentii girare e mi ritrovai più confusa che mai; al tempo mi sentii salire un misto tra imbarazzo  e sorpresa: io, Genzo, noi, l’altra notte, sesso, aaaah!!!

Guardai verso il cuscino e, lo ammetto, ci rimasi male nel vedere solo la mia ombra sulla federa, e quello che rimaneva dell’impronta di un altro corpo; alzai lo sguardo attorno a me, e i miei occhi furono abbastanza veloci da abituarsi alla luce e riconoscere le due poltrone, l’armadio, la finestra, il camino. Per un momento pensai che fossi sola, sentivo un silenzio ovattato.

Lentamente mi portai al petto le ginocchia, ripensando a quello che era successo quella notte; e, da una parte, mi veniva da arrossire, imbarazzata, ma dall’altra … dall’altra ero felice.

Pian piano mi resi conto che, nonostante la cena di beneficenza della scorsa sera, quel giorno dovevano comunque esserci allenamenti, e quindi come al solito si era svegliato per primo ed era andato; però che cavolo, pensai al tempo stesso, dopo quello che era successo poteva pure fare uno strappo! Ma che crede, che sia stato semplice far … farlo con lui?!

Per un lungo momento mi sentii scossa dalla brutta sensazione di essere stata usata, e strinsi ulteriormente le ginocchia verso il petto, cercando di trovare una buona spiegazione: Genzo era (ed è) un uomo severo con se stesso, oltretutto un po’ orso, pertanto lasciarsi andare a momenti come questi non rientrava nelle sue “specialità”.

-Però che diamine …-

Avevo la gola secca, e la mia voce uscì più bassa rispetto al normale mentre, imbronciata, continuai a guardare la stanza dall’alto delle mie ginocchia, la coperta mi arrivava fino alla pancia e sentii le spalle cominciare ad infreddolirsi.

Probabilmente Yayoi si era già alzata, forse era di sotto che chiacchierava con Isolde, e feci per scendere dal letto quando avvertii lo squillo di un telefono alla mia sinistra, e mi voltai, notando effettivamente un cellulare sul comodino scuro, il display s’illuminava e si spegneva e sembrava dotato di vita propria, agitandosi a causa della vibrazione.

Mi sporsi ulteriormente, per vedere chi fosse a chiamarlo; quale non fu la mia sorpresa nel riconoscere i kanji giapponesi che dicevano, testualmente “Misugi Jun”.

Sentii una porta aprirsi alla mia destra, e voltai lo sguardo: accanto al camino c’era effettivamente la porta che dava verso il bagno, e da questo uscì Genzo, con addosso una camicia nuova, pulita, di cui stava sistemando un polsino.

Rimasi tanto sorpresa nel vederlo che quasi non riuscii a parlargli, mentre lui mi guardò e sorrise … divertito. Raggiunse il cellulare e si sedette sul letto mentre accettava la chiamata.

-Si, qui Genzo. Oh, ciao Misugi.-

Sembrava sorpreso quanto me di quella telefonata, e velocemente bloccò il cellulare tra la spalla e l’orecchio destro mentre si sistemava il polsino della camicia.

Genzo Wakabayashi è un uomo estremamente sintetico nelle sue telefonate: anche se durano anche un’ora, tutto quello che dice è “Hm-m, si, no, va bene, ok”; se dice qualcosa di più, e solo per spiegare quel “no” in mezzo. Persino quando lo chiamai io, per dirgli a che ora arrivavo da Tokyo, mi aveva detto semplicemente “Hm-m, si, va bene, ci vediamo a Monaco”.

E anche in quella occasione non si smentì.

-Hm-m … si. Si … va bene, manderò Friedrich. Ciao.-

Avrebbe mandato Friedrich?! Ma allora …

Guardai Genzo chiudere la telefonata e voltarsi verso di me, e nuovamente aveva un’espressione divertita, molto probabilmente perché io avevo, in faccia, un’espressione assolutamente inebetita; la sua mano mi spettinò i capelli, lo fa ancora adesso e mi da un fastidio!

-Buongiorno.-

-…mfgiorno.-

Gli bloccai la mano tra le mie, e lui addolcì lo sguardo, facendo scivolare le dita dai miei capelli alla guancia; la sua carezza mi calmò subito qualsiasi malumore o ansia che mi ero creata. Peccato che non durò molto, e Genzo si rialzò in piedi per andare a prendersi una cravatta; a quel punto mi sarei alzata dal letto, ma muovendo mi resi conto che … beh, a parte il lenzuolo, non avevo proprio niente addosso.

Questo significava che, nel momento tenero, lui mi aveva visto praticamente tutto il busto nudo! CAZZO!

Mi ri-fiondai dentro il lenzuolo con la faccia in fiamme.

-Ehm, Genzo …-

Praticamente scivolai dall’altro capo del letto, e aprendomi un varco nel biancore riconobbi la sua figura mentre si stava facendo il nodo alla cravatta; lui mi guardò, e vidi chiaramente che fece uno sforzo molto grande per non mettersi a ridere. Doveva sembrare una specie di verme.

-Dimmi.-

-Mi … mi passeresti il mio abito? Vorrei … vorrei andare in camera mia.-

Voltò lo sguardo alla stoffa rossa abbandonata per terra, ma invece di prendermela si voltò e si diresse verso il bagno, tornando un momento dopo con in mano un accappatoio, lanciandomelo sul letto.

-Penso che questo sia molto più comodo.-

-Ah … grazie …-

Uscii lentamente dal lenzuolo, prendendo l’accappatoio di spugna e mettendomelo addosso; avvertii immediatamente l’odore di Genzo che mi copriva come un abbraccio, e sorridendo me lo portai verso il naso per annusare meglio la spugna. Quando mi voltai a guardare Genzo, notai divertita che era arrossito al mio gesto.

Tuttavia non mi ero dimenticata della telefonata di prima, alzandomi dal letto.

-Che ti ha detto Misugi?-

-Che è appena arrivato a Monaco, e ha bisogno di un passaggio per venire qui.-

Ero colpita da due cose: prima di tutto, dal fatto che Misugi aveva preso l’aereo ed era arrivato a Monaco; ma soprattutto, ero colpita dalla tranquillità con cui Genzo aveva reagito a quella telefonata e alla situazione.

-E perché tu mi sembri tranquillo a questo?-

-Perché lo sono.-

-A te non piacciono le improvvisate Genzo.-

L’uomo andò a prendere la sua giacca, parlandomi.

-No, non mi piacciono, ma questa non è una vera e propria improvvisata: ho ascoltato te che parlavi della situazione tra Aoba e Misugi, e conosco Misugi, per tanto m’immaginavo che sarebbe accaduto qualcosa del genere.-

S’infilò la giacca e prese il suo borsone, rivolgendosi verso di me mentre faceva per aprire la porta.

Lo ammetto: in quel momento lo guardai come se fosse stato un estraneo. Insomma, la sera prima avevamo fatto … l’amore, e lui si comportava come al solito; forse, in quel momento, desideravo essere coccolata un pochino da quell’orso, dato che dei due ero io quella che aveva avuto più difficoltà, e volevo che fosse sottolineato.

In più avevo la brutta sensazione di essere al pari di tutte le altre donne che aveva avuto. Ma fu proprio questo pensiero a farmi uscire per prima dalla stanza, dirigendomi silenziosamente verso camera mia.

-Ah, Maki.-

Mi voltai verso di lui, e lui si fece vicino, parlandomi a bassa voce.

-Senti … stai bene, si?-

… ma quanto sono stupida certe volte!

-Si, sto bene.-

-Ti … ti ho fatto male?-

-Un pochino.-

Lo sentii chiaramente irrigidirsi, e sorrisi, accarezzandogli una guancia.

-Ma era prevedibile, tranquillo.-

-Si ma … uff …-

Borbottò qualcosa, passandosi una mano tra i capelli chiaramente imbarazzato, e poi si avvicinò al mio orecchio per chiedermi quella “tremenda domanda”.

-Ti … ti è piaciuto stanotte?-

Mi veniva da ridere: per la tenerezza, per l’imbarazzo, per la sua espressione di disagio e la sua premura. Mi limitai a porgermi verso il suo orecchio, bisbigliando come lui.

-Si.-

Poi aprii la mia porta e me la chiusi dietro senza guardarlo, probabilmente aveva un’espressione tronfia in volto; mi fiondai in bagno per darmi una lavata, infilandomi velocemente dei jeans e una felpa, per poi scendere al piano di sotto con ancora i capelli inumiditi per la doccia velocissima, trovando Genzo che chiacchierava tranquillamente con Yayoi.

Non era ancora andato via, meno male.

-Buongiorno!-

-Buongiorno Maki.-

-Genzo ti ha informato a proposito di Jun?-

La vidi bloccarsi dallo spalmare la marmellata sul pane, e guardai Genzo, che si limito a fare un cenno negativo con la testa mentre beveva il caffè. Non gliel’aveva detto; ok Maki, dagli la notizia senza troppi fronzoli.

Mi portai verso la sedia, afferrando per prima cosa il latte caldo.

-Ha telefonato a Genzo mezz’ora fa: è qui a Monaco, Friedrich lo andrà a prendere.-

-L’ho già mandato; da qui all’aeroporto, con il traffico, ci vorranno tre quarti d’ora.-

-Capisco. Vi chiedi scusa del disturbo che vi stiamo arrecando.-

Beh, almeno aveva usato il “noi”, parlando di lei e Misugi. Genzo le rispose secco.

-Nessun disturbo.-

La colazione proseguì senza altri intoppi, ma da quando chiudemmo quella conversazione fino al suono del campanello spiai Yayoi in ogni sua azione, osservando il suo comportamento: finita la colazione andò in camera sua, chiudendosi dietro di se la porta, ma la sentii chiaramente muoversi avanti e indietro, aprendo e chiudendo i cassetti.

Che stesse preparando le valigie? Dunque aveva già deciso cosa fare? Beh, può darsi che questo suo movimento fosse dovuto alla sua intenzione in ogni caso di partire. Tuttavia ricordai l’ultimatum di Yayoi, e in fondo speravo che le cose andassero per il meglio; la lasciai fare, tornando al piano di sotto e notando che Genzo ancora non era uscito.

-Aspetti Misugi?-

-Aspetto Friedrich: devo passare da mio padre prima di andare all’allenamento.-

-E non ci vai con la tua macchina?-

-Nah, mi piace fare il pigro quando vado dal mio vecchio: così gli do l’idea di non voler fare niente, e non mi riempie di scartoffie come fa con Ichirou.-

-Profitmaker.- (approfittatore)

-È vero. Hai migliorato la pronuncia.-

Sorrisi divertita, e in quel momento sentii il cancello esterno aprirsi, e una macchina accelerare ed entrare.

-È arrivato.-

-Ci hanno messo poco, forse non c’è troppo casino per strada.-

-Genzo.-

L’uomo si voltò verso di me.

-Vai già via?-

-Vuoi che resti? Guarda che non succederà niente, non sono tipi da passare alle mani.-

-Lo so, però …-

Però, se mai avessero scelto di tornare insieme a Tokyo, io li avrei di sicuro accompagnati: dovevo tornare in Giappone.

-Però?-

- … io torno in Giappone. Di sicuro andrò con loro.-

Sarebbe rimasto?

-… Misugi è appena arrivato, e bisogna prenotare il biglietto. Non credo ripartirete prima di domani pomeriggio.-

E mi guardò con aria decisa, quasi come se mi stesse ordinando di aspettare fino al giorno dopo; forse, come me, avvertiva il panico di quella separazione, e forse ne soffriva di più perché, giustamente, riteneva assurdo che io tornassi dalla mia famiglia per aiutare mia zia, la persona che ci ha sempre ostacolato.

Avere la sensazione che lui provasse il mio stesso disagio calmò il mio animo, e sorrisi sollevata, annuendogli; lui non rispose a quel sorriso, dandomi le spalle.

Suonò il campanello, e Genzo andò ad aprire.

Misugi era proprio lì davanti, e aveva una faccia stravolto, come se non fosse riuscito a dormire. Dentro di me ne fui contenta, se non dormiva significava che era abbastanza sconvolto dalla situazione; avevo una gran voglia di correre sulle scale per andare ad avvertire Yayoi, ma ero certa che fosse in ascolto.

-Wakabayashi.-

-Misugi, prego accomodati. Purtroppo non posso restare, ma Maki farà gli onori di casa.-

Io annuii, avvicinandomi all’uomo e invitandolo silenziosamente ad entrare, voltandomi un’ultima volta verso Genzo; gli vidi la schiena, e allungai una mano, giusto per sfiorargliela. Gli parlai a bassa voce, come se non volessi che Misugi mi sentisse.

-A stasera?!-

Lui si voltò verso di me, e lo vidi sorridere.

-Certo. A stasera.-

E lo vidi andarsene, salendo in macchina con Friedrich che gli chiudeva la portiera, salendo in seguito al suo posto di autista; presi un profondo respiro, adesso la situazione era “in mano mia”.

Mi voltai verso Misugi, e lo vidi a disagio, molto a disagio, lo sguardo basso e i pugni stretti; gl’indicai la scalinata davanti a noi, per invitarlo a salire con me, quando alzai lo sguardo e vidi Yayoi in cima alle scale, che ci guardava con aria innervosita.

-Yayoi …-

-Vieni Jun.-

E  lui le obbedì silenziosamente, salendo i gradini mentre Yayoi si staccava dal corrimano, probabilmente andando in camera sua. Io aspettai cinque minuti in fondo alla scala, prima di salire al piano di sopra; vidi Isolde in quel momento entrare dal salotto, in mano aveva uno straccio per pulire i vetri.

-Buongiorno Isolde.-

-Ciao cara, scusa se non ero in cucina.-

-Figurati. Ah, non credo che Genzo te lo abbia detto, ma è appena arrivato un altro nostro amico, scusaci per il disagio.-

La vecchia donna scosse la testa.

-Ti dirò la verità: tutto questo movimento in casa mi diverte molto.-

E mi fece l’occhiolino, facendomi sorridere. Poi cambiò discorso.

-Invece, ho saputo che torni in Giappone.-

-Si, ma solo per un breve periodo! Tornerò in tempo per fare l’albero e il presepe!-

Mi guardò sorpresa, per poi sorridere contenta.

-Allora ti farò trovare tutto pronto per il tuo ritorno.-

Annuii, contenta, e a quel punto salii al piano di sopra, dovevo anche preparare la mia valigia, ma soprattutto dovevo recuperare il mio vestito, era rimasto per terra nella stanza di Genzo!

Quando arrivai al piano, notai subito che la porta di Yayoi era chiusa, e non mi ci avvicinai, dirigendomi invece verso la camera del padrone di casa, socchiudendo la porta e sbirciando, mi sarei troppo imbarazzata se l’altra cameriera fosse già lì a pulire la stanza; fortunatamente ero sola, e praticamente corsi verso la stoffa rossa per terra.

E, lo ammetto, dovetti cercare per bene il mio intimo. Nella … nella foga … beh avete capito no?! Uff.

Recuperai tutto, e mi fermai solo un momento, sedendomi sul letto sfatto, per ripensare a quello che era accaduto, accarezzando la morbida stoffa del mio abito; la cena, i mercatini, la storia di Genzo.

Già, quella storia … mentre mi parlava, non avevo espresso il benché minimo commento o pensiero, e anche in quel momento avevo la mente limpida, che mi ripeteva semplicemente tutto quello che l’uomo mi aveva raccontato senza aggiungere o togliere dettagli.

Kojiro mi aveva sempre detto che avevo il talento di ascoltare le persone senza metterci niente di mio, e spesso quella mia capacità aveva ri-sollevato l’umore di amici e compagne di squadra, persino del mio stesso marito. Sperai di aver fatto lo stesso effetto anche con Genzo.

Mi guardai intorno, e notai che, sopra un cassettone, dall’altro lato della stanza rispetto alla finestra, c’era la mia borsetta e, accanto, il sacchetto con dentro il carillion; lo liberai dalla plastica, accarezzandone il legno decorato, aprendolo quel tanto che bastava per attivare la melodia, e poi lo richiusi, stringendolo e prendendo la decisione di portarlo con me in Giappone.

Per prima cosa, però, dovevo avvertire la famiglia.

> Pronto, famiglia Akamine.

Toh, guarda un po’ chi rispondeva al telefono.

-Ciao Jin, adesso fai il centralino?-

> Maki!

-In persona, come vanno le cose?-

> Un po’ meglio, almeno per quanto mi riguarda: da quando la zia è stata richiamata dalla famiglia sta sempre chiusa nella sua stanza, e raramente accetta la presenza di Tomoko o di tua madre.

La situazione stava prendendo una strana piega.

-Ascoltami Jin: di alla nonna che arrivò dopodomani mattina, prendo il mio aereo del pomeriggio qui a Monaco.-

> Eeeh?! Torni?! Perché?

-La nonna ha chiesto la mia presenza, e mi sembra giusto di esserci alla prossima riunione di famiglia.-

> Capisco … avvertirò immediatamente la nonna allora.

-Ti ringrazio Jin.-

> Ah, Maki … come vanno le cose con Genzo?

-Tutto bene, ti ringrazio, non vedo l’ora di rivederti.-

In fondo ero stata io, quella volta, a gridare a tutti che l’avrei adottato, me lo sentivo un po’ come un fratellino o un nipote.

>A-Anch’io non … non vedo l’ora. Ora scusa, ma c’è del lavoro da fare.

Jin imbarazzato, che ridere!

-Va bene, ricordati del messaggio. A presto.-

E chiusi la conversazione, dirigendomi in seguito verso la mia camera, cercando negl’armadi e prendendo il mio borsone più grosso, aprendone la zip e cominciando a riflettere su cosa dovevo portarmi dietro: di sicuro un kimono per la riunione, lì non potevo scamparla, era obbligatorio.

Poi qualcosa di pesante, in fondo poteva essere freddo in quella stagione, e la maggior parte dei miei vestiti li avevo portati a Monaco: cominciai a piegare, sistemare, prendere e scartare il mio vestiario, lasciando i kimono per ultimi, sopra la borsa assieme al mio beauty-case.

E per tutto il tempo, avevo lasciato aperto il carillion, e la melodia del “Danubio Blu” mi accompagnò per l’intera operazione; ad un tratto mi ricordai che mancava qualcosa, e tornai dentro la stanza, trovandomi Isolde che stava cominciando a sistemarla con l’altra cameriera.

-Dimmi Maki.-

-Hai … hai trovato un fermaglio per caso?-

-Ah si, il tuo fermaglio.-

Infilò le mani nel suo grembiule da lavoro, e tirò fuori dalla grossa tasca il mio fermaglio con i tre fiorellini, offrendomelo con un sorriso; la ringraziai in silenzio, tornando poi dentro la mia stanza e mettendo, con delicatezza, il fermaglio dentro la scatolina, chiudendola e mettendola dentro il borsone, accanto al kimono che avevo scelto di portare con me.

Così poche cose avevo che mi legavano a Monaco e, soprattutto, a Genzo. Ma non me ne dimenticai nemmeno una: volevo portarmi tutto con me, perché sapevo che ne avrei avuto bisogno.

E ora dovevo avvertire il bar e la squadra.

Ma nonostante quelle cose da fare, il mio cuore era molto più tranquillo di quanto potessi immaginare; forse perché sapevo che anche lui stava male, come me, per quel viaggio, e dunque avevo un motivo in più per tornare a Monaco.

Rivolsi uno sguardo alla porta della camera di Yayoi, era ancora chiusa; poi andai verso le scale, per fare quelle telefonate.

 

**

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Capitolo 21
*** Mann ***


XX: Mann

(Uomo)

 

Ragazza mia ti spiego gli uomini
ti servirà quando li adopererai
son tanto fragili, fragili tu
maneggiali con cura
fatti di briciole, briciole che
l'orgoglio tiene su

 

Sentii il rumore della porta della camera di Yayoi che si aprì, e dei passi che si diressero verso la scalinata; in quel momento mi trovavo al piano di sotto, stavo sistemando la tavola per il pranzo, e lentamente mi sporsi dall’uscio, guardando chi sarebbe sceso da quelle scale.

Fu proprio Yayoi, l’espressione stance e gli occhi arrossati, di chi aveva pianto una marea di lacrime. Per un attimo pensai al peggio, e mi venne l’istinto di avvicinarmi a lei; tuttavia, lei mi sorrise con aria luminosa.

-È andata bene …-

-Mi fa piacere. Forza, vieni a mangiare qualcosa.-

Le posai una mano sulla spalla, e lei a quel contatto appoggiò il suo capo sulla mia spalla, fremendo per via di altre lacrime che uscirono dai suoi occhi; che strana situazione, i ruoli si erano invertiti: una volta sarei stata io quella si poggiava, stanca, sulla spalla di Yayoi, e lei mi avrebbe trasportato in camera e mi avrebbe tenuto compagnia per farmi star meglio.

La feci accomodare sulla panca del tavolo, e velocemente le posai di fronte al naso del brodo caldo che Isolde aveva lasciato per noi, quel giorno la vecchia governante sembrava essere stata divorata dalla casa, diceva che aveva un sacco di faccende da sbrigare benché, solitamente, quegli stessi compiti li svolgeva nell’arco della mattinata.

Io mi accomodai di fronte a Yayoi, tenendo fra le mani il canovaccio con cui mi ero lavata le mani qualche momento prima di vederla.

-Avanti, racconta.-

Lei soffiò e sorseggiò il brodo caldo, e vidi fin da subito l’effetto benefico del liquido sul suo volto; tirò su con il naso, e cercò il fazzoletto nella tasca dei pantaloni, soffiando prima di mettersi a parlare.

-Era arrabbiato.-

-Ma anche tu lo eri all’inizio, no?-

-Ammetto che, inizialmente, ho avuto più paura che rabbia; tuttavia, appena ha cominciato a darmi della bambina, ho reagito. È stato … strano, non credevo di avere così tanta … rabbia nei confronti di Jun.-

Posai un gomito sul tavolo, e con la mano mi sorressi il volto mentre studiavo la mia amica, chiedendomi come poteva una giovane così matura, e che mi aveva aiutato così tanto, non accorgersi dei suoi problemi personali?

-E sentiamo: perché, di cosa eri arrabbiata con Jun?-

-Per il fatto che, nonostante ci conosciamo da anni, mi pensa ancora come la ragazzina di anni fa, incapace di badare a se stessa ma perennemente in ansia per gli altri, come se non esistesse altri nella mia vita.-

A quel punto gli avrei voluto dire “quindi è geloso di questo?”, ma Yayoi non pareva aver compreso questo piccolo passaggio, a giudicare da come proseguì il suo monologo.

-Gli ho detto chiaro e tondo che ho altro che mi piace, e che sono l’ultima persona che può accusare di non badare a se stessa, dato che per occuparmi di lui ho dovuto imparare a cavarmela da sola.-

-E lui come ha reagito?-

-Niente, non ha detto niente.-

Ovvio, lo immaginavo.

-Allora? Che hai fatto?-

-Mi … mi sono arrabbiata ulteriormente, gli ho detto che si mi considerava ancora una bambina significava che non mi aveva mai amata veramente, che tutti gli anni spesi insieme erano stati inutili, anche perché non mi diceva mai veramente ciò che pensava, procurandomi solo ansia, e … e che era meglio finirla.-

A quel punto fece un verso, soffocando in qualche modo la sua voglia di piangere, e sbuffando le spinsi il brodo, invitandola silenziosamente a berlo; la guardai, e pensai che forse Misugi non aveva tutti i torti: se c’era una cosa che Yayoi non aveva mai conosciuto veramente era la gelosia, intesa come sensazione di possedere una persona e di non sopportare che qualcuno gli si avvicini troppo contro la tua volontà.

In quel senso, Yayoi-chan poteva ancora considerarsi una di quelle rare persone che amava senza sforzo e senza sentire i doveri di una relazione, certe volte, come dei macigni; da un certo punto di vista la invidiai, dall’altro mi resi conto che era molto più fragile di tante altre coppie, come per esempio Sanae e Tsubasa. Kami, ogni volta che vedo quei due penso sempre che niente al mondo li potrà mai più separare!

Intanto Yayoi si era calmata, e dopo l’ennesima cucchiaiata di minestra riprese a parlare.

-A quel punto, lui mi ha … mi ha chiesto scusa e … e si è messo a piangere; mi ha detto che aveva avuto paura, che questa era la prima volta che mi vedeva così decisa, e che se da una parte era stato fiero di me, dall’altra non sapeva cosa fare.

Mi ha chiesto consiglio, inginocchiandosi di fronte a me … ci pensi Maki? Lui, Jun, in ginocchio di fronte a me.-

Io alzai le spalle, sorridendo, vedevo Yayoi entusiasmarsi di fronte alle sue stesse parole, e sorridere sollevata.

-Abbiamo parlo, tanto, e ci siamo ritrovati anche a chiacchierare di cose che non c’entravano niente. Mi mancava, mi mancava questo … e mancava anche a lui, me lo ha detto, sai?-

A quel punto allungai una mano, stringendogli quella sul tavolo mentre terminava il suo monologo.

-Mi ha anche detto … che io gli mancavo.-

E seppi che, di sicuro, Misugi gli aveva detto anche qualcosa di più intimo, ma Yayoi era una persona riservata in quei casi.

-Che farai, adesso?-

-… in ogni caso devo tornare, il lavoro mi aspetta.-

-Tornerai con lui?-

-… cosa pensi che debba fare, Maki?-

Me lo chiese veramente, non era una domanda retorica; la guardai attenta, valutando la mia possibile risposta. Conoscevo Yayoi da molto tempo, ma eravamo diventate amiche intime solo da due anni, e ricevere una domanda simile da lei era importante, perché lei sa perfettamente che non le ho mai mentito.

Quando eravamo al telefono l’avevo spinta a reagire, ed aveva funzionato; ora si trattava di tornare e cominciare qualcosa di nuovo. Con o senza Misugi.

 

Ragazza mia sei bella e giovane
ma pagherai ogni cosa che otterrai
devi essere forte ma forte perché
dipenderà da te
tu sei l'amore il calore che avrà
la vita che vivrai

 

-Portalo con te.-

Presi una piccola pausa, per valutare la sua reazione: apparentemente era tranquilla, ma percepii che era stata colpita più dal mio tono di voce e da come avevo impostato la frase. Continuai con tale atteggiamento, lasciandole andare la mano.

-Forse non te ne sei accorta davvero, Yayoi-chan … ma credo che tu sia veramente mancata a Misugi: è entrato in casa … con un espressione stravolta in volto, come se fosse da giorni che non dorme, e da quello che mi hai raccontato … penso che tu sia la prima persona, e bada ho detto persona, che lo riduce in questo stato.-

A quel punto vidi le labbra di Yayoi socchiudersi, e la sua espressione diventare stupita; poi abbassò lo sguardo, come a ricordare qualcosa, e io le parlai.

-Mi hai raccontato dei problemi di salute di Misugi, e Kojiro ogni tanto mi parlava di lui in campo.-

Alzò lo sguardo, e le parlai sorridendo tranquilla.

-Un leader calmo e sicuro di sé, che conosceva i suoi limiti e tentava sempre di superarli; eppure, mi confessò, dietro quel suo atteggiamento pacato si nascondeva una persona … viziata.-

L’aggettivo stupì ulteriormente Yayoi, e probabilmente le illuminò più di una lampadina dentro il suo cervello; non era la prima volta che gli dicevo una cosa del genere, ma adesso avevo usato quell’aggettivo anche nell’ambiente lavorativo di Misugi.

-Tu eri sempre lì per lui, e lui è sempre stato sicuro della tua presenza, al punto da potersi permettere anche di fare il prepotente con te, anche se alla maniera sua: gentile e scherzosa.

Ma tu, adesso, gli hai fatto comprendere che tu sei una persona, e che sei stufa del suo atteggiamento; e lui, per la prima volta, si è sentito dire “no” … e non sa che fare. Sono sicura che, in questi giorni, ha fatto il bello e cattivo tempo con chi gli stava intorno.-

E la mia amica sorrise divertita. Continuai a parlare restando seduta di fronte a lei.

-Poi si è fermato, si è guardato intorno … e a quel punto ha capito cos’eri per lui.-

E non ebbi bisogno di andare avanti nel spiegarglielo, così come prima Yayoi non mi disse tutto quello precedentemente.

-E credo che se adesso non andassi con lui, lo spaventeresti troppo. In fondo ha avuto quello che si meritava, no?-

-Si … ma io mi posso fidare? Se quello che dici è vero, in caso riprendesse a fare quello che faceva prima, che farò?-

La guardai incerta, perché una risposta mi era venuta immediatamente, ma era una risposta che io ero l’ultima persona al mondo a poterle dire, perché domande simili me l’ero fatte con Genzo, e forse ancora adesso erano dentro di me, momentaneamente sopite.

Tuttavia non potevo permetterle di farsi simili voli mentali.

-Io sono l’ultima persona che può dirti una cosa del genere, ma se lo ami davvero, e vuoi davvero stare con lui, devi accettare di correre questi rischi. E poi dovresti fidarti, dopo il viaggio che si è fatto per venirti a prendere; di certo non è venuto per fare visita a Genzo.-

Annuii, e a quel punto decisi di alzarmi, per prenderle la ciotola vuota e posarla nel lavabo, riprendendo la conversazione.

-Dov’è Misugi?-

-Si … si è addormentato, ha detto che era stanco.-

Ci credo!

-Va da lui.-

La guardai, e mi parve incerta sulle prime; poi si alzò dalla panca, chinando la testa in segno di ringraziamento e allontanandosi; la sentii salire le scale e aprire la porta della sua camera, lasciandomi nella solitudine pacifica della cucina. Presi un respiro profondo, risedendomi davanti al tavolo.

Dovevo pensare ad una strategia, o quanto meno ad uno schema di cose da fare una volta tornata a casa: il viaggio sarebbe durato almeno dieci-undici ore, dovevo prendere un altro aereo per Naha e da lì mi sarebbero venuti a prendere. Una volta giunta al ryokan cosa mi conveniva fare, a parte salutare i parenti?

… decisamente chiedere scusa a mamma: le avevo promesso che non sarei tornata al ryokan se non per delle vacanze. Poi assicurarmi che nonna, Jin e Tomoko stessero bene, specialmente quest’ultima, lei era sempre stata la più legata alla zia Moe.

E poi … poi sarei dovuta andare da zia. A quel pensiero, mi tornò in mente quando mi presentarono a lei, quand’ero piccola: la sua mano, sui miei capelli, era stata delicata, forse non voleva rovinarmi la pettinatura; eppure, al tempo stesso, era stata incredibilmente gentile, forse perfino dolce.

Ora le cose erano molto diverse, lei provava astio nei miei confronti, forse perfino odio; ma il risentimento che provavo nei suoi confronti, oramai, era svanito, o forse non ci era mai stato effettivamente. Quello che sentivo, al momento, era forse l’amarezza: di non essere riuscita a far comprendere a zia il mio punto di vista, di essere stata causa del suo astio nei miei confronti, e adesso di non avere idea di cosa fare con lei.

-Maki, sei qui?-

-Si, Isolde.-

La governante entrò con la sua solita aria tranquilla, e la osservai stupita, lei e mia nonna erano molto diverse, ma entrambe emanavano un’aria tranquilla, che ti viene voglia di metterti la e chiacchierare con lei senza sosta.

-Cosa c’è?-

-Mi servirebbero le tue braccia, Maki, e anche la tua agilità: io quella, oramai, l’ho persa da un bel po’.-

-Ah dai, Isolde, in fondo sei ancora una ragazzina!-

-Certo, una ragazzina con più di sessant’anni sulle spalle! Dai vieni.-

Seguii Isolde curiosa, e lei mi portò verso il dietro delle scale, lì dove ci sono le scale verso lo scantinato; ammetto che, fino a quel momento, non ci ero mai scesa, e per me era la prima volta in una cantina “occidentale”.

-Tieni la testa bassa, il soffitto non è molto alto.-

-Va bene.-

La luce illuminò la scala stretta, camminavamo in fila indiana, e sentii odore di umido e intonaco staccato dalla parete; alla fine un’altra lampadina, scarnita del suo lampadario, illuminò una stanza grande, caotica e al tempo stesso ordinata, con scatole messe in posti diversi, e roba accatastata in vari angoli.

-Ammetto che non è il regno dell’ordine, ma le cose si trovano sempre.-

E Isolde entrò per prima nella stanza, superando … un cavallo a dondolo! Oddio, ma proprio come quelli delle fotografie d’epoca!

-Che bello!!-

-Apparteneva al padrone, il quale l’ha dato ai suoi figli; ricordo che Akio giocava sempre a fare il cowboy, non riuscivamo mai a staccarlo da lì!-

Accarezzai il muso dell’animale di legno, notando la polvere, ma nonostante in alcuni punti il colore fosse sparito, il giocattolo era in ottimo stato. Mi guardai intorno, e notai altri giocattoli e riviste.

-E la soffitta?-

-Ah, lì ci sono cose che ancora adesso i signori usano, ma qui … qui ci sono tutti quegl’oggetti che non vogliono buttare. Guarda questo.-

Mi avvicinai, e Isolde teneva tra le mani, con incredibile delicatezza, un oggetto che mai prima d’ora avevo visto in vita mia.

-Questo è un sonaglio in argento, regalato al padroncino Ichirou dalla sua madrina il giorno del battesimo.-

Lo mosse leggermente, e sentii il rumore brillante del giocattolo, sorprendendomi; Isolde lo avvolse nel suo vellutino rosso, e proseguì il suo ruolo di guida all’interno di quella caverna delle meraviglie, c’era veramente di tutto: libri di contabilità, cartelline e altro, ma anche libri di letteratura vecchi, videocassette, balocchi (perché solo così si capisce quanto quei giocattoli sono vecchi) e origami, tanti origami.

-Li ha fatti la signora Wakabayashi?-

-Si, ci sono anche le gru che ha fatto quando era incinta del padroncino.-

-… ci sono cose di Genzo qui?-

-Hmm, di solito i bambini si passavano i giocattoli quando crescevano, ma credo ci sia qualcosa … ah, aspetta!-

E Isolde andò in un punto più buio, frugando tra dei vecchi fogli di giornale, fino a prendere qualcosa e facendo cenno di avvicinarmi: tra vecchissimi e ingialliti fogli di giornali, Isolde scoprì un vecchio burattino di legno, di quelli con il filo, un pezzo di artigianato incredibile a mio parere. Era un cavaliere, con il pennacchio rosso che, nonostante la polvere, era ancora integro; l’armatura aveva un rivestimento lucido che, purtroppo, era staccato in più punti, rivelando la pittura.

In una mano teneva la lancia coloratissima, dall’altro uno scudo medievale con i dettagli, così come il suo volto, i baffi neri e sottili e gli occhi azzurrissimi, il mento nascosto da una parte dell’elmo.

Mi batteva il cuore per l’emozione.

-Il cavaliere!-

-Già, era il preferito del padroncino, la signora gliel’aveva preso ai mercatini di Marienplatz; lei aveva i burattini da usare con le mani, eppure lo aveva sempre messo dentro le sue favole per il figlio. Cercava sempre di dimostrargli tutto il suo affetto quando era a casa con lui.-

Ricordai che Isolde, e credo anche Genzo, mi avevano detto che lui da piccolo si era trasferito in Giappone, e che ad un certo punto la signora era dovuta tornare in Europa.

-Il burattino è andato in Giappone?-

-Purtroppo no, e il padroncino poi non l’ha voluto con se. Credo che avesse paura di soffrire nostalgia, e lui è così severo con se stesso.-

È un uomo fiero, che sa di essere forte; probabilmente da piccolo questa sua consapevolezza era moltiplicata per cento e mille, e dunque non voleva farsi piegare da niente e nessuno.

-Lei crede … che potrei portarlo su? Mi … mi piacerebbe farlo sistemare e ridarlo a Genzo per Natale … sempre se tu sei d’accordo.-

Isolde mi sorrise, e avvolse di nuovo il burattino nel giornale, consegnandomelo.

-Sono sicura che al padroncino farà molto piacere.-

Annuii, e subito dopo Isolde riprese la sua ricerca, riuscendo finalmente a trovare quello che cercava: erano due vecchie valigie, avete presenti le classiche valigie di cartone degl’immigrati? Erano uguali, ma li c’era anche un po’ di cuoio.

Erano sopra un armadio, per questo Isolde mi aveva chiesto aiuto: con l’ausilio di una scala riuscimmo a portarle giù, ma erano davvero pesanti, le trasportammo una alla volta e arrivammo anche a trascinarle sul pavimento; ma quando, alla fine, Isolde aprì la prima valigia, mi resi conto che era valsa la pena fare tutta quella fatica.

C’erano … palline, tante, tantissime palline colorate, fatte di plastica, metallo, legno, dipinte o decorate; e poi piccoli angeli, stelle, oggetti in miniatura, e lunghe ghirlande d’oro e argento. Il tutto avvolto in un’atmosfera decisamente brillante e totalmente nuova per me: un’ondata di entusiasmo e allegria mi arrivò addosso, tanto da lasciarmi senza fiato.

-Ma … ma cosa sono?-

-Decorazioni per l’albero.-

-… tutte queste?!-

Isolde sorrise alla mia sorpresa.

-Solitamente la signora Wakabayashi ordinava un albero molto grande, dato che una volta decorato serviva per le varie feste che organizzava; ovviamente, però, da quando i signori si sono trasferiti e qui c’è il padroncino, molte di queste decorazioni non vengono più usate.-

-Un peccato, sono così belle …-

-Già, ma in questa casa è difficile festeggiare il Natale: il padroncino rare volte si è lasciato convincere dai padroni a far organizzare cenoni o feste qui.-

Conoscendo il suo carattere non ne ero sorpresa, ma vedere l’espressione malinconica di Isolde contagiò il mio umore, raffreddando leggermente il mio entusiasmo di fronte a quella meraviglia; ma l’eccitazione tornò non appena aprì la seconda valigia.

Statuine, tante statuine occidentali: pastorelli, lavandaie, fornai, fabbri, soldati, arabi …

-Isolde, questi chi sono?-

-Quelli sono i Re Magi, i tre re che, dall’oriente, giunsero alla grotta (o capanna, non si sa bene) del Bambin Gesù ad offrire i loro doni.-

Alcune statuine erano ancora avvolte nella carta, e pesavano. I miei preferiti erano gli animali: pecore, oche, cani, galline, un bue ed un asinello, ma anche cammelli e altri ancora.

-Ma quanti sono!-

-Oh si, il Presepe prendeva sempre un lato del salone nel costruirlo, e specialmente il signorino Ichirou si divertiva molto a crearlo ogni anno in maniera diversa: prima era un paesaggio di montagna, un’altra volta con la sabbia, ma la sua prima creazione, quando aveva tre- quattro anni, era un Presepe sulla Luna.-

Sulla LUNA?!

-Alla signora l’idea piacque molto, e nonostante il divertimento generale il Presepe fu mantenuto.-

-Che … che tipo è Ichirou Wakabayashi?-

Avevo conosciuto Akio, un ragazzo molto più espansivo di Genzo; che anche il maggiore dei tre fosse così?

-Ah, se ti riferisci al Presepe fu l’unica volta che fece qualcosa di così fantasioso: è un ragazzo molto maturo e responsabile, e aiuta il padrone nell’azienda di famiglia.-

-E come sono i rapporti con Genzo?-

-… direi freddi: dato che Genzo è andato all’estero da solo, per molto tempo i due non si sono neanche conosciuti. Si rispettano, e sono sicura che si vogliano bene; ma ad occhi poco allenati, forse danno l’idea di essere due estranei.-

Annuii, e aiutai Isolde a spolverare la maggior parte delle decorazioni, risistemandole in modo ordinato nelle valigie e tenendole in un angolo del salone; quando finimmo il lavoro, era quasi ora di preparare la cena, e Yayoi scese con Misugi al piano di sotto.

-Ottimo lavoro Maki. Adesso vado a preparare qualcosa da mangiare.-

-Ah, Isolde, come mai le hai tirate fuori adesso?-

-Perché così, quando torni, sono subito pronte per essere sistemate.-

… non potei fare altro che sorridere, mentre Yayoi entrava nella sala con Misugi, entrambi con un espressione decisamente più sollevata di quando li avevo lasciati.

-Riposato?-

-Decisamente, ne avevamo entrambi bisogno.-

-Ne sono lieta.-

-Tu invece? Ti sei data da fare eh?-

-Già! E ho trovato cose molto interessanti.-

-Tipo?-

-Segreto.-

-Ah, ma dai Maki!-

Il burattino cavaliere sarebbe stato il mio segreto, il mio regalo di Natale a Genzo: ero certa che gli sarebbe piaciuto.

 

Il testo usato è “Anche un uomo”, di Mina. Vi consiglio di ascoltare sia lei (perché lei è lei, la grande, e quindi va ascoltata XD) sia la versione di Malika Ayane (che mi ha sorpresa, ma è meravigliosa!)

 

**

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Capitolo 22
*** Abflug ***


XXI: Abflug

(Partenza)

 

Aspettai Genzo mentre chiacchieravo con Yayoi e Jun, sorridendo ogni volta che li vedevo scambiarsi occhiate e commenti intrisi di complicità; attesi Genzo aiutando Isolde a preparare la tavola e a fare la cena, impegnando così le mani per far passare veloce il tempo. Sfortunatamente, le lancette dell’orologio appeso in cucina sembravano volermi fare un dispetto, andando più lente del solito. Ma aspettai.

Aspettai Genzo anche quando, tutti e tre noi nipponici, andammo su internet per prenotarci il volo di ritorno a casa; come giustamente aveva detto Wakabayashi, decidemmo di prendere il primo aereo che partiva nel pomeriggio, verso le tre. Contando che il giorno dopo sarebbe stato Domenica, l’uomo non ci avrebbe accompagnato all’aeroporto, con mio sollievo.

Non volevo che venisse: avevo la sensazione che, se fosse venuto con noi, sarebbe stato molto difficile partire di me, più di quanto non lo fosse effettivamente. Non era un addio, è ovvio, mica ci stavamo lasciando o scemenze simili. Ma quella mia partenza lui non l’accettava, lo sapevo perfettamente, pertanto preferivo che non mi guardasse andare via; tanto sarei tornata.

Io sarei tornata da Genzo.

Intanto, lo aspettai anche durante la cena, mangiando poco e continuando a chiacchierare con i miei due ospiti, sforzandomi di concentrarmi sulle loro parole, ma alla fine era persa nel giocherellare con le briciole del pane.

Non mi ero sentita mai così nervosa ed impaziente, nemmeno quando ero in partenza per raggiungere Monaco: sentivo un rimestare dentro di me, e da una parte mi dicevo di annullare il volo, di non andarci, di restare con Genzo; ma appena quel pensiero diventava nitido, mi sgridavo, dandomi della codarda e ricordandomi del perché stavo partendo.

Maki Akamine, perché parti per il Giappone? … perché la nonna ha chiesto di me, e perché voglio comunque aiutare mia nonna.

Ogni volta che mi rispondevo in questo modo mi ripetevo, come un mantra, che in ogni caso sarei tornata a Monaco. Continuando a ripetermi questo diedi la buonanotte a Yayoi e Jun, la mia amica aveva deciso di non intromettersi nel mio nervosismo, e comunque non gliel’avrei permesso: adesso doveva occuparsi del suo uomo.

Avevo davanti a me una grossa tazza rossa di the, calda, con il fumo profumato che si alzava sinuoso, illuminato dall’unica lampada che avevo lasciato accesa; osservavo quella striscia grigio-bianca alzarsi verso l’alto, con la testa spenta, e aspettavo di sentirlo tornare.

Alla fine, la serratura della porta scattò e si aprì, e in un secondo fui in piedi, affacciandomi sull’uscio della cucina. Eccolo, eccolo il mio uomo, e lo potevo dire con orgoglio.

Aveva addosso il completo che gli avevo visto indossare quella mattina, accanto stava poggiando il borsone degl’allenamenti, e in testa aveva il suo onnipresente berretto rosso, quella macchia di colore mi dava una sicurezza e un conforto inaspettati.

Avevo voglia di andargli incontro, anche abbracciarlo come a volte ero solita fare con mio marito; ma conoscendo il suo carattere, simili slanci lo avrebbero solo infastidito, pertanto incrociai le braccia e mi conficcai le dita e le unghie dentro il maglioncino, appoggiandomi ad uno degli stipiti e aspettandolo.

Alzò lo sguardo su di me, e d’istinto gli sorrisi, stranamente ricambiata da una sua smorfia.

-Allora, com’è andata tra quei due?-

-Tutto sistemato.-

-Mi fa piacere.-

-Hai già cenato?-

-Si.-

-… com’è andata con tuo padre?-

Lui fece spallucce, avviandosi verso le scale, io lo seguivo tenendomi sul corrimano.

-Come al solito, niente di nuovo.-

-C’era anche Akio?-

Si voltò verso di me, con aria sospettosa.

-No, non c’era oggi. Come mai me lo chiedi?-

-Perché è l’unico della tua famiglia che conosco di persona, pertanto è l’unico che conosco di cui posso chiedere.-

-Isolde non ti ha già descritto tutto il mio albero genealogico?-

Gli rifilai uno scappellotto sul braccio, e lui mi sorrise divertito, dirigendosi verso la sua stanza; e io continuai a seguirlo, sebbene quella porta continuava a darmi una certa agitazione ogni volta che mi avvicinavo più del solito.

-Sono sempre io a chiedere ad Isolde, e comunque mi ha solo parlato dei tuoi genitori e dei tuoi fratelli.-

-E che ti ha detto?-

Gli raccontai di quello che mi aveva detto a proposito dei loro Natali, e scoppiò a ridere quando gli raccontai del Presepe di suo fratello maggiore.

-Tu non ricordi niente di tutto ciò?-

-Ho vaghi ricordi, niente di specifico.-

Continuava a rimanere vago sulla sua famiglia, al punto da mettermi il dubbio se davvero ne era affezionato, oppure me lo diceva solo per farmi stare buona; lo guardai mentre si scioglieva le scarpe, sedendomi sul letto, e lui mi rivolse lo sguardo, incuriosito.

-Beh? Adesso non parli più?-

-Non vuoi parlare della tua famiglia.-

-Maki, ci sono altre cose di cui possiamo parlare.-

-Anche se cambio argomento, rimani sempre vago e apatico.-

Sbuffò, slacciandosi anche la seconda scarpa, togliendole e sistemandole nella scarpiera, addosso portava ancora il suo berretto mentre si toglieva la giacca e la sistemava nell’armadio; non si direbbe, ma Genzo Wakabayashi è un uomo ordinato ... persino preciso.

-Forse hai ragione, ma vedi ... non mi capita di parlare in questo modo così spesso.-

-E quando esci la sera con Karl e i tuoi amici?-

-Non esco così spesso, e non parlo certo del mio privato; Karl è mio amico, ma non credere che mi conosca così tanto bene.-

Questo era quello che credeva lui; io ero, anzi sono sicura, che tra me e Karl è il tedesco a conoscerlo  meglio, e io sto cominciando solo ora a vedere veramente quello che c’era dentro la testa del giapponese di fronte a me.

Questo, intanto, si avvicinò a me litigando, come al solito, con i polsini della camicia, guardandomi in faccia con aria divertita.

-Non mi sembri convinta delle mie parole.-

-No, no, ti credo …-

-E allora perché hai il broncio?-

Come fare a dirgli … che avevo il muso perché ero invidiosa di Karl, del fatto che lo conosceva meglio. Pensiero ridicolo, lo so.

Intanto Genzo mi accarezzò i capelli, e il sorriso divertito si spense velocemente, assieme al suo sguardo.

-Piuttosto … a che ora parti domani?-

-Tre del pomeriggio.-

-Quindi non ci vediamo.-

Scusami Genzo, l’avevo fatto apposta.

-Già: come hai detto tu, Jun e Yayoi vogliono riposarsi ancora un po’.-

-Dovrai prendere un secondo volo, giusto?-

-Si.-

-L’hai prenotato?-

Ci aveva già pensato mia nonna: appena l’avevo informata si è subito messa in contatto con la compagnia, prenotandomi il volo. Hmm, sono quei momenti, ancora adesso fattibili, che mi fanno sentire come la nipote di uno Yakuza.

-Si si.-

Continuò a guardarmi anche lui con aria insoddisfatta, accarezzandomi i capelli, e d’istinto lo rimbeccai.

-Non mi sembri convinto delle mie parole.-

-No no, io … ah, furba lei.-

Sorrisi, e lui con me, per poi accarezzarmi anche con l’altra mano, tenendomi poi la testa e portandola verso di sé.

Lo avvertivo da quei gesti che non aveva alcuna voglia di lasciarmi andare, che se avesse potuto avrebbe pestato i piedi e fatto i capricci; in effetti, ero un po’ sorpresa che non li stesse facendo, e lo guardai attenta, cercando d’individuare nei suoi occhi qualche malessere o pensiero negativo. E i suoi occhi mi guardavano con un’espressione ancora infastidita, quasi scocciata.

-Che c’è Maki?-

-… vuoi che resti?-

Glielo chiesi non per metterlo alla prova, come lui si ostina a pensare ancora adesso, ma perché volevo davvero capire cosa stesse pensando; riuscire a penetrare oltre a quello sguardo scuro, anche perché, a volte risulta davvero difficile.

Lui abbassò la testa, e il berretto rosso, che ancora portava, gli scivolò sul letto, e io mi permisi di prenderglielo, tenendolo tra le mani mentre lui si passava una mano fra i capelli, guardando altrove.

-… se ti dico di si, rimarrai?-

Giocherellai con il suo berretto, rifiutandomi di rispondergli: tanto quello che gli avrei detto lo avrebbe immusonito più di me, e mi limitai a guardarlo, aspettandomi una risposta. Lui sbuffò di nuovo, e alla fine decise di sfogarsi.

-E che non capisco perché ci devi andare! In fondo tua zia se l’è andata a cercare!-

-Non si tratta solo di mia zia: riguarda anche mia nonna. È sua figlia.-

-Si, ma comunque ha sbagliato.-

-Non neghiamo questo, ma …-

-Ma?-

Come fare a dirglielo? Avrebbe capito? Strinsi il berretto fra le mie mani, come un’ancora a cui aggrapparsi, e presi un profondo respiro, ripensando agl’anni passati a nascondere quel … quella situazione.

-Ma cosa, Maki?-

Alzai lo sguardo verso di lui, e lo trovai così maledettamente serio, quasi mi toglieva il fiato per come cercasse di cacciarmi fuori una risposta; scostai lo sguardo, e decisi di parlare, in fondo io amavo quell’uomo, pertanto mi dovevo fidare di lui.

-… mia zia … è malata. Ha anche lei l’Endometriosi, come me, ma … per lei la faccenda è più grave.

Lei … lei, per questa malattia, ha subito la mentalità di una famiglia … arcaica, non trovo altro aggettivo per descriverli; per tanto … soffre di depressione, e la sua … forma, a volte, sfocia nell’aggressività.

Le sono state prescritte delle medicine, ma non le prende mai, dice che non ne ha bisogno; e così facendo, non migliora mai.-

-… tua nonna non le ordina di prenderle?-

Alzai lo sguardo, adesso la sua espressione seria era meno aggressiva, ma di certo non si era sciolta, con mia gratitudine, non avrei sopportato la pietà. Gli sorrisi amara.

-L’ultima volta che lo ha fatto, zia Moe ha buttato le pillole, facendo così credere che le avesse prese tutte.-

Lui respirò, e io proseguii nel racconto.

-Mia nonna vuole che torni … perché, questa volta, non può affrontare la zia.-

-E scarica la responsabilità a te?-

Gli lanciai un’occhiata incattivita, non si azzardasse a criticare mia nonna, mi ci voleva niente per tirargli un ceffone; lui lo capì, e borbottò mentre io gli spiegavo la situazione.

-Io ho la sua stessa malattia, e sono convinta che se gli parlasse, non dico risolverò la situazione … ma almeno metterò qualcosa a posto.-

Lui si era alzato in piedi, meno convinto di me delle mie parole; potei solo raggiungerlo e obbligarlo a guardarmi, per ascoltarmi.

-In più sono in vantaggio: io posso essere curata, posso guarire.

Capisci Genzo? Qualsiasi cosa accada, non potrà farmi niente.-

Lui non aveva la faccia convinta, ma appoggiò la fronte sulla mia, prendendo un profondo respiro assieme a me, e quando ci allontanammo, io gli rimisi il berretto in testa, sorridendogli.

Mi accarezzò, mi abbracciò, mi strinse a se. E sono sicura, non voleva più lasciarmi andare; e io sarei voluta davvero restare in quelle braccia. Mi sentivo così bene, al caldo, al sicuro, e pensando a quello che sarebbe accaduto dopo, quella sensazione mi fu di conforto.

E dopo quell’abbraccio furono baci e carezze, e facemmo l’amore. Si, abbiamo fatto l’amore: lo abbiamo immaginato con i nostri gesti, concepito nelle nostre menti, e gli abbiamo dato forma con i nostri corpi.

Dormii abbracciata a lui, e quando fu il momento di svegliarci e prepararci restammo insieme fino all’ultimo momento, quando lui dovette andare allo stadio; quando ci salutammo non ci furono baci o abbracci, ma sulla soglia della porta di casa mi prese la mano, e la strinse, così tanto da farmi male, e feci lo stesso con lui.

-Solo … vedi di mantenere la tua promessa.-

Annuii.

-Tornerò per l’8 Dicembre.-

Anche lui annuii, e non volevamo lasciare andare la presa delle mani; alla fine lo fece lui, con una lentezza tale che avrei potuto benissimo riprendergliela.

Invece rimasi a guardarlo andare via, sulla sua macchina, sulla soglia della porta di casa.

 

**

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Capitolo 23
*** Familietreffen (I° Parte) ***


XXII: Familientreffen

(Riunione di famiglia)

I° Parte

 

Salutai Yayoi e Jun all’aeroporto di Tokyo, abbracciando la mia amica con così tanta forza che, di sicuro, fu per quel motivo che versò qualche lacrima.

-In bocca al lupo.-

-Sono io che dovrei dirlo a te. Andrà tutto bene Yayoi.-

-Si, lo so.-

E la vidi allontanarsi con Jun che, cavallerescamente, le portava anche la sua valigia, dirigendosi verso il primo taxi che avrebbero trovato fuori dall’aeroporto; io, invece, mi mossi verso il settore delle “partenze” con il mio secondo biglietto in mano.

Quando arrivai a Naha sentii … caldo; in effetti, rispetto a Monaco, lì l’inverno era molto più caldo, e mi tolsi con un certo sollievo il cappotto, aprendo la felpa e guardandomi intorno, con il mio borsone in mano.

-Maki!-

Mi voltai, e vidi mio padre che si sbracciava e faceva un sorriso molto più grande del mio; e anche quando mi abbracciò mi strinse molto più forte di me.

-Bentornata a casa piccola.-

Giapponese, oh grazie kami, giapponese!!

-Quanto è arrabbiata mamma con me?-

-Non molto, credo abbia capito la situazione e la tua presenza.

Hai con te il Kurotomesode?-

-Si, immagino dovrò indossarlo appena sarò arrivata alla casa principale.-

-Passeremo prima al ryokan, dove Tomoko ti aiuterà ad indossarlo; poi con lei e tua madre andremo alla casa principale.-

-Nonna ci aspetta là?-

-Si-

-Come sta?-

Stavamo per salire in macchina, e mio padre si fermò con la portiera aperta, tenendo lo sguardo basso, per la gioia della mia ansia; poi mi sorrise, ma si vedeva chiaramente che era preoccupato quanto me per la situazione.

-Se la sta cavando.-

-Allora andiamo a darle man forte.-

Per il tragitto in macchina lasciai il paesaggio alle mie spalle, senza guardarmi attorno e senza riuscire a parlare con mio padre; il quale, fortunatamente, aveva molta più capacità di me nel cercare una conversazione.

-Allora, come sta Wakabayashi?-

-Bene.-

-E Monaco com’è? so che nevica lì.-

-Ah no, purtroppo non sta nevicando.-

-Ma fa freddo, vero? Per te sarà insopportabile.-

-… no, non più di tanto; mi tengo impegnata, e non ci penso più.-

-Ti tieni impegnata? E come?-

-Lavoro in un bar nel centro storico … e ho trovato una squadra di softball.-

-E i tuoi problemi fisici?-

Me lo disse con il tono con cui di solito mi sgridava senza essere arrabbiato; ma quella volta, per la prima volta, non mi sentii in colpa se stavo facendo degli sforzi fisici, perché sapevo bene che le cose, per me, stavano per cambiare.

-Sono stata da un medico, uno specialista …-

-E?-

-… è meglio se non te lo dico mentre guidi, potremmo fare un incidente. Te lo dirò più tardi, promesso.-

Ma vidi chiaramente che, a quelle mie parole, mio padre aveva già cominciato ad incuriosirsi e, probabilmente, ad innervosirsi, stringendo il volante più del necessario; sorrisi, pensando al sollievo e, forse, alla felicità che avrei dato ai miei alla bella notizia, e finalmente riuscii a guardare fuori dal vetro, riconoscendo la via sterrata che portava alla locanda.

Tornarci, dopo tutto quel tempo, non mi diede alcuna sensazione particolarmente strana: ero si sollevata, dopo più di dieci ore di viaggio non vedevo l’ora di arrivarvi, ma al tempo stesso non mi sentivo appesantita dal fatto di essere di nuovo in quella specie di bolla senza tempo.

Ripensare alla mia vita vissuta la dentro mi provocò una profonda tristezza, ma sorrisi sollevata all’idea che, oramai, quei tempi erano lontani da me. In un flash, mi ricordai anche della tomba di Kojiro.

… quando la situazione si sarebbe calmata, gli avrei fatto visita. O forse … non dovevo andarci?

I miei pensieri furono interrotti dal richiamo di mio padre.

-Jin! Vieni a darmi una mano!-

Ah, giusto, Jin aveva preso “il mio posto” nel ryokan; mi crebbe la voglia di vederlo, era cambiato? Quanto era cresciuto dalla mia partenza? Parte delle mie domande furono risposte quando, in lontananza, vidi la porta aprirsi e un ragazzo si fece avanti. Sembrava … Kojiro. Poi capii che non era possibile.

Kami, quei due si stavano assomigliando in maniera tremenda: aveva preso adesso l’abitudine di tirare su le maniche della maglietta, ma nonostante i capelli neri arruffati allo stesso modo, il colorito della pelle rimaneva sempre più chiara di quella di mio marito. Per il mio sollievo.

Lo vidi alzare lo sguardo, e guardarmi … stupito, e riconobbi in quello sguardo il volto di quel moccioso di cui mi ero presa cura per parecchie settimane, e che fece la stessa espressione quando gli dissi che i documenti dell’adozione erano pronti e lui, oramai, era un Akamine a tutti gli effetti.

Inaspettata … felicità.

-Ciao Jin.-

-… Maki one-san.-

-Sei cresciuto ancora, è pazzesco, ti lascio qualche mese e mi cambi ancora?-

A quelle parole lui sembrò riscuotersi, e prese il mio borsone con aria un po’ offesa.

-Non è colpa mia se tu te ne vai.-

Sorrisi divertita, e gli accarezzai il capo. Lo ammetto, mi era mancato quel … quel figlio, perché in fondo la prima volta che l’avevo urlato al mondo, avevo detto chiaramente che Jin sarebbe stato mio figlio; poi la nonna lo aveva adottato a suo nome, ed era diventato una specie di fratello.

Ma, in fondo al cuore, per quelle giornate passate insieme, lui era diventato per me davvero un figlio di cui averne cura.

-Ma ora sono tornata, dovresti esserne contento.-

-… lo sono, lo sono.-

Non mi guardò in faccia, imbarazzato, e io gli spettinai i capelli, divertita.

-Hai capito Jin, è imbarazzato!!-

-E dai smettila!-

-Maki one-san!!-

Alzai lo sguardo, e Tomoko mi si buttò addosso come una furia, sorridendo ma anche con l’aria di chi stava per mettersi a piangere dal sollievo; io, per tutta risposta, le accarezzai i capelli neri, sentendomi un po’ in colpa nei suoi confronti, dopotutto l’avevo lasciata sola ad affrontare quel casino.

-Bentornata, bentornata sorellona!-

-Grazie Tomoko. Va tutto bene adesso, tranquilla.-

Lei annuii, ma continuò a stringermi, almeno fino a quando non le bussò in testa, per richiamarla all’attenti.

-Dai Tomoko, aiuta tua sorella a mettersi il kimono, che abbiamo poco tempo.-

-Si! Vieni Maki!-

Mi afferrò la mano e mi trascinò a forza, con Jin dietro che cercava di starci dietro; ebbi solo il tempo di vedere mia madre di sfuggita, che usciva dalla cucina per vedermi, che Tomoko mi portò nella stanza che condividevamo, prendendo il borsone e buttando fuori Jin in malo modo, ricevendo in cambio una serie di frasi poco carine, ribattute dalla ragazza che, nel frattempo, tirava fuori in modo ordinato la mia roba.

Il carillion fu una delle prime cose che uscì, e nel vederlo mi sentii rincuorata, era un po’ come avere quella burbera e affettuosa presenza con me; Tomoko lo prese in mano affascinata, aprendolo e trovandoci dentro il fermaglio.

-Che belli!-

-Tomoko!-

Mi guardò sorpresa, e anch’io mi sorpresi nell’averla ripresa con così tanta forza; ma quell’oggetto era mio, solo mio, regalatomi da Genzo, come quel fermaglio, e non mi piaceva che qualcun altro li prendesse così, senza chiedermi il permesso.

-… aiutami, Tomoko.-

-Ah si, subito sorellona.-

Mi consegnò gentilmente il fermaglio, e subito iniziò ad aiutarmi con il mio Kurotomesode, nero con i simboli nella mia famiglia nella parte bassa del kimono, l’obi era rosso e dorato, e tra i stemmi c’era l’ideogramma che richiamava “Amaterasu”, la dea del sole, dato che la famiglia Akamine per tradizione discende dalla dea.

Mi guardai allo specchio, notando che Tomoko aveva fatto progressi nel mettere i kimono e nello stringere l’Obi; come ultimo tocco, mi misi da sola il fermaglio regalatomi da Genzo, che effettivamente era un po’ stonato nell’insieme, ma volevo qualcosa con me che mi ricordasse … il mio uomo, e il carillion era un po’ scomodo.

-Sei migliorata Tomoko, brava.-

-Nonna e zia mi hanno fatto fare pratica.-

Anche per distrarla da quello che stava accadendo, un trucco che avevano usato anche con me; le accarezzai i capelli, cercando di non rovinarle la crocchia, anzi sistemandogliela mentre lei mi lasciava fare.

-Come vanno le cose a Monaco, sorellona?-

-Bene, va tutto bene Tomoko-chan.-

-Sei … sei felice?-

La guardai, e le sorrisi affettuosa.

-Si, ma sappi che mi mancate tutti. Ed ora andiamo, la nonna ci aspetta.-

Annuii, e aprì la porta, ad attenderci Jin cambiato, indossava una camicia e dei pantaloni più eleganti, in mano teneva la giacca. Io lo guardai divertita, era rarissimo vestito in quel modo.

-Ma quanto siamo carini.-

-Dai, andiamo.-

-Non fare così, Jin! Per me è ancora più difficile vederti così elegante, l’ultima volta è stato quando sei entrato la prima volta nel ryokan!-

-Già, e ancora adesso detesto le camicie.-

-Dai fermo, che te la sistemo.-

Gl’imposi di arrestarsi, mettendomi davanti a lui nello stretto corridoio e cominciando ad aggiustarlo. Era un disastro! In confronto a Genzo, Jin sembrava essersi messo la camicia in una lavatrice: gli aggiustai il colletto, le spalle e i polsini, guardando poi il mio operato con soddisfazione.

-Ecco, ora va meglio.-

-… grazie Maki.-

Sorrisi, accarezzandogli dolcemente i capelli. La mia famiglia, era strano tornare dopo tutto quello che mi era successo e scoprire … che solo una cosa era cambiata: io stessa.

-Maki.-

Mi voltai, e vidi mia madre con un kimono molto simile al mio che si stava avvicinando; ricordai perfettamente le ultime parole che mi aveva rivolto, non sarei dovuta tornare per nessun motivo al ryokan se non per semplice vacanza e starci il meno possibile.

Mi sentii tremendamente in colpa nel vederla davanti e guardarmi  attenta, studiando il mio volto; poi prese un profondo respiro.

-Beh, per lo meno stai bene.-

-Si mamma.-

-Quanto resterai?-

-… devo tornare entro l’8 Dicembre.-

-… mi sta bene. Ora andiamo, tuo padre ci aspetta.-

E le obbedii, con dietro Tomoko e Jin.

La casa principale era vicina ad un tempio in riva al mare, con la facciata rivolta verso l’alba; quando facevo il liceo, spesso mi fermavo a dormire qui, anche perché non ero molto lontana dal campo sportivo dove mi allenavo. Ho cominciato ad abitare al ryokan dopo che mi ero ritirata definitivamente dal softball, prima ci andavo solo per le vacanze.

Guardai la casa, e i ricordi cominciarono ad affiorare mentre mia madre e Tomoko si avvicinavano, spingendomi così a camminare per qualche metro sul ciottolato, raggiungendo il lastricato che portava all’entrata principale, dove due cameriere aprivano la porta inginocchiate, tenendo lo sguardo basso.

-Bentornati a casa.-

Usavano sempre questa formula per tutto il parentado, al punto da renderla piatta e priva di significato, solo una frase che dei robot ripetevano all’infinito.

Ci togliemmo sandali e scarpe, muovendoci sicuri per i corridoi, incontrando parenti di vario spessore che si fermavano, ci salutavano, e poi riprendevano per la loro strada; io e Tomoko eravamo le due candidate dirette alla successione di mia nonna, e anche se avevo inizialmente cambiato cognome, per mia nonna rimanevo sempre in lizza con Tomoko. Quella era l’unica cosa che non ero mai riuscita a cambiare.

Alla fine raggiungemmo la parte più nascosta della casa, dove pochi potevano entrare, e a quel punto Jin fu il primo a fermarsi.

-Io … non credo di … poter venire.-

-Jin, sei legalmente mio nipote, per tanto puoi sicuramente venire.-

Lui aveva qualche dubbio, ma alla fine mi seguì poco propenso, e io proseguii, fino a quando fu Tomoko a fermarsi, voltandosi verso due porte scorrevoli.

-Posso … posso restare qui? C’è la zia …-

Ci pensai, mi sembrava un’idea poco saggia, quando mio padre e mia madre si offrirono di stare con lei.

-In fondo la nonna vuole vedere te, e Jin è sufficiente per accompagnarti. Ci vediamo dopo.-

-… va bene, come volete.-

Ricominciai la camminata, ma sentire solo la presenza di Jin mi fece perdere parte della mia sicurezza, obbligandomi a rallentare il passo.

-Maki, tutto bene?-

Mi voltai verso il ragazzo, e gli sorrisi.

-Non pensavo … che sarei tornata a casa per questo motivo.-

Jin non mi rispose, così mi limitai a fare spallucce, proseguendo fino all’ultima stanza. Kami, ora si che avrei voluto la presenza di Genzo con me; chissà cosa mi avrebbe detto o fatto in questo caso.

… probabilmente avrebbe unito le nostre fronti, in un gesto che oramai era solo nostro, dal farlo con cattiveria per dare una testata, a cercare con dolcezza per sentirsi; ripensai al suo abbraccio, la notte prima, e mi feci coraggio.

Le porte scorrevoli furono aperte da una domestica, che subito le richiuse e si allontanò, lasciandomi sola con Jin … e la nonna.

Questa mi dava le spalle, e subito notai che era più curva del solito, il suo stesso kimono sembrava coperto come dalla polvere, apparendo traslucido e antico, tremendamente antico.

-… nonna.-

Si voltò verso di me, e vidi che le rughe sul suo volto si erano fatte molto più profonde di quando l’avevo lasciata, e che la sua forza era scomparsa dalle spalle e dai suoi occhi.

-Maki. Bentornata raggio di sole.-

Mi mossi d’istinto: mi feci subito accanto a lei, inginocchiandomi, e l’abbracciai a me, come una madre può abbracciare la propria figlia. Nonna, ma cosa ti era successo? Possibile?

-Sono qui, sono qui nonna.-

La sentii annuire, e si accocolò sulla mia spalla mentre mi voltavo verso la terrazza, dove la nonna aveva lo sguardo rivolto: sotto il terrazzo, seguendo una piccola scalinata, si raggiungeva il tempio sul mare, dove di solito la famiglia svolgeva delle cerimonie una volta l’anno.

Il mare, da sempre, era stato il mio conforto quando mi sentivo a terra: la sua forza e la sua immensità mi facevano calmare l’animo, e riuscivo sempre a tornare all’attacco dopo una lunga corsa sul bagno asciuga; ma ora il mare mi sembrava così lontano, non riuscivo a trovare conforto nel suo splendore azzurro, ma solo la sensazione che, dall’altro lato dell’orizzonte, avevo lasciato la serenità.

Il respiro di mia nonna era debole ma costante, non era tipa da piangere ma di sicuro stava soffrendo; le parlai a bassa voce.

-Nonna … restò qui con te stanotte.-

-… grazie, bambina. Perdonami per averti chiamata.-

-Non dirlo neanche per scherzo nonna. Ti aiuterò, risolveremo questa faccenda.-

-Proprio quello che avevo bisogno di sentire.-

Si staccò lentamente dal mio abbraccio, e mi accarezzò una guancia sorridente, volgendo uno sguardo affettuoso anche a Jin, rimasto accanto alle porte scorrevoli chiuse; parlò ad entrambi.

-Manca ancora un’ora alla riunione, perché noi tre non ci facciamo una passeggiata verso il tempio?-

-Con quest’arietta?-

-Non vorrai fare tu la nonna, raggio di sole?-

Sorrisi rincuorata dal suo atteggiamento, e stavo per ordinare alla domestica di prima di andare a prendere dei cappotti, quando la porta scorrevole si aprì alle spalle di Jin, sorpendendoci: mio padre e mia madre entrarono nella stanza, guardandomi entrambi.

-Maki, tua zia Moe ha chiesto di te.-

-… si, ci vado subito. Nonna, appena torno facciamo la passeggiata.-

-Certo raggio di sole. Ti aspetto qui.-

E ci sorridemmo a vicenda, rincuorate l’una dalla presenza dell’altra.

Ma quando mi alzai in piedi, muovendomi da sola verso la stanza della zia, per solo un momento mi fermai e chiusi gli occhi.

“-Solo … vedi di mantenere la tua promessa.-”

E proseguii il mio cammino.

 

**

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Capitolo 24
*** Familietreffen (II° Parte) ***


XXIII: Familientreffen

II° Parte

 

Tomoko mi aprì, silenziosamente, la porta scorrevole della stanza, restando inginocchiata a terra mentre io ero in piedi, dritta e irrigidita dalla tensione; la stanza aveva le finestre aperte, ed entrava dentro una luce grigiastra, la giornata era nuvolosa. Da quel lato, il mare era nascosto sulla destra, e si apriva una parte del grande giardino della casa.

Zia Moe era seduta in ginocchio su un cuscino basso, addosso aveva il kimono formale e i suoi capelli erano acconciati in maniera perfetta, senza alcun fermaglio che li decorasse, grigi e spenti; proprio come mia nonna, teneva lo sguardo fuori dalla finestra.

Aspettai in silenzio il suo ordine per entrare, pazientando per lunghi minuti, dove nessuno di noi si muoveva, come se il tempo fosse stato congelato in quel preciso istante.

-… entra.-

Feci un passo dentro la stanza, poi m’inginocchiai sul tatami, restando accanto all’uscio della porta, chinando il capo in segnoo di saluto mentre Tomoko richiudeva la porta scorrevole.

-Tomoko, prendi del the.-

La giovane si voltò verso la zia con aria sorpresa, ma si limitò ad annuire e ad alzarsi in piedi, uscendo e chiudendo dietro di sé l’uscio, lasciandoci sole.

L’aria della stanza era ferma, tanto che il mio stesso respiro si fece più basso e muto; mentre i secondi passavano, il mio corpo cominciò a perdere la tensione di prima, le mie spalle mi facevano male, chiedendomi di non contrarle così tanto. Strinsi i pugni sopra le cosce, spostando gli occhi un po’ sulla zia, un po’ sul tatami sotto di me, aspettando.

Il silenzio era una di quelle cose che ci aveva sempre accompagnato, a me e mia zia: ogni volta che eravamo nella stessa stanza, se eravamo le uniche presenti, restavamo anche per ore senza parlarci. Non c’ignoravamo, ma semplicemente nessuna di noi due aveva bisogno di comunicare con l’altra.

Inoltre, le poche volte che ci rivolgevamo la parola, non era certo per dirci cose gentili: per il tempo che sono stata al ryokan, io ero la cameriera e lei la viche di mia nonna. Ancora prima, criticava il mio matrimonio, e addirittura prima di Kojiro, criticava il mio modo di fare in sé. Insomma, hai suoi occhi niente di me andava bene.

Eppure non posso, ancora adesso, dimenticare la carezza che mi diede sulla testa, il giorno che ci siamo conosciute la prima volta.

Alzai lo sguardo, e vidi che mi stava guardando, il suo volto era quasi tutto in ombra, e solo una leggera falce di luna indicava il profilo della fronte, della guancia e del mento; gli occhi erano lucidi, e mi fissavano attenti, come un gatto diffidente che guarda l’estraneo entrato in casa.

-… dritta con la schiena.-

Io obbedii silenziosamente mentre la vedevo muoversi molto lentamente e mettersi con il busto di fronte a me; mia zia non era una donna particolarmente bella, ma una cosa che non le negherò mai era l’eleganza dei suoi movimenti, anche quel semplice spostare il busto dalla finestra verso di me era fatto con calma e bellezza.

Mia madre, una volta, mi aveva raccontato che per un certo periodo, la zia era stata una Maiko, e sarebbe divenuta una grande Geisha se la famiglia non l’avesse richiamata per il suo fidanzamento.

Ora vidi chiaramente gli occhi di zia Moe puntati sui miei, quasi a piegarli al loro volere. Il mio animo, in quei momenti, era si turbato dagl’eventi, a assolutamente calmo nei confronti di quell’anziana donna.

-Perché sei qui?-

-Per parlare con voi zia.-

-A che proposito?-

-… avete smesso nuovamente di prendere le vostre medicine.-

-Non sono affari tuoi, tu sei fuori da questa famiglia.-

-Io sono fuori dalla vostra vita, ma la capofamiglia mi accetta ancora.-

-Solo perché sei sua nipote, ma per tutti gli altri non conti più niente.-

-Per te non conto più niente.-

-E allora perché mi stai parlando?-

-Perché mi è stato chiesto di farlo.-

Non mi spaventava risponderle in quel modo, e non mi turbò la rigidità e la freddezza del suo sguardo: non me ne sarei andata da quella camera fino a quando non le avrei parlato. Di cosa, ancora non lo sapevo, in effetti la storia delle medicine era stato un modo per risponderle.

-Quando ti è stato chiesto di non sposare quell’uomo, tu hai disobbedito.-

-Nessuno me lo ha chiesto: voi me lo avete ordinato.-

-Io sono tua zia, dunque dovevi obbedirmi.-

-Io obbedisco solo a me stessa.-

-Per questo sei stata cacciata.-

-Nessuno mi ha cacciata. Io me ne sono andata.-

Quest’ultima risposta le fece stringere i pugni, lo notai con la vista periferica ma non staccai le mie iridi dalle sue, lo scontro era prima di tutto visivo, le parole servivano solo come contorno a quello che stava accadendo.

Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio. Poi lei ricominciò, e stavolta vidi chiaramente che c’era un piccolo sorriso di soddisfazione lungo le sue labbra.

-Però sei tornata vedo. Il tuo uomo non ti vuole più?-

Vomitò la parola “uomo”, quasi disgustata dall’idea che io avessi seguito Genzo; non le risposi, e lei continuò nella provocazione.

-L’avevo detto, ricordi? avresti dovuto ascoltarmi: quelle come te non le vuole nessuno … non sei utile, sei sfacciata e prepotente nei confronti dei clienti, e come moglie … non potrai mai completare la felicità di nessuno … nemmeno come amante.-

Nella seconda parte del discorso abbassò la voce, e lì approfittai con crudeltà di quel momento di debolezza. Dovevo farlo, non avevo altra scelta.

-Stai parlando di te, zia.-

Lei mi guardò con aria cattiva, ma rimasi impassibile, continuando a parlarle.

-Io sono felice: Genzo mi ama, e io amo lui. La memoria di mio marito Kojiro mi accompagna, ma la mia vita va avanti; sono libera di essere me stessa, di sbagliare, fare i miei errori e, soprattutto, risolverli.

E, soprattutto, posso essere in grado di guarire dalla mia malattia: ho conosciuto uno specialista a Monaco che mi ha visitato … e mi ha parlato della possibilità di guarie dall’Endometriosi senza bisogno di asportazione.-

La notiza la scioccò più di me quando la sentii per la prima volta, e l’idea della guarigione fu per me al pari di uno scudo, in grado di proteggermi adesso da qualsiasi cosa lei mi avrebbe detto o fatto. Non avevo mai avuto veramente paura di lei, ma il suo atteggiamento mi umiliava e mi faceva sentire debole; adesso, invece, sentivo di essere diventata forte, sentivo di poterle dire tutto senza l’angoscia dell’umiliazione.

-Quindi, zia, puoi lanciarmi contro tutti gl’insulti e le cattiverie che vuoi, ma io non sono te: io sono libera di uscire da questa stanza quando voglio, non ho nessun obbligo nei tuoi confronti, e se sono qui, è solo per l’affetto che mi lega a mia nonna, l’unica cosa che abbiamo in comune.

Per quell’affetto io ti chiedo, zia Moe, di non accanirti più su di Jin, o quanto meno di ricominciare a prendere le tue medicine.-

E a quel punto mi piegai in avanti in segno di preghiera; rimasi immobile in quella posizione, con la sensazione di aver tolto dal mio petto un peso enorme, che mi aveva schiacciata fino a quel momento. Ma non sentii alcuna risposta da parte dell’anziana, e un nuovo pensiero si fece avanti: di sicuro la zia si sta arrabbiando, pensavo, alzaerà le mani? No, non ne è capace; probabilmente mi caccerà via dalla stanza.

-… io ti odio.-

Glielo sentii dire a bassa voce, e mi venne da piangere. Non era tristezza, la mia, neanche sorpresa: ero solo molto amareggiata, perché sapevo che le cose sarebbero andate a finire così. In una situazione come la nostra, non c’era alcuna possibilità di incontrarci a metà via. Una delle due, per zia Moe, poteva solo soccombere.

E fu proprio lei.

-Ti disprezzo, mi disgusti: saresti stata una grande capofamiglia, a quest’ora avresti già preso il posto di tua nonna se non fossi così ribelle e maleducata. La tua presunzione è pari solo alla tua testardaggine, difetti che non posso tollerare in te, in te dove tutti riponevano le loro speranze!-

Dove tu riponevi le tue speranze, zia; mio padre, mia madre, mia nonna, Kojiro e Genzo, tutti loro erano fieri di me, di cosa io ero diventata. L’unica che non poteva accettare il cambiamento eri proprio tu, e questo oramai l’avevo compreso.

-Mi hai profondamente deluso: prima con i tuoi modi da selvaggia, poi con la tua intenzione di sposarti … quell’uomo, e infine con la follia di scappare via insieme a quell’altro! Sei la vergogna della famiglia Akamine!-

Non voleva la mia pietà.

-E nonostante questo, la capofamiglia … la mamma, continua a volerti bene, continua ad amarti; non lo sopporto, non lo posso accettare!-

A quel punto alzai lo sguardo, e la vidi stringere gli occhi, serrare i denti, stringere i pugni, contenendo dentro di se tutto quello che le stava sgorgando dal cuore; mi guardò, e piantò gli occhi su di me mentre io rialzavo la schiena.

-Ma cosa ne puoi sapere tu? Cosa puoi capire tu? Tu sei solo un’ingrata, che fa quello che vuole e ignora i suoi doveri di donna e membro della famiglia!

Vattene, vattene da questa famiglia, non meriti di essere un Akamine. Vattene, vattene!-

Voleva che uscissi dalla sua stanza, e mi limitai a fare un cenno della testa in segno di saluto, alzandomi in piedi e aprendo la porta scorrevole, chiudendola dietro di me e notando, nel corridoio, Tomoko tornare con il vassoio del the; mi guardava con aria sorpresa e turbata, chiedendomi con gli occhi cos’era successo.

Io le sorrisi, scuotendo il capo, e lentamente mi avviai verso la camera di mia nonna, ad attendermi solo lei, con lo sguardo rivolto sempre verso la terrazza; appena mi sentii entrare si voltò verso di me, mal celando la sua ansia nel sapere cos’è successo.

Io chiusi la porta, mi avvicinai e m’inginocchiai di fronte a lei, guardandola: cosa le avrei dovuto dire? Che non ero riuscita a convincerla, o che finalmente mi sentivo libera dal tremendo peso delle sue parole? Dovevo dirle dell’odio di mia zia nei miei confronti, o del sollievo che sentivo io?

La nonna parve intuire il mio stato d’incertezza, e mi sorrise amara, allungando una mano verso di me e accarezzandomi una guancia; a quel tocco così delicato, il mio cuore lasciò andare il mescolarsi delle due emozioni, e i miei occhi si riempirono di lacrime, così come quelli di mia nonna erano velati da quella patina di acqua salata.

Lei era triste, io sollevata. Lei era infelice, io libera. Lei era orgogliosa di me, io mi sentivo in colpa. Lei voleva per me il meglio, io non avrei mai voluto lasciarla sola.

Appoggiai la mia testa sul suo grembo, piangendo, e lei mi accarezzò la testa, sicuramente piangendo a sua volta; mossi il capo verso sinistra, e vidi la linea dell’orizzonte, sopra il cielo era grigio perla, e il mare spumeggiava di bianco. Riempii il mio sguardo con quella vasta distesa d’acqua, seguendone ogni onda, lasciandomi accompagnare sulla riva, lì dove si alzavano i pali rossi dell’entrata del tempio.

Secondo la nostra tradizione, il tempio era sott’acqua, e quando i marinai partivano per la pesca le donne raggiungevano quel posto, e lì gettavano del riso, per augurare ai loro fratelli e mariti un pronto ritorno; pensando a quella leggenda, calmai il mio pianto, tornando poi a guardare la linea dell’orizzonte. Oltre, la mia felicità mi stava aspettando.

-Nonna … devo ritornare entro l’8.-

-… certo, raggio di sole. La tua felicità ti sta aspettando.-

Alzai lentamente il capo, guardando il volto vecchio e affettuoso di Kyoko, e le sorrisi con tutto l’amore che avevo per lei.

-Anche tu sei la mia felicità.-

-E tu la mia.-

-… ti ho mai deluso, nonna?-

-No, mai.-

E scosse il capo per confermare le sue parole, imbarazzandomi leggermente mentre mi accarezzava di nuovo il volto; restammo in silenzio, in quell’atmosfera di pace, e lentamente sentii il desiderio di renderla felice, di sollevarle un po’ il morale. Presi forza, e le confessai la grande novità.

-Nonna, ho parlato a Monaco con uno … specialista.-

Alzai lo sguardo, e la vidi incuriosita dal mio discorso, per poi fermarsi e guardarmi ancora più attentamente, notando l’entusiasmo che a fatica trattenevo stringendo i pugni, e le afferrai la mano che aveva fermato sulla mia guancia, sorridendogli.

-Ha detto … che c’è una cura senza l’asporto: un’operazione non invasiva … nonna, posso guarire dall’Endometriosi.-

A quel punto, non si capì chi delle due fosse più felice: mia nonna, che dopo la notizia rimase sconvolta, per poi gridare contenta e abbracciarmi, oppure io che andavo al cuore che andava a mille, ancora una volta felice di quella notizia che da una vita, vi giuro da una vita, stavo aspettando.

-È meraviglioso tesoro, meraviglioso!-

-Lo so!-

-L’hai già detto a Satoru e Natsuko?-

-No, volevo che tu fossi la prima.-

-Oh cielo, cielo Maki! È … è la cosa più bella che mi potessi dire. Wakabayashi lo sa? Come l’ha presa?-

-È felice quanto te nonna.-

-Quando farai l’operazione?-

-Devo prima fare delle analisi, ma sicuramente l’anno prossimo prenderò appuntamento.-

-Voglio assolutamente esserci quel giorno, chiaro? Voglio esserci!-

E mia nonna afferrò il mi oviso con entrambe le mani, guardandomi dritta negl’occhi per farmi capire che, se non l’avessi avvertita, allora si che sarebbero stati grossi guai! Risi ed annuii, e mia nonna gridò di nuovo, ringraziando gli antenati e le divinità, prima fra tutte Amaterasu.

Il nostro chiasso attirò i miei genitori e Jin, i quali rimasero piuttosto sbigottiti nel vedere me e mia nonna sorridenti ed entusiaste; mia nonna mi precedette nel dare la buona notizia, prendendomi e stringendomi a sé mentre io rivolgevo lo sguardo ai miei genitori, volevo assolutamente vedere le loro facce.

-Maki guarirà! Maki guaarirà, esiste una cura!-

-Mamma, di che parli?-

-Della malattia Satoru, la sua malattia! Maki ha detto che il suo medico conosce una cura! Una cura per guarirla! Maki potrà guarire!-

Mia madre si portò le mani verso il volto, e cadde in ginocchio sul tatami preoccupandomi, tanto che le andai vicino per sorreggerla; lei mi agguantò le braccia, guardandomi con gli occhi che andavano a riempirsi di lacrime. Accidenti, reagendo così mi faceva tornare il pianto a me.

-Davvero? È vero? Non ci prendi in giro?-

Io scossi la testa.

-È tutto vero: probabilmente farò l’operazione entro la fine del prossimo anno.-

A mia madre mancò voce e fiato, e poté solo abbracciarmi e stringermi a lei mentre mio padre ci raggiungeva e mi soffocava con la sua massa; io però ero così felice, avvolta in quel calore.

Ancora adesso mi chiedo se la zia, durante il suo discorso, mi avesse messo addosso qualche dubbio, per sentire poi un sollievo simile nel vedere i miei genitori felici; oppure ero proprio io la prima che aveva bisogno di sentire la loro felicità per avere fiducia in quell’operazione, in fondo anche con Genzo avevo avuto una reazione simile.

Io Maki Akamine, definita maschiaccio e altri epiteti simili, considerata dal mio gruppo di softball, dai miei amici e dalle persone più care una donna dalla tembra d’acciaio, che non si faceva piegare da niente, avevo un tremendo bisogno di sentire il sostegno degl’altri. Forse senza di questo, non sarei così forte come voglio far credere.

Lentamente i miei genitori slacciarono l’abbraccio, e in quel momento potei vedere Jin: mi guardava con aria fiera, non piangeva ma aveva gli occhi lucidi, e io mi alzai in piedi, avvicinandomi; a quel punto, lui mi allungò la mano, e io gliela strinsi, sorridendo divertita.

-Complimenti sorellona.-

-Grazie.-

Quando lo dissi a Tomoko, a cena, lei urlò più forte di tutti, e mi saltò addosso felice, abbracciandomi e riempiendomi di complimenti. Lei amava me e zia Moe allo stesso modo ,e se per una soffriva, per l’altra era felice come una Pasqua.

Mia nonna fece un brindisi per la bella notizia, eravamo solo noi intimi a cenare nella sua stanza, per quanto fosse stata invitata la zia si era rifiutata di partecipare, ma questo oramai non mi turbava più.

Invece quella notte, mentre tutti stavano dormendo, mi alzai dal futon, guardando solo per un momento mia nonna, dormiva serena, forse per la prima volta, e in punta di piedi uscii dalla stanza, dirigendomi verso l’atrio, lì dove solitamente tenevano il telefono, componendo il numero di Monaco.

Squillo … squillo … squillo … forza Genzo! so che sei in casa!

> Pronto, casa Wakabayashi.

-Isolde sono Maki.-

> Cara, ma che ore sono lì?!

-Non repoccuparti di questo, passami Genzo piuttosto.-

> Si, subito un attimo … padroncino! È Maki!

Padroncino, oddio padroncino! Ecco che mi veniva da ridere, e io che lo soffocavo per non svegliar eil resto della famiglia.

> Pronto?

-Ciao Genzo.-

Gli parlai in giapponese, e lui ci mise un momento a rispondermi, incuriosendomi, sembrava spostarsi da qualche parte …

> Come stai?

-… abbastanza bene, ho voglia di tornare a Monaco.-

> E allora torna.

Sorrisi divertita, ecco che cercava di fare il furbo come al suo solito.

-Tornerò quando qui si sarà tutto sistemato. Ho detto ai miei della possibilità di guarire dall’Endometriosi.

> Come l’hanno presa?

-Hanno tutti urlato di gioia e mi hanno riempita di baci e lacrime, mi sono dovuta asciugare con il phon!-

Lo sentii ridacchiare al mio commento, e mi sentii stringere un po’ il cuore, mi mancava già quell’insopportabile orso brontolone.

-Tu stai bene? Tutto a posto lì?-

> Tutto ok.

Bisbigliavo sulla cornetta, per non svegliare i parenti, e lui pian piano cominciò ad abbassare a sua volta il tono di voce, in una telefonata dove lui, come al solito, smozzicava le parole e risponda con pochi monosillabi, ma che stranamente durò almeno due ore, prima che gli dicessi che ore erano e, urlando al telefono, mi ordinasse di filare subito a letto.

 

**

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Capitolo 25
*** Familietreffen (III° Parte) ***


XXIV: Familientreffen

III° Parte

Erano presenti i membri della famiglia fino al quarto grado, alcuni provenienti anche dalle altre isole dell’arcipelago, tutti seduti dentro la grande sala; c’erano due grandi tavoli, dove stavano varie tazze di the e biscotti, e ognuno aveva il proprio cuscino dove accomodarsi. Le donne avevano per la maggior parte il kimono, e solo alcune studentesse avevano la divisa della loro scuola, così come i ragazzi avevano le uniformi scolastiche, compreso Jin, ma si era rifiutato di mettersi la cravatta, non la metteva mai.

Io ero seduta a destra di mia nonna, a sinistra c’era mio padre e mia madre, Jin era accanto a me sul tavolo principale, alla stessa altezza degl’altri; Tomoko, invece, sedeva con la sua famiglia, su uno dei due tavoli, ed era incredibilmente silenziosa in quei momenti.

Tutti gli sguardi dei presenti erano rivolti a noi, specie a me: se non tutti conoscevano la mia storia personale, sapevano il motivo per cui zia Moe rischiava l’allontanamento, e guardavano me come prossima causa di quelle riunioni di famiglia.

Feci promettere, la sera dei nostri festeggiamenti, ai miei genitori, a mia nonna e a Tomoko e Jin di non rivelare della cura a nessuno, perché non volevo nessuno ad impicciarsi della mia vita privata, loro soli erano la famiglia che consideravo, per me tutti gli altri erano solo estranei, specie dopo quanto avevano tentato di fare a Jin.

E se avevano dei dubbi su di me, che li avessero pure, non sarei stata certo io a farglieli passare.

Quei pranzi o cene, però, erano uno strazio: c’era un’aria grigia ogni volta che si stava a tavola, e persino i piatti erano sciapi e pirivi di sapore. In quei momenti arrivavo perfino a trattenere il fiato, mangiando velocemente per riuscire a svuotare il piatto, come se l’odore del cibo m’impedisse di masticare.

L’assenza di mia zia Moe, oltretutto, sembrava avvertita maggiormente: lei era sempre stata considerata la vice di mia nonna, la capofamiglia, e anche per tale motivo vedere me in quello che, di solito, era il suo posto a tavola, suscitava dubbi e, probabilmente, incomprensioni con mia nonna. A quel punto non ero sorpreso se Moe era stata in grado di convincere parte della famiglia ad allontanare Jin.

Non saprei dire se tale consapevolezza mi spaventasse o preoccupasse, al momento ero solo preoccupata per mia nonna: per quanto fosse anziana, e avesse delle prozioni ridotte, notai che mangiava a stento, e ingoiava a fatica anche cose come il pesce o la zuppa di miso. La situazione le stava prosciugando le energie.

Cos’altro potevo fare io, per poterla aiutare, a parte starle accanto?

-Maki.-

Parlava a bassa voce, per non farsi udire dagl’altri membri presenti, e io mi limitai a lanciarle uno sguardo veloce, ascoltandola in silenzio.

-Dopo pranzo voglio scendere al tempio.-

-Certo nonna.-

-Non ho finito: questo pomeriggio … voglio che tu sia presente quando parlerò con Moe.-

Voleva un incontro riservato, con nessun altro attorno se non la mia presenza: non voleva, infatti, che zia Moe influenzasse nuovamente il giudizio della famiglia, cosa in cui lei era molto più brava della sottoscritta, nota per essere una “ribelle”.

A volte mi capita i pensare a cosa sarebbe potuto succedere … se la nonna avesse deciso di affrontare la zia apertamente, di fronte a tutta la famiglia: … odio dirlo, ma temo che le sarebbe stato difficile contrastarla; sicuramente l’avrebbe avuta vinta, ma non facilmente come sarebbe accaduto da lì ad un paio d’ore. Se poi “facilmente” è il termine giusto da usare …

Terminai il pasto assieme a lei, supplicandola con lo sguardo di mangiare ancora, di non lasciare tutto quel cibo sul piatto; lei mi sorrise affettuosa, e ingollò a fatica altri due bocconi, prima di alzarsi in piedi; a quel movimento, tutti i presenti si alzarono in piedi, e mi vidi davanti una massa di sagome scure, ai miei occhi crudeli privi di spessore. Ripensandoci ora, probabilmente quegl’uomini e donne avevano una vita, una famiglia, e forse erano addirittura più felici e sereni di me: ma in quel momento così delicato, tutti mi sembravano nemici.

Chissà, forse come capofamiglia … no, non voglio pensarci, avevo preso la mia decisione ancora prima di sposare Kojiro, e non sono mai tornata indietro. Pensarci adesso non serve a niente, meglio che prosegua il racconto.

Ci furono portati i nostri cappotti, e per prima discesi dal terrazzo, offrendo la mano a mia nonna per aiutarla, quelle scale erano vagamente pericolose; e di colpo ebbi una sensazione di deja-vu fortissima, avevo già provato qualcosa di simile, ma mi sembrava che ci fosse qualcosa di … ah, ma certo: le posizioni erano invertite.

-Cosa ti sei ricordata, raggio di sole?-

Mia nonna sembrava così pallida che le folate di vento potevano portarla via come un aquilone, pertanto continuai a tenerle la mano e, per quanto potevo, a schermarla con il mio corpo mentre scendevamo giù, la scalinata di legno era costruita sopra la roccia e la terra, c’erano anche cespugli e qualche pino marino il cui tronco andava verso il mare, come se stesse per tuffarcisi dentro.

Io sorrisi a mia nonna, parlandole ad alta voce perché lì il vento spirava forte, quello era uno dei punti migliori per andare in barca o con il windsurf.

-Quando andai a trovare Kojiro assieme a Genzo, quando era al ryokan, mi obbligò a scendere piano e a tenermi a lui, perché era convinto che con gli Zori stavo tentando il suicidio.-

Alle mie parole la nonna rise divertita mentre la discesa, mano a mano, diventava sempre più facile, i gradini diventavano sempre più larghi, fino a quando non toccammo con i sandali la superficie dura della roccia, davanti a noi si stagliava il mare nel suo azzurro e grigio splendore.

Amo il mare, i paesaggi di Monaco sono meravigliosi, ma quando, allora, ebbi di fronte quella vastità, con l’odore marino che mi entrava dentro i polmoni, mi sentii incredibilmente serena, sarei potuta rimanere la ore ad osservarlo, incantata da ogni onda e spuma che si sollevava verso l’aria.

Ricordo che da piccola mi facevo grandi nuotate, e durante l’estate, dopo la scuola, io e le mie amiche andavamo sempre a farci il bagno, nascosti sotto le uniformi tenevamo i costumi; poi mi piaceva salire sulle barche dei pescatori, e seguirli nelle loro battute. Kojiro mi seguiva spesso, e dava una mano con me a tirare su le reti.

Ci dicevamo sempre, ridendo, che se la nostra vita fosse andata male, potevamo comprarci un piccolo peschereccio ed iniziare un’attività come venditori di pesce. Una cosa impensabile con Genzo, lui era il principino che viveva nel suo bel castello, e che era riuscito a conquistare il cuore di una selvaggia, come in un romanzo zuccheroso.

… a proposito: avevo consegnato il burattino a mio padre, e lui mi aveva assicurato che il suo amico lo stava trattando come fosse stato oro, e che in breve avrebbe finito di ripararlo. Non ne vedevo l’ora, i giorni erano passati ed era già il quattro Dicembre, avevo solo quattro giorni.

E poi sarei tornata … a casa. Si, oramai quella era la mia casa.

Mi voltai verso mia nonna, e le vidi tirare fuori dal cappotto un sacchetto, dentro c’era del riso; immaginai che volesse fare una cerimonia per la zia Moe, per augurarle un ritorno rapido nella famiglia Akamine. Mi feci da parte, e mia nonna superò le due alte colonne rosse, macchiate dal sale, ai loro piedi c’erano incastrate alghe.

Lei unì le mani in segno di preghiera, e io feci altrettanto, iniziando ad augurare a mia zia un pronto ritorno a casa.

-Spiriti del mare, voi che secoli proteggete la famiglia Akamine, vi chiedo di proteggere il mio piccolo raggio di sole: per favore, aiutate Maki nel suo cammino per tornare a Monaco, e assicuratele un ritorno sicuro e senza problemi dal suo compagno.-

Rimasi sorpresa, e non per il fatto che stesse chiedendo agli spiriti di aiutarmi, quando che non stesse chiedendo loro di aiutare la zia; la guardai attenta, i suoi gesti erano sicuri mentre prendeva una manciata di riso e, con un ampio movimento del braccio, lo lanciava e distribuiva all’acqua di fronte a sé. Fece quel gesto per tre volte, probabilmente ripetendo per tre volte il suo desiderio, e poi si voltò verso di me, passandomi il riso.

Io la guardai amara, ma le sorrisi, prendendo il sacchetto e andando verso l’acqua, superando le due colonne rosse. Sentii l’aria farsi ancora più umida e fredda in volto, e l’odore mi penetrò nel cervello mentre guardavo, rapita, la distesa d’acqua di fronte a me; mia nonna è convinta che tutti noi, prima di diventare uomini, siamo stati spiriti della natura. Io, di sicuro, appartenevo al mare, all’oceano.

Presi un profondo respiro, e pensai a quale poteva essere la mia preghiera: forse mi sarei dovuta rivolgere agli spiriti su zia Moe, dato che mia nonna non l’avevo fatto. Ma non era quello che il mio cuore voleva, e mia nonna era sempre stata molto severa in questi casi, non dovevo ingannare me stessa, perché avrei ingannato gli spiriti, e la preghiera non avrebbe funzionato.

Cosa volevo in quel momento, più di ogni altra cosa, che tornasse? Cosa?

-… spiriti del mare, io vi chiedo di far tornare presto la serenità nella mia famiglia, perché adesso il momento è molto difficile, ma sono certa che le cose, con il tempo, si sistemeranno.-

Presi il riso e lo lanciai, guardando la linea dell’orizzonte, immaginando che fossero proprio lì, a guardarmi, spiriti del mare, e che i lvento stesse trasportando la mia preghiera a loro; per altre tre volte pensai alla mia preghiera, e lanciai il riso fino a terminarlo.

Naha è rivolta ad ovest sulla cartina, dunque io stavo guardando nella direzione di Genzo: romanticamente, provai ad immaginare l’uomo che si voltava, anche solo per un momento, verso est, verso di me. Questo pensiero non gliel’ho mai rivelato, ovviamente lui non è tipo da fare cose simili.

Feci un profondo respiro, e mi voltai verso mia nonna, sedutasi su uno degl’ultimi gradini, che mi stava guardando; la raggiunsi, e lei rimase ferma sul gradino, invitandomi con lo sguardo a sedermi accanto a lei.

-Parlami dell’operazione.-

-Non è invasiva: si tratta … di cercare nell’apparato la presenza di cisti ed escrescenze, e di eliminare quelle più grandi, che possono infiammarsi e provocare l’Endometriosi; il dottore dice che poi, in pochi giorni di riposo, torno come nuova.-

Lei annuii, sorridendo, poi parlando lentamente.

-Sai, ho cercato di proteggerla … di proteggere Moe: sono stata io a mandarla al corso di Maiko, credevo che facendola diventare una Geisha avrebbe avuto … non lo so, una vita più facile forse. Invece … ho solo ritardato la sua tristezza.-

Le misi un braccio attorno alle spalle, avvicinandomi.

-Hai fatto quello che potevi.-

-Sai, suo padre … mio marito, non era un uomo cattivo, anzi l’amava. Ma suo padre era il capofamiglia, e aveva … doveva fare quello che era giusto per la famiglia. E Moe non si è mai tirata indietro.-

Annuii, mentre mia nonna cercava la mia mano, ancora stringeva il sacchetto vuoto del riso, e me la strinse, le sue dita erano molto più fredde delle mie.

-Non ho mai … conosciuto il bisnonno.-

-Oh, tesoro, è stato meglio così, credimi, non saresti riuscita a sopportare quel vecchio bigotto; ebbe da ridire anche sul mio matrimonio, affermando che ero solo una cameriera, un’onta per la famiglia. Con il tempo si è dovuto ricredere, ma non lo ha mai ammesso apertamente.-

Sorrisi divertita, e mia nonna sorrise a sua volta, continuando a guardare il mare, pian piano la sua espressione divertita si spense.

-… non avrei … mai immaginato … che Moe potesse assomgliargli così tanto … non dopo quello che le ha fatto.-

-… la zia aveva la certezza della famiglia Akamine … e si è aggrappata a questo in mancanza d’altro.-

-Sai, il suo futuro marito … non era un uomo malvagio, non voglio che tu pensi che sia stata sfortunata in tutto: aveva la possibilità di sposarlo ugualmente solo … che non l’ha fatto.-

-Allora riteneva la sua famiglia più importante del suo fidanzato.-

-Mi domando, se si fosse innamorata davvero, se avrebbe fatto la stessa scelta.-

-… credo di no nonna.-

-Ne sei convinta?-

-Si.-

E annuii per dare forza alla mia convinzione, voltandomi verso l’anziana accanto a me. questa mi sorrise serena, appoggiando anche l’altra mano sopra la mia e continuando a guardare il mare.

-Fortuna che ci sei tu, raggio di sole. Sei il mio orgoglio, ricordalo sempre.-

-… anche se non voglio essere il capofamiglia?-

-Ma certo! Tu hai saputo fare le scelte giuste per te, per la tua vita, e guarda fin dove sei arrivata: sei stata una sportiva, hai incontrato e sposato l’amore della tua vita, e adesso stai ricominciando una vita tutta nuova con un altro amore. Non tutte hanno una seconda occasione.-

-Ma ho dovuto lasciare te e il ryokan …-

-Tesoro, per ogni cosa c’è sempre un prezzo, anche per la felicità. Ma non mi sembra un prezzo così tremendo: tu puoi sempre tornare a trovarmi.-

-Hm, non so quanto potrà essere d’accordo la mamma di questo.-

-Parlerò io, nel caso, con Natsuko. E voglio che con te, la prossima volta, ci sia Wakabayashi.-

Sorrisi divertita, chissà se lui avrebbe avuto lo stesso entusiasmo nel tornare qui, e magari conoscere il resto della famiglia: sapendo il suo carattere da despota, li avrebbe messi tutti in riga, facendoli sentire inferiori a lui. Oh si, lui si che si sarebbe trovato bene a fare il capofamiglia. A proposito di famiglia …

-Non ho ancora avuto modo di conoscere i signori Wakabayashi; pare siano persone molto impegnate …-

-Sono sicura che, quando tornerai, avrai modo di conoscerli. Dopotutto le cose stanno andando bene tra voi due, no?-

-Beh, a dire la verità ci sono stati problemi, tu lo sai …-

-Però mi sembra che tutti si sia risolto, no?-

La nonna aveva avuto questa capacità di obbligarmi a lasciar perdere il passato, guardando avanti; si alzò lentamente in piedi, tanto che mi alzai a mia volta per darle una mano, ma con una mano alzata mi spinse a sedermi di nuovo, dandomi prima la schiena, e in seguito a voltarsi verso di me.

-Il passato ci è utile per guardare al futuro, come le radici aiutano un albero a crescere; ma questo non significa che dobbiamo rimanere ancorati al passato, altrimenti non cresceremo mai: saremmo come tuberi, come patate.-

All’idea di essere paragonata ad una patata sorrisi divertita, ma subito mi riconcentrai su mia nonna e sul suo viso, così vecchio e grigio da come me lo ricordavo.

-Tu devi essere un albero, bambina mia; ho sempre voluto immaginarti proprio come questi pini marittimi.-

E m’indicò quelli sopra la mia testa, in particolare uno con il tronco che si aggrappava in modo quasi innaturale a quelle pietre, la chioma era tutta sporta in avanti ma incredibilmente l’albero resisteva e non cadeva in avanti, e le sue piccole foglie erano verdissime.

-Li vedi? Nonostante il vento, e il terreno difficile, sono saldi e crescono forti; e così sei anche tu. E ora lo sarai anche di più, una volta guarita.-

M irivolsi a mia nonna, e sorprendentemente la vidi piangere, tanto che stavolta mi avvicinai a lei, preoccupata. Ma lei continuava a sorridere serena, accarezzandomi le guance.

-Guarirai, e quella che si pensava una maledizione, finalmente, sarà debellata. Ti costruirai la tua famiglia, e dimenticherai questa.-

-Io non mi dimenticherò mai di te nonna, di te o dei miei genitori, o anche di Jin e Tomoko.-

-Lo so, lo so, e questo ci fa felici. Ma guarda la realtà, Maki: non puoi vivere qui, la tua vita è al di là del mare.-

Ma significava perdere loro, tutti loro, perché sapevo che sarebbero rimasti lì, al di là del mare e, addirittura, di un intero continente.

-Non ci perderai mai, ma è ovvio che saremo distanti. Per questo ti ho voluto con me qui, raggio di sole: per poterti aiutare in questo distacco.-

E mi strinse la mano mentre io annuivo, trattenevo coraggiosamente le lacrime e l’abbracciai, stringendola a me.

-Io lo prometto, nonna: qualsiasi cosa accada, non vi dimenticherò mai.-

-Non lo farai, ne sono sicura piccola.-

Sapevo che il mio ritorno a Naha sarebbe stato difficile, ma fino a quel punto non me l’aspettavo, davvero; e quello non era niente in confronto a dopo, ma non lo sapevo, non lo potevo ancora sapere …

Io e nonna tornammo nella stanza in silenzio, raccogliendo la concentrazione in ogni passo, e gli ultimi scalini, i più difficili, li superammo lentamente, io dietro per aiutarla nel caso facesse fatica, e solo quando fui sicura che fosse con entrambi i piedi sulla terrazza mi permisi di rilassarmi un attimo.

Il tempo di dare i cappotti ai domestici, e di sederci sui cuscini, e fummo pronte a quel difficile momento; avrei voluto stringere un’ultima volta la mano a mia nonna, ma ci disponemmo in distanza uguale a quella del terzo cuscino, e restammo ferme, in attesa di mia zia. Respirai a fondo, concentrandomi, e quando la porta scorrevole si mosse, mi sentii pronta ad affrontare la scena.

Zia Moe era perfetta come sempre, il kimono aggiustato al dettaglio e i capelli acconciati, per l’occasione si era fatta mettere un pettine di legno, con il bordo decorato dal disegno di un animale, mi parve un gatto; silenziosamente fece un piccolo inchino, e poi si sedette sul cuscino davanti a mia nonna, alla quale bastò uno sguardo per allontanare le domestiche dalla porta, che si chiuse silenziosa.

Aspettò qualche minuto prima di parlare, avevamo tutte una tazza di the, ma nessuna se la sentiva di bere anche solo una goccia.

-Moe, ti ho chiamata per discutere con te della tua situazione.-

-… io non parlerò in presenza di questa estranea.-

Mi limitai a tenere lo sguardo basso, oramai quelle offese non mi toccavano più, e non avevo bisogno di cercare il conforto di mia nonna, la quale, sono sicura, accigliò immediatamente lo sguardo.

-Maki è figlia di Satoru, dunque mia e tua nipote. Non è un’estranea, ma un membro della nostra famiglia.-

-Madre, così dicendo non fate che il suo gioco, è chiaro che il suo desiderio è quello di dividerci.-

-Perché mai vorrebbe questo?-

-Perché sa bene che, se saremo separate, per lei sarà più facile prendere controllo della famiglia.-

-Maki non ha mai desiderato essere capofamiglia.-

-Madre le credete davvero?-

-Tu non le credi?-

-No, non le credo.-

Rivolsi gli occhi verso mia zia, e la vidi tentare di avvelenarmi con il suo sguardo; io, da parte mia, non provavo nulla in quel momento: né rabbia, né pietà nei suoi confronti. Quello che veramente mi preoccupava ero lo stato di salute di nonna, fin dalle prime battute l’avevo vista affaticata, e mi sarebbe piaciuto avvicinarmi solo per poterla sostenere fisicamente; invece strinsi i pugni, obbligata arimanere ferma.

-Ed è per tale motivo, Moe, che hai mosso la famiglia contro di me?-

Queste parole colpirono la zia, che fece subito un’espressione stupita.

-Di che parli?-

-Hai convinto parte della famiglia a cacciare via Jin, andando contro di me.-

-Non è vero, io l’ho fatto per te madre!-

-Per me? E perché?-

E di nuovo, i suoi occhi si rivolsero rabbiosi a me. Cercai di rimanere impassibile, ma le sue parole colpirono anche me, incuriosendomi; poi i suoi occhi mi fecero capire doveva voleva arrivare nel suo discorso, e presi un profondo respiro.

-Non capisci? La sua intenzione è stata quella di scavalcarti, volendo adottare quell’orfano; voleva avere con sé un alleato per poter prendere il tuo posto!-

-… questo discorso è senza senso Moe.-

-Ma madre è stata lei a spingerti ad adottarlo, no? Lei ti ha obbligato.-

-Non ho avuto nessun obbligo; Maki lo avrebbe adottato di sua spontanea volontà, poteva farlo. Tuttavia, all’ora non era in grado di occuparsi di un bambino, non ne aveva l’esperienza.-

-E così ha scaricato su di te il peso, stancandoti!-

-Jin è sotto la mia tutela, ma è sempre stata Maki a prendersi cura di te.-

-Per metterlo contro di te madre.-

-BASTA MOE!-

Sia io che la zia fummo irretite dal richiamo di mia nonna, era così raro sentirla gridare; un momento dopo, la vidi soffrire del suo grido, e non potei più far finta di niente, avvicinandomi a lei e porgendole la tazza di the. Lei, però, mi lanciò un chiaro sguardo, rimettendomi sul cuscino con la sola forza dei suoi occhi, e io dovetti obbedirle mentre Moe alzava un dito contro di me.

-Ecco, lo vedi? Approfitta delle tue debolezze!-

-Volete dire, zia, che voi l’avreste lasciata soffrire senza fare niente?-

La zia mi guardò indiavolata, ma non voleva rispondermi, per lei era come se si fosse “abbassata al mio livello”.

-Rispondile Moe.-

Mia nonna la obbligò con il comando, e la zia si morse le labbra, stringendo gli occhi e i pugni mentre l’assenza di risposta faceva male ad entrambe, a me e alla capofamiglia, che parlò come una madre.

-Pur di non risponderle … mi neghi il tuo affetto, Moe?-

La zia la guardò colpita, e di colpo la sua rabbia si sciolse, e lo vidi chiaramente: improvvisamente, nei suoi occhi ci furono migliaia di lacrime, e lei si coprì il volto con una mano, senza però riuscire a frenare il pianto; rivolsi lo sguardo alla nonna, supplicandola in silenzio di aiutarla, di fare qualcosa per lei, qualsiasi cosa. Io … io non ero arrabbiata con lei, sul serio.

La nonna aveva la voce rotta.

-Moe … la tua condotta nei confronti di Jin è stata molto ingiusta, così come lo è nei confronti di Maki; e a questo punto … dubito persino del tuo affetto nei miei confronti.-

-Nessuno ti ama come me, madre! Nessuno! Lo posso giurare!-

Rispose con un tono a metà fra il rabbioso e lo disperato, tanto che la gola mi si chiuse, impedendomi perfino di respirare mentre la nonna, per la prima volta da che era cominciata quella riunione, si permise un sorriso affettuoso.

-Lo so bene, figlia mia, e io amo te.

Ma quello che hai fatto è imperdonabile, lo sai vero?-

Mia zia, oramai, piangeva senza sosta, e stringendo i denti annuii, le colava perfino il naso, al punto che mia nonna, dal suo obi, tirò fuori il fazzoletto, porgendolo alla figlia, la quale lo accettò a testa bassa, soffiandosi il naso mentre la nonna aspettava che si calmasse, prima di parlare.

-È per questo motivo che mi vedo obbligata a prendere questa dolorosa scelta: Moe Akamine, ti ordino di allontanarti dalla casa e dal ryokan principali degli Akamine.

Verrai mandata in un altro ryokan, dove avrai comunque la gestione, ma fino a quando non chiederai scusa, o fino a nuovo ordine, rimarrai lì, e non presenzierai a nessun’altra riunione di famiglia.-

Aspettò qualche momento a parlare, vidi mia zia tremare leggermente ma tenere lo sguardo basso; poi mia nonna parlò a bassa voce, per non farsi sentire da nessun altro se non da noi due presenti.

-Ho solo una richiesta da farti, come madre: se mi ami, ti prego Moe, prendi le tue medicine. Ti chiedo solo questo.-

E chinò la testa come segno di supplica. Io e mia zia la guardammo, e a me si strinse il cuore.

Zia Moe, invece, le rispose con voce atona.

-Preparo immediatamente i miei bagagli.-

E si alzò in piedi, uscendo silenziosamente dalla stanza; io la guardai prendendo un profondo respiro, e poi mi rivolsi alla nonna, per consolarla.

Sotto il mio sguardo, la nonna svenne, facendomi morire di paura.

 

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Capitolo 26
*** Wählen ***


XXV: Wählen

(Scegliere)

 

Chiesi a Jin di occuparsi di Tomoko, la quale aveva gli occhi così rossi che di sicuro le stavano bruciando come fuoco: non aveva fatto altro che piangere e preoccuparsi, mentre io ero staata spaventosamente lucida, ordinando che fosse  chiamato il dottore e mio padre, facendomi così aiutare a sistemarla nel letto, restandole accanto in ogni secondo, minuto, ora seguente, fino a quando il dottore non parlò a me e ai miei genitori.

-La signora ha subito un grave stress, e si è indebolita parecchio; ha bisogno di assoluto riposo, e se vedremo dei miglioramenti in due o tre giorni, potremmo sperare in una sua guarigione.-

Satoru, mio padre, ringraziò il medico, accompagnandolo fuori dalla stanza mentre io rimanevo accanto alla nonna, stringendole la mano pallida e guardandone il volto: era sofferente, non stava avendo un sonno tranquillo, e la discussione con la zia Moe mi stava tornando in mente in loop, come un giradischi rotto.

Era … era colpa sua, colpa sua se la nonna stava così male, era stata cieca ed egoista, e la nonna per questo ora soffriva e rischiava di … oddio, ancora adesso non riesco apensarci, mi sembra che ancora adesso non sia al sicuro dalla possibilità.

Ma in quel momento mi sembrava una possibilità così vicina e così terrificante che mi alzai in piedi, decisa a raggiungere la zia e … non lo so, in quel momento pensavo che l’avrei picchiata fino a farla cadere a terra svenuta, oppure le avrei restituito tutto l’odio che mi aveva gettato addosso. Avrei fatto questo ed altro se, davanti alla porta, mia madre non mi avesse afferrata saldamente per le spalle, scrollandomi con forza.

-Maki!-

-No, no non posso lasciare che finisca così, non così!-

-Allora resta accanto alla nonna e prenditi cura di lei!-

-Ma … ma!-

-Obbedisci!-

Mia madre mi aveva spesso sgridato, è normale e giusto che una madre sgridi la figlia se questa ha sbagliato; ma quella volta non alzò la voce solo per sgridarmi, ma per fermarmi … ancora oggi, per quanto io e mia madre non ci parliamo molto, in quanto è nella nostra natura, lei mia ha sempre compreso. E in quel momento, aveva compreso che se non mi fermava, avrei perso la battaglia con me stessa.

Ero preparata a tutto: ai sfoghi di rabbia della zia, al suo odio, ai suoi tentativi di screditarmi … ma non alle conseguenze del suo comportamento, ad un possibile cedimento della nonna. Quando successe questo, il cervello si era spento, e avevo reagito d’istinto, proprio come la zia Moe; la mia paura mi aveva resa di nuovo debole, e la rabbia mi aveva spinta a muovermi.

Tutto sbagliato.

Ma quando tornai indietro, e ripresi la mano alla nonna, mi sentii così inutile che piansi di rabbia, pensando a tutte le volte in cui avrei potuto dirle “pensiamoci domani, lo facciamo domani nonna, adesso riposati, ti prego riposati”, e non l’avevo fatto.

Mia madre si accomodò accanto a me, accarezzandomi la schiena.

-Maki.-

-Avrei dovuto dirle di stare a riposo! Avrei dovuto dirle di prendersi un giorni di riposo! Era la mia responsabilità!-

-No, non è vero: tu dovevi parlare con la zia per conto della nonna, dovevi sostenerla e l’hai fatto Maki. Posso assicurarti che nonna è stata meglio in tua compagnia, non riusciva nemmeno ad uscire dalla sua stanza quando tu non c’eri.-

Le sue parole non mi consolavano, mi facevano sentire ulteriormente il peso delle mie mancanze; nonna, se quello era un altro modo che stavi usando per mettermi alla prova, posso assicurarti che fin da subito ho pensato di mollare. La mamma, però, dall’accarezzarmi la chiena prese a scrollarmi, usando un tono cattivo.

-Maki Akamine, non ti azzardare! Non ti permetto di comportarti così! non tornerai indietro, non tornerai a quando è morto tuo marito! Non mi farai nuovamente stare in pensiero, hai capito?!-

Ah, già, giusto: un atteggiamento simile lo avevo avuto con la morte di Kojiro. E dire che credevo di aver superato tutto.

Genzo, in quel momento pensai a Genzo, a quanto stava lontano da me, chilometri e chilometri; poi, in un lampo di consapevolezza, mi toccai la testa. Ma no, no che non era lontano … infatti afferrai il fermaglio che mi aveva regalato, e lo tolsi dai capelli, stringendolo forte in mano e guardandolo.

Quei tre fiori mi fecero tornare in mente il suo imbarazzo quando me lo regalò, la delicatezza con cui mi bacia sempre, come fossi fatta di vetro, l’ironia e divertimento con cui mi stuzzica, la rabbia con cui mi sgrida o con cui litigavamo. La nostalgia che avevo di lui, la felicità che provavo a stare con lui … l’amore.

Presi un profondo respiro, e infilai il fermaglio tra la mia mano e quella di nonna; e tenendo salda la stretta, passai tutto il quattro, il cinque e il sei Dicembre.

Tomoko arrivava portandomi la cena, ed io mangiavo con una sola mano, senza lasciare per un momento la mano di mia nonna, ancora nel suo mondo dei sogni, ma mano a mano che i giorni e le notti passavano, sentivo la sua pelle fredda farsi più calda, e le guance perdere trasparenza, ma rimanere sempre grigie; la notte dormivo accanto a lei, continuando a tenerle la mano.

Avevano portato il mio borsone dal ryokan, e quando mi facevo prendere dallo sconforto nella notte, tiravo fuori il carillion e lo aprivo; sentivo la melodia del “Danubio blu”, e mi voltavo verso la terrazza, guardando il mare brillare alla fredda luce della Luna, crescente in quelle notti. Il mare era nero e blu, decorato di argento, e mi faceva pensare alle notti di Monaco, la villa Wakabayashi era fuori città e si riusciva a vedere le stelle.

Chissà se aveva cominciato a nevicare … chissà se Genzo si copriva … e alla fine mi addormentavo, dimenticando mi di chiudere la scatola, lasciandomi svegliare dalla melodia il giorno dopo, controllando prima lo stato della nonna, e poi verificando che, tenendola aperta così a lungo, il carillion dentro non si fosse rovinato.

Il sette Dicembre avevo perso completamente il senso del tempo e del gusto, mangiavo solo per riuscire a stare in forze per tenere la mano alla nonna, e solo perché mia madre era brava a convincermi mi ero lavata e cambiata, abbandonando completamente il kimono per stare comoda nei miei jeans.

-Maki, che ci fai qui?!-

Alzai lo sguardo sorpresa, Tomoko era entrata nella stanza guardandomi scioccata; io, da parte mia, ero altrettanto sorpresa dalla sua domanda.

-Io … mi sto occupando dalla nonna.-

-Ma è il sette, sono le dieci di mattina! Perderai l’aereo!-

Era già il sette, sul serio?! Non me n’ero accorta. Avevo una promessa da mantenere, ero decisa a partire il sette in modo da arrivare la sera tardi e, l’otto, essere pronta a fare l’albero e il presepe; non avevo nemmeno contattato Genzo in quei giorni, per dirgli quando arrivavo. Doveva essere preoccupato.

Guardai la nonna, e mi sentii male all’idea di lasciarle la mano: no, non potevo lasciarla, non nel suo stato, non si era ancora svegliata. Non l’avrei lasciata finché non si sarebbe svegliata, ero decisa; avrei spiegato tutto a Genzo una volta tornata a Monaco, ero certa che mi avrebbe capita.

-Partirò non appena la nonna starà meglio Tomoko.-

Ma la ragazza sembrò dubbiosa della mia scelta, preferendo uscire per non discutere sulla faccenda; ci pensarono mio padre e mia madre.

-Devi partire.-

-Non voglio lasciare la nonna.-

-Dai Maki non fare la testarda, sono sicura che la nonna si sveglierà presto, e appena succede ti chiameremo.-

-No, voglio essere presente.-

-Maki.-

-No papà, è mia responsabilità: sono sua nipote, mi ha chiamato per avere un sostegno in questa spiacevole situazione, e non ho nessuna intenzione di lasciarla. Manterrò il mio impegno.-

Alla mia testardaggine, come sempre, mio padre rispose sbuffando pesantemente, non era mai riuscito a convincermi di fare qualcosa contro la mia volontà, non sarebbe riuscito a farlo adesso. Mia madre, invece, sembrava propensa a continuare la discussione, ma cambiai drasticamente argomento per fermarla.

-Zia Moe è partita?-

-È ancora nella sua stanza: dice che partirà non appena la nonna starà meglio.-

Annuii, forse anche sollevata, dopotutto anche la zia avvertiva la responsabilità di dover rimanere; forse, se fosse partita, non sarei riuscita a perdonarla nel tempo.

Nelle ore che seguirono, anche Jin venne a trovarmi, e non appena lo riconobbi sospirai e lo guardai supplichevole.

-Ti prego, non venirmi a dire anche tu di partire.-

-Figurati, anche se te lo dicessi non ti convincerei, giusto?-

Gli sorrisi grata, ma il sorriso mi durò poco, continuando a guardare il volto della nonna, disteso nel riposo; Jin s’inginocchiò dall’altro lato del futon, guardandola preoccupato.

-Come sta?-

-Meglio, ma deve risposare. Nessuno sa quando si sveglierà.-

-Credi che …-

-No. La nonna è una roccia; se doveva accadere … sarebbe dovuto accadere molto tempo fa …

No, ce la farà, sono sicura che ce la farà.-

E Jin annuii, ma quelle parole servivano più a me che a lui; restammo a lungo in silenzio, e alla fine fu sempre lui a parlare per primo.

-Cosa dirai a Wakabayashi del tuo ritardo?-

-La verità, non potrei mai mentire a Genzo.-

Non lo sentii replicare, ed alzai lo sguardo, notando che fossse particolarmente accigliato, direi pensieroso; osservai la sua espressione attenta, continuando però a mantenere il contatto fisico con la nonna. Alla fine il ragazzo si passò una mano tra i capelli, prendendo un profondo respiro e parlandomi.

-Io … sono convinto … che nessuno potrà mai prendere il posto di Kojiro. Ma … rispetto la tua scelta: Wakabayashi … è un uomo arrogante … ma anche onesto.

Pertanto … ti auguro la felicità … con lui.-

Guardai Jin sorpresa, rendendomi conto che, di fronte a me, non c’era più il ragazzino di cui mi ero presa cura per molto tempo, ma un ragazzo grande e maturo, che parlava con tono imbarazzato ma sincero; e le sue parole … mi resero ancora più confusa nelle mie scelte.

Avevo fato una promessa a Genzo, dovevo tornare da lui entro l’otto, per fare insieme l’albero e il presepe, e invece ero ancora lì; ma, d’altro canto, la nonna stavo male, e non potevo lasciarla sola, non dopo quanto era successo.

Sorrisi a Jin grata, ma non appena lui mi diede le spalle, il sorriso mi morì, lasciando il posto al dubbio e all’incertezza; e durante quelle ore, quando la luce del sole scomparve e si passò alla sera, dopo ache avevo consumato il mio pasto, d’un tratto mi balenò alla mente un’idea: anche … anche zia Moe aveva avuto un dubbio del genere, nel momento di scegliere?

Che dunque io e la zia fossimo davvero irrimediabilmente legate? E nonostante tutti i miei tentativi, anche a me sarebbe capitata la stessa sorte?

Qualcuno fece scivolare la porta scorrevole, e mio padre mi apparve, il voto ancora coperto di una leggera ansia, e tra le mani un involucro di carta.

-Maki, sono le dieci, è da ore che sei in quella posizione, dovresti cercare di riposarti.-

-Ah, tranquillo papà: zia Moe mi faceva stare anche di più, e ancora più scomoda, quando mi puniva.-

Lui mi sorrise, e si avviicnò a me, posandomi sulle gambe l’involucro di carta.

-Il mio amico me l’ha portato oggi. È pronto.-

Ah, il burattino, in tutto quello che era successo mi ero dimenticata completamente di lui; avevo una gran voglia di vederlo, ma era stato accuratamente coperto dalla carta e non volevo rovinare il bel lavoro. Ringraziai mio padre con un sorriso, e lui si limitò a ricambiare, tornando poi a guardare la nonna; nel vedere la sua espressione così concentrata, i dubbi che mi ero covata dentro e che avevo disperatamente soffocato tornarono a galla.

-Papà … nonna se la caverà, vero?-

-… ma si Maki, lo hai detto sempre anche tu, no? La nonna è una roccia, se la caverà.-

Chi era il meno convinto tra i due? Non ne ho idea. Ma mio padre pensò bene di cambiare discorso, e di riportarlo sul secondo argomento scottante di quei giorni.

-Invece tesoro, dovresti occuparti della tua vita.-

-Non me la sento di lasciarla papà.-

-Lo so, e ti comprendo. Ma non sarà sola: ci siamo io, tua madre, Tomoko e Jin.

E in fondo non dimenticarti che c’è anche zia Moe, a distanza di qualche stanza.-

Già, la zia. Io e la zia.

-Papà … io e la zia ci assomigliamo?-

-Assolutamente no, siete proprio una l’opposto dell’altra.-

-Eppure … in questo momento … mi sento in grado di capire la su sofferenza nell’aver dovuto scegliere.-

La mano di mio padre si posò sulla mia schiena, e mi sentii in parte confortata mentre lui mi parlava con voce intenerita.

-Sono fiero che tu la possa capire, significa che stai crescendo, che non hai i paraocchi come lei, e che puoi sicuramente andare avanti e fare la scelta giusta.-

-Ma se non la facessi, la scelta giusta?-

-Certo che la farai: sarà quella giusta perché sentirai tu di aver fatto quella giusta.-

Mi baciò sui capelli, spettinandomeli leggermente, lasciandomi sola che oramai erano le dieci e mezza di sera. Non sarei mai arrivata in tempo, me lo stavo ripetendo come un mantra mentre mi preparavo ad un altro notte; eppure sentii che, stavolta, non sarei riuscita a chiudere occhio. Dovevo chiamarlo, assolutamente, spiegargli tutto; ma anche se l’avessi fatto, mi avrebbe perdonata?

-… Maki …-

Sentii la mia mano farsi stringere, e subito guardai il volto di mia nonna, vedendo le sue iridi sotto le palpebre pesanti. Oh Kami si, grazie, grazie Kami del mare e del cielo, grazie infinite! Mi sentii così rincuorata che quasi mi veniva da piangere, e mi avvicinai leggermente al suo viso, sorridendole.

-Nonna, nonna.-

-Maki … che … che giorno è?-

-Il sette nonna, hai dormito tre giorni, pelandrona.-

-Il sette?! Ma che ore sono?-

-Quasi meno un quarto alle undici di sera nonna.-

-… perché sei ancora qui?-

Quella domanda mi lasciò parecchio perplessa.

-Per … per starti accanto nonna.-

-Non devi. Vai, devi andare.-

-Ma nonna, non stai bene. No, resta sdraiata!-

-Starò sdraiaita solo quando ti vedrò uscire da questa stanza e prendere il primo aereo per Monaco, chiaro?-

La guardavo senza parole: ma come, era stata sull’orlo, e la prima cosa che mi diceva era di andarmene? Non era giusto, volevo stare con lei. Tuttavia lei era di tutt’altro pensiero, e glielo leggevo fin dentro le pupille.

-Maki non ti permetterò di perdere la possibilità di rifarti la tua vita, e sono sicura che se non parti adesso te ne pentirai per il resto dei tuoi giorni.

Ti prego raggio di sole, va. Va da chi ha bisogno di te adesso, io sto bene.-

Genzo aveva … bisogno di me.

“-Solo … vedi di mantenere la tua promessa.-”

… cazzo, ma che stavo facendo ancora lì?? Lasciai andare la mano di mia nonna, stringendo forte il mio fermaglio, e infilai carillion, burattino e vestiti dentro il borsone, afferrandolo e alzandomi svelta per andare a buttare giù dal letto mio padre.

Prima di sucire, però, mi voltai per abbracciare un’ultima volta mia nonna.

-Ti chiamerò ogni giorno, ti romperò le scatole per sapere che stai meglio.-

-E io non ti deluderò raggio di sole. Ora vai.-

La guardai un’ultima volta, e poi scappai.

Fuggii dalla mia vecchia vita.

E corsi più veloce che potei dalla mia nuova vita, che stavo per abbandonare.

 

**

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Capitolo 27
*** Versprechen ***


XXVI: Versprechen

(Promessa)

 

Dormii solo perché, in aereo, ero stremata: feci il biglietto con la velocità di un fulmine, e m’infilai sul volo appena mi fu possibile. Avevo preso in prestito … no, è meglio dire che avevo rubato, l’orologio da polso di mio padre, e per tutto il tempo che non dormii lo fissai spaventata, guardando come le ore mi scappassero via dalle mani.

Avevo paura, cos’avrebbe pensato di me Genzo? Si sarebbe arrabbiato? Oh si, di sicuro era furioso, non gli piacciono le persone che non mantengono gl’impegni, e se la persona in questione ero io, beh mi trovavo nei guai.

Non avrei cercato rifugio nelle scuse: in questo momento non era importante lo stato di salute di mia nonna, o forse lo era ma in quel momento mi veniva da considerarla una scusa. Avevo solo un’angoscia in testa: che fosse troppo tardi, e che Genzo questa volta non mi avrebbe perdonata.

Arrivai a Monaco  che erano le undici e mezzo di mattina, avevo dormito si e no quattro ore, un sonno agitato che non mi aveva riposato per niente, e senza perdere tempo recuperai il mio borsone e volai letteralmente fuori dall’aereoporto, infilandomi nel primo taxy disponibile e dicendogli l’indirizzo con un tedesco fin troppo liscio per una come me; continaui a guardar el’orologio, ogni secondo in più mi sembrava troppo, ogni minuto che scattava pensavo che non ce l’avrei fatta.

Vidi il profilo della villa, e un primo momento di sollievo mi prese: almeno la casa era ancora lì. Poi ripiombai nell’angoscia, pagai distrattamente il tassista e corsi oltre il cancello, stranamente semichiuso, battendo il pungo sulla porta con una forza tale che l’avrei potuta sfondare. Mi aprì Isolde, e di nuovo mi sentii meglio: anche lei era ancora lì.

-Mein Got! Maki!- (Mio Dio!)

-Isolde, dov’è Genzo?!-

Entrai in casa come una furia, abbandonando il borsone, e stavo per salire le scale quando notai, con sorpresa, uan presenza estranea nel salotto: un albero di Natale, un albero vero, dentro un vaso. Un albero alto almeno due metri e anche più; entrai dentro la sala, e notai le scatole delle decorazioni, e i mobili spostati per fare spazio al presepe e l’albero. Era tutto pronto, mancava solo una cosa: io.

-Il padroncino è dovuto andare a pranzo dalla sua famiglia.-

-… non lo sapevo.-

-Pensava di farti una sorpresa: voleva portarti con lui.-

Mi avrebbe fatto conoscere la sua famiglia. E poi, dopo, avremmo fatto insieme l’albero.

Mi sentii un mostro, al punto tale che m’inginocchiai a terra con le lacrime agl’occhi, digrignando i denti mentre Isolde mi si avvicinava, inginocchiandosi accanto a me e prendendomi le spalle con il braccio.

-Io ho sempre creduto che saresti tornata, ed eccoti qua; dai, non piangere, sono sicura che andrà tutto bene: sei tornata, ed è questo che conta.-

No, non bastava, sapevo che non sarebbe bastato: io dovevo tornare ad una determinata ora che non mantenni, un giorno che si ho rispettato, ma solo per testardaggine di mia nonna. Ora toccava a me fare il resto.

Piansi per rabbia, digrignando i denti; piansi per il dolore, e per quanto mi sforzassi, non riuscii ad asciugare tutte le mie lacrime. Ma quando smisi sapevo cosa dovevo fare, e mi rifugiai nella mia camera, preparandomi, togliendomi di dosso quei vestiti.

Volevo renderlo fiero di me, dimostrargli che tutto quello che aveva fatto per me non era andato sprecato; mostrargli come invece mi aveva cambiata, e come potesse avere fiducia in me. Perché lui mi aveva salvata, portata via dalla sofferenza e dolore, aprendosi nei miei confronti. E io volevo fare altrettanto, e ancora di più.

Perché ero profondamente, stupidamente e inevitabilmente innamorata di lui.

Aprii tutti i cassetti del cassettone, e trovai i miei kimono in fondo, in cima a tutti lui, il Furisode; lo presi, tirandone fuori ogni parte con delicatezza, e lo guardai angosciata, notando di quante parti era composto, e di quanto poco tempo avessi per prepararmi, dovevo anche sistemarmi i capelli e il trucco e … cielo!

No, no Maki, così non vai avanti: inizia a vestirti, vedrai che ci metterai un baleno, forza! Dipende tutto date adesso.

Mi sentii come alle qualificazioni delle olimpiadi, quando ero sola davanti al battitore, e potevo contare solo sulla mia forza e le mie capacità: anche allora mi ero scoraggiata, per poi rialzare la testa e farmi sotto, ottenendo il mio posto in squadra.

Lentamente iniziai a prepararmi, infilandomi la prima parte da sola, ricordando tutte le lezioni, i momenti, le lunghe e tediose ore passate con mia nonna, mia madre e Tomoko a mettermi e togliermi quei kimono che, un tempo, definivo scomodi e fuori moda; adesso erano diventati una parte del mio stesso essere, e senza di essi, forse, non sarei stata la donna che ero.

Ma sebbene avessi tali pensieri in testa, al tempo stesso mi rendevo conto che ogni pezzo del kimono aveva bisogno della sua cura e del suo tempo, e che fare tutto di fretta avrebbe solo rovinato tutto, e quando fu la volta del Furisode vero e proprio, mi sentii prendere dallo sconforto, perché era un’operazione difficile da fare da soli, e io avevo le mani che addirittura tremavano dall’ansia.

No, così non ci sarei riuscita, ci avrei messo tempo, troppo tempo.

-Ti serve una mano?-

Mi voltai verso l’uscio della camera, lasciato aperto dalla mia furia: Isolde era lì a guardarmi, sorridendo tranquilla, e mi si avvicinò, cominciando a sistemarmi il Furisode mentre io, istintivamente, mi fermavo e la guardavo sorpresa; poi, mentre la nebbia della mia ansia si dissipava leggermente, mi ricordai delle parole della governante, di quando un tempo aveva sistemato i kimoni della signora.

-Isolde … arigatou.-

Lei alzò lo sguardo verso di me e sorrise, tornando poi a concentrarsi sulla vestizione: sistemò alla perfezione la lunghezza del kimono, controllandone il fondo prima di passare alla cintura.

Passamo dei lunghi minuti in silenzio, nei quali io maceravo nella mia ansia; solo sentire la sua voce, sempre distesa nonostante la sua attenzione del vestirmi, riuscì a calmarmi in parte.

-Freidrich è con il padroncino, perciò ho detto a Marta di chiamarti un taxy, dovrebbe essere qui fra poco; ho già dato l’indirizzo alla cameriera che lo sta chiamando, perciò quando arriva non devi fare altro che sederti e farti portare.-

Era come mia nonna: una veggente, o comunque una persona che intuiva le mie intenzioni. Non che ci volesse un genio, lo ammetto.

Ma nonostante avesse organizzato questa parte, c’era una cosa che non sarebbe mai riuscita a sistemare: il casino che avevo creato con Genzo. Che cosa dovevo fare, quando me lo sarei trovata davanti? Di sicuro mi avrebbe guardata con rabbia, tanta rabbia, e io mi sarei ammutolita come una stupida, che era la cosa più sbagliata da fare!!

-Io … io non so cosa dirgli Isolde: sarà arrabbiato con me, e non so che dirgli per scusarmi del mio comportamento.-

Sistemò la prima cintura, passando all’obi dorato, prendendo il cuscino per metterlo dietro quando avrebbe fatto il fiocco, e al tempo stesso mi parlò con voce sicura, incrinata solo dalla concentrazione che stava usando per sistemarmi il vestito.

-A volte non c’è bisogno di parole Maki: già questa tua volontà di raggiungerlo, per giunta con un tale abito, è una prova più che sufficiente dei tuoi sentimenti per lui. Le parole sono superflue, fidati.-

Annuii, ma mi sentii ancora a disagio: c’era altro, un’altra paura che mi serrava la bocca dello stomaco.

-E la sua famiglia? Come mi devo comportare con la sua famiglia?-

Quasi mi sbalzò davanti mentre sistemava il fiocco dietro la schiena e infilava il cuscino, sistemando gli ultimi dettagli, prima di allontanarsi e vedere l’insieme.

-Oh non temete, sono sicura che la signora Wakabayashi non vi farà niente: suo figlio Genzo forse non le assomiglia fisicamente, ma credetemi se vi dico che, quando ritengono una persona degna di fiducia, la rispettano fino alla fine dei loro giorni.

Ecco, siete pronta. Forza, sbrigatevi! Dovete truccarvi e sistemarvi i capelli, il taxy sarà qui a momenti!-

E mi spinse verso il bagno, per poi prendermi gli zoccoli da indossare con il kimono.

Le lezioni di Yayoi sul trucco mi furono d’aiuto, e impastate con le basi che mi avevano dato nonna e zia Moe riuscii a render eil mio volto molto più presentabile; mi pettinai i capelli, e presi il mio fermaglio dalla tasca del giaccone, infilandomelo ancora una volta tra i capelli, uscendo di corsa dal bagno e infilandomi gli zoccoli.

A momenti rotolai giù dalle scale, tanta era la foga, e mi fermai solo quando Isolde mi chiamò.

-Maki aspetta!-

Mi voltai, e la vidi scendere con la mia stessa foga, ma mentre io sarei semplicemente rovinata giù dalle scale, Isolde con la sua corporatura sarebbe di certo rotolata giù, e la scena era talmente tanto buffa da farmi scappare un leggero riso; in mano aveva la pelliccia che nonna mi aveva mandato nel pacco, e una pochette con dentro il necessario e i soldi per il taxi.

-Maki, sei bellissima. Copriti che si gela fuori.-

-Grazie, grazie di tutto Isolde.-

Mi sistemò una ciocca di capelli, e io sono sicura che ne approfittò per farmi una carezza, sorridendomi dolce.

-Vai piccola.-

Le obbeddii, il taxi mi aspettava fuori dal cancello e l’autista rimase sorpreso di vedermi, limitandosi ad aiutarmi ad entrare e chiudendomi la porta, per poi salire e partire; avevo ancora addosso l’orologio di mio padre, e lo guardai incessantemente, lanciando ogni tanto delle occhiate al paesaggio fuori, che però non riusciva a conquistarmi.

Era quasi l’una, accidenti; pregai che pranzassero in ritardo mentre il veicolo mi teneva fuori dal centro, guidandomi verso un quartiere residenziale estremamente bello ed elegante … e mano a mano che vedevo quei bei palazzi, io mi sentii sempre più un pesce fuor d’acqua.

Mi prese il panico: e se avessi sbagliato tutto? Se avessi dovuto restare in casa invece di andare lì? Lui, dopotutto, odiava le improvvisate. In un modo o nell’altro, ero sicura di averlo fatto arrabbiare, e mentre pensavo a questo quasi non mi accorse che il taxi si fermava alla mia destinazione; l’autista, cortesemente mi aprì lo sportello, e io scesi con le gambe che erano fatte di gelatina.

L’edificio di fronte a me era elegante e moderno, sobrio, e pieno di finestre, c’era un sacco di vetro, ma era di quel tipo che l’interno non si poteva vedere; sembravano più degl’uffici che una csa, ma pagai ugualmente il tassista, ringraziandolo in tedesco e con un inchino, e lui mi rispose imbarazzato, lasciandomi sola ad affrontare il mio destino.

Camminai lentamente, e vidi che sul citofono del grande cancello c’era effettivamente scritto “Wakabayashi”; suonai, e attesi pazientemente, notando all’ultimo secondo che, sopra il citofono, c’era una telecamera. Oh mio Dio, cos’avrebbero pensato di me, conciata in quella maniera?!

Invece, stranamente, mi fu aperta la porta più piccola, e davanti a me comparve un’inserviente, che mi guardò incuriosito.

-Desidera?-

-… sono Maki Akamine, una conoscente di Genzo Wakabayashi. Dovrei parlare con lui, è possibile?-

L’uomo mi guardò stupito, ma alla fine si decise a farmi entrare, davanti a me c’era una piccola stradina dove, vicino alla casa, erano parcheggiate le macchine, e riconobbi subito quella di Friedrich … e Friedrich stesso, che sembrava parlare con un altro autista; l’uomo mi riconobbe, e lo salutai con un cenno del capo. Dopo un attimo di smarrimento, mi rispose con un sorriso sollevato.

Anch’io ero contanta di vedere una faccia amica, significava che ero proprio nel posto giusto; mi fu aprta la porta principale, ma mi fuchiesto di rimanere nel gigantesco antrone, la casa era pazzesca, e il contrasto con la villa era incredibile: i muri davanti erano stati sostiuiti appunto con il vetro, che apriva sulla strada, sul cacnello e sulla via, il pavimento era di legno e le scale erano in vista, come la stanza del piano di sopra.

Il resto della casa mi era, al momento, precluso, e sinceramente avevo voglia di lasciarlo precluso. Diedi le spalle alla casa, cercando nella vista esterna qualcosa di confortante, e solo in quel momento notai che c’era un cane, prima non l’avevo visto, forse l’avevo tenuto fermo per farmi passare.

Era un cane grande, di quelli simili ai cavalli, mi sembrava di riconoscere la razza ma al momento non mi veniva in mente il nome.

-Maki?-

Ah, la sua voce, la sua voce! M’irrigidii tremendamente le spalle, e presi un profondo respiro, chiudendo gli occhi. Dai Maki, 1, 2, 3!

Mi voltai, e riconobbi subito la sua solita camicia con la cravatta, non aveva la giacca e aveva il volto … assolutamente stralunato; mi mordicchiai l’interno delle labbra, ricordandomi che avevo addosso il rossetto, e non resistetti all’impulso di parlargli. Perdonami Isolde, non ce la feci proprio!

-Scusami, so che non ti piacciono le improvvisate, ma pensavo che se non fossi venuta … non sarei mai riuscita a … a perdonarmi …

Mi dispiace, mi dispiace non ho mantenuto la promessa, ma vedi è successo un casino e …-

-Maki, prendi fiato, stai diventando blu come il kimono.-

Non mi ero resa conto di aver trattenuto il fiato, e obbeddii, inspirando con il naso mentre Genzo, lentamente, si lasciava scappare un sorriso divertito, ancora stupito … e sollevato.

-Come sapevi che ero qui?-

-… ha fatto tutto Isolde.-

-Tzé, mi toccherà farle il regalo di Natale.-

Sorrisi divertita, ma il sorriso mi durò poco; feci un inchino verso Genzo, parlandogli cupa.

-Mi dispiace di averti deluso, non ho mantenuto la promessa.-

Lo sentii prendermi per le spalle, sollevandomi dolcemente, e i miei occhi furono presto nei suoi.

-Maki, che giorno è oggi?-

-… l’otto Dicembre.-

-E quando dovevi tornare a Monaco?-

-… l’otto Dicembre.-

-Non mi hai mai detto a che ora saresti arrivata, e dunque non sei in ritardo, e hai mantenuto la promessa.-

E, con mia grande sorpresa, mi baciò la guancia, accarezzandomela in seguito, prima di offrirmi la sua mano.

-Avanti: sato che sei qua, è giusto che incontri la mia famiglia. Sei fortunata, oggi ci sono anche Akio con la sua fidanzata.-

E mi prese la mano, trascinandomi dentro il salone, ma io lo frenai, per fermarlo.

-Genzo, aspetta!-

Mi guardò sorpreso.

-Io … io ho un po’ paura.-

Lui mi sorrise divertito, e mi posò la sua fronte contro la mia. Oh dei, come mi era mancato quel tocco in quei giorni.

-Non ti preoccupare: abbaiano ma non mordono.-

E sorrisi, lasciandomi poi trascinare da lui dentro casa, stupendomi che girasse con le scarpe sul pavimento di legno; mi aiutò a salire le scale, e mi guidò verso la sala da pranzo, affacciata sul loro giardino. La sala era ampia e luminosa, metà delle pareti erano vetro, e il mobilio di legno aveva un’aria moderna e leggera, li avevo sentiti parlare ancora prima di entrare, e quando me li vidi davanti mi sentii nuovamente irrigidire.

La prima cosa che mi colpì fu che c’era un uomo, il più adulto di tutti, che era praticamente uguale a Genzo, lo stesso sgurdo negl’occhi, mentre la donna accanto a lui, cavolo se era bella: aveva i capelli castano scuro curati, e un bel foulard colorato legato intorno a collo, con un abito che sottolineava il fisico asciutto con una cintura all vita.

Poi vidi altri due uomini, e uno lo riconobbi come Akio, il quale mi guardò sorpreso, o meglio entusiasta, accanto a lui la sua ragazza, me la ricordai quando l’avevo intravista alla festa all’hotel; l’altro uomo, a me sconosciuto, aveva un’aria molto seria, direi quasi distaccata.

Genzo mi fece fare qualche passo avanti, e mi presentò alla sua famiglia.

-Madre, padre, questa è la mia fidanzata, Maki Hyuga Akamine.-

Ah, era la prima volta che gli sentivo dire una parola simile: fidanzata, prima di quel momento non ci avevo mai pensato che fossimo effettivamente una coppia. Certo, stavamo insieme, ma fino a quel momento non me n’ero resa conto.

Nuovamente feci un profondo inchino, presentandomi allo stesso modo con cui mi presentai alla madre di Kojiro, il primo giorno che la conobbi. L’unica differenza è che dissi la formula con il miglior tedesco che riuscii a sfoderare.

-Mi chiamo Maki Hyuga Akamine, sono molto lieta di fare la vostra conoscenza.-

 

**

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Capitolo 28
*** Eine neue Familie ***


XXVII: Eine neue Familie

(una nuova famiglia)

 

La prima volta … che conobbi la signora Hyuga ero … molto nervosa, perché non sapevo che persona mi sarei aspettata: Kojiro mi aveva sempre detto che era una donna molto dolce e gentile, ma sapevo che era vedova e che doveva pensare a tre bambini piccoli con lui, e quindi mi aspettavo una signora con un carattere forte, che magari non gradiva la presenza di un’estranea.

Mi era stato insegnato come rivolgermi in quelle occasioni, perché mia zia Moe si aspettava che, in quanto futura capofamiglia, avrei accettato la possibilità di … fidanzamenti con persone scelte da loro; pertanto mi aveva fatto imparare quella formula, e stranamente mi resi conto che quella frase, soprattutto detta in giapponese, aveva su di me un effetto … calmante. Quando rivolsi nuovamente lo sguardo sulla signora Hyuga, infatti, ero molto più sicura di me.

Ora quella stessa formula, benché usassi un linguaggio diverso, ebbe lo stesso magico effetto: la mia ansia diminuì drasticamente, e potei alzare tranquillamente la testa, guardando prima di tutti la signora Wakabayashi; avevo avuto l’intuizione che, benché il signor Wakabayashi era il capo famiglia, la signora effettivamente muoveva le redini.

Difatti lei mi restituì lo sguardo con assoluta calma, ed io rividi in quelle iridi scure lo stesso sguardo di Genzo, educato ma attento al minimo dettaglio; alla fine fu il signor Wakabayashi a farsi avanti.

-Benvenuta, Maki. Sono Hiroshi Wakabayashi.-

Gli strinsi la mano, e sentii una presa sicura sulla mia pella, e gliela restituii con tutta l’energia che avevo, sorridendogli cortese; anche la moglie lo raggiunse e mi porse la mano con un cortesia, il suo sorriso però mi era familiare: era lo stesso sorriso di circostanza che Genzo usava in pubblico, per nascondere i suoi pensieri.

No, ero ancora in prova.

-Benvenuta, Kimiko Wakabayashi.-

Kimiko, credo che sia uno dei miei nomi preferiti: la sua traduzione è “Bambina imperatrice”, e pare che la moglie del mio bisnonno avesse tale nome. Inoltre, guardando quel volto così affascinante, pensavo al suo nome come all’unica pennellata di un pittore, che con un solo movimento del polso aveva unito tutta l’essenza di quella donna.

Aveva un trucco leggero, non ne aveva quasi bisogno; si vedeva che era più grande e matura di me, ma era una di quelle persone che, quando le guardi in faccia, ne avverti subito la bellezza immutata, anche sotto le rughe. Mia nonna diceva sempre che, quel tipo di persone, erano così perché avevano mantenuto il loro animo incontaminato dai vizi; già, nonna, chissà come stava …

-Prego, non stia in piedi, si accomodi.-

La madre di Genzo mi fece spazio, e io lentamente mi allontanai dall’uomo, seguendola e accomodandomi su uno dei bianchi divani della sala, oltre che esserci il tavolo da pranzo, infatti, c’erano pure due divani con un basso tavolino, sopra di questo vasoi pieni di vivande.

-Favorisca, non faccia complimenti; non abbiamo molto da offrirle, ma Genzo ci aveva informato che, probabilmente, era ancora in Giappone.-

Prima trappola della donna: cercava di farmi sentire in colpa per la mia improvvisata, non le piacevano come il figlio. Se mi fossi mostrata mortificata, e avessi tirato fuori qualche scusa, sarei finita dritta dritta lì dove voleva quella donna; non capivo se lo faceva per mettermi alla prova o per carattere suo, ma non la temevo: dopotutto, avevo affrontato il figlio!

Genzo, intanto, si mise dietro lo schienale del divano, appoggiando la mano sopra la mia spalla destra, e a quel tocco sorrisi confortata, scostandola gentilmente: non doveva preoccuparsi per me, me la sarei cavata, e inoltre se si comprotava così m’indicava come una persona fragile, cosa che non ero assolutamente, non dopo tutto quello che era accaduto.

Dovevo cavarmela con le mie sole forze.

-Sono tornata solo un’ora fa da Naha: purtroppo mia nonna, la capofamiglia, è stata male e l’ho dovuta assistere.-

-La signora Kyoko è stata male?! Cosa l’è successo?-

Genzo si sporse dallo schienale del divano, guardandomi turbato, e io gli sorrisi tranquilla, per non farlo agitare, spegandogli la situazione.

-Ha avuto un calo di energie, per via della riunione di famiglia, ma ora sta bene, l’ultima volta che l’ho vista si era ripresa egregiamente.-

Già a momenti mi spediva calci in culo da te, sono sicura che non l’abbia fatto solo perché non le reggevano le gambe; lui annuì, e io riconfermai le mie parole con un sorriso. Ad interromperci ci pensò il signor Wakabayashi.

-Dunque hai partecipato ad una riunione di famiglia.-

-Si signore.-

-È stato per delle festività in particolare.-

-No signore: ci sono state delle incomprensioni all’interno della famiglia, ed è stato necessario intervenire.-

-Dovrete essere in molti per essere costretti a simili riunioni.-

-Nel nucleo principale della famiglia siamo venticinque membri compresi i cugini di secondo grado.-

Che erano tre. Vidi il signor Wakabayashi interessarsi al mio discorso mentre la signora Wakabayashi mi serviva un lungo calice con dentro spumante, e io accettai con un cenno del capo, prendendolo e poggiandolo momentaneamente sul tavolo.

“-Ricordati Maki: ogni incontro è una sfida. Può essere silenziosa e non percepita dalle altre presenze, ma c’è sempre; pertanto devi individuare chi ti lancia la sfida, e come una partita a Go cercare di accerchiarlo e sconfiggerlo con educazione, deferenza e tranquillità. Fretta, rabbia e paura devono essere bandite dal tuo corpo e dalla tua mente.-”

Che strano, questo me lo aveva insegnato proprio zia Moe, chissà come mai non me lo ricordavo prima.

-La tua famiglia deve avere una forte importanza a … Naha, giusto?-

Stavolta fu la signora Wakabayashi a parlarmi, non riuscendo a capire qualcosa di me con il bicchiere di prosecco. Annuii.

-La famiglia Akamine è una delle più antiche e importanti di Okinawa; secondo le nostre leggende, la nostra famiglia discenderebbe dalla dea Amaterasu.-

-La dea del sole, impressionante.-

Era giapponese doc, e anche se non si vestiva o non parlasse come una giapponese, c’era qualcosa in lei che mi richiamava la nostra terra; vederle il volto mi faceva venire in mente un pesco, o un ciliegio in fiore, tradizionali ma sempre affascinanti.

Sedeva sul bracciolo accanto al marito, il quale era interessato alla parte più pratica della mia famiglia.

-E che tipo di attività avete?-

-Gestiamo una catena di ryokan.-

-Locande tradizionali, devono essere molto belle.-

Avrei voluto dirgli che poteva chiedere a Genzo, dato che lui c’era stato, ma mi bloccai ancora prima di dirlo: quanto sapevano di come io e lui c’eravamo incontrati? E quanto potevo dirne io? In risposta alle mie domande, fu proprio Genzo a prendere la parola.

-Ho avuto modo di frequentare una delle loro locande per un certo periodo.-

-Davvero Genzo? Quando è stato?-

-All’incirca sette mesi fa mamma, quando mi sono infortunato.-

-Ah, certo, lo strappo. Credevo però che fossi tornato a casa.-

-Ho preferito … cambiare aria.-

-Capisco … e hai conosciuto lì la signorina Akamine?-

-Signora Akamine.-

A quella correzione la madre, per la prima volta, rimase veramente sorpresa, e anche il marito alzò lo sguardo verso il figlio. Io, da parte mia, nascosi la mia agitazione: non sapevano che ero stata sposata, beh conoscendo Genzo non mi sorprendevo se lui non avesse detto molto di me, anzi niente.

-… signora?-

-Si: mio marito, purtroppo, è morto due anni fa. Si chiamava Kojiro Hyuga.-

-Mamma, ti ricordi la nazionale giapponese? Era uno dei compagni di squadra di Genzo.-

Akio intervenne alla discussione, e io rivolsi per un momento l’attenzione sulla sua fidanzata, Amelia, notando che questa non era particolarmente colpita dalla notizia, forse ne aveva parlato con il fratello di Genzo.

-Ah ma certo, ma certo. Condoglianze per la vostra scomparsa.-

La ringraziai con un cenno del capo, ma la signora non perse tempo. Mi resi conto che non era cattiva, ma diffidente come il figlio più piccolo, di conseguenza sapevo come trattarla, anche se, fortunatamente, non dovevo essere barbara come lo ero stata con Genzo.

Tuttavia calò il silenzio dopo la scoperta, e mi resi conto che quella era la prova più difficile: ero una vedova dopo tutto, come avrebbero preso la mia relazione con il loro figlio con questa novità?

-… e adesso, come ti trovi qui a Monaco?-

Fu proprio la signora Wakabayashi a farmi quella domanda, e guardai il suo volto alla ricerca di qualche altra trappola lei preparata; ma no, per quella volta il suo viso sembrava sinceramente in imbarazzo, e quella domanda era fatta proprio per cambiare argomento. Sorrisi cordiale, rispondendole.

-Molto bene; la lingua è difficile, ma ho un buon insegnante.-

E lanciai uno sguardo d’intesa a Genzo; a quel mio atteggiamento, vidi la signora Wakabayashi riempirsi d’orgoglio, sorridendo.

-Genzo è sempre stato il più abile nell’imparare le lingue; in fondo è un bravo studente, se non fosse così testardo.-

-Non è colpa mia se non sono d’accordo con le intenzioni di papà.-

-Kimiko, Genzo, abbiamo sempre detto che non si discute di lavoro quando si sta insieme. Giusto Ichirou?-

Era la prima volta che prendevano in ballo il primo figlio, e alzai lo sguardo verso di lui, notando che annuii al padre, restando però in disparte, guardandomi cauto; Genzo era un orso brontolone, ma quell’uomo mi diede la chiara idea di essere un pezzo di ghiaccio.

Akio intervenne come al solito, per spingere il fratello maggiore nella conversazione.

-Già, ogni volta la mamma deve sempre ripetergli questa frase quando siamo a tavola; sai Maki, lui è lo stacanovista della famiglia.-

Era proprio … gioviale di carattere, e se credevo che Genzo fosse il più ribelle, adesso nutrivo qualche dubbio su chi effettivamente fosse la testa calda della famiglia; erano tutti e tre uno diverso dall’altro, e in piccole cose assomigliavano ai genitori, ancora seduti davanti a me.

La signora Wakabayashi riprese il figlio.

-Tuo fratello Ichirou è responsabile, figliolo, non stacanovista. Vorrei solo che avesse più tempo per se stesso.-

-Non preoccuparti mamma, lo trovo il tempo.-

-Lo so, ma mi domando se è abbastanza.-

Ichirou non le rispose, guardando me come ad un’intrusa a cui non doveva dire niente della sua vita privata; io, di rimando, scostai lo sguardo per fargli capire che non avevo intenzioni ostili. Annotazione: la voce di Ichirou assomiglia a quella di Genzo, ma quest’ultimo ha un tono più basso rispetto a quella del fratello maggiore.

Il signor Wakabayashi tornò su di me, dei due coniugi era il più cortese e, inaspettatamente, il più entusiasta della mia presenza.

-Quindi ti sei trasferita da poco, immagino quindi che tu non conosca molto la città.-

-A, beh … a dire la verità lavoro part-time nel centro storico, e ho avuto modo di visitare un po’ Monaco.-

-Interessante, che lavoro hai?-

-… sono barista presso un piccolo pub.-

Entrambi i genitori furono sorpresi di sentirmi dire che lavoravo in un bar, ma quello che più mi sorprese e che non la presero male come pensavo, anzi.

-Dunque appena arrivata qui ti sei subito data da fare, eh? Sembri una donna piena d’iniziativa.-

M’imbarazzai alle parole del signor Wakabayashi, e Genzo sembrò dargli man forte.

-Mi ha convinto a tirare fuori le nostre decorazioni di Natale alla villa.-

-Preparerete l’albero? Davvero?-

Il tono della signora wakabayashi era sorpreso, ma vidi nel suo volto anche entusiasmo, mascherato a fatica; perfino Ichirou, a quel punto, s’interessò al discorso, mentre Genzo sorrideva divertito.

-E anche il Presepe. Maki non conosce il Natale, quindi mi sembra giusto farglielo vivere. È tornata oggi perché sa che in questo giorno prepariamo le decorazioni.-

A quel punto la signora Wakabayashi non nascose più l’emozione di quella notizia, e parlò con aria timida al figlio.

-Pensi … che la nostra presenza possa … essere di disturbo?-

Le mancava decorare per il Natale, a quella domanda mi venne da sorridere per la tenerezza, e sebbene Genzo fosse più chiuso di me, anche lui non resistette all’impulso di un sorriso, più divertito del mio.

-È ovvio che no, mamma.-

A quel punto mi sentii in grado di mangiare, vedendo come la donna mi avesse mostrato una parte così delicata di sé senza poi mettersi sull’attenti nei miei confronti.

E vi giuro, per quanto mi controllai, constatai anche che avevo uno certa fame, e mi resi conto che non avevo mangiato per più di dieci ore!

La conversazione continuò su altri argomenti: mi chiesero dei miei interessi sportivi, e rimasero colpiti del fatto che ero stata una giocatrice professionista; parlammo delle nostre tradizioni giapponesi, e per poco non saltai dal divano per l’entusiasmo quando la signora Wakabayashi mi propose di rivederci, per poter fare degli origami.

Poi cercarono di sapere di più sulla mia famiglia, anche su mio marito Kojiro, e io rispondevo senza problemi, al punto tale che Genzo, esasperato, mi afferrò e mi strinse a sé, prepotente.

-Adesso basta, così me la sfiancate!-

-Genzo, non fare il propotente, se Maki non vuole non risponde.-

Mi venne da ridere, questa era la tipica risposta di Genzo quando discuteva con me, e dolcemente mi sciolsi dalla sua presa, che però lui strinse, imponendomi di rimanere addosso a lui mentre parlavo con sua madre, imbarazzante … però anche molto tenero.

Ce ne andammo da quella casa che, oramai, erano le sei del pomeriggio, e riuscimmo ad andarcene solo perché Genzo prese in mano la situazione, affermando che oltretutto “avevamo un impegno con un certo albero”; la signora Wakabayashi, però, mi prese da parte con una scusa, conducendomi verso la cucina per parlarmi con tranquillità.

-Voglio essere sincera con te, Maki: sei una brava ragazza, e sapere che Genzo è con te mi da un profondo sllievo, specialmente dopo … un brutto periodo che ha passato in Amburgo.-

-Si, me ne ha parlato.-

-Davvero? Ah … sei sorprendente.-

E mi sorrise divertita, io ricambiai con la solita deferenza.

-Tuttavia ho una domanda da farti.-

-Prego, mi dica.-

-Sei di tradizione giapponese, e sei vedova. Perché hai addosso il Furisode?-

… è strano, ma io sentii … che quella domanda la stavo aspettando; portai una mano sul petto, accarezzando il colletto del mio kimono, parlandole con serenità.

-Questo … era il kimono preferito di mio marito … ed è anche quello di Genzo: quando parlò ai miei genitori, chiedendo loro il permesso per portarmi qui a Monaco, mi chiese di mettermi proprio questo Furisode.

È … una specie di portafortuna per me.-

La donna aveva uno sguardo sorpreso, per poi sciogliere il volto in un’espressione rasserenata, sciogliendo anche le braccia, che fin a quel momento aveva tenuto incrociate.

-Signora Wakabayashi … io la vorrei ringraziare.-

La sorpresi con le mie parole, e mi limitai a chinare la schiena verso di lei, con la stessa ampiezza con cui si fa con l’imperatore.

-Genzo … è un uomo chiuso e testardo, ma estremamente gentile, rispettoso … e mi ha aiutato tantissimo in tanti difficili momenti della mia vita. Dunque … volevo rignraziarla … per avermi dato la possibilità di conoscere un uomo così.-

Alzai la schiena, guardandola emozionata, e lei mi sorrise, per poi fare il mio stesso inchino, tornando su più velocemente di me.

-Sono io che ti ringrazio, grazie per essere venuta oggi, e grazie … per restare accanto a mio figlio.-

Annuii emozionata, e alla fine la donna mi accompagnò fuori dalla cucina, nell’atrio ci aspettava un Genzo spazientito.

-Mamma, ma possibile che me la porti sempre via?!-

-Dai Genzo, non fare così, è così raro poter parlare con una tua compatriota.-

Sorrisi divertita, e m’infilai il cappotto ringraziando i signori Wakabayashi, e i loro figli, un’ultima volta, uscendo fuori nel gelo della sera, non mi ero accorta che a Monaco facesse così tanto freddo, per l’agitazione mi ero perfino dimenticata che era inverno!

-Allora, contenta di essere riuscita finalmente a conoscere la mia famiglia?-

Lo disse per prendermi in giro, e io lo rimbeccai mentre salivamo in machina, con Friedrich che ci aspettava con il motore acceso.

-Non ho conosciuto tutti: ho visto che hai un cane, manca lui all’appello.-

Rise divertito, e per dispetto mi spettinò i capelli, prima di tenermi stretta tra le sue braccia.

-Sei stanca?-

-Distrutta, non ho praticamente dormito durante il viaggio.-

-… com’è andata a Naha?-

-… la nonna ha allontanato la zia.-

-Quindi ci sei andata per niente.-

-No, al contrario: ho fatto quello che dovevo fare.-

E lo guardai serena, poggiando la mia fronte sulla sua.

Quella sera Isolde ci aspettò all’ingresso, salutandomi con aria tranquilla e poi andando in cucina a mettere via tutto, avevamo abbondato a casa dei signori Wakabayashi, e quindi io preferivo non mangiare ulteriormente, salendo in camera mia.

Stavo per entrarci, quando Genzo mi prese una mano, tirandomi contro di lui e abbracciandomi con forza, quasi soffocandomi.

-… grazie, grazie di essere venuta.-

-Genzo …-

-Mi sei mancata … amore mio.-

Ecco, in quel momento sentii che stavo toccando la felicità a piene mani, e mi commossi mentre Genzo si staccava un momento, guardandomi negl’occhi; io, come sempre, mi persi nelle sue iridi nere, e gli accarezzai dolcemente il volto, alzandomi in punta di piedi per far toccare le nostri fronti.

Lentamente, l’uomo si sporse verso di me, e io lo accolsi sorridendo leggermente, socchiudendo gli occhi e sentendo, finalmente, quelle labbra toccarmi, con la stessa delicatezza e timidezza con cui mi aveva sempre amata.

Ad occhi estranei, Genzo può sembrare rozzo e possessivo nei miei confronti, ma in realtà … essere amata da lui è un dono, prezioso come l’oro e fragile come il cristallo.

Io sono la donna più fortunata del mondo.

 

**

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Capitolo 29
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Mia madre prese il controllo dell’operazione “facciamo l’albero e il Presepe”, e il mio controllo su villa Wakabayashi andò allegramente a farsi benedire: come se non se ne fosse mai andata da lì, cominciò ad ordinare a destra e a manca, e io le impedì di schiavizzare Maki solo perché, quando esagerava, mi riprendevo la mia fidanzata e me la portavo via a forza.

“-Dai Genzo, mettimi giù!-”

“-Assolutamente no.-”

E lei e mie madre mi prendevano in giro, ridendo come ragazzine, ma tu guarda, adesso dovevo combattere contro due donne!

Però, devo ammetterlo, il sorriso di Maki era impagabile: era raggiante, allegra, e ogni volta che la guardavo mi sentivo così bene, così fortunato. Persino mio padre me lo disse, mentre mi aiutava a sistemare le scatole vuote in cantina.

“-Sai, io ci ho messo un bel po’ a conquistare tua madre, e me la fece sudare.-”

“-Mamma dice sempre che si è innamorata di te fin dal primo sguardo.-”

“-Certo, ma dal primo sguardo al matrimonio ne passa di acqua sotto i ponti.-”

E a quel punto scoppiai a ridere, mio padre poteva anche essere il capofamiglia, ma di sicuro la mamma sapeva sempre come metterlo in riga; lui rise con me, poi mi poggiò una mano sulla spalla.

“-Genzo, ti chiedo solo una cortesia: non farti scappare una donna simile.-”

“-Sta tranquillo, non ne ho alcuna intenzione.-”

E riprendemmo a lavorare, anche perché mia madre ci richiamò all’ordine.

Con noi parteciparono anche Ichirou e Akio, e anche se non l’ammetteva, mio fratello maaggiore era il più entusiasta sia a decorare l’albero, sia nei confronti di Maki, tanto che ancora adesso nutro qualche dubbio che il suo atteggiamento era solamente “amichevole”.

Passammo l’intera giornata in quel modo, con Isolde che ci dava una mano e preparava qualcosa da mangiare; la sera accendemmo l’albero, e già lì Maki rimase estasiata, figuratevi quando accendemmo anche il Presepe.

“-È … è incredibile …-”

Maki aspettò il giorno di Natale con una tale impazienza che ogni occasione era buona per stuzzicarla e prenderla in giro, ma quando arrivò era cos’ raggiante che non potevo dirle proprio niente; invitammo la mia famiglia a pranzare con noi, e lei li accolse con un maglione e i suoi jeans. Per me, in quel momento lei era la donna più bella del mondo.

La giornata trascorse chiacchierando, scambiando i regali, e con mia sorpresa mia madre fece un regalo anche a Maki: un pettine d’osso per fermare i capelli, in effetti le erano cresciuti, oramai le raggiungevano le spalle.

Il “tornado parenti” se ne andò che erano oramai le undici di sera, e finalmente rivelai il mi oregalo, nascosto dentro un cassetto, cercando Maki; la trovai sull’altalena, aggiustata, fuori del giardino, e appena mi vide m’indicò il cielo entusiasta: aveva iniziato anevicare.

“-Finalmente, mi sembrava un po’ in ritardo.-”

“-La neve … la mia prima neve di Monaco!-”

La guardai ,e sorrisi intenerito, aveva un’espressione così felice, e lentamente le porsi il mio regalo, curioso di vedere la sua reazione; lei, di rimando, sorrise entusiasta, e mi allungò un pacchetto che teneva accanto a se, stupendomi, non me l’aspettavo.

Li scartammo nello stesso momento … e per un attimo, lo ammetto, mi commossi davvero tanto: il burattino del cavaliere, riaggiustato, con l’armatura che brillava come nuova, i fili districati e sistemati in modo che non si legassero tra loro. La guardai, e lei sorrise imbarazzata.

“-Buon Natale Genzo.-”

Poi aprì il mio regalo, e anche lei rimase sorpresa del berretto rosso; glielo misi in testa, calcando un po’ apposta.

“-Così, quando giocherai con la tua squadra, potrai ripararti dal sole.-”

“-È … uguale al tuo.-”

“-È il mio: oramai mi sta piccolo, e comunque ne ho altri.-”

Mi guardò ancora più meravigliata, e con un balzo mi abbracciò, stringendomi forte mentre io ricambiavo la presa, completamente perso di lei, le sfiorai la fronte,  guardandola nei suoi meravigliosi occhi a mandorla.

 

“Kimi wo aishiteru, Maki”

“Ich liebe dich, Genzo”

**

 

Lo so, lo so, è un finale spaventosamente zuccheroso perfino per me e per il mio diabete, ma dopo tutto quello che era capitato ad entrambi, un po‘ di dolce non guasta, e poi sotto le feste di Natale (ride).

Comunque, ABBIAMO FINITO!! Dico abbiamo perché è stato un viaggio mio e vostro, e sono contenta di aver avuto tante persone che hanno letto e commentato, sono veramente commossa!!

Ammetto che gli utlimi capitoli li ho scritti alla velocità della luce e senza effettivamente controllare gli errori, mea culpa, ma avevo l’ispirazione e non potevo assolutamente fermela scappare; potete chiamarti “W, l’aggiornatrice folle!” (ride)

Comunque passiamo ai RINGRAZIAMENTI: ringrazio prima di tutti Melanto, la mia folle lettrice che ha dovuto subire questo continuo e scostante aggiornamento. Grazie Mel, grazie mille.

Ringrazio poi Cronus, Berlinene, benji79 e releuse perché, coraggiosamente, stanno seguendo le avventure di Maki e Genzo fin dalla loro prima storia, ma grazie!! Grazie davvero, sono così felice! Spero di non avervi deluso.

E poi ringrazio krys, Cheeza, Thabit e albalau che si sono unite al gruppo! Benvenute e grazie mille, ma di più millioni di grazie per aver seguito e apprezzato.

Io spero di vedervi molto presto con una mia prossima fan fiction, la mia testa è un crogiuolo di idee ma ancora non ne ha presa forma nessuna, ma non disperate, io tornerò, mwahahah! Ok, la smetto, BACI!!

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