Jeans di WYWH (/viewuser.php?uid=62850)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Hause ***
Capitolo 3: *** Training ***
Capitolo 4: *** Idioms ***
Capitolo 5: *** Herkunft ***
Capitolo 6: *** Fahrrad ***
Capitolo 7: *** Werk ***
Capitolo 8: *** Nennen ***
Capitolo 9: *** Fußball (I° Parte) ***
Capitolo 10: *** Fußball (II° Parte) ***
Capitolo 11: *** Doktor ***
Capitolo 12: *** Probleme und Losungen ***
Capitolo 13: *** Kleid ***
Capitolo 14: *** Softball Handschuh ***
Capitolo 15: *** Schlechtes Wetter ***
Capitolo 16: *** Zuneigung ***
Capitolo 17: *** Marienplatz (I°Parte) ***
Capitolo 18: *** Marienplatz (II°Parte) ***
Capitolo 19: *** Liebe ***
Capitolo 20: *** Koffer ***
Capitolo 21: *** Mann ***
Capitolo 22: *** Abflug ***
Capitolo 23: *** Familietreffen (I° Parte) ***
Capitolo 24: *** Familietreffen (II° Parte) ***
Capitolo 25: *** Familietreffen (III° Parte) ***
Capitolo 26: *** Wählen ***
Capitolo 27: *** Versprechen ***
Capitolo 28: *** Eine neue Familie ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Jeans
Quando
Maki scese dalla
macchina e vide la mia “casetta”, fece
un’espressione talmente tanto sconvolta
che non resistetti all’impulso di mettermi a ridere.
-… ma
questo è un palazzo!!-
-Esagerata, guarda
che non è mica così
grande.-
-Stai scherzando
spero?! Qui potrebbe starci
almeno un reggimento!-
-… in
effetti mia madre era solita
organizzare delle feste qua …-
Nel
frattempo Friedrich aveva
scaricato i bagagli di Maki, e quando questa notò il lavoro
dell’uomo, si voltò
immediatamente e fece un inchino, guardandolo successivamente.
-D … Dank
…- (grazie)
Friedrich
la guardò molto
sorpreso, per poi sorriderle con aria grata.
-Bitte Miss.- (prego
signorina)
-Junge Meister!-
(padroncino)
Oh
santo cielo, adesso
arrivava il momento più imbarazzante.
Isolde
si era affacciata alla
porta principale, e senza darmi il tempo di, quanto meno, bloccarla, mi
arrivò
addosso e mi abbracciò con tutta la sua forza, facendo come
al suo solito la
sua scena lacrimosa di “dolce balia che accoglie il suo
piccolo padroncino”.
Io
fui così avvolto e stretto
dalle grosse braccia della governante, e tentai a fatica a di calmarla,
dandole
dapprima delle leggere pacche sulla schiena per poi ricambiare il suo
abbraccio. Ma niente, quando Isolde ci si metteva era iper affettuosa
… e imbarazzante.
Appena
la vecchia donna mi
sciolse, infatti, sentii come una risata soffocata, e immediatamente mi
voltai
verso Maki: si era messa una mano davanti alla bocca e una sulla
pancia, e solo
Dio sa quanto stava ridendo, tentando in tutti i modi di soffocare il
suo
divertimento.
Io,
nel frattempo, avrei voluto
scavarmi una fossa e buttarmici dentro, Dio che imbarazzo, e proprio
davanti a
quella che mi aveva conosciuto come “l’ombroso uomo
che a fatica esterna i suoi
sentimenti”!
Tuttavia,
vederla ridere in
questo modo, se da una parte mi stava mettendo nel totale imbarazzo,
dall’altro
mi provocò un piacere che non mi sarei mai sognato di
provare in tutta la mia
vita: era strano, non era la soddisfazione, come di un buon
allenamento, o di
una partita riuscita. Non era neanche la felicità o la
gioia, sentimenti che
molto difficilmente fanno parte della mia persona.
Era
qualcos’altro, e quel
qualcos’altro mi provocò un sorriso mentre la
donna si calmava, permettendomi
così di rispondere a quell’atteggiamento con il
mio solito modo di fare.
-Bene, hai finito?-
-Si … per
ora.-
Faceva
pure la spiritosa la
signorina!
-Junge
Master, der diese Dame ist?- (padroncino, chi
è questa signorina?)
Ah
giusto, non avevo formato
Isolde.
-Isolde, diese
ist Maki Akamine Hyuga, und jetzt leben hier bei uns.- (Isolde,
questa è Maki Akamine Hyuga, e da oggi vivrà qui con noi)
Non vi
dico com’era la faccia della mia governante quando seppe
della
novità, mentre Maki si presentava educatamente con il suo
tedesco … veramente
stentato.
-Freude,
ich bin Maki.- (piacere, io sono Maki)
La sua
pronuncia non era forte, e anche i suoi accenti erano un po’
sballati; tuttavia, quando porse la mano ad Isolde e le sorrise con
aria
amichevole, la mia vecchia governante non poté restare a
lungo scioccata,
allungando la mano e sorridendo con aria … forse un
po’ troppo entusiasta.
-Willkommen,
liebe.- (benvenuta cara)
E con
un cenno della mano la invitò ad entrare.
Maki
allora guardò me, ed io semplicemente le feci un cenno del
capo,
permettendole così di superarmi.
E
mentre la vedevo varcare la soglia della mia casa, sentii nuovamente
l’agitazione prudermi le mani, mentre Isolde mi si faceva
accanto.
-Ist
wirklich sehr schön,
junger Herr.- (è veramente molto carina,
padroncino)
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Capitolo 2 *** Hause ***
I: Hause
(Casa)
Il
mio incubo cominciava
sempre in modo diverso, ma lo capivo chiaramente che era lui,
perché era l’esatta
sensazione che avvertii quella sera, quando io e Kojiro fummo
aggrediti: di
colpo, nel buio, quel gruppo di … ragazzi, perché
in fondo non dovevano avere
più di venticinque anni, ci si fece vicino, e un lungo,
intenso brivido mi
prese dal bacino fino al collo.
E
anche quella volta,
nonostante stessi sognando il mare, la luce dell’estate, la
spiaggia vicino al
ryokan, all’improvviso quel brivido mi colse e mi
attraversò come una scossa
elettrica, irrigidendomi all’istante.
E
forse lo avvertii di più
perché stavo sognando di essere sola.
Già,
ero sola: mio marito, in
fondo, era morto da più di un anno. E anche nei miei sogni,
lentamente, la sua
presenza cominciava a svanire, e se da una parte soffrivo,
dall’altra mi
rendevo conto che non poteva essere altrimenti.
Ma
in quel momento, mentre la
luce baluginante di quel panorama cominciava a farsi debole, desiderai
ardentemente che mio marito fosse lì con me. O che Genzo
fosse lì accanto a me.
Quel
testardo, orgoglioso,
presuntuoso orso che mi aveva portato via dalla mia tristezza con i
suoi modi
di fare bruschi ma sinceri.
Il
buio continuò a calare, e
d’istinto cercai di chiamare qualcuno.
-Ah
… Gen … o.-
Con
mio orrore sentii la mia
voce strozzarsi, come se la mia gola non riuscisse a tirarla fuori; e
nel
frattempo, delle ombre si avvicinarono, e io le riconobbi tutte.
C’era
il ragazzo con la giacca
di pelle e i pantaloni strappati, c’era quello con i capelli
a cresta, perfino
quello con in mano una bottiglia semi piena, e più li
guardavo più sentivo
crescere in me la paura, la stessa paura che mi aveva assalito la prima
volta,
quando mio marito mi aveva fatto schermo con il suo corpo.
Ma
ora, ora che ero da sola,
anche se era in un incubo, alla paura sopraggiunse il terrore.
Perché sapevo
esattamente cosa mi avrebbero fatto. E per tale motivo che io iniziai a
correre, o almeno ci provai.
Era
inutile: quando la paura
ti assale, qualsiasi cosa tu faccia ti sembrerà sempre non
sufficiente,
soprattutto nel mondo onirico; mia nonna, quando avevo dei brutti
sogni,
m’insegnava canzoni, filastrocche, modi diversi per scacciare
via i brutti
sogni, raccontandomi storie e coccolandomi.
Tuttavia,
quando l’uomo con la
cresta mi afferrò per i capelli, proprio come
l’altra volta, sapevo che quelle
parole non sarebbero servite a niente, così come i miei
pugni e i miei calci.
Nonostante
ciò combattei
strenuamente, lanciando schiaffi, sputando, dimenandomi più
che potevo; ma
mentre l’uomo con la cresta combatté contro di me,
il giovane con il chiodo mi
afferrò da dietro le spalle, stringendomele con la forza dei
polsi e facendomi
male mentre l’altro mi apriva le gambe.
Da
lì in poi non respiravo
più, o se lo facevo era in modo molto stentato: avevo il
cuore in gola, le mie
forze cominciavano a mancare e anche i miei tentativi di liberarmi si
rivelarono un fallimento dietro l’altro; guardavo la cresta,
poi alzavo lo
sguardo verso il terzo uomo che in mano, al posto della bottiglia
adesso, aveva
un coltello. Ed era sporco.
Ricordo
che mio marito fu
aggredito prima di me, difendendomi; ricordo anche che non ci fu il
tempo di
dirci qualcosa. Avrei voluto sentire la sua voce ancora una volta,
prima di
vedermelo crollare davanti mentre l’uomo con la cresta mi
afferrava per i
capelli, erano corti ma per lui erano più che sufficienti.
Mi
abbassò i pantaloni con
talmente tanta forza da graffiarmi le gambe, e le mutande quasi me le
strappò
via.
Poi
mi penetrò, e a quel punto
urlai, completamente senza voce. Urlai talmente tanto in quel modo
assolutamente afono … che mi svegliai.
Spalancai
gli occhi che stavo
ancora gridando, e mi tirai su con la schiena con tutta la forza che
avevo, stringendo
spasmodicamente la coperta, fino a piegarmi in avanti con la testa.
Avevo
ancora, in corpo, un tremendo dolore che mi prendeva tutto il bacino.
Ma quel
dolore era il reale, mi era appena arrivato il ciclo; e con esso i miei
problemi con l’Endometriosi.
Nessuno
può comprendere quanto
può far male. Un dolore tale che viene proprio dal tuo
corpo, e non da un
qualcosa di estraneo. Anche per questo ti fa stare ancora peggio.
Rimasi
piegata in avanti, e
sentii che alla paura e al dolore fisico, adesso, si aggiungeva anche
il
pianto; in quei momenti, c’era sempre Kojiro che mi
abbracciava e mi coccolava
come una bambina.
Ma
questa volta ero sola.
…
no, non era vero: c’era
Genzo.
-…
Genzo …-
Lo
chiamai con voce stonata,
anche nella realtà la mia gola faceva fatica ad emettere
suoni; e lui, al mio
primo richiamo, non venne. Come poteva venire? Il volume era basso, e
io stessa
mi rendevo conto che non bastava.
-Genzo
…-
Ci
riprovai, stavolta con più
forza; volevo scendere dal letto e andare in camera sua, ma non appena
posai i
piedi a terra le gambe mi cedettero, e io crollai sul tappeto, con
addosso la
tremenda sensazione che non solo stavo male, ma avevo anche caldo.
Altro
problema causato
dall’Endometriosi: l’infiammazione mi provocava un
aumento della temperatura
corporea.
Erano
quelli i momenti in cui
pensavo che, effettivamente, a quel male non c’era altra
soluzione
dell’asporto; ed era sempre in quei momenti che Kojiro mi
restava più vicino,
consolandomi e dandomi forza.
Ma
ora che lui che non c’era,
ora che non poteva contare sull’aiuto neanche della mia
famiglia (prima fra
tutti Tomoko, che dormiva nella mia stessa stanza), a chi potevo
rivolgermi?
-Maki!-
Alzai
lo sguardo, e tra le
lacrime vidi un’ombra che mi prese tra le braccia. E
riconobbi subito quegl’arti,
così come avevo riconosciuto quella voce, che utilizzava un
volume e un tono
decisamente più forti del mio.
-Maki,
avanti piccola fatti
forza. Isolde!-
Mi
sollevò come se fosse stata
fatta d’aria, e quella sensazione di leggerezza mi fece stare
subito meglio
mentre Genzo, con la sua solita irruenza, scostava le coperte, restando
qualche
momento immobile. Sapevo cosa stava guardando, di sicuro stava
guardando la
grossa macchia di sangue sulle lenzuola.
Dio
che vergogna.
-Mi
… mi dispiace.-
-…
aah, non dire cazzate.
Isolde!-
Tuonò
quel nome una seconda
volta, facendomi accomodare sul mio letto e sedendosi accanto a me,
tenendomi
in questo modo tra le sue braccia; io chiusi gli occhi e strinsi i
denti, una
nuova fitta prese il sopravvento e mi veniva da urlare e da piangere
mentre
sentivo qualcuno avvicinarsi.
-Padroncino?-
-Svelta
Isolde, vai in bagno e
prendi la scatola dei farmaci azzurra e un bicchiere d’acqua.
Adesso ti porta
le tue medicine Maki, tranquilla.-
Mi
scostò parte della frangia
dagl’occhi, e mi sentii proprio come una bambina, coccolata
da quell’uomo che
mi baciava le spalle, la testa, e mi sussurrava piano
nell’orecchio.
-Shh,
adesso starai meglio,
vedrai.-
Devo
ammettere che non capita
tutti i giorni di vedere Genzo Wakabayashi comportarsi in questo modo
affettuoso; ma in quelle carezze ruvide, in quella voce che cambiava
continuamente volume, a volte assordandomi, nei suoi gesti un
po’ impacciati,
mi sentivo meglio. Sofferente, ma meglio.
-Quali
di queste pillole devi
prendere, Maki?-
Mi
tirò su un po’ come un
sacco della spesa, ma non mi lamentai e con la mano debole frugai tra
le mie
medicine, tirandone fuori una compressa che mi misi subito in bocca. A
quel
punto Genzo mi passò il bicchiere, posandomelo sulle labbra
e tirandolo su un
po’ troppo presto, rischiando di strozzarmi.
-Ah,
scusami.-
-Padroncino
piano, con calma.-
Isolde
si sedette dall’altro
capo del letto e prese lei il bicchiere, mentre la mano libera di Genzo
cercò
immediatamente la mia. Io gliela strinsi mentre la domestica mi portava
nuovamente l’acqua alla bocca, stavolta con la dovuta calma.
Io
bevvi uno, due, tre sorsi,
ricordandomi che dovevo idratarmi ora più che mai, e quando
lasciai andare il
bicchiere mi ritrovai nuovamente appoggiata al petto
dell’uomo, il quale
continuò a tenermi strettamente tra le sue braccia.
-Come
stai? Un po’ meglio?-
Io
ebbi solo la forza di
annuire, il dolore ancora non passava e nuovamente strinsi occhi e
denti,
gemendo leggermente mentre la presa delle sue mani si fece un
po’ più forte,
rivolgendosi un’ultima volta ad Isolde, tornata nella stanza.
-Grazie
Isolde, ora può
andare, qui me la cavo io.-
-Come
vuole padroncino. Se ha
bisogno mi chiami.-
Lui
non le rispose,
limitandosi a tirarmi presso di sé, anche in modo un
po’ rozzo, tanto che mi
lamentai leggermente, irrigidendolo.
-Ti
fa ancora male?-
-No
… sei tu che mi fai male …
orso che non sei altro ...-
Aprii
gli occhi e alzai lo
sguardo verso di lui, trovandomi il suo volto a metà fra la
sorpresa e
l’impaccio, provocandomi un sorriso.
Era
inutile: per quanto fosse
rozzo e scontroso, era proprio in quei momenti che il suo impaccio era
per me
fonte preziosa di sollievo. Perché era in quei momenti che
capivo quanto fossi
importante per lui; tirai su una mano e gli accarezzai a fatica il
volto.
Lui,
di rimando al mio
atteggiamento, sorrise.
Gli
parlai a bassa voce.
-Io
sapevo che i principini e
i figli di papà avessero maniere da gentiluomini.-
-Certo,
ma nelle feste di
gala, per mostrarsi come pavoni nell’harem.-
La
sua vena critica nei confronti
del resto del mondo non cambierà mai.
-Ah,
quindi anche tu fai il
pavone?-
-Temo
purtroppo di essere
l’unico orso in quello zoo.-
Ci
sorridemmo a vicenda, e io
allungai decisa l’altra mano, accarezzandogli le guance.
-Niente da fare, tu sarai sempre e
comunque un Bär.- (orso)
Era
da qualche giorno che lo chiamavo così, da quando stavo
imparando a parlare più
correttamente il tedesco, anche perché Wakabayashi aveva
cominciato a parlarlo
anche in casa, obbligandomi a rispondergli allo stesso modo.
Quando però arrivò
l’ennesima fitta,
lui continuò a parlare giapponese, stringendomi di nuovo la
mano nella sua.
-Stai ancora molto male?-
-No … l’antinfiammatorio sta
cominciando a fare effetto …-
-Meno male.-
-Mi dispiace, domani so che hai
allenamento.-
Lui mi tirò nuovamente a sé,
e
nuovamente le sue maniere furono brusche.
-Non dire sciocchezze: in questo
momento mi preoccupa di più che tu riesca a dormire
serenamente, ed a costo di passare
la notte in bianco starai meglio.-
È vero: questi suoi modi di fare,
queste sue attenzioni, non sono proprie da SGGK. Ma io sono donna, e mi
facevano davvero piacere.
Mi baciò dolcemente la fronte, e
continuò a tenermi la mano mentre io, lentamente, cominciai
a sentire l’effetto
di sonnolenza del medicinale e la stanchezza prendere il sopravvento,
addormentandomi in quella piacevole posizione.
Mi risvegliai il giorno dopo in
posizione prona, e mi trovai da sola. Mi tirai faticosamente su con i
gomiti,
guardandomi intorno, ma non vidi alcuna traccia di Wakabayashi, e mi
resi conto
che sicuramente era andato agl’allenamenti; sbuffando,
ributtai la faccia nel
cuscino, sfregandomi contro la stoffa, per poi guardare verso il
comodino, dove
c’erano sia la scatola azzurra delle medicina che il
bicchiere d’acqua.
Lentamente, come una lumaca
sull’asfalto, mi allungai verso il comodino, e frugai di
malavoglia nella
scatolina, tirando fuori per la seconda volta
l’antinfiammatorio, assieme ad
una compressa di vitamina C che misi subito in acqua, lasciandola
frizzare
mentre cercavo di mettermi in una posizione più consona.
Il mio medico giapponese mi aveva
prescritto l’acido L-ascorbico, meglio notò come
vitamina C, per rinforzare
ulteriormente i vasi sanguigni del mio debole apparato riproduttivo, ma
un
tempo ne dovevo prendere molto più di una semplice pastiglia
la mattina;
fortunatamente ho potuto ridurre il dosaggio con il tempo, e
soprattutto non
l’ho più dovuta prendere per via venosa, in certi
giorni il mio braccio
sembrava quello di un drogato!
Appoggiai la schiena al cuscino e mi
guardai intorno, ammirando ancora una volta il mobilio in legno della
stanza,
sentendomi un po’ come Jane Eyre a casa del signor Rochester;
appena la
compressa finì di sciogliersi, mi misi in bocca la seconda
medicina e bevvi
avidamente, aveva un buon sapore di arancia.
Erano passati oramai tre mesi da
quando mi ero trasferita in Germania, e solo adesso cominciavo ad
abituarmi
alle tante piccole cose, come per esempio al mio letto.
Erano passati molti anni da l’ultima
volta che avevo dormito in un letto occidentale; anche quando ero
sposata con
Kojiro usavamo i futon, e la prima volta che avevo dormito
lì, quando mi ero
svegliata, mi ha fatto uno strano effetto sentirmi più alta
del resto dei
mobili.
Anche l’arredamento era completamente
diverso, a cominciare dalle tende del baldacchino: già non
dormo su un letto
occidentale, figurati con uno con le tende! Mi sembrò la
cosa più assurda del
mondo.
Comunque nella mia casa, per quanto
fosse un ryokan tradizionale, la parte riservata a noi aveva le
comodità classiche
occidentali, ma cose come quella non me la sarei mai immaginata se non
in un
catalogo di arredamento.
Mi alzai lentamente, e mi ricordai
della notte passata, voltandomi verso il letto: c’era una
bella e grossa
macchia di sangue, ed ero certa che anche il mio pigiama fosse sporco.
Sospirai
pesantemente, e cercai nel cassettone il ricambio e gli assorbenti,
andando nel
mio bagno.
Avevo persino un bagno personale …
pazzesco!
Tornando in camera, come prima cosa,
tolsi lenzuola e coprimaterasso, e come avevo temuto la macchia era
entrata
anche dentro la stoffa del mio materasso; l’idea che Isolde
lo sapesse
m’imbarazzò, per quanto fosse una domestica quello
rimaneva sempre e comunque
sangue. Sospirai scoraggiata, quello non era proprio un buon inizio di
giornata.
Quando uscii fuori dalla mia stanza
vidi, per prima cosa, la porta della camera di Genzo. Era proprio
davanti alla
mia, e ci ero entrata già un paio di volte, ma vederla
chiusa mi dava la
sensazione di un mondo a parte.
Ed effettivamente lo era veramente,
all’interno: per quanto il mobilio e lo stile fosse uguale
per ogni stanza, là
dentro anzitutto il letto era matrimoniale, e poi c’erano
diversi dettagli di
Wakabayashi, come una foto di quando era piccolo, vari riconoscimenti
calcistici, una serie di scatti con i suoi compagni giapponesi.
E tra di loro c’era anche mio marito.
Mi mancava, ogni volta che mi
addormentavo e mi svegliavo: mi mancava quando mi fermavo dal lavorare
dal
ryokan, e mi mancava in quei minuti di silenzio, quando quella grande
casa mi
sembrava ancora estranea. Guardai il corridoio del primo piano, e
lentamente mi
avviai verso le scale, avvertendo la sensazione di essere un pesce fuor
d’acqua.
Lentamente mi diressi verso la cucina,
e sentii un buon odore di cibo, assieme al rumore di qualcuno che si
stava
muovendo; mi venne subito in mente mia madre, e mi affacciai,
riconoscendo
immediatamente la governante della casa, Isolde.
-Buongiorno …-
Si voltò, e il suo sorriso mi fece
sentire meglio.
-Ah, buongiorno cara! Come ti senti?-
-Meglio, grazie.-
-Siediti, siediti che ti do la
colazione.-
Mi accomodai sullo sgabello, di fronte
al grosso tavolo di legno spesso dove, con mia curiosità,
vidi una ciotola
coperta da un panno.
-Isolde, cos’è?-
-Quella? È un impasto la torta salata
che sto preparando. Deve prima lievitare.-
Mia madre, ogni tanto, aveva fatto
della cucina occidentale, ma per me rimaneva ancora un grande mistero,
come il
fatto che quella cosa dovesse “lievitare”;
oltretutto Isolde mi aveva sempre
dato l’idea di essere una parente prossima della Fata
Turchina di Cenerentola,
aveva lo stesso modo di fare.
La mia colazione era fatta di succo di
frutta, biscotti, marmellata, burro e una fetta di torta se avevo
ancora fame;
io che di solito avevo riso, miso e altri piatti salati, quella roba
dolce per
me rimaneva sempre una novità. Anche perché era
molto più “Dolce” dei nostri
dolci tradizionali.
-Genzo è già uscito?-
-Da circa un’ora, ha detto che sarebbe
tornato per cena: stamane deve passare dal medico per controllare lo
stato di
salute della gamba.-
Ah già, lui era venuto al ryokan per
guarire dal suo strappo muscolare. Sgranocchiai il mio biscotto,
ripensando
alla prima volta che l’avevo visto.
Il mio pensiero era stato “Eccolo!
Speriamo in bene …”.
Com’è strana la vita: prima
ero in un
ryokan, a Naha, con tutta la mia famiglia. Ora sono qui in Germania a
fare una
colazione a base di dolci in compagnia di una signora di mezza
età che sembrava
uscita da un libro di fiabe.
Probabilmente Kojiro avrebbe detto
“è
quello che volevi, no? Il destino è una scemenza, conta solo
quello che tu dai
per realizzare i tuoi sogni.”
E i miei sogni? Cosa sognavo una
volta?
Il softball, le Olimpiadi; e poi, con
Kojiro, una famiglia.
Non ho ottenuto l’una, e
l’altra mi è
stata portata via; in quella cucina mi sentii ancora più
spaesata, mi chiedevo
cos’avrei fatto, adesso, della mia vita. Di certo non potevo
stare con le mani
in mano; al ryokan lavoravo, ma qui, dove non conoscevo neanche troppo
bene la
lingua, mi sentii persa.
Sospirai, e mi misi in bocca un altro
biscotto.
-Tutto bene, Maki? Stai ancora male?-
Mi voltai e guardai il volto di
Isolde, sorridendole.
-No, no tranquilla.-
Poi mi ricordai della grossa macchia
di sangue nel letto.
-Isolde!-
-Si? Dimmi pure Maki.-
-Ah … mi serve …-
Accidenti, come si diceva
“lenzuolo”
in tedesco? Isolde mi guardò incuriosita, e mi sforzai di
ricordai.
-B … blatt …-
-Blatt? Ti servono delle foglie?-
Scossi la testa, maledizione! Rifletti
Maki, Genzo ti aveva detto che quella parola era simile a quella
indicata per
dire “foglia”.
-Bla
… Blätter!-
-Ah! Lenzuola.-
-Si! Mi servono lenzuola per il
letto.-
Volevo mettere le altre a lavare,
quando vidi la governante sorridermi e fare un cenno con la mano.
-Ah, lascia perdere, ci pensiamo dopo
io e Marta.-
-Ma …-
-Non ti preoccupare, può capitare
nelle tue condizioni, no? Ora rilassati e finisci la colazione.-
Annuii, e obbediente terminai il mio
pasto mattutino; ma, dentro di me, avevo il timore di non fare niente
tutto il
giorno. Per cui, appena terminato il pasto, chiesi subito a Isolde di
farmi
fare qualche lavoro, qualcosa per tenermi impegnata.
Non vi dico che espressione fece! Era
totalmente inorridita!
Però, forte della mia decisione e del
mio carattere, alla fine riuscii a convincerla a lasciarmi cambiare a
me le
lenzuola, e non solo: aiutai anche Marta, l’altra cameriera,
a sistemare casa,
e sebbene anche questa mi guardava stranita, alla fine mi divertii non
poco,
riuscendo addirittura a scambiare qualche chiacchiera con la giovane.
Da quando Genzo aveva iniziato a
parlarmi in tedesco le cose si erano complicate, e quel tipo di
esercizi mi
sarebbero serviti non poco dato che la parlata dell’uomo era
fluida e pulita,
forse troppo veloce per una come me che, a scuola, non era proprio un
gran
genio.
Quando c’era Isolde, poi, facevo come
i bambini piccoli quando imparano qualcosa a scuola: indicavo un
oggetto e
pronunciavo ad alta voce la parola tedesca, e in caso la governante mi
correggeva la pronuncia; poi, dopo averla ripetuta più
volte, cercavo di
formare una frase che comprendesse anche quell’oggetto. La
governante sorrideva
ed annuiva, a volte anche rispondendomi, e io mi sentivo più
sicura; anche
perché, onestamente, non potevo mica fare quel tipo di
esercizi con Genzo.
Ve lo immaginate che mi ascolta mentre
formule frasi da terza elementare? Rischierei di provocargli la
sindrome da
deficit di attenzione e iperattività. E con la sua
presunzione, a volte mi
domando se non ne soffra veramente …
Ad un certo punto, però, mi resi conto
che dovevo dare spazio a quella povera signora, la stavo praticamente
tartassando di domande; oltretutto, a furia di pronunciare bene, mi
faceva
anche male la gola. Silenziosamente mi alzai dalla sedia in cucina e mi
diressi
verso il grande salotto della casa.
Mamma mia, era una vera e propria
reggia! Non ero mai stata in un posto del genere.
L’unico posto che mi ricordava
qualcosa di simile era a Torino, quando ancora stavo insieme a Kojiro.
… Kojiro. Oramai è passato
più di un
anno dalla tua scomparsa, ma guarda fin dove sono arrivata: in una
grande e
splendida casa a Monaco con un’enorme libreria che mi lascia
senza fiato. E
indovina un po’ a chi appartiene questo posto? Al tuo rivale
di sempre, spesso
argomento delle nostre telefonate quando partecipavi alla Champions o
ai ritiri
della Nazionale.
So che ti sembrerà scemo, ma a volte
mi domando se il fatto di averlo seguito … e la mia scelta
di provare a restare
con lui … non lo so, ti faccia arrabbiare, o ingelosire. In
fondo si tratta di
uno dei pochi che hanno parato i tuoi tiri. Un po’ di
fastidio?
Ok, ora la smetto, so perfettamente che
questi discorsetti stupidi non ti piacciono, soprattutto se vengono da
me.
Mi avvicinai allo scaffale più vicino,
e cominciai a toccare le copertine di tutti i libri presenti:
c’era un po’ di
tutto, da enciclopedie a romanzi vari, vecchi e nuovi, piccoli e grandi
di
forma, con la copertina bella ed elegante o di carta spessa e
stropicciata. La
mia mano si fermò su quello che sembrava il più
recente, un giallo che aveva le
orecchie ai bordi delle pagine, come se in quella casa potessero
mancare
segnalibri!
Andavo avanti e indietro, leggendo i
vari titoli, la maggior parte erano inglesi o tedeschi e ci mettevo un
po’ a
tradurli, catalogandoli molto spesso come “non
letti”; mi soffermai poche
volte, notando autori giapponesi come Banana Yoshimoto o Murakami
Haruki, non
me lo aspettavo da una persona così occidentale come
Wakabayashi.
E poi vecchi 45 giri mescolati a cd di
vari artisti, molti ovviamente sconosciuti a me, riconoscevo solo nomi
famosi
che ho sentito alla televisione di sfuggita; ma la maggior parte della
musica
che vidi, per quanto mi riguardava, mi era del tutto estranea.
Ad un tratto, però, riconobbi un nome:
Frank Sinatra. Ah, non era quello che cantava “Fly me to the
Moon”? Ma si,
quella canzone piaceva tantissimo ad una mia vecchia compagna di
softball, la
cantava sempre quando facevamo la doccia, a squarciagola e facendoci
ridere con
il suo pessimo inglese.
Presi il cd, controllai le canzoni sul
retro, ma quella che mi ricordavo non c’era; in compenso
riconobbi “Singing In
The Rain”, e impaziente cercai il lettore cd, posto proprio
al centro della
libreria, le casse erano dentro l’enorme mobile, in alto; per
quanto fosse
grosso e scuro, riconobbi più o meno i tasti
dell’accensione, dell’apertura e
chiusura del lettore e dell’avvio del cd, abbassando il
volume al massimo,
temendo che potesse spararsi in tutta la casa, Tomoko aveva la brutta
abitudine
di tenere lo stereo troppo alto.
Lo alzai pian piano, e la voce
dell’uomo mi raggiunse le orecchie fino alla base del collo,
provocandomi un
brivido emozionato mentre aumentavo ancora il volume, sentendo quella
canzone
familiare e restando immobile davanti al lettore. L’ascoltai
dall’inizio alla fine,
fino all’ultima nota.
-… padroncina, è pronto il
pranzo.-
Ma come, di già?! Davvero ero riuscita
a far passare tutta la mattinata?! Stavo per spegnere il lettore, ma mi
fermai
all’ultimo: ma si, un po’ di musica in quella casa
non avrebbe fatto male.
Condivisi il pasto non solo con
Isolde, ma anche con l’autista Friedrich, e le loro
chiacchiere in tedesco mi
aiutarono ulteriormente con lo studio della lingua, portandomi anche a
fermarli
e a fare loro qualche domanda, soprattutto riguardo ai verbi.
-Che vuol dire be … begleite ich?-
-Significa che va assieme alla
nipote.-
-Ah! L’accompagna!-
Isolde annuì, riprendendo poi la
conversazione come se niente fosse successo. Io, da parte mia, mi
sentivo come
da bambina, quando la nonna mi teneva accanto mentre chiacchierava con
mia
madre sorseggiando the mentre io sgranocchiavo i biscotti secchi:
ascoltare e
non capire la conversazione, ma farne parte, mi divertiva.
Quando, poi, i due signori tornarono
ai loro compiti, io mi diressi nuovamente in libreria, e immediatamente
capii
che il cd di Frank (gli do anche del tu) era finito, e che una donna
stava
cantando; frugai attorno al lettore, e trovai la custodia vuota di
Barbra
Streisand. Stava cantando “Send In The Clowns”.
Mi sentii trasportata dalla canzone, e
senza starci a pensare presi quello stesso libro giallo con le orecchie
sulle
pagine, accomodandomi sul grande divano (era tutto grande lì
dentro, mi sentivo
così piccola!) e iniziando a leggere molto lentamente: il
testo era in tedesco.
Lo ammetto, non lessi granché, ma ogni
volta che capivo una frase avevo sempre meno voglia di smettere di
leggere, al
punto che m’immersi pienamente nella mia
“lettura”, se così si poteva
chiamarla.
E per questo che non mi resi conto del
tempo che passava, della porta che si apriva, delle voci che parlavano
fra
loro, né di Wakabayashi che entrava nel salone; mi accorsi
di lui solo nel
momento in cui mi baciò i capelli, com’era sempre
solito fare.
Alzai di scatto la testa, e quando
vidi la sua faccia rimasi ancora stupita, e ci misi un momento prima di
riuscire a biascicare un saluto.
-… ciao.-
-Buonasera. Ti piace?-
Indicò il libro con il cenno del capo,
e io me lo girai tra le mani, tirando fuori la pagina con
l’orecchia.
-Insomma. Tu che ne pensi?-
-A dire la verità non l’ho mai
finito.-
-Però non mi aspettavo che lo
trattassi male.-
-Lo ammetto, quella volta non mi
andava di alzarmi in piedi.-
-E di quanto tempo fa stiamo
parlando?-
-Hmm … direi prima di venire al
ryokan.-
Sorrisi divertita, e a quel punto
decisi di smuovermi dalla mia posizione, alzandomi in piedi e
riuscendo, in
questo modo, a vedere completamente Wakabayashi: come sempre non me
l’aspettavo
di vederlo così elegante, più che un calciatore
sembrava un manager appena
tornato dall’ufficio.
-Beh? Che c’è?-
-… sei andato davvero ad allenarti?-
-È il mio lavoro, no?-
-Sicuro che in realtà non mi nascondi
che lavori come ragioniere?-
-Ok, lo ammetto: in realtà nascondo la
mia vera identità sotto i panni del SGGK, il portiere della
squadra più forte
della Germania. La verità è che sono un comune
banchiere.-
-Ah-ha, spiritoso. No sul serio
Wakabayashi …-
-Genzo.-
Ah, giusto, lui voleva che lo
chiamassi per nome. Però per me non era facilissimo: un
po’ perché sono sempre
stata abituata a chiamare in modo rispettoso gli altri, ma onestamente
anche
perché le uniche persone a cui mi rivolgevo chiamandole per
nome erano i miei
parenti, i miei più cari amici … e mio marito.
Pietà Wakabayashi! Non lo volevo fare
per cattiveria.
-Ge … Genzo, mi sembri uno appena
tornato dall’ufficio, un po’ scompigliato ma di
certo non sudato e puzzolente!-
-Ma vuoi che torni a casa che sembro
un camionista?!-
-No! Ma …-
Lui mi guardò stralunato, e io da
parte mia non avevo alcuna scusante se non quella della burla, tanto
che mi
misi a ridere per l’assurdità di quella
conversazione e per l’imbarazzo.
Fortunatamente lui sorrise a sua volta, togliendosi la giacca e
rivelandomi la
camicia; aveva il busto così ampio, eppure la stoffa gli
calzava perfettamente.
-Piuttosto, com’è andata la
giornata?
Sei stata ancora male?-
Mi piaceva che si preoccupasse per me.
-No, anzi ho dato una mano con le
faccende.-
-… ma come, ti porto via dal ryokan
per trattarti da signora e tu mi fai Aschenputtel?!-
-Mi sembrava giusto dopo … dopo quello
che ho combinato stanotte.-
Ah, che imbarazzo ricordarlo!
-Ma finiscila!-
Mi diede un leggero pugno sulla testa,
e poi cominciò a scompigliarmi i capelli, una cosa che mi
faceva impazzire!
-Ah no!-
-Ascoltami bene: quello che è successo
è dovuto al fatto che hai un problema fisico, va bene? Non
è colpa tua se è
successo, perciò non assumerti responsabilità e
cazzate simili, sono stato
chiaro?!-
Non avrebbe ammesso repliche; anche
Kojiro aveva lo stesso atteggiamento, ma mentre lui riusciva a
smontarmi ogni
scusante, Wakabayashi non voleva neanche sentirle, ritenendole inutili.
Da
questo punto di vista, la sua presunzione mi era quasi di conforto.
Io annuii, non avevo altra scelta in
quel caso; lui sospirò, lasciando andare la mia testa,
accarezzandomi subito
dopo la guancia. Lo fece in un modo così dolce da farmi
alzare la testa e
guardarlo negl’occhi. E gli sorrisi.
-Com’è andata la visita
medica?-
-Ah, bene: posso riprendere ad
allenarmi seriamente!-
-Perché, fino adesso che hai fatto?-
-Spiritosa.-
-Hai anche giocato un’amichevole, la
visita medica non ti è servita a molto, no?-
Scossi la testa divertita. Era uno
sportivo con la passione nelle vene, era ovvio che avrebbe ricominciato
ad
allenarsi anche senza il parere medico.
Continuammo a chiacchierare in salotto
fino a quando Isolde non ci chiamò per la cena; ma prima che
potessi muovermi,
l’uomo mi bloccò sul divano, infilandosi una mano
in tasca e tirandone fuori un
piccolo involucro di carta color argento.
Genzo Wakabayashi che mi faceva un
regalo?! L’orso SGGK che mi porgeva quel …
pacchettino?!
-E questo?!-
-Aprilo dai.-
Lo disse apparentemente infastidito,
ma quando gli vidi la faccia notai subito che era imbarazzato, e
sorrisi
divertita, prendendo lentamente l’involucro e aprendo
altrettanta lentezza,
facendogli saltare i nervi.
-Eddai sbrigati!-
-Con calma, con calma …-
In realtà morivo dalla voglia di
vedere cos’era, ma vederlo così imbarazzato e
impaziente mi divertiva da
morire!
Alla fine, però, aprii il pacchetto.
-Ah …-
Non avevo portato effettivamente
niente del ryokan, solo i miei vestiti e qualche oggetto a me caro;
quando vidi
il fermaglio per capelli con sopra tre piccoli fiori, pensai
immediatamente al
mio Furisode e a tutti i miei kimono lasciati alla locanda,
probabilmente li
avrebbero sistemati in modo che li avrebbe potuti indossare Tomoko.
Presi il fermaglio, era piccolo ma mi
sorprese così tanto da lasciarmi senza parole; sapevo che
Wakabayashi era
ancora davanti a me e che si aspettava un commento, ma proprio non
sapevo cosa
dire, pertanto mi limitai a mettermi il fermaglio tra i capelli,
mostrandolo.
-Come sto?-
Lui non mi rispose, e io sorrisi
contenta: meno male che lui era imbarazzato quanto me!
-Grazie, mi piace tantissimo.-
Lui annuì, e fece per andare verso la
cucina a cenare, quando lo fermai all’ultimo momento
prendendogli il polso e
alzandomi sulle punte. (Quell’uomo è veramente
alto!)
Non … non facevo spesso una cosa del
genere a Kojiro, perché non ci ero abituata. Ma sapevo che
era la cosa giusta
da fare in quel caso, per tanto presi un profondo respiro e gli baciai
la
guancia; dopo, sono sicura, ero viola dall’imbarazzo, e
praticamente mi
precipitai in cucina per mangiare, confidando nella capacità
di Isolde di farci
passare il rossore.
Mi tolsi il fermaglio solo quando
andai a dormire, e lo guardai in silenzio mentre mi prendevo la mia
medicina,
sorridendo come una scema.
**
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Capitolo 3 *** Training ***
II:
Training
(allenamento)
Per la settimana successiva, la
situazione non cambiò molto: Wakabayashi andava ad
allenarsi, e io rimanevo in
casa.
Se prima ero intrappolata nel ryokan,
adesso ero intrappolata in mura di mattoni tedesche! Serviva poco il
mio aiuto
nelle faccende di casa, e i libri che prendevo in mano sistematicamente
non li
finivo, oppure non riuscivo a proseguire nella lettura della lingua.
In parole povere, mi annoiavo da
morire!
Anche per questo motivo, quella sera,
chiesi a Wakabayashi com’erano andati gli allenamenti con
maggiore interesse; ma
lui, come sempre, non mi disse molto. Tutto si poteva dire di
quell’uomo,
tranne che fosse esplicativo.
E a quel punto, quando non riuscivo
neanche a ricevere notizie dal mondo esterno, mi irritai non poco.
-Tutto qui?!-
-Beh, non c’è molto da dire.-
-Magari sei tu che non vuoi dirmi
niente.-
Lui non mi rispose, ma mi guardò con
il suo solito cipiglio infastidito. Ah, quando faceva così
mi faceva
innervosire ulteriormente! Burbero e ombroso orso che non era altro!
-A questo punto, se tu non vuoi dirmi
niente, verrò io a vedere i tuoi allenamenti.-
Il cipiglio severo scomparve in un
espressione sorpresa, e il cibo che aveva in bocca quasi lo
sputò o, peggio,
gli andò di traverso; quella reazione mi riempì
di soddisfazione, poteva fare
l’arcigno quanto gli pareva, ma sapeva bene che io non mi
piegavo ai suoi
sbalzi di umore.
-Tu vuoi cosa?-
-Vedere gli allenamenti. Perché? Ti da
fastidio?-
-Si. Non voglio che tu venga.-
-Eh?! E perché mai?-
-Perché qui non siamo al ryokan,
pacifico e lontano dal mondo: qui siamo quasi in pieno centro a Monaco,
sotto
gli occhi di tutti.-
-E allora? Anche Kojiro veniva spesso
seguito dai giornalisti, e ci hanno addirittura fotografato alcune
volte.-
-Ma qui la situazione è diversa.-
-Perché è diversa?-
-Perché qui non siamo a Torino, e tu
non sei mia moglie.-
-E allora?-
-E allora io non sono Hyuga!-
Rimasi impressionata nel sentirlo
alzare la voce, ma al tempo stesso mi arrabbiava il fatto che fosse
così
evasivo nelle sue risposte: mi spiegasse perché non potevo
farmi vedere! Come
se non ci fossi abituata!
Tuttavia, quando stavo per ribattere
ancora una volta, notai che il suo volto aveva un’aria di
sofferenza che bloccò
le mie parole.
In pochi attimi, il silenzio cadde in
tavola: non avevo più voglia né di chiacchierare
né di discutere con quell’uomo,
volevo solo finire il mio pasto.
Quelli erano i momenti in cui sentivo
maggiormente la fatica di quel viaggio e di quell’impresa;
avrei voluto,
paradossalmente, vedere il volto di Wakabayashi e sentire quella
sicurezza che
di solito avevo quando chiacchieravo o scherzavo con lui. Invece fissai
insistentemente il mio pezzo di carne, e continuai a mangiare.
Quando anche l’ultimo boccone non era
più nel piatto mi alzai in piedi, e cercai di sorridere a
Isolde per
rassicurarla, ma la vecchia domestica sembrava non essere turbata di
quella
situazione, anzi mi ricambiò il sorriso con la sua solita
tranquillità. Perché?
Era abituata a questo? Allora litigavano spesso in quella casa? E con
chi
litigava Wakabayashi, se Isolde era sempre così pacifica?
Mi allontanai dalla cucina con la
convinzione che dovevo togliermi immediatamente quelle domande dalla
mia testa.
Ma quanto ero stupida! Era ovvio che
l’uomo avesse frequentato altre donne: aveva
trent’anni e poteva fare quello
che voleva della sua vita.
Qui però si trattava di un carcerato
che agognava la sua ora d’aria, e io non ero una prigioniera
in quella casa.
Se non potevo vedere Wakabayashi
agl’allenamenti, potevo sempre andare in giro per Monaco: il
mio tedesco era
migliorato abbastanza per permettermi di andare a zonzo per il centro
senza
qualcuno che mi facesse da balia …
-Maki!-
Mi voltai a guardarlo, e mi resi
conto, mentre incrociavo lo sguardo, che ci ero rimasta male proprio
come un
bambino, e che la mia libertà non dipendeva certo dal suo
umore; rimasi ferma
sul mio scalino, e lui cominciò a raggiungermi.
-Senti, mi dispiace di essermi
alterato in quel modo; è solo che io non sono uno stinco di
santo, lo sappiamo
perfettamente tutti e due, e i media … diciamo che ne hanno
sempre
approfittato.-
Beh, si, da lui me l’aspettavo.
-Ma a me non m’interessa quello che
dicono su di te.-
-Lo so, ma il problema è che non si
limiteranno a dire cose “poco carine” al
sottoscritto; cercheranno anche di
sapere di te, e chissà che assurde favole
s’inventeranno.-
Stavo per dirgli “ e chi se ne
frega”,
con il mio solito modo di fare, quando mi bloccai e mi resi conto che,
se
ricominciavo a pestare i piedi come prima, non sarei andata da nessuna
parte, e
incrociai le braccia serrando la bocca mentre Wakabayashi, oramai, era
arrivato
davanti a me, lo scalino più basso ci permetteva di
guardarci dritti
negl’occhi.
-Non voglio che tu venga semplicemente
perché non voglio che la stampa scandalistica approfitti di
te.-
Non m’interessava: volevo solo uscire
da lì e passare una giornata interessante. Non gli risposi,
ma continuai a
guardarlo negl’occhi, tenendo le braccia strette al corpo;
lui sbuffò e si mise
le mani sui fianchi.
-Ma a te questo non t’interessa,
giusto?-
-Io non sono una prigioniera.-
-E non lo sei di certo!-
-Sarà, ma dalle tue parole sembra che
non possa uscire di casa!-
-Certo che puoi uscire! Solo che non
dobbiamo farci vedere insieme.-
E lì mi venne il colpo di genio.
-E chi ti ha detto che dobbiamo per forza
andare al tuo allenamento insieme?-
Mi guardò stralunato, il mio piano
aveva preso forma nella testa. Quando voglio so essere un genio!
-Tu vai ad allenarti, e io verrò
più
tardi per i fatti miei; nessuno potrà certo dire che sono
tua conoscente, dato
che siete più di undici uomini dietro un pallone!-
A quel punto non saprei che
descrivervi che faccia fece: da una parte sembrava impressionato da
quel lampo
di genio, dall’altra sembrava infastidito! Storse la bocca, e
fece
un’espressione tipica di un bambino in procinto di fare i
capricci.
Ah no, Wakabayashi capriccioso lo
sopporto poco, non glielo lascerò certo fare!
-Ammettilo, è una buona idea.-
-Si, lo è, però …-
-Però?!-
C’era un però?! Ma come!
È un’idea
geniale! Non è possibile che abbia delle contraddizioni!
Lo guardai storto, stavolta mettendo
le mani sui fianchi; lui sviò lo sguardo, ma se pensava di
andarsene si
sbagliava di grosso! Adesso gli avrei fatto da sbarramento fino a
quando non mi
avrebbe dato una spiegazione a quel
“però”.
-Però?-
Incrociai i suoi occhi scuri, e mi
sorpresi che, effettivamente, aveva un’espressione incerta
sulla faccia; tutto
potevo dire del SGGK, ma non di certo che fosse un tipo indeciso!
-No, niente, hai ragione tu: è una
buona idea.-
Sospirò con aria rassegnata, e mi
passò una mano tra i capelli, spettinandomeli mentre io ero
assolutamente …
insoddisfatta; ma come, prima faceva tutta quella scena, e ora si
arrendeva
così?!
-Allora domani chiedo a Friedrich di
accompagnarti vicino al campo dove mi alleno.
Quando entri dì che sei una mia conoscente, non
dovrebbero farti
storie.-
-… le tue conoscenze hanno
l’esclusiva
di vederti all’allenamento?-
-Beh, sono uno a cui piace essere
ammirato.-
E sorrise con la sua solita aria strafottente,
ma lo ricambiai con fastidio, vedendolo salire le scale lasciandomi
indietro e
assolutamente confusa: possibile che quel cambio d’idea fosse
dovuto a qualcosa
che avevo fatto di sbagliato? E perché non me lo diceva in
faccia?! Genzo
Wakabayashi era di sicuro uno degl’uomini più
chiusi che io avessi mai
conosciuto, una cassaforte sarebbe stata più facile da
aprire!
-Wa …-
Ah, no, odiava farsi chiamare in quel
modo. Meglio non aumentare ulteriormente il suo fastidio.
-Genzo!-
Aveva raggiunto la cima delle scale, e
lo raggiunsi saltando i gradini due alla volta, afferrandogli
l’avambraccio e
guardandolo dritto in faccia.
-Tutto bene?-
-Si, certo.-
-Non mi raccontare balle.-
Lo vedevo chiaramente quando mi
raccontava una bugia: non si vedeva fisicamente perché era
un ottimo attore, ma
lo avvertivo in qualcosa. Chiamatelo sesto senso, ma in quel momento
quell’uomo
mi stava mentendo, e strinsi con maggiore decisione la mano sul
braccio,
ripetendogli in silenzio la domanda.
Lui sbuffò, e con il braccio che stavo
stringendo mi prese per la vita, portandomi vicino a lui; sentii
chiaramente il
suo petto vicinissimo al mio, e per qualche istante
m’irrigidii, considerandolo
comunque un corpo estraneo al mio.
Mi accarezzò nuovamente, stavolta la
mano scese sulla guancia, e nuovamente rividi i suoi occhi turbati.
Oh Kami ma che c’è?
Perché fa così?!
-E che … vorrei tenerti lontana
dagl’occhi di tutti il più possibile,
perché … so come vanno a finire queste
cose, e credimi: questa volta non voglio fare cazzate con te.-
Ah cavolo, quando dice queste cose mi
fa venire il groppo allo stomaco! Soprattutto poi se mi guarda in quel
modo! Da
una parte mi sento talmente tanto imbarazzata che vorrei sprofondare
per terra,
e dall’altra sono così emozionata che lo
abbraccerei. Controllo Maki,
controllo!
Ma come faccio a calmarmi se lui,
oltretutto, mi poggiava la sua fronte sulla mia? Ah, era
così vicino il suo
volto che ne sentivo chiaramente l’odore.
Avevo le mani sudate, avevo anche lasciato
andare il suo braccio e ora non sapevo proprio dove appoggiarmi, mi
pareva che
ogni parte del suo corpo mi avrebbe fatto avere “strane
reazioni”.
-Ho combinato … parecchi casini qui,
con diverse persone, e la stampa ci ha sguazzato dentro … e
di rimando ammetto
che alcune volte l’ho fatto apposta.-
-Davvero? Non me lo immaginavo da te.-
Grazie al cielo, la mia ironia non era
morta!
Lui sorriso amaro, beccandosi in pieno
la mia stoccata, e io alla fine poggiai le mani sul suo petto,
sentendolo ampio
sotto le dita; aveva una felpa addosso, ma mi sembrò quasi
di sentire la sua
pelle.
-Touché. Ma ora è diverso.-
Ah, che frase fatta! Sentii
l’atmosfera di qualche momento prima smorzarsi, e riuscii ad
allontanarmi di
qualche passo, deviando il mio sguardo con evidente diffidenza.
Ma che si aspettava, che ci credessi?
Io ricordavo bene i primi giorni del ryokan.
Lui però mi tenne con forza,
impedendomi di staccarmi nuovamente, e m’impose di guardarlo
in faccia.
-È diverso, perché tu sei
importante
per me.-
Oh cazzo, e me lo diceva così?! Senza
la minima incertezza?! Va bene che lui era stato capace di dirmi che mi
amava
ad alta voce (d’accordo, eravamo soli in una spiaggia,
però …), ma a cose del
genere io non ci ero abituata! Kojiro mica mi diceva cose del genere
tutti i
giorni!
Non ce n’era effettivo bisogno
… non
ti distrarre!! Wakabayashi, Wakabayashi!
-Se potessi, ti terrei dentro una
campana di vetro.-
-… la sfonderei a calci.-
-Si, ne saresti capace.-
Lui sorrise, e mi contagiò. Continuava
ad accarezzarmi, con il pollice, la pelle della guancia, scendendo poi
sul
collo; era così calda e grande quella mano, e scendendo sul
mio collo mi faceva
venire i brividi. Quelle erano carezze nuove per me, totalmente nuove e
inaspettate: attraverso quel contatto sentivo, chiaramente, la ruvida
tenerezza
dell’uomo.
Il suo sguardo, però, era ancora incerto.
Ti prego, fidati di me.
-Starò attenta, promesso.-
Sbuffò, ma mi abbracciò e mi
strinse a
sé, baciandomi i capelli.
-Lo so. Lo so.-
Ora sentiva chiaramente la consistenza
del petto sulla mia guancia: era veramente ampio, e soprattutto tonico;
passai
le braccia sulla sua schiena, e anche lì la sentii estesa
sotto le dita, tanto
che mi aggrappai alle sue spalle per non perdermici.
In quei momenti il cuore accelerò,
mano a mano che sentivo il calore e riconoscevo l’odore
dell’uomo; avevo quasi
la sensazione che il muscolo cardiaco mi sarebbe esploso, e per tanto
mi
strinsi maggiormente a lui.
Wakabayashi rispose, e sentii
chiaramente le sue mani scivolare lungo la mia schiena, per poi
risalire sulle
mie spalle, facendo una leggera pressione per chiedermi di sciogliere
l’abbraccio.
Lo so cosa voleva fare. Mi sentii
avvampare.
Lo guardai negl’occhi, emozionata, e
poi inevitabilmente i miei occhi scesero sulle sue labbra.
Quando mi baciava, lo faceva sempre
con estrema cautela, quasi temesse di rompermi; quella lentezza, a me,
faceva
impazzire. Mi sentivo come un petardo quando la sua bocca si univa,
piano, alla
mia. Anche in quel momento, quando ci baciammo, mi sentii sopraffare, e
mi
aggrappai ulteriormente alla sua schiena. Lui, in risposta,
salì con le mani
sul mio volto, sembrava così piccolo in confronto a quei
palmi.
Fece ulteriore pressione, e mi sentii
piegare la testa all’indietro, la sua bocca si mosse leggera
sulla mia;
socchiusi gli occhi, e non vi dico che colpo mi venne quando vidi che
le sue iridi
stavano osservando il mio volto, e probabilmente le mie reazione.
Imbarazzante!
La sua bocca si mosse ancora, e io
potei solo rispondergli, facendomi travolgere da quei movimenti, fino a
sentire
la sua lingua. Oh cavolo, la lingua!
Mi sentii tremendamente incerta, e
riaprii gli occhi. Lui, alla mia reazione, si staccò e mi
guardò con ansia.
Ero senza fiato, e con le guance in
fiamme, non credevo che saremmo arrivati fino a quel punto, a quel
contatto nel
bacio. Mi sentii bloccata, e la mia mente, bastarda, mi
mostrò il volto di
Kojiro, e il ricordo di come lui mi baciasse e toccasse: era
completamente
diverso da Wakabayashi.
Lui, intanto, sciolse l’ansia dello
sguardo, e mi baciò una tempia, facendomi rabbrividire
emozionata, prima di
staccarsi lentamente da me, tenendomi solo la mano fino
all’ultimo istante.
-Buonanotte, ci vediamo domani.-
E si allontanò, lasciandomi
completamente stravolta.
Aaaaah! Ma perché mi ero bloccata in
quel modo?! In fondo … in fondo, io volevo essere baciata da
lui.
Dormii non molto bene quella notte,
ero insoddisfatta e stizzita da me stessa e dal mio atteggiamento,
oltre che ad
essere imbarazzata al ricordo del nostro bacio; per di più
quella carogna della
mia testa me lo ripropose nella notte più volte di fila, e
non contenta me lo
mostrò anche in altre prospettive, come se ci fosse stato
del pubblico ad
assistervi!
Riposai solo perché, alla fine, ero
stravolta.
E la mattina dopo mi svegliai più
stanca di quando ero andata a dormire. Quello che mi fece alzare dal
letto era il
pensiero che, quel giorno, andavo a vedere Wakabayashi allenarsi.
Il fatto, di per sé, non era
entusiasmante, non era la prima volta che andavo ad assistere a degli
allenamenti di calcio, era quasi una routine: prima c’era
stato Kojiro, e lì ho
cominciato ad apprezzare il calcio, poi c’era stato Jin, che
ogni tanto andavo
a prendere agl’allenamenti quand’era più
piccolo. E adesso toccava a Genzo.
Posso dire con certezza che il primo,
vero allenamento che vidi, fu quello di Kojiro in montagna, quando
stava
preparando il suo “Raiju shot”: ancora mi ricordo
bene che ero salita perché
ero preoccupata per lui, non lo vedevo più sulla spiaggia ad
allenarsi, e solo
Takeshi sapeva dov’era finito.
La prima cosa che vidi, quando trovai
la casupola, erano le bottiglie di coca-cola, all’epoca era
malato di quella
bevanda!
Poi delle scarpe distrutte. Che
ridere: mi ricordo che, quando ci siamo sposati, come regalo di nozze e
per
scherzare, gli regalai un paio di scarpe Nike rinforzate, affermando
che quelle
non sarebbe mai riuscite a distruggerle.
Alla fine lo trovai steso a terra, più
morto che vivo, che si rialzava e tirava un calcio contro il grosso
tronco di
un albero, per sfondarlo. Ammetto che, inizialmente, pensai che fosse
impazzito, ma poi guardandolo mi resi conto che, tutto quel lavoro, lo
stava
facendo con vero entusiasmo e passione, e mi contagiò non
poco.
Ripensando al giorno della mia
sconfitta, alla partita del mio liceo, cercai degl’abiti
comodi da indossare,
voltandomi a guardare il mio riflesso allo specchio.
Aveva cominciato a piovere verso la
fine, come a segnare la nostra disfatta. Quello, credo, era il primo
temporale
della stagione; e con quel temporale arrivò Kojiro.
Oddio, Maki! Ma che pensiero
sdolcinato che hai fatto! Eh ragazza mia, perdi colpi!
Ad attendermi Friedrich, che come
stabilito mi portò al campo d’allenamento di
Wakabayashi, facendomi fare per
l’occasione un rapido giro panoramico di Monaco.
Ah, non l’avevo detto? Prima del mio
arrivo, Wakabayashi aveva firmato un contratto che lo ingaggiava nel
Bayern
Monaco, e si era trasferito nella casa di famiglia. Così mi
aveva detto Isolde,
e sinceramente non chiesi ulteriori informazioni sul parentado
dell’uomo, se lo
voleva mi avrebbe detto di più lui stesso.
Comunque, nonostante il freddo di metà
Ottobre, la giornata era limpida, e per la prima volta mi resi conto
che Monaco
era splendida: rimasta nel mio “maniero”, infatti,
non avevo avuto modo di
guardarla, e mentre passavamo accanto al profilo di una grande chiesa
cristiana, pensai che nei giorni successivi avrei fatto la turista, e
me la
sarei vista TUTTA.
Avevo fatto una cosa simile a Torino,
con un inglese stentato ma tanta curiosità.
Le città europee mi avevano sempre
affascinato, proprio perché erano così diverse
esteticamente a quelle
giapponesi: sembravano delle belle signore, avanti con
l’età e un po’ forti di
fisico, mentre le mie città nostrane erano per la maggior
parte delle donne
longilinee, vestite con kimono o con degl’abiti super
appariscenti.
Il campo d’allenamento di Wakabayashi
era in una zona periferica della città, circondata da alberi
e verde, e non
troppo distante c’erano altri centri sportivi, riconobbi i
pali di un campo da
rugby alla mia sinistra; la prima cosa che mi colpì
però, quando scesi dalla
macchina, fu il freddo! Oddio, gelavo!
-Dank, Friedrich!-
L’uomo mi fece un cenno della testa e
sorrise, e io lo guardai andarsene, prima di cercare, per sicurezza, la
macchina di Wakabayashi, l’avevo vista una volta sola ma era
così … di bella
presenza, che la riconobbi subito, faceva sfigurare quelle Mini
lì accanto.
Io non sono un genio in fatto di
macchine, ma ritengo che una con su scritto sopra
“Audi” sia una macchina
alquanto costosa, giusto? E per quanto fosse scura e, lo ammetto,
elegante,
appena la vidi subito immaginai il sorriso strafottente di Wakabayashi,
e
sorrisi.
Seguii alla lettera le istruzioni che
mi aveva dato Genzo, e sulle prime ci fu diffidenza, seguita da alcuni
cenni di
diniego; poi però, una signorina che lavorava lì
mi sorrise, e mi guidò verso
il campo d’allenamento, un corridoio collegava la palestra al
campo, e mentre
lo percorrevo sentii distintamente il suono di un fischio, e una serie
di
richiami in tedesco.
Uscii alla luce del sole, e mi
emozionai nel vedere i giocatori in campo ad allenarsi.
Non perché fosse la mia squadra
preferita, ma semplicemente perché stavo assistendo
all’allenamento di
professionisti; la signorina m’indicò degli spalti
coperti, e poi mi lasciò
sola. Silenziosamente, cercando di non farmi notare, salii sulle
gradinate, sedendomi
su una delle più vicine, al di sopra della rete che la
separava dal campo da
calcio.
E, come prima cosa, notai che non
erano tutti biondi come mi aspettavo, anzi: c’era anche un
giocatore di colore!
Poi rivolsi lo sguardo alla porta, e
riconobbi subito il berretto rosso di Wakbayashi, aveva addosso
un’uniforme
scura ed era pronto per parare.
Lo guardai attentamente, notando come
le ginocchia fossero piegate e le braccia aperte, ad occupare
più spazio
possibile; proprio in quel momento, uno dei giocatori gli
tirò contro una
cannonata da dentro l’area di rigore, e Wakabayashi si
buttò lateralmente a
prenderlo, rilanciandolo subito in gioco, tornando al suo posto.
Lo avevo già visto parare, quando mio
“fratello” Jin gli aveva lanciato la sfida, ma
questa era la prima volta che lo
vedevo allenarsi seriamente: i suoi compagni di squadra gli lanciavano
tiri
dalle posizioni più disparate, e lui aveva solo il tempo di
rialzarsi e tornare
al suo posto, arrivando a rimandare un tiro semplicemente sferrandogli
un
tremendo cazzotto. Mi ritrovai, più di una volta, a
trattenere il fiato per
lui.
Il più feroce di quei giocatori era,
senza dubbio, il loro capitano, il biondo Karl Schneider che tirava
delle
cannonate pazzesche, ogni volta che aveva il pallone in mano ed era
davanti
alla porta pensavo al peggio.
Wakabayashi, però, era
imperscrutabile: qualsiasi tiro gli arrivasse riusciva sempre, se non a
parlarlo, quantomeno a deviarlo, compiendo balzi anche molto ampi,
atterrando
con una capriola e rimettendosi velocemente in piedi.
Ah, questa la devo raccontare!
All’improvviso uno dei suoi compagni
di squadra tirò una cannonata, ma con mia sorpresa
Wakabayashi rimase fermo al
suo posto, e per qualche istante pensai che si fosse sbagliato; invece
il
pallone aveva una strana traiettoria, e alzandosi colpì il
palo, tornando
indietro mentre il portiere si metteva dritto con la schiena,
sistemandosi i
guanti quasi come segno di provocazione al compagno di squadra.
-Parola mia, Genzo, la dea della
fortuna ti ama!-
-Dev’essere il suo fascino orientale!-
E sentii alcuni compagnia mettersi a
ridere mentre io prendevo fiato, guardandoli e cercando di capire chi
fossero,
se le loro facce mi erano familiari.
In fondo mio marito è stato un
calciatore, e qualche volta mi raccontava dei suoi avversari!
-Qualcosa di caldo?-
Mi voltai sorpresa, e un signore
avanti con l’età mi porse un bicchiere di plastica
con dentro quello che sembrava
essere caffè.
Lo accettai stupita, non l’avevo visto
arrivare, troppo concentrata a guardare quegli allenamenti.
-Grazie.-
-Posso?-
-Ah, certo, prego.-
E si accomodò accanto a me mentre io
soffiavo sul bicchiere, notando che non c’era odore di
caffè ma cioccolata
calda. Meglio, a me il caffè non mi ha mai fatto impazzire.
-Mi sono permessa di offrirle il
cioccolato perché il nostro caffè lascia a
desiderare.-
-Ah, la ringrazio … signor …-
-Franz, mi chiami pure Franz.-
-Io sono Maki, molto piacere.-
Aveva la fronte alta e grandi occhiali
da sole che gli coprivano gl’occhi. Aveva un’aria
severa, da vero tedesco,
eppure sembrava divertirsi molto nel vedere la squadra allenarsi.
-Lei è una parente di un nostro
giocatore?-
-Ah, sono … una conoscente di
Wakabayashi.-
-Capisco, sa è la prima volta che
incontro una sua conoscente: non è un tipo molto aperto, se
vogliamo metterla
in questo modo.-
-Ah, non si preoccupi: io spesso lo
chiamo
Bär.-
E
l’uomo sorrise divertito a quel nomignolo, tornando a
guardare i giocatori
assieme a me.
Vi
dirò, sorseggiare la cioccolata assistendo
all’allenamento si rivelò molto piacevole,
e mi scaldò assieme alla presenza del signore, ogni tanto si
permetteva di
farmi qualche domanda, dandomi la possibilità di migliorare
il mio misero
tedesco.
-Quindi
è da poco qui a Monaco?-
-Due-tre
mesi.-
-Lei
già conosceva il tedesco?-
-No,
anzi sono un disastro. Ma dal mio arrivo l’ho parlato, e pian
piano ci sto
prendendo … abitudine.-
Non
mi ricordavo la parole tedesca per “confidenza”, ma
mi feci comprendere dal
signore.
-Allora
le posso dire che è molto brava.-
-Grazie!-
Che
bello! Un tedesco che mi faceva i complimenti per la mia parlata! Che
soddisfazione!
In
fondo era merito di Wakabyashi: se non si fosse intestardito in quel
modo a
parlarmi solo in tedesco, probabilmente, a quest’ora con il
signor Franz starei
parlando con i segni!
-E
da quanto tempo conosce Genzo?-
-Ah,
lui … era un amico di mio marito fin da quando erano
piccoli.-
-Suo
marito?-
-Kojiro
Hyuga.-
Per
la prima volta vidi il signor Franz sorpreso, e io mi sentii in
imbarazzo;
subito dopo lo sguardo dell’uomo si adombrò, di
quel periodo non ricordo molto
ma so per certo che quella notizia aveva fatto il giro del mondo nei
giornali
sportivi.
-Sincere
condoglianze, avevo sentito dire che era sposato, ma non mi sarei mai
aspettato
di conoscerla.-
Io
mi limitai a fargli un cenno del capo, sentendo la situazione farsi
difficile,
forse non avrei dovuto dirlo …
-Ho
visto suo marito dal vivo in una partita proprio qui a Monaco, e sono
rimasto
molto colpito dalle sue capacità fisiche.-
-Si,
in effetti mio marito, in campo, era simile ad un bulldozer.-
Quella
parola l’avrei riciclata molto spesso, era una delle poche
che, dovunque io
andassi, si capiva sempre!
Il
signor Franz sorrise, ma scosse il capo, gesticolando per farsi
comprendere
meglio.
-Quello
che voglio dire … è che riusciva a trascinare
tutti i suoi compagni, e quando
tirava, beh, dimostrava di essere davvero il più grande
cannoniere che avessi
mai visto.-
Sentito
Kojiro? Non sei orgoglioso? Io l’ho sempre detto che saresti
stato ricordato
anche dopo che avresti smesso di giocare. Peccato, però, che
io dicendo questo
pensavo al tuo ritiro, non certo alla tua morte.
Dovevo
distrarmi dai quei pensieri.
-Anche
lei giocava, giusto? In che ruolo era?-
-Tendenzialmente
ero difensore.-
-E
per quanto tempo ha giocato?-
-Ah,
fin quando le gambe mi hanno retto! Effettivamente smisi di giocare
nell’84, e
feci l’allenatore per circa sei anni.-
Rimasi
affascinata dal suo racconto, e lo ascoltai attenta mentre mi
raccontava della
sua vita, distraendomi sia dagl’allenamenti che dai miei
ricordi.
E
anche dal mondo intorno a noi, dato che all’improvviso
l’uomo s’interruppe,
alzando lo sguardo da me, e io seguii i suoi occhi, voltando la testa e
notando
che, dietro di me, alcuni giornalisti (sicuramente non sportivi) ci
stavano
guardando e scattando delle foto.
Quando
rivolsi loro lo sguardo, poi, aumentarono gli scatti, e si agitarono
come un
pollaio quando dentro ci entra una volpe.
-Lei
attira molta attenzione, signorina Maki.-
Era
questo a cui si riferiva Genzo? Quelle persone che si animavano?
-Tuttavia
non mi aspettavo di vederne qui al campo d’allenamento: forse
qualcuno ha
spifferato il vostro arrivo.-
-Addirittura?-
-Lei
forse non è abituata, ma da noi i giocatori e la gente dello
spettacolo sono
sempre sotto l’attenzione di tutti; una volta, forse, noi
sportivi potevamo
avere il lusso di compiere qualche sciocchezza, ma adesso che questo
sport è
diventato uno dei più seguiti al mondo, ogni minimo errore
di noi
professionisti è registrato e commentato, dentro e fuori dal
campo di calcio.-
Già,
mi ricordavo che uno dei fastidi più grandi per Kojiro erano
proprio i
giornalisti, specie quelli scandalistici; ogni cosa che riguardava il
nostro
rapporto veniva scritta e amplificata più di cento volte,
così che le nostre
discussioni diventavano furiosi litigi, e i momenti in cui non stavamo
insieme
erano visti come segni di un una separazione.
Però
non era così forte quella presenza, e dopo un po’
ci hanno lasciato perdere,
dato che i nostri caratteri e i nostri stili di vita male si
accordavano con il
desiderio di drammaticità di quelle testate.
Ma
qui? Come sarebbe andata avanti? Wakabayashi mi aveva accennato che lui
era
spesso “fonte” di notizie per i giornalisti, e che
sarebbe stato difficile per
me. Ma com’era per lui?
-Wakabayashi
ha fatto molti errori di questo tipo?-
Il
signor Franz si limitò a scrollare le spalle e a tornare a
guardare
gl’allenamenti.
-Certamente,
se ha fatto degl’errori, erano al di fuori del campo da
calcio, e non hanno mai
coinvolto le squadre in cui ha giocato, come l’Amburgo o la
Nazionale
Giapponese.
Una
cosa certa, di Genzo, è che è un serio
professionista, e che da sempre il
massimo impegno all’interno di quei pali.-
Mi
voltai a guardarlo, cercandolo con lo sguardo, e lo vidi asciugarsi un
attimo
il sudore sulla fronte, risistemandosi il berretto sulla testa e
aspettandosi
un altro tiro da parte dei suoi compagni di squadra. Ripensai alla sera
prima,
a quando era stato così incerto da non sembrare lui, e mi
resi conto di quanto
fosse preoccupato.
Arrossii:
oh cavolo, non mi rendevo mai conto di quanto ci tenesse sul serio a
questa
nostra relazione! Che scema!
-L’accompagno
dentro, tra poco termineranno l’allenamento ed è
meglio che incontri Genzo in
un posto quanto meno riparato da occhi indiscreti.-
-Ah,
la ringrazio signor Franz.-
-Dammi
del tu.-
-Allora
anche tu chiamami Maki.-
Ci
allontanammo dai fotografi, o almeno così sperai mentre
rientravo dentro
l’edificio, notando che anche i giocatori stavano tornando
agli spogliatoi per
cambiarsi; Franz mi accompagnò vicino all’uscita
dei spogliatoi, tenendomi
compagnia per la successiva mezz’ora, fino a quando la porta
non si aprì.
E
il primo ad uscire fu proprio Genzo.
-Ah
eccoti.-
-Ciao.-
-Ti
sei divertita?-
-Moltissimo,
ho anche avuto modo di conoscere il signor Franz.-
Wakabyashi
alzò lo sguardo verso il vecchio signore, facendo
un’espressione … direi
divertita, che m’insospettì leggermente mentre
l’uomo si congedava, entrando
nello spogliatoio per parlare con gli altri giocatori.
-Allora?
Come ti sembra il signor Franz?-
-Perché
hai quell’aria così divertita in faccia?-
-Tu
non sai chi è, vero?-
Scossi
la testa, e lui mi parlò a bassa voce, mettendo un braccio
attorno alle spalle
per avvicinarsi ulteriormente al
mio orecchio.
-Lui è Franz
Anton Beckenbauer, il più grande libero di tutti i tempi
nella storia del
calcio; lo stesso Pelé lo ha inserito nel FIFA 100, la
graduatoria dove sono
elencati i più grandi nomi del calcio.-
Se
da una parte questo mi
sorprese non poco, dall’altro mi fece sentire ulteriormente
… contenta di aver
conosciuto quel signore.
-In
effetti ha l’aria di un
esperto di calcio.-
-E
lo è. È il presidente
onorario del Bayern Monaco e … merda.-
Mi
voltai davanti a me:
all’ingresso c’erano un gruppo di sconosciuti,
alcuni di loro avevano delle
macchine fotografiche.
Giornalisti,
che stessero
aspettando proprio noi?
-Maki,
dietro agli spalti
dov’eri seduta c’è un’uscita
secondaria, va a chiedere al guardiano di passare
per di là, ti vengo a prendere con la macchina.-
Io
obbedii. Velocemente mi
diressi al campo di calcio e, riconoscendo un uomo come il possibile
guardiano,
mi avvicinai e gli spiegai con il mio stentato tedesco la situazione;
lui mi
guardò storto, ma alla fine mi accompagnò a
quella seconda uscita, aprendomela
e chiudendola subito dopo alle sue spalle, con considerevole stizza. Ma
tu
guarda!
Wakabayashi
arrivò poco dopo,
e salii più velocemente che potei sulla macchina, che
sgommando scappò via,
dirigendosi nuovamente verso il centro di Monaco.
Quando
tentai di rivolgergli
la parola, vi dico solamente che aveva l’aria di uno che
avrebbe buttato sotto
i pedoni sulle strisce pedonali come il protagonista di Gran Theft Auto.
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Capitolo 4 *** Idioms ***
III: Idioms
(modi di dire)
Quando
Wakabayashi entrò
dentro la casa, per istinto di sopravvivenza mi fermai sulla soglia
qualche
secondo.
Mettetevi
nei miei panni:
l’uomo che vi ha letteralmente portato via dal vostro Paese
è incazzato nero, e
apre la porta con la stessa forza con cui tirerebbe un pugno ad un
sacco da
boxe. Sinceramente, non gli stareste alla larga?
Però
io non mi faccio
spaventare molto da quelle scenate, ne avevo viste anche di peggio da
parte di
Kojiro (una volta fu così arrabbiato da spaccare un piatto
mentre lo
asciugava!); pertanto mi limitai a prendere un profondo respiro, prima
di
entrare dentro e chiudermi la porta alle spalle.
Quando
mi voltai, Isolde mi stava
guardando con aria incuriosita.
-Che
succede?-
Avrei
voluto dirgli “niente,
un po’ di luna storta”, ma come tradurlo bene in
tedesco per dargli senso? Non
ci volli perdere tempo mentre mi sfilavo il cappotto.
-Qualche
problema … con la
stampa.-
-Ah! Da haben wir den Salat!- (Ecco
l’insalata!)
Che
c’entra l’insalata?! Il
mio sguardo stranito fu piuttosto evidente, e la donna sorrise
divertita, spiegandosi.
-È
un modo di dire. Significa
“ecco il guaio!”; indichiamo l’insalata
perché è disordinata.-
-Ah!
Capito! Questo me lo devo
ricordare …-
-Comunque,
non mi sorprendo
che sia così arrabbiato: il padroncino ha sempre avuto
problemi con i
giornalisti.-
Era
appena entrato un uomo
grande, grosso e maturo, visibilmente incazzato, che a momenti sfondava
la
porta d’ingresso, e lei lo chiamava
“padroncino”!!
Beh,
ripensandoci, a me quando
c’erano le riunioni di famiglia, e facevo il mio ingresso
appena tornata
dagl’allenamenti di softball sporca e sudata (per la gioia di
mia zia), mi
chiamavano sempre “signorina” ...
Guardai
la scalinata,
sicuramente era salito in camera sua. E io dovevo andarci.
-Ci
penso io Isolde.-
-Hals
- und Beinbruch.-
(Rottura del collo e della gamba!)
La
guardai ancora una volta
allibita, ma intuii che forse mi stava dicendo “buona
fortuna”.
Sentire
la domestica usare
quei modi di dire mi faceva una tremenda nostalgia, anche mia nonna era
solita
parlare per proverbi o filastrocche quando era con me o con qualche suo
nipote
più piccolo.
Salii
le scale due per volta,
presi il corridoio davanti a me e frenai la mia corsa davanti alla
porta
d’ingresso della stanza di Wakabayashi: non ci ero mai
entrata prima di allora,
dovevo ammetterlo.
E
che mi sembrava una cosa …
invasiva, entrare nella stanza privata di qualcun altro. Al ryokan era
diverso,
erano come “stanze d’albergo”, e io ero
solo una cameriera.
Ma
lì ero Maki. E Maki stava
per entrare nella stanza di Wakabayashi.
Bussai
leggermente, ma non
sentii alcuna risposta, osando aprire lentamente l’uscio, per
sporgermi a
vedere.
Era
seduto pesantemente sulla
poltrona, e la prima cosa che mi sorprese fu proprio la presenza di
quel
mobile, io non avevo una poltrona in camera. Mi guardai velocemente
intorno, e
mi resi conto che quella stanza non aveva niente di simile a quella
mia,
decisamente più spoglia.
Anzitutto,
quella era una
stanza che rispecchiava perfettamente il carattere del suo
proprietario: aveva
una grande finestra, che illuminava totalmente la camera, ma al tempo
stesso
c’era un camino in pietra, dall’aspetto severo. Il
pavimento era in legno, e
sotto la poltrona c’era l’unico tappeto presente.
Elegante
e non pomposa, con
un’aria rigorosa.
Rivolsi
lo sguardo verso
Wakabyashi, e mi resi conto che ancora non aveva alzato gli occhi,
trovando
l’interno del camino, al momento spento, più
interessante della mia presenza;
ma come, era la prima che entravo, mi aspettavo almeno un pochino di
stupore da
parte sua!
(Sto
cercando di buttarla sul
ridere, dato l’atmosfera di quel momento era …
beh, diciamo molto cupa.)
Il
suo silenzio rabbioso aveva
la capacità di ammutolire, ma io presi un profondo respiro e
mi avvicinai,
tenendo le mani dietro la schiena e guardandolo: aveva lo sguardo
torvo, una
mano a coprirgli la bocca che, di sicuro, era storta in
un’espressione
infastidita.
E
tutto quello perché avevo
insistito nel vederlo allenarsi. Lo ammisi, era colpa mia.
-Mi
dispiace, non pensavo che
ti saresti arrabbiato in questo modo.-
Era
una formula che usavo sempre
quando volevo scusarmi con Kojiro: gli dicevo quella frase, per cercare
di
sbollirgli la rabbia, e poi m’inginocchiavo verso di lui,
dato che di solito
non usavamo le poltrone. Ci piaceva stare seduti sul tappeto, come i
bambini.
A
questo punto mio marito mi
rivolgeva lo sguardo, e il suo fastidio scemava leggermente;
Wakabayashi, al
contrario, continuò a guardare altrove, sembrava che io non
avessi parlato in
quei secondi. Possibile che dovesse rendere tutto più
difficile?!
Beh,
in fondo lui non era mio
marito: per quanto avessero tante cose in comune, infatti, erano
proprio quelle
piccole cose a farmi comprendere quanto fossero diversi. Wakabayashi
era … un
bambino sdegnoso, e quanto si arrabbiava, anche se per validi motivi,
finiva
sempre che qualsiasi cosa lo irritava molto più facilmente
del normale.
Isolde,
in quei casi, mi
diceva che dovevo essere “accondiscendente”.
IO?!
Potevo
sforzarmi in quel caso,
ma non assicuravo grandi risultati!
M’inginocchiai
verso di lui,
le mie mani per pochissimo non sfiorarono i suoi polpacci, e cercai il
suo
sguardo, cercando le parole migliori.
-…
è colpa mia, lo ammetto. Ti
prometto che non succederà più.-
Ah!
I suoi occhi si spostarono
verso i miei.
È
incredibile, anche con
quell’espressione stizzita mi faceva sorridere divertita, era
proprio un
bambinone!
-Se
vuoi, non verrò più a
vederti agl’allenamenti.-
Lo
stavo dicendo solo per
convincerlo a smettere di tenermi il muso, intendiamoci! Posso
assicurarvi che
le mie intenzioni erano quelle di vederlo allenarsi il più
possibile, era stato
troppo interessante!
Lui
prese un respiro talmente tanto
importante che sembrava dover prendere una decisione di vita o morte.
Invece
stavo solo cercando di sbollirgli un pochino di rabbia.
E
forse ci stavo riuscendo:
infatti tolse la mano dalla bocca, e vidi quella smorfia nascosta che,
lentamente, si sciolse mentre mi guardava.
-Non
sono arrabbiato con te. È
che lo sapevo che sarebbe successo: sapevo che qualcuno avrebbe parlato
di te
alla stampa.-
Una
donna, per di più
orientale, che chiede di Genzo Wakabayashi, uno dei portieri
più importanti
della lega tedesca. Ci arrivavo anch’io.
Nel
frattempo, lui si sporse
verso di me, tenendo le braccia appoggiate alle ginocchia.
-Sai,
però, cosa mi da
fastidio? Il fatto che, da questo momento, faranno di tutto per
riuscire ad
ottenere una mia foto con te. E la cosa peggiore, cercheranno di sapere
di te,
e diranno qualsiasi cosa su di te e sul fatto che … sei
… la moglie di Kojiro.-
Non
m’interessava che
dicessero qualcosa di me, ne avevo sentite di cotte e di crude sul mio
conto,
anche all’interno della mia stessa famiglia; ma non volevo in
nessun modo che
venisse detto a qualcosa di mio marito. Non con tutto quello che aveva
passato
nella vita.
Io
lo conoscevo, gli altri no.
E tutto quello che dicevano di lui, fidatevi, era sbagliato.
Abbassai
lo sguardo, e in quel
momento Wakabayashi si alzò in piedi, allontanandosi dalla
poltrona e
portandosi verso la finestra; non lo guardai, in quel momento mi
stavano
tornando in mente le motivazioni che mi avevano spinta ad arrivare fino
a quel
punto.
-Beh
… questi erano i rischi
che dovevo capire … quando ho deciso di raggiungerti
…-
Mi
aspettai che dicesse
qualcosa, qualsiasi cosa: dal commento acido, che ci avrebbe portato a
litigare
(molto probabile), a qualcosa di un po’ più tenero
per smorzare la difficoltà
della situazione (meno fattibile, conoscendolo.)
Pertanto,
quando non lo sentii
parlare, alzai lo sguardo verso di lui preoccupata: per la seconda
volta non mi
stava guardando negl’occhi, ma mi spaventai di più
perché ci vidi nel suo
sguardo un’aria turbata, diversa da quella della sera prima.
Stavolta
era ferito, e l’avevo
ferito io, con le mie parole.
Oh
cavolo!
-Però
non sono pentita, non
sono pentita affatto di essere venuta qui!-
Ti
prego Wakabayashi, mi devi
credere!
-Io,
se non fosse stato per
te, mi sarei ritrovata da sola a Tokyo.-
E
tu lo sapevi che per me,
stare da sola, era come buttarmi dalla scogliera: sarei impazzita nel
ricordare
costantemente Kojiro e soprattutto te! Mi sarei scervellata come una
deficiente, rimpiangendo ogni giorno che ho passato con te e, al tempo
stesso,
soffrendo della mancanza di mio marito. Sarei finita in manicomio!
-Tu
hai fatto così tanto per
me. E io ho solo combinato questo pasticcio. Mi dispiace, davvero mi
dispiace.-
L’ho
dissi con profonda
angoscia, avevo paura che la reazione dell’uomo sarebbe stata
di distacco; in
effetti non avevo detto parole troppo carine, ma non
me n’ero resa conto, le avevo mormorate
sovrappensiero!
Strinsi
i pugni, mi ero alzata
in piedi mentre gli dicevo quelle cose, ma rimasi accanto alla poltrona
perché,
inconsciamente, avevo paura di avvicinarmi a lui, non sapevo come
avrebbe
reagito.
Lui
si voltò a guardarmi, e
continuò a rivolgermi lo sguardo, avevo una tale ansia che
mi sarebbe venuto da
piangere dal fastidio.
-…
mi dispiace Genzo.-
-Va
bene, va bene, ora basta.-
Si
staccò dalla finestra e si
avvicinò a me.
Il
mio primo istinto fu quello
di ritrarmi, ma alla fine sentii le sue braccia avvolgermi, la sua mano
che
spingeva la mia nuca sulla sua spalla, e il petto che si alzava in un
grosso
sospiro.
-Sta
tranquilla. Te l’ho
detto, non sono arrabbiato con te. Accidenti, non mi immaginavo che ti
agitassi
tanto.-
-…
è colpa tua: hai l’aria
perennemente incazzosa, non so quello che pensi, e mi metti ansia
quando non mi
parli.-
Non
gliel’avrei fatta passare
liscia, e che cavolo mi aveva fatto venire un colpo!
Lui,
però, sollevò e abbassò
il petto in una leggera risata, tenendomi ancora tra le braccia, e io
mi calmai
lentamente, respirando a fondo l’odore che proveniva dai suoi
vestiti,
sentendomi però frustrata: maledizione, non credevo di
essere così emotiva in
quelle situazioni; dov’era finita la Maki che una volta,
perché il suo “futuro
marito” si era messo a tirare pallonate alla rete del campo
da gioco, gli aveva
svuotato la bibita e obbligato a farle da ricevitore?
Quanto
sarebbe andata avanti
quella situazione? Per quanto ancora mi sarei spaventata per qualsiasi
cosa?
Mi
sciolsi dalla sua presa con
ancora quella sensazione di debolezza che m’innervosiva,
volevo uscire da
quella stanza.
-Scusa,
vado a mettermi
qualcosa di più comodo.-
-Ehi,
aspetta, che ne dici di
uscire stasera?-
…
Eh?! E il discorso fatto
appena cinque secondi prima?!
-Prego?-
-Ma
si: un mio compagno di
squadra mi ha chiesto se volevo passare la serata con lui e alcuni
membri, c’è
anche Karl. All’inizio ho pesato di rifiutare, ma vista la
situazione ci
farebbe bene uscire, no?-
-E
i giornalisti?-
-Vestita
così non si
accorgeranno mai che sei una donna.-
Ah
che scemo! Gli tirai un
pugno sul braccio, ma lui reagì ridendo, afferrandomi quel
polso e
avvicinandosi a me.
-Allora?
Vieni?-
-Mi
sembra una pazzia: fino a
cinque minuti fa abbiamo discusso sul fatto che non vuoi che la stampa
chiacchieri di noi, lo capisci vero?-
-Si
che lo capisco, ma se rimaniamo
qua dentro sono sicuro che ti deprimerai, e questo non mi sta bene:
sbaglio o
sono io il musone di casa?-
Volevo
dirgli di no, che
avremmo peggiorato le cose, che non me la sentivo; ma aveva in faccia
un’aria
da mascalzone tale che non seppi proprio dirgli di no, come quella
volta,
quando accettò la sfida di Jin, e cominciò a
prenderlo in giro davanti a tutti.
Sbuffai
in modo plateale,
mettendomi le mani sui fianchi.
-E
va bene. In fondo qualcuno
deve tenerti d’occhio, no?-
-Hai
paura che possa incontrare
qualche bella tedesca?-
-Conoscendoti
la faresti
scappare a gambe levate con la tua presunzione.-
-Oh,
ma guarda un po’ chi
parla, miss modestia!-
-In
confronto a te puoi dirlo
forte! Io sono l’unica in grado di poterti sopportare.-
-E
di questo te ne sarò sempre
grato.-
Argh,
non dirlo con quel tono
di voce, mi fai venire la pelle d’oca
dall’imbarazzo!
-…
Sarà meglio che mi metta
qualcosa di più femminile: non vorrei che sfigurassi andando
in giro per Monaco
con questo “maschiaccio”!-
E
corsi in camera, chiudendomi
dietro le spalle la porta e prendendo fiato, l’ultimo
commento dell’uomo ancora
mi stava facendo storcere le budella dall’emozione. Diceva
poche volte cose del
genere, ma quando le diceva … beh, vedete anche voi i
risultati!
Non
c’ero proprio abituata, e
non mi aspettavo che quell’orso potesse dire cose del genere!
Se
penso a Kojiro, mi viene da
ridere: non era assolutamente un marpione, e dalla sua bocca era raro
sentire
qualcosa di simile.
Wakabayashi,
invece, credo ci
sia piuttosto abituato, e ho capito che apprezza la compagnia femminile.
Io,
al contrario, mi sentivo
così imbranata!
Mi
buttai sull’abbigliamento,
e il mio umore si ravvivò: quanto ero contenta di non essere
obbligata a mettermi
costantemente il kimono!
Jeans,
magliette, canottiere,
felpe, maglioni, adoro i vestiti occidentali! Sono comodi, mi fanno
sentire
libera di saltare e correre quanto mi pare e piace. E le scarpe da
ginnastica
mi fanno impazzire! È bellissimo poter correre senza
rischiare d’inciampare o
di rompere un laccetto, come capitava con i sandali.
Il
primo ricordo bello che ho
della mia infanzia sono proprio il mio primo paio di scarpe da
ginnastica. Erano
rosse sgargiante, me le aveva comprate mio padre, ed avevano i lacci;
consumai
la suola e la punta per quanto le usai, ma piuttosto che buttarle le
riparavo
con scotch, stoffa e pezzi di cuoio, facendole diventare grigie per via
del
nastro telato. Quelle calzature mi facevano davvero sembrare una
teppista.
Nel
frattempo che ricordavo,
presi un paio di Jeans neri, aderenti, e me l’infilai
velocemente, scoprendo
che mi erano leggermente larghi, frugando poi alla ricerca di qualcosa
da
mettermi sopra.
Quando
iniziai a giocare a
softball comprai un paio di scarpe rosse simili, ma più
resistenti: ci feci la
mia prima partita, quella che persi. Da allora le considerai le mie
scarpe
porta-fortuna.
Trovai
una maglietta con lo
scollo a barca e le maniche aderenti, e me la infilai svelta,
schizzando nel
bagno per pettinarmi un momento i capelli.
Kojiro,
per il nostro primo
anno insieme, mi regalo una paio di scarpe da ginnastica. Io, come ho
già
detto, gli regalai le Nike al matrimonio!
Mentre
terminavo di
prepararmi, notai il fermaglio che mi aveva regalato Wakabayashi, e un
po’
emozionata me lo misi fra i capelli, uscendo di gran carriera dal bagno
e
infilandomi le ballerine nere, afferrando la borsa e mettendoci dentro
quel
poco che avevo, portafoglio e cellulare.
Scesi
giù dalle scale, e mi
accorsi che ero la prima ad essere pronta, Isolde si sporse ad
affacciarmi mentre
si asciugava le mani con un canovaccio.
-Oh
Maki! Sei veramente
carina!-
-Ti
ringrazio Isolde.-
-Tu
e il padroncino uscite?-
-Si,
mi dispiace è un’idea di
Wa … di Genzo, è stato invitato da uno dei suoi
compagni di squadra.-
-Sicuramente
Karl, lui è il
padroncino sono sempre stati molto amici, anche se non
l’ammetteranno mai.-
Guardai
incuriosita Isolde, e
la seguii dentro la cucina, accomodandomi su una sedia mentre lei
continuava
nelle sue faccende, dandomi la schiena mentre parlava.
-Certo,
sono due persone molto
orgogliose, ma il signorino Schneider è uno dei pochi ad
essere riuscito a
superare la diffidenza del padroncino. Beh, non senza
difficoltà!
D’altronde,
“Ohne Fleiß kein
Preis”, non si ottiene nulla senza impegno.-
Doveva
essere un altro modo di
dire, me lo sarei fatto spiegare da Wakabyashi mentre andavamo.
Sentii
quest’ultimo scendere
le scale veloce, chiamandomi, e io sbucai fuori dalla cucina con aria
curiosa:
quelle volte che l’avevo visto in abiti casual era stato al
ryokan, e più che
altro erano stati jeans larghi, magliette o tute, oltre allo yukata che
davamo
noi. Questa era la prima volta che lo vedevo con addosso qualcosa per
la “serata”.
E
per tale motivo, quando lo
vidi, mi prese quasi un colpo: aveva una maglia a collo alto e jeans,
oltre ad
una giacca di pelle foderata. E il tutto … beh, era
… bello da vedere. Non
posso negarlo, Wakabayashi era davvero un bell’uomo, specie
vestito così bene.
Ma
anche lui, come me, fece
una faccia a pesce; tuttavia, proprio al contrario di me, alla fine
sorrise con
aria deliziata.
-Stai
davvero bene così. sono
contento di vederti vestita in questo modo.-
Per
me era come se mi avesse
detto che ero bella come miss universo! Cavolo, ero troppo contenta!
Salutammo
Isolde, che ci
augurò buona serata, e velocemente entrammo dentro la
macchina privata dell’uomo,
uscendo fuori dal cancello. E notai, con sorpresa, che la strada
attorno a noi
era vuota. Ma come, e l’orda di giornalisti che doveva
esserci?
-Ma
… non c’è nessuno …-
-Beh,
direi che è un po’ tardi
per passeggiare, ti pare?-
-No,
voglio dire che non ci
sono giornalisti.-
-Non
possono avvicinarsi a
casa mia: mi è stato convalidato un ordine restrittivo per
qualsiasi
giornalista non invitato dal sottoscritto, o che non abbia preso
appuntamento a
casa mia. Se si azzardano a venire anche a dieci metri dalla
proprietà, posso chiamare
la polizia e farli arrestare.-
Mamma
mia, che linea dura!
Però me l’aspettavo da lui una simile decisione:
lui è uno di quelle persone
che una cosa, se la si fa, si fa bene.
Anch’io
sono così, ma forse
quell’ordine restrittivo era un po’ esagerato.
Comunque
quell’informazione mi
ammutolii, e lui forse se ne rese conto, perché
cercò di alleggerire il
discorso.
-Comunque
riguarda solo i
giornalisti: se vuoi invitare qualcuno a casa, ben venga.-
-Se
conoscessi qualcuno.-
-Beh,
intanto conoscerai i
miei compagni di squadra, e loro sono persone in gamba, ti piaceranno.-
-Anche
Karl?-
Lui
fece una smorfia con la
bocca, e io sorrisi divertita. Isolde aveva ragione.
-Con
lui puoi anche non farci
amicizia, è solo un borioso tedesco.-
-Oh,
ha parlato l’umile giapponese.-
-Semi-giapponese,
ti faccio
presente che al tuo ryokan non avevo la minima idea della differenza
tra Onsen
e Ofuro.-
A
quel ricordo mi misi a
ridere, la macchina sfrecciava veloce tra le vie di Monaco, e io
chiacchieravo
a ruota libera con l’autista alla mia destra, cosa che mi
faceva confondere da
morire: le prime volte che salii in macchina, infatti, salivo dalla
parte del
guidatore, perché in Giappone vige la guida a sinistra;
fortunatamente non mi
sbagliavo più, però mi confondeva non poco!
Arrivammo
al pub neanche in
mezz’ora, ma prima di scendere dalla macchina Wakabayashi mi
fermò con una mano
sulla spalla, uscendo per primo e guardandosi intorno, come notai
stupita,
anche questo era per via della stampa? Alla fine mi aprii la portiera,
e mi
mise un braccio sopra le spalle, coperte dal cappotto, spingendomi
quasi di
prepotenza dentro il pub.
Quando
superai la porta,
sentii subito l’odore della birra e il caldo soffocante del
locale, quella
notte era gelida e fortunatamente non avevamo messo la macchina troppo
lontano;
in compenso, Wakabayashi continuò a tenermi il braccio sulle
spalle, guidandomi
lui nel semi-buio del locale, fino a salutare con la mano un gruppo di
uomini
e, per mia fortuna, due donne, almeno non ero la sola!
Riconobbi
subito Karl: era
veramente, veramente, veramente … biondo!
-Buonasera
a tutti.-
-Come
al solito ti fai
desiderare Genzo!-
-Dovete
prendervi due sedie.-
-Ah
no, fa sedere la signorina
sulla poltrona, maleducato.-
Mi
sentii assolutamente a
disagio: le persone davanti a me erano tendenzialmente caotiche e
rumorose, io
che fino a qualche giorno prima ero vissuta in una bolla di silenzio mi
sentii
quasi rintronata, e quando Karl si alzò in piedi per
presentarsi, beh ero
ancora più confusa, tanto che lo salutai alla mia maniera,
facendo l’inchino
alla giapponese.
Che
stupida! Ma che fai?!
Salutalo all’occidentale!
-…
Hallo …-
Fortunatamente,
il tedesco si
limitò a sorridermi divertito, allungando la mano mentre il
resto del gruppo
commentava, parlavano velocemente e con delle cadenze che non mi
facevano
capire niente.
Wakabayashi
comprese la mia
confusione, o fece semplicemente il cavaliere; fatto sta che si sedette
accanto
a me sulla poltroncina, mentre i due che ci erano seduti prima si
cercavano
delle sedie, riprendendosi gli enormi boccali di birra.
Incredibile!
Ma avrebbero
bevuto davvero tutta quella roba?!
Me
li presentò tutti, ma io mi
ricordavo di nome solo Karl, e lui mi presentò semplicemente
come Maki,
tralasciando il dettaglio che ero la moglie di Kojiro; mi sembrava
giusto, quel
particolare avrebbe solo ingrigito la serata.
Lo
lasciai fare con le
ordinazioni, stabilendo invece un contatto con una delle due ragazze,
Adina, e
parlando con lei forse più a gesti che parole, dato che era
veramente veloce
nella parlata.
-Ragazzi!
Das ist eine Affenhitze!- (è un
caldo da scimmia!)
Quella
fu una delle cose più
strane che sentii in tutta la serata, mentre arrivava la cameriera con
i pasti
che avevamo ordinato.
Anche
qui, beh, è tutto da dire.
Uno
degl’uomini aveva ordinato
dei Rollmops: involtini di aringhe marinate in aceto, verdure e aromi,
arrotolate intorno a un cetriolino sott'aceto; un altro le classiche
salsicce,
e io ero terrorizzata a quello che Wakabayashi aveva chiesto per me,
soprattutto
perché la birra non mi piaceva, e di solito Isolde non
faceva sempre e solo
cucina tedesca; quello che mi arrivò furono delle frittelle,
o almeno così mi
sembrarono mentre l’uomo si sporse per dirmi di che si
trattava.
-Reiberdatschi:
patate grattugiate,
mescolate a cipolla tritata, legate con uova e poca farina, e fritte-
Gli
ripetei la parola, e poi
le assaggiai.
E
volete saperlo? Erano
buonissime! Glielo dimostrai con tutto il mio volto, e per poco
l’uomo non si
mise a ridere, bevendo il suo gigantesco boccale di birra, io
fortunatamente me
la cavai con dell’acqua.
-Allora,
Maki, cosa ti ha
portato qui a Monaco?-
-Ah,
beh …-
Oddio,
che gli dico?! Beh, la
verità, ovvio.
-Diciamo
che sto uscendo da
una situazione spiacevole, avevo bisogno … di cambiare.-
Adina,
fortunatamente, non mi
chiese altro, anche perché gli altri ragazzi ci coinvolsero
nella loro
conversazione, era strano non sentirli parlare di calcio, ma in fondo
mica
erano così malati di sport! Insomma,
anche Kojiro, Ken e Takeshi, le rare volte che riuscivamo a vederci,
non
parlavano solo dei loro successi sportivi!
-Se
conosci Genzo conoscerai
anche il resto della Nazionale, giusto?-
-Beh,
si, un pochino li
conosco.-
-Potremmo
farci dire qualche
segreto per poterli battere ai prossimi mondiali.-
-Non
credo che Genzo
permetterà a Maki di dire qualcosa.-
E
il portiere portò una sua
mano sopra la mia bocca, facendomi ridere con
quell’atteggiamento.
Mi
divertii in quel modo per
tutto il resto della serata, anche perché Wakabayashi, senza
che me ne rendessi
effettivamente conto, mi rimase sempre vicino, spiegandomi certe volte,
all’orecchio, quello di cui parlavano.
È
strano quell’uomo: i suoi
sbalzi di umore sono imprevedibili, e con lui a volte faccio una fatica
pazzesca a parlarci.
Però,
quella sera, nonostante
il suo modo di fare burbero, mi fece divertire da morire, tenendo
sempre il suo
braccio sulle mie spalle, a rassicurarmi della sua costante presenza.
**
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Capitolo 5 *** Herkunft ***
IV:
Herkunft
(Origini)
Scesi
giù dalle scale, quella mattina,
con un asciugamano sulle spalle e i capelli ancora umidi, notando il
quotidiano
e una serie di riviste sul mobile vicino all’ingresso; mi
sporsi, e subito vidi
la mia foto in prima pagina. Oh kami! E questo?!
Eravamo
io e il signor Franz,
proprio nel momento in cui mi ero voltata verso l’orda di
giornalisti.
Ma
com’erano conciati i miei
capelli!? E aveva ragione Wakabayashi: con quella felpa sembravo
veramente un
ragazzino.
Sotto
delle scritte grandi e
strane, e il modo in cui erano scritte me le rese incomprensibili,
tanto che mi
ci fermai più di cinque minuti per tradurlo.
„Das
Geheimnis des Genzo: relative oder Flamme?“
Il … mistero di Genzo: … mi
sembri che questo
significhi “parente” … o …
fiamma?!
A quel punto mi venne da sorridere, sebbene fosse
un
sorriso amaro: che stupidi questi giornalisti, solo perché
ho dei tratti simili
a quelli di Wakabayashi pensano che sia una loro parente? Non ha avuto
relazioni, in Germania, con orientali?
Quel pensiero portò a perdere
l’interesse nel titolo:
che tipo di donna piace a Wakabayashi? Le occidentali? O non fa
distinzioni?
-Buongiorno Maki.-
-Ah, ciao Isolde. Hai visto?-
La governante mi si avvicinò mentre gli
mostravo la
fotografia e la scritta, ma lei, al contrario di me, fece una faccia
contrariata, e ritornò nel suo mondo (la cucina) borbottando
in tedesco mentre
io, incuriosita, presi anche il resto dei giornali, portandoli in
cucina e
mettendoli non molto distanti dalla marmellata di pesche che Isolde
aveva
tirato fuori.
Aprii la rivista, cercando l’articolo che
parlava di
“me”, e lo trovai quasi alle prime pagine,
riconoscendo quella testata come una
di gossip, tipo la “Bubka” che ogni tanto mia
cugina comprava, per poi
nasconderla alla vista della zia dentro l’armadio a muro,
dove mettevamo i
futon.
“Ieri, al campo d’allenamento
della Bayern Monaco, i
nostri occhi (ma perché usano sempre il plurale? Manie di
ego?) hanno trovato
il presidente onorario della squadra di calcio, Franz Anton Beckenbauer (che buffo, ho conosciuto
un grande nome del
calcio! Kojiro schiatterebbe d’invidia!) sugli spalti, ad
osservare la squadra
più forte della Germania allenarsi (quello che scrive deve
esserne un grande
tifoso) e, cosa più importante, a intavolare una piacevole
conversazione (e se
fosse stata spiacevole? Per caso ci ha sentiti? Tzé) con una
sconosciuta di
evidenti origini orientali, probabilmente cinese (TI SEMBRO CINESE?
IGNORANTE
COME UNA CAPRA!!).
Tale sconosciuta, da alcune fonti (mi piacerebbe
sapere chi ha fatto la spia!), sembra essere una
“conoscente” di Genzo
Wakabayashi (Sembra? E perché quelle virgolette? Che cazzo,
anche l’ironia della
carta stampata!), noto per aver avuto “conoscenti”
famose, e non, durante la
sua carriera calcistica nell’Amburgo; e sembra che voglia
mantenere intatta la
sua fama anche qui a Monaco.”
A questo punto ero seriamente intenzionata a
smettere
di leggere quelle assurdità, anche perché
l’ultima parte non mi era piaciuta
molto, sebbene non dovessi sorprendermi più di tanto.
Tuttavia i miei occhi continuarono a scorrere sulle
parole, oramai avevo preso il ritmo giusto di traduzione e, pertanto,
non
riuscivo a smettere.
“Tuttavia,
rispetto al suo atteggiamento nell’Amburgo, che tutti
sappiamo a cosa ha
portato (E questo? Che significa? A cosa ha portato?), sembra che
l’SGGK della
Nazionale Giapponese voglia fare le cose in grande, visto e considerato
che
questa è una delle rare volte in cui una delle sue fiamme si
presenta
addirittura ai suoi allenamenti.”
Ma come? Un minuto prima ero solo una sua
conoscente
(e non era neanche tanto “sicuro”), e un minuto
dopo ero considerata la sua
nuova fiamma?! Oltretutto, cos’era successo
nell’Amburgo da spingerlo a firmare
il contratto con il Bayern? C’erano stati problemi?
Perché non ne ero a
conoscenza?
Alzai lo sguardo e cercai Isolde, la donna in quel
momento mi stava offrendo una tazza di latte bollente e una fetta di
torta ai
pinoli; mi sorrise come al solito, ma quando riconobbe la rivista che
avevo tra
le mani sforzò l’espressione, tornando verso i
fornelli e parlandomi con tono
severo.
-Non dovresti leggere quella roba: non dice niente
di
buono che ti possa aiutare a familiarizzare con la Germania, solo a
spingerti a
scapparne.-
Sorrisi intenerita dalle parole della donna, e per
suo
rispetto richiusi la rivista e cominciai a sorseggiare il latte.
Però non avevo
dimenticato la domanda che le volevo porre.
-Senti, Isolde … per caso sai
perché Wa (aaah! Maki il
nome, il nome!) … Genzo ha lasciato l’Amburgo?-
-Il padroncino non parla mai del suo lavoro con me,
sa
bene che non lo comprendo molto …-
Come temevo.
-… però so che ha avuto dei
problemi con il suo allenatore,
che l’hanno spinto a lasciare la squadra.-
Con l’allenatore? Guardai insistentemente
Isolde, e
questa alla fine si arrese al mio dolce e supplichevole sguardo
(… beh, più o
meno).
-Qualche giorno prima dell’arrivo del
padroncino qui a
Monaco, ho ricevuto una sua telefonata nel quale mi avvertiva del suo
arrivo;
gli ho chiesto quanto tempo rimaneva, e quando mi ha detto che si
sarebbe
trasferito qui … ho avuto l’impressione
… che non fosse soddisfatto della sua
scelta.-
Non sapevo da quanto tempo quella vecchia donna
vivesse in quella casa e si occupasse di Wakabyashi, ma di certo era
molto più
tempo di me, e quando mi disse quelle parole ci credetti
dall’inizio alla fine.
Bevvi ancora un sorso di latte, indecisa se chiederle qualcosa in
più, magari
riguardante il soggiorno di Genzo prima del mio arrivo, quando lei
stessa
riprese la parola.
-In ogni caso, da quando tu sei qui, il padroncino
sembra più rilassato e sereno: ogni volta che veniva in
questa casa aveva un
muso da qui a lì, e tendeva ad essere molto silenzioso.
Anche perché, le poche
volte che veniva, era per qualche avvenimento in famiglia.-
Ah, giusto, la famiglia di Wakabayashi. Mi ero
sempre
chiesta chi fossero e che rapporto ci fosse tra di loro, conoscendo il
carattere del loro figlio, e quella si presentava un’ottima
occasione per
sapere qualcosa di più.
-Tu hai … hai sempre lavorato nella
famiglia
Wakabayashi?-
-Oh, certo: sono stata la cameriera della signora,
poi
la balia dei due fratelli maggiori del padroncino per molto tempo, e
poi mi
sono dedicata alla cura di questa casa.-
Così aveva due fratelli maggiori! Non me
lo aspettavo,
ha un carattere così presuntuoso e tendenzialmente
egocentrico (no, non
tendenzialmente) che non mi sarei sorpresa se fosse stato figlio unico.
-E i fratelli? Com’erano?-
-Di sicuro molto più socievoli di lui!
Soprattutto
Akio, ha sempre avuto un carattere così allegro quel
ragazzo. Ichirou, invece,
era il più tranquillo, forse perché era il
maggiore.-
In effetti il suo nome veniva usato spesso, una
volta,
per indicare il primo figlio, un po’ come Jiro per il secondo
o Hachiro per l’ottavo.
Quelle piccole informazioni stimolarono ancora di più la mia
curiosità, volevo
sapere tutto il possibile adesso!
-E assomigliano a … a Genzo,
fisicamente?-
-Hanno tutti capelli neri e occhi neri, e solo Akio
ha
qualche tratto di sua madre, ma soprattutto Genzo è il
ritratto del padre! Ora
più che mai, quando sono sovrappensiero, mi capita che i
miei occhi lo scambino
con il padrone.-
Addirittura il padrone! Beh, in fondo Wakabayashi
era
il “padroncino”.
-E la madre? Com’è la signora
Wakabayashi?-
A quella domanda, finalmente, Isolde si
voltò verso di
me, e aveva in faccia un’espressione così rapita
da lasciarmi senza parole.
-È la donna più elegante che
si è mai vista: questa
casa, quando vi abitava, era solita riempirsi della buona
società tedesca ed
europea; abiti eleganti, musica, chiacchiere basse, spumante
…-
E più raccontava, più
rimanevo affascinata: io cose
del genere le avevo lette sempre solo nelle favole, o guardate in quei
tremendi
drama che mia cugina era solita costringermi a vedere la sera, dopo che
avevamo
finito di lavorare. Ma sentire qualcuno che ci era stato, credetemi,
è tutta
un’altra cosa; soprattutto se la persona in questione, poi,
era anche una
governante.
-Non ti dico! Eravamo sempre in movimento, da una
parte all’altra della stanza! Dovevamo tenere
d’occhio che i bicchieri fossero
pieni, portare via i vassoi vuoti, fare in modo che non ci fosse
neanche una
macchia sui divani o i tappeti. E quando se ne andavano, non ti dico la
confusione che lasciavano! Sarà stata anche la buona
società, ma senza di noi
era la società dei disordinati!-
Mi venne da ridere, e nel frattempo mi preparai
pane e
marmellata, addentandola con gusto mentre la donna si avvicinava,
sedendosi di
fronte a me, mentre io le parlavo ingoiando il boccone.
-E la madre di Genzo era disordinata?-
-La padrona? Uff, altroché! Era una
signorina di buona
famiglia, non aveva certo bisogno di tenere in ordine come fai tu.-
Mi era sempre stato insegnato ad avere rispetto
delle
mie cose e dei miei oggetti, soprattutto perché, nonostante
fossimo una
famiglia importante, non avevamo stuoli di camerieri come nelle case
europee,
anche se questa mia visione possa sembrare che riguardi
l’ottocento vittoriano.
-Eppure non mi dispiaceva metterle in ordine la
stanza
… quando lo facevo, infatti, era solita restare fermare
sull’uscio della
stanza, e chiacchierarmi tranquillamente. Ricordo che al suo matrimonio
chiese
anche la mia presenza.-
Accidenti, che bello!
-Da quanto tempo lavori per la famiglia
Wakabayashi?-
-Ho cominciato a lavorare per la signora quando
avevo
ventuno anni e lei sedici, e da allora sono sempre stata con lei, e
quindi con
i suoi figli.-
-E il signor Wakabayashi?
Com’è?-
In quel momento suonò il campanello,
rovinando il
momento magico: aaah, maledizione, volevo sapere qualcosa di
più! Ancora molto
di più!
Invece vidi la governante allontanarsi, e io mi
limitai a finire la mia fetta con la marmellata, bevendo il latte e
masticando
a lungo, ripensando alle parole di Isolde e facendo un rapido calcolo.
… ok, in matematica sono uno schifo,
però ci provai:
allora, Isolde e la signora Wakabayashi hanno cinque anni di
differenza, e
Wakabayashi mi aveva detto che la governante ha 61 anni. Questo
significava che
la signora Wakabayashi aveva … contai con
l’ausilio delle dita, e arrivai a
quota 56; e contando che Wakabayashi ha trent’anni, lei lo
aveva avuto a 26
anni. E gli altri figli? Chissà quant’era la
differenza di età tra i tre!
-Maki, c’è un pacco per te!-
… cosa?
Mi alzai dalla cucina e raggiunsi Isolde
all’ingresso,
notando subito l’enorme scatolone che occupava quasi tutto
l’ingresso, e mi ci
avvicinai colpita, la donna si voltò porgendomi una busta
con, sopra, i
classici segni laterali rossi e blu della posta internazionale.
Casa, era sicuramente un messaggio da casa.
Non avevo mai pensato che, nonostante me ne fossi
andata, avrei comunque ricevuto posta da loro, e sulle prime mi sentii
nervosa,
afferrando la busta con le mani sudate; la guardai e ripensai ai volti
di mia
nonna, dei miei genitori, di mia cugina e di Jin, perfino della zia. E,
inizialmente, non volli aprirla.
-Spostiamo la scatola in salotto.-
La spingemmo, dato che era troppo pesante per
sollevarla, e a darci una mano arrivò persino Fredrich; il
pavimento non subì
danni, e arrivò in salotto sana e salva, ma lasciando me
senza fiato, tanto da
farmi sedere su un bracciolo del divano mentre l’uomo tornava
alle sue faccende
e Isolde aspettava, paziente, che quanto meno aprissi quella busta.
Ma più la guardavo, più mi
sentivo assalire
dall’ansia: che cosa ci sarebbe scritto dentro? Pensai al
peggio, ma subito mi
resi conto che era una scemenza, che loro stessi mi avevano dato il
permesso e
che erano stati contenti della mia scelta. E se avessero cambiato idea?
Si, era
impossibile, però...
Oh basta! Continuare a pensarci non sarebbe servito
a
niente, dovevo aprire e vedere con i miei stessi occhi; afferrai la
busta e rischiai
quasi di strapparla per la foga, tirandone fuori la carta leggera,
giallognola,
che emanava un profumo di fiori che mi ricordava tanto le mani di mia
nonna, e
la aprii lentamente, sentendola scricchiolare.
La calligrafia di mia nonna era sempre stata
leggera
ma decisa: aveva studiato calligrafia, e pertanto il modo in cui era
scritto
era perfetto. Ma quando lessi già le prime parole, mi sentii
assalire dalla
commozione, e respirai a fondo per non mettermi a piangere.
“Tesoro mio, sono sicura che tu sei
felice, e che
combatti per la tua felicità. Noi stiamo bene, la vita nel
ryokan prosegue
normalmente, ma sappi che sei sempre nei miei pensieri e in quelli di
tutte le
persone che ti vogliono bene.
Mi sono permessa di mandarti delle cose che ti
appartengono e che è giusto che rimangano a te:
perché non devi mai dimenticare
le tue radici, perché sono queste che ti faranno crescere
forte, proprio come
un magnifico albero.
E soprattutto non devi mai dimenticare chi sei,
quello
che è stato il tuo passato, nel bene e nel male: con il
passato noi creiamo il
presente, e sogniamo il futuro.
Ti voglio bene.
Al mio raggio di sole.”
… mia nonna concludeva sempre in questo
modo messaggi,
lettere e persino telefonate che mi rivolgeva: mi diceva sempre
“al mio raggio
di sole”. E anche se, ogni volta, io finivo per imbarazzarmi
e arrossire, oltre
alle guance rosse, questa volta, mi scesero perfino le lacrime;
perché sapevo
che, per molto tempo, io non sarei riuscita a tornare a casa.
Me le asciugai con la manica della maglia, tirando
su
col naso, fino a riuscire a calmarmi mentre adesso,
l’ostacolo più grande, era
proprio la scatola. Cosa ci avrei trovato dentro? Avevo la sensazione
di
saperlo, e per questo, anche questa volta, ci misi un po’ a
muovermi dal
bracciolo, posando la lettera sul tavolino lì vicino e
toccando, la punta delle
dita, lo scotch che chiudeva la scatola.
Avevo bisogno di un coltello. O un taglierino. O un
paio di forbici.
-Tieni, ti serviranno queste.-
Mi voltai, e con sorpresa vidi che Isolde mi
passava
proprio il paio di forbici a cui stavo pensando. Quando era andata a
prenderlo?
Lei sorrideva, ma io aveva la testa vuota in quel momento, e non seppi
bene
cosa fare per i primi minuti, fissando la scatola e tenendo in mano le
forbici
con la punta rivolta verso l’alto.
-… vuoi aspettare ad aprirlo?-
Potevo farlo? La guardai, e lei continuava a
sorridermi, come se non avesse bisogno di chiedermi perché
ero così indecisa. Ma
io stessa mi sentii in dovere di dirgli il perché: dopotutto
mi aveva anche
aiutato a trascinare quel pesante coso dentro il salotto, e ora non
volevo
nemmeno aprirlo!
-È che … so quello che
c’è dentro.-
I miei kimono sicuramente. E tra questi, anche il
mio
Furisode; l’avevo lasciato ad Okinawa perché non
credevo di averne più bisogno,
perché credevo che fosse giusto non portarlo con me,
perché significava una parte
di vita che, oramai, avevo lasciato dietro di me. Invece, quasi come un
essere
dotato di vita propria, mi aveva seguito anche in Germania.
-E … ha con se dei ricordi …
che non volevo portarmi
dietro.-
Kojiro. Ogni cosa contenuta in quella scatola, nel
bene e nel male, mi avrebbe riportato in mente Kojiro; già
facevo una fatica
incredibile a non soffermarmi più di una volta al giorno a
ripensare a lui, e
ora quegl’oggetti non avrebbero fatto altro che rimarcarmi la
sua assenza e il
perché era assente, il perché ero lì e
soprattutto con CHI ero lì adesso.
E mi sarebbe salito il senso di colpa, quella
stessa
emozione che mi aveva impedito di parlare subito a Wakabayashi al
ryokan,
rischiando di farlo partire senza dirgli niente; quella sensazione che
ancora
adesso mi impediva di baciarlo più profondamente, o di
dormire con lui nella
stessa camera.
Non ce la facevo. E non riuscivo ad aprire lo
scatolone.
Abbassai le forbici, e mi rimisi seduta sul
bracciolo
della poltrona.
-Ho paura.-
Sentii la mano di Isolde nei miei capelli, e mi
voltai
verso di lei, guardando quel sorriso affettuoso che mi aveva accolto i
primi
giorni, in quel posto estraneo e dal clima freddo.
Mi sentii una vigliacca, che si stava aggrappando
in
tutti i modi ad ogni scusa possibile per non andare avanti; ma io
stessa non
volevo rimanere rinchiusa in quella casa, senza fare niente.
La carezza della donna mi provocò un
moto di fastidio
nei miei stessi confronti, e la scostai arrabbiata, afferrando le
forbici e guardando
la scatola: no Maki, hai deciso che avresti cambiato la tua vita, hai
seguito
Wakabayashi perché sai bene che non puoi rinchiuderti in te
stessa, non sarebbe
giusto nei confronti di Kojiro, lui voleva che tu continuassi a vivere.
Ma più pensavo a queste cose,
più la mia mano si
faceva debole, e più quella scatola diventava
insormontabile, come un pesante
masso di roccia che cresceva sempre di più, e le mie braccia
non erano in grado
di spostarlo o romperlo.
Per la seconda volta, Isolde si avvicinò
a me, e mi
tolse gentilmente le forbici di mano.
-Le prendo io, potresti combinare qualche guaio e
rovinare la scatola.-
Feci di sicuro una smorfia, che nella mia testa era
il
comando a sorridere, e mi limitai a stringere le mani tra loro,
restando
appoggiata a quel bracciolo, a fissare quello scatolone. Non potevamo
neanche
spostarlo da salotto, c’era bisogno di un altro paio di
braccia oltre a quelle
di Friedrich; a quel pensiero mi allarmai leggermente,
perché Wakabayashi avrebbe
domandato di quella scatola, e di certo non potevo mentirgli.
Io sapevo che una nostra barriera era Kojiro: mi
veniva spesso di pensare a lui, al fatto che, forse, se fosse stato
ancora
vivo, probabilmente ci saremmo trasferiti in Italia, avremmo cercato
una cura o
comunque dei farmaci che mi avessero permesso di stare meglio e di
avere,
finalmente, un bambino tutto nostro. E Wakabayashi conosceva questi
miei
pensieri, o quanto meno li intuiva.
Non ci voleva.
Volevo un mondo di bene a mia nonna, ma quel pacco
proprio non ci voleva; o almeno, in quel momento non lo volevo io. E
tanto ero
convinta di questo che per tutto il giorno volli starne alla larga,
evitando
accuratamente di entrare in salotto, già con addosso
l’angoscia che avrei
dovuto attendere fino a quella sera per sbarazzarmene.
Invece, con mia enorme sorpresa, sentii Wakabayashi
tornare a casa per pranzo.
-Ehilà.-
-Che ci fai tu qui?-
-… beh, fino a prova contraria, questa
è casa mia.-
-Intendo dire, che ci fai a quest’ora?-
-Gli allenamenti sono finiti prima
perché domani
abbiamo una partita, e l’allenatore vuole che siamo riposati.-
Rimasi indecisa sull’entrata, quasi
tenendolo fermo
con il mio corpo, e questo non passò certo inosservato,
tanto che mi lanciò
un’occhiata dubbiosa.
-Qualcosa non va?-
-Ecco …-
Fece un passo in avanti, per spingermi sia a
parlare
che a farmi da parte, e io riuscii solo a scostarmi, guidandolo
lentamente
verso il salotto, restando sull’uscio e indicandogli, con un
cenno della testa,
la grossa scatola proprio al centro della sala.
-… è per me?-
-No, è mia. Viene da casa.-
-Ah! E come mai è ancora chiusa?-
Gli si avvicinò con aria tranquilla, e
io sulle prime
rimasi sorpresa da quell’atteggiamento, io a malapena restavo
sulla soglia
della sala; lui toccò la scatola e la studiò,
prima di voltarsi verso di me con
aria incuriosita.
-Allora? Perché è chiusa?-
Quanto gli dovevo dire? E quanto potevo dirgli
senza
farlo arrabbiare troppo?
Lo guardai indecisa, torturandomi le mani, e gli
ripetei meccanica le stesse cose che avevo detto ad Isolde.
-È che … so quello che
c’è dentro, e con questi ci
sono ricordi … che non volevo portarmi dietro.-
Lui si limitò ad annuirmi, e io a
disagio mi passai
una mano tra i capelli, scostando lo sguardo verso il pavimento.
-Per me e Isolde è troppo pesante,
volevamo che tu e
Friedrich la portaste in camera mia.-
-… certo, non c’è
problema. Vado a chiamarlo.-
Lo ammetto: mi aspettavo che quanto meno si
adombrasse, che mi dicesse di no nel portare la scatola. Invece la
scena si
svolse nella più assoluta tranquillità, e i due
uomini salirono le scale
trasportando lo scatolone (Wakabayashi che faceva l’omino di
casa! Ma perché
non avevo una macchina fotografica?!), dicendosi in che modo muoversi a
vicenda.
L’unica sulle spine ero solo io: da una
parte non
volevo che rovinassero persino la scatola, ma dall’altro
avrei desiderato che,
al piano di sopra, la buttassero fuori dalla finestra; invece mi
limitai ad
aprire loro la porta della mia camera, dicendogli di appoggiare pure
accanto a
letto l’ingombro, ringraziando Friedrich e lasciandolo andare
mentre io mi
sedevo sul letto, guardando di volta in volta Wakabayashi o la scatola.
Lui rimase fermo in piedi, accanto al letto, e solo
dopo qualche minuto (e un profondo e paziente respiro, o povero il
grande
saggio!) si accomodò accanto a me.
-Allora … per quanto tempo la lascerai
così?-
-… non lo so. È che
… non mi sento pronta in questo
momento.-
-Ancora troppi ricordi?-
Guardai la forma dell’oggetto davanti a
noi, ma in
realtà la mia testa stava pensando ad altro: alla notte
dello stupro. E parlai
a voce molto bassa.
-Tu lo sai che sono stata stuprata.-
Lui annuii, ma rimase in silenzio, e io presi un
profondo respiro.
-Quando mi sono risvegliai, il giorno dopo, ho
subito
pensato a quanto mi avesse fatto male, a come mi avevano aggredito e
fatto del
male; e pensai che, invece, volevo che Kojiro mi abbracciasse, mi
accarezzasse,
mi facesse sentire ancora amata.
Poi ricordai, e … il resto lo sai.-
Annuii nuovamente, e io gli cercai la mano,
stringendogliela e sentendola debole tra le mie dita;
gl’indicai nuovamente la
scatola con la testa, e parlai ancora a voce bassa.
-Quella scatola mi ricorda quel giorno, quando mi
svegliai dallo stupro: mi fa subito pensare a ricordi dolorosi e
spiacevoli, e
istintivamente cerco mio marito con il pensiero, perché ho
la certezza che lui
mi farà sentire meglio.
Ma non c’è lui qui. Ci sei tu.-
A quel punto lo sentì stringermi le dita
con dolcezza,
e io appoggiai la testa sulla sua spalla, parlandogli adesso con un
filo di
voce, il cuore aveva preso a battermi l’impazzata, solo il
pensiero di fargli
quella domanda m’imbarazzava.
E dovevo fargli quella domanda chiamandolo per
nome;
non potevo più insistere con il cognome, perché
adesso era una delle persone
più importanti per me.
-Genzo, mi ami?-
Lo sentii irrigidirsi, e poi il respiro me lo
passò
attraverso il contatto del mio orecchio sulla sua spalla.
-Si.-
Respirai anch’io, sollevata, e continuai
a stringergli
la mani, adesso era quasi una gara a chi aveva la presa più
forte tra i due;
scostai la testa, e lo guardai dritto negl’occhi.
-Allora aiutami. Ho bisogno di te. Voglio avere a
te
al mio fianco.-
Perché, quando quel giorno, portandolo
alla tomba di
mio marito, sono riuscita a parlargli a cuore aperto, piangendo e
mostrando,
per la prima volta dopo un anno di resistenza, la mia sofferenza,
ricominciando
a respirare e vivere; e sempre in quel luogo, Genzo si era confessato a
me con
una tale umiltà da farmi comprendere quanto davvero ci
tenesse a me.
E, al tempo stesso, perché con il suo
carattere, e i
suoi modi di fare rudi e presuntuosi, mi aveva spinto ad affrontarlo e
combatterlo, restituendomi la voglia di fare e di provare a mettermi in
gioco
di fronte alla vita.
Ma soprattutto perché …
-Io voglio amarti, Genzo, e vivere con te.-
E vidi la sua sorpresa, scatenandomi un sorriso: in
effetti, dopo quel giorno al mare, vicino al mio ryokan, non gli avevo
più
detto simili parole. Dovevo averlo lasciato spiazzato, e volli
approfittarne di
quel momento, sporgendomi verso di lui e baciandogli dolcemente le
labbra,
osando sfiorargli la guancia con la punta delle dita.
Qualche momento dopo, lui prese la mia mano e la
strinse sul mio petto, liberando l’altra per stringermi,
sempre con la sua
solita lenta ma appassionata dolcezza. E questa volta lo lasciai fare:
quando
mosse le labbra, io seguii il suo movimento, e quando la punta della
sua lingua
osò accarezzare la mia bocca, io la schiusi, permettendogli
di approfondire il
contatto.
Fu come se fossi stata baciata per la prima volta:
non
pensai a mio marito, ma solo alla passione che l’uomo stava
frenando quasi con
ansia, per non spaventarmi, e che mi stava donando a piccoli sorsi. Ma
più mi
abbeveravo a quella fonte, più mi facevo assetata, al punto
che non volevo più
smettere di baciarlo.
Non ricordo più perché, alla
fine, ci separammo; ma
quando accadde, e i nostri sguardi s’incrociarono, lo vidi
emozionato quanto
me, e intenerita lo abbracciai forte, ricambiata con altrettanta
energia.
E la scatola, a quel punto, non mi fece
più paura, ma
rimase ancora chiusa, come ad aspettare, paziente, il giorno in cui
l’avrei
aperta.
**
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Capitolo 6 *** Fahrrad ***
V:
Fahrrad
(Bicicletta)
All’inizio di quel pomeriggio uscii dal
portone della
casa, infilandomi la mia felpa preferita (quella che rubai tempo prima
a
Kojiro, blu con il cappuccio), e quando scesi le scale sentii
immediatamente il
freddo sulla faccia, tanto che il primo istinto fu di tornare dentro:
se c’è
una stagione che non sopporto è l’inverno, detesto
il freddo.
Ma quel giorno ero uscita per “scrostarmi
la muffa
dalla schiena”, per tanto mi strinsi ulteriormente nella
grossa felpa,
guardandomi intorno.
Non ci ero mai stata attenta al giardino: la strada
era lastricata, e una piccola via entrava nel prato portando verso il
retro
della villa, affiancata da qualche albero.
Uno in particolare attirò la mia
attenzione, non solo
per la sua altezza, ma soprattutto perché c’era
un’altalena lì appesa.
Di sicuro stava là da prima della
guerra: la corda era
sfilacciata in più punti, e il legno dava l’idea
di essere marcio. Però avevo
tanta voglia di provarla! Era uno di quei giochi che, fin da piccola,
mi faceva
impazzire, tanto che diventavo quasi prepotente quando ci salivo (quasi
… va bene,
lo diventavo, lo diventavo …).
Mi avvicinai, e cautamente ci posai sopra le mani,
facendo pressione: stranamente, nonostante aumentavo costante la
spinta, il
legno non cedette, e incoraggiata provai a sedere, stando molto
attenta; sentii
il legno scricchiolare, e per un attimo mi preparai alla caduta.
Invece, inaspettatamente, l’altalena
reggeva. Che
bello! Provai a muovermi, e le corde gemettero: avevano
l’aria di non essere
state usate da anni, le funi sembravano sempre sul punto di rompersi;
ma non me
ne fregava niente, mano a mano che dondolavo dimenticavo quanto fosse
vecchia
l’altalena, e pretendevo sempre di più, arrivando
a non toccare più il terreno
con i piedi.
Guardai sopra di me, e rimasi senza parole: il
cielo
era incredibilmente terso, ed era così immenso che, per
qualche attimo, mi sentii
smarrita, e persi il respiro mentre l’altalena mi riportava
nuovamente verso
terra, prima di ributtarmi verso l’alto.
Sentii il freddo arrivarmi addosso, rispetto ad
Okinawa lì l’inverno era gelido, e infilai il
mento e parte della faccia dentro
il collo della felpa, sentendo ancora l’odore del detersivo
che la signora
Hyuga aveva usato per lavare l’indumento, prima che lo
portassi via con me. Era
la prima volta che la indossavo da quando ero arrivata.
Quella era una delle felpe preferite da Kojiro, si
capiva perché il tessuto era rovinato sul collo e le
maniche; dato che era una
delle più pesanti, spesso gliela prendevo di nascosto, e da
una parte questo lo
divertiva, tanto che mi dava sempre della
“freddolona”, dall’altro restituirgliela
diventava una scusa per qualcosa di più
“intimo”.
A quel ricordo mi tornò in mente la sera
precedente, quando
avevo baciato Wakabayashi, e inchiodai l’altalena con i
piedi, portandomi
lentamente una mano verso la bocca, notando però qualcosa
sulle dita: erano
nere, letteralmente. Mi alzai in piedi, e voltandomi mi resi conto che
il legno
non era marcio, ma tremendamente sporco. Oh cavolo, i miei jeans!
Tentai di pulirmi le mani, e fortunatamente lo
sporco
era abbastanza secco, quindi anche con i pantaloni me la cavai,
allontanandomi
a malincuore dall’altalena; ci sarei tornata per
risistemarla, e poi nessuno
sarebbe più riuscito a staccarmi da lì.
Ripresi il lastricato in mezzo all’erba,
e presto
spuntarono davanti ai miei occhi delle siepi di rose, accompagnate da
altri alberi
che non conoscevo; nel retro della villa lo spazio era immenso,
c’era perfino
un gazebo tra gli alberi, avvolto da un rampicante spoglio e un
po’ lugubre a
mio parere, sembra la mano di qualche strega che lo arpionava.
Il luogo era così vasto che sicuramente
ci si potevano
organizzare delle feste, ricordando le parole di Isolde a proposito
della madre
di Wakabayashi.
Per la seconda volta mi tornò in mente
la sera
precedente, e di nuovo mi sentii impreparata a quel pensiero: gli avevo
rivolto
delle parole così intense, e neanche me n’ero resa
conto. E poi quel bacio …
accidenti, ora le cose si sarebbero evolute ulteriormente e io
… io non mi
sentivo per niente pronta ad affrontare il passo successivo.
Mi allontanai, seguendo per la terza volta il
lastricato, e questa volta mi trovai di fronte la macchina della
famiglia,
almeno così avevo capito dato che Wakabayashi ne aveva una
per i fatti suoi;
Freidrich se ne stava prendendo cura in quel momento, lavandola con un
tubo di
gomma, ma quello che mi colpii fu che vicino alla macchina, appoggiata
al muro,
c’era una vecchia bicicletta.
Era blu, con il fanale e il campanello, tenuta
bene, e
pensai che fosse dell’uomo.
-Freidrich
ist dieses Fahrrad dein?- (è tua questa bicicletta?)
-Nein,
es ist der Herren Wakabayashi.- (no,
è dei signori Wakabayashi)
Per un attimo pensai a Genzo sopra la bici, e poco
ci
mancò che scoppiassi a ridere in faccia a Freidrich, che
immagine assurda!
Invece mi avvicinai al mezzo, e tenendolo per il
manubrio e il sellino cominciai a spingerla, impaziente di provare a
salirci
sopra. Freidrich sembrò intuire le mie intenzioni,
perché mi abbassò il sellino;
feci un giro di prova, seguendo il lastricato del giardino, e poi
guardai verso
il cancello, intenzionata ad uscire.
Ma appena lo pensai mi resi conto che non era una
buona idea: la mia faccia era sulle riviste, e sicuramente i
giornalisti si
sarebbero fatti vedere in zona; tuttavia Genzo mi aveva assicurato che
c’era un
ordine restrittivo, e che almeno per dieci metri non ci doveva essere
nessuno.
Che fare? Rischiare o restare dentro il giardino?
In
fondo c’era sempre l’altalena.
Eh no, che cavolo! Mica potevo restare segregata
lì!
-Ich gehe raus!- (io esco fuori!)
Lo dissi ad alta voce, in modo che Friedrich mi
sentisse (e imbarazzandomi, temevo di non averlo detto bene); mi
avvicinai con
la bici al cancello, aprendolo quel tanto che mi bastò per
passare con il
mezzo. Per sicurezza, mi misi sulla testa il cappuccio della felpa, e
appena
ebbi la certezza che non c’era nessuno nei paraggi, partii di
corsa in bici.
E vi giuro, è stato fantastico!
Ero fuori da quelle mura, su una strada aperta che
mi
portava chissà dove; certo faceva freddo, ma ero troppo
contenta e non smisi di
pedalare, tanto che la velocità mi abbassò il
cappuccio, e sentii chiaramente
il vento arrivarmi sul collo, facendomi rabbrividire.
Quando raggiunsi una velocità sostenuta
smisi di
pedalare, e lentamente staccai le mani dal manubrio.
All’inizio, dopo pochi secondi, mi ci
attaccai
spasmodicamente, ridacchiando e pedalando energicamente per
riacquistare velocità;
dai Maki, ce la puoi fare!
Presi un profondo respiro e, alla fine, lasciai
andare
le mani, tenendo le braccia tese in orizzontale, e smettendo di
pedalare: per
dieci secondi mi sentii padrona del vento, e alzai lo sguardo verso il
cielo,
pensando a quanto mi stavo sentendo viva, a come tutto era diverso
rispetto a
quando stavo nel ryokan.
Un leggero vibrare della bicicletta mi fece
acchiappare e stringere con forza il manubrio, temendo di cadere, e mi
resi
conto che, in quegl’attimi, avevo trattenuto il fiato.
La bici, nel frattempo, mi stava portando verso il
centro della città, e senza rendermene conto mi trovai nel
traffico di Monaco,
cercando di riconoscere nelle indicazioni stradali le piste ciclabili,
terrorizzata all’idea di trovarmi schiacciata da un autobus
tedesco.
Non voglio certo finire in questo modo i miei
giorni!
Non senza aver prima capito con che razza di uomo sto vivendo!
Alla fine riuscii a salire lungo la pista
ciclabile,
ma pian piano persi interesse su dove stavano andando le mie ruote,
guardandomi
intorno e constatando dove mi aveva portata la mia fuga.
Il libro di favole, che sfogliavo da piccola, era
vecchio e con le pagine ingiallite, ma ricordo chiaramente che le
favole
occidentali che conteneva erano sempre accompagnate da illustrazioni
eleganti,
stampate ma fatte in originale con l’acquarello; e
lì i castelli spiccavano
alti, con merlature e graziose guglie, che venivano sempre incorniciate
da
cieli mozzafiato o nuvole arricciate.
Ebbene, mentre mi muovevo verso le strade
più piccole
di Monaco, perdendomi, mi parve di essere finita proprio dentro quelle
immagini, persino la gente che mi passava accanto aveva qualcosa che mi
faceva
pensare, in alcuni momenti, che non fossero reali.
Rallentai, fermai e scesi dalla bici, proseguendo
la
camminata e guardandomi attorno, sentendomi sempre di più
sperduta in una
favola di Handersen, o dei fratelli Grimm. E io chi ero?
Di sicuro non la Bella Addormentata, certe volte
dormo
addirittura troppo poco per mia madre.
Cenerentola? Beh è la mia favola
preferita, e per un
po’ lo sono stata; ma ora era tutto diverso, adesso questa
Cenerentola (o
meglio Aschenputtel, come la chiamano da queste parti) viveva in una
splendida
casa. No, decisamente no …
Biancaneve? Ma figurati! e dove sono finiti i sette
nani? E la matrigna?
La Bella e la Bestia? Beh, considerando
qual’era il
padrone di casa, c’ero molto vicina. A quell’idea
sorrisi, e mi fermai in una
piazza, notando divertita una bambina che dava da mangiare ai piccioni,
alcuni
di questi le arrivavano persino sul braccio, per nulla intimoriti.
Guardai la piccola intenerita, aveva un cappotto
rosa,
delizioso per quel piccolo visino, aveva le guance e il nasino
arrossato per il
freddo; ad un tratto vidi la madre avvicinarsi, inginocchiandosi
accanto a lei
mentre il padre si metteva davanti a loro, per farle una foto.
Strinsi il manubrio della mia bicicletta, la mia
tenerezza fu subito seguita, accompagnata e sommersa dalla mestizia:
avevo
sempre desiderato un maschio, e Kojiro lo voleva tanto quanto me, ma mi
confessò che se fosse stata femmina lui sarebbe stato
comunque felice, anzi l’avrebbe
viziata, proprio come aveva sempre voluto fare con sua sorella.
Avere un figlio con lui era solo questione di
tempo,
una cosa assolutamente naturale, come la nostra convivenza e il nostro
matrimonio.
Non sono mai stata una persona che si lamenta, non
sopporto piangermi addosso in quanto so che è inutile; ma in
quel momento pensai
… perché mi era successo tutto questo?
Ho sempre saputo cosa volevo e cosa potevo avere
dalla
mia vita; e nonostante il softball non potesse esserne più
una componente fondamentale,
avevo ancora Kojiro, e la certezza che la mia vita sarebbe proseguita
insieme a
lui, a prescindere dai miei problemi di salute e familiari.
Invece … non avevo più
nemmeno questo.
Anzi, adesso ero in un’altra
città, di un’altra
Nazione, di un’altre parte del Mondo, con un altro uomo a
cominciare un’altra
vita.
“Chi lascia la strada vecchia per quella
nuova sa cosa
perde … ma non sa cosa trova.”
E per il momento non avevo trovato tantissimo:
avevo l’amore
di Wakabayashi, questo si. Ma io sarei riuscita ad amarlo allo stesso
modo? E soprattutto
sarei riuscita a non essergli più di peso?
Perché in fondo questo ero:
un’inquilina della sua
villa, che si grattava la pancia dalla mattina alla sera, cosa che non
sopportavo più. Ero una “sofferente”
vedova (e mi riferisco alle mie condizioni
fisiche), ma ero ancora in vita, con molti anni a venire; dovevo
ricominciare a
darmi seriamente da fare.
Con quella nuova spinta mi rimisi in movimento,
sempre
al fianco della bici, guardando intorno a me i palazzi, le stradine, la
gente,
i colori, il movimento, e poi le vetrine: un negozio di giocattoli,
libreria,
vestiti, bar … aspetta un momento.
“Kellnerin Gesucht”
Cameriera … cercasi.
Era un semplice foglio di carta, con la scritta
stampata, ma rimasi immobile, con il manubrio della bici fra le mani, e
d’istinto
strinsi la gomma dell’estremità: era assolutamente
non premeditata, neanche
veramente sensata, non sapevo neanche dove mi trovavo!
E poi il mio tedesco non era ancora buono,
rischiavo
di combinare solo danni.
Mi sporsi dall’ingresso, e subito sentii
l’odore del
caffè; c’erano tre persone dentro, una seduta al
tavolo e le altre che
chiacchieravano al bancone, e un uomo con barba e baffi bianchi, come i
capelli
folti, dietro il bancone, probabilmente il proprietario.
No Maki, no! Questo è folle! Queste cose
bisogna prima
pensarle per bene.
E poi c’è Genzo! e soprattutto
la stampa!
Assolutamente no!
Mi guardai intorno, notando la gente che andava e
veniva.
Non puoi lasciare incustodita la bici! E se
qualcuno
la ruba? Come torni a casa? Non hai neanche il portafoglio o il
cellulare con
te!
-Braucht half, fräulein?- (ha bisogno di
aiuto,
signorina?)
Voltai lo sguardo, e mi ritrovai gli occhi nocciola
del barista di prima. Si era sporto dal bar con aria incuriosita, e per
i primi
secondi mi sentii assalire dall’imbarazzo; tuttavia il mio
corpo aveva un
meccanismo che, in queste situazioni, si attivava, permettendomi sempre di rispondere al
meglio.
-Suche
nach
einer Kellnerin? Ich interessiere. Aber wo … mein Fahrrad zu
setzen? (Cercate
una cameriera? Sono interessata. Ma … dove appoggio la
bicicletta?)
Lui mi guardò stupito, per poi
ridacchiare divertito.
Io a quel punto mi sentii profondamente imbarazzata: Kami,
gliel’avevo detto
bene? Con il corretto tedesco? E se avesse capito male?
Lui però si appoggiò allo
stipite dell’ingresso,
continuando a sorridermi divertito ma gentile e parlandomi, scandendo
le parole
da sotto la folta barba bianchissima.
-Possiamo anche parlarne qui, non
c’è problema. Da
quanto tempo sei in Germania?-
-Due … tre mesi.-
-Sei una studentessa? Stai studiando
all’università?-
-No signore.-
Avevo rinunciato ad andare
all’università ancora prima
di fidanzarmi ufficialmente con Kojiro: sapevo che la mia testa non mi
avrebbe
portato lontano, mentre i miei lanci e il mio spirito agonistico si.
-E come mai vuoi lavorare qui? Come vedi
è piccolo, e
non c’è molto movimento, a parte il pranzo e la
sera tardi.-
Dovevo formulare una frase lunga in tedesco,
perciò m’impegnai
a fondo, sebbene fossi lenta.
-Ho … lavorato per molti anni in
… (non sa cos’è un
ryokan, un sinonimo, un sinonimo…) una locanda, come
cameriera. Non ho lavoro,
e questo è abbastanza per me.-
Sapevo che la lingua pesava molto in quei casi, e
strinsi i denti infastidita: di sicuro non mi avrebbe dato il lavoro,
con
quella mia difficoltà.
Mi guardò a lungo, e ricambiai sempre lo
sguardo senza
timore.
-… facciamo così: domani sei
libera?-
-Si signore.-
-Allora vieni verso le nove, e lavora qui in prova:
se
non sarà troppo difficile, hai il lavoro. Ma credo che
andrà tutto bene.-
Quasi non ci credevo! Avevo un lavoro! Ero in
prova,
certo, ma cavolo, lavoravo!
-Grazie mille signore.-
-Albert, chiamami Albert.-
-Ah, io sono Maki.-
-Molto lieto.-
Gli strinsi la mano cercando, il più
possibile, di
trattenere un sorriso troppo grande per la mia faccia; quando poi
tornò dentro
al bar, invece del sorriso soffocai un esclamazione di gioia, ma
proprio non riuscii
a non fare un salto d’entusiasmo, guardandomi poi intorno
imbarazzata.
Ce l’avevo fatta! Visto Kojiro? Non era
molto, ma era
un inizio; non sapevo dove mi avrebbe portata quell’inizio,
ma era sempre
meglio che starsene perennemente dentro quella casa nascosta al resto
del
mondo, no, Kojiro?
Mi guardai intorno, ammirando la piazza e
cercandone
il nome sui muri dei palazzi, per poi prendere la bicicletta,
incamminarmi … e
pregare Kami perché mi mandasse un aiuto, un indicazione o
qualcos’altro per
riuscire a tornare indietro!
C’era riuscito con il bar, questo era una
sciocchezzuola,
no?
Provai a fare mente locale, a ricordarmi quello che
avevo visto prima di entrare nella piazza, e un po’ incerta
presi la stradina
che mi pareva più familiare, ripercorrendola
all’indietro con molta calma,
guardandomi perennemente intorno per scorgere ogni minimo dettaglio che
la mia
testa riusciva a riconoscere.
Il freddo cominciò a salirmi dalle mani
nude,
arrivandomi alle spalle, e nascosi nuovamente il volto dentro la grossa
felpa,
coprendomi la testa con il cappuccio.
Con quel passo lento ritrovai la strada principale,
e
da lì ero certa di essere sempre andata dritta, per cui mi
rimisi in sella e
ripresi a pedalare mentre la luce del giorno si stava velocemente
spegnendo
intorno a me, accidenti non mi ero accorta che fosse così
tardi, Isolde sarà di
certo preoccupata.
E Genzo? Quel giorno aveva la partita. Se fosse
tornato prima di me? Oddio, non osavo immaginare quanto fosse incazzato.
Pedalai più velocemente, e arrivai
davanti al
familiare cancello con il fiatone, tanto che mi dovetti fermare prima
di
aprirlo; scesi dal sellino e abbassai la testa affaticata, accidenti se
avevo
pedalato! Non mi ero accorta che la villa era leggermente in salita, e
io non c’ero
più abituata a quel movimento.
Mentre respiravo sentii la porta principale
aprirsi, e
pregai che fosse Isolde.
-… ti sembra l’ora?-
No, sfortunatamente non era Isolde.
-Mi dispiace Genzo …-
-Isolde era preoccupatissima, voleva addirittura
chiamare la polizia.-
-Beh, me lo hai detto tu che si agita troppo
…-
-Peccato che ero d’accordo con lei!-
Mi sorprese più la frase che il volume
della sua voce.
Certo, mi dava fastidio che alzasse la voce, ma in quel caso ero
sinceramente
stupita della sua ansia, tanto che alzai lo sguardo: vi giuro
solennemente che
in faccia, oltre alla solita espressione incazzosa, Genzo Wakabayashi
era
seriamente angosciato.
Tanto ero meravigliata che non gli riposi, e lui
continuò a parlarmi, con il cancello che ci separava.
-Dove sei stata?! Quando sono tornato Isolde mi ha
detto che ti ha solamente sentito dire “io esco
fuori!” e da allora non ti ha
più vista!-
-Ah io … volevo solo fare un giro in
bicicletta.-
-E non potevi farlo qui nei dintorni?-
-Non mi sono resa conto di dove andavo.-
Si passò una mano sulla faccia, e poi mi
guardò
irritato; a quel punto cominciai ad irritarmi anch’io, e le
sue successive
parole non migliorarono di certo il mio umore.
-Sei un incosciente! Questa non è
Okinawa, è Monaco! Non
sai cosa puoi trovare, chi puoi incontrare!-
-Lo so benissimo da me, cosa credi?!-
-Ma a quanto pare sembra non interessarti, dato che
vai in giro in bicicletta senza neanche il cellulare!-
-Credevo di tornare subito!-
-Sei stata veramente una pazza! Proprio non capisco
cosa ti è preso!-
Eh no, gl’insulti di quel tipo non mi
andavano proprio
giù.
-Volevo uscire un po’ da quella casa
prima di fare la
muffa! Sono tre mesi che sono qui e non ho visto effettivamente niente!!
Ma a te tanto cosa ti frega?! Tu ci abiti qua!
Conosci
tutto qua! Sai perfettamente che il mondo è pieno di
pericoli, e pertanto io
devo rimanere rinchiusa in casa come una brava bambina, no?!-
A quel punto la mia voce era decisamente
più alta
della sua, e con forza aprii il cancello, entrando dentro con la bici e
saettandolo con un’occhiata, sibilando.
-Vai al diavolo Wakabayashi.-
Mi avevo rovinato la giornata. Era andata
così bene!
Avevo pure voglia di dirgli di quel lavoro, sapere cosa ne pensava;
invece quella
discussione aveva fatto crollare il mio entusiasmo, e non volli dirgli
più
niente.
Lui, però, sembrava non intenzionato a
cedere.
-Io dovrei andare al diavolo?! Senti un
po’, sei tu
quella che se n’è andata fuori così
all’improvviso.-
-E io ti ho detto che mi dispiace, ma tanto se non
m’inginocchio
ai tuoi piedi e invoco il tuo perdono non sei contento, no?-
-Adesso stai esagerando, non fare la bambina.-
-Io non devo fare la bambina?! Chi è che
ha cominciato
questa assurda discussione? Chi è che si è
permesso di dirmi che sono pazza,
sconsiderata e altro, quando lui è sempre fuori e torna
quando cazzo gli pare e
piace.-
-Io ho un lavoro …-
-Lo so perfettamente, e t’invidio per
questo
maledizione!-
A quel punto stavo gridando, ma se non urlavo mi
veniva il nodo alla gola, e io odio, odio piangere!
-Credi che mi piaccia stare sempre qua dentro? Ho
bisogno
di fare qualcosa Genzo!
E oggi qualcosa l’ho fatta finalmente! Ho
visto Monaco,
e l’ho trovata bellissima! Ho chiesto di essere assunta come
cameriera in un piccolo
bar in una piazza carina, e mi ha detto che domani sono in prova! In
prova,
capisci? Ho finalmente la possibilità di darmi da fare
anch’io! E volevo sapere
che ne pensavi!
Ma tu che fai? Esci di casa e la prima cosa che mi
dici è “Ti sembra l’ora?!”.
Io non sono tua figlia, Genzo: sono la donna che ti
ha
seguito fin qui di sua spontanea volontà perché
è fermamente convinta di poter
avere una seconda possibilità.-
A quel punto feci una pausa e lo guardai
negl’occhi: era
ancora irritato, si vedeva, ma era decisamente molto più
sorpreso che
arrabbiato, e quel’espressione disarmata mi impedì
di vomitargli addosso
ulteriori offese; anche perché, sinceramente, oramai la mia
rabbia era scemata
completamente, e quello oramai era solo uno sfogo dovuto alla
stanchezza.
E fu soprattutto perché ero distrutta
che mi scappò
qualche lacrima. Accidenti! Me le asciugai malamente con la manica
della felpa,
guardando da un’altra parte per non farle vedere a Genzo: io
non ero e non sono
una donna debole, e non mi andava che lui lo pensasse.
-A me piace stare qui. Voglio darmi da fare per
dimostrarti
che so cavarmela da sola.
Per piacere Genzo, per piacere, lasciamelo fare.-
Ed a quel punto sentii le sue braccia sulla mia
schiena, e il suo petto sulla mia faccia; mi strinse con
così tanta forza che
quasi rimasi senza fiato. Mi baciò i capelli e li
accarezzò prima di
immergercisi con la faccia, sentivo il suo naso all’altezza
del mio orecchio. Io,
di rimando, lo strinsi a me con tutte le mie forze, le mie mani si
aggrappavano
alle sue spalle.
Com’era difficile, certe volte, amare
quell’uomo
prepotente: si comportava come un bambino, ma nessuno lo sgridava
veramente. Io,
al contrario, non ne ero minimamente intimorita, abituata
com’ero con mio marito;
ma lui non era Kojiro, e le mie risposte, le mie parole, qui avevano
tutt’altro
significato e senso.
Insomma, amare e stare con Genzo Wakabayashi era
ricominciare
completamente da zero nello costruzione di un legame. Praticamente una
fatica
immane, conoscendo anche il tipo.
Eppure ogni volta che mi abbracciava e mi toccava
in
quel modo, che mi guardava e si rivolgeva a me con tono affettuoso,
sentivo la
fatica scomparire, sostituita da un grande senso di benessere.
In quel caso lui mi prese il volto, e
poggiò la sua
fronte contro la mia, parlandomi sottovoce.
-Ieri mi hai chiesto di stare al tuo fianco e di
sostenerti,
e ti giuro che voglio farlo con tutto me stesso; ma anch’io
ho bisogno del tuo
aiuto e sostegno, e soprattutto della tua pazienza.-
-… ti sei scelto la persona peggiore:
sono peggio di
un petardo.-
E sorridemmo divertiti alle mie parole.
-Beh, io sono peggio di te.-
-Questo di sicuro.-
E ridemmo leggermente. Poi lui tornò
serio.
-Lo vedi? Tu mi migliori. Io mi sento migliore
accanto
a te.-
Io annuii, ma mi sentii presa da
un’emozione pazzesca,
tanto che sono sicura di aver arrossito: mi aveva detto una cosa che
mai mi
sarei aspettata. Io lo miglioravo? Io?
Ma lui non mi diede tempo di pensare.
-Ti prego, Maki.-
… ok, lo ammetto: avevo sbagliato.
-Scusami, la prossima volta starò
più attenta.
-… e tu scusami per la mia reazione, ma
avevo paura ti
fosse successo qualcosa.-
Sorrisi intenerita, e poggiai la mia mano sopra
sulla
sua, ancora mi stava trattenendo il volto. Lui, di rimando, mi
baciò castamente
le labbra, e mi strinse un’ultima volta, prima di lasciarmi
andare, continuando
a tenermi per mano.
Per mano!! Non ci ero abituata!! Mi sentii come un
adolescente alle prese con il primo amore.
Lui, al contrario di me, si mise tranquillamente
l’altra
mano in tasca, prendendo un respiro di sollievo, prima di parlarmi
nuovamente.
-Allora? Questa storia del lavoro?-
E per il resto della serata ne parlammo, assieme
alla
sua partita (ovviamente vinta, ma non credo sia necessario dirlo, no?).
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Capitolo 7 *** Werk ***
VI:
Werk
(Lavoro)
Quella mattina mi svegliai così presto
che la luce del
sole era ancora grigia e pallida, e la striscia di luce tra le tende,
che
tagliava una parte della mia stanza, era altrettanto grigia; mossi le
braccia,
e mi resi conto di averle sopra la testa, e che stavo dormendo
decisamente in
una strana posizione.
Era colpa del letto: era così grande, mi
stavo
abituando male a tutta quell’immensità. Se fossi
mai tornata a dormire in un
futon sarebbe stato molto scomodo.
Già, ma quando sarei tornata a dormirci?
Oramai le
possibilità si erano ridotte così tanto
…
Non che mi mancasse il Giappone, sia chiaro,
però …
Il mio sguardo si spostò verso sinistra,
lì dove c’era
la scatola, il fascio di luce la tagliava quasi a metà.
Ancora chiusa, ancora in mezzo alla stanza. E
personalmente
non mi andava né di aprirla, né tantomeno di
spostarla.
Osservai in silenzio la polvere che, alla luce
debole
dell’alba, si agitava e ballava sopra l’involucro
di cartone rinforzato; mi
misi seduta e continuai a guardarla con aria assonnata, cercando di
figurarmi
cosa ci avrei trovato dentro, come una bambina che immagina il regalo
avuto da
Babbo Natale, aspettando che i genitori si svegliassero e scendessero a
vedere.
Solo che io, al contrario della bambina, non ero
entusiasta a quella vista.
Comunque, di sicuro dentro c’erano i miei
kimono.
Però, in quel caso, non ci voleva una scatola
così grande.
Provai a ricordarmi cos’avevo lasciato al
ryokan, ma
non riuscivo proprio a ricordarmi cosa c’era di
così grande o ingombrante; e
poi … ci sarebbe stata anche roba di Kojiro?
A quel punto mi alzai in piedi, e aprii le tende
della
camera, lasciando che la luce entrasse, sebbene fosse debole e
grigiolina.
Anche quell’alba era completamente
diversa da tutte
quelle che avevo passato: nel ryokan la luce era molto più
limpida, e non c’erano
di sicuro così tante nuvole come in quel momento; anche
d’inverno si poteva
dire che era abbastanza limpido.
Le mattine di Torino, invece, erano livide, ma
stranamente piacevoli, come il risveglio di una vecchia signora snob;
inoltre
ero solita risvegliarmi tra le braccia di Kojiro, ed era sua abitudine
abbracciarmi nel sonno quando stavano insieme, provocandomi spesso
qualche braccio
o mano “addormentata”. Però mi faceva
sempre una tremenda tenerezza: eravamo
sempre lontani per lavoro, quando stavamo insieme mi voleva accanto
anche nel
sonno.
Forse anche per quell’abitudine che dalla
sua morte, quando
mi svegliavo la mattina, sentivo sempre freddo alle braccia.
O forse perché mi ero intestardita a
dormire con una
maglietta e pantaloncini corti del pigiama, invece di mettermi qualcosa
di più
pesante, mica ero ad Okinawa!
A tal proposito, forse era il caso di muoversi,
visto
che quello e il mio primo giorno di lavoro; non ufficiale, certo, ma
era il caso
di presentarsi un pochino prima per dimostrare la buona
volontà.
Mi lavai e cambiai velocemente, scendendo poi al
piano
di sotto e aspettandomi, come sempre, Isolde, che preparava la colazio
…
-Oh, buongiorno.-
Genzo era seduto sul tavolo della cucina,
sorseggiando
il suo caffè, e d’Isolde nemmeno la traccia.
Che strano, era la prima volta che lo vedevo di
mattina, solitamente quando mi svegliavo lui era già andato
ad allenarsi.
-Buongiorno. Isolde?-
-È andata a fare il bucato, ma come vedi
ha fatto in
modo che tu non avessi fame.-
Latte, succo di frutta, caffè, pane
tostato, torta, brioche,
biscotti, burro, marmellate di due tipi diversi, miele, zucchero
… sorrisi
divertita, mettendomi davanti all’uomo e versandomi un
po’ di succo di frutta
mentre questo finiva di bere il suo caffè.
In quel momento notai che indossava un completo
diverso dal solito: era decisamente più scuro, e la cravatta
era molto più
elegante, aveva persino dei gemelli al posto dei soliti bottoni della
camicia;
vederlo vestito in quella maniera lo faceva sembrare ancora
più grande della
sua età.
Continuai ad osservarlo, non aveva nemmeno il suo
berretto rosso, e i capelli neri sembravano essere stati appena lavati;
ma
quello che mi colpì di più fu la colonia che
aveva addosso, non l’avevo mai
notata fino a quel momento, ma era veramente buona e soprattutto forte.
Lui alzò lo sguardo verso di me, e si
fermò dal
sistemarsi i polsini della camicia bianca, sembravano dargli fastidio.
-Che c’è?-
-No, niente, è che … non mi
sembra il tuo solito
completo per andare ad allenarti.-
-Infatti oggi non ci vado: devo andare in azienda
da
mio padre, sembra che il vecchio voglia fare un discorso a me e
agl’altri due.-
“Azienda” e
“padre” fecero scattare la mia
curiosità:
allora suo padre lavorava ancora! Chissà che lavoro faceva!
E gli “altri due”
erano i suoi fratelli, vero? Quanto mi sarebbe piaciuto andare con lui
per
conoscerli!
-Mi piacerebbe venire con te.-
Lui fece una faccia a metà fra il
dubbioso e il
divertito.
-Non credo: sarà una noiosa riunione di
lavoro per ricordarci
che siamo la famiglia Wakabayashi e che io, specialmente, devo
ricordarmi che “per
quanto la tua carriera sportiva ti abbia dato meriti e successi, devi
anche
occuparti della gestione dell’azienda.”-
Sorrisi mentre lo vedevo imitare il suo genitore, e
in
quel momento mi ricordai che Isolde mi aveva detto che, dei tre, Genzo
era
quello che assomigliava maggiormente al padre.
-Tuo padre è molto severo?-
Lui si fermò dall’imitazione,
e subito dopo prese una
fetta di pane tostato, rispondendomi.
-No, non direi severo. Piuttosto è
esigente: sa di
aver tre figli intelligenti che sanno come si gestisce
un’impresa, e pretende
da noi sempre il massimo.-
In quella frase riconobbi qualcosa di familiare, e
sorrisi intenerita mentre bevevo un altro po’ di succo.
-Sei orgoglioso di lui, non è vero?-
A quella domanda non mi rispose subito, ma gli
andò di
traverso il boccone di pane che si era preso, e dovette bere un
bicchiere di
latte per cercare, quanto meno, di tornare a respirare; a quella
reazione,
invece, a me scappò da ridere, e dovetti coprirmi la bocca e
dargli persino le
spalle mentre Genzo mi lanciava una delle sue solite occhiatacce.
-La vuoi finire?!-
-Scusami, scusami, e che non mi aspettavo che
t’imbarazzassi.-
-Imbarazzato io?! Non sono imbarazzato!
È che … la tua
domanda è stata inaspettata.-
-Perché? Non ti piace parlare della tua
famiglia?-
-Non più di tanto. Voglio dire
… non abbiamo tutto
questo gran rapporto.-
-Però non mi sembra che tu li detesti o
cose del
genere, no?-
-Ma figurati se li detesto! Solo perché
non siamo tutti
insieme appiccicati come la famiglia di Oozora non significa che non ci
vogliamo bene. Siamo fatti in un certo modo, tutto qua.-
Non ho mai conosciuto la famiglia di Oozora, ma
capii
cosa intendeva dire, e per tanto annuii mentre lui si alzava in piedi,
controllando l’orologio che portava al polso (oh dio!
L’orologio al polso! Ma con
che razza di bestia muta forma vivevo?!).
-Bene, sarà il caso di andare: non
voglio essere l’ultimo
ad arrivare.-
-Già, sarà meglio che vada
anch’io, dato che sono in
bicicletta.-
-Cosa? Vuoi andare in bici? Pensavo che ti portassi
io.-
-E farmi vedere con te da mezza Monaco? Ci credo
che
la stampa si sia divertita con te, non hai proprio idea di cosa sia la
discrezione.-
-Certo che lo so, e comunque non saremmo andati con
la
mia, e non ti avrei certo portata fino davanti al bar.-
Fin dalla sera precedente si era dimostrato
preoccupato sul fatto che il bar non si trovasse molto vicino a dove
abitavamo,
ma mica era colpa mia se casa sua era in periferia mentre il bar era
nel centro
storico!
Mi infilai la giacca a vento e presi il mio zaino
mentre l’uomo prendeva il suo cappotto, fuori di sicuro
c’era Friedrich che lo
aspettava con la macchina.
-Sta tranquillo, andrà tutto bene. Me la
sono cavata
anche la prima volta, no?-
-Già, ma almeno questa volta io e Isolde
sappiamo dove
stai andando e quando pensi di tornare.-
-Pensa, io non so ne l’una ne
l’altra per quanto ti
riguarda, eppure sono assolutamente tranquilla.-
-Perché io sono un uomo grande e maturo.-
-No, perché so che Friedrich ti fa da
babysitter.-
E lui prese la frecciatina con un sorriso ironico e
tanto stile, prima di darmi un bacio e mettermi in testa un cappello, e
lo
calcò talmente tanto che per qualche momento mi
coprì la visuale; quando me lo
sistemai sentii subito che si trattava della visiera di un berretto.
-E questo?-
-In caso di sole o pioggia. Riportamelo indietro
stasera, mi raccomando.-
-Perché?-
Non mi rispose, così andai a vedere allo
specchio.
Oh cazzo, ma era il suo berretto rosso! Ecco
perché,
oltretutto, mi stava così grande!
Me lo aveva dato … come porta fortuna,
lui lo aveva
sempre durante le partite … oh accidenti!
-Genzo!-
Uscii fuori, ma lui stava entrando in macchina, e
Friedrich
chiuse la portiera, portandosi verso il suo posto di autista; io corsi
velocemente verso il suo finestrino, e lui lo abbassò,
guardandomi sorpreso.
Volevo dirgli qualcosa come “buon
lavoro”, oppure “passa
una buona giornata”, ma mi sembravano così banali
che mi rifiutavo persino di
pensarle, così il mio cervello dovette lavorare il doppio
della velocità
normale.
-… ci … ci si vede stasera,
va bene?-
Lui fu sorpreso, ma poi sorrise con aria
tremendamente
scanzonata, allungando una mano verso la mia guancia, accarezzandola e
arrivando
fino ai capelli, annuendo.
-Certamente. Buon lavoro.-
Poi mi lasciò andare, alzò il
finestrino e la macchina
si allontanò, uscendo mentre io restavo ancora qualche
minuto imbambolata,
guardando il retro dell’automobile dirigersi verso Monaco.
Il suo sorriso mi aveva completamente spiazzata,
era
così diverso dalla solita aria ironica o affettuosa: per un
attimo mi era
sembrato un ragazzino, i trent’anni erano scomparsi lasciando
il posto ad un diciassettenne
un po’ cresciutello.
Il vento freddo mi riportò alla
realtà, e io mi
sistemai meglio che potei il berretto, raggiungendo la bicicletta.
Mentre mi stavo avviando, vidi Isolde sbucare dalla
porta principale, aveva in mano il cestello con dentro le mollette del
bucato,
doveva aver appena finito. Le sorrisi entusiasta, mi sentii come al mio
primo
giorno di liceo: quando mia madre e mia nonna erano venute a salutarmi,
la
mamma aveva in mano il battipanni perché stava facendo
prendere aria ai futon.
-Isolde,
ich gehe!- (io vado)
-Guten Job.- (buon lavoro)
E pedalai energicamente verso Monaco, questa volta
stavo attenta a dove andavo, Genzo mi aveva pure mostrato il percorso
più
veloce per raggiungere il bar senza incontrare tutto il traffico del
centro, e
in batter d’occhio era di nuovo in quella bella piazzetta,
con la facciata
della chiesa e i piccioni, questa volta nutriti da due turiste
straniere che
ridevano come pazze appena lo stormo cominciava a volare.
Ora che lo notavo meglio, gl’infissi del
bar erano di
un piacevole color crema, e la muratura interna era rosso fuoco; beh,
non era
certamente un “bar tradizionale tedesco”, ma
l’aspetto estetico era
interessante.
Questa volta legai la bicicletta con la catena, e
bussai timidamente alla porta, notando che le luci erano spente e che
tutto
pareva calmo e fermo; ero arrivata troppo in anticipo?
Ah, no, vidi il proprietario dietro il bancone, e
bussai di nuovo, facendomi notare e salutandolo gentilmente con la
mano; questo
mi venne ad aprire, con aria felicemente stupita.
-Bene, siamo mattiniere!-
-Buongiorno signor Albert.-
-Buongiorno a te … Maki, giusto? Ah,
meno male, sai
sono un disastro con i nomi. Ma vieni, vieni pure, stavo per aprire,
sistemavo
solo le ultime cose.
Allora, in quell’angolo ci sono il bagno
e lo
spogliatoio, dovrebbe esserci un grembiule pulito, va pure a prenderlo
che poi
ti spiego un po’ di cose.-
Obbedii, entrando nella porta a sinistra. La stanza
era un po’ stretta, ci si entrava massimo in due, e aveva
l’odore di essere
stata appena intonacata mentre aprivo l’armadietto e mi
prendevo il grembiule,
mettendoci al suo posto la giacca a vento; mi tolsi anche il berretto,
e
sorrisi come una cretina, tastandolo fra le mani.
Genzo me lo aveva dato come porta fortuna
… Ah,
andiamo Maki! Al lavoro su, non perderti dentro alle scemenze!
Risposi il cappello nell’armadietto e
tornai nel bar,
Albert stava per aprirlo ufficialmente.
-Ah, eccoti. Beh, il grembiule sembra un
po’ grande,
ma non credo che sia un problema, no?
Allora, cominciamo con le basi: sai usare una
macchina
del caffè?-
La guardai, e mi venne in mente quando ancora
giocavo
a softball: quando avevamo i ritiri, negl’alberghi, ero
solita trovare quel
tipo di macchine, anche perché alcune mie compagne erano
grandi consumatrici di
caffè.
Ma allora, come in quel momento, non mi sarei mai
azzardata di metterci le mani; scossi scoraggiata la testa ad Albert,
ma lui
sorrideva divertito.
-Non mi sorprende, non credo che nella locanda dove
lavoravi avevi una cosa del genere, giusto?-
-In effetti era una locanda tradizionale.-
-E di cosa ti occupavi?-
-Ah, più che altro della pulizia delle
camere e della
cucina.-
-Sai cucinare?-
-Beh … ho imparato pian piano,
però le cose più
semplici le so fare.-
-Bene, in caso potrebbe tornarci utile per
l’aperitivo,
che ne pensi?-
Io sorrisi emozionata, oh si questo era pane per i
miei denti! Finalmente!
Mi mostrò come usare la macchina del
caffè e i
congegni della birra, e mi spiegò che l’orario di
punta era verso il tardo
pomeriggio dato che, in quella zona, era uno dei pochi bar presenti, e
quindi
chi voleva fare una bevuta o un semplice aperitivo si dirigeva
lì; disse queste
informazioni in maniera abbozzata, ma non ebbi bisogno di sapere altro
mentre i
primi clienti cominciavano ad entrare.
E fortunatamente, per la maggior parte delle volte
ci
pensava Albert a loro: con il mio tedesco stentato, infatti, ero a
malapena
capace di capire le loro ordinazioni e di rispondere per monosillabi,
muovendomi dietro al bancone da una parte all’altra come
un’indemoniata.
Inoltre non ci avevo mai fatto caso, ma a Monaco i
turisti abbondano!
Riconobbi persino dei giapponesi, e mi permisi di
salutarmi: loro venivano da Hokkaido, e scherzavano sul clima, dicendo
che “non
era così freddo, da loro è peggio!”, e
instaurando così un allegro battibecco
con altri turisti, svizzeri.
In quel momento Albert mi disse di fare una piccola
pausa, offrendomi una cioccolata con panna, e io feci da giudice tra i
due
turisti, anche se si vedeva lontano un chilometro che si stavano
semplicemente
divertendo, anche se facevano un po’ di rumore
all’interno del locale.
Subito dopo arrivarono dei vecchi signori, tutti
allo
stesso tavolo, che chiesero il miglior liquore del bar; ancora una
volta, il proprietario
mi venne in aiuto, mostrandomi un vassoio con sopra una bottiglia e
quattro
piccoli bicchieri da whisky.
-Servili tu, così ti conoscono.
Tranquilla, non
mordono.-
Io annuì, e portai il vassoio, porgendo
i bicchieri
sul tavolo e riempiendo ognuno con del liquore; quello che sembrava il
più
vecchio di tutti sorseggiò la bevanda, e
l’approvò con un semplice movimento
delle labbra (o meglio dei suoi lunghi baffi bianchi). A quel punto
lasciai
loro la bottiglia e tornai al mio posto dietro al bancone, e loro
chiamarono
Albert.
-Albert! Wer ist die
süße Dame?- (chi
è la dolce signorina?)
Arrossii
leggermente al complimento, e l’uomo mi presentò
ai quattro signori. Da come si
comportavano parevano essere loro i proprietari del bar, ma al tempo
stesso
erano molto educati, e mi presero in simpatia, chiamandomi
“enkelin”
(nipotina).
Anche se,
personalmente, questo nome mi pare più quello di una
pubblicità di mele
tedesche (Enkelin, la mela naturale al 100%).
-Te la stai
cavando molto bene.-
Albert posò
dei sandwich sul bancone, e io finii di asciugare l’ultimo
bicchiere,
addentandone uno e scoprendo che, anzitutto, ero affamata, e poi che
erano
veramente buoni!
I quattro
signori erano ancora là, a bere e ridere, chiacchierando del
più e del meno, ma
a giudicare dai loro abiti non parevano essere barboni o degli
alcolisti: erano
solo quattro anziani che si godevano la giornata.
-Rimarranno
qua fino alle sei, poi torneranno a casa. Vengono sempre due o tre
volte alla
settimana, e ogni volta chiedono sempre il liquore più
forte. Sono degli
abitudinari, e presto ti abituerai a loro.-
Quell’ultima
frase mi fece voltare verso Albert, sorpresa e speranzosa. Lui mi fece
spallucce.
-Beh, sei
brava, non posso negarlo, e il tuo aiuto è stato molto
prezioso, soprattutto con
quei giapponesi; ti ripeto, la paga non è
granché, ma non credo che questo t’interessi
davvero, no?-
Ero così
felice che mi sarei messa ad urlare e piangere, ma non feci ne
l’uno ne l’altro,
annuendo e mangiando con maggiore gusto, preparandomi invece alla
tornata del
pomeriggio.
Il tempo di
Monaco, nel frattempo, peggiorò mano a mano, fino a che non
arrivò la pioggia,
e con essa i quattro signori prolungarono la loro permanenza nel bar.
-Gut, la
pioggia è sempre benvenuta: le persone verranno a ripararsi
e noi gli daremo da
bere, formando il “circolo del barista contento”.-
Sorrisi ad
Albert, il quale aprì la porta e si accese una sigaretta,
fumando davanti all’uscio
del locale, guardando fuori il tempo e la gente che passava, facendo
così
entrare almeno cinque persone di fila, finendosi con calma la sigaretta
mentre
io li servivo, sempre andando da un lato all’altro del
bancone, anche servendo
ai tavoli.
Appena terminò
di fumare, il mio capo ebbe “voglia” di aiutarmi, e
non capii se si comportasse
così ancora per mettermi alla prova o perché se
l’era presa molto comoda. Il
suo modo di fare mi ricordava un po’ mia zia, ma lui era
decisamente più
simpatico e disponibile.
-Ancora decisa
a lavorare qui?-
Alzai lo
sguardo, avevo aperto il frigo sotto il bancone per tirare fuori delle
bibite,
approfittandone per prendere fiato dato che, dai nove clienti che
c’erano (i
quattro vecchietti compresi), ne erano arrivato almeno una ventina
(sempre con
i quattro vecchietti compresi).
Lo guardai con
sguardo provocatorio, e sorrisi divertita, credeva davvero che mi sarei
arresa
per così poco?
-Absolut ja.-
(assolutamente si)
E ripresi a
lavorare con maggiore entusiasmo, lanciando diversi sguardi
all’orologio appeso
in alto, notando come stesse segnando le sette e mezzo. Avevo detto a
Genzo che
sarei tornata per le otto, ma con tutta questa gente non me la sentivo
di
lasciare Albert da solo; gli chiesi di fare una telefonata, e chiamai
Isolde.
-Isolde, sono
io. Ascolta, non credo di riuscire a tornare per le otto, non mi
aspettate per
cena mi arrangio da sola.-
> Va bene
Maki. Ah senti, il padroncino Genzo è fuori a cena con il
signor Wakabayashi,
mi ha raccomandato di dirti che tornerà a casa tardi questa
sera.
Ah, peccato:
avrei voluto parlargli della giornata di lavoro, e avrei voluto
chiedergli com’era
stata la sua, ma me lo aspettavo, da quel poco che avevo capito
l’azienda del
padre di Genzo doveva essere una cosa molto grossa e seria, se aveva
spinto l’uomo
a vestirsi in quel modo così elegante e professionale.
-Grazie
Isolde, ci vediamo più tardi.-
> Maki! Un’ultima
cosa: ti stai divertendo?
Io le sorrisi,
pensando per un momento che potesse vedermi, rendendomi poi conto che
lei era
dall’altro capo del telefono.
-Si,
tantissimo. Ci vediamo a casa.-
E tornai a
lavorare, e per un momento pensai che avrei passato lì tutto
la notte; invece,
inaspettatamente, verso le otto e mezza una ragazza arrivò
fino al bancone, e
Albert si affrettò a salutarla, presentandomela in seguito.
-Ehi Maki, ti
presento Gerdi; per stasera fa lei il turno di notte, poi da domani ci
mettiamo
d’accordo per gli orari, va bene?-
Io mi limitai
ad annuire, togliendomi il grembiule mentre la ragazza passava
dall’altro lato,
salutandomi a distanza ravvicinata e facendomi riconfermare la prima
idea che
avevo su di lei: era una … metal … incallita,
aveva più borchie lei di un
giubbotto di pelle, con tanto di trucco nero sugl’occhi e
pelle bianca.
Però era, nonostante
tutto, carina.
Comunque aveva
l’aria “da tosta”, e ci scambiammo si e
no tre parole prima che prendesse gl’ordini
e Albert mi portasse in un angolo un po’ più buio
per dirmi che mi rivoleva
vedere il giorno dopo alla stessa ora, e io glielo confermai,
rifugiandomi in
seguito nello spogliatoio e riprendendomi sia la giacca a vento che il
berretto
rosso di Genzo, sollevata nel ritrovarlo lì dove
l’avevo lasciato.
Non ebbi neanche
il tempo di salutare l’uomo o la
nuova venuta, perché la folla nel frattempo era aumentata,
così come anche la
pioggia fuori, e io non avevo neanche l’ombrello porca
miseria!
Uscii fuori
dall’aria calda e soffocante del bar, e sentii subito lo
scroscio d’acqua
arrivarmi addosso sulle spalle e sul berretto, ben presto la stoffa non
fu più
in grado di coprirmi e sentii i capelli cominciare a bagnarsi mentre
toglievo
la catena dal palo e dalla bici, pronta per andarmene.
Feci i primi
metri a piedi, e già ero abbastanza bagnata da rischiare la
febbre quando vidi una
macchina con i fari accesi avvicinarsi verso di me, fermandosi a pochi
centimetri mentre il finestrino del passeggero si abbassava.
Ma dov’ero, in
un film in bianco e nero? Magari anche francese!
-Ciao, bisogno
di un passaggio?-
-… ma tu non
eri ad una cena?-
-Nah, ho altre
occasioni per cenare con mio padre. Dai vieni.-
Vidi Friedrich
avvicinarsi e, con un sorriso, prendermi la bici per sistemarla nel
bagagliaio
mentre Genzo mi apriva la portiera della macchina, facendomi entrare.
-A te
piacciono molto le entrate in scena ad effetto, eh?-
-… si, lo
ammetto: fanno parte del mio fascino.-
-Chissà quanto
ci sono cascate con questo trucchetto.-
-Meno di
quante me ne aspettassi.-
Mi voltai
verso di lui, contrariata dalla risposta, ma lui mi passò
una mano sui capelli
bagnati, spettinandomeli per non darmi il tempo di controbattere. Ah!
Il solito!
-Tu non ci
caschi mai ad esempio.-
-… anche
queste battute fanno parte del tuo repertorio.-
Lui sorrise, e
io contraccambiai mentre Friedrich risaliva in auto zuppo quanto me.
-Ah, mi
dispiace Friedrich! A casa chiedo ad Isolde di prepararti qualcosa di
caldo e
di darti degl’asciugamani, e non accetto rifiuti!-
-… la
ringrazio, signorina.-
-Allora? Com’è
andata al bar?-
-Beh, domani
vado a lavorarci ufficialmente! Non è grandioso?-
Non rispose,
ma mi spettinò nuovamente i capelli bagnati mentre la
macchina ci riportava a
casa.
**
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Capitolo 8 *** Nennen ***
VII:
Nennen
(chiamata)
I successivi
giorni di lavoro divennero sempre più facili e pieni di
momenti interessanti,
che rendevano le mie chiacchiere con Isolde e Genzo sempre molto
concitate: a
dire la verità parlavo sempre io, e raramente prendevo pause
anche solo per
respirare, ma avevo la sensazione che se non dicevo tutto non sarebbe
bastato.
Comunque lui
si divertiva, e soprattutto mi prendeva in giro, con il suo solito
sorriso
sbilenco in faccia e il suo atteggiamento da “uomo
maturo” che io, a mia volta,
mi divertivo a smontare, finendo così, ogni volta, a
battibeccare animatamente.
Isolde però non se ne preoccupava, sorridendo con la stessa
affettuosità di una
madre con i figli. Per lei eravamo tutti pulcini, e lei era la grande
mamma
chioccia.
Però
c’erano alcuni
momenti, specie quando
Isolde non era presente, in cui, quando alzavo lo sguardo verso Genzo,
lo
trovavo a fissarmi con aria profonda, i suoi occhi neri dritti verso di
me senza
niente che li ostacolasse; e sembrava, ogni volta, cercare di andare
oltre
quello che vedeva, oltre i miei vestiti e la mia stessa pelle.
In quei
momenti non riuscivo più a parlare, ed effettivamente non
riuscivo più a
pensare (non che ci riesca adesso quando mi guarda così,
però uno cerca di
darsi un tono …), e rimanevo muta a guardarlo; e lui tutte
le volte non
parlava, ma neanche si muoveva. Rimanevamo così, come due
statuine, e mi
rendevo conto che se non facevo qualcosa la situazione non si sarebbe
evoluta.
Ma che potevo
fare? Che dovevo dire? O forse non dovevo dire niente? Oh kami, ma
perché era
così complicato? Ero troppo imbranata, troppo incerta.
Meno male che
c’erano Isolde. E soprattutto il lavoro.
Fare la
barista era simile a lavorare al ryokan: eri a diretto contatto con la
gente e
i loro umori, che fossero rabbia, tranquillità, allegria o
quant’altro, e al
contrario di noi nipponici spesso te la esibivano senza il minimo
imbarazzo.
Forse era
proprio questo che mi bloccava di più con Genzo: io ero
sempre stata abituata
al controllo e alla calma (certo, che poi dessi cazzotti in faccia ai
miei
compagni di liceo era tutto un altro discorso …), o quanto
meno mi era sempre
stato (tentato eh, mai riuscito davvero) insegnato che le reazioni
troppo forti
era un segno di scortesia, soprattutto in quanto futuro capo famiglia
degli
Akamine.
Ma tutte
quelle emozioni diverse, con l’unica barriera di un bancone,
che si frapponeva
tra me e il cliente, delle volte erano capaci di spiazzarmi.
Una sera che
avevo il turno notturno (eh si, ero anche una barista notturna!!
Pazzesco! Era
troppo divertente!!) sono entrate un gruppo di ragazzine, delle
adolescenti,
già abbastanza sbronze; nell’ordinare da bere, una
di loro praticamente mi rise
in faccia, scusandosi in seguito.
Quella risata
aveva frenato non poco il mio solito entusiasmo, tanto che Albert avevo
preso
il mio posto nel prendere le ordinazioni mentre io scambiavo posto con
lui,
finendo di lavare quello che c’era.
-Kleine
Japanische fa fatica con l’entusiasmo tedesco?-
“Piccola
Giapponese”, mi chiamava sempre così quando mi
prendeva in giro, e ben presto
anche Gerdi prese a chiamarmi in quel modo, anche perché
Albert la chiamava
sempre “Königin der Nacht”, la regina
della notte, visto che faceva spesso e
volentieri i turni dalle otto di sera fino alle due di notte.
-Beh, in
effetti … siete tutto così … aperti.-
-Già, specie
dopo essersi fatti almeno due bicchieri della nostra birra …-
E indicò
nuovamente il gruppetto di adolescenti, sempre più
entusiaste, che facevano un
brindisi e rischiavano di versarsi la birra addosso, continuando
però a ridere
a crepapelle.
Guardandole
ripensai alle mie compagne di squadra, e anche a Yayoi:
l’avevo conosciuta ad
un ritiro, e avevamo fatto amicizia con estrema facilità e
calma. Lei
incarnava, proprio come Sawada, alcuni tipici aspetti giapponesi: la
compostezza, la naturale eleganza, la disponibilità e la
cortesia.
Chissà come
stava, era da molto che non la chiamavo: lei e Jun stavano di sicuro
insieme,
ma chissà cosa stavano facendo, se non sbaglio lei seguiva
un corso
d’infermieristica. Di sicuro era la prima della classe, con
quel suo spirito da
crocerossina che, lo ammetto, mi ha salvato quando è morto
Kojiro.
Ero talmente
tanto presa da quei pensieri che non mi resi conto di quello che avevo
intorno,
fino a quando Albert non mi si avvicinò, prendendomi il
braccio e scuotendomi
leggermente, indicando in seguito il famigerato gruppetto di
adolescenti.
-Nennen.-
Mi chiamavano?
Perché poi proprio io?
Mi asciugai le
mani e raggiunsi il lato del bancone, che loro avevano preso di
assedio, una
aveva un cocktail, e tutte sembravano essersi calmate; quando
però mi feci
avanti, due di loro mi notarono e parlottarono fra loro,
un’altra si trattenne
dal ridere mentre la più bassa, forse la loro leader, si
fece avanti,
parlandomi biascicando per via dell’alcool.
-Come ti
chiami?-
Eh?
-… Maki, mi
chiamo Maki.-
E di nuovo
vidi il gruppetto parlottare fra loro mentre il loro capo continuava
con quella
specie d’interrogatorio; un po’ mi faceva ridere,
con quello sguardo spento e
il tentativo di essere seria, ma dall’altra parte mi sembrava
così convinta che
rimasi in rispettoso silenzio.
-Tu conosci …
Genzo Wakabayashi?-
… oh
cavolo, e adesso?
-… Si,
certamente.-
Di sicuro
erano delle lettrici di quelle riviste scandalistiche, o comunque di
qualsiasi
rivista un po’ femminile che parlasse dei loro
“divi”, tra i quali lui.
-Sei la sua
ragazza?-
Ecco, lo
sapevo che avrebbe fatto questa domanda. Ma Maki Akamine non racconta
mai
bugie, e non avrebbe cominciato quella sera.
-Si.-
In fondo ero
andata in Germania proprio per lui, per capire e stare con lui. Mentire
sarebbe
stato come prendere in giro me stessa, e io sono sempre stata sincera
con me
stessa: anche al ryokan, quando mi resi conto che mi stavo innamorando
di
Genzo, all’inizio non volevo vederlo per timore nei confronti
di Kojiro; ma
alla fine mi ero convinta che dovevo accettarlo, ed ora ero qua.
Intanto il
leader delle adolescenti mi guardava dritta negl’occhi mentre
le altre non
parlottavano più fra loro. Io, d’istinto, mi
preparai al peggio.
Alla fine, con
mia grande sorpresa, la leader mi allungò la mano.
-Sembri in
gamba, non sei come le altre. Facciamo il tifo per te.-
… questa poi …
-Beh, grazie.-
E strinsi la
sua mano mentre le altre mi facevano versetti e segni
d’incoraggiamento,
imbarazzandomi e spingendomi a trovare una scusa per fuggire da loro,
ma Albert
sembrava divertirsi a quella scena e non mi venne in aiuto mentre loro
mi
tartassavano delle domande più assurde su Genzo, da
“cosa mangiava” a “in che
posizione dormiva”, passando anche per la fatidica domanda
“lo avete già
fatto?”.
-A quel punto
volevo sprofondare dietro il bancone del bar! Voglio dire, erano
così dirette e
sfacciate! Sarà stato l’alcool, ma è
stato comunque imbarazzante.-
-… e ti hanno
solo chiesto come ti chiamavi?-
Alzai lo
sguardo verso Genzo, gli stavo raccontando com’era andata
quella strana serata
ma, rispetto al solito atteggiamento divertito, sembrava preoccupato.
-Si, solo
questo. E se stavo con te.-
-E che gli hai
detto?-
-Ovviamente di
si, che gli dicevo di no?-
-Forse era
meglio.-
Cosa? Voleva
pure che mentissi? Dopo tutto il discorso fatto prima a proposito
dell’essere
“sempre vicino all’altro”?!
-Io non sono
capace di mentire su queste cose.-
-Ed è anche
per questo che ti amo, ma qui le cose non sono semplici.-
Sinceramente
la seconda parte del discorso (quella dopo la virgola) la seguii un
po’ a
fatica, perché la prima parte della frase mi aveva
leggermente spiazzata. Lui
forse non se n’era reso conto, ma aveva usato due parole che
ancora non avevo
sentito dentro i nostri discorsi; oh kami, ma non stavamo correndo un
po’ troppo?!
Intanto lui si
era alzato e aveva proseguito, ma io ne avevo ignorato almeno una buona
metà.
-… quindi la
prossima volta, se ti chiedono qualcosa, se non vuoi mentire almeno
svia il
discorso, capito?-
-Ah, si.-
Aveva le
braccia conserte al petto e mi guardava con aria severa. Io distolsi lo
sguardo
e presi un sorso di thé.
-… non hai
ascoltato quello che ti ho detto, vero?-
-No, ho
ascoltato, sul serio! È solo che non sono
d’accordo.-
-Ah davvero? E
su cosa non sei d’accordo? Sul fatto che la stampa ti vuole
come agnello
sacrificale o sul fatto che è un bene che non possano venire
sotto casa?-
Oh-oh,
pizzicata.
Lui sbuffò e
si sedette accanto a me.
-Che succede?
Sono giorni che hai la testa fra le nuvole.-
E mi accarezzò
i capelli e la guancia. Oramai quei tocchi non mi facevano
più venire l’ansia,
e anche a quella distanza ravvicinata mi sentivo tranquilla; il
problema erano
proprio i suoi occhi, ma perché avevo quello sguardo
così profondo? E perché io
non riuscivo a sostenerlo al meglio? Qual’era il problema?
Che io … non
fossi convinta?
-È che …
ultimamente sono successe tante cose: la stampa, il lavoro nuovo
… io e te.-
Ma che stavo
dicendo? Di che stavo parlando?
Ecco, vedi,
vedi? Eccolo sulla difensiva: sguardo torvo, indietro con la schiena,
mano che
lascia la mia guancia.
Maki,
riacchiappa quella mano e metti le cose in chiaro.
-Non ci sono
più abituata. Anzi, non ci sono mai stata abituata: sai, con
… Kojiro (ahia,
sempre argomento delicato questo) … è sempre
successo in maniera naturale. Ma
qui è tutto un iniziare da capo, e ogni volta che faccio un
passo avanti mi
sento troppo insicura, non mi riconosco più!-
Dov’era finita
la ragazza decisa, che sapeva quello che voleva del suo futuro?
Dov’era la
giocatrice di softball, la nipote della capofamiglia Akamine,
l’amica di Ken e
Takeshi, la fidanzata e poi moglie di Kojiro?
La sua mano
spettinò i miei capelli, aaah mi dava così
fastidio!!
-Maki, datti
tregua: Hyuga … non c’è più
sai da quanto? Solo un anno e mezzo. Eppure guarda
quanto hai fatto in questo breve lasso di tempo, un’altra al
posto tuo non ci
sarebbe riuscita.
Tu sei
straordinaria, non ti sei mai arresa; ma Maki, cavolo, sei umana, e se
continui
così altro che depressione, rischi direttamente un
esaurimento nervoso!-
Sorrisi, oddio
com’era vero, non mi ero fermata neanche un momento.
Questa volta
fu lui a stringermi la mano, portandosela verso di sé.
-Io ti ammiro
tremendamente, io non credo che riuscirei a risalire il fondo come hai
fatto
tu.-
-… c’entra
qualcosa il fatto che hai lasciato l’Amburgo?-
Mi guardò
sorpreso, ma oramai avevo buttato il discorso e non sarei tornata
indietro,
perciò mi feci avanti con la schiena, e gli presi la mano
che mi stringeva.
-Ho … ho
chiesto a Isolde e … mi ha detto che hai avuto …
divergenze … con il tuo
allenatore.-
-Divergenze …
da quando sai usare questa parola in tedesco?-
-Beh, una
volta al bar è venuto un professore di lettere, ed
è stato faticoso ma
interessante ascoltarlo e parlargli.-
Pregai che
sorridesse, perché quando sorrideva, anche in quella maniera
sbilenca da
ragazzaccio, sapevo che un pochino del suo malumore se n’era
andato, anche se
non del tutto; ma niente, il sorriso non accennava da arrivare. Dovevo
insistere! In questi casi ammutolirsi era peggio.
-Ascolta, non
so perché non ne vuoi parlare, però …
io sono venuta da Okinawa fino a Monaco,
e non ne sono pentita ma … sono sinceramente incerta su me e
te, perché tu sei
così sicuro dei tuoi sentimenti mentre io …-
-Mentre tu?-
Alzai lo
sguardo, e nuovamente trovai quegl’occhi, gli stessi con cui
mi guardava
spesso. No, sempre.
Aveva sempre
quello sguardo profondo, che riusciva ad andare oltre la mia pelle e
guardarmi
fin dentro l’anima; in quei momenti gli avrei voluto chiedere
cosa c’era dentro
la mia anima, perché nemmeno io lo sapevo davvero.
-Io … ogni
volta che ti guardo negl’occhi … non riesco
più a pensare, ma voglio soltanto …
che tu continui a guardarmi così, anche se
m’imbarazza … e so che dovrei fare
qualcosa ma … ho paura di sbagliare … di farti
stare male o …-
Sentii la sua
mano sulla mia guancia, e mi ammutolii, appoggiando la mia testa su
quel palmo
grande e caldo; si, le mani di Genzo erano meravigliose, sentivo sempre
di
potermici addormentare, come su di un cuscino. E quando alzai lo
sguardo verso
di lui, lo vidi sorridere, un sorriso talmente pieno di affetto e amore
che mi
veniva da piangere.
Un sorriso del
genere … solo Kojiro me lo aveva dato.
Da un anno e
mezzo non sentivo più quelle emozioni. Era da un anno e
mezzo che non mi
sentivo più amata così: non come figlia, o
nipote, o amica. Ma come donna.
Era questo che
mi terrorizzava, allora? Essere amata come donna? Ma quanto ero
bambina...
-Tu non potrai
mai sbagliare: qualsiasi cosa che tu fai, la fai perché ne
sei convinta al
cento per cento, e niente e nessuno ti può far cambiare
idea. Lo sai quante
persone sono come te? Poche, pochissime.-
Poggiò
nuovamente la sua fronte contro la mia, e sentii il mio cuore
accelerare
vertiginosamente. E con essa anche la mia ansia stava salendo;
però,
stranamente, per quanto mi stessi irrigidendo, volevo con tutta me
stessa che
non si fermasse, che continuasse a coccolarmi in quel modo, con gesti e
parole.
Volevo con
tutta me stessa che Genzo Wakabayashi, l’SGGK,
l’orso, non si fermasse.
-Maki … io …-
Non riuscì ad
andare avanti con le parole, e a quel punto io chiusi gli occhi,
invitandolo in
quel modo ad azzerare la distanza tra di noi; e come sempre, Genzo mi
baciò con
la stessa delicatezza con cui avrebbe tenuto tra le mani un cristallo
di neve.
Poi, sempre con gentilezza, mi spinse a sedermi sulle sue gambe.
Com’era forte
l’uomo come mi amava, com’era dolce
l’uomo che mi amava. Come mi guardava,
l’uomo che mi amava: mi staccai lentamente dal suo bacio e lo
guardai
negl’occhi, e mi venne da piangere, un emozione
così forte che m’impediva di
respirare, e lo baciai di nuovo, questa volta più
intensamente, cercando nelle
sue labbra l’aria per poter respirare.
Erano grandi e
forti le braccia dell’uomo che mi amava, e mi strinsero con
passione, facendo
pressione sulla mia schiena per far aderire il mio corpo al suo; erano
ruvide
le mani dell’uomo che mi stava amando, accarezzandomi il
volto mentre staccava
la bocca dalla mia e scendeva con tanti, piccoli baci lungo il mio
collo.
Sentii il mio
bacino avvampare, il mio intero corpo aveva la sensazione di
accartocciarsi su
se stesso per tutte le sensazioni che stavo vivendo; a fatica mi
rendevo conto
di dov’eravamo e dei rumori intorno a noi, come per esempio
lo squillo del
telefono. Era tutto ovattato e irreale.
Lo strinsi
ancora di più mentre tornava alla mia bocca, ma questa volta
il bacio durò
molto meno, e lentamente Genzo si spense, fino a staccarsi con mia
sorpresa e,
lo ammetto, disappunto. Lui, di rimando, sorrise e mi baciò
la punta del naso,
prima di fare un cenno verso la porta.
Isolde.
… OH CAZZO
ISOLDE!!
Da seduta
sulle ginocchia, in piedi, ci misi un nanosecondo.
-Isolde,
dimmi.-
-Maki,
nennen.-
In mano aveva
la cornetta del telefono. Ma tutti mi cercano,
com’è questa storia?! Poi mi
cercano nei momenti peggiori.
Mi passai una
mano tra i capelli, cercando di recuperare calma (si),
dignità (forse) e
serenità (no, quella decisamente no), e presi la cornetta,
parlando in tedesco
(o almeno provandoci).
-Si, qui
Maki.-
> Maki, sei
tu?-
… non ci
potevo credere!
-Yayoi-chan!-
> Maki!
Quanto tempo, come stai?!-
-Bene, bene,
accidenti è tantissimo! Scusami se non ti ho più
chiamata.-
> Ma
figurati, immagino che eri molto occupata, con tutto quello che ti
è successo!
-Puoi dirlo
forte, ma ora è tutto a posto, ho persino un lavoro!-
> Si … l’ho
letto … dev’essere bello lavorare in un bar
lì a Monaco …
L’aveva
letto?!
-L’hai
letto?!-
Non mi rispose
subito, ma sentii chiaramente che stava prendendo un profondo respiro,
e che
stava sfogliando qualcosa.
Oh no, vi
prego, tutto ma non anche lì!
> Maki, ho
qui una rivista con una fotografia che ti ritrae davanti al bar con il
berretto
rosso di Genzo, e il titolo dice “La signora Hyuga lavora a
Monaco: nuova vita …
in tutti i sensi?”. Capisci anche tu che questo è
molto ironico.
Oh merda, oh
merda no, non anche in Giappone!
-E che cosa dice
l’articolo?-
> Vuoi
davvero che lo legga? Non ti farà bene.
-Se non me lo
leggi tu lo dovrò chiedere a qualcun altro , e
sarà molto peggio. Ti prego
Yayoi.-
>… va bene,
ma non sarà piacevole.
-Lo so.-
La sentii
prendere un altro respiro, e io di rimando presi un respiro a mia
volta,
poggiandomi con la schiena sul muro del corridoio, davanti a me
c’erano il
mobile con l’apparecchio dove appoggiare il cordless.
> … “Da una
soffiata con un nostro corrispondente tedesco, siamo venuti a scoprire
che la
vedova Hyuga, a solo un anno e mezzo di distanza dalla morte del noto
calciatore Kojiro Hyuga, campione della famosa Generazione
D’oro, si trova a
Monaco e, attualmente, lavora in un bar del centro storico, di cui non
faremo
nome; non si sa ancora dove alloggia, ma ulteriori indiscrezioni e un
articolo
di una nota rivista tedesca hanno confermato la sua conoscenza con il
grande
SGGK Genzo Wakabayashi, portiere ufficiale del Bayern Monaco.”
Più Yayoi
leggeva l’articolo e più mi sentii tremare le vene
ai polsi. No, non per le
parole o la cattiveria, ma perché quello era un articolo
giapponese, e io
ricordavo bene che Tomoko amava leggere le riviste scandalistiche,
quindi di
sicuro l’articolo sarebbe arrivato anche a casa. Quindi anche
sotto gli occhi
della nonna … e della zia. Oh Kami.
> “Siamo …”
dai Maki, ora basta.
-Yayoi.-
> Ti stai
solo facendo male, come quando leggevi gli articoli su tuo marito
quando era
morto, con tutte le parole di commiato dei giornalisti.
-Yayoi ti
prego, continua a leggere.-
Mi faceva male
la testa, non mi pulsava così tanto da quando
c’erano stati i preparativi del
funerale di mio marito.
> “Siamo tutti
vicini al dolore della vedova per la perdita di suo marito, il grande
Kojiro
Hyuga, ma immaginiamo che il brillante rubacuori Genzo Wakabayashi sia
molto
più vicino di noi. Dopotutto il fascino di un simile uomo ha
fatto piegare
anche famose celebrità nipponiche, come la famosa cantante
Ayumi Shikawa, nota
per essere la relazione più duratura, parliamo tre mesi! Un
record per lo
scapolo più ambito di tutto il Giappone e di tuttaa la
Germania, come ci
confermano i nostro amici tedeschi.”
Ironia volgare
che mi faceva solo del male. Per il mondo io ero una delle tante. Non
lo ero
per Genzo, giusto?
Giusto?!
> Maki, non
voglio andare avanti …
-Yayoi,
continua a leggere per favore.-
> Ti fa
male la testa, non è vero? Adesso basta.
-Devo sapere.-
Volevo sapere
fino a che punto ero diffamata, fino a che punto la memoria di mio
marito era
stata calpestata; fino a che punto io non sarei più riuscita
a guardare Genzo
in faccia.
> Questo
non è sapere, è autolesionismo. Tanto sai bene
che è una cosa passeggera Maki …
-Yayoi!!-
Non volevo che
mi dicesse quelle cose. Volevo solo che mi leggesse quello stupido
articolo. E
dopo un minuto di silenzio continuò.
> …“Che il
nostro seduttore ora sia interessato all’ambito sportivo?
Dopo lo scandalo con
la modella tedesca Achillina Von Zugar e la storia della droga, che
l’ha
portato forse a lasciare l’Amburgo, il nostro scapolone ha
puntato ad una preda
molto più interessante. E forse tale preda è
già nella sua trappola.” … e
questo è tutto.
-… grazie
Yayoi.-
Rimanemmo
qualche momento in silenzio. Io non sapevo cosa pensare, aveva una gran
confusione e mi faceva male da morire la testa.
> Maki,
credimi, so quanto queste cose possano fare del male. Perciò
dimmi qualcosa per
favore, non mi piace che tu stia in silenzio.
È vero, anche
lei ci era passata, chissà quante volte era stata masticata,
sputata e
ri-masticata nuovamente dalla stampa.
-… Ti ammiro
molto Yayoi: sei sempre andata avanti a testa alta.-
> Anche tu
lo hai fatto, Maki.
-Già, ma una
volta ero con Kojiro, e non mi sentivo in colpa di niente
perché lo amavo. Io …
lo amavo.-
Più della mia
stessa famiglia. E nessuna chiacchiera scandalistica avrebbe mai potuto
farmi
cambiare idea; ma adesso ero in grado di sopportare questo? Io, che
fino a
cinque minuti prima sembravo esserne convinta?
Ma allora
perché le parole lette da Yayoi mi avevano fatto
così tanto male, che adesso il
pianto non riuscivo proprio a frenarlo?
> Maki …
Maki ti prego non piangere, tu non stai facendo nulla di male, stai
solo
cercando di vivere la tua vita! Lo capisci, vero? Lo sai perfettamente,
ti
conosco e so che sei una ragazza sveglia che capisce queste cose.
-Si, lo so, le
capisco. Però … però è
dura. Anche qui in Germania, quando leggevo di Genzo,
non esitavano anche solo ad accennare il fatto che ha avuto tante
relazioni; mi
sento strana Yayoi, non so più cosa fare, che pensare.-
Mi accasciai,
lentamente, sul muro del corridoio, lì dove c’era
il telefono, e mi passai una
mano in faccia, tentando di asciugare le lacrime che, maledizione, non
volevano
proprio passare.
Lo stavo
baciando fino a cinque minuti prima, porca miseria, e ora questo! Ma
perché?!
Maledizione a questo groviglio di emozioni! Io non sono così
emotiva! Io sono
forte, sicura di me, decisa.
> Maki non
essere così severa con te stessa: hai perso la persona
più importante al mondo,
è normale che provare a stare con un altro ti faccia sentire
così insicura,
credimi.
-Ma io non
sono una persona insicura! Perché lo sono? Tu ne hai idea?-
-Forse perché
non ti fidi di me.-
Alzai lo
sguardo, e vidi Genzo in piedi, davanti a me.
No, no ti
prego non dirmi che hai ascoltato tutta la mia conversazione. Davvero
Genzo, io
…
Ma non mi
diede il tempo di dare voce ai miei pensieri, perché si
piegò e mi prese il
ricevitore, parlando con Yayoi.
-Aoba, sono
Wakabayashi. Si … ah, ho capito. Si, si certo sta
tranquilla. In qualche modo
sistemeremo questa situazione. No, no. Certo, lo immagino. Lo so che
non sono
una persona affidabile, ma ti posso assicurare che non ho nessuna
intenzione di
combinare casini: ne ho fatti anche troppi in vita mia.-
Aveva un tono
di voce tranquillo, inflessibile, forse un po’ freddo, e io
lentamente mi alzai
in piedi, asciugando le ultime lacrime che mi scendevano dalle guance.
-Si, si andrà
tutto bene, fidati. Salutami Misugi. Certo, con piacere. A presto.
Ciao.-
E chiuse la
telefonata, voltandosi in seguito verso di me.
Io non sapevo
cosa dirgli. Non sapevo cosa fare. Avevo solo una parola in testa.
-… scusa.-
La dissi
talmente tanto a bassa voce che, di sicuro, non mi aveva sentito. Cosi
provai a
ripeterla, ma avevo sempre un filo di voce, pertanto strinsi i pugni e
tanti di
alzare il volume, ma mi uscii un verso abbaiato, anche
perché avevo la gola
chiusa; io però insistetti, dovevo chiedergli scusa!
-Scusa. Mi
dispiace. Scusami! Scusa … scusa!-
-Basta!-
Mi azzittì con
un tono di voce infastidito, e io mi ammutolii all’istante
mentre lui si
avvicinava, e mi guardava con aria ferita.
Ma non mi
disse niente, ne fece qualcosa. Si limitò a guardarmi a
lungo, con il fastidio
che, pian piano, si spegneva, lasciando solo l’aria ferita
con cui poi, alla
fine, si allontanò, andandosene in camera sua.
Quando lo
sentii chiudere la porta della sua stanza, a quel punto, mi voltai, ma
ovviamente lui non c’era.
Cos’era appena
successo?
-Maki …-
Mi voltai, e
vidi Isolde avvicinarsi a me, accarezzandomi affettuosamente una
guancia; a
quel tocco esplosi, abbracciandola e mettendomi a piangere come una
bimba di
cinque anni, cercando di soffocare i lamenti nella sua spalla mentre
lei mi
accarezzava la testa, parlandomi a bassa voce.
-Tranquilla,
tranquilla bambina … andrà tutto bene,
andrà tutto a posto …-
La mia mamma
chioccia …
**
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Capitolo 9 *** Fußball (I° Parte) ***
VIII:
Fußball
(calcio)
I°Parte
La settimana
che seguì … beh, la settimana che
seguì fu una delle più tremende che avessi
mai passato in Germania, neanche i primi giorni, quando mi ero
trasferita e non
capivo assolutamente niente, non mi sentivo così sperduta e
sola. Tremendamente
sola.
Oltretutto
Genzo sembrava essere deciso a fare la presenza fantasma in casa. Era
difficile
che ci trovassimo perfino a cena, quando invece eravamo soliti
ritrovarci in
cucina a chiacchierare, con Isolde che ci teneva compagnia; adesso,
mentre
mangiavo la mia zuppa, fissavo lo spazio vuoto davanti a me, e
ripensavo
all’articolo che Yayoi mi aveva letto.
Di sicuro quel
giornale aveva ragione, che Genzo era uno scapolo molto ambito; ma
nessuno di
loro sapeva che era un dispotico, capriccioso bambinone, che quando le
cose non
giravano come gli andava a lui faceva quel tipo di scenate.
Se
inizialmente mi ero sentita in colpa per quello che avevo detto, adesso
ero
arrabbiata con lui, proprio perché lui faceva
così e si rifiutava di vedermi;
ma che credeva, che le cose si sarebbero sistemate in questo modo,
senza
discuterne?!
E tuttavia,
ogni volta che mi approcciavo a quella porta, decisa a bussare e ad
entrare
senza aspettare il suo permesso, in modo da cominciare la nostra
discussione
con un bel carico d’incazzatura da parte di entrambi, mi
bloccavo, e rimanevo a
guardare il legno con le sue incisioni, sentendo il coraggio e il
fastidio scemare
molto velocemente.
Andare al
lavoro, oltretutto, non mi faceva sentire meglio, anzi mi sembrava che
le cose
si dilatassero troppo.
Che stupida!
Non avevo preso la palla al balzo e non ci avevo parlato subito, e
adesso
eravamo impantanati in quella spinosa situazione.
-Hai
intenzione di asciugare quel bicchiere per le prossime tre ore?-
Guardai Albert,
poi abbassai lo sguardo verso le mani: effettivamente mi stavo
accanendo un po’
troppo su quel bicchiere, e imbarazzata lo misi al suo posto,
proseguendo ad
asciugare; l’uomo, però, non sembrava intenzionato
a lasciarmi nei miei
pensieri, mostrandomi invece una rivista con una mia foto, forse la
stessa che
Yayoi aveva visto.
Ecco, lo
sapevo, adesso mi avrebbe licenziato perché gli danno
fastidio queste cose.
Grande, perfetto! Ci mancava solo questa.
Mi fermai, abbassando
la testa con aria colpevole verso il lavabo, prima di rivolgere lo
sguardo
verso di lui. Forse era il caso di chiedergli se voleva che me ne
andassi
subito, o che prima finissi di sistemare tutto.
-Da quanto
tempo state insieme?-
La sua domanda
mi spiazzò, e per qualche momento non riuscii nemmeno a
pensare ad una risposta
corretta, tanto che lui mi guardò dubbioso.
-Hai capito la
domanda? Da quanto tempo avete una relazione.-
-Si, si ho
capito la domanda, scusa … ehm, direi che sono circa
…-
Dunque, lui si
è dichiarato che era Giugno, poi però per un mese
sono stata dalla signora
Hyuga (oddio, la devo chiamare!), e ad Agosto mi sono trasferita da
lui. Adesso
stavamo a metà Novembre …
-… Circa
quattro mesi.-
-Vivi da lui?-
-Si.-
Era inutile
mentirgli, tanto era ovvio che mi avrebbe licenziato: i giornalisti
sarebbero
venuti ad assaltare questo posto, il locale sarebbe stato sulla bocca
di tutti
e questo avrebbe portato solo grane di ogni tipo; faceva bene a
mandarmi via!
Ero come il virus dell’influenza: arrivavo, appestavo tutti
ed ero solo un
fastidio.
Lui però aveva
sempre la sua espressione tranquilla, non pareva turbato dalla faccenda.
-Ed è vero che
sei vedova?-
-Si signore.
Da un anno e mezzo.-
-E che tuo
marito era Kojiro Hyuga?-
-Si.-
Sentire il suo
nome sulla bocca di uno sconosciuto mi diede una strana sensazione: mi
faceva
ricordare che mio marito, nonostante tutto, era una persona famosa.
A quel punto
Albert poggiò i gomiti sul bancone, guardando il bar, a
quell’ora ancora non
era arrivato nessuno, e c’era una relativa calma.
-Sai, io ho un
nipote che vive a Torino: è sempre stato un fan sfegatato di
tuo marito.-
Un fan di
Kojiro? Sentire una cosa del genere, dopo un anno mezzo, mi fece
nuovamente uno
strano effetto, e d’istinto mi avvicinai interessata mentre
Albert sorrideva
divertito, tirando fuori dal taschino della camicia il pacchetto di
sigarette,
prendendone una, senza però accenderla.
-Ogni volta
che ci troviamo siamo soliti sempre fare lunghe discussioni
calcistiche, dato
che io ho sempre in testa la mia squadra nel cuore.-
E m’indicò
sopra il mobile, lì dove c’erano foto e una
sciarpa dei colori de Bayern, e
annuii.
-Ebbene, alla
fine ci fermiamo sempre sui nostri due giocatori preferiti: Karl Heinz
Schneider e Kojiro Hyuga, e indovina? Non siamo mai riusciti ad andare
d’accordo
su chi fosse il migliore.-
Hai sentito
Kojiro? Eri sulla bocca di tutti, anche dei tifosi delle altre squadre.
-Quando
abbiamo sentito della sua morte mio nipote mi ha raccontato che i
tifosi e la
squadra di calcio hanno fatto una fiaccolata in sua memoria.-
Ah si, mi
ricordo: mi avevano invitato a parteciparvi, ma io ero talmente dentro
il mio buco
di depressione che neanche avevo dato una risposta a Ken quando me
l’aveva
detto.
-Forse non è
nulla per te, in fondo sei sua moglie, ma ti posso assicurare che ben
poche
persone, e parlo di sportivi, rimangono così tanto nel cuore
da spingere una
serie di sconosciuti a riunirsi insieme per ricordarli.-
Kojiro, eri
molto amato anche da altre persone, persone che avevano riconosciuto la
tua
bravura e il tuo talento. So che la strada che avevi scelto non era
stata la
più facile, ma ancora adesso la gente ti ricorda; persino il
signor Franz ha
parlato di te con stima.
Ma questo non
cambia la situazione; questo momento di orgoglio non cambia il fatto
che io e
Genzo non riusciamo ad avere una situazione tranquilla. E se questo
coinvolgesse anche la tua memoria io non me lo potrei mai perdonare; e
dalle
parole di Albert, avevo capito che questa mia nuova relazione toccava
proprio
questo nervo scoperto.
Cosa potevo
fare, Kojiro? Io ti amato, e ti amo ancora. Sei stato proprio tu a
dirmi che
bisogna sempre andare avanti con la vita, e se non seguissi questa tua
unica
volontà cos’altro potrei fare?
Intanto era
calato il silenzio tra me e Albert.
-Tu ami Genzo
Wakabayashi?-
Oddio, queste
domande a bruciapelo! Però ci pensai attentamente,
ricordando ogni momento speso
con lui, dal nostro primo incontro fino agl’ultimi
avvenimenti. Lo amavo
davvero?
-… ora come
ora non saprei come risponderti: se ti dicessi di si, probabilmente,
non ne
sarei convinta, ma se dicessi di no sarebbe come mentire. Anche per
questo
motivo sono in Germania.-
Lui annuì, ma
come me era dubbioso sulla risposta. Tuttavia, in quel momento, per me
la cosa
più importante era sapere se mi avrebbe mandato via dal
locale o se, al
contrario, mi avrebbe tenuta lì nonostante tutto. Dovevo
dimostrargli che,
anche se c’era la stampa, io non avevo alcuna intenzione di
mollare quel
lavoro.
-Albert, ti
prometto che farò di tutto affinché la stampa non
si accanisca su di te e su
Gerdi, te lo assicuro.-
-Si, e domani
io verrò vestito con una gonna di tulle; Maki, sappiamo
tutti e due che, anche
se ti sforzi, quelli verranno. Non ti devo ricordare il fan club di
Genzo di
una settimana fa.-
Oddio, si; oltretutto
sono anche tornate più di una volta, portandosi dietro amici
che mi hanno
subito chiamata e conosciuta, con mia grande vergogna.
-Tuttavia mi
sei di troppo aiuto perché ti possa mandare via: sei brava e
fai il tuo lavoro
con piacere, cose difficili da trovare. E ancora più
difficile da trovare è una
persona che non se ne cura se la pago come una schiava.-
Sorrisi
divertita, scuotendo il capo e riprendendo il lavoro mentre Albert
preparava
due caffè con la macchina, terminando di parlare.
-E poi chi ti
dice che non voglio la stampa? Lo sai quanti litri di caffè
si fanno ogni
giorno per riuscire a fare un articolo decente? Sono una miniera
d’oro,
altroché!-
E il mio
sorriso si aprì maggiormente, sollevata all’idea
che, almeno, il mio lavoro era
salvo, e preparandomi alla serata che sarebbe venuta, lanciando solo un
ultimo
sguardo alla rivista, guardando la mia foto in copertina: avevo la
bicicletta e
il berretto rosso, ed ero proprio di fronte al bar. E sotto la scritta
“Rivelata
la misteriosa identità del berretto rosso!”.
Ora anche la
Germania conosceva la mia identità.
Ma nessuno
sapeva chi era davvero Maki Akamine. Nemmeno io stessa.
Quella notte
tornai a casa Wakabayashi alle due e mezza passate. Appoggiai la
bicicletta sul
muro dell’edificio e, silenziosamente, raggiunsi ed aprii la
porta d’ingresso,
sperando che il caldo interno potesse scacciare via quel fastidioso
gelo di
Novembre, faceva davvero troppo freddo!
La casa era
silenziosa e buia, e presi un profondo respiro mentre mi toglievo le
scarpe,
lasciandole vicino al mobile dove, solitamente, poggiavamo le chiavi di
casa;
la casa era in stile occidentale, ma ritrovare la consuetudine dello
scalino
sollevato da terra che portava al parquet, che portava al gesto di
togliersi le
scarpe, era una di quelle piccole cose che mi confortava.
Mi mossi verso
la cucina, tastando il muro alla ricerca dell’interruttore,
notando come la
tavola fosse vuota, e tutto fosse pulito; ma, conoscendo la mia
“mamma
chioccia”, di sicuro c’era qualcosa di preparato in
frigo o in forno, e cercai
sia qualcosa da mangiare che da bere.
Salsa tonnata!
Oddio impazzivo per quella cosa! I crostini, i crostini …
Sentii la
porta d’ingresso aprirsi con uno scatto, e mi abbassai dallo
sportello della
cucina: mi ero alzata in punta di piedi per afferrare il sacchetto, e
continuai
a guardare l’uscio della cucina, privo di porta, sentendo
quella d’ingresso
chiudersi, qualcuno poggiava le chiavi nel porta oggetti.
Per un momento
ebbi la sensazione di essere dentro un film dell’orrore, con
la classica scena
della bella ragazza che viene ammazzata o mangiata dal mostro di turno.
In qualche
modo sapevo chi fosse, ma la cosa non mi confortava per niente mentre
aspettavo, in silenzio, di vedere la sua figura.
-… Maki!-
-Ciao.-
Era vestito
per una serata, e la cosa mi piacque ancora meno, obbligandomi a
muovere verso
il tavolo mentre lui restava fermo sull’uscio della porta.
Indugiammo nel
nostro silenzio, e questo peggiorò il mio umore: porca
miseria dimmi qualcosa!
Dimmi perché sei vestito così e perché
sei tornato dopo di me a casa!
-Come mai sei
uscito?-
-Isolde non te
l’ha detto? C’era una cena con i compagni di
squadra.-
Cazzo Maki,
era solo una cena tra compagnia, solo una cena! Dannazione,
perché mi da così
fastidio saperlo adesso?
-Non mi ha
detto niente …-
-Capisco …-
Dimmi
qualcos’altro, dimmelo ti prego!
-Allora
buonanotte.-
-Non vuoi
niente? Io sto morendo di fame.-
-No, siamo
stati in un buon ristorante.-
Cretina,
cretina, cretina! Era ovvio che era sazio, era uscito per una cena!
Perché fai
così?!
-C’era anche
il signor Franz?-
-Si, ma lui se
n’è andato presto.-
-E tu, invece?
Perché sei tornato solo adesso?-
-Cos’è, un
interrogatorio?-
Oooh, scusa
tanto se sono preoccupata perché l’uomo che dice
di amarmi torna alle due e
mezza da una CENA con i COMPAGNI di SQUADRA!
-Beh sono
curiosa di sapere che hai fatto!-
-Ho cenato e
poi sono uscito a bere una birra.-
-Con chi?-
-Con la fata
turchina. Con chi vuoi che sia andato?-
-Non mi
parlare in questo modo! Ho solo fatto delle domande!-
-Domande molto
stupide.-
-Ah, scusami
se faccio la stupida, ma sai com’è, sono tornata
dal lavoro mentre tu, da una
cena, sei tornato alle due e mezza.-
-E questo cosa
c’entra?!-
-C’entra
perché …-
Perché in
queste ore potresti aver conosciuto un’altra!
…oh merda, ma
che cazzo di pensieri avevo in mente?!
Strinsi i
denti e chiusi la bocca, guardando Genzo che prendeva un profondo
respiro,
dandomi le spalle e muovendosi verso le scale.
Maki fermalo!
Maki fa qualcosa per kami-sama!
-Genzo!-
Lo richiamai
che stava già cominciando a salire le scale, ma continuava a
darmi la schiena.
-Scusami …-
-Ti ho detto
che avevo combinato tanti casini, ma che con te stavo facendo sul
serio, non è
vero?-
Si voltò verso
di me, ed io annuii, non riuscendo a rispondergli a voce.
-Ti ho detto
che sei la persona più importante per me, è vero
o no?-
-… Si, è
vero.-
-Mi credi?-
-Certo che ti
credo!-
-E allora cosa
vuoi che faccia di più per dimostrartelo? Dimmelo,
così lo faccio e ti
accontento!-
Non ne avevo la
minima idea. E comunque non sarei riuscita a dirgli niente
perché il tono che
aveva usato nel parlare non mi piaceva per niente.
Lui continuò a
guardarmi, aspettando la mia risposta, ma siccome non arrivava alla
fine si
passò una mano in faccia e riprese a salire le scale. Eh no
eh, queste piazzate
da film mi davano sui nervi, adesso gli avrei parlato, e stavolta mi
avrebbe
guardato in faccia!
Salii le scale
a tre a tre, riuscendo a superarlo e bloccandolo con il corpo, era buio
ma
riuscivo a vedergli in qualche modo gli occhi grazie alla luce della
cucina, e gli
dissi l’unica cosa che mi passò per la testa.
-Posso avere
il diritto di avere paura? Posso avere diritto di essere incerta su
questa
situazione?
Lo so che ti
ho detto che voglio stare con te, l’ho detto e sono qui,
pronta di nuovo a dirtelo
a cuore aperto; ma maledizione Genzo, sento cose di te che non sapevo
prima, e
che ora devo affrontare una dietro l’altra.
E soprattutto
non voglio, in nessun modo, che il nome di Kojiro venga infangato dalla
stampa per
colpa mia e soltanto perché ho deciso di stare con te.-
-... dunque
preferiresti non continuare, se questa situazione tocca Kojiro?-
-Non ho detto
questo!-
-Ma è la cosa
che al momento ti preme di più, no?-
-Non puoi
farmene una colpa! Era mio marito … il mio migliore amico.
Io voglio
stare con te, ma non è giusto che per stare con te qualcun
altro debba
rimetterci.-
-E allora cosa
vuoi fare?-
Alzai le mani,
avevo voglia di toccarlo, di appoggiarmi almeno alle sue spalle per
sentirmelo
vicino; ma avevo la sensazione che quel tocco lo avrebbe solo
innervosito,
perciò me le portai al collo, stringendomelo mentre pensavo
a cosa potevo
effettivamente fare adesso, dopo quella discussione.
-… non lo so
cosa voglio fare.-
Ed era la
verità.
Per qualche momento
rimase di fronte a me; poi, lentamente, riprese a salire verso la
camera,
chiudendosi la porta alle spalle mentre rimanevo sulle scale, ancora le
mani
sul collo, la luce della cucina accesa in quello spazio semibuio.
No, di certo questo
non era il “finale idilliaco” che avevo sperato
quel giorno, quando era venuto
a prendermi all’aeroporto.
Tornai in
cucina molto più distrutta di quanto non lo fossi quando ero
tornata a casa, il
mio stomaco si era chiuso e rimisi a posto quello che avevo preso per
mangiare.
Stavo per
andare nella mia stanza, quando mi voltai verso il porta oggetti
nell’atrio,
avvicinandomi e cercando le chiavi della sua macchina. Sia chiaro, non
volevo
guidarla! È solo che volevo vedere se l’aveva
usata per uscire; la trovai in
cima al mucchio.
Ma quello che
mi sorprese di più fu che, accanto al porta oggetti,
c’era un biglietto per una
partita che si sarebbe svolta il giorno dopo.
“Bayern Monaco
– Hamburger Sport Verein”
Lo guardai a
lungo. Poi spensi la luce del corridoio, salii le scale e chiusi la
porta della
mia camera; appoggiai la schiena e scivolai a terra, continuando a
guardare il
biglietto e tenendolo in mano.
Stava per
affrontare la squadra con cui aveva giocato per molto tempo, e che
aveva
lasciato per un motivo così grave che non voleva parlarne,
eppure mi aveva
preso quel biglietto perché voleva la mia presenza in quel
momento così
importante. E io, invece, mi ero lasciata affogare dalla mia continua
ansia.
Pensai a
Kojiro, a tutte le volte che io andavo alle sue partite senza che lui
avesse
bisogno di chiedermelo, come se fosse stata una cosa ovvia; Genzo, al
contrario, mi aveva comprato il biglietto, e di sicuro me lo avrebbe
chiesto se
io non mi fossi comportata da paranoica.
Quando
litigavo con Kojiro eravamo capaci di urlare per ore, dicendoci di
tutto; poi
però ci calmavamo, respiravamo, e riuscivamo sempre a fare
pace e a riprendere
la nostra vita di sempre. Qui invece parlare con Genzo era sempre
difficile,
perché effettivamente non potevo sempre dire tutto quello
che pensavo.
Mio marito era
un uomo orgoglioso, onesto, coraggioso e altruista verso i suoi amici.
Ma era
anche testardo, aggressivo, diffidente e poco propenso a lasciarsi
mettere i
piedi in testa dagl’altri.
Genzo è un
uomo altrettanto orgoglioso, ma diversamente da Kojiro questo suo
atteggiamento
è dovuto anche dal fatto che è una persona
chiusa: nel poco tempo che l’avevo
conosciuto, poche volte l’avevo visto mostrarsi in tutto e
per tutto con altri.
Certo è arrogante, dall’ironia pungente e
facilmente irritabile; ma forse,
parte di questo, è dovuto anche dal fatto che si fida poco
degl’altri.
Lui si fidava
di me. Si fida di me. E io gli avevo gettato addosso tante di quelle
stupidaggini; certo, ero confusa, ma che cavolo! Non potevo farmi
piegare da
tutte le cretinate della stampa, lo sapevo perfettamente da me che una
buona
parte erano inventate oppure raccontate molto male da persone che non
sapevano
niente della situazione.
Ma che
vergogna Maki Akamine. Ti sei fatto proprio abbindolare per bene. E
adesso sai
che farai? Andrai a quella partita, ti siederai, ti farai fotografare
da tutti
i giornalisti possibili e immaginabili e non contenta sai
cos’altro farai?
Risponderai alle loro domande, onestamente come sempre.
Perché era la
cosa giusta da fare nei tuoi confronti, nei confronti di Kojiro e,
soprattutto,
nei confronti di quella persona che ti aveva sempre parlato a cuore
aperto.
Genzo Wakabayashi.
Il giorno dopo feci un po‘ di telefonate.
La prima, la
più importante, alla signora Hyuga.
> Pronto?
-Signora Hyuga? Sono Akamine Maki.-
> Maki! Tesoro, come stai?
-Tutto bene signora, la ringrazio. Naoko e gli
altri
stanno tutti bene?-
> Si, certamente, Naoko è qui con
me vuoi che te la
passi?
-Ah no, no la ringrazio. Piuttosto volevo parlare
con
lei.-
La signora non mi rispose, ma io presi un profondo
respiro, cercando le parole adatte.
-Sicuramente ha letto qualcosa che riguarda la mia
situazione in Germania. Ebbene volevo telefonarle per assicurarle che
quello
che i giornalisti dicono sono solo stupidaggini, e che non potrei mai
dimenticare Kojiro con la velocità con cui vogliono far
intendere e poi …-
> Maki calmati, prendi fiato.
Io obbedii. In quegl’attimi di silenzio
sentii la
signora Hyuga muoversi, allontanarsi dalla stanza di prima, dove
c’era Naoko,
mettendosi in un posto più silenzioso e tranquillo.
> Io non ho letto assolutamente niente, e
non sono
interessata a leggerne perché quello che io so di te me
l’hai detto tu stessa,
e i giornalisti non possono conoscere la verità: solo tu ed
io sappiamo la
verità su quello che ti ha spinta ad andare via dal Giappone.
Mentalmente ringraziai la signora Hyuga, e lanciai
una
preghiera alle divinità perché mantenessero
sempre in buona salute quella
donna, apparentemente così delicata eppure con una tempra
d’acciaio. Lei aveva
sofferto quanto me la perdita del suo figlio più grande, ma
era stata proprio
lei, assieme a Yayoi, ad avermi risvegliato dal mio
“coma”.
Ah, giusto, dovevo chiamare Yayoi; ci eravamo
lasciate
male con quella telefonata, di sicuro si sentiva tremendamente in colpa
per
quanto era accaduto.
> A proposito, come vanno le cose? Tutto
bene?
Non volli mentirle.
-Purtroppo non molto, ma credo di sapere cosa fare
per
risolvere la situazione.-
> … bene, ne sono contenta.
Dopotutto sei sempre
stata una ragazza sveglia.
-… La ringrazio di tutto, davvero. Lei e
i suoi figli
siete sempre nei miei pensieri.-
> … e tu sei sempre nei nostri.
Sappiamo che è
dura, ma sappi che quando vuoi la nostra casa è sempre
aperta.
Avrei voluto farle un rispettoso inchino, ma ero al
telefono e non sarebbe servito, pertanto chiusi la telefonata commossa,
e mi
preparai alla seconda chiamata, la più difficile di tutte.
> Pronto, qui ryokan Akamine.
-Sono Maki, vorrei parlare con la proprietaria.-
> … e perché dovrei
passartela? Per permetterti di
usare una delle tue scuse nel confronti del capofamiglia?
Oba-sama. Mi concentrai il più possibile.
-Chiedo perdono per essermi permessa di chiamare,
ma
ho urgente bisogno di parlare con mia nonna, e se non potrò
parlarle oggi la
chiamerò ancora.-
> Abbassa la cresta, tu oramai non sei
più niente
nella famiglia.
-Non sono più niente per te, zia, ma
credo di essere
ancora la figlia di mia madre e mio padre e, soprattutto, la nipote di
tua
madre, cioè mia nonna, la capofamiglia.-
> Come osi usare questo tono!
-Uso questo tono così quello che ti
chiedo ti arriva
al cervello! Devo parlare con mia nonna, subito!-
Ci fu qualche momento di silenzio, e per un attimo
ebbi paura che mia zia mi chiudesse il telefono in faccia.
-Oba-sama, per favore, mi faccia parlare con mia
nonna!-
> Oba-sama è tornata alle sue
faccende cara.
Nonna, nonna!
-Nonna, stai bene?-
> Benissimo, soprattutto nel sentire la tua
voce.
Come stai tesoro?
-Oh nonna, sapessi quanto tu e gli altri mi
mancate!-
> E tu manchi molto anche a noi,
specialmente ai
tuoi e a Jin.
Jin … purtroppo non potevo farmi
distrarre da quei
pensieri.
-Nonna ascolta, ci sono degl’articoli che
sparlano di
me e Genzo. Non devi dargli credito, anzi devi fare in modo che i
giornalisti
non vi prendano d’assalto!-
> Se è per questo che ci hai
chiamato non devi
temere: noi sappiamo come tenere a bada gli sciacalli.
Meno male, che sollievo.
> Tu piuttosto, vedi di darti da fare per
allontanarli a tua volta; sembra che tu abbia dimenticato che sei una
Akamine,
e che queste cose non possono piegarci. Ricordati sempre che la nostra
famiglia
è una delle poche che discende dalla grande Amaterasu.
Annuii, prendendo un profondo respiro e
raddrizzandomi
con la schiena. Forse erano tutte favole, ma ogni volta che sentivo
quelle
parole ero rincuorata,
-Si nonna.-
> Brava piccola, così mi piaci.
Dai, ora devo
andare, abbiamo del lavoro da sbrigare.
-Nonna, vi chiamerò ancora.-
> Ci conto.
-A presto nonna.-
> Al mio raggio di sole!
Chiusi la telefonata, e guardai l’ora:
accidenti, ma
era tardi! Rischiavo di arrivare in ritardo alla partita di Genzo!
Yayoi l’avrei chiamata il giorno dopo, me
lo ripromisi
mentre prendevo la mia borsa e urlavo, aprendo la porta: -Isolde, ich
gehe!-
-Spaß!- (divertiti)
Lo sperai con
tutta me stessa mentre vedevo Friedrich aprirmi la porta della
macchina, e io
mi ci fiondai dentro di corsa, supplicandolo di fare il più
presto possibile;
lui prese quell’ordine alla lettera, e tutto ciò
che ricordo fu che stavamo
correndo talmente tanto forte che d’istinto chiusi gli occhi,
aspettando il
momento in cui la macchina si sarebbe fermata.
-Miss …-
Quando li
riaprii, avevo davanti la rossa Allianz Arena.
Era talmente
grande che, per qualche secondo, temetti di perdermi là
dentro; tuttavia
ringraziai frettolosamente Friedrich e scesi dall’auto,
correndo dentro lo
stadio, compiendo meccanicamente tutte le operazioni di mostrare il
biglietto,
farmelo segnare e cercare il mio posto, chiedendo anche indicazioni.
Mi trovai
verso l’anello più basso, a circa metà
campo, proprio sopra l’apertura degli
spogliatoi; e mentre mi accomodai, tutti i giocatori fecero il loro
ingresso in
campo.
**
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Capitolo 10 *** Fußball (II° Parte) ***
IX:
Fußball
(calcio)
II°Parte
Riconobbi le
uniformi rosse e bianche del Bayern, quelle dell’Amburgo in
trasferta invece
erano nere, con una striscia blu sul petto; tornai alla squadra di
casa, e
riconobbi la prima testa bionda che sfilò. Nonostante
l’avessi visto una sola
volta, il profilo di Karl mi era rimasto impresso. Dovevo ammettere
infatti che
si, era un bell’uomo.
Alcune facce
della squadra mi parvero familiari, tutte dannatamente serie mentre
sfilavano,
affiancati ai loro avversari.
Mentre
passavano sentivo i tifosi, attorno a me, urlare come dei dannati,
chiamando i
loro nomi e agitandosi, chi con in mano le semplici sciarpe, e altri
con grandi
bandiere; il mondo intorno a me era chiassoso, agitato, frizzante come
il
liquido di una bibita gassata agitata. E soprattutto era rosso e bianco.
Poi tutto
rallentò non appena lo vidi: l’ultimo della fila,
il primo che mi fece effettivamente
battere il cuore. Tutta l’emozione di prima era solo un
contagio, da parte
delle persone che mi circondavano; questa volta, invece, era proprio la
sua
figura che mi faceva tremare le ginocchia.
La sua
uniforme era nera e grigia, e l’unica macchia di colore, come
sempre, era il
berretto rosso che teneva calcato sulla testa, lo stesso che avevo
indossato
anch’io qualche giorno prima; sotto di questo, vedevo
chiaramente i suoi
capelli neri, le mani coperte dai guanti scuri, la sua figura con
quelle spalle
e la schiena tremendamente ampie, che mi facevano sempre sembrare uno
scricciolo al confronto.
Camminava
tenendo la testa alta e lo sguardo fiero, come un soldato che sfilava
con
orgoglio.
Kojiro, al
confronto, pareva un gladiatore che entrava in arena: i pugni stretti,
le
maniche dell’uniforme arrotolata, i capelli neri lunghi e
liberi sulla schiena,
dove spiccava con prepotenza il suo numero. Quello di Genzo, invece,
era grande
ma luminoso come un faro, soprattutto per via di quello sfondo nero.
Osservai tutta
l’operazione in silenzio: le due squadre si misero in riga,
davanti a noi c’erano
i tifosi amburghesi, selvaggi nelle loro incitazioni quanto i tifosi di
casa;
appena suonarono l’inno, l’entusiasmo si
smorzò leggermente, e un coro tedesco
mi assordò, portandomi quasi a coprirmi le orecchie con le
mani.
I miei occhi
continuavano a guardare i giocatori del Bayern, e il mio sguardo
cercava
soprattutto il volto di Genzo. Fui sorpresa nel vederlo pronunciare
l’inno, non
mi aspettavo che lo sapesse; teneva un braccio sopra le spalle del
compagno, ma
non era un gesto amichevole quanto qualcosa di automatico, una cosa che
andava
fatta e basta.
Sentivo la mia
sedia piena di spilli, mi veniva voglia di alzarmi in piedi mentre
l’ultima
parte dell’inno veniva praticamente urlata dai miei vicini di
posto; le urla
d’incitamento ben presto tornarono, assieme alle bandiere che
sventolavano con
più forza, vedevo anche grandi striscioni appesi, ma in
parte erano illeggibili,
e in parte non capivo a cosa si riferissero.
I due capitani
si strinsero le mani, e si scambiarono quelle specie di bandierine; poi
l’arbitro tirò la famigerata moneta, e alla fine
tutti presero posto tra di
loro. Osservai Karl, e poi spostai lo sguardo, trovando Genzo sistemato
alla
sua porta, pronto per la partita.
Strinsi i
pugni, e quando l’arbitro fischiò il calcio
d’inizio mormorai a me stessa in
giapponese, rivolta a quell’uomo vestito di nero: -Koun.-
(buona fortuna).
Erano due anni
che non assistevo ad una partita di calcio, com’era strano:
durante il lutto mi
ero rifiutata, all’inizio, persino di assistere alle partite
di Jin, durante il
campionato del suo liceo, e se c’era qualcosa di simile in
tivù la spegnevo. Certe
volte arrivando persino a sgridare mio padre o chi la stava guardando.
Volevo diventare
cieca e sorda: mi faceva troppo male, anche perché ogni
volta che sentivo
parole come “gol” o
“cannoniere”, mi veniva subito in mente mio marito,
il suo
talento e la sua passione; avevo persino delle videocassette, dove
avevo
registrato le sue partite migliori, e c’era stato un giorno
in cui avevo
pensato di buttarle via. Durante il percorso però mi fermai,
rendendomi conto
che era una stupidaggine; alla fine le regalai alla famiglia Hyuga. I
fratelli
ne furono così entusiasti che vollero subito vederle,
ricordando con orgoglio
quel loro fratellone; anch’io, quando lo vidi nello schermo,
mi sentii riempire
d’orgoglio
Il pubblico
attorno a me aumentò le grida, e subito cercai la porta,
temendo che fosse
successo qualcosa alla difesa di Genzo; ma no, mi ero sbagliata,
l’azione era
stata del Bayern contro l’Hamburger, ma era andata a vuoto in
quanto il pallone
era finita troppo in alto rispetto alla porta. Che sollievo.
Guardai
Wakabayashi, ma sembrava molto tranquillo, limitandosi a dare qualche
indicazione al giocatore più vicino, facendolo spostare in
avanti.
Sembrava un
generale nella sua fortezza, niente poteva buttarlo giù o
farlo allontanare da
quel posto.
Mi venne in
mente quando lo vidi per la prima volta, quando era venuto a ryokan con
la
gamba conciata male: quanto si sentisse a disagio in
quell’ambiente, e
soprattutto quanto il mobilio gli avesse dato non pochi problemi,
soprattutto
il letto a terra.
Il portiere
avversario, intanto che mi facevo i miei viaggi mentali,
passò ad un suo
compagno, che subito mandò la palla in avanti, verso i
centrocampisti; gli
attaccanti del Bayern avevano già iniziato a fare pressing,
marcando quanti più
giocatori possibili. Tuttavia, uno dell’Hamburger
riuscì a superare quella
tattica, avanzando e facendosi passare il pallone, andando avanti.
Oh kami
marcatelo! Marcatelo stupidi! Fermatelo!!
Sembrava un
razzo tanto era veloce, o magari io lo stavo trasformando, con la mia
immaginazione, in una specie di Flash del pallone; comunque lo vedevo
avanzare
troppo alla svelta, tanto che quando vidi la difesa sbarrargli la
strada mi
sentii sollevata. Ma il sollievo durò poco: i suoi compagni
lo stavano
raggiungendo, e nonostante anche il Bayern si fosse portato indietro,
l’Hamburger aveva tutte le intenzioni di segnare.
Guardai Genzo,
e lo vidi muovere leggermente le gambe, tenendo le mani in avanti,
gridando
qualcosa ai suoi compagni e muovendosi troppo poco rispetto
agl’altri
giocatori, se stava così fermo non l’avrebbe mai
parata!
Eccoli, eccoli
sono vicini, SEGNANO!!
Genzo afferrò
il pallone con entrambe le mani, uscendo dalla porta per via della sua
stessa
spinta, e sentii il mare di persone, attorno a me, gridare il suo nome
e
agitarsi per quella parata. Io, personalmente, presi fiato e cercai di
calmare
i miei battiti cardiaci, per un attimo avevo temuto il peggio.
Lo guardai
aspettare che i suoi avanzassero, e poi rimise in campo la palla,
accidenti
aveva un calcio molto forte, non me l’aspettavo!
Beh, in
effetti non avevo mai visto effettivamente Genzo giocare: alle partite
lo
guardavo, si, ma controllavo più che altro che non
permettesse agl’avversari di
segnare, come deve fare un buon portiere; chi guardavo veramente,
ovviamente,
era Kojiro, mentre correva verso la metà campo avversaria
come una furia, pronto
a tirare ogni volta che se ne presentava l’occasione.
Ora i miei
occhi, però, erano concentrati su Wakabayashi, e sul suo
ruolo. E ammisi che quello
era un ruolo impegnativo rispetto a quello degl’altri
giocatori, e che
soprattutto era un ruolo dove i nervi erano messi a dura prova: ti
vedevi
arrivare addosso gli avversari, decisi a segnarti, in una porta che
potevi
difendere solo con il tuo solo corpo. Certo, potevi contare
sull’aiuto dei
difensori, ma tu eri l’unico che, in caso, poteva e doveva
prendere la palla.
E le occasioni
di segnare, per la squadra avversaria, se ne presentarono ancora.
Spesso i
giocatori del Bayern li fermavano, quando avevano appena superato la
linea di
metà campo, ma altre volte gli avversari andavano fino in
fondo, ed erano loro
stessi a commettere degl’errori, che fossero passaggi troppo
lunghi o troppo
stretti. Ma almeno altre due volte furono sul punto di segnare. Per
altre due
volte, quindi, rischiai un infarto.
La prima volta
il giocatore era così vicino alla porta che ci sarebbe
entrato dentro, e
tuttavia Genzo riuscì a deviare il pallone con il pugno,
afferrandoglielo in
seguito e gridando ai suoi compagni; ed ero certa che non stesse
facendo loro dei
complimenti. Ma non era incazzato come poteva sembrare: era solo
tremendamente
serio nel suo ruolo.
In quei
momenti, mentre passava la palla al suo compagno, cominciai a provare
ancora
più stima nei suoi confronti come giocatore: comprendevo
perché anche gli
avversari lo temessero e lo rispettassero, mio marito in prima fila.
Ora rivelerò
una cosa che mi disse, ma che non condivise mai con nessuno se non con
me: stavamo
proprio guardando una partita dell’Hamburger, quando ancora
Genzo ci giocava, e
sebbene io non ci prestassi troppa attenzione stavo comunque guardando
la partita,
e una situazione simile mi si era proposta; allora avevo commentato
dicendo
“Accidenti com’è incazzato! Se non
stesse giocando forse tirerebbe qualche
cazzotto!”.
E allora
Kojiro mi disse “Ma no, Wakabayashi non tira cazzotti, al
massimo ti butta giù
a colpi affilati di lingua; ma in questo caso ha ragione, dovevano
stare più
attenti i suoi.”
Io, con due
occhi così, gli risposi “Tu dai ragione a
Wakabayashi? Ti senti bene?”
A quel punto
mi mise il suo braccio attorno al collo, rispondendomi “Fa
poco la spiritosa!
Per quanto mi stia sui coglioni è il miglior portiere del
mondo, nessuno
potrebbe dire il contrario. L’unico che sembrò
riuscire a superarlo era Muller,
ma anche lui fu battuto da me e gli altri.”
E io “Ma tu
gli segnato in porta, no? Perché lo ritieni allora
più forte degl’altri?”
A quel punto
mi sorrise divertito, e non mi volle rispondere, minando apposta la mia
pazienza; da lì partì una battaglia con i cuscini
del divano, tra risate e
quant’altro, fino a quando non finimmo abbracciati stretti e
stremati, mentre
la partita andava avanti.
Lui continuò a
guardarla, e io assieme a lui, sebbene non la seguissi molto
attentamente.
Allora non
compresi il suo silenzio, ma forse adesso, mentre guardavo
l’Hamburger tentare
l’assalto alla porta di Genzo, cominciavo a intuire qualcosa.
Questa volta
gli avversari avevano fatto un gioco di squadra, per sviare i difensori
del
Monaco e tentare di confondere le idee anche a Genzo, e per un istante
ebbi
proprio la sensazione che lui non se la sarebbe cavata questa volta: si
passavano continuamente la palla, come se li stessero prendendo in
giro, tanto
che mi alzai irritata dalla mia sedia, e senza rendermene conto mi unii
al coro
degl’altri tifosi.
-PORCA
MISERIA, FATE QUALCOSA!!-
-BLOCCATELI,
BLOCCATELI MALEDIZIONE!-
-NO SULLA
DESTRA, SULLA DESTRA!!-
Vidi uno
degl’attaccanti avversari prendere il pallone, girarsi verso
la porta e
sferrare un tremendo destro.
Urlai il nome
di Wakabayashi mentre mi sporgevo dal mio posto, guardando la palla,
sicura che
stavolta andava dritta in rete; all’ultimo momento,
però, Genzo smentì le mie
certezze, tuffandosi e afferrando il pallone appena in tempo, finendo a
terra
mentre tutti noi tifosi urlavamo a quell’azione pazzesca.
Altro che
allenamento, quello era Genzo sul campo da calcio! Ed era stato
fenomenale! Si
era buttato con una velocità incredibile, e aveva preso il
pallone senza alcun
timore, finendo a terra e facendosi scappare il berretto dalla testa.
Quando si
rialzò in piedi era troppo lontano perché lo
potessi vedere in faccia, ma
vederlo libero da quella barriera mi fece quasi tremare, avevo una
voglia
tremenda di correre verso la sua metà di campo, giusto per
vederlo in faccia.
Invece rimasi al mio posto mentre lui rimandava la palla ai suoi
compagni,
prendendo il berretto da terra e risistemandoselo in testa.
Accidenti, ma
sarebbe andato avanti così? Facendomi morire ogni volta
d’ansia??
-DAI KARL,
DAI!!-
-AVANTI,
AVANTII!!-
Mi voltai,
riconoscendo il giocatore biondo che correva verso la porta avversaria,
e mi
sporsi emozionata, seguendo la sua azione: era incredibile! Correva
come il
vento, e sebbene passasse la palla ai suoi compagni, era lui che faceva
la
regia di tutta l’azione. I suoi avversari venivano come
spazzati via dal
turbine che generava, e per quanto si avvicinassero e cercassero di
riprendere
il possesso di palla, rimanevano sempre spiazzati da quella macchina da
combattimento.
Era la prima
volta che assistevo ad una partita simile: quando guardavo mio marito,
era come
vedere una tigre selvaggia che prendeva dominio del campo e sbranava i
suoi
avversari. Qui, invece, la strategia e la tecnica la facevano da
padrone, e
sembrava di assistere ad una guerra, una specie di Risiko. Ma era
altrettanto
emozionante, proprio perché così diversa. E
nuovamente, senza rendermene conto,
incitai gli attaccanti del Bayern a tirare in porta.
Vidi
l’ennesimo passaggio di Karl, fatto per poter superare un
avversario; il suo
compagno gliela mandò alta, e lo vidi praticamente tirare in
aria, riuscendo a
non colpire un avversario con la gamba, mentre la palla
s’insaccava dentro la
rete.
Lo scoppio dei
tifosi fu simile a quello di una bomba: tutti si agitarono
tremendamente,
spingendomi da una parte all’altra per l’entusiasmo
e io, dopo un primo momento
di confusione, mi unì al loro entusiasmo, cercando in
seguito la porta di
Genzo.
Batteva le
mani, e pareva soddisfatto nonostante fossi lontana da lui e non
riuscissi a
vederlo.
L’entusiasmo
dei giocatori sfumò velocemente mentre tornavano tutti in
posizione, ma non
appena partì il calcio d’inizio
l’arbitro fischiò la fine del primo tempo,
facendomi prendere un attimo di respiro.
Ma non appena
notai che i giocatori tornavano negli spogliatoi, proprio
dall’apertura sotto
di noi, mi sporsi più che potei, e non appena vidi Genzo
avvicinarsi, non
resistetti proprio all’impulso.
-GENZO!!-
Lo chiamai con
tutta la mia voce. All’inizio non mi sentii, così
tentai un’altra volta, più
decisa.
-GENZO! SONO
QUI!! QUI SOPRA!!-
Lo vidi
guardarsi un attimo intorno, e alla fine alzò lo sguardo
verso di me. Appena
vidi i suoi occhi neri mi agitai con le mani, per richiamargli la mia
attenzione. Ma niente, non sembrò proprio vedermi; al
contrario, i tifosi
attorno a me notarono che il loro portiere si era fermato, ed
entusiasti gli
lanciarono un sacco di complimenti urlati. Lui fece un cenno con la
mano, e
tornò nello spogliatoio.
No, non mi
aveva vista. Beh per forza, con tutta quella gente era impossibile che
mi vedesse,
che scema che ero stata!
-Ehi, ma tu
sei la nuova ragazza di Genzo!-
Non so cosa mi
diede più fastidio, se il tono troppo urlato e pieno
d’entusiasmo o
l’appellativo “nuova ragazza”, fatto sta
che proprio non evitai di guardarlo
male, e lui di rimando alzò le mani in segno di scuse.
-Ah scusami,
non l’ho detto in modo molto carino. Comunque sei tu, giusto?-
Se gli dicevo
di no avevo l’impressione che non mi avrebbe comunque
lasciata in pace, ma se
gli dicevo di si lo avrebbe detto a tutto il resto della curva?
-… Beh si,
sono io.-
-Che forza,
piacere! Io sono Derik! Tu come ti chiami?-
-Maki, mi
chiamo Maki Akamine.-
-Che bel nome!
Ma è vero quello che dicono, che sei la vedova di Kojiro
Hyuga?-
-Si, è vero.-
-Mi dispiace
tantissimo, ho letto di quello che ti è capitato,
dev’essere stata dura.-
Annuii, non
potendo dire altro, anche perché un altro uomo, meno giovane
di questo, si fece
avanti con aria interessata.
-Ehi Derik,
chi è la tua amica?-
Ecco lo
sapevo. Sei pronta per la diffusione a macchia d’olio Maki?
-Ferd questa è
Maki. Signorina Maki questo è Ferd, un mio caro amico.-
-Piacere di
conoscerla.-
-L’hai
riconosciuta Ferd? È la donna di cui ti ha parlato mia
sorella, la ragazza di
Genzo Wakabayashi.-
-Ma dai! Fammi
vedere … accidenti, è davvero carina!
È persino meglio che in foto!-
Devo ammettere
che quei commenti mi fecero molto piacere, e in fondo quel ragazzo,
Derik, si
limitò a presentarmi al suo amico, raccontandomi che erano
grandi tifosi del
Bayern e che erano lì per una scommessa persa
dall’altro uomo, Ferd.
-Vedi, avevamo
detto che se riuscivo a laurearmi entro questo mese mi avrebbe portato
alla
partita, ed eccoci qua!-
-Quindi ti sei
laureato, complimenti! In cosa?-
-Ingegneria,
non ti dico la specializzazione perché ci perderemmo il
resto della partita.-
Erano tipi
molto divertenti, e mi raccontarono un pochino della loro vita
così come io gli
raccontai un po’ della mia: per lo più quello che
avevo fatto in precedenza,
compreso l’ambito sportivo.
-Hai giocato a
softball? Che forza! Mia sorella sai gioca in una squadra di softball.-
-Sul serio?!-
-Si! Ovviamente
sono a livello amatoriale, ma sono brave. In effetti mi ha detto che
cercavano
un battitore, in caso saresti interessata?-
Lo guardai un
po’ sospettosa, e se fosse stato un trucco? Lui
però alzò nuovamente le mani.
-Ti posso
assicurare che è la verità, posso anche darti la
loro pagina web con le foto.-
-Si si,
fidati: sua sorella è grande amica della mia ragazza, e
anche lei gioca in
questa squadra. Anzi, ci siamo conosciuti proprio grazie a loro.-
A quel punto
non potei proprio dire di no: mi mancava troppo il softball, e mi ero
sempre
detta che, se ne avessi avuta l’occasione, avrei di sicuro
ricominciato a
giocarci. Mi feci dare l’indirizzo internet e il numero di
telefono mentre
sentivo i tifosi intorno a me ricominciare la cagnara, segno che le
squadre
stavano tornando in campo.
Lo cercai di
nuovo, ma lo vidi semplicemente correre al suo posto, stavolta alla
porta
opposta, e non me la sentii di ritentare a chiamarlo: adesso doveva
solo
concentrarsi sulla partita.
E la seconda
parte fu ancora più agguerrita: dopo il gol subito, gli
avversari
intensificarono il numero di attacchi, com’era ovvio, ma al
tempo stesso più
aumentavano e più sembravano perdere di potenza, tanto che i
giocatori del
Bayern riuscivano sempre a rimandare indietro la palla, nonostante la
difesa si
fosse alzata maggiormente, impedendo loro di provare a segnare una
seconda
volta.
Sembrava che
la partita fosse già segnata, quando accadde
l’impensabile: all’improvviso ci
fu uno scontro tremendo tra due giocatori, e quello
dell’Hamburger si accasciò
a terra, sofferente, mentre il giocatore del Bayern protestava;
arrivarono
persino i medici mentre alcuni delle due squadre si avvicinavano. Il
giocatore
“colpevole” continuava a protestare, e presto Karl
intervenne per cercare di
calmarlo.
Alla fine l’arbitro,
con mia grande sorpresa, tirò fuori addirittura un
cartellino rosso, scatenando
lo sdegno dei tifosi del Bayern.
-NON PUOI
ELIMINARLO!-
-NON ERA
FALLO! ARBITRO PAGATO!-
-NON È
GIUSTO!!-
Anche il
giocatore era d’accordo con i tifosi, ma Karl e un altro
biondino lo presero e
lo portarono via, raggiunti anche da un altro giocatore che, ora che lo
notavo,
mi resi conto che aveva dei tratti orientali! Un giapponese?! Ma non mi
pareva
di conoscerlo, e poi non mi sembrava nipponico.
Fatto sta che
tutti si organizzarono per il calcio di punizione. E li veramente mi
sentii
morire: c’era solo il giocatore e Genzo. Il calciatore e il
portiere. Nessuna
barriera tra i due.
Se non erano
bastati gl’infarti di prima, questa era definitivamente il
colpo di grazia per
il mio povero cuore.
Osservai la scena
nervosissima, tanto che restai alzata sulla sedia, incapace di sedermi;
gli
altri giocatori erano tutti lontani dalla porta, e due
dell’Hamburger stavano
parlottando fra loro, probabilmente decidendo su chi dovesse tirare in
porta.
Guardai
attentamente Genzo, il suo atteggiamento: sembrava così
tranquillo, invidiai i
suoi nervi d’acciaio. Si stava sistemando tra i pali,
mettendosi bene in testa
il berretto, per poi posizionarsi mentre il giocatore avversario si
portava sul
dischetto.
Sentii il
cuore aumentare i battiti, oramai tutti i suoni intorno a me erano
ovattati;
vidi il giocatore avversario prendere la rincorsa, per poi scagliarsi
contro il
pallone. Ebbi per qualche istante la voglia di chiudere gli occhi,
invece li
tenni bene aperti: vidi la palla andare in porta, compiendo una curva
angolata.
Genzo si piegò
più in basso che poté, sporgendosi lateralmente
per incrociare la palla, e
prenderla con le mani, compiendo al tempo stesso un movimento in avanti
per non
finire gambe all’aria.
Non ci potevo
credere: l’aveva effettivamente … PRESA!!
Urlai con
tutto il fiato che avevo in gola, e il resto dei tifosi con me, Derik
mi prese
per un braccio ma io continuavo ad urlare entusiasta mentre gli altri
giocatori
del Bayern raggiungevano Genzo, complimentandosi con lui prima di
tornare a
giocare.
Oramai, però, io
non riuscii più a seguire bene la partita: avevo usato tutte
le mie energie per
quell’urlo, e quando sentii il fischio dell’arbitro
che segnava la fine della
partita mi sentii quasi sollevata, altre emozioni di quel tipo erano
veramente
troppo cavolo!
Aspetta … ma
era finita la partita! Dovevo raggiungere Genzo al più
presto!
-Derik, senti
sai come si arriva agli spogliatoi??-
-Ah si: al
corridoio qui, dopo
essere scesa le
scale vai subito a destra e continua a scendere. Dopo ci sono i
cartelli che ti
guidano.-
-Grazie! È
stato un piacere!-
-Spero di
poterti vedere giocare a softball con mia sorella!-
-Si, mi farò
sentire!!-
E corsi via,
arrivando a spingere gli altri tifosi per poter scendere per prima le
scale;
seguii le sue indicazioni alla lettera, scendendo la prima rampa di
scale e poi
andando a destra, notando subito i cartelli fino a raggiungere il
corridoio … e
anche il cordolo che m’impediva di andare oltre, verso la
porta degli spogliatoi.
Beh non mi
sarei mai sognata di entrarci dentro! Ma quanto meno avevo raggiunto il
posto.
-Ehi, ma
quella è Akamine!-
-Si è Maki!-
Mi voltai, e
vidi con orrore che una serie di flash mi stavano arrivando addosso,
assieme ad
alcuni giornalisti, uno di loro per poco non mi colpì con il
loro microfono.
-Lei è Maki
Akamine, non è vero? È venuta per salutare Genzo?-
-Allora
conferma le voci sulla vostra relazione?-
-Da quanto
tempo sta andando avanti?-
… avanti Maki,
ti eri prefissata l’obbiettivo che, se fosse accaduto
qualcosa del genere,
avresti risposto alle loro domande con onestà e cortesia.
Sei un Akamine,
quindi alta la testa e dritta con la schiena! E soprattutto niente
paura: loro
sono sciacalli, ma tu sei stata addirittura la moglie di una tigre!
-Si, sono Maki
Akamine, e si, confermo la mia relazione con Wakabayashi.-
Le mie
risposte entusiasmarono i fotografi e i giornalisti, ma mantenni il mio
distacco: ogni volta che facevano un passo avanti, io ne facevo uno
indietro, e
anzi arrivai a chiedere loro di non venirmi troppo addosso, che stavo
soffocando.
-Genzo
Wakabayashi la sta aiutando a superare il lutto della perdita di suo
marito?-
-Inizialmente
io e Wakabayashi neanche ci siamo riconosciuti: la nostra conoscenza
reciproca
era dovuta solamente a mio marito. In seguito abbiamo avuto modo di
diventare
buoni amici.-
-È vero quello
che si dice, che è fuggita dalla sua famiglia per venire qui
in Germania?-
-No, sono
tutte menzogne: la mia famiglia sa perfettamente che sono qui, anzi ho
chiesto
loro il permesso di trasferirmi in questo bellissimo paese.-
-Le piace la
Germania? Pensa di restarci a lungo?-
-Di certo in
questo paese sono stata accolta con molta cortesia dalla sua gente, e
mi trovo
molto bene. Non so per quanto tempo ancora ci rimarrò, ma
spero di poterla
visitare, in modo da apprezzarla ulteriormente.-
-Le sembra che
lo scandalo successo con l’Hamburger abbia minato la rendita
sportiva di
Genzo?-
-… Wakabayashi
è un uomo molto in gamba, che sa sempre reagire ad ogni
situazione: a mio
parere non è per niente calato, anzi oggi credo abbia
dimostrato ulteriormente
le sue capacità, specie quando ha parato quel rigore.-
-Secondo lei
quel rigore era regolare?-
-Me lo chiede
come tifosa o come sua ragazza?-
E questo
provocò qualche risata mentre sentivo una presenza
raggiungermi e toccarmi la
spalla: mi voltai sorpresa, e subito riconobbi il volto di Genzo,
ancora
coperto dal suo berretto rosso.
-Genzo …-
-Tutto bene
Maki? Ti stanno dando fastidio?-
-No, ho solo
risposto ad alcune loro domande.-
-Bene. Signori,
ora se volete scusarci, io e Maki vogliamo tornare a casa.-
E come Mosè
con le acque del Mar Rosso, i giornalisti si aprirono ai nostri lati,
permettendoci di allontanarci, per poi accanirsi su Karl e
sull’allenatore
della squadra; noi andammo avanti senza mai voltarci indietro, io
sentivo la
mano di Genzo sulla mia spalla, e solo quando fummo effettivamente
fuori,
nell’aria gelida di Monaco, lui si staccò da me.
-Sei venuta in
bicicletta?-
-No, con
Friedrich, ma gli ho detto di tornare a casa perché
… sarei tornata con te.-
-Va bene.
Vieni allora.-
Non mi
guardava neanche in faccia! Non capivo se era arrabbiato o stanco,
maledizione!
-Sei
arrabbiato con me?! Perché ho parlato con quei giornalisti?
Non mi andava più
di nascondermi!-
-… no, non
sono arrabbiato.-
-E allora cosa
c’è Genzo?!-
-… sono
contento … che tu sia venuta … e mi dispiace
… per … per come mi sono
comportato, scusami.-
Mi veniva da
sorridere: non mi guardava in faccia perché era imbarazzato!
E forse perché un
pochino, ma proprio un pochino, si sentiva in colpa di quanto era
successo; lo
abbracciai dietro la schiena, strofinandomi il volto sul suo giaccone,
sorridendo contenta.
-Anch’io sono
contenta di essere qui … e mi scuso anch’io:
è stata colpa mia, ho avuto paura
… ma ora siamo qui, giusto?-
Lui si voltò
verso di me, e mi accarezzò il volto, sorridendo divertito
come me.
Sarebbe stata
ancora dura, quello era solo l’inizio. Ma, almeno, questa
prima difficoltà
stavamo cominciando a superarla.
**
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Capitolo 11 *** Doktor ***
X:
Doktor
(Dottore)
> Quindi è
tutto a posto? Meno male! Sono sollevata! Mi sono sentita
così male ieri, mi
sono davvero comportata come una stupida …
-Non dire
così.-
> Lo sai
anche tu che è vero!
Sorrisi
divertita, quando Yayoi voleva avere ragione lo voleva e basta. Un
po’ come
Genzo, ma lei era molto più carina di quell’orso;
e poi si poteva dire che lei,
un tempo, era stata la mia “infermiera”, e che per
tale motivo siamo state
molto in contatto, conoscendo l’una i difetti
dell’altra. Forse anche per
questo ci volevamo così bene.
E soprattutto
per questo capivo che il suo modo di fare era stato strano: non era da
lei
telefonare per un semplice articolo, almeno che non si fosse trattato
di
qualcosa di grave. Ma quella era la mia semplice foto mentre andavo a
lavoro al
bar!
-Piuttosto,
tutto a posto? Come vanno le cose con Misugi?-
> Ecco …
Bingo. Lo
sapevo che c’era qualcosa che non andava, e conoscendo Yayoi
erano
essenzialmente due i motivi che l’avrebbero fatta preoccupare
o stare male: o
la sua famiglia (di cui ci è tremendamente affezionata!) o
il suo fidanzato.
-Tutto bene,
vero?-
Tecnica del
contrappasso: se tu metti una cosa in positivo, l’altro ti
darà la versione
negativa dei fatti. Ha sempre funzionato con Tomoko, o comunque con
quelle
persone dal carattere piuttosto tranquillo, che cercano sempre di
evitare i
conflitti.
> …
veramente non proprio. Anzi, non va affatto bene.
Ah-ha!
Funziona ancora!
Mi misi comoda
sul divano, continuando a tenere il cordless all’orecchio.
-Perché?!
Cos’è successo?-
-Diciamo che,
ultimamente … Jun è molto nervoso.
-Nervoso? In
che senso?-
> Non lo
so, non l’ho capisco nemmeno io: inizialmente sembrava solo
nervosismo da
stanchezza, e da quando ha terminato il tirocinio allo studio medico
credevo
che le cose si sarebbero appianate come sempre …
-Ma?-
> Ma … le
cose non sono affatto migliorate: il giorno che ti ho chiamato, la
mattina,
avevamo litigato.
Ok, Yayoi Aoba
LITIGA?! Yayoi Aoba è la ragazza più tranquilla e
dolce che avessi conosciuto!
Sentirla dire che “litigava” con qualcuno era come
se un canarino cantasse
“Welcome To The Jungle” dei Guns N’
Roses! (da quando frequento Genzo, e la sua
casa, ho cominciato ad ampliare la mia cultura musicale, e il rock sta
diventando il mio genere preferito)
-Accidenti, e perché
avete litigato?-
> Se devo
essere sincera non me lo ricordo più, era un motivo
così stupido che anche se
mi sforzo non me lo ricordo proprio: fatto sta che inizialmente abbiamo
discusso, poi lui ha alzato la voce dicendo che la colpa era mia, che
ero
appiccicosa e che lui non riusciva a riposare tranquillo.
Cavolo! Per
quanto mi sforzavo, non riuscivo proprio a figurarmela la scena; la
prima volta
che li avevo conosciuti era stata ad una rimpatriata tra i giocatori
della
Nazionale, e li avevo fatto amicizia con le altre ragazze. Ricordo che
Kojiro
voleva assolutamente che io conoscessi Misugi, me ne aveva sempre
parlato con
grande ammirazione e rispetto, e io fui altrettanto emozionata nel
conoscerlo.
Mi era
sembrato, fin da subito, un uomo molto amichevole e dal carattere
tranquillo,
proprio come Yayoi; beh, Maki, mai giudicare un libro dalla copertina!
In
effetti mi era sempre stato detto che le persone calme sono quelle che,
quando
si arrabbiano, fanno più paura di tutti.
-E allora tu?
Che hai fatto?-
> … niente.
Non gli ho detto niente.
-Ah, Yayoi …-
> Ma cosa
potevo dirgli?! Ero senza parole! Non l’avevo mai sentito
dire una cosa del
genere! Ho cercato di chiedergli perché mi dicesse quelle
cose, ma non mi ha
detto niente.
Sempre la
solita: quando le discussioni diventavano difficili si ammutoliva. Sono
certa
di non averla mai vista veramente arrabbiata.
-Non sarà che
ha di nuovo qualche disturbo?-
> Ma no,
oramai sono passati anni dall’operazione, e se ci fosse stato
qualche problema
si sarebbe manifestato prima. Non so cosa fare Maki, non me la sento
nemmeno di
stare a casa adesso.
-Addirittura?!-
Non mi
rispose, ma io intuì che le cose si, erano abbastanza gravi,
soprattutto perché
Yayoi era una giovane donna con un cuore molto più fragile
di quello di
cristallo di Misugi: quando ci eravamo conosciute mi ha sempre
raccontato, con
l’entusiasmo che l’accendeva, di quanto
l’uomo era un bravo giocatore, fin da
ragazzino, e di quanto lei gli volesse bene. E io intuito che
l’affetto che la
legava a lui era molto profondo, anche troppo.
Mi ricordai un
giorno, dopo la morte di Kojiro, in cui ascoltai involontariamente una
loro
telefonata: era la prima volta, dopo mesi di convivenza forzata con me,
con me
che in alcuni giorni ero così giù da poter creare
un vuoto dimensionale, che la
vedevo trattenere l’emozione, parlando con una voce tale che
m’imposi di
allontanarmi da lei per rispetto.
> Sto
pensando di tornare a casa dai miei, mi sembra la cosa giusta.
-Non sono
d’accordo. C’è un problema Yayoi, e non
è scappando che lo risolverai.-
> Lo so, ma
non cosa fare!
-Ribellati,
maledizione! Dice che la colpa è tua, ma se tu sai che non
gli hai fatto
niente, allora è solo un problema suo! E poi che diamine, tu
fai
l’appiccicosa?! Ma se è lui che aveva bisogno
dell’infermierina fino a qualche
anno fa, adesso si permette di criticarti?! Che arschloch!- (stronzo)
> Maki! Non
conosco il tedesco, ma di sicuro non hai detto una gentilezza!
Mi venne da
ridere, stavo cominciando a prendere confidenza con il tedesco. E poi
si sa che
le parolacce sono le prime cose che impari quando studi una nuova
lingua.
Mi ero alzata
in piedi, ma ero talmente presa dalla conversazione che adesso mi era
impossibile tornare a sedere, e andavo da una parte all’altra
della stanza come
un’anima in pena.
-Dai Yayoi,
non dirmi che non hai ancora detto niente su questa situazione!-
> … beh …
in effetti …
-Yayoi …-
> … baka …
(stupido)
-Puoi fare di
meglio.-
> …
Rokudenashi … (stronzo)
-Ecco, già va
meglio!-
> … pezzo
di merda … bastardo … vigliacco, vigliacco,
vigliacco!!
-Così mi piaci
piccola! Ti ricordi quello che dicevi a me? Bisogna sfogarsi in
qualsiasi modo,
perciò non ti fermare!-
> Maledizione,
io mi sono fatta in quattro per dargli una mano, con tutti che mi
criticavano e
mi davano una stupida! Ma io lo amo davvero e adesso guarda! Guarda in
che
cavolo di situazione siamo finiti! E da la colpa a me! È lui
che vuole sempre
strafare, vuole sempre dimostrare di essere il più bravo! Ho
fatto
infermieristica perché mi piaceva, non per stargli
appiccicata, cazzo!
-Accidenti
piccola, attenta o ti fai male.-
Tentai di
buttarla sul ridere, ma la sentii chiaramente sull’orlo di
una crisi di pianto,
e mi passai una mano tra i capelli, accidenti che brutta situazione.
Meno male
che avevo (più o meno) risolto la mia, così
potevo concentrarmi meglio sul
problema.
-Dai Yayoi,
puoi piangere se vuoi.-
> Scusa …
scusami, mi dispiace. Quando ho letto il tuo articolo non so cosa mi
è preso.
-Io lo so: ci
chiama gelosia. E grazie ne soffri anche tu!-
> Si ma è
diverso! Tu non meriti questo: sei in gamba, lo hai sempre dimostrato
dopo la
morte di Hyuga. Sei andata avanti, sempre. Forse Jun ha ragione, forse
sono
infantile.
-AH! Ti ha
detto anche questo? Lo sai che comincio ad odiare il tuo ragazzo?!-
Lei non mi rispose,
forse perché stava singhiozzando ancora più forte
di prima. Accidenti, non so
proprio come comportarmi di fronte alle lacrime degl’altri;
mi avvicinai alla
grande finestra del salotto, da lì la vista dava
sull’ingresso, con il cancello
e, davanti, la strada che portava in città. Oltre di questa,
un parco con
alberi e verde.
-Scusami,
questo era troppo.-
> No, hai
ragione. Hai ragione tu, in tutto: devo restare qui, provare a parlarci
di
nuovo, o quanto meno a farmi sentire.
-E comunque,
se vuoi davvero una pausa, puoi sempre venire qui da me. Tanto un
piccolo
spazio per te lo troviamo, al massimo dormo io sul divano!-
La sentii
sorridere, meno male. Ma tanto non dovevo preoccuparmi: se
c’era una cosa che
avevo imparato, è che Yayoi Aoba aveva una tempra
d’acciaio.
> Invece,
cambiando discorso, ora cosa farai? Ricomincerai a giocare?
-Mi
piacerebbe, è da tanto che non gioco più.
Oltretutto qui non è livello
agonistico, quindi non credo ci saranno complicazioni.-
> A
proposito, hai poi cercato un medico?
-Beh no, devo
ammettere di no.-
> Perché
non chiedi a Wakabayashi? In fondo deve ancora fare qualche visita di
controllo, se non mi sbaglio; potresti chiedergli di accompagnarti dal
medico,
e da lui farti suggerire uno bravo.
-Non lo so …-
> Maki, ora
sono io che devo sgridare te? Oltretutto sempre per la stessa storia?
Uffa, non mi
piaceva quando Yayoi aveva ragione sul mio stato di salute,
perché tutti
avevano sempre avuto ragione sul mio stato di salute!
> Lo so che
è difficile perché sarà un ginecologo
nuovo, ma tu più di tutti devi farlo.
-Va bene, va
bene, ne parlerò con Genzo.-
> Sai, sono
contenta che hai cominciato a chiamarlo per nome: significa che il
vostro
rapporto si è fatto più profondo, giusto?
Sorrisi, un
po’ imbarazzata.
-Si, è vero.
Per quanto a volte sia un orso arrogante, sono felice di stare con lui.-
> Ci credo:
l’ultima volta che ti ho sentita così piena di
vita è stato durante il ritiro
della Nazionale, quando eravamo solite uscire con Sanae e le altre.
-Ah già!
Sanae! Come sta?! Il bambino?-
> Sta bene,
mi ha mandato una foto via mail, è bellissimo, assomiglia
tanto a Tsubasa.
-Me la puoi
mandare in qualche modo?-
> Se
conoscessi la tua mail! Ma tu sei sempre stata un po’ la
preistorica.
-Ehi, al
ryokan non c’era la connessione internet!-
Ma lì si, e
c’era anche un computer. Hm, forse era il caso di pensare
seriamente ad aprirmi
una nuova finestra. Anche perché Derik mi aveva dato
l’indirizzo blog della
sorella, per poter vedere le foto e conoscere in qualche modo la
suqadra.
E forse …
forse avrei potuto capire la storia di Genzo con l’Hamburger,
non mi ero certo
scordata della domanda che mi aveva fatto il giornalista: lui aveva
parlato di
scandalo, e nell’articolo letto da Yayoi si parlava di una
modella e di droga.
Lui non è assolutamente un tipo da usare droghe o cose del
genere, ma se era
coinvolto un motivo c’era, e per il momento lui non me lo
avrebbe detto.
> Ora devo
andare, tra poco inizio il turno all’ospedale.
L’avevo
chiamata verso le dieci della mattina dopo la partita. Contando che
c’erano
otto ore di fuso orario, erano le sei di pomeriggio, doveva cominciare
il turno
notturno.
-Va bene,
allora ci sentiamo presto. E mi raccomando: se succede ancora qualcosa
con
Misugi mi devi chiamare, SUBITO, chiaro? E comunque ricordati che,
davvero, se
vuoi venire qui sei la benvenuta.-
> Grazie
Maki, ci penserò, davvero. Tu stammi bene, e mi raccomando
cercati un
ginecologo.
-Lo farò,
promesso. Ciao.-
Presi un
profondo respiro, guardando il paesaggio fuori dalla vetrata,
nonostante il cancello
m’impedisse di avere una buona visuale; si, Yayoi aveva
ragione, il mio fisico
doveva ancora essere tenuto sotto controllo, anche se questo
significava
metterlo nelle mani di uno sconosciuto, per quanto qualificato che
fosse.
È strano: non
avevo mai considerato il mio corpo con grande stima. Era atletico, ma
mi
causava dei problemi, e dovevo sempre stare attenta a come lo usavo;
non ero
particolarmente bella, ma non me ne preoccupavo perché non
pesavo ad avere
ragazzi, o a fare sesso. Poi ho conosciuto Kojiro, e il mio problema mi
apparve
per quello che era davvero.
Temevo che
fare l’amore con lui mi avrebbe provocato dolore, o peggio mi
avrebbe causato
un sanguinamento, e quindi lo avrei disgustato; per molto tempo ebbi
paura
quando mi baciava e mi toccava, e quando gli raccontai del mio problema
la
paura non se ne andò di certo, anzi si fece ancora
più forte, adesso credevo
che mi avrebbe addirittura lasciato.
Invece l’unica
cosa che io lasciai fu il softball, il mio più grande amore
dopo Kojiro. Ne soffrii
così tanto che adesso che avevo una possibilità
mi sentivo tremendamente in
ansia.
Poi, quando
cominciammo a parlare di matrimonio, mi si presentò davanti
il fatto che, di
sicuro, non avrei mai potuto avere figli: l’Endometriosi
provoca, infatti, infertilità,
e questo non potevo accettarlo. Avevo sempre sperato, se mai mi fossi
sposata,
che avrei voluto crescere almeno tre figli. I figli miei e di Kojro.
Invece,
dopo la cerimonia, avevo sempre il terrore di non riuscirci, e quando
rimasi
incinta fu davvero un sollievo. Ma il mio corpo non ebbe la forza
necessaria, e
abortii.
Però i dottori
mi dissero che c’era ancora la possibilità, e
già mi preparavo a riprovarci; ma
venni stuprata, e persi mio marito. Durante la depressione pensai che
fosse
colpa del mio corpo se Kojiro era morto: se fossi stata in grado di
dargli un
figlio, allora non ci saremmo ritrovati ad uscire fuori da quel
maledetto
cinema, e non saremmo stati aggrediti, e Kojiro non sarebbe
… non sarebbe
morto.
In effetti, ho
sempre odiato il mio corpo: non mi ha permesso di diventare una
sportiva, né
una madre. È sempre stato un ostacolo insormontabile per
tutti i miei progetti;
e lo sarebbe stato a lungo, molto a lungo.
-Maki?-
Mi voltai,
stupita: Genzo.
-Tu che ci fai
qua? Non hai allenamenti oggi?-
-Il lunedì è
libero, per tanto me la sono presa comoda.-
-Ah, Genzo
Wakabayashi fa il pigro, questa è una novità!-
Lui sorrise ed
entrò nel salotto, avvicinandosi. Io avevo ancora il
telefono in mano.
-Hai parlato
con Aoba? Mi avevi detto che dovevi assolutamente telefonarle.-
-Si, le ho
detto che, in qualche modo, abbiamo sistemato la faccenda.
L’abbiamo sistemata,
vero?-
Lui sorrise
divertito, e mi spettinò i capelli come al solito. Ma quanto
mi dava fastidio!
-Ah smettila!-
-Avete parlato
d’altro?-
-A quanto pare
lei e Misugi hanno dei problemi: hanno litigato, e lui le ha
rinfacciato che è
troppo appiccicosa.-
-Aoba è sempre
stata una ragazza affettuosa …-
-Non hai idea
di quanto mi abbia aiutata durante il lutto, per uscire fuori dalla
depressione,
e posso dirti che non è assolutamente quel tipo di persona!-
Lui mi guardò
un po’ sorpreso, poi annuì.
-Le ho detto
che, se voleva, poteva venire qui. Ti da fastidio?-
-No, per
niente. Anzi, forse ti farebbe bene rivedere qualche faccia amica.-
Ok, mi
appoggiava, bene!
-Altro?-
Ah, cavolo,
gliene dovevo parlare.
Però le sue
domande erano state un po’ troppo specifiche. Non era che
forse …
-Genzo, ma mi
hai ascoltata?-
-Solo l’ultima
parte, quando vi siete salutate, giuro. Però la telefonata
è stata lunga, no?
Ti ho sentita chiamare circa tre quarti d’ora fa.-
-In effetti
non sentivo Yayoi da tanto, abbiamo parlato del più e del
meno.-
Glielo dovevo
dire, glielo dovevo chiedere, dopotutto l’avevo promesso a
Yayoi, e dovevo
comunque farlo anche se non mi piaceva.
-Senti, volevo
chiederti …-
-Si?-
-Devi fare
un’altra visita di controllo per caso?-
-Beh, devo
prenotarmi per l’ultima, e pensavo di andarci oggi che ho il
giorno libero.
Perché?-
-Ecco … vorrei
parlare con il tuo medico.-
-Se è per le
medicine guarda che le prendo! Non faccio i capricci come al ryokan.-
Mi venne da
ridere, ma che scemo!
-Non è per
questo! È che …-
Dio, com’è
imbarazzante! Ma se non lo dico a lui, a chi mai potrei dirlo.
-Si tratta
della mia Endometriosi: devo trovare qualcuno qui, per fare i miei
accertamenti.-
Lui mi guardò
sorpreso. Cinque secondi dopo lo vidi farsi più serio, aveva
l’aria pensosa e
questo m’incuriosì.
-Si, mi sembra
la cosa migliore da fare; per altro il dottor Shnauzer
è un medico molto
qualificato, e sono sicuro che conoscerà un ottimo
specialista.-
-Grazie
Genzo.-
-Figurati,
questo e altro.-
E
mi baciò affettuosamente i
capelli, facendomi sorridere. Al tempo stesso, però, quel
bacio, e soprattutto
il nostro discorso, mi spinsero di nuovo nei pensieri precedenti, e mi
chiesi
quanto poteva piacergli il mio corpo, e se mai gli poteva piacere.
In
fondo lui aveva conosciuto
modelle e donne molto belle, dai corpi splendidi. Io …
potevo dire che ero
un’atleta, potevo dire com’era fatto il mio corpo,
ma quello che volevo sapere
era se accettava un corpo con un problema con il mio, se mai
desiderasse farci
sesso. Ma era una domanda talmente intima e imbarazzante che non me la
sentii
di farla.
-Senti,
pensavo di fare una
corsa al parco qui davanti, ti va di venire? Tanto, oramai la nostra
relazione
è di dominio pubblico!-
-Ti
ho già detto che non mi
andava più di nascondermi! E ti ho anche chiesto scusa!-
-Si,
infatti, infatti.-
E
mi mise un braccio attorno
alle spalle, trascinandomi con me fuori di casa, avvertendo Isolde
all’ultimo
momento mentre io gli prendevo il berretto rosso, alzandomi in punta di
piedi
per metterglielo in testa.
-Così,
perfetto. In questo
modo ci vedranno sicuramente.-
-E
ci faranno un sacco di
foto.-
-Pensi
che mi sarei dovuta
mettere un po’ di trucco?-
-Non
ne hai bisogno, sei bella
così come sei.-
Accidenti
a lui e alle sue
uscite imbarazzanti! Aprì la porta d’ingresso, e
quel giorno il sole era bello
luminoso, tanto da accecarmi, nonostante il freddo che ci arrivava
addosso; con
mia grande sorpresa, si voltò verso di me e portò
il braccio indietro, aprendo
la mano come ad offrirmela.
-Allora,
andiamo?-
-…
si!-
Gli
presi la mano contenta, e
chiudemmo la porta alle nostre spalle, avviandoci verso una lunga e
tranquilla
passeggiata nella zona verde di fronte alla villa.
L’appuntamento
di Genzo dal
dottore era previsto alle cinque, ma io già dalle quattro e
mezzo ero nervosa,
e ora che stavo aspettando con il portiere dentro lo studio ero ancora
più
nervosa; stringevo spasmodicamente le mani sopra i jeans, e la mia
testa era
completamente vuota mentre continuavo a guardare prima la porta,
chiusa, dello
studio, poi la sala d’attesa, a parte noi due non
c’era nessun altro, la sua
segretaria era in un’altra stanza.
-Ehi,
calmati, guarda che deve
controllare me.-
Mi
bisbigliò all’orecchio, e
inizialmente la vicinanza mi fece venire un colpo; poi spostai lo
sguardo verso
di lui, e lo vidi sorridermi, ma più cerca di dimostrargli
che stavo bene, più
mi sentivo prendere dall’ansia. Forse anche per questo si
sporse una seconda
volta verso di me, cinque minuti dopo.
-Non
ti piacciono questi
posti, vero? Hai le spalle così rigide che rischi di farti
male.-
-…
è che … ogni volta che
andavo dal dottore, non erano mai buone notizie.-
-Beh,
se vai da un medico, non
è per dirgli “ehi, guardami! Sono un sano come un
pesce, tiè!”-
Mi
venne da ridere, ma
soffocai comunque la risata nonostante fossimo gli unici esseri viventi
(pianta
a parte) all’interno di quella stanza.
-Questo
è vero. Però … ogni
volta che mi presentavo da un medico … erano sempre cose
serie.-
“Temo
che dovrai lasciar
perdere il softball per un po’”
“Se
continui così metti a
rischio la tua salute.”
“È
necessario asportare, non
c’è altra scelta.”
“Devi
scegliere se vuoi
continuare a fare sport, o se vuoi rinunciarvi.”
“Sarà
difficile per lei
rimanere incinta, se ne rende conto?”
“Mi
dispiace, ma il bambino
non c’è l’ha fatta.”
-È
strano: l’unica volta che
ho avuto buone notizie da un medico, è stato quando sono
rimasta incinta. Ma
poi ho perso il bambino.
Ah
scusami, non dovrei dire
cose del genere …-
-Finsicila.-
L’ho
disse in modo secco, ma
mi prese la mano e me la strinse, facendomi sentire la sua vicinanza.
Lo
guardai sollevata, e lentamente gli feci sciogliere la presa, solo per
poter
intrecciare le mie dita con le sue; la mia mano, in confronto alla sua,
era
come quella di una bambina.
-Hai
le mani enormi, sai?-
-Meno
male, altrimenti non
potrei fare bene il mio lavoro, no?-
-Sei
stato incredibile alla
partita! Sul serio! Mi hai fatto venire almeno uno o due infarti,
specie a quel
calcio di rigore.-
-Già,
anch’io ero abbastanza
nervoso.-
Notai
che i suoi occhi si
erano incupiti, probabilmente stava pensando a quello che era successo
con la
sua vecchia squadra; beh, quello era un buon momento per chiederlo, non
c’era
nessuno, ed eravamo entrati tranquillamente in argomento.
Però chiederglielo
direttamente di sicuro lo avrebbe ammutolito, perciò dovevo
trovare un modo per
essere delicata.
-Com’è
stato … affrontare i
tuoi ex compagni?-
Lui
prese un profondo respiro.
-Non
è quello che
m’innervosiva: ogni volta che mi scontro con Tsubasa, o con
gli altri, è sempre
un’emozione. Non hai idea di come ero eccitato ogni volta che
dovevo avere a
che fare con Hyuga!-
-La
stessa eccitazione che
aveva lui quando doveva scontrarsi con te.-
-Davvero?-
Mi
guardò con un’aria
entusiasta, e mi venne da sorridere, in quel momento mi ricordava
proprio
Kojiro.
-Si:
si svegliava prestissimo
la mattina della partita, e fino a quando non andava in campo non
faceva altro
che dire “Oggi gli faccio almeno tre tiri! Gliela buco quella
porta,
altroché!”-
-Il
solito pallone gonfiato.-
-Ehi,
guarda che sono sicuro
che dicevi più o meno le stesse cose.-
Gli
presi il berretto che
teneva sulle gambe, me lo misi in testa e cercai, provando a non ridere
come
una matta, d’imitarlo il più possibile.
-“Tzé,
oggi mi batterò contro
Hyuga! Non gli farò passare nemmeno un tiro! La tigre non ha
speranza contro il
portiere più forte del mondo!”-
-Ehi,
io dicevo solamente
“della Germania!”-
E
ci mettemmo entrambi a
ridere. Proprio in quel momento si aprì la porta,
rivelandomi, per la prima
volta, la faccia del dottor Shnauzer: un uomo di
cinquant’anni con i capelli
sale e pepe, in quel momento portava gli occhiali, e aveva il volto
sbarbato.
-Signor
Wakabayashi? Prego, si
accomodi.-
-Può
venire anche la signorina
Akamine? Avrebbe bisogno di parlarle dopo la mia visita.-
-Ma
certo, prego. È un piacere
conoscerla finalmente di persona, se non sbaglio ho parlato con lei
qualche
mese fa.-
-Si,
certamente, il piacere è
mio.-
-Prego,
lei si accomodi pure
sulla sedia, il signor Wakabyashi invece si metta pure sul lettino e si
tolga i
pantaloni.-
Oh
kami! Cosa?!
Seguii
Genzo con lo sguardo, e
lo vidi effettivamente avvicinarsi al lettino, slacciandosi per prima
cosa la
cintura; ma non appena lo vidi sbottonarsi i pantaloni, cercai subito
qualcosa
sulla scrivania del dottore che potesse distrarmi da quello che stava
accadendo. Oh cazzo! Non avevo mai visto Genzo in mutande! Neanche al
ryokan!
-Bene,
si metta pure seduto.
Adesso mi dica se le faccio male da qualche parte.-
Ci
fu qualche secondo di
silenzio, e molto timidamente tentai qualche occhiata, trovando per
prima il
conforto del camice bianco del dottore, ma trovando subito dopo la
pelle del …
ginocchio? Polpaccio? Non sapevo nemmeno che punto era del corpo, ma
appena lo
vidi distolsi subito lo sguardo.
Ah,
se Oba-sama avesse
assistito la scena sarebbe sbiancata! Che ridere!
Presi
nuovamente coraggio, e
di nuovo guardai prima il bianco della stoffa, e in seguito ritrovai
quella
pelle, era del ginocchio, poi vidi la coscia … e le mutande
di Genzo! Waaah!!
-Bene,
mi sembra che non ci
siano problemi. Come hai sentito il muscolo durante la partita? Reagiva
bene?-
-Si,
normalmente, sono
riuscito a dare una prestazione discreta.-
-Ah,
discreta? Dottore, se lei
avesse visto la partita avrebbe visto a cose incredibili.-
Mi
permisi di commentare,
guardando i due uomini, e qualche secondo dopo mi resi conto che stavo
guardando le gambe aperte di Genzo … e ovviamente anche
quello che c’era in
mezzo, e come può l’occhio non cascarti?! Anche
perché … aveva delle gambe
davvero muscolose e lunghe, vero, però nonostante lo slip
nero … beh, un po’ si
vedeva la forma … di quello che c’era sotto.
OH
KAMI!! IMBARAZZO TOTALE!!
Deviai
assolutamente lo sguardo
mentre il dottore parlava tranquillamente con il suo paziente.
-Sembra
che la signorina
Akamine abbia molto apprezzato la partita, vero?-
-Si,
molto, mi sono molto
divertita.-
-Bene
signor Wakabayashi, vada
pure dietro la tenda che concludo il suo esame.-
Captai
i loro movimenti, e
quando scomparvero dietro la tenda mi rilassai un pochino, sentendo
solo del
frusciare e poi un lungo momento di silenzio, prima che il dottore
parlasse di
nuovo.
-Bene,
anche questa zona è a
posto. È tutto a posto, vero? Funziona in modo regolare?-
-Direi
di si.-
-Anche
per quanto riguarda i
rapporti intimi?-
Rapporti
intimi? Oh cavolo!
-Ultimamente
non ne ho avuti,
ma non credo ci siano problemi.-
-Bene,
mi fa piacere sentirlo.
Allora si può rivestire, che intanto faccio una
chiacchierata con la signorina
Akamine.-
Aveva
indossato i guanti di
gomma, e li tolse buttandoli nel cestino, prendendosi anche una
salvietta umida
e profumata.
-Allora,
mi dica, come potrei
esserle d’aiuto?-
Ora
diventava difficile;
volevo aspettare Genzo, ma non potevo certo far attendere il dottore.
-Ecco,
vede, io soffro di
Endometriosi …-
Controllai
il suo volto, ma
non vidi nessun cambiamento, perciò andai avanti con
più tranquillità, cercando
di ricordarmi bene il discorso che mi ero preparata a mente in tedesco.
-In
Giappone ero sotto il
controllo di uno specialista, ma ora qui in Germania devo trovare un
altro
ginecologo, soprattutto perché devo fare controlli periodici
e mi devo far prescrivere
i farmaci specifici; mi chiedevo se lei potesse indicarmi qualche nome,
o
comunque indirizzarmi verso persone che potevano consigliarmi.-
Genzo
arrivò in quel momento,
accomodandosi accanto a me mentre il dottor Shnauzer si prendeva
qualche
secondo, prima di parlare, muovendo le mani sulla sua scrivania,
prendendo
carta e penna.
-Conosco
un ottimo ginecologo …
un mio caro amico di università … che potrebbe
fare al caso suo; s’interessa a
questo tipo di patologie, e credo che potrebbe trovare in lui una
persona molto
affidabile.-
E
mi diede il foglietto di
carta. “Aaron Himler”. Non so perché, ma
quando lessi quel nome mi sentii
sollevata.
-La
ringrazio dottore.-
-Si
figuri. Quanto a lei,
signor Wakabayashi, per quanto si sia messo d’impegno per
rendermi la vita
difficile, posso affermare che lei è perfettamente guarito,
nonostante i suoi
tentativi di sabotaggio.-
Già,
proprio tipico di Genzo.
Mi scappava da ridere, e lui aveva il solito sorrisetto da ragazzaccio.
-Spero
proprio di vederla su
un campo di calcio, la prossima volta, e non qui in clinica.-
-La
ringrazio dottore. Le auguro
buona giornata.-
-Altrettanto
a lei. Signorina.-
-Grazie
dottore, arrivederci.-
Gli
stringemmo la mano, e
uscimmo dalla clinica. Appena io fui fuori, provai un certo piacere nel
sentire
l’aria gelida di Novembre.
-Allora.
Hai ricevuto notizie
buone o cattive oggi?-
Io
guardai Genzo, sorpreso,
non credevo che avrebbe ripreso quel discorso; gli sorriso, contenta.
-Direi
buone notizie, no?-
**
|
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Capitolo 12 *** Probleme und Losungen ***
XI: Probleme und
Losungen
(Problemi e
soluzioni)
So
che a Genzo piaceva bere,
l’avevo intuito al ryokan. Quando aveva cominciato?
Sicuramente prima di
conoscermi. Probabilmente, però, lui era una di quelle
persone che semplicemente
godeva nel sorseggiare l’alcol, e non ne rimaneva assuefatto.
Personalmente
non ho mai
imparato ad apprezzarlo: il saké non mi piaceva, il suo
sapore era troppo
forte. Anche Kojiro, come me, non beveva, l’ho visto al
massimo bersi la birra
con gli amici, ma sembrava farlo più per compagnia.
Non
saprei dire se mi piace o
meno questo vizio di Genzo. Ma quando lo sbirciai quella sera, dalla
porta semichiusa
della sua stanza, e lui mi dava la schiena sorseggiando quel calice di
liquore,
il semplice movimento di tastare il liquido sule sue labbra mi tenne
con i
piedi bloccati, la mano incapace di aprire la porta: la scena, infatti,
mi
lasciò addosso una malinconia tremenda, profonda e cupa,
così come lo era il
suo sguardo, quando mi mostrò il suo profilo. Fortunatamente
era sera, e il
corridoio buio mi nascondeva alla sua vista.
La
mia intenzione di
parlargli, di dirgli della mia visita dal ginecologo, delle
novità e, soprattutto,
del mio desiderio di partecipare alla festa al quale era stato
invitato, a cui
mi aveva chiesto di partecipare con il solito sorriso ironico mentre
diceva
“oramai è ufficiale, perciò voglio
mostrare a tutti la mia donna, in modo che
nessuno si permetta di starti troppo accanto”, si spense
nella crescente ansia
di capire dov’erano i suoi pensieri in quel momento.
Ma
andiamo con ordine.
Subito
dopo la visita di Genzo
dal dottor Shnauzer, tornata a casa avevo preso la cornetta del
telefono e
contattato il signor Himler; a rispondermi fu lui di persone, e io gli
parlai
di me e del mio problema.
-…e
dunque comprende che avrei
bisogno di farmi visitare da un esperto, e il dottor Shnauzer mi ha
raccomandato a lei.-
>
Si, capisco. Allora
senta, lei sarebbe disponibile a presentarsi qui domani mattina? Ho un
buco
alle dieci, per lei sarebbe un problema?
Avevo
il turno a lavoro di
pomeriggio, non potevo chiedere di meglio!
-No,
no anzi! È perfetto!-
Forse
avevo messo troppo
entusiasmo nel mio tono di voce: vidi Genzo sorridermi con aria
divertita,
appoggiato allo stipite della porta, ma mi limitai a fargli la
linguaccia
mentre il dottor Himler continuò a parlarmi, ripetendo
l’orario del nostro
appuntamento e dandomi l’indirizzo della sua clinica; quando
chiusi la
telefonata, mi sentii confusa, direi quasi sollevata.
-Allora?
Che mi dici?-
Alzi
lo sguardo verso Genzo,
era ancora appoggiato allo stipite della porta della cucina con le
braccia
incrociate.
-Ho
appuntamento per domani
mattina alle dieci!-
-Non
mi sembri entusiasta.-
Sorrisi
alla sua ironia, e
rimasi appoggiata al mobile dov’era il telefono,
abbracciandomi e prendendo un
profondo respiro: che sollievo, avevo trovato un ginecologo anche qui a
Monaco.
Dovevo avvertire mia nonna e i miei, ero sicura che anche loro fossero
preoccupati per il mio stato di salute.
Le
braccia di Genzo mi
strinsero, e io appoggiai le mani sul suo petto, sentendo il calore che
veniva
da sotto la sua felpa.
-Tutto
bene?-
-Si,
tranquillo: sono contenta
di essere riuscita a fare anche questo, ora devo solo avvertire i miei
della
novità.-
-Sempre
che tua zia ti
permetta di chiamarli.-
-Oh,
figurati, male che vada
mi contatteranno per sapere.-
-Sicura
che sia tutto a posto?
Non ti vedo contenta.-
-Ma
si, si non ti
preoccupare.-
E
gli sorrisi intenerita, e
guardai la sua espressione corrucciata distendersi leggermente.
-Tu
piuttosto, stamattina
avevi l’aria musona. Non che sia una novità,
però eri più pensieroso del
solito.-
Il
nostro continuo
punzecchiarci, ad occhi estranei, poteva sembrare una strana
quotidianità. Lui
sorrise con la sua solita aria da ragazzaccio, per poi spingermi verso
la
cucina.
-Ho
ricevuto una telefonata
dal signor Beckenbauer: ci sarà una festa di beneficienza
tra una settimana,
alla quale noi della squadra dobbiamo partecipare.-
-Dovete?-
-Dobbiamo.-
Genzo
non era tipo da
accettare quel tipo di imperativi (lo so per esperienza personale,
ricordate la
lotta per fargli prendere la medicine? Che sudata!), per tanto ero
sorpresa dal
suo modo di fare accondiscendente. Anche per questo motivo continui a
guardarlo
mentre si prendeva il caffè, aspettandomi da lui una
risposta ai miei interrogativi.
Sospirò.
-È
una serata di beneficenza,
non uno dei soliti “party” che si danno per
compiacere la stampa, pertanto non
mi da fastidio esserci. Anche perché ci sarà
obbligatoriamente anche Karl.-
-Quindi
ci vai solo perché c’è
il tuo amico a doversi sorbire i vari discorsone, giusto?-
-In
più lui dovrà fare un
discorso a nome della squadra, dato che è il capitano:
sarà un piacere
prenderlo in giro per tutta la serata.-
-Ma
quanto sei simpatico.-
-Si,
lo so.-
Sorrisi
divertita, e mi presi
un boccone della nuova torta di Isolde, se la donna aveva intenzione di
farmi
ingrassare beh, aveva buone possibilità di riuscita, anche
perché tutto quello
che preparava era sempre maledettamente buono!
-Ah,
è richiesta anche la tua
presenza: il signor Beckenbauer mi ha espressamente chiesto di
invitarti e di
esortarti a venire.-
Eh?
-Eh?-
-Di
che ti sorprendi? A volte
mi chiede di te agl’allenamenti, sembra che il tuo fascino
esotico lo abbia
stregato!-
Doveva
fare poso lo spiritoso,
si trattava di un evento mondano, una di quelle cose a cui io
partecipavo solo
come membro della famiglia Akamine, e molto raramente come moglie di
Kojrio,
anzi: onestamente, né io né mio marito amavamo
farci vedere a quel tipo di
eventi, li ritenevamo solo uno spreco di boria e noia.
-Non
credo sia una buona
idea.-
-Spiacente,
non sono accettati
rifiuti. Inoltre il nostro rapporto è ufficiale,
perciò voglio mostrare a tutti
la mia donna, in modo che nessuno si permetta di starti troppo accanto;
permetto solo a Beckenbauer di farti le galanterie perché
lui è uno dei miei
capi.-
Da
una parte mi faceva
sorridere la sua “possessività”, se
così vogliamo chiamarlo. Dall’altro,
però,
non mi sentivo comunque a mio agio.
-Non
sono mai stata ad una
cosa del genere.-
-Tranquilla,
se stai con me e
fai quello che faccio io, andrà più che bene.-
-Hm,
non credo che fare la
sarcastica presuntuosa con tutti migliorerà la mia immagine
ai presenti.-
-Touché.-
Pensavo
che con il lavoro
avviato e la visita confermata avessi la strada spianata verso una vita
più
tranquilla, invece mi ritrovavo anche quell’incombenza!
Sorseggiai il the e ci
rimuginai sopra.
-Avrò
bisogno di un abito
elegante, vero?-
-Beh,
jeans e maglietta non
sono propriamente adatti per una serata di beneficenza, ma se ti fanno
sentire
tranquilla.-
-E
farti sfigurare con il mio
splendido fisico? Non credo me lo permetteresti.
…
è che non ho niente di
appropriato con me, dovrò cercarlo. E non so neanche cosa
potrei prendermi.-
-Perché
non chiedi ad Isolde
di aiutarti? Anzi, perché non chiedi a Yayoi di venire e di
darti una mano? In
fondo l’hai invitata a passare un po’ di tempo qui,
e se vieni anche lei alla
serata ti sentirai meno a disagio, no?-
L’idea,
inizialmente, mi
sembrava assurda, ma ripensandoci non era poi così malsana:
Yayoi aveva bisogno
di staccarsi dai suoi problemi con Jun, anzi dovevo contattarla per
sapere come
stavano andando le cose, e io avevo assolutamente bisogno di un parere
a
proposito di moda occidentale, dato che a serate di quel tipo ero
spesso
vestita con il kimono, e non ne avevo più nemmeno uno con me.
Ah
no, aspetta: c’era ancora
la scatola chiusa in camera mia, due settimane e ancora non mi ero
decisa ad
aprirla. E ancora non volevo.
-Ma
si: le telefonerò e le
chiederò se può venire. Anzi, lo faccio subito
che se no me lo dimentico.-
-Io
invece devo andare: ho gli
allenamenti.-
Ci
salutammo velocemente, e lo
vidi sfrecciare via sulla sua macchina, prima di chiudere la porta
dietro di me
e tornare, per la seconda volta quella mattina, ad usare il telefono;
chi chiamare
prima? Yayoi o i parenti? Meglio i parenti, la faccenda era
più seria.
>
Pronto? Qui ryokan
Akamine.
-Tomoko?
sono Maki.-
-Maki!!
Che bello sentirti!-
-Meno
male che hai risposto tu
Tomoko! non avrei sopportato un’altra sparata di Oba-sama.-
>
Sta tranquilla, la zia è
uscita per delle commissioni. Ma dimmi piuttosto, come stai? Tutto
bene?
Wakabayashi è gentile con te? E Monaco
com’è?
Quella
valanga di domande mi
fece sorridere, e per qualche momento ebbi voglia di risponderle a
tutto, ma la
il motivo della telefonata mi fece cambiare idea.
-Scusa
Tomoko, ma ho urgente
bisogno di parlare con la nonna o con i miei, puoi passarmeli?-
>
Purtroppo sono sola al
ryokan: la nonna e gli zii sono usciti per un incontro con gli altri
membri
della famiglia.
-E
la zia non è andata con
loro? Come mai?-
>
È stata una scelta della
nonna, è da qualche giorno che discutono.
La
zia era molto affezionata
alla nonna, sapere che stavano litigando mi incuriosì non
poco.
-Sai
del perché discutono?-
>
Riguarda Jin: data la tua
assenza, Oba-sama ha messo in discussione la sua presenza qui al ryokan.
Perché
la vera garante di Jin
sono io: era sotto la tutela della nonna solo su carta, ma
effettivamente ero
io che mi occupavo di lui. Possibile che la zia Moe stesse cercando di
cancellare
ogni traccia di me? D’accordo che io e lei avevamo la stella
malattia e io
avevo avuto il coraggio di affrontarla per quello in cui credevo, ma
non mi
aspettavo che mi odiasse tanto.
>
Ovviamente la nonna l’ha
rimproverata, e adesso temo seriamente che la zia stia rischiando il
suo posto
nella famiglia.
-Addirittura
la nonna è
arrivata a questo? Perché non sono stata avvertita?-
>
Perché è accaduto tutto
negl’ultimi giorni: adesso tua nonna è andata a
parlare al resto della famiglia
della situazione, ma mi preoccupo più per Oba-sama che per
Jin.
In
fondo la zia si era sempre
presa cura di Tomoko, era chiaro che l’affetto della giovane
la spingesse ad
essere preoccupata per lei; per quanto la vecchia donna cercasse sempre
di
mettere in discussione il mio comportamento, le mie decisioni e me
stessa,
l’affetto che la legava alla nipote era sincero. Anche per
questo la mia
irritazione e rabbia erano contenute nei suoi confronti.
-Sono
sicura che le cose si
sistemeranno, non ti devi preoccupare.-
>
Si, lo spero. Invece,
vuoi lasciare un messaggio per la nonna?
-Oh,
si: dille che ho trovato
un ginecologo qui a Monaco, e che è uno dei migliori, e che
mi farò sentire al
più presto.-
>
Va bene.
-Ti
prometto che alla prossima
telefonata risponderò a tutte le tue domande.-
>Ci
sentiamo presto
one-san.-
Accidenti,
quattro mesi
assente da Okinawa e farsi chiamare “sorellona” mi
fece venire un groppo in
gola.
-A
prestissimo, Tomoko-chan.-
Chiusi
la telefonata
preoccupata: l’ultima volta che la famiglia aveva subito uno
smottamento era
stato al mio fidanzamento con Kojiro. Anche allora Oba-sama si era
fatta
sentire, e anche allora me n’ero andata dal ryokan, abitando
per qualche tempo
con la famiglia Hyuga; ora mi ero trasferita perfino a Monaco, e questa
volta
sentivo maggiormente la rivoluzione in atto nella famiglia, anche se
ero a
chilometri di distanza.
Cosa
sarebbe successo adesso?
…
dovevo chiamare Yayoi:
adesso non solo per invitarla, ma anche per parlare con qualcuno della
situazione, dato che Genzo non era a casa, e non me la sentivo di dirlo
a
Isolde.
>Pronto?
Ah,
voce di uomo. Jun.
-Misugi?
Sono Akamine.-
>
Ah, Akamine. Vuoi parlare
con Yayoi?
Voce
atona, fare distaccato.
Hmm, non era un buon segno quella risposta.
-Si,
grazie.-
Non
sentii rumore per qualche
secondo, poi la voce di Yayoi mi arrivò flebile.
>
Pronto, Maki?
-Ehi,
Yayoi-chan, che
succede?-
>
Aspetta …
E
rimasi ancora in attesa,
sentendo dei rumori provenire dalla cornetta, evidentemente la ragazza
si stava
spostando in un’altra stanza.
>
Eccomi, sei ancora in
linea?
-Si,
certo. Che sta
succedendo?-
>
Ecco, ho seguito il tuo
consiglio, e ho parlato con Jun.
-Ah,
e com’è andata?-
>
Gli ho detto che se
continuava a trattarmi in quel modo avrei fatto le valigie e me ne
sarei
andata, e adesso i sembra di camminare sulle uova, sembra che ogni cosa
che
facciamo rischiamo d’irritare uno o l’altra.
Temo
a questo punto che la
situazione sia irrisolvibile: io non so cosa fare, Jun non sembra voler
cambiare qualcosa, e comincio anche ad avere dei dubbi sul fatto di
continuare
o meno a stare insieme.
Oh
mio Kami, il mondo si sta
ribaltando pericolosamente. Possibile che mi allontano dal Giappone e
scoppiano
tutti questi casini?! I Maya, con la loro fine del mondo, mi fanno un
baffo.
-Va
bene, io un’idea ce l’avrei:
Genzo ha una cena di beneficenza a cui è richiesta anche la
mia presenza, ma
non ho niente da mettere e non ho idea di cosa mettermi. Tu hai bisogno
di
staccare da Jun, assolutamente, e non voglio sentirti dire no;
perciò voglio
che entro massimo due giorni mi telefoni e mi dici a che ora arriva il
tuo
aereo, chiaro?-
E
dire che volevo parlarle di
quello che era successo con mia zia; invece dovevo preoccuparmi per
Yayoi. Però
la sua situazione era più complicata, io per lo meno mi ero
allontanata dalla mia
famiglia mentre lei conviveva con la fonte del suo stress.
-Va
bene. Ma solo una
settimana.-
-Per
me va bene, tanto se ne
diventano due puoi dare la colpa al jet-lag.-
La
feci ridere, con mio
sollievo, ma chiusi la telefonata preoccupata, rimanendo bloccata
davanti al
mobiletto del telefono.
-Maki?
Tutto a posto?-
Alzai
lo sguardo verso Isolde,
la donna stava scendendo le scale con in mano un cesto con il bucato da
lavare,
e velocemente mi avvicinai a lei per darle una mano, dato che il
canestro era
veramente grande; ci dirigemmo in cucina, andando in direzioni della
enorme
lavatrice, nascosta dietro una porta.
-Ho
trovato un medico per me,
ho appuntamento domani mattina.-
-Bene.-
-Ho
chiamato i miei parenti
per avvertirli, ma sembra che abbiamo dei problemi in famiglia, e temo
che la
causa sia io.-
-E
questo è meno bene.-
Aprii
la lavatrice e la aiutai
a mettere dentro la roba da lavare, continuandole a parlare.
-Genzo
mi ha detto che ci sarà
una serata di beneficenza tra una settimana a cui devo andare, ma non
ho il
vestito adatto, così Genzo mi ha suggerito di invitare una
mia amica a
trascorrere una po’ di tempo qui per farmi aiutare.-
-Va
bene, farò preparare la
camera.-
-Solo
che, quando ho
telefonato a questa mia amica, mi ha informata che lei e il suo ragazzo
hanno
seri problemi, e non sa cosa fare, e io l’ho invitata a
venire qui anche per
staccarsi.-
-Hai
fatto bene.-
Chiudemmo
la lavatrice, e
Isolde impostò il lavaggio mentre io la osservavo,
ripensando a tutto quello
che le avevo detto.
-Pensavo
che dopo il
chiarimento tra me e Genzo, e dopo aver trovato un dottore, le cose
sarebbero
andate meglio. Invece … era solo l’inizio di un
grande casino!-
Isolde
alzò lo sguardo verso
di me con aria intenerita, e io cercai nei suoi occhi un consiglio, un
aiuto o
anche solo un po’ di conforto per la mia preoccupazione.
-Non
so cosa fare, Isolde.-
La
donna sembrò pensare alla
mia affermazione, e io la seguii in silenzio per la cucina e su per le
scale,
dirigendomi con lei dentro la stanza di Genzo, in quel momento stava
cambiando
le lenzuola del grande letto.
-Io
credo che, per il momento,
hai fatto tutto quello che potevi: hai chiamato la tua famiglia,
chiesto di
loro, e ti sei prodigata per la tua amica.
Credo
che sia inutile pensare
a cos’altro fare, le cose devono venire spontaneamente in
certe situazioni,
altrimenti rischi solo di peggiorarle, ti pare?-
La
aiutai a cambiare le
lenzuola, e devo ammettere che quella era la prima volta che toccavo,
tastavo e
armeggiavo sul letto di Genzo, la mia parte irrazionale
l’aveva sempre
considerato una specie di tabù quel posto, come se io non
potessi
avvicinarmici; ma mentre compivo quel lavoro, mi rendevo conto che da
quel
mobile non potevano uscire fuori serpenti o fantasmi, e che prima o poi
sarebbe
successo … quello che doveva succedere.
Comunque,
ascoltai le parole
di Isolde, e sebbene anche la domestica affermasse che quelle erano
cose ovvie,
per me fu di conforto sentire qualcuno pronunciarle ad alta voce,
aiutandomi
così a liberarmi dalla preoccupazione eccessiva.
-Grazie,
Isolde.-
-Grazie
a te per avermi
aiutato a sistemare la camera del padroncino. Certe volte
quell’uomo è così
disordinato …-
Mi
venne da ridere, non vedevo
l’ora di usare quelle parole per prenderlo un po’
in giro.
E
il giorno dopo ci fu la
visita medica.
Lo
ammetto: ero tesissima, ma
non avevo voluto che Genzo mi accompagnasse, anche perché
lui doveva allenarsi,
e quella era una faccenda di cui mi ero sempre occupata da sola, anche
a Kojiro
avevo sempre detto che le visite preferivo farle da sola e senza
scorta, come
dicevo solitamente per scherzare.
Ma
anche quella volta, come
tutte le volte, ero nervosa: l’unico ginecologo che mi aveva
fatto sentire
leggermente più tranquilla era stata una donna, molto tempo
prima, quando avevo
fatto le mie prime visite, ma anche quando mi avevano dato i primi
risultati
sull’endometriosi. Non dico che i ginecologi uomini non siano
altrettanto
bravi, anzi.
Tuttavia,
quando il dottor
Himler mi aprì la porta, mi sentii ancora più a
disagio, e mi appellai a tutta
la mia forza per riuscire a sorridergli e stringerli la mano.
-Benvenuta
signora. Prego si
accomodi.-
La
stanza era calda, tanto da
farmi togliere il cappotto e la sciarpa, che fino a pochi secondi prima
avevo
tenuto addosso anche per l’ansia; mi fece accomodare sulla
sedia imbottita, e
io lo guardai sorpresa, notando che pareva giovane, molto giovane,
nonostante
il dottor Shnauzer aveva detto che erano stati compagni di
università.
-Allora,
mi dica tutto
l’ascolto.-
-Si.
ho cominciato a soffrire
di Endometriosi dai quattordici anni, e i primi esami avevano suggerito
l’asporto come soluzione migliore; tuttavia convinsi i miei
genitori a seguire
una cura medica, e pertanto ancora adesso devo prendere farmaci
specifici.-
-Quindi
sta proseguendo la
Terapia del dolore?-
-Si.-
Terapia
del dolore. FANS.
Significa utilizzare farmaci anti-infiammatori e analgesici; se non
fossi
sicura di essere malata, avrai paura di essere drogata in certi
momenti. Una
volta misi in fila tutti i medicinali che dovevo prendere, e ne rimani
così
sorpresa da mettermi a piangere; fortunatamente, allora c’era
Kojiro.
-Non
l’è stata suggerita
nessun altro tipo di terapia? Solo l’asportazione.-
-Si
signore.-
-Mi
pare strano. Ha con se le
sue cartelle cliniche?-
Fortunatamente,
tra le poche
cose che mi ero portata dietro, mia madre saggiamente mi aveva messo in
valigia
una copia delle mie analisi, e velocemente le porsi al medico,
guardandolo
intensamente mentre le controllava con aria seria. Passò
qualche minuto prima
che riprendesse a parlarmi.
-Signora
Akamine, lei conosce
o ha sentito parlare di laparoscopia o laparotomia?-
-…
ho fatto delle ricerche, e
so che sono degl’interventi chirurgici.-
-Esattamente
sono di tipo
diagnostico e, in caso di tipo interventistico: si praticano 3 - 4 fori
di
piccole dimensioni sull’addome dove vengono introdotti gli
strumenti, e si
esplora la cavità addominale ricercando eventuali cisti o
noduli. Nel caso in
cui fossero presenti lesioni ben visibili, si procede
all’eliminazione delle
stesse e al prelievo di materiale per la biopsia. La differenza
è che la
laparotomia è più invasiva.-
Devo
ammettere che l’idea di
farmi fare dei buchi in pancia non mi allettava per niente, anzi credo
di aver
fatto una faccia intimorita, perché il dottore subito mi
addolcì la pillola.
-Ovviamente
la paziente è
sotto anestesia, e si predilige la laparoscopia in quanto meno
aggressiva; ho
controllato le sue analisi, e ritengo che continuare la terapia del
dolore sia
solo un rischio per la sua salute, in quanto i medicinali possono dare
assuefazione o altro.-
Lo
sapevo perfettamente, per
questo cercavo di prenderli il meno possibile.
-Faremo
qualche visita, e le
darò anche qualche altra analisi da fare, ma se tutto va
bene potrebbe
tranquillamente compiere l’operazione. Lei cosa ne pensa?-
Cosa
ne pensavo? Ero
totalmente sorpresa: era la prima volta che sentivo parlare di
operazione
chirurgica senza metterci accanto la parola
“asportazione”. Possibile che ci
fosse una cura e non ne sapevo niente? Perché non mi era
stato detto niente?
-Scusi,
ma sono più di dieci
anni che ho questa malattia, perché solo adesso so di questi
interventi?-
-La
ricerca su questa malattia
si è sviluppata negl’ultimi anni, e probabilmente
in Giappone non tutti gli
specialisti sanno delle ultime novità mediche.-
Oh
cazzo … cazzo. Potevo
guarire. C’era una cura. C’era una
possibilità.
-Signora
Akamine, vuole un po’
d’acqua?-
-Come?
No, no la ringrazio,
sto bene.-
-Immagino
che per lei sia una
grossa sorpresa questa.-
-Altrochè.-
Ero
felice, ma mi veniva da
piangere: Kojiro, avevi sentito Kojiro? C’era la cura,
c’era la possibilità di
sistemare tutto, e forse anche in Italia esisteva qualcosa di simile.
Maledizione, se lo avessi saputo prima, solo un anno e mezzo prima.
-Vuole
continuare la visita,
se la sente?-
-Si,
si assolutamente.-
E
per la prima volta, complice
anche lo shock di quell’informazione, la visita
risultò veloce e senza troppo
imbarazzo da parte mia; anche quando uscii dall’ufficio,
notando malamente
quello che c’era nella sala d’attesa, continuava a
rimbombarmi in testa l’idea
di quell’operazione.
Volevo
dirlo a Genzo,
gridarglielo con tutto l’entusiasmo che avevo addosso; ma mi
trattenni per
tutto il mio turno di lavoro, ripensandoci quasi come un ossessa, al
punto da
rischiare di rompere qualche bicchiere.
Quando
quella sera tornai a
casa, notai subito che, per quanto fosse tardi, la luce di camera sua
era
ancora accesa. E lo vidi bere con quell’espressione turbata.
E
ancora una volta, decisi di
tenermi tutto per me. Prima o poi sarebbe capitata
l’occasione giusta.
**
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Capitolo 13 *** Kleid ***
XII:Kleid
(Vestito)
Chiesi
a Friedrick di
aspettare in macchina nel parcheggio, perché avevo voglia di
andare a prendere
Yayoi da sola: anzitutto volevo abbracciarla e stringerla fino a
strizzarla per
quanto mi era mancata. E poi mica sono chissà quale diva,
che ha bisogno della
guardia del corpo appresso! E questa frase me la ripetei spesso mentre
mi
aggiravo per l’aeroporto, oramai la mia conoscenza della
lingua era tale per
cui comprendevo le varie scritte.
E
pensare che, quando ero
atterrata a Monaco la prima volta, ero finita in un sgabuzzino dove gli
addetti
tenevano le scope! Questa cosa non l’ho mai raccontata a
Genzo per troppo
imbarazzo, me la porterò fin dentro la tomba, giuro!
Adesso,
invece, mi aggiravo
tranquillamente, tenendo alto il colletto del mio cappotto per
nascondermi il
più possibile a sguardi indiscreti, e per aiutarmi
ulteriormente avevo anche il
collo della mia maglia di lana alto e gonfio.
L’altoparlante
annunciò, con
un trillo, che l’aereo proveniente da Tokyo era atterrato, e
mi portai verso
gli arrivi, facendo anche un po’ la prepotente e
posizionandomi proprio davanti
all’uscita, davanti a tutti: odio aspettare dietro la folla e
non vedere la
persona perché un mare di teste mi copre la visuale, mi
è successo un po’ di
volta con Kojiro e l’ansia mi snervava, così ho
adottato la tattica del “sto
davanti io e tu non mi guardi male, perché io ti guardo
peggio!”.
Quando
riconobbi, tra volti
occidentali, anche i tratti della mia terra nei volti dei passeggeri,
ammetto
che mi salì un magone nello stomaco: mi venivano subito in
mente mia nonna e i
miei genitori, poi Jin e Tomoko, e ripensando a quanto mi aveva detto
la cugina
qualche giorno prima mi saliva un po’ d’ansia.
Si,
lo so, lo so che mia zia
non si era comportata bene e che questa era una giusta punizione;
tuttavia non
me la sentivo proprio di biasimarla, perché in fondo era
arrivata a quel punto
facendo, all’epoca, una scelta totalmente opposta a quella
che presi io: lei
pensò al bene e l’onore della famiglia, io
all’amore per Kojiro.
I
miei pensieri a tal
proposito furono presto messi da parte, perché riconobbi
quella capigliatura
rossiccia e quei modi di fare silenziosi e quieti, aveva un trolley
bello
grande e una borsetta sottobraccio.
-YAYOI!-
Agitai
un braccio per attirare
la sua attenzione, e lei subito mi rivolse lo sguardo, sorridendomi con
entusiasmo e raggiungendomi a passo svelto.
AAAAHH!!
YAYOI!!!! Me l’abbracciai
e me la strinsi con tutte le mie forze, al punto tale che lei, ridendo,
mi
chiese di lasciarla perché le facevo male; ma oramai mi
aveva persa, ero
entrata nella modalità “Maki - coccole e
dispetti”: per prima cosa la sollevai
in braccio, non si direbbe ma quella ragazza è una piuma,
non pesa niente. E poi
le spettinai i capelli, proprio come Genzo fa sempre con me.
-Aaah
Maki! Smettila!-
-Allora
allora allora?! Che mi
racconti? Com’è il tempo in Japan?-
-Fa
piuttosto freddo e spesso
tira vento. I meteorologi dicono che, quest’anno, potrebbe
arrivare a nevicare
un po’ su tutta l’isola.-
-Addirittura?!
Beh allora non
posso certo lamentarti per il freddo qui a Monaco, anche se non lo
sopporto.-
-Ti
vedo bella imbacuccata.-
-Lo
sai che odio il
fredddooo.-
E
feci una voce lamentosa,
provocando il sorriso da parte di Yayoi; assieme al programma di
“posti da
visitare”, avevo aggiunto a mente una postilla,
“fai divertire Yayoi, e lascia
che sia lei a parlare per prima dei suoi problemi”.
Inoltre
mi sentivo a mio agio
in aeroporto perché nessuno mi guardava, solo pochissimi:
ero in un luogo
internazionale, e grazie al cielo storie come la mia relazione con
Genzo non
servivano certamente a far decollare meglio l’aereo o a far
arrivare tutti i
bagagli a destinazione!
-E
il lavoro, invece?-
-Adesso
mi sto interessando ad
un centro di salute mentale che si trova fuori città, ma
continuo ancora a
lavorare nella clinica privata, sebbene comincio a stufarmi.-
-Come
mai?-
-Troppa
competizione: gl’infermieri
vogliono tutti essere i più bravi e riuscire a salire di
livello in men che non
si dica, e questo significa che cercano di accaparrarsi più
pazienti possibili.
Ma ovviamente non sanno gestirseli tutti, e alla fine si creano dei
problemi
anche seri, e personalmente sono stanca di risolvere i problemi
degl’altri.-
Le
posai affettuosamente un
braccio attorno alle spalle, le avevo preso il trolley e lo stavo
trasportando
con la mano libera; lei, a quel contatto, mi poggiò per
qualche momento la
testa sulla spalla.
-Sai,
ho pensato parecchio
nell’ultimo periodo, e mi sono resa conto che ho sempre dato
priorità ai
problemi degl’altri più che a me stessa, primo fra
tutti Jun.
Mi
domando se questo mio modo
di fare non mi abbia bloccata troppo.-
-Non
dire sciocchezze! Sei una
delle persone più mature e pazienti che conosca! E sai anche
farti valere.-
-Però
mi rendo conto che sono
molto insicura quando si tratta di me stessa: divento timida e ci metto
molto prima
di prendere una decisione; inoltre mi sono resa conto, quando ti ho
fatto
quella telefonata per l’articolo, che provo invidia per gli
altri.-
-Beh,
credo che sia una cosa
comune…-
-Però
non ne avevo mai provata
prima, o magari non me n’ero mai resa conto: pensavo, anzi,
di essere fortunata
ad avere Jun con me, e adesso invece provo invidia per te e Genzo. Mi
domando
in quante altre cose mi sono ingannata.-
-Adesso
basta, ti stai solo
facendo del male così: sei una persona in gamba, ma in
questo momento hai perso
la tua solita stabilità per via di incomprensioni e paure.
Sono sicura che,
alla fine di questa vacanza, avrai le idee chiare su cosa vuoi e cosa
farai.-
Me
la strinsi più vicina
mentre uscivamo al freddo, dirigendoci verso il parcheggio dove ci
aspettava
Friedrick. Per un paio di minuti rimanemmo in silenzio, poi Yayoi mi
rivolse
nuovamente la parola.
-Sono
felice di vederti Maki. L’ultima
volta che ci siamo viste ti stavi trasferendo al ryokan…-
-Già,
è vero! tu venivi sempre
dopo il lavoro a dare una mano e cucinare per noi con la signora Hyuga.-
-Allora
ti stavi aggrappando
alla vita per poter andare avanti, e credevo che ci sarebbe voluto
molto tempo
prima di vederti sorridere e sentire parlare così come stai
facendo ora.-
Non
ho veri ricordi di quei
giorni: dopo il funerale l’unica cosa che ricordo
è che, un giorno, presi tutti
gli scatoloni vuoti che avevo nell’appartamento e cominciai a
svuotare tutto,
buttando quello che non volevo tenere dentro grossi sacchi della
spazzatura,
incaricando a turno Ken e Takeshi di andarli a buttare. Più
i giorni passavano
e più mi tornano in mente i ricordi, ma è ancora
tutto confuso, e temo lo sarà
per molto tempo.-
-Io
non ho dimenticato Kojiro,
Yayoi.-
-Nessuno
di noi lo pensa. Anzi,
noi siamo convinti che in fondo è stato proprio Kojiro
stesso a spingerti verso
questa strada.-
-Già,
e conoscendolo ha
mandato la persona che credeva più capace di sopportare il
mio carattere
belligerante, ma decisamente la meno adatta a fare da cavaliere
sull’armatura
splendente; anzi, Genzo è un orso, e niente potrebbe farmi
cambiare idea.-
-Però,
proprio perché è così,
forse era davvero l’unico a poterti aiutare. Non lo credi
anche tu? In fondo
Wakashimazu e Sawada ti sono sempre stati accanto, ma solo Genzo ti ha
spinta a
lasciare il ryokan.-
Sorrisi,
ripensando al suo soggiorno
al ryokan, a tutti i momenti passati
con
lui e a quelli in cui riflettevo su quello che stava accadendo, a
metà fra l’emozionata
e la terrorizzata: la mia paura più grandi, infatti, era ed
è quello che un
giorno mi sveglierò e non ricorderò
più nemmeno il volto di mio marito Kojiro. Una
cosa del genere è naturale, lo so, ma per me sarebbe come
non essere stata
completamente vera con Kojiro: io l’ho amato davvero, e non
voglio che il tempo
me lo porti via.
Però…
-Genzo
… non ha mai provato a
consolarmi, nemmeno una volta. Semplicemente cercava di evitare
l’argomento,
oppure cercava di farmi trovare gli aspetti positivi; quando parlavamo,
parlavamo sempre di me e di lui, e non di quello che era accaduto.
Quando
gli ho parlato della
mia malattia lui l’ha accettata, quando gli ho parlato della
morte di Kojiro mi
ha ascoltato. Non aveva parole di conforto, e io sentivo che non ne
volevo più.
Poi
abbiamo discusso,
litigato, riso, ci siamo presi in giro e ci siamo sempre guardati
dritti negl’occhi;
e quando mi disse che mi amava mi aveva guardata fin dentro
l’anima, ed era
stato semplicemente se stesso, niente fronzoli sul mio lutto o sul suo
atteggiamento, nessuna promessa tipo “Sarai per sempre felice
con me” oppure “Sarò
l’uomo migliore del mondo”.
Semplicemente
…-
Rimasi
qualche momento in
silenzio, ripensando alle sue parole quel giorno, sulla spiaggia,
mentre Yayoi
rimaneva ferma al mio fianco, aspettando che terminassi la frase.
Allora presi
un profondo respiro.
-Semplicemente
mi promise che,
qualunque cosa sarebbe accaduta, mi sarebbe rimasto accanto, e che mi
avrebbe
fatto conoscere tutto di lui. E sta mantenendo la parola.
Ma
ora finiamo di parlare di
me, è imbarazzante.-
La
mia amica sorrise, ed a quel
punto ripresi a camminare, e velocemente presentai Yayoi a Friedrick,
che
caricò la valigia mentre noi salivamo in macchina.
-Invece,
non vedo l’ora di
portarti un po’ in giro! Ovviamente prima ti riposi a casa, e
quando ti senti
pronta cominciamo a fare follie!-
-Tanto
ho dormito in aereo, mi
basta solo sistemare le mie cose e poi sono a tua completa
disposizione.-
-Ehi,
guarda che l’ospite sei
tu, sono io che devo farti da valletta. E sappi che ti
tratterò come una
regina; dopotutto ho lavorato in uno dei ryokan più rinomati
del Giappone.
Inoltre
questa vacanza serve a
te, e dunque sei tu che devi scegliere.-
-Beh,
intanto mi piacerebbe
che Friedrick alzasse la radio un attimo, ho appena riconosciuto i
Queen.-
E
io chiesi all’autista di
alzare il volume. “Don’t Stop Me Now”
cominciò a prendere ritmo, e Yayoi
cominciò a
canticchiarla, con me che le facevo il coretto.
Il ritmo ci prese, e dentro la comoda
macchina cominciammo ad agitarci come forsennate, con Friedrick che,
davanti,
ci guardava dallo specchietto retrovisore, all’inizio
perplesso ma lasciandosi
coinvolgere anche lui dai Queen, come testimoniarono le sue dita sul
volante, che
andavano a ritmo.
Isolde ci aspettò
sull’entrata di casa, e
io la salutai mentre ridevo con Yayoi, ci stavamo ricordando delle
prime volte
che ci conoscevamo, e di alcuni momenti assolutamente spassosi, come
quando
Sanae volle fare uno scherzo a Kumiko, colorandole i capelli di verde.
-Ma si! Che poi lei si è
svegliata, e mi
sono ritrovata a doverle separare!-
-Io ricordo che dopo aiutai Kumiko a
togliersi la tintura, e addirittura fui costretta a tagliarle i
capelli.-
-Che volle vendicarsi, ricordi?-
-Si!! Oddio usò il Kimchi
nel caffè e nel
vestito di Sanae! Ho creduto che stesse per svenire.-
-E imperterrita inseguiva Kumiko per
tutto
l’albergo.-
-Ricordo che fu Tsubasa a bloccarla,
se no
l’ammazzava sul serio. Che scene!-
-Isolde! Ti presento Yayoi Aoba, la
mia
più cara amica.-
-Molto piacere.-
-Il piacere è tutto mio.
Volete mangiare
qualcosa?-
-Non so, tu hai mangiato in aereo?-
-Si, ma avrei voglia di un the.-
-Allora ve lo preparo, intanto
mostragli
pure la sua stanza Maki.-
-Grazie Isolde.-
La domestica ci sorrise affettuosa,
lasciandoci
mentre io trascinavo Yayoi, con tutto il mio entusiasmo, su per le
scale, mi
sembrava di tornare ragazzina, quando le mie amiche delle superiori
venivano a
trovarmi a casa.
La sua camera era subito dopo la mia,
e
quando mi voltai verso di lei la vidi davanti all’ingresso di
camera mia, e io
sapevo cosa stava fissando con sorpresa.
-E quella?-
Tornai sui miei passi lentamente,
guardando la scatola, ancora chiusa, al centro della stanza.
-Ma l’ha mandata nonna un
mese fa. Non l’ho
ancora aperta.-
-E se ci fosse qualcosa da mangiare?-
-No, tranquilla, mia nonna non mi
spedisce
cose da mangiare, e in caso si sentirebbe il cattivo odore, no? Dai
vieni.-
La portai via quasi con prepotenza,
mostrandole invece la sua stanza; lei ebbe più o meno la mia
stessa reazione
quando vidi camera mia la prima volta: occhi spalancati, bocca schiusa,
espressione da pesce all’amo.
-Cavolo.-
-Vero?-
-Non mi aspettavo che Genzo vivesse in
un
posto così, io sapevo che aveva un appartamento ad Amburgo.-
-Infatti, ma l’ha venduto ed
è tornato qui
alla casa di famiglia.-
-Che bella! Sembra uscita da un libro
di
Jane Austen!-
-Tu invece? Stai ancora in
quell’appartamento?-
-Si, ma credo che a breve
tornerò nella
casa dei miei.-
Allora faceva sul serio: voleva
proprio
lasciare Jun. Mi sembrò una sciocchezza questa sua
decisione, non credo che
andandosene avrebbe risolto la sua situazione.
-Tu ami ancora Jun?-
Lei mi mostrò il volto, ma
i suoi occhi
non mi guardarono, trovarono il tappeto a terra molto più
interessante.
-Non lo so. Me lo sono chiesta
anch’io, ma
non so rispondermi.-
Brutto segno, Yayoi non era una tipa
confusa, anzi aveva sempre avuto la testa abbastanza lucida su queste
cose, e
sentirla così incerta mi fece capire ulteriormente quanto
era delicata la sua
situazione al momento; dovevo cambiare
discorso alla svelta.
-Forza, andiamoci a prendere questo
the,
così assaggi i dolci tedeschi!-
-Si … si, non ne vedo
l’ora.-
E per l’ora successiva
rimanemmo in cucina
a chiacchierare del più e del meno su tutto quello che ci
passò per la testa,
evitando però di parlare di Genzo, avevo come la sensazione
che se avessi
accennato all’uomo Yayoi avrebbe subito pensato a Jun, e non
mi sembrava il
caso.
-Invece, tu sai usare il computer,
giusto?-
-Si, cavernicola, cosa ti serve?-
-Non mi prendere in giro, devo
controllare
un indirizzo.-
E ci spostammo in salotto, sebbene
Yayoi
avesse cercato di mangiarsi l’ultima fetta di crostata con la
marmellata.
-È buonissima!-
-Vero? Dai, tecnologica, datti da
fare.-
-Afpetta, h le dta unte.-
-Ingoia il boccone Yayoi.-
E ci venne da ridere, sebbene la
ragazza
si trattenesse tenendo entrambe le mani davanti alla bocca; appena ci
calmammo,
Yayoi si sedette davanti l’apparecchio, toccandolo
inizialmente con un po’ di
timore, per poi arrivare a digitare sulla tastiera senza troppi
problemi.
-Allora, che devo fare?-
-Controlla questo indirizzo.-
E le passai il biglietto dove Derik
aveva
segnato il sito internet della squadra di softball; Yayoi lo
digitò, e quasi
subito ci apparve la grande fotografia della squadra amatoriale, dieci
ragazze
sorridenti con le loro magliette e le varie attrezzature, con sotto il
nome
della loro squadra, Gof, “Girls Of Monaco”.
Yayoi disse qualcosa, ma
già vedere quelle
uniformi e le mazze mi aveva irrigidito, qualcosa dentro di me si stava
agitando come il bacino di un vulcano, e se non avessi stretto la mano
sullo
schienale della sedia forse mi sarei agitata; la foto scomparve, ma ne
apparvero tante altre, assieme a scritte e risultati. Non erano molto
forti, ma
giocavano con assiduità, e anche se era un gruppo amatoriale
partecipava più
che volentieri a tornei e partite amichevoli. Il minimo di giocata era
una volta
al mese.
Mi sembrò quasi di sentirla
la terra sotto
gli scarpini, la palla in mano e il guantone di pelle che mi proteggeva
l’altra,
l’odore inconfondibile del cuoio e, davanti a me, il mio
avversario e il ricevitore
che mi faceva i segnali, la nostra squadra si era fatta un codice tutto
suo, e
al posto dei numeri c’erano gesti, parole e altro ancora per
cui nessuno poteva
comprenderci.
Poi alla nazionale ricordo le divise
bianchissime con il numero dietro la schiena e il capellino con sopra
il
cerchio rosso della bandiera. Avevo il mio portafortuna appeso al
collo, il
pupazzetto di Kojiro con la maglia della nazionale giapponese, e ogni
volta
prima di tirare lo stringevo forte, concentrandomi.
Non … non ricordo
più … dove l’avevo
messo. Non credo di averlo smarrito, forse è rimasto al
ryokan.
Quei pensieri mi riportarono alla
realtà.
-… sembra interessante, ci
andiamo domani?
Maki?-
-Cosa? Scusa, dicevi?-
-Guarda, domani hanno una partita, e
sembra essere interessante, che ne dici se domani andiamo a vederle?-
-Si, si perché no?-
-A cosa stavi pensando? Ti ho vista
nel
tuo mondo.-
-È che mi sono ricordata
del portafortuna
che avevo fatto per me e Kojiro, ricordi quel pupazzetto di stoffa?-
-Ah, si.-
-Non ricordo più dove
l’ho lasciato. Uno,
però, sono certa di averlo lasciato a Kojiro. Era
… era appeso accanto alla
fotografia durante il funerale.-
Ah, ora ricordavo: era
l’unica macchia di
colore tra i fiori e la fotografia in bianco e nero. Ricordare
quell’immagine
ebbe un impatto tale che dovetti sedermi mentre Yayoi si alzava in
piedi,
avvicinandosi e accarezzandomi la testa.
-Hai bisogno di un po’
d’acqua?-
-No, no sto bene. Sai … era
da un po’ che
non ricordavo il funerale.-
-È un bene questo, capisci
cosa intendo?-
-Si, però … sai,
io non ricordo chi venne
al matrimonio; voglio dire, so che c’erano amici e la
squadra, e so ce c’eri
anche tu, però non ricordo chi mi ha detto cosa, non mi
ricordo nemmeno cosa mi
hai detto tu, se mi hai abbracciato o no. È tutto
… tutto così confuso.-
E Yayoi mi abbracciò,
stringendomi forte. Ah,
ora ricordavo … e con il ricordo mi uscì anche
qualche lacrima.
-Già … mi hai
abbracciato, proprio come
adesso.-
-Maki …-
-Lui non tornerà. Non
c’è più.-
E quelle parole mi riportarono
indietro
tutto: mi riportarono tutta la mia vita con Kojiro, dal primo incontro
al
matrimonio, ai nostri sogni e speranze, le nostre chiacchiere e i
nostri
sorrisi. Tutto il mio passato. Merda.
Mi ero ripromessa che non
l’avrei più
fatto, che non avrei scavato nuovamente in quelle sensazioni che mi
provocavano
il pianto, ma oramai avevo aperto di nuovo gli argini, e mi sentii nuda
e … e
violentata, è brutta questa parola, ma non saprei come
descrivere quella
sensazione che provavo dentro il mio corpo, come se qualcuno mi avesse
strappato via, ad uno ad uno, tutti gli organi del mio corpo,
lasciandomi solo
muscoli e scheletro.
-Sono stata dal medico, l’ho
trovato … e
mi ha detto … che c’è una cura
… che posso guarire, esiste …
un’operazione … e
già da qualche anno esiste … capisci,
c’era ma … ma io non lo sapevo … non lo
sapevo.-
Yayoi mi strinse più forte,
e io piansi
più forte. Non credevo che avrei di nuovo pianto per questa
cosa: dopo tutto
quello che era successo tra me e Genzo credevo, forse speravo che
quella l’avessi
oramai superata. Invece eccola di nuovo a fare capolino: la voglia di
riavere
Kojiro, di costruire con lui la famiglia che desideravamo, di portare a
compimento tutti i nostri progetti.
Ma non ci sarebbe stata più
occasione. Non
con Kojiro.
Ora c’era Genzo, Genzo
maledizione: Genzo
mi amava, voleva stare con me e aveva fiducia in me. Non potevo tornare
indietro.
-Andiamo … andiamo a
cercare il vestito.-
-Va bene.-
E Yayoi mi lasciò andare,
permettendomi di
allontanarmi. Praticamente scappai in bagno, e mi guardai allo
specchio: gli
occhi arrossati, e una lacrima ancora sulla guancia. Mi guardai dritta
nelle pupille,
e mi accigliai.
-Cretina.-
Mi sciacquai il viso, e quando tornai
da
Yayoi lei si era già messa il cappotto e mi aspettava
sorridendo, contagiandomi
mentre io m’infilavo il mio cappotto, avvertendo Isolde che
uscivamo
nuovamente.
E l’aria di Monaco, con il
suo rumore, mi
aiutò a superare il momento, assieme alle chiacchiere con
Yayoi; pian piano, le
vetrine dei negozi divennero sempre più interessanti, e le
sue domande sulla
serata di beneficenza mi fecero dimenticare il mio sfogo.
-Io non credo di essere adatta ad un
abito
lungo.-
-Preferiresti qualcosa come un tubino?-
-Mi sembra un po’ da
ragazzina.-
-Restare solo a guardare le vetrine
però
non serve: entriamo dentro e vediamo cosa troviamo.-
-Va bene.-
Mi resi conto che ero restia ad
entrare:
avevo i soldi, questo si, però non me la sentivo di provare
un abito
occidentale elegante, era come se fosse una cosa assolutamente aliena a
me.
Yayoi, al contrario, sembrava a suo
agio:
girava tra i vari porta abiti con molta tranquillità,
valutandoli tutti con
occhio esperto, prima di tirarne fuori due o tre.
-Che te ne pare?-
-Belli …-
-Dai Maki, se non li provi non saprai
mai
come ti stanno.-
-Lo so, però …-
-Non farmi la timida, dai provati
questo
intanto.-
E mi spinse a forza dentro il
camerino,
chiudendomi la tendina mentre io valutavo l’abito che mi
aveva passato: era
nero, con il collo alto e la gonna lunga, molto aderente. Forse troppo
per i
miei gusti; tolsi a fatica i miei vestiti, sentendo subito freddo, e me
lo
infilai, scoprendo che era veramente aderente, sottolineando il seno e
i
fianchi. Oh dio mio, ma che ho addosso?
-Allora? Hai fatto.-
-Si, eccomi, eccomi.-
Uscii fuori con lo sguardo basso, dio
mio
che imbarazzo. Yayoi mi venne incontro, e mi scrutò da ogni
angolo possibile,
con aria pensosa.
-Non è male, ma non credo
sia lo stile
giusto per te. Tu come lo senti?-
-Mi sembra di essere nuda,
è veramente
aderente. E poi la gonna è troppo lunga, non mi piace.-
-Però questa è
la lunghezza giusta. Forse ti
ci vuole qualcosa di più leggero. Provati il secondo, io
intanto vedo cosa
trovo.-
Secondo abito: senza spalline, cosa
che mi
metteva panico, avevo la tremenda sensazione che sarebbe scivolato
giù e mi avrebbe
lasciato a seno scoperto. No!! Non voglio questo.
-Ti prego dimmi che non va bene.-
-Si vede lontano un chilometro che sei
a
disagio. Tranquilla, non piace neanche a me. Invece del terzo che ti ho
dato
provati questo.-
Terzo abito, cambiato: rosso, e il
colore
non mi dispiaceva. Invece di due aveva una sola spallina a destra, e la
stoffa
sul fianco sinistro faceva una piega diagonale, per poi scendere
giù nella
gonna, che aveva uno spacco al centro che saliva fino al ginocchio. Vi
dirò,
non mi dispiaceva per niente.
-Bello! Bello, mi piace proprio! Tu
come
te lo senti?-
-Dei tre è quello che mi
piace di più. Però
mi sento un po’ bassa.-
-Un paio di tacchi e starai benissimo.
Secondo
me è quello giusto.-
-A me piace.-
-Allora prendiamolo!-
Con Yayoi era semplice fare acquisti.
-Sanae, al contrario ci metteva delle
ore
per trovare l’abito giusto, non sai quanto tempo perso dentro
i camerini.-
-Non ce la facevo, mi sembrava una
tipa
così alla mano.-
-Credo che da quando si sia sposata, e
soprattutto
da quando lavora nel settore giornalistico, abbia cercato di trovare
l’immagine
adatta a lei. E a me non mi dispiace affatto.-
-Invece, tu l’abito
c’è l’hai?-
-Si si non ti preoccupare per me.
Pensiamo
invece alle tua scarpe.-
Tacco medio. Rosse. Con laccetto.
-E le puoi usare anche con i jeans.-
-Che carine! Non mi va più
di toglierle.-
E ridemmo spensierate, girando ancora
un
po’ per Monaco e prendendoci un aperitivo al bar dove
lavoravo.
-Ciao capo!-
-Ma guarda chi
c’è, la Kleine
Japanische! E la tua amica?-
-Lei è Yayoi.-
Era
divertente, parlavo tedesco e giapponese senza sosta, per tradurre e
parlare e
per rispondere e chiedere; fortunatamente, Yayoi era amichevole sempre,
e ben
presto non ci fu quasi bisogno di tradurre ogni parola.
-È una persona
interessante.-
-Già, ma
quando è di bon umore tende ad essere molto pungente, a me
prende spesso in
giro per le mie origini.-
-Beh, si dice
che il bambino tira le trecce solo alla bambina che gli piace.-
Tornammo a
casa che era oramai ora di cena, e ad accoglierci Genzo.
-Bentornate! Benvenuta
Aoba.-
-Grazie dell’invito.-
-Che avete
preso?-
-Non si guarda!!
Lo vedrai alla cena.-
-Va bene,
allora vi aspetto in cucina per cenare.-
-Ok!-
Tuttavia scesi
solo io a cena; Aoba avvertì il jet lag farsi avanti, e
preferì andare a
dormire mentre io stavo morendo di fame.
-Come sta?-
-È un po’
frastornata da quello che le è successo, ma se la
caverà alla grande. Te com’è
andata oggi?-
-Bene, Beckenbauer
è molto contento che tu abbia accettato l’invito,
e Aoba è più che benvenuta.-
-Sono
contenta. Ah, senti: domani io e Yayoi andiamo a vedere la squadra di
softball
che ti ho accennato, forse staremo fuori tutto il giorno.-
-Per me non ci
sono problemi. Hai poi contattato i tuoi per dirgli del medico?-
Il medico. La cura,
la guarigione. Guardai Genzo per qualche momento, ma mi sentii mancare
il
coraggio per dirglielo, come se dirglielo avesse comportato a qualcosa
d’importante;
in effetti, avevo sempre voluto guarire per avere una famiglia, ma una
cosa del
genere ero sicura che avrebbe irrigidito Genzo, e con un rapporto come
il nostro
che si stava costruendo lentamente, quella novità doveva
attendere.
-Ho telefonato
ma loro non c’erano: Tomoko mi ha avvertito che ci sono delle
divergenze, e che
pertanto la nonna e i miei genitori erano con il resto della famiglia.-
-Fammi
indovinare: la zia calva ha combinato qualcos’altro, vero?-
-Siccome non
sono più al ryokan, sostiene che Jin non possa continuare a
rimanere alla
locanda, in quanto lui è sotto la mia tutela e
responsabilità, anche se su
carta è scritto che la tutrice è la nonna.-
-Non perde
occasione per rendersi odiosa quella donna.-
-Si, è vero.-
Ma io non
riuscivo a puntarle contro il dito.
-Maki, non mi
piace quella faccia, non mi va che tu prenda le difese di tua zia.-
-Non sto
prendendo le sue difese, davvero. È solo … che mi
fa tristezza questa sua ansia
di voler eliminare tutto quello che le ricorda di me: sai …
lei soffre di
Endometriosi come me ma … al contrario, ha rinunciato a
sposarsi per salvare l’onore
della famiglia Akanime. Io, per lei, forse sono quello che ha
rinunciato con la
sua scelta, progetti e speranze...-
-Colpa sua,
avrebbe dovuto pensarci allora, invece di prendersela con te solo
perché tu sei
stata più coraggiosa. No Maki, questa volta non ti permetto
di provare
compassione per lei, non se la merita.-
Sapevo che i
due avevano discusso a proposito di me, e spesso mi ero chiesta cosa si
erano
detti, sebbene nessuno dei due non mi abbia mai rivelato nulla.
Genzo. Ripensai
ai discorsi fatti con Yayoi, e mi sentii tremendamente fortunata ad
essere lì
in quel momento, con lui davanti che
mi
sgridava e sottolineava ogni difetto di mia zia, calcandoli in maniera
esagerata.
Avevo una
famiglia, desideravo una famiglia con Kojiro … e Genzo mi
aveva offerto la sua
famiglia, sebbene fosse composta solo da lui, Isolde e Friedrick. Ma
per me era
la più calda e accogliente del mondo.
Avevo avuto
dei progetti, io e Kojiro avevamo sognato … e qui con Genzo
avevo avuto la
possibilità di cominciare qualcosa di nuovo. Non era proprio
quello che volevo,
ma per nulla al mondo sarei voluta tornare al mio lavoro di cameriera
al
ryokan.
Amavo la mia
famiglia, amavo ancora Kojiro … e ora stavo imparando ad
amare sempre di più
Genzo.
Mi alzai in
piedi, portandomi verso di lui, e lo abbracciai di spalle, stringendolo
forte. No,
questa volta non mi sarei lasciata sfuggire quella
possibilità, sarei stata
attenta e prudente, e non mi sarei lasciata scappare Genzo. Questo,
intanto, al
mio gesto si era giustamente irrigidito dalla sorpresa.
-Che … che c’è?
Maki?-
-Voglio
tenerti con me … voglio stare con te … non
permetterò a niente e nessuno di
portarti via da me.-
-… io non
voglio nessun’altra che te Maki. Nessun’altra.-
E pose una sua
mano sul mio braccio, facendomi lentamente sciogliere la presa e
alzandosi in
piedi dal tavolo, guardandomi dritto negl’occhi. Sentii una
scarica di brividi
scendere fin dentro il bacino, dove prese fuoco come un fiammifero
nella
benzina; con le mani cercai di nuovo il suo corpo, e gli strinsi le
braccia,
arrivando alla sua schiena e stringendomi a lui il più
possibile mentre mi
accarezzava il volto senza mai distogliere lo sguardo.
Mi baciò con
intensità, stringendomi a se. E io volevo sentirlo sempre di
più, toccare ogni
centimetro della sua pelle; le mie mani si spostarono al suo volto, e
accarezzai le sue guance, sfiorando i capelli mentre le sue mani
scivolavano
sulla mia vita, stringendomi a se. Le bocche si aprirono lentamente, e
il
nostro contatto si approfondì ulteriormente.
Sentii che lui
mi stava spostando, e non mi resi conto dello spazio fin quando non
sentii il
muro della cucina sulla schiena, le sue mani stavano scivolando verso i
miei
fianchi per poi salire, arrivando allo stomaco e al seno. Ah, mi stava
accarezzando, era la prima volta che mi accarezzava così; ed
era bello,
tremendamente bello. Anch’io, anch’io volevo
toccare il suo corpo così.
Dal volto, le
mie mani scesero al suo collo, raggiungendo il petto e scivolando fino
alla
vita, per poi andare dietro la schiena e toccargli le scapole.
Lentamente lasciò
andare la mia bocca, e lo sentii baciarmi dietro l’orecchio
per poi scendere
giù, fino al collo mentre le sue mani lasciavano andare il
seno e raggiungevano
il fondoschiena, il suo petto si appoggiò a me e io sentii
il tremendo calore
della sua pelle e il freddo del muro, provando un leggero brivido; lui
lo
avvertì, perché si fermò, guardandomi
negl’occhi.
Mi sentivo
così viva, mi sembrava di sentire il sangue che scorreva
dentro ogni mia
cellula, e sentirlo fermarsi mi diede la sensazione che sarei diventata
di
pietra, fredda e dura; così gli accarezzai di nuovo il
volto, le guance e il
collo, e lo baciai io, con tutta l’intensità che
stavo provando in quel
momento.
Lui rispose
timidamente, e allora lentamente mi staccai, e lo abbracciai con forza,
stringendolo.
-Ho freddo
Genzo. Stringimi forte.-
Fammi sentire
sempre così viva: Io sono viva tra le tue braccia, nel tuo
sguardo, dentro ogni
tuo bacio.
**
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Capitolo 14 *** Softball Handschuh ***
XIII: Softball Handschuh
(Guantone
da softball)
Stavo
sognando, perché il mare ai miei piedi era scintillante era
troppo scintillante
nonostante le nuvole grigie di quel giorno d’inverno. Si, fu
d’inverno che
Kojiro mi chiese di sposarlo: era appena arrivato dopo aver avuto un
breve
periodo di permesso per visitare la sua famiglia, e gli ultimi due
giorni li
avrebbe trascorsi con me al ryokan.
Quel giorno
avevamo deciso di farci una passeggiata e di stare lontani dal mio
parentado,
anche perché era da almeno tre-quattro mesi che non ci
vedevamo e io avevo
tante cose da dirgli, da raccontargli e soprattutto da chiedergli;
nonostante
facesse freddo, e nonostante gli avessi fregato come al solito la sua
felpa,
Kojiro sembrava più sereno del solito.
Anche per
quello mi resi conto che era un sogno: quel giorno, mentre
passeggiavamo, era
nervosissimo, mentre il Kojiro del mio sogno era molto più
aperto e allegro, e
io mi sentivo ancora più felice nel rivederlo, tanto che non
esitai ad
abbracciarlo, e lui mi fece girare mentre i nostri piedi nudi venivano
bagnati
dall’acqua fredda di mare.
Continuammo
poi a camminare, e mi portò verso lo scoglio attaccato alla
parete rocciosa, lì
dove ora c’era la sua tomba; proprio come allora mi
obbligò a sedermi sullo
scoglio, dando poi la schiena per l’imbarazzo.
-Ko, ma che
hai?-
-Aspetta! Sto
cercando le parole …-
-Le parole per
cosa?-
-Aspetta ti
dico!-
Mi sarei
arrabbiata se non fosse stato che non lo vedevo da troppo tempo, per
tanto mi
ammutolii indispettita, osservando poi incuriosita come lui si stesse
barcamenando per trovare le parole, fino a quando non parlò
ad alta voce con se
stesso, prendendo un profondo respiro.
-Ah basta! Te
lo dico e basta!-
Si voltò verso
di me.
-Maki,
sposami.-
Ed io … rimasi
senza parole. Lui, al mio mutismo, abbassò lo sguardo
imbarazzato. Era proprio
come quel giorno, come allora.
-Si, te l’ho
detto male, sono sicuro che avresti preferito altre parole, ma lo sai
come sono
fatto, non mi piacciono queste cose per cui.-
-Si.-
-Eh?-
Mi veniva da
piangere, mi stava davvero chiedendo quello che avevo tanto sperato per
il
futuro con lui; sapevamo che sarebbe stato un passo ovvio nella nostra
relazione, ma sentirselo dire fu comunque una sorpresa incredibile, e
riuscii
solo a pronunciare quella parola.
-Si, si, si!!-
Lui però mi
capì lo stesso, e fu sorpreso quanto me, tanto che io
riuscì solo a scendere
dallo scoglio e abbracciarlo, e lui riuscì solo a stringermi
forte tra le sue
braccia, tanto da farmi male.
Si, si, si.
Quel giorno era stato forse uno dei più felici della mia
vita.
Ma quando
riaprii gli occhi, Kojiro non era più con me; anche questo
mi fece capire che
era solo un sogno. davanti a me, invece del mare che circondava il mio
ryokan,
c’era una piramide di fiori bianchi su uno sfondo a righe
bianche e nere, e
tutto attorno a me era grigio, bianco e nero, come un vecchio film. Ma
non era
un film, perché al centro di quella piramide c’era
proprio la fotografia di
Kojiro.
Era una
fotografia che gli avevano scattato al matrimonio. Che orrore
ripensarci adesso,
l’ironia tagliava il mio corpo come una lama.
Sentii
distintamente, nonostante fosse un sogno, il rumore della pioggia, e mi
guardai
intorno, notando che c’era la signora Hyuga poco distante,
con uno dei figli
maschi che le teneva l’ombrello, anche loro era tremendamente
grigi mentre la
donna e Naoko non riuscivano a smettere di piangere.
Io non ero
accanto a loro, ero davanti alla piramide da sola.
Quando mi
voltai a destra, vidi un volto stinto di qualcuno che, di sicuro, mi
faceva le
sue condoglianze, per poi lasciare il posto al successivo, anche questo
con un
volto stinto, come se la pioggia avesse cancellato i loro tratti,
disegnati con
l’inchiostro; tante persone in nero, praticamente tutte
uguali.
Poi,
all’improvviso, una macchia di colore, e fui abbracciata da
Yayoi; ricordo
ancora il suo odore, ma ho dimenticato ciò che mi disse.
Forse, se non mi
avesse abbracciato il giorno prima, non sarei riuscita a sognarla
così
nitidamente.
Però ero
ancora confusa, e non la strinsi a me, il mio sguardo tornò
alla piramide di
fiori, e mi avvicinai alla foto, notando in quel momento qualcosa di
colorato,
di diverso rispetto a tutta quella monotonia monocromatica.
Eccolo. Allora
avevo ragione, l’avevo lasciato lì.
Il pupazzetto
in stoffa, la macchia di colore era la faccia e le mani di mini-Kojiro,
avevo
cercato una stoffa scura per farlo più rassomigliante
possibile. Aveva la sua
maglietta, i pantaloncini, persino le scarpe con tacchetto e, non
contenta, le
maniche della maglietta arrotolate, come faceva sempre.
Sentii
chiaramente che mi stavo rimettendo a piangere mentre le mie mani si
allungavano verso l’oggetto, prendendolo delicatamente e
tastandolo; era
ruvido, perché Kojiro lo teneva sempre appeso sulla borsa, e
quindi si
rovinava.
Però lo aveva
tenuto sempre con sé, sempre.
Perché …
perché tutto questo, perché mi era accaduto tutto
questo? Kojiro, Kojiro …
-Condoglianze.-
Quella voce …
mi voltai di scatto, e riconobbi subito, in tutto quel grigio, in
quella
pioggia simile a quella dei film, una macchia rossa. Il suo berretto
rosso.
E non solo
quello … aveva addosso la felpa che usa di solito quando era
in casa, i jeans e
le scarpe da ginnastica. E soprattutto lui, a dispetto di tutti gli
altri, non
era bianco e nero, non era apatico o scolorito; era proprio
lì, davanti a me.
-Genzo …-
Lo guardai
negl’occhi, e riconobbi i suoi occhi fieri, arroganti, ma
anche teneri.
Lui era lì.
-Maki, dai
andiamo.-
E mi offrì la
sua mano. Ma non potevo prenderla, che ne sarebbe stato di Kojiro? Mi
voltai
verso la fotografia, ma era scomparsa, tutto il funerale non
c’era più; c’era
solo il bagno asciuga, lo scoglio con la tomba, la parete con sopra il
piccolo
bosco, e il mare davanti a noi. E io non avevo addosso gli abiti del
lutto, ne
i miei kimono; anch’io ero in jeans e felpa, e nuovamente
guardai sorpresa
l’uomo davanti a me.
-Genzo?-
-Andiamo via
da qui. Non restiamo in questo posto.-
E a quel
punto, sorridendo e con qualche lacrima rimasta sugl’occhi,
annuii e presi la
sua mano, stringendogliela forte e cominciando a camminare sul bagno
asciuga,
andando chissà dove.
A quel punto
mi svegliai.
Mi guardai
intorno, notando come la luce fosse stranamente grigia, e pregai che
fosse solo
dovuto alle nuvole, e non alla pioggia. Non oggi, non oggi che dovevo
andare a
vedere la partita, tutto ma non la pioggia!
Dovevo
ammettere che, per quanto riguardava la mia carriera sportiva ho sempre
avuto
una certa sfiga con il tempo: Okinawa era sempre soleggiata, ma guarda
caso le
partite più importanti erano sempre contornate dalla
pioggia, che iniziava o
prima o in mezzo al match, rendendo tutto più difficile. Non
parliamo poi di
quando entrai in Nazionale! Il mio grande debutto si svolse sotto una
pioggerella infame, di quelle leggere che tu non senti ma che
t’inzuppano i
vestiti.
Ma stavolta
no, eh, la mia sfiga meteorologica non poteva avermi seguito anche
lì! Certo,
oramai era metà Novembre, ma i Kami (il padre eterno, dato
che ero in un paese
dalla diversa religione) dovevano darmi una mano, soprattutto dopo un
sogno del
genere.
Probabilmente
quel sogno era dovuto dalla mia chiacchierata con Yayoi: nonostante le
spese,
ero un po’ depressa quando ero andata a dormire, nonostante
il mio “incontro”
con Genzo. Oh cavolo, solo a ripensarci m’imbarazzavo da
morire!
Era stato
tutto così … così intenso: il suo
corpo che mi stringeva, i baci che si
facevano sempre più approfonditi, il suo corpo …
waaah!! Imbarazzo!!
-Maki, posso
entrare?-
Yayoi bussò
alla mia porta parlandomi, e io le risposi biascicando, passandomi una
mano sui
capelli spettinatissimi; lei entrò dentro la mia camera con
addosso la
vestaglia e i capelli tenuti dietro da un fermaglio, sedendosi sul
bordo del
letto e sorridendomi con aria affettuosa.
-Buongiorno,
come va?-
-Tutto bene.
Tu invece? Hai dormito bene?-
-Si, anche troppo,
quando mi sono svegliata per un attimo non capivo dov’ero!-
Sorrisi
divertita, mettendomi seduta.
-Anche per me
è stato lo stesso, all’inizio.-
-Senti … forse
sono indiscreta … ma perché tu e Genzo dormite in
camere separate?-
Teneva lo
sguardo basso per il disagio nel pormi quella domanda, ma io sorrisi
divertita,
stiracchiandomi la schiena e sentendo le vertebre scricchiolare sotto
la mia
pelle; lentamente uscii dal letto, per vedere se effettivamente era
così brutto
il tempo, incrociando mentalmente le dita.
-Lo ha fatto
per me, per farmi abituare pian piano a questa nuova vita.-
-Wow, non mi
aspettavo tanta delicatezza.-
-Si, ma non
dirgli che te l’ho detto: quando me l’ha spiegato,
era arrossito fino alla
punta dei capelli.-
Yayoi sorrise
divertita, e io aprii le tende. Grazie al cielo non pioveva! Era
parecchio
nuvoloso, ma se le ragazze erano delle vere appassionate non si
sarebbero certo
fermate per un po’ di nuvole sopra la testa.
Mi soffermai a
guardare il parco davanti alla finestra, la mia camera era sopra la
porta
d’ingresso, potevo vedere lo spiazzo con il cancello, la
macchina di Friedrick
e, sotto il pergolato, la mia bicicletta, oggi saremo andate al campo
con
quella, e con sorpresa notai che l’autista era alle prese con
una seconda bicicletta,
tanto da farmi sorridere.
-Sembra che
oggi, alla fine, non dovrò trasportarti sul retro della
bici: Friedrick ne ha
trovata un’altra.-
Yayoi si alzò
e mi raggiunse alla finestra, e io le indicai l’uomo che si
dedicava al mezzo,
notando come questo fosse decisamente più da signora, con
addirittura un
vecchio cesto impolverato sul manubrio.
-Sembra
carina!-
-La trovo
molto adatta a te: già ti vedo, in bicicletta con un
sorriso, una gonna lunga
elegante e una margherita tra i capelli.-
-Ma finiscila,
ti stai troppo occidentalizzando Maki.-
-Già, lo penso
anch’io, anzi è da un po’ che mi
piacerebbe fare qualcosa di orientale.-
-Allora
pensiamo a qualcosa, dato che siamo qui! Che ne diresti di una cena
stile
ryokan?-
-Ma dove li
troviamo gl’ingredienti giusti? Ti ricordo che siamo a
Monaco.-
-Sono sicura
che la tua “fata madrina” Isolde sa dove andare, e
sono certa che vorrà darci
una mano.-
Sorrisi, Yayoi
mi stava convincendo sempre di più, e alla fine decidemmo di
prepararci,
facendo anche un po’ le ragazzine e bisticciando in bagno,
schizzandoci l’acqua
del lavello e spintonandoci, finendo poi a ridere a crepapelle prima di
separarci giusto per cambiarci e scendere giù in cucina.
E come sempre,
Isolde ci stava aspettando per la colazione.
-Buongiorno care,
siamo mattutine vedo.-
-Si, ma Genzo
è sempre più mattutino di noi!-
Isolde
conosceva bene il giapponese, per quanto non lo parlasse da anni, ma
comunque
lei e Yayoi si comprendevano e questo era un vantaggio, almeno non
dovevo
tradurre tutto quello che la governante diceva.
-Invece Isolde
… stasera volevamo fare una cena tradizionale giapponese, e
ci domandavamo se
conosci un posto dove poter comprare vivande orientali.-
-Ah ma certo,
conosco una persona che ogni tanto mi forniva ingredienti tipicamente
giapponesi: la signora Wakabayashi, per quanto fosse occidentalizzata,
a volte
mi chiedeva di preparare qualche piatto tipico della sua terra, e io
volentieri
mi cimentavo in cucina, anche se non ero certo brava.-
Ecco un’altra
cosa che scoprivo della famiglia Wakabayashi, ma Yayoi mi precedette
nel
chiedere qualcosa in più alla donna.
-Apprezzava
solo la cucina?-
-No, non solo
quello: la signora ha sempre ricordato le sue origini. Ad esempio, le
piaceva
molto fare l’Ikebana, molte delle sue creazioni venivano
esposte in salotto; e
poi aveva sempre avuto, fin da bambina, la passione per
l’origami.-
Questa non me
l’aspettavo, le piaceva lavorare con la carta? Isolde, alla
mia silenziosa
domanda, sorrise intenerita, ricordando qualcosa di particolarmente
bello.
-Ricordo che
un giorno la signora era incinta del signorino Genzo (nel sentire
“signorino”
Yayoi si portò una mano alla bocca per trattenere una
risata, e ci scambiammo
un’occhiata eloquente), e venne qui proprio in cucina, e
cominciò a fare delle gru
di carta; allora i signorini Ichirou e Akio le si avvicinarono e le
chiesero
“mamma, che cosa fai?”, e la signora rispose:
“faccio delle gru di carta per il
vostro fratellino; sapete, se si riescono a fare mille gru di carta la
fortuna
verrà nella nostra casa. Volete aiutare la mamma?”
e tutti e tre cominciarono a
lavorarci.
Ovviamente i
signorini non erano molto abili, ma vederli impegnarsi tanto era
davvero
commuovente.-
Questo era
davvero … davvero sorprendente: Genzo aveva parlato poco dei
suoi fratelli o di
sua madre, quasi niente, e avevo saputo qualcosa solo da Isolde, e
quello che
sapevo non mi descriveva una famiglia così rigida e di alta
classe, anzi:
l’immagine della signora incinta che faceva le gru mi
arrivò dritta al cuore, e
mi fece ripensare a mia nonna, a come lei invece m’insegnava
le filastrocche
per passare il tempo.
Cavolo.
Cavolo.
Yayoi rispose
a Isolde per me.
-È
bellissimo.-
-La signora è
sempre stata molto fiera di aver messo al mondo tre figli maschi sani e
forti;
peccato che abbiano però avuto sempre pochi contatti.-
Questo mi
risvegliò di nuovo.
-Pochi
contatti? In che senso?-
Il sorriso
d’Isolde si spense mentre si muoveva verso il lavabo, finendo
di sistemare gli
oggetti mentre Yayoi, per prima, prendeva qualcosa da mangiare,
versandomi del
latte nella tazza e passandomelo.
-Vedete la
signora, oltre a badare alla casa, era una dei soci
dell’azienda del signor
Wakabayashi, e pertanto doveva spesso essere assente da casa, e questo
le
impediva di occuparsi dei figli, soprattutto di Akio e Genzo.
Quando si
trasferirono qui in Germania, poi, il rapporto con il signorino Genzo
divenne
ancora più sottile, nonostante ci sia molto affetto fra il
signorino e i suoi
genitori; la distanza non fece altro che renderlo più
chiuso, ma in realtà il
signorino è una persona affettuosa, e lei lo sa, vero?-
Mi venne da
sorridere, e annuii mentre Yayoi mordeva la sua fetta con burro e
marmellata.
Isolde, dopo quel momento di malinconia, ritorno a sorridere, e
velocemente
cercò un foglietto e una penna dove ci segnò
l’indirizzo del suo fornitore,
dandoci istruzioni sulla via e sul posto, e ascoltammo annuendo
più di una
volta, prima di alzarci per andare.
Fuori di casa,
Friedrick ci aspettava con le due biciclette, e questa volta potemmo
vedere
meglio la seconda: era di un marrone scuro, l’uomo
l’aveva ripulita dallo
sporco e lucidata, il cestino era stato tolto perché era
decisamente troppo
vecchio, e il fanaletto sul davanti era stato aggiustato.
-Danke Friedrich.-
-Guten Tag meine Damen.- (buona giornata signorine)
Yayoi era
solita andare al lavoro in bicicletta, per tanto non ebbe i problemi
che ebbi
io la prima volta che salii sul mezzo. Invece ci divertimmo, facendo
perfino
una piccola gara su chi andava più veloce, vinta da me
(perché ho veramente troppo
spirito competitivo certe volte).
Sopra di noi,
durante la pedalata, il cielo si schiarì, e le nuvole si
allontanarono;
nonostante il freddo, fui entusiasta di quella bella novità,
e d’istinto
spalancai le braccia verso l’alto per qualche momento,
tornando poi a stringere
con forza il manubrio, con Yayoi che mi dava della matta, continuando
ad
affiancarmi.
Il campo era
opposto alla solita direzione che prendevo per andare a lavorare al
bar, e la
strada divenne sempre più deserta mentre il parco, alla
nostra destra, si
diradava fino a scomparire, lasciando il suo posto ad un viale alberato
e,
subito dopo, ad una serie di campi sportivi, c’era chi faceva
tennis e chi
giocava a calcio (ovviamente). Ma soprattutto, c’era il campo
da baseball, e
quando lo vidi il cuore cominciò a battermi freneticamente.
Rallentai e mi
fermai, scendendo velocemente dalla bici e rimanendo a contemplare il
campo,
deserto al momento: l’emozione mi salii ancora di
più mentre riconoscevo la
terra battuta, le basi, gli spalti, le panche per i giocatori. Tutto
insomma.
-Contenta?-
Mi voltai
verso Yayoi, e fece una faccia divertita, segno che dovevo avere
un’espressione
assolutamente entusiasta. Io annuii, tornando poi a guardare il campo
mentre la
mia amica si guardava intorno.
-Immagino che
sia presto, facciamo quattro passi?-
-… io … io
vorrei entrare in campo.-
Avevo una
voglia così matta di sentire il terreno sotto le scarpe che
supplicai Yayoi con
lo sguardo, e lei mi sorrise divertita, annuendo e cercando con me un
posto
dove legare la bici, prima di entrare timidamente dentro il campo.
Ah cavolo!
Cavolo! Ero tornata nel mio mondo, il mio ambiente naturale!! Che bello
vedere
le scarpe sporcarsi di terra, riconoscere tutte le basi, mettersi nel
posto del
lanciatore e sentire il brivido e la voglia di fare un tiro!
Cominciai a
scaldare un po’ le braccia, decisa a fare almeno qualche
prova, chissà quanto
ero arrugginita!
Mi concentrai
un attimo, e la mia mente figurò un battitore con il
ricevitore dietro; mi
preparai come al mio solito, e finsi di lanciare, ma la mia mente mi
mostrò
come il mio tiro fosse completamente sballato, aaah anche il mio
cervello era
d’accordo che fossi fuori allenamento.
Provai un
altro paio di volte, ma entrambe mi diedero lo stesso risultato; mi
voltai verso
Yayoi, che mi guardava dagli spalti, e le aprii le braccia divertita.
-Sono
completamente fuori allenamento!-
-Lo posso
immaginare!-
-Entschuldigung.-
(scusa)
Mi voltai
sorpresa, e vidi delle ragazze in uniforme sportiva entrare nel campo.
Eccole,
oh dio eccole!
Vedere quelle
uniformi, e soprattutto la loro attrezzatura, fu come ricevere un colpo
nello
stomaco, non mi aspettavo un’emozione così forte;
una delle giocatrici più
basse, con i capelli biondissimi, si fece avanti, aveva la mazza con
appeso il
guantone.
-Scusateci,
noi vorremmo allenarci.-
-Ah certo,
certo. Voi siete le “Girls of Monaco?”-
-Si, certo. Ci
conosciamo?-
-No, ma
conosco uno dei vostri “fan”, un certo Derik
…-
-Aah, il
fratello di Abigail. Abigail! C’è una conoscente
di Derik.-
Mi si avvicinò
una ragazza alta almeno due metri, o almeno così mi
sembrava, con cortissimi
capelli neri e un’aria stupita quanto la mia.
-Tu conosci
Derik?-
-Ah si, ci
siamo conosciuti ad una partita del Monaco. Maki, piacere.-
-… oh mio dio,
ma tu sei Maki Akamine?!-
-… ah, si.-
-WOW!!
Ragazze!! questa è Maki, la ragazza di Genzo!-
Non so cosa
accadde precisamente, e non seppi nemmeno spiegarlo a Yayoi
successivamente, ma
in cinque secondi mi ritrovai circondata da almeno la metà
delle ragazze della
squadra, entusiaste quanto Abigail della mia presenza, e la cosa
andò avanti
fino a quando la donna di prima, che probabilmente era il loro
capitano, non le
chiamò fischiando due dita e alzando la voce.
-Dai ragazze,
piantatela e fatela respirare, che noi dobbiamo allenarci.-
-Dai Holly,
come sei rigida!-
-Ah, possiamo
io e la mia amica assistere agl’allenamenti?-
-Certo!
Volentieri.-
E tornai sugli
spalti, spiegando quello che era appena successo ad una Yayoi
intontita, che si
era preoccupata quando quell’ammasso di ragazzo mi era
arrivata addosso.
-Ad un certo
eri scomparsa in mezzo a quelle magliette rosse e bianche! Ho pensato
che ti
avessero inglobata!-
Io risi, ma
subito dopo mi concentrai sui loro allenamenti, e nonostante fossero
delle
amatoriali giocavano come si doveva: certo erano imprecise, tardavano
nella
corsa da una base all’altra, e le lanciatrici dovevano
migliorare nella forza
del tiro, ma s’impegnavano davvero tantissimo. Quello che
faceva loro da
capitano, poi, era battitrice eccezionale! Non ne mancava una, e aveva
uno
stile molto pulito e deciso.
-Pianeta Terra
chiama Maki.-
Mi voltai
stupita verso Yayoi, che sorrideva divertita.
-Se continui a
stringere così forte le dita finirai per farti male.-
Abbassai lo
sguardo, ed effettivamente notai che le nocche erano sbiancate
pesantemente, e
quando sciolsi le dita mi fecero male, tanto che dovetti scuoterle,
senza però
perdere di vista la lanciatrice che eseguiva uno slow pitch, un lancio
lento,
permettendo alla battitrice di colpire la palla e spedirla lontano,
tanto che
la ricevitrice di turno dovette correre per andarla a recuperare.
-Si!! Grande!-
Mi alzai in
piedi per l’entusiasmo, e alcune ragazze si voltarono a
guardarmi sorpresa, ma
oramai ero entrata nel vivo dell’allenamento, e senza
accorgermene urlai un
paio di volte.
-Attenta! Devi
andare più a destra, a destra se no non la prendi! Brava
così!-
La ricevitrice
prese la palla al volo, e fece un cenno di ringraziamento mentre io
tornavo
seduta, ma la pance di pietra per me aveva gli spilli, non riuscivo
proprio a
starmene tranquilla mentre un’altra scena mi faceva scattare
in piedi.
-Sei partita
troppo presto nella scivolata! Devi contare fino a cinque prima di
buttarti,
così ti dai il tempo!-
-Senti un po’,
ma sai davvero giocare?-
Abbassai lo
sguardo sorpresa, il capitano Holly aveva le mani sui fianchi e mi
guardava in
cagnesco.
-Le tue
strilla stanno disturbando i nostri allenamenti, se proprio devi fare
baccano
cercati un’altra squadra!-
Ah, è così? mi
provochi? Ora ti sistemo io.
-Sempre meglio
di te che non dai suggerimenti! Guarda che non possono imparare tutto
da sole!-
-Guarda che
stiamo solo giocando.-
-Anche nel
gioco ci sono dei suggerimenti da fare per migliorarsi.-
-Ma che ne
sai?! Hai mai giocato.-
-Certo, e sono
entrata anche nella squadra nazionale!-
-Uuuh, ma
davvero? E allora fammelo vedere! Dai, scendi e fammi vedere quanto sei
brava,
signorina nazionale!-
Ecco, in questo
io, Kojiro e Genzo ci assomigliamo: se provocati, facciamo terra
bruciata dove
passiamo.
Yayoi, che
poveraccia non aveva capito molto, mi vide togliermi il cappotto.
-Scusami
Yayoi, sistemo la signorina-padrone e torno.-
-… dacci
dentro!-
E mi sorrise
come incoraggiamento. A quel punto nessuno poté fermarmi;
scesi le scale e mi
avvicinai alla tipa, che era anche più bassa rispetto a me
di qualche
centimetro. Lei sorrideva strafottente.
-Lancio o
battuta?-
-Lancio.-
-Ooooh.-
E mi passò il
suo guanto; io quasi glielo strappai di mano, portandomi sul posto del
lanciatore e guardando l’avversaria davanti a me. una scossa
elettrica mi parti
dai piedi arrivando fin dietro la nuca: ecco, ora non c’era
più niente che
volessi. Ero nel mio posto, nel posto dove mi sentivo a mio agio,
più della mia
camera al ryokan.
Ero nata per
stare al centro di quello spazio, ero nata per calzare quel guantone
nero di
cuoio, per sentire la palla stretta tra le mie dita. Ero nata per
sentire
l’odore del terreno e avvertirlo sotto le suole delle mie
scarpe; ero nata per
studiare il mi avversario, per vedere come teneva la mazza e come la
muoveva,
capendo se era brava o meno, se preferiva lanci veloci o lenti, curvi o
dritti
come il proiettile di una pistola.
Il ricevitore
non mi diede alcun segnale, ma restò fermo nella sua
posizione, e io decisi
cosa fare.
Per un solo
istante, il mio cervello mi suggerì che ero fuori
allenamento, che avrei fatto
solo brutta figura; ma le parole che un giorno mi rivolse Kojiro mi
tornarono
in mente.
“Non importa
se sei ammalata, fuori allenamento o con
la pioggia che ti batte in testa: finché ci metti passione,
andrà sempre e
comunque bene, perché saprai fino in fondo
all’anima di aver giocato con tutta
te stessa.”
E pensai a
Genzo, a quanto mi sarebbe piaciuto che mi vedesse in questo momento;
sarebbe
stato fiero di me.
Caricai il
tiro, e calibrai il lancio, dandogli una traiettoria curva, certa che
la
battitrice avrebbe trovato difficoltà a colpirla; male che
andava, la palla
sarebbe andata per i fatti suoi.
Invece, come
se non avessi mai smesso di giocare, la palla eseguì
perfettamente il mio
comando, descrivendo la parabola come l’aveva pensata,
finendo dritta nel
guantone del ricevitore mentre la battitrice colpiva l’aria
con la sua mazza.
Yayoi scattò
in piedi entusiasta, e io mi rivolsi a lei.
-SII!!-
-Banzai!! Hai
visto che roba Yayoi?-
-Sei sempre la
più forte!-
-Capirai,
chissà cos’ha fatto. E poi Frauke non è
neanche la nostra migliore battitrice.-
Holly prese il
posto della sua compagna, e roteò la mazza, facendomi
intuire che aveva
comunque ragione per darsi arie, era brava, doveva giocare da un bel
po’. Con
lei traiettorie curve non sarebbero servite, e nemmeno tiri dritti, li
avrebbe
presi comunque.
Non avevo
scelta: non l’ho usavo da un po’, ma il Riser Ball
non mi aveva mai tradita, e
sono sicura che non l’avrebbe fatto adesso.
Ripensai a
tutti i giorni in cui mi ero allenata per migliorarlo e renderlo
perfetto, a
come mi aveva sempre aiutato ad andare verso la vittoria nei momenti
difficili,
e quasi gli parlai come ad un vecchio amico.
“Riser Ball,
siamo sempre stati la coppia vincente, non mi deluderai, so che sarai
anche
questa volta il mio colpo vincente.”
Yayoi,
probabilmente, mi stava incitando, così come alcune ragazze,
ma io non le
sentivo più, troppo concentrata a preparare il tiro, a
fissare gli occhi
azzurrissimi e guerrieri di Holly, dritta davanti a me; entrambe
eravamo delle
giocatrici che sapevamo di aver di fronte un avversario temibile, e
nessuna
delle due voleva perdere.
Caricai il
tiro, e sentii il mio polso strisciare contro il fianco, la mano che
lasciava
all’ultimo momento la palla, e questa che partiva dritta come
un razzo, per poi
cambiare traiettoria all’ultimo momento, proprio quando
sembrava che la mazza
di Holly la stesse per colpire; la palla si alzò quei pochi
centimetri per
evitarla, finendo nuovamente nelle mani della ricevitrice.
Rimanendo
entrambe in silenzio, a guardare mentalmente la scena appena avvenuta;
Yayoi,
invece, scattò come una molla, tenendo fra le mani il mio
cappotto.
-SIII!!
BANZAAII!! GRANDE MAKI!!-
Presi fiato, e
poi mi unii alle grida di Yayoi, gridando più volte
“Banzai” e “Yatta!”, come
facevo spesso con le mie compagne di squadra; le altre giocatrici, per
la
seconda volta, mi circondarono e mi riempirono di complimenti e
domande. Ma io
stavo aspettando Holly, la quale non si fece attendere, raggiungendomi
tenendo
la mazza sulla spalla.
Ci squadrammo
qualche secondo, poi lei allungò la mano, e io gliela
strinsi, sorridendoci
reciprocamente.
-Ehi, ma sei
davvero una bestia!-
-Grazie, anche
tu sei brava!-
-Figurati,
quella palla non sarei mai riuscita a prenderla!-
-Nah, se ti
alleni forse ce la fai.-
-Vacci piano,
occhi a mandorla.-
E ridendo
cominciammo a farci dei piccoli dispetti mentre il resto della squadra
e Yayoi
ridevano divertite.
Alla fine
passai il resto della giornata a giocare con loro, pranzando tutte
assieme e
presentando Yayoi, per poi farmi dare una delle loro magliette di
riserva e
continuare a fare quello che, in fondo, mi ero tanto allenata a fare:
giocare a
softball.
-Mi dispiace,
ti sarai annoiata a guardarmi giocare.-
-Stai
scherzando?! È stato incredibile, non ti avevo mai vista
giocare e devo
ammettere che sei davvero brava!-
-Esagerata,
sono anni che non mi alleno seriamente.-
-Però la
differenza con loro era ben visibile, te lo posso assicurare, e io non
me ne
intendo.
Piuttosto, che
ti hanno detto?-
-Mi hanno
invitata ad entrare nella loro squadra, pare che a Marzo ci
sarà un torneo tra
squadre amatoriali, e vogliono assolutamente che partecipi con loro.-
-Ma è
fantastico!-
-Intanto ho
lasciato il mio recapito, ovvero la mail che tu mi hai fatto, anzi di
questo te
ne sono profondamente grata, e mi hanno detto che a breve mi faranno
sapere per
altri allenamenti e partite amichevoli.-
-Insomma, Maki
torna nel giro sportivo.-
-Già
finalmente!-
Quasi non mi
sembrava vero! Avevo giocato, e il mio corpo non ne aveva risentito.
Avevo di
nuovo provato l’ebbrezza di correre su quel campo dopo tanti
anni.
-Kojiro
sarebbe fiero di me.-
-Sono sicura
che lo è, così come lo sarà
Wakabayashi.-
-Stasera sarà
una bella serata.-
-A proposito,
dobbiamo andare da quel fornitore.-
-Cavolo, è
vero! speriamo non sia troppo tardi!-
Salimmo sulle
bici e pedalammo più in fretta che potemmo. Fortunatamente
il fornitore datoci
da Isolde era ancora aperto, e insieme decidemmo cosa prendere e cosa
no,
tornammo a casa con almeno quattro buste della spesa piene di verdure e
altri
ingredienti.
Ad attenderci
Isolde … e Genzo.
-Eccole qua le
disperse! Si può sapere dov’eravate?-
-Scusaci,
siamo passate a fare un po’ di spesa.-
-Già, oggi si
cucina giapponese.-
-Davvero?!
Come mai?-
-Beh, era da
un po’ che volevo mangiare qualcosa di nostrano, e Yayoi era
d’accordo con me.-
Genzo approvò
con aria interessata, e per l’ora successiva io e Yayoi ci
demmo di gomito ai
fornelli, preparando Tonkatsu (che sapevo piaceva molto a Genzo),
Donburi e
onigiri di vari sapori; Isolde e Friedrich furono invitati a
partecipare al
banchetto, e quella sera raccontammo la nostra giornata al campo
sportivo.
-Ah
Wakabayashi, dovevi vedere Maki sul campo! Pareva una belva! Si
è letteralmente
divorata una lanciatrice dietro l’altra!-
-Esagerata.-
-In effetti
non mi stupirei se le avessi aggredite con il tuo
“carisma”.-
-Sempre meglio
di te che pari insensibile a tutto.-
Io e Genzo
sorridemmo alle nostre frecciatine, e la serata andò avanti
così, fino a quando
Isolde e Friedrich non andarono a dormire, e subito dopo Yayoi si
allontanò un
momento.
A quel punto
mi sentii leggermente nervosa, ricordavo ancora bene la serata prima, e
mi
domandai se anche questa volta ci sarebbe stato qualcosa di simile; ma
sorseggiai il mio the e Genzo continuò a guardarmi
tranquillamente, con un
sorriso divertito in faccia, tanto da insospettirmi.
-Beh? Che
c’è?-
-… è che ti
vedo veramente felice oggi.-
Rimasi colpita
dalle sue parole, e annuii poggiando la tazza sul tavolo, parlandogli a
voce
bassa.
-Sai, non
gioco a softball … da più di … cinque
anni circa. Tornare su un campo … è stato
… incredibile: il mio corpo non sembrava aver perso niente
in tutti questi
anni, mi ricordavo chiaramente ogni movimento che dovevo fare, ogni
pensiero
che dovevo avere. Ricordavo la postura giusta, le scelte giuste, tutto
insomma.
Come se … come
se cinque anni non fossero mai passati davvero.-
Gliene parlavo
con sgomento, davvero non riuscivo a credere a quella giornata andata
così
bene.
Genzo bevve la
sua bevanda e poi parlò.
-Io sono
contento che il tuo corpo non abbia avuto problemi: mi tranquillizza
sapere che
la tua salute non abbia inciso sulla giornata.-
Ah, giusto,
l’Endometriosi. La cura. Dovevo dirglielo. Assolutamente. Ora
o mai più.
-Senti … Genzo
… sai che sono stata dal ginecologo.-
-Si, certo.-
-Ecco …
durante la visita … mi ha detto … che esiste una
cura definitiva …
all’endometriosi.-
Mano a mano
che parlavo la voce mi calava sempre di più, e dovetti
schiarirmela per
riuscire ad avere un tono consono, che arrivasse alle sue orecchie, per
l’imbarazzo e l’ansia neanche lo guardavo
negl’occhi, chissà cosa stava
pensando in quel momento …
-È … è
un’operazione chirurgica … si chiama laparoscopia
… si tratterebbe di … di
piccoli fori per rimuovere cisti o isole endometriosiche, come ha detto
il
medico … e sarebbe definitiva.-
A quel punto
mi azzittii, incapace di andare avanti, cosa stava pensando Genzo? Era
contento? Non lo era? Perché non parlava? Alzai lentamente
lo sguardo verso di
lui, e lo vidi completamente senza parole, tanto che mi alzai in piedi,
decisamente nervosa.
-Vado … vado a
dormire! Buonanotte Genzo.-
-Aspetta un
attimo!-
Mi afferrò per
il braccio e mi fece girare, con abbastanza irruenza (tipica sua) verso
di lui,
il suo sguardo era ancora sorpreso ma anche innervosito.
-Prima mi dai
questa notizia e poi te la squagli così? E no bella mia!
Adesso mi stai a
sentire!-
Chiusi gli
occhi, ecco, ecco lo sapevo! Adesso diceva che non gli andava bene!
-Maki, Maki
guardami, lo sai che non mi piace quando non mi guardi
negl’occhi. Avanti
guardami.-
Accidenti!
Alzai lo sguardo, e lui sciolse lentamente la sua aria nervosa,
così come pian
piano sciolse la presa sul mio braccio.
-… è
fantastico. Vuol dire … che potresti davvero guarire,
è così?-
Io annuii
lentamente. A quel punto mi abbracciò e mi strinse con tutte
le sue forze.
-Maki! È
magnifico!-
-Genzo, Genzo
mi fai male!-
-Scusa, cavolo
scusami. Ma questo è fantastico! Ci pensi? Potresti davvero
guarire!-
-Allora … sei
contento?-
-Certo che
sono contento! Perché?-
-Ecco, credevo
… credevo che ti saresti preoccupato.-
-Preoccupato?!
Ma stai scherzando! Ma che ti passa per la testa?!-
-Non lo so, io
… io quando l’ho saputo … ho pensato
…-
Merda, mi
veniva da piangere, la tensione di prima si stava sciogliendo troppo
velocemente; ma Genzo mi tenne ancora tra le sue braccia, parlandomi a
bassa voce.
-Hai pensato a
Kojiro. Giusto?-
Io annuii, per
poi fiondarmi sul suo petto.
-Scusami,
scusami, non dovevo pensare a lui però …-
-Maki, non
dire cazzate.-
La sua mano
sopra la mia testa mi staccò prepotentemente dal suo petto,
e io lo guardai
negl’occhi stupita, mentre lui mi squadrava deciso.
-Possibile che
mi devi far incavolare?! Ascoltami bene: Hyuga non
c’è da un anno e mezzo, noi
stiamo insieme da circa quattro mesi. Non siete riusciti ad avere una
famiglia
per colpa del tuo problema, e adesso hai scoperto che
c’è una cura.
Sarò anche
geloso di Hyuga, ma non sono così idiota da non capire che
comunque questa
notizia ti fa pensare che, se l’avessi saputo prima, a
quest’ora le cose
andavano diversamente!-
Sentire quelle
parole, quei miei pensieri proprio dalla sua bocca mi scossero non
poco, era
così brutto sentirlo dire proprio da lui!
-La cosa non
mi piace, è ovvio, perché io ti amo. Ma diamine,
Maki! Si tratta della tua
salute, della possibilità che tu possa stare meglio, che tu
possa guarire! Non
c’è niente che potrebbe rendermi più
contento nel sapere che puoi guarire e
avere una vita molto più facile!-
A quel punto
s’azzittii, e a me venne di nuovo da piangere: mi sentivo
egoista ad aver
pensato una cosa del genere, una vera egoista, e lo abbracciai,
stringendolo a
me.
-Genzo …
Genzo.-
-Cretina,
adesso perché piangi?-
-Mi dispiace …
scusami … scusami.-
-Smettila dai.
Smettila.-
Ma mentre
diceva questo mi abbracciò e mi strinse forte, baciandomi i
capelli mentre io
mi calmavo.
-Genzo … voglio
stare con te.-
-Lo so. Per
questo sono ancora più felice di questa notizia. Ti amo,
Maki.-
Lo strinsi
ancora di più, e respirai a fondo, sentendo il cuore quasi
esplodere per quelle
parole, per quella frase che mi aveva sempre detto, e che non ero mai
riuscita
a rispondere.
Ma forse,
questa volta, con un po’ di coraggio … forza Maki,
respira a fondo, così …
Coraggio Maki,
coraggio …
-E … e io … io
amo te, Genzo.-
Lui rimase
qualche secondo immobile, poi mi strinse di nuovo, cercando in un
secondo
momento gli occhi e incastrandoli perfettamente nei miei. Oh dei, aveva
uno
sguardo così fragile in quei momenti, sembrava davvero un
bambino mentre mi
guardava così … così dolcemente.
-Davvero?-
Aveva la voce
che tremava, e a me faceva venire ancora più voglia di
piangere, ma ingoiai le
lacrime e sorrisi, annuendo, accarezzandogli le guance e poggiando la
mia
fronte sulla sua.
-Si, si Genzo.
Io ti amo.-
L’avevo capito
con quel sogno, quando mi aveva offerto la sua mano e io
l’avevo accettata
senza paura; quando gli avevo parlato di quella notizia e, nervosa,
stavo per
scappare via. quando aveva detto a voce i miei pensieri e li ritenevo
così
ingiusti nei suoi confronti, così egoisti. E ancora adesso,
mentre vedevo
quello sguardo così fragile davanti a me, tale che mi veniva
voglia di
stringerlo al mio petto.
Io l’amavo.
Amavo … e amo
… Genzo Wakabayashi.
**
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Capitolo 15 *** Schlechtes Wetter ***
XIV:
Schlechtes Wetter
(Maltempo)
Non ci potevo
credere: alla fine mi ero dichiarata a Genzo. Ripensarci mi fece salire
la
temperatura della faccia, e mi coprii con il cuscino,
prendendo fiato e sentendo il buon profumo di sapone della federa,
scoprendomi
qualche secondo dopo, quando il mio cuore si era
“leggermente” calmato.
Ma, sono
sicura, che anche dopo che liberai la faccia, avevo le guance rosse,
sentivo la pelle accaldata, e cercai di concentrarmi sul
qualcos’altro mentre guardavo il soffitto sopra di me: la
partita di softball,
l’invito delle ragazze … a quel punto mi venne da
sorridere.
Yayoi, i suoi
problemi con Jun … il mio sorriso svanì,
ripensando a com’era arrivata a
Monaco: aveva le guance più pallide del solito, e avevo
subito cercato di distrarla
da qualsiasi pensiero la portasse a sbiancarsi, ma non credo di essere
così brava; ero certa che, quando era sola, Yayoi ci
ripensasse alla sua situazione.
Non che facesse male, però volevo che si distraesse con
quella piccola vacanza.
Con quel
pensiero mi alzai dal letto: avevo voglia di raggiungerla io, stavolta,
in
camera, e di parlarle della sua situazione; mi ero ripromessa di non
parlarne
per prima, ma mi accorgevo, ogni volta che calava il silenzio, che il
suo
sguardo s’incupiva. E gli occhi di Yayoi non sono adatti per
tali sguardi,
credetemi: io, ogni volta che ripenso al periodo successivo al
funerale, la
prima cosa che ricordo è lo sguardo brillante della mia
amica, e il suo sorriso,
che m’invitava a sorridere a mia volta.
Aprii la porta
della mia camera, e mi diressi lentamente verso quella di Yayoi,
trovandola come
sempre aperta. Era sempre stata una sua abitudine: dovunque lei
fosse, anche nel ryokan, lasciava sempre uno spiraglio, per
permetterle di uscire se avevo bisogno di lei, oppure di farmi entrare
se la
cercavo.
Credevo che
dormisse, così mi avvicinai molto lentamente. Invece Yayoi
era sveglia.
-Pronto, Jun? Ciao,
sono Yayoi.-
Mi sorprese
più sentirla telefonare a Misugi che sentirla sveglia: Yayoi
è sempre stata
mattiniera, anche per via del suo lavoro. Rimasi ferma davanti
all’uscio, senza
farmi vedere.
-Si, sto bene,
Monaco è molto bella. Si, stanno bene. Maki l’ho
vista … serena, come non la vedevo
da tempo.-
Ma tu, Yayoi? Tu come stai? Perché
l’hai chiamato? Non è giusto che tu faccia questo
passo,
dovrebbe essere lui a farlo, no?
-Non lo so, la
prossima settimana dovrei essere a lavoro, ma non credo …
non credo che ci
andrò. A meno che … a meno che tu non mi venga a
prendere.-
Strinsi i
pugni, in quel momento non seppi cosa pensare: da un lato ero contenta
che
Yayoi avesse chiesto qualcosa del genere, ma dall’altro mi
sembrava una
richiesta molto azzardata: e se lui le avesse detto di no? Che non
voleva o non
poteva? Cos’avrebbe fatto Yayoi?
-Jun,
ascoltami: io … io ti sono sempre stata vicina, e non ho mai
voluto pretendere
niente da te, lo sai. Tutto quello che ho fatto …
l’ho fatto perché ci credevo,
ho sempre creduto in te e nelle tue capacità, non ho mai
avuto dubbi. Ma adesso
… adesso è diverso, perché non si
tratta più solo di te: si tratta di noi.-
Yayoi è sempre
stata, in un certo senso, pragmatica: tutto quello che faceva, lo
faceva perché
ci credeva e sapeva di avere la capacità per farlo. Ma
mentre la sentivo parlare
al telefono, avvertivo che questa sua fiducia barcollava. Ma lo stava
facendo, perché
sapeva che era la cosa giusta.
-Noi … noi
stiamo insieme … da molto tempo e credimi, io sono felice di
stare
con te. Ma questo non significa … che solo perché
sono felice non veda i
problemi che si stanno ammassando. E sono tanti.
No aspetta,
fammi, fammi finire, per piacere: non cominciare a pretendere di
poterli
risolvere tu tutti da solo, perché alcuni di questi problemi
riguardano anche
me, e tra questi c'è … c'è il fatto
che ora voglio di più.-
Yayoi amava i
matrimoni: a quello di Sanae, in cui c’ero anch’io,
vidi di sfuggita la sua espressione
sognante, mentre vedeva la coppia scambiarsi le promesse. E accanto a
lei, Misugi
mi era sembrato tranquillo, sicuro di sé, come se quello
sarebbe stato un passo
ovvio nella loro relazione.
Probabilmente,
come tutti, vedevo solo la punta dell’iceberg.
Però possibile che
anch’io, anche se ero sua amica, non fossi riuscita a
percepire niente? ... forse ero troppo presa da me stessa e da quello
che mi
stava accadendo per accorgermene; c’è anche da
dire che, quei due, hanno sempre
avuto la capacità di essere tremendamente riservati, e di
non far notare niente
a nessuno.
-Io voglio di
più, Jun. Ma tu non lo vuoi.
Ti prego non
negarlo, credi davvero che sia stupida?
Jun, sono
quanti? Sei anni? Sette? Io non posso aspettare ancora: tu sei
cambiato, ma lo
sono anch’io. E so quello che voglio: io voglio te, voglio
vivere accanto a te,
aiutarti e farmi aiutare, parlarti e litigare con te; e questo
… questo non può
accadere in questo modo, semplicemente perché mi consideri
ancora la ragazzina
di sei anni fa.-
Conobbi
effettivamente Yayoi tempo dopo l’operazione chirurgica di
Misugi, quando
oramai le cose si erano sistemate: mi era sempre sembrata felice della
sua
relazione con lui. Ma la felicità è uno stato che
va costruito passo dopo
passo, e se lo dico io che mi sono addirittura trasferita in un altro
Paese per
costruirla, forse non è così assurdo questo
discorso.
Alcuni parlano
della felicità come di uno stato momentaneo, impossibile da
mantenere; questi “alcuni”
mi fanno tristezza, perché significa che non sono in grado
di poterla davvero
costruire: è vero, non si può essere tutti i
giorni felici, ma guardando
indietro si può scoprire di esserlo stati per molto tempo,
anche se la mente è
impegnata in problemi che poi si è risolto. Non è
uno stato, ma una parte di
noi, da coltivare e far crescere.
-Questo non
cambia le cose, Jun; anche se mi dici questo, rimane sempre un fatto:
il
problema, per te, sono io. Tu non vuoi me.
Ma … se non
sono io il problema, allora vieni a prendermi. Vieni, raggiungimi a
Monaco, e
riportami a casa con te, perché io non ho nessuno intenzione
di tornare così,
in questo modo.
Tranquillo, mi
cercherò un appartamento, prenderò le mie cose e
mi trasferirò. Ma non tornerò
da te; questa volta non sarò io a venire, perché
io non credo di essere il
problema.
Ora devo
andare.-
Non lo salutò, chiudendo la telefonata e
mettendosi seduta sul letto, prendendo
fiato; a quel punto mi mossi, bussando due volte sulla porta ed
entrando
dentro, sorridendole.
-Ehi,
buongiorno.-
-Ciao. Mi hai
sentita, vero?-
Annuii, non si poteva farla franca a Yayoi Aoba; mi
avvicinai al letto,
sedendomi accanto a lei, e si conseguenza la ragazza poggiò
la testa sulla mia
spalla, sospirando nuovamente, tenendo il cellulare tra le mani.
-… dovevo
dirgli quelle cose.-
-Ne sei sicura?-
-Era da tempo
che volevo dirgli tutto questo, ma … non ne avevo il
coraggio, temevo la sua
reazione, temevo mi dicesse “hai ragione”, come
sempre. Ora più che mai, vorrei
non avere ragione.-
-Sono sicura
che non ne hai.-
-Non sei
convincente.-
Le sorrisi.
Non si può proprio farla franca a Yayoi Aoba. Lei
alzò la testa dalla mia
spalla, alzandosi in piedi e avvicinandosi alla finestra che dava
sull’esterno,
questa volta il cellulare lo aveva lasciato sopra il letto sfatto.
-… ho paura,
Maki.-
Non era la
prima volta che ne aveva. Ma era la prima volta che me lo diceva. E non
avrei mai
avuto il coraggio di mentirle e di dirle “andrà
tutto bene”: quando stavo male
io, non mi disse mai una cosa del genere, ma mi disse sempre
“migliorerai”. Era sempre
stata onesta, come potevo io dirle una cosa di cui non ero
assolutamente
convinta?
Mi alzai in
piedi, raggiungendola, e l’abbracciai lentamente, sentendola
appoggiarsi a me e
lasciarsi al pianto, avvertendo chiaramente le lacrime bagnarmi
la maglietta e toccarmi la pelle sopra il seno.
-… qualunque
cosa accada, sei in gamba, e andrai avanti.-
Lei annuì,
stringendomi ulteriormente mentre io sospiravo, lasciando che si
calmasse e
accarezzandole i capelli.
-Oggi … che
facciamo oggi?-
-Beh, stasera
c’è la serata di beneficenza, ricordi? Per tanto
non possiamo scatenarci come
al solito.-
-Quindi
restiamo … restiamo a casa?-
-Per
ammuffire? Certo che no! Adesso ci cambiamo, tu ti sciacqui la faccia,
e poi ci
facciamo una passeggiata nei dintorni. Che ne pensi?-
-Si, va bene. Va
bene.-
Si staccò da
me, asciugandosi gli occhi con le dita, sorridendomi e rifugiandosi in
bagno
mentre io uscivo dalla camera, lasciandola sola per riprendere un
po’ fiato, andando a lavarmi e cambiarmi.
Fuori, mentre
stavamo camminando, la giornata ci si presentò uggiosa: le
nuvole del giorno prima erano come triplicate, e stavolta sembrava
davvero che si sarebbe
messo a piovere, tanto che entrambe decidemmo di non allontanarci
troppo da
casa, certe che la pioggia sarebbe partita da un momento
all’altro.
Camminavano vicine,
cercando di chiacchierare di argomenti futili e divertenti, che ci
potessero
distrarre da qualsiasi pensiero, che fossero quelli pesanti di Yayoi o
quelli
imbarazzanti della sottoscritta.
-E i capelli? Li
lasci sciolti?-
-Beh, sto
pensando di legarli in parte, di fare una piccola crocchia e lasciare
qualche ciocca sciolta; dopotutto saremo al
chiuso, e ho l’impressione che avremo caldo.-
-Già, sono
contenta che qui a Monaco tengano i riscaldamenti al massimo,
però ogni volta
che esco fuori è un inferno.-
-A proposito
di uscire, il tuo capo non sarà contento di averti lasciato
tanti giorni per
oziare; quando tornerai la bar sarà un disastro!-
-Ehi, ho fatto
la cameriera al ryokan per anni. Non saranno certo quattro o cinque
giorni a
farmi perdere la fiacca.-
-Ah, senti …
in caso … ti darebbe fastidio se … se prolungassi
la mia permanenza qui? Non sarò
di peso, promesso, anche perché ho portato anche i libri per
studiare e …-
-Yayoi, io ti
ho invitata qui, e sarei felice di averti qui ancora per un
po’. Mi basta
sapere che, dopo, sarai pronta ad andare avanti.-
Ci eravamo
fermate dal camminare, e lei annuì con forza, smuovendo
qualche
ciocca di capelli ai lati della testa. Io le sorrisi, e ripresi a
camminare,
seguita qualche momento dopo da Yayoi, che subito cambiò
argomento. Beh, non
proprio …
-A proposito
di cambiamenti, tu che mi dici?-
-Eh? In che
senso?-
-Maki, non sai
dire le bugie, e io ieri sera sono dovuta restare chiusa in bagno per
dieci
minuti. O mi dici cos’è successo, o mi metto a
urlarlo.-
-… tu … tu non
oseresti.-
Yayoi sorrise
con aria cattiva, e prese fiato, mettendo le mani attorno alla bocca
per
amplificarla.
-MAKI AKAMINE
SI E’ DICHIARATAAAA!!-
-WAAAAHHH!!!
YAYOI SMETTILA SUBITO!!-
Le saltai
addosso, e lei si mise a ridere mentre io mi vendicavo spettinandole i
capelli.
Ero così imbarazzata!! Ma che le saltava in mente?!
-Mi arrendo,
mi arrendo smettila!!-
-Meno male che
lo hai detto in giapponese, altrimenti sarei sprofondata.-
-Ma dai!-
-Guardami in
faccia e dimmi che sono bianca come un cencio.-
-… no, sei
decisamente fucsia.-
Le lanciai un’
“affettuosa” occhiataccia, riprendendo a camminare,
nascondendo parte del viso
dentro la felpa che indossavo. Ma Yayoi non mi avrebbe lasciato in pace
a
riguardo.
-Allora? Non mi
vuoi dire niente?-
-Insomma
Yayoi! È imbarazzante!-
-Maki, hai
appena detto che, fortunatamente, stiamo parlando in giapponese,
perciò o mi
dici qualcosa oppure mi rimetto ad urlare.-
-Va bene, va
bene.-
Ma cosa le
potevo dire? Sai Yayoi, ho detto a Genzo che posso guarire, ma avevo
talmente
tanta paura che stavo per scappare, e lui incazzato mi ha fatto la
ramanzina, e subito dopo io gli ho detto che lo amavo, non ti
pare la confessione più romantica
del mondo?
-Ecco …
stavamo parlando … e …-
-E?-
-… e gli ho detto
… che …-
-Maki, non ti
far cavare le parole con la forza, dai!-
-Gli ho detto
che lo amo, va bene?! Uff, basta!-
-E glielo hai
detto mentre parlavate così, di un argomento a caso? Maki,
ti conosco abbastanza per dire che non diresti “ti
amo” mentre parlate dell’andamento di una partita.-
-Ma da quando
sei così pungente? Non è che frequentare me e
Genzo ti fa male?-
Sorrise
divertita, facendo spallucce, e io recuperai lentamente parte della mia
tranquillità, parlando più liberamente.
-Stavamo
parlando del fatto che c’è una cura alla mia
Endometriosi.-
-Come l’ha
presa?-
-Devo
ammettere che ne era molto felice.-
-Perché? Ti aspettavi
che non lo fosse?-
-È che avevo
la sensazione che, dicendoglielo, lo avrei caricato di una qualche
responsabilità.-
-Maki,
Wakabayashi vuole stare con te. Lo vuole, si vede, benché le
vostre
conversazioni a volte sembrino più una guerra a chi
è più bravo a prendere in
giro l’altro, ma si vede che questo è il modo
migliore per comunicare per voi.-
-Questo non è
vero! Genzo sa essere anche molto affettuoso! Forse … forse
anche troppo.-
Tutte le volte
che mi diceva che mi voleva bene, che mi guardava negl’occhi
e mi abbracciava …
oh Kami ma che imbarazzo! Anche solo a ricordarlo! E presto avremo
anche …
aaaahhh!! Non voglio pensarci!! Mi passai una mano in faccia, sentendo
le
guance letteralmente bollenti.
-Non ci
sei abituata. Dopotutto stavi con Hyuga, e
lui non è un campione di affettuosità.-
-Si però …
però mi sembra di ritornare ragazzina, come le mie compagne
di classe ai tempi
delle prime storielle. Tzé! Erano assurde! Bastava che
stringessero la mano
dell’innamorato e subito lo dicevano a metà delle
compagne di classe!-
-E tu non sei
così.-
-Assolutamente
no! Sono una donna adulta io.-
-Maki, sei stata
solo con Hyuga, è stato il tuo primo e unico amore per tanti
anni, e adesso sei
con Wakabayashi, è normale che ti senta così
imbarazzata: non hai avuto altre
esperienze al di fuori di tuo marito, e adesso stai con un uomo che,
con una
donna, si relaziona in modo diverso rispetto a Hyuga.-
-Già, ricordo
che Kojiro mi disse che “stavo bene” con un vestito
solo mesi dopo che ci
sentivamo e uscivamo; quando mi disse “ti amo” era
così imbarazzato che se la
prese con me e cominciammo a litigare, per poi scoppiare a ridere.
Genzo, invece …
mi disse “ti amo” senza il minimo imbarazzo, e
quando mi dice che sono bella …
lui ne è sempre convinto.-
Sentii,
ancora, la sensazione d’imbarazzo salire in faccia, ma
rispetto a prima era
molto meno forte, e non avevo così tanto caldo; Yayoi, a
quel punto,
mi prese sottobraccio, sorridendomi.
-Non sarai come
le tue ex-compagne di classe, e questo non è il tuo primo
amore. Ma certamente,
Maki, tu sei innamorata.-
Presi un
profondo respiro, alzando lo sguardo verso l’alto, e ripensai
alla sera prima,
alle parole e i gesti. E mi venne da sorridere.
-Si, è vero.-
Proprio in
quel momento, una goccia di pioggia mi cadde sulla fronte, e subito
dopo ne
seguirono altre.
-Accidenti.-
-Presto,
torniamo a casa!-
Io e Yayoi ci
prendemmo per mano, e cominciammo a correre verso la villa. Non ce
n’eravamo
accorte, ma eravamo andate molto lontano nella passeggiata, e anche se
correvamo,
la pioggia ci stava bagnando ugualmente, tanto che quando aprii il
cancello,
facendo passare Yayoi per prima, oramai avevo i capelli fradici, e
quando
riuscimmo ad entrare in casa la mia felpa era zuppa, e il cappotto di
lei era
bagnato anche all’interno, come mi fece notare.
Eppure, quando
ci guardammo in faccia, vedendo il nostro reciproco stato disastrato,
ci scappò entrambe
da ridere; Yayoi tentò di coprirsi la bocca con la mano, ma
io oramai ero
partita, e lei mi seguì subito dopo, e ridemmo, ridemmo
così tanto che ci
tenevamo la pancia con le mani per come cominciò a farci
male.
Lei aveva i
capelli spettinatissimi, quasi tutti appiccicati in faccia, e sembrava
Sadako;
io non ero messa meglio, la felpa bagnata mi faceva sembrare una specie
di gatto
buttato in una vasca d’acqua.
Neanche quando
ci venne incontro Isolde, preoccupata, a sgridarci bonaria su come ci
eravamo
ridotte, smettevamo di ridere, ma anzi: dopo che se ne andò,
per prenderci degli asciugamani, ci guardammo in faccia, e
la ridarella tornò prepotentemente.
Alla fine ci
infilammo ognuna nella doccia, iniziando così a prepararci
per la serata; e
mentre l’acqua calda mi toglieva il freddo, mi sentii
crescere l’ansia.
Accidenti,
pensavo, speriamo vada tutto bene …
**
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Capitolo 16 *** Zuneigung ***
XV:
Zuneigung
(affetto)
-Maki.-
-Ja?-
-Nennen.-
Uscii fuori
dalla mia camera con il vestito rosso addosso, mi mancavano le scarpe e
poi mi
sarei fatta aiutare da Yayoi con il trucco; Isolde mi porse il
cordless, e
sopresa lo presi, pensando inizialmente che fosse il gestore del bar,
oddio che
avessi dimenticato che dovevo lavorare quella sera? Ma mi sembrava che
il
permesso durasse fino a Domenica.
-Hallo?-
(Pronto?)
> Maki-chan?
Sono la nonna.
Mi sembrava
anni che non sentivo la sua voce, ma effettivamente era solo qualche
settimana;
eppure, quando la riconobbi, mi venne subito un colpo allo stomaco, e
lentamente mi avvicinai al letto, sedendo mici con altrettanta lentezza.
-Nonna … che
bello sentirti … è … è da
molto che non vi sento.-
> Sarai
stata certamente impegnata, com’è giusto che sia.
Stai bene? Come sta il signor
Wakabayashi?
-Io … io e
Genzo stiamo bene, ti ringrazio nonna.-
Mi rendevo
conto che parlare di Genzo con mia nonna, pronunciando il suo nome, era
un
passo importante: significava che avevo accettato i suoi sentimenti, e
che
sarei rimasta assieme a lui. La mia è una famiglia
tradizionale, e certi
piccoli dettagli venivano sempre ascoltati con grande attenzione.
Tuttavia, la
voce di mia nonna rimase calma e dolce come sempre; dopotutto, era
stata lei
stessa a darmi il permesso di partire e di lasciare la locanda.
> Bene, ne
sono molto contenta.
-Nonna, ho
saputo da Tomoko … che ci sono dei problemi in famiglia.-
> Per
questo ti ho chiamata: ho indetto una riunione di famiglia, per
decidere a
proposito di tua zia Moe.
Allora era
vero: rischiava veramente di essere cacciata dalla famiglia?! Ma era la
figlia
della nonna, possibile che potesse fare una cosa del genere proprio a
sua
figlia?
-Nonna,
comprendo che le ragioni che ti spingono a fare una cosa del genere
sono legate
alla famiglia e al desiderio di mantenere la disciplina.
Però … zia Moe è tua
figlia, sei davvero sicura di volerlo fare? Nonna?-
Non la sentii
rispondere, pertanto la chiamai. Questo confermava i miei pensieri:
dopotutto,
nonna Kyoko amava sua figlia, e fare una cosa del genere la stava
straziando. È
sempre stata una donna di polso, in quanto matriarca della famiglia, e
non ha
mai rivelato pienamente i suoi pensieri se non a me, la sua unica
nipote
femmina per un lungo periodo.
Per tanto, io
la conoscevo meglio di tutti, meglio forse dei suoi stessi figli. E
capivo che
stava male.
-Nonna, ti
prego: io lo so che la zia ha sbagliato, e non nego che spesso ho
desiderato …
che se ne andasse.-
> Tesoro,
tu più di tutti hai subito la sua rabbia e frustrazione, non
dovresti provare
compassione per lei.
-Posso assicurarti
che la mia non è compassione, nonna.-
In quel
momento entrò Yayoi, già vestita, con i capelli
acconciati, e le feci cenno di
avvicinarsi, continuando però a parlare al telefono; le
avevo detto la mia
situazione familiare, e volevo una persona amica che mi sostenesse in
quel
pesante discorso.
-Il fatto … è
che mi viene da pensare che, se avessi scelto voi invece della mia
vita, come
ha fatto la zia, forse mi ritroverei nella sua stessa situazione.-
> Maki, tu
e Moe siete due persone completamente diverse, che hanno avuto
esperienze
diverse; ma anche fossi stata nei panni di tua zia, credimi, non ti
saresti
comportata in questo modo.
Presi un
profondo respiro, passandomi una mano sugl’occhi.
-Cerca solo di
fare il bene della famiglia.-
> Anche Jin
è parte della famiglia.
-Gli ha fatto
del male?-
> No, ma
stava per convincere la famiglia ad allontanarlo, a rimandarlo a
Kagawa. Sono dovuta
intervenire io stessa.
Chiusi gli
occhi, profondamente turbata: non lo avevamo mai rivelato a nessuno, e
neanche
Genzo lo sa. Yayoi probabilmente lo ha intuito, soprattutto
perché sta seguendo
gli studi di psicologia, ma per rispetto non mi ha mai voluto chiedermi
niente.
È una delle
cose che, forse, mi spaventano di più della nostra famiglia,
e in particolare
di mia zia Moe.
-Nonna, per
caso la zia non ha preso più farmaci ultimamente?-
> Dice che
non ne ha bisogno, e sta riducendo le dosi.
Maki, ho
bisogno del tuo parere, lo sai che è uno di quelli che
contano di più per me:
cosa vorresti che io facessi?
Mi venne in
mente quando conobbi la zia Moe la prima volta: mi aveva guardato con
sospetto,
ma io l’avevo salutata educatamente, e dopo qualche momento
mi diede una
carezza sulla testa, sorridendomi con aria amichevole. Avrò
avuto si e no
cinque anni massimo. Quella era stata una delle rare volte che Oba-sama
mi
aveva toccata con tanta delicatezza, neanche quando mi aiutava con i
kimono era
tanto gentile.
Ripensai a
molte altre cose che io non vi rivelerò, perché
non è giusto nei confronti di
Oba-sama; vi basta sapere che, quando mi decisi di parlare, avevo lo
sguardo
corrucciato, sentivo le sopracciglia spingere sulla parte bassa della
fronte.
-Ti chiedo …
di farla rimanere nel ryokan. Se lo ritieni necessario, non permettere
che
abbia contatti con gli altri membri della famiglia. Ma ti chiedo di non
cacciarla.-
> … e con
Jin e Tomoko?
Giusto, adesso
Jin si era trasferito nella mia camera, e quindi era sotto lo stesso
tetto
della zia; e c’era anche Tomoko, che si era affezionata alla
zia, ma tenerla
accanto a Oba-sama non era una buona idea, almeno fino a quando la
situazione
non si sarebbe appianata.
> Maki, so
che questa tua scelta è a fin di bene, e non credere che ci
abbia pensato; ma
ti renderai anche tu che, per il bene di una, ci saranno altri ancora
più cari
che potrebbero soffrirne.
-Perché allora
mi hai chiesto il mio parere, se sai già che è
sbagliato?-
> Perché
non volevo sentirmi l’unica dissennata della famiglia.
Sorrisi
amaramente, e sono certa che anche mia nonna abbia sorriso allo stesso
modo,
dall’altro capo del telefono.
-… quando ci
sarà la prossima riunione di famiglia?-
> Tra una
settimana.
Mi sentivo in
dovere di andarci, di parteciparvi. Alzai lo sguardo verso Yayoi, che
per tutto il tempo
mi era rimasta accanto, in
silenzio; la guardai in silenzio, e mi venne in mente che sarei dovuta
stare
lontana da Genzo dopo cinque mesi di convivenza. Dovevo lasciare il
lavoro di
nuovo, con il rischio di essere licenziata, e avrei perso delle partite
della
mia squadra.
Rischiavo di
perdere la vita che avevo guadagnato per tornare indietro, e cercare di
evitare
di perdere un membro della mia famiglia, quell’unico membro
che era stato
sempre contrario alle mie scelte di vita! Lo ammetto, era un assurdo
doppio
senso.
Ma proprio non
me la sentivo di abbandonare Oba-sama.
-… ci sarò.-
> Come
desideri, raggio di sole.
Ci salutammo,
chiusi la conversazione telefonica, e cercai la mano di Yayoi,
stringendola e
tenendo lo sguardo basso; Genzo si sarebbe arrabbiato quando gli avrei
detto le
mie intenzioni, e di sicuro non avrei ricevuto un caloroso
“benvenuto” da parte
della famiglia, escludendo i miei genitori, Jin e Tomoko.
Ma sentivo che
la nonna aveva bisogno del mio sostegno: la sua voce mi era apparsa
più
affaticata del solito, la sua parlata era lenta, e anche per questo
motivo mi
stavo preoccupando ulteriormente; oltretutto, Moe era la figlia femmina
più
cara alla nonna Kyoko, nonostante tutto.
Mi sentii
scuotere: il mondo che conoscevo, che credevo di essermi lasciata alle
spalle,
in realtà non mi aveva mai abbandonato, e soprattutto si
stava come sfaldando,
le mie certezze traballavano pericolosamente, proprio quando in
Germania, al
contrario, avevo appoggiato parte delle solide basi che mi servivano.
Temo di aver
fatto male a Yayoi, perché stringevo la sua mano con tutta
la mia forza. Lei
però rimase in silenzio accanto a me, posando la mano libera
prima sulla mia
schiena, e poi sulla mano che stringeva; alla fine, mi parlò
a voce molto
bassa.
-Finiamo di
prepararci?-
Annuii.
-Dai,
raggiungimi in camera, che ti sistemo i capelli.-
Annuii di
nuovo, e la lasciai andare, guardando il suo vestito azzurro fluttuare
a pochi
centimetri dal pavimento, come un’elegante medusa, sparendo
dietro lo stipite
della porta; presi un profondo respiro, e il mio sguardo si
soffermò sulla scatola,
ancora chiusa, che troneggiava nella mia stanza.
Mi alzai
lentamente in piedi, avvicinando mici, e la tastai con le dita,
sentendo lo
scotch che, in un punto, aveva cominciato a staccarsi; lo tirai
leggermente, e
vedevo che si staccava via dal cartone rinforzato. A quel punto, diedi
un forte
strattone, e tolsi una prima parte, accanendomi subito dopo sulla
seconda,
sentendo una tremenda urgenza di aprirla.
La telefonata
aveva sconvolto la mia mente, fino ad adesso chiusa in quel nuovo mondo
occidentale; avvertii la sensazione di aver dimenticato le mie
tradizioni e i
miei ricordi legati alla mia casa e la mia famiglia. La mia sofferenza
della
perdita di Kojiro si era amalgamata con la mia vecchia
realtà perfettamente, e
quando avevo deciso di lasciare andare mio marito, inavvertitamente
avevo
lasciato andare via tutto il resto.
Tolsi la
seconda parte, ma la terza scoprii che era ancora ben stretta al
cartone, e mi
guardai intorno, cercando nella stanza qualcosa che potesse aiutarmi;
frugai
nel cassettone, nell’armadio, e infine mi avvicinai alla
scrivania. Niente,
maledizione niente!
-Maki? Tutto
bene?-
-Yayoi! Dimmi
che hai un paio di forbici!-
-Ah, si … si
aspetta, te le vado a prendere.-
Mi strofinai
le mani, le passai sul viso, continuai a fissare quella scatola con
crescente
ansia, e quando Yayoi tornò con le forbici gliele strappai
di mano, tornando
verso il cartone rinforzato e aggredendo il terzo strato di scotch,
strappandolo e rovinando la scatola, riuscendo finalmente ad aprirla.
A quel punto mi
fermai: sentii, dalla scatola, provenire un familiare odore di Ikebana,
tatami
e Shoji in carta di riso; allungai molto lentamente la mano dentro la
scatola,
fino a tastare qualcosa di morbido, fatto di stoffa. Sempre con molta
lentezza,
decisi di aprirla, e la prima cosa che vidi fu del rosa antico.
Era un
involucro color rosa antico, di stoffa, che presi delicatamente,
scoprendo che
dentro c’era una scatola di legno laccato, con sopra dei
fiori di susino; Yayoi
mi si avvicinò, ammirandola affascinata.
La liberai
dalla stoffa, e l’aprii. E per un momento rimasi senza fiato:
nell’interno di
stoffa rossa, c’era il mio guantone da softball, le mie
vecchie scarpe,
riparate e pulite (per la prima volta in dieci anni veramente pulite!)
e,
soprattutto, il mio pupazzetto portafortuna di Kojiro, con la maglia
della
nazionale giapponese del World Youth.
Accidenti, mi
veniva da piangere, ma misi la scatola da parte, frugando nuovamente
dentro il
grande pacco di mia nonna: i miei album di fotografie, le mie vecchie
riviste,
c’era persino la mia uniforme del liceo, e la guardai
divertita.
E infine, in
fondo alla scatola, loro. Sapevo che mia nonna me li avrebbe mandati: i
miei
kimono. Più precisamente i kimono con le calzature e gli
accessori per trucco e
capelli; c’erano i kimono con cui lavoravo al ryokan, quello
per il lutto,
quelli estivi. E c’era anche il mio Furisode, perfettamente
piegato, in fondo a
tutti.
Lo accarezzai,
preferendo non toglierlo dalla scatola, come fosse una cosa troppo
preziosa per
esporla alla luce.
-Maki, Yayoi,
Friedrich vi aspetta.-
Mi voltai,
guardando Isolde sorpresa. poi guardai la ia stanza, e mi resi conto
… che era
un completo disastro! Oh kami avevo sparso la roba ovunque! Sembrava il
campo
di battaglia di un’adolescente, non la stanza di una donna.
-Oh, oh cavolo
Isolde scusa! Metto subito tutto a posto!-
-Lascia
perdere, faccio io. Piuttosto finitevi di preparare, se non volete fare
troppo
tardi.-
-Isolde ha
ragione, dai andiamo di là Maki.-
-Ah aspetta.-
Mi fiondai in
bagno, e dalla mensola di vetro sotto lo specchio afferrai il fermaglio
che mi
aveva regalato Genzo, tornando poi da Yayoi.
-Ti prego,
acconciameli con questo.-
-Va bene, dai
sbrighiamoci.-
Cercammo di
essere veloci, e volammo giù dalle scale, afferrando i
cappotti pesanti e
uscendo dalla forte urlando a Isolde per salutarla, fortunatamente
Friedrich ci
aveva sentita e aveva aperto le porte, acceso la macchina e aperto il
cancello,
così fu solo necessario che noi entrassimo in macchina che
questa partì,
lasciando il cancello aperto mentre Isolde si affacciava dalla porta.
-Accidenti
siamo in ritardo!-
-Ma no,
tranquilla: Wakabayashi ha detto che la serata cominciava verso le nove
e
mezzo, e sono le nove adesso.-
-Ma c’è
traffico stasera! Faremo tardi!-
-Maki
calmati.-
-Non ci
riesco!-
-Dammi le mani,
forza.-
Obbedii, e
cominciò a massaggiarmi i miei polsi. Era una cosa che Yayoi
mi faceva empre
durante il suo soggiorno al ryokan: quando mi vedeva troppo agitata,
che fosse
per rabbia o altro, mi obbligava a sedermi e mi prendeva le mani,
massaggiandomi i polsi, per poi risalire fino ai gomiti; e,
incredibilmente,
riusciva sempre a rilassarmi, con in quel momento.
-Sta calma,
andrà tutto bene.-
-E se faccio
fare brutta figura a Genzo?-
-Ma
finiscila.-
-… e se
qualcuno mi dice qualcosa perché sono la sua ragazza?-
-Gli puoi
sempre tirare un pugno sui denti. E comunque hai la lingua troppo
affilata per
non riuscire a rispondere a tono.-
Sorrisi
divertita, ma sentivo chiaramente il cuore non calmarsi, per quanto
Yayoi
stesse facendo un ottimo lavoro; era terribile, ogni volta che la
macchina
rallentava mi sentivo morire, per poi riprendersi quando accelerava
nuovamente.
Alla fine,
però, rallentò e si fermò, e uno
sconosciuto ci aprì la porta, porgendo la mano
a Yayoi, che era prima di me ad uscire. Lei accettò con una
naturalità da fare
invidia, e io potei solo prendere fiato e accettare la mano, uscendo
dalla
macchina e guardarmi intorno, nervosa.
La scritta “Vier
Jahreszeiten Kempinski München” era bianca e a
grandi caratteri, l’aspetto
esterno era molto elegante e pulito, e se non fosse stato per dei flash
e per
la gente che si muoveva al suo interno, forse non ci sarei mai entrata;
invece
l’uomo che ci aveva fatto uscire alla macchina ci
aprì la porta, e a quel punto
fui obbligata a compiere il primo passo verso l’interno.
La prima cosa
che pensai fu: tappeti super-eleganti. Li sentii chiaramente sotto le
scarpe.
Poi pensai: troppa gente elegante; la quantità era
incalcolabile, e la mia
ansia era capace di far triplicare le persone presenti solamente nella
hall. Ne
vedevo gli abiti, ammiravo le acconciature, e li seguivo con lo sguardo
fino
alla sala, restando però paralizzata vicino alla porta.
Avevo solo un
pensiero in testa: “Voglio scappare, che ci faccio
qui?!”.
Cercai Yayoi
con la mano, stringendole le dita e portandola verso di me.
-Ridimmi
quello che mi hai detto prima.-
-Andrà tutto
bene, forza andiamo.-
E fu lei a
trascinarmi, perché io sentii letteralmente le gambe
paralizzate, come due
tronchi d’albero ben piantati nel terreno, tanto che dovette
strattonarmi più
di una volta per convincermi a camminare; seguimmo una coppia di
anziani, molto
eleganti, per i corridoi con legno e vetrate colorate, lampadari
cadenti dalla
luce dorata e persone eleganti che, di sicuro, erano molto a
più agio di me in
quegl’ambienti.
Alla fine la
camminata si fermò davanti ad una grande sala …
dove se io mi mettessi a
descriverla, ci metterei troppo tempo. Sappiate solo che quando vidi
tutta
quella gente, in quella stanza, di quell’albergo, mi sentii
completamente
spersa, e il mio primo istinto fu quello di cercare la figura di Genzo;
ma
ovviamente non riuscii a trovarlo, troppi uomini, troppe donne, troppe
persone.
“Maki, calma,
calma, respira. Ricordati che Genzo ti ha detto che sarebbe arrivato di
sicuro
prima di te, perché la serata l’ha organizzata la
società con altri sponsor.
Quindi c’è.
Ora entra
dentro e trova il tuo tavolo.”
-Pronta?-
Annuii a
Yayoi, senza guardarla in faccia.
-Si, pronta.-
E feci un
primo passo; un giovane cameriera mi si avvicinò,
chiedendomi se avevo
l’invito. Risposi meccanicamente, seguendo le istruzioni di
Genzo.
-Ci devono
essere due prenotazioni a nome di Wakabayashi.-
-Ah
certamente, ben arrivate. Prego seguitemi.-
E il giovane
ci fece strada, attraversando tavoli rotondi, gente in piedi che
chiacchierava
e sorseggiava, fino a raggiungere il nostro posto, un tavolo abbastanza
centrale dove tutti, in quel momento, si voltarono
guardare me e Yayoi.
-Prego, datemi
pure le giacche.-
“Maki, sei un
Akamine! Testa dritta e sicurezza!”
Compii
lentamente l’operazione, rivelando il vestito rosso, e
aspettai la mia amica
per potermi sedere mentre un secondo cameriere ci portava due bicchieri
di
spumante; Yayoi lo ringrazio con un sorriso, e io feci un semplice
cenno con la
testa, troppo nervosa per riuscire anche solo a parlare. La mia amica,
al
contrario, sembrava così a suo agio!
-Ma come fai?-
-Eh?-
-Come fai a
stare così tranquilla! Insomma, hai visto in che posto
stiamo?-
-Maki, questi
sono tutti semplici uomini e donne. Mi preoccupa molto di
più un paziente in
una grave condizione fisica che tutta questa gente.-
Ancora una
volta, ammirai la tranquillità di Yayoi, e la spinsi a fare
con me un piccolo
brindisi, sorridendo divertita e guardandomi intorno con molta
più calma.
-Signora
Akamine!-
-… signor
Franz! Salve!-
Mi alzai in
piedi per salutarlo, stringendogli la mano. Era elegantissimo e
sembrava ancora
più alto in quel completo, mentre mi parlava amichevolmente.
-Sono molto
contento che sia venuta.-
-La ringrazio dell’invito.
Questa è Yayoi Aoba, la mia amica.-
-Salve, Franz
Beckenbauer.-
Ovviamente
Yayoi non comprendeva il tedesco, e io mi affrettai a tradurle quello
che
dicevamo, in modo da poterla far partecipare.
-Allora, come
ti sembra il posto?-
-Devo ammettere
che sono un po’ nervosa, non mi è mai capitato di
partecipare ad eventi
simili.-
-Beh, sappi
amica mia che tu e la signorina Yayoi siete assolutamente meravigliosa.-
Sentii un
flash in faccia, e mi girai sorpresa, trovando un fotografo che ci fece
altre
due-tre foto, e solo all’ultima ebbi la forza di fare un
microscopico sorriso;
quando il fotografo se ne andò, presi fiato, ero
scoraggiata! Le mie prime foto
e sono sicura che avevo una smorfia tremenda in faccia!
-Tutto bene?-
-Yayoi,
giustamente, dice che non sono abituata, ed in effetti non mi piace
farmi fare
le foto così; ma capisco che l’evento è
molto importante, e per una buona
causa.-
-Si, siamo
soliti dare queste serate assieme ai nostri sponsor per finanziare dei
progetti
di solidarietà.-
Sinceramente
non chiesi ulteriori specifiche, perché avevo la sensazione
che fosse tutto
molto bello e ridondante, ma anche estremamente … vuoto: la
gente che
chiacchierava mi pareva come fatta di cartapesta, dal sapore sciapo
nonostante
gli abiti eleganti. Il mio nervosismo di prima si stava lentamente
spegnendo
nelle chiacchiere con il signor Franz, che anche lui, nonostante tutto,
pareva
fatto di cartonato.
Per un attimo,
temetti che anche Genzo fosse così quella sera, e me lo
ricordai con addosso la
sua felpa mentre chiacchieravamo sul tavolo della cucina.
-Maki
Akamine?-
Mi voltai. Una
sconosciuta.
-Si?-
-Salve, sono
Idda Gruntig, della Bunt. Non so se conosce la rivista.-
Cronaca rosa.
Ok, non è particolarmente scandalistica, possiamo essere
gentili, anche se si è
messa sedere nella sedia accanto a me che credo, anzi no sono certa,
sia la
sedia di Genzo.
-Si certo, mi
dica pure.-
-Volevo farle
qualche domanda su lei e Genzo Wakabayashi, se lo vuole.-
Tradussi la
richiesta a Yayoi, chiedendole consiglio. Lei, per tutta risposta,
annuì.
-Va bene,
chieda pure.-
-Da quanto
tempo state insieme?-
-Ufficialmente
sono cinque-sei mesi.-
E già ne
rimase sorpresa, cavolo Genzo! Ma che hai combinato fino adesso?
-E vi
conoscevate già o no?-
-Lo conoscevo
di fama tramite mio marito.-
-Suo marito?-
-Kojiro Hyuga,
era un calciatore …-
-Oh ma certo!
Oh santo cielo!-
E si agitò,
facendomi dubitare sulla sua sanità mentale, tuttavia la
giornalista si calmò e
si spiegò.
-Sapevo che il
suo nome mi era familiare: ho scritto un articolo per la stampa tedesca
su lei
e il suo defunto marito. Sono addolorata della sua perdita.-
-Anch’io, la
ringrazio.-
-Immagino che
Wakabayashi le abbia dato una mano nel suo lutto.-
-A dire la
verità no.-
La faccia
della giornalista mi fece sorridere divertita, e nel frattempo che si
riprendeva tradussi quello di cui avevamo parlato a Yayoi, che a sua
volta
sorrise.
-Il fatto è
che io e Genzo non ci conoscevamo per niente, gliel’ho detto.
Quando ci siamo
rivisti, quest’estate, eravamo due perfetti estranei.-
-E come siete
finiti a stare insieme?-
Mi rivolsi a
Yayoi.
-Le dico che
lavoravo in un ryokan? O mi mantengo sul vago?-
-… mantieniti
sul vago, credo che il loro concetto di “cameriera del
ryokan” sia molto meno
poetico del nostro.-
E allora mi
rivolsi alla giornalista, cercando d’impastare qualcosa di
più affine alla
realtà che non facesse pensare male.
-Per una serie
… di circostanze … c’è
capitato di incontrarci e conoscerci, e pian piano siamo
diventati amici … e successivamente abbiamo provato qualcosa
di molto più forte
dell’amicizia.-
La giornalista
sembrava incantata dalla mia sintesi, pareva volermi divorare con gli
occhi
mentre cercava di carpire qualche informazione in più.
-E chi è stato
il primo a dichiararsi?-
… oh dai, la tentazione
era troppo forte!
-Lui.-
-Davvero?!-
Per la seconda
volta la giornalista era stralunata, e stavo per raccontarle tutto
quando
sentii una mano sulla spalla, facendomi alzare lo sguardo. Genzo.
-Buonasera
signorine.-
-Genzo.-
-Ah, signor Wakabayashi,
sono Idda Gruntig, della Bunt.-
La guardò
perplesso, ma non c’è da stupirsi dubito che lui
abbia mai letto qualcosa di
cronaca rosa, e gli dissi della rivista in giapponese; quando lo
scoprì rimase
ancora più palesemente perplesso, e a me venne da ridere, le
sue sopracciglia
parevano quelle dei cartoni animati.
-Stavo facendo
qualche domanda alla signora Akamine a proposito di voi due, e mi ha
rivelato
che lei è stato il primo a dichiararsi dei due,
può confermarmelo?-
Ahia, adesso
mi sgriderà. Scusami Genzo, ma giuro che non ho saputo
resistere!
-Si, è vero:
Maki, ancora adesso, è profondamente legata a suo marito,
che è stato mio amico
e rivale nel calcio, per cui provo tutt’ora molta stima.
Tuttavia i miei
sentimenti per lei sono sempre stati sinceri, per quanto non abbia
avuto
relazioni degne di tale nome, e volevo dimostrarglielo, e
l’unico modo che
conoscevo era essere sempre sincero con lei, anche in quel momento.-
Se fosse stato
un fumetto, la giornalista avrebbe avuto dei cuoricini al posto
degl’occhi,
mentre io avrei emanato fumo dall’imbarazzo; fortunatamente
ero già seduta,
perché dubito che dopo un simile discorso avrei avuto la
forza per mettermi in
piedi. Tuttavia ne ero tremendamente felice, e posai la mia mano sopra
quelle
di Genzo, sorridendogli.
Il fotografo
che passò non perse l’occasione di farci una foto,
e questo mi fece nuovamente
abbassare la mano, e che cavolo era un momento intimo, non si
può proprio fare
niente in quei posti! Scommetto che anche quando vai in bagno ti fanno
la foto.
La
giornalista, intanto, si era ripresa.
-E lei, Maki?
Come ha reagito?-
-… all’inizio
ero sorpresa … e spaventata. Non da lui, ma dai miei
sentimenti: mio marito è
stato il mio primo amore, e non c’era che lui per me. E per
di più Genzo ... all’inizio
pensavo che con lui avrei avuto solo grattacapi e problemi.
Ma …
conoscendolo … mi sono resa conto che forse era di questo
che avevo bisogno: di
ricominciare … totalmente da zero, con una persona
… che non credevo capace di
spingermi addirittura a trasferirmi in un altro Paese pur di starci
insieme.
Forse anche per questo l’ho fatto.-
E gli rivolsi
un’occhiata piena di gratitudine. E lui? Lui
s’imbarazzò, cercando di darsi un
contegno mentre io sorridevo divertita.
La
giornalista, intanto, sembrava veramente colpita dalla mia spiegazione,
e si
alzò in piedi, porgendomi la mano per stringergliela.
-Grazie, non
credo di aver bisogno di altre domande. L’articolo
sarà sul prossimo numero se
è interessata.-
-La ringrazio,
buona serata.-
E la donna si
allontanò con il suo vestito viola scuro, mentre io sentivo
quella mano
prendermi la vita, Genzo si abbassò fino al mio orecchio per
parlarmi.
-Amo e odio la
tua schiettezza.-
Sorrisi.
-Come va?-
-Questa è la
quarta intervista che concedo, non c’è la faccio
più.-
-Vuoi già
andare via?-
-E perdermi il
discorso buonista di Karl? Scherzi?!-
Mi venne di
nuovo da sorridere, lasciando che l’uomo si sedesse
lì, dove prima c’era la
giornalista, proprio mentre si stavano abbassando le luci; a quel punto
mi
accomodai anch’io, raccontando brevemente ciò che
era accaduto a Yayoi, la
quale mi si avvicinò ulteriormente per farsi aiutare nei
minuti successivi.
**
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Capitolo 17 *** Marienplatz (I°Parte) ***
XVI:
Marienplatz
(piazza di Maria)
I°Parte
-Miei cari
amici …-
-Oooh,
cominciamo bene …-
-Siamo qui
riuniti non per parlare del nostro ennesimo successo come squadra
…-
Si sentì
qualche risata e commento a tal proposito, ma avvertii chiaramente
Genzo dietro
di me che commentava.
-Tzé, ma
sentitelo.-
-Bensì siamo
qui per un importante evento che, come ogni anni, ci coinvolge tutti:
come
sapete, la nostra associazione è da sempre propensa a
partecipare a progetti di
solidarietà, e ogni anno vi invitiamo a partecipare con le
vostre offerte, che
come sempre sono generose e dimostrano … la vostra profonda
generosità.-
-Lo sapevo che
l’avrebbe letta, guarda come storce la bocca! Ricordami di
dirgli che mi deve
dieci euro.-
Mi voltai
verso di lui cercando di fare una faccia sconvolta e contrariata, ma mi
scappava da ridere e lui ghignò alla mia reazione; tornai a
guardare Karl, in
piedi mentre parlava ai presenti, nascondendo sul piedistallo il foglio
che
teneva con sé.
-In quanto
capitano della squadra sono qui per ringraziarvi e per annunciarvi che,
anche
per quest’anno, le donazioni hanno superato le nostra
aspettative, e che ancora
una volta riusciremo a realizzare l’ennesimo passo per dare a
chi ne ha più
bisogno un futuro sicuro e migliore. Grazie a tutti.-
E mentre
partiva l’applauso, il tedesco scese giù dalla
postazione, avvicinandosi verso
dei signori di bell’aspetto che gli stringevano la mano e gli
parlavano con un
sorriso soddisfatto sulle labbra; il mio applauso fu piuttosto fiacco,
non che
ci credessi ai “progetti di
solidarietà”, ma eventi di quel tipo mi erano
estranei e, personalmente, non mi sapevamo veramente di
“generosità”.
-Mi aspettavo
che dicesse qualcosa di più, ma non importa, è
più che sufficiente per
prenderlo in giro per il resto del mese.-
In questo
caso, però, non potevo certo essere d’accordo con
il mostro seduto dietro di
me! Mi voltai verso di lui, e provai a sgridarlo nonostante avessi
ancora la
risata di prima che si smaltiva in corpo.
-Genzo Wakabayashi,
sei proprio una bestia! E soprattutto un maleducato, per colpa tua non
sono
riuscita a tradurre tutto a Yayoi!-
-Bah, non si è
persa granché.-
-Ma dai!-
-La generosità
non si dimostra con cene di gala ed eventi mondani come questo, e tu
sei d’accordo
quanto me.-
-… è vero. Però
se non avvenissero eventi del genere, credi che la
“generosità” di questi
signori si smuoverebbe per fare qualcosa di utile?-
-Touché.-
Ci sorridemmo
con aria complice, e proprio in quel momento Karl ci raggiunse.
-Allora Genzo,
hai abbastanza materiale per darmi sui nervi?-
-Assolutamente
si, nonostante hai tagliato metà del discorso e sei scappato
appena ne hai
avuta l’occasione.-
Ridacchiai
divertita, poi mi alzai in piedi per fare le presentazioni.
-Karl, questa
è la mia cara amica Yayoi Aoba.-
-Piacere.-
-Piacere mio.-
Fortunatamente
per Yayoi Karl conosceva un pochino di giapponese, così non
ci fu bisogno della
mia onnipresenza, e Genzo se ne approfittò per rivolgermi
nuovamente la parola.
-Allora, cos’avete
fatto oggi mentre non c’ero?-
-Mah, niente
di che, ci siamo fatte una passeggiata e ci siamo inzuppate con la
pioggia di
stamane.-
-Beh, mi
sembra che sia stata una giornata proficua, no?-
Scossi il capo
sorridendo, lanciando un’occhiata verso Yayoi, in quel
momento stava
tranquillamente conversando con Karl, mescolando al giapponese anche
l’inglese,
con il tedesco che sembrava comprenderla perfettamente, rispondendole
con assoluta
tranquillità, a volte alzando la voce per il rumore di
sottofondo.
-E lei? Come sta?-
-… ha telefonato
a Misugi. Gli ha dato un ultimatum.-
Genzo ne
sembrò sinceramente sorpreso, e io mi avvicinai
ulteriormente a lui, per quanto
stessimo parlando in giapponese non mi andava che qualcuno ci sentisse.
-Gli ha detto
chiaramente che lo ama, ma che non è disposta a continuare
la situazione di
prima; per tanto o lui si da una mossa, oppure lei lo lascia.-
-Beh, se per
lei era la cosa migliore da fare non ho molto da dire.-
Io annuii, ma
ero lo stesso preoccupata: per quanto Yayoi fosse una donna con la
testa sulle
spalle, nascondeva una fragilità che mi spingeva ad essere
preoccupata per lei;
se mai si fossero lasciati, quei due, non credo che la mia amica ne
sarebbe
uscita completamente illesa.
Sentii Genzo
prendermi la mano, e alzai lo sguardo verso di lui, incontrando i suoi
occhi
penetranti ma rilassati.
-Aoba può
affidarsi ad un’amica come te, quindi non corre pericoli,
giusto?-
Era strano
come, in certe occasioni, potesse rivelare questa fiducia nei miei
confronti,
mi metteva in imbarazzo, e io potei solo annuire, cercando di non
arrossire
come al mio solito.
-C’è altro?-
Ah, la telefonata
di mia nonna. Dovevo dirglielo. Anche se non l’avrebbe presa
bene.
-Ah si, mi ha
chiamato …-
-Ehi Genzo!-
Alzammo
entrambi lo sguardo, e per un attimo mi venne un colpo: in piedi,
dietro di
noi, c’era un secondo Genzo, con i capelli più
lunghi e l’aria decisamente più
gioviale dell’orso che, in quei secondi, mi lasciò
la mano e si alzò in piedi
per salutare il suo simile.
Pian piano,
mentre scorrevano i secondi, trovai molte più differenze tra
i due: lo sconosciuto
aveva la pelle più chiara e i lineamenti più
dolci di quelli duri e severi di
Genzo, oltre ad essere molto più magro.
-Che ci fai da
queste parti?-
-Vengo da
parte di nostro padre, sai com’è non perde
occasione di partecipare a queste
manifestazioni.-
Il loro
padre?! Oh Kami, quello era uno dei due fratelli di Genzo!! Che colpo
di
fortuna!! Mi alzai lentamente in piedi mentre Genzo e suo fratello si
voltavano
verso di me, quest’ultimo con aria colpita e cordiale; al
contrario, il mio
orso sembrava infastidito che io mi fossi mossa, come se sperasse che
l’altro
non mi notasse.
-Genzo?-
-Maki, questo
è Akio. Akio, la signora Maki Akamine.-
-Molto lieto.-
Io mi aspettai
che mi stringesse la mano, invece porto il dorso sulle labbra. Beh, non
si
poteva certo dire che non era un galantuomo, ma così era fin
troppo
imbarazzante, e l’orso accanto a me cominciò a
rivelare qualcosa di più oltre
al fastidio, così separai il più velocemente
possibile la mia mano da quella
del parente, che sorrise divertito.
-Non si
preoccupi: sono sicuro che oltre a Genzo anche la mia fidanzata mi
avrà
lanciato un’occhiata di fuoco.-
E fece un
cenno alla sua destra: mi sporsi, e notai subito la ragazza dai capelli
lunghi
e neri e l’abito blu che lanciava continue occhiate verso di
noi.
-Temo che non
si fidi di me, lei cosa ne dice?-
-… non mi
sorprenderebbe.-
-Ah, colpito e
affondato.-
E rise, dovevo
ammettere che Isolde aveva ragione, Akio era così diverso da
suo fratello:
tanto per cominciare, teneva le mani in tasca e la camicia senza
cravatta
sbottonata sui primi tre bottoni. Eppure il suo completo era molto
elegante, e
il suo sorriso amichevole non gli dava l’aria di un
ragazzaccio, solo di un
tipo che facilmente faceva amicizia con gli altri.
-Allora, com’è
vivere nella casa del mio scorbutico fratellino?-
-Di sicuro meglio
della tua giungla amazzonica, nascondi ancora la biancheria sporca
sotto il
letto?-
Rimasi
sorpresa da quell’informazione, ma l’altro sorrise
divertito, passandomi una
mano tra i capelli.
-Purtroppo no,
da quando Amelia mi ha messo in riga posso assicurarti che ho dato una
“potatina”
alla giungla.-
-Mi
sorprende.-
-Già, sarà
anche per questo che alla mamma piaccia così tanto quella
ragazza.-
-Allora sarai
tu il primo a far felice la mamma e ad accasarti?-
-Ehi, vacci
piano fratellino, sono ancora giovane e aitante io.-
-Se se, come
no, credi che non abbia visto la pancia che nascondi sotto la camicia?-
-Solo perché sei
cresciuto in altezza non significa che adesso riesci a sconfiggermi
nella
lotta.-
-Vogliamo
vedere?-
-No dai, poi
che direbbe la stampa sulla famiglia Wakabayashi?-
E gli diede
una leggera pacca sulla spalla, sorridendo mentre io osservavo quella
scena
affascinata: sono figlia unica, pertanto mi colpisce sempre il legame
tra
fratelli. Kojiro, poi, era il fratello maggiore nella sua famiglia, e
lo avevo
visto prendersi cura dei suoi fratellini e di Naoko con amore immenso;
qui,
invece, era Genzo il più piccolo, e lo s’intuiva
dall’atteggiamento del fratello
nei suoi confronti.
E per quanto
mantenesse il suo atteggiamento distaccato, vidi chiaramente
negl’occhi di
Genzo qualcosa di più morbido delle sue solite occhiate
distaccate, e mi venne
da sorridere. Akio, intanto, mi rivolse di nuovo la parola.
-Invece, come
sta Isolde?-
-Ah bene. Mi ha
parlato di lei e della sua famiglia.-
-Oh cielo, “di
lei”?! Dammi del tu, già mi basta Genzo per farmi
sentire vecchio.-
-Ma sentitelo,
il matusa.-
-Ah, già,
quanti anni di differenza ci sono tra di noi?-
-Tra me e
Genzo tre anni, mentre tra me e Ichirou solo uno; in effetti tu sei
stato
quello inaspettato.-
-Già, e
infatti sono sempre una sorpresa per lei.-
-Soprattutto quando
si tratta di vederci, non sei venuto all’ultimo pranzo
insieme, mamma ci è
rimasta male.-
-Avevo un
impegno.-
E mi prese per
la vita, stupendomi e facendomi sentire in imbarazzo; guardai Akio
intimidita,
ma vidi che lui era sinceramente sorpreso, e sorrise ulteriormente,
passandosi
nuovamente una mano tra i capelli.
-Beh, questo
mi sorprende.-
E Genzo annuì,
sorridendo con aria soddisfatta, continuando a stringermi per la vita
mentre io
lo guardavo incuriosita: perché il fratello era tanto
sorpreso? Le precedenti
relazioni di Genzo non contavano più della famiglia. Ero
quindi … così
importante per lui? Oh Kami, ma che imbarazzo! Cioè si, lo
so, io sono
importante per lui, ma comprenderlo ulteriormente in quel modo era
… insomma …
kami-sama!
-Bene, allora
ti lascio in mani sicure, ma voglio ricordarti che al prossimo invito
non puoi
dire di no: la mamma è abbastanza permalosa in questi casi.-
-Si lo so,
verrò sta tranquillo.-
-Allora vi
lascio soli. È stato un piacere Maki.-
-Ah, piacere
mio.-
-Genzo.-
-Salutami
Amelia.-
-Senz’altro!-
E si allontanò
nel mare di gente davanti a noi mentre Genzo continuava a tenermi
stretto a sé,
tanto che oramai mi ero abituata a quella stretta, ma quando vidi la
gente
guardarci abbassai il capo imbarazzata, mormorando all’uomo
accanto a me.
-Ci guardano
tutti …-
-Beh? Che guardino
pure, tanto la loro è solo invidia.-
E mi fece
scivolare con tremenda facilità tra le sue braccia,
prendendomi la mano e
sorridendomi con aria divertita.
-Balliamo?-
-… sono una
trave di legno.-
-Non importa,
tanto non devi guidare mica tu: quello con i pantaloni, almeno stasera,
sono
io.-
E mi fece
ridere, come ci riusciva a sempre, mentre mi accompagnava su quella
zona dove c’erano
altre coppie come noi, la musica a quella distanza si riusciva a
sentire, nonostante
il chiacchiericcio di sottofondo, e ben presto mi curai sempre meno
degli
sguardi che ci venivano rivolti.
All’inizio
rivelai la mia natura di pezzo di legno con i tacchi, ma pian piano
Genzo
cominciò a farmi sciogliere, arrivando addirittura a farmi
fare una piroetta,
con mio incredibile imbarazzo, prima di prendermi di nuovo tra le
braccia.
Era una
sensazione cullante, piacevole e assolutamente nuova: non avevo mai
ballato con
Kojiro, lui era più rigido di me in quei casi, e ritrovarmi
su una pista da
ballo era strano, tanto che non sapevo davvero come muovere i piedi;
poi, senza
fretta, presi il ritmo, e ben presto mi resi conto che non
c’era effettivamente
bisogno di muovere così tanto i piedi, e che era
più comodo tenere le mani
appoggiate sul petto di Genzo.
Un brividi mi
passò sulla schiena quando sentii le sue braccia stringermi
a sé, e sorrisi
imbarazzata, ritrovandomi quegl’occhi scuri che mi concedeva
solo quando
eravamo soli in cucina, o sulle scale, o in quei brevi momenti quando
nessuno
ci guardava.
Ma stavolta
eravamo sotto gli occhi di tutti, eppure era capace di una tale
espressione che
proprio non riuscivo a non sentirmi felice; e, anche per quella
felicità, mi
resi conto che dovevo dirgli della telefonata con mia nonna: non gli
sarebbe
piaciuto, ma era giusto nei suoi confronti.
-Senti,
Genzo.-
-Che c’è?-
Parlava a
bassa voce, e mi mancò per un momento il coraggio, avrei di
sicuro distrutto
quel momento d’intimità con le mie parole, ma se
non glielo avessi detto
allora, probabilmente non ne avrei più avuto
l’occasione.
-Oggi … oggi
mi ha telefonato mia nonna.-
-Ah, come sta
Kyoko-san?-
La chiamava
per nome perché mia nonna glielo aveva chiesto, ma sentirlo
pronunciare quel “san”
mi faceva sorridere d’orgoglio, per il rispetto che comunque
lui portava nei
confronti dell’anziana.
-Non sta molto
bene: ti ricordi che ti ho parlato di mia zia?-
-Si, certo. È successo
qualcosa?-
-Beh, ecco …
tra una settimana ci sarà una riunione di famiglia
… per decidere sul da farsi …-
-E stai
pensando di andarci …-
Terminò la mia
frase, e per un momento ci fermammo dal ballare. Ecco, ecco lo sapevo,
adesso
si arrabbiava; alzai lo sguardo verso di lui, e in effetti vidi uno
sguardo
contrariato. Poi però, inaspettatamente, riprendemmo ad
ondeggiare, e sbuffando
appoggiò il suo mento sopra la mia testa, portandomi a
chinarla leggermente
mentre mi parlava.
-E come mai ci
vuoi andare?-
-… perché mia
nonna ha bisogno del mio aiuto: sai, lei non vorrebbe allontanare mia
zia, è
sua figlia, e nonostante tutto le vuole bene.-
-E tu sei d’accordo
con lei, giusto?-
-Beh … si.-
Sospirò di
nuovo, stavolta lo sentii chiaramente fare pressione sulla mia testa,
facendomi
anche male.
-Possibile che
dopo tutto quello che ti ha combinato ancora ti ostini a prendere le
sue
difese?!-
-Ahio, ma io
mica prendo le sue difese! Sono preoccupata per la nonna!-
-Balle!-
-Ehi!-
Alzai lo
sguardo verso di lui e non lo vidi particolarmente arrabbiato, o deluso
o
risentito, ma era quanto meno infastidito, con lo sguardo accigliato;
non mi
accorsi nemmeno se ci fossimo fermati o stessimo continuando a ballare.
Presi un
profondo respiro e strinsi leggermente le mani sulla sua giacca.
-Lo so che
sono diversa da mia zia, me lo hai già detto. Ma proprio non
posso smettere di
pensarci; oltretutto non hai idea di quello che ha passato e che sta
ancora
passando.-
Ancora una
volta mi tornò in mente quando la zia, la prima volta, mi
accarezzò la testa,
sorridendomi gentile. No, per quanto mi avesse ferita in molti modi,
non potevo
proprio lasciare che le cose prendessero questa piega.
All’improvviso
sentii qualcosa sulla tempia; alzai gli occhi, e mi accorsi che erano
le labbra
di Genzo, con mia enorme sorpresa. quando lui tornò a
guardarmi aveva ancora
uno sguardo infastidito, ma era più ammorbidito, e
appoggiò nuovamente il suo
mento sulla mia testa.
-Non c’è
niente da fare: sei una ragazza troppo buona, quella lì non
si merita proprio
il tuo aiuto.-
Anche se era
contrario, stava cercando di accettare il mio desiderio di tornare in
Giappone.
Accidenti, questo suo modo di fare mi stava viziando, avevo come
l’impressione
che non sarebbe stato capace di dirmi di no qualsiasi cosa gli avessi
chiesto
in quel momento; sorrisi, e mi strinsi al suo petto, sentendo
l’odore della sua
colonia provenire dalla stoffa.
-Grazie
Genzo.-
-Guarda che
non ti ho mica detto che ci vai.-
-… so che ti
costa, ma prometto che tornerò presto.-
-… l’hai
promesso, guarda che se manchi alla parola te lo rinfaccio per il resto
della
tua vita.-
Sorrisi
divertita, stringendomi ulteriormente, e lui ne approfittò,
prima di farmi
ondeggiare un po’ più forte, portandomi a
staccarmi e tornando a ballare, alla
fine della musica mi accompagnò elegantemente al tavolo,
avevano cominciato a
servire la cena, e lui si allontanò un momento per parlare
con qualcuno.
Yayoi ne approfittò
per avvicinarmisi.
-Ti sconsiglio
di assaggiare quell’antipasto.-
Guardai il
pesce crudo sul piccolo piatto, e la composizione mi sembrò
molto bella e
raffinata, tanto che rivolsi un’occhiata titubante alla mia
amica, e lo
assaggiai lo stesso.
Volete sapere
la verità? Avrei dovuto darle retta.
-Oh kami!-
-Io ti avevo
avvertita.-
Ci guardammo,
e un secondo dopo ci stavamo trattenendo dal ridere. Poi lei mi rivolse
nuovamente la parola.
-Allora? Come
l’ha presa Wakabayashi?-
Ma avevamo
parlato forte? Com’era possibile che lei lo sapesse? Ah,
certo, era la mia
migliore amica, era ovvio che sapesse di cosa avevamo parlato io e lui,
anche perché
aveva anche ascoltato la conversazione telefonica.
-Insomma, mi
lascia andare, ma di certo non è contento.-
-Però ti
lascia andare, no? È un buon segno, giusto?-
E annuii. In
quel momento Genzo tornò al tavolo, sedendosi accanto a me e
guardando l’antipasto
con aria chiaramente dubbiosa. Io e Yayoi ci avvicinammo a lui.
-Vuoi un
consiglio?-
-Non
assaggiarlo.-
E lui annuii
gravemente, tenendo le posate intonse ai lati del piatto mentre i
camerieri
passavano tra i vari tavoli; la cena passò così
tra una chiacchiera e l’altra,
Karl si era unito al nostro tavolo e si stava divertendo a stuzzicare
Genzo,
che ricambiava con la stessa moneta, parlando prima delle loro sfide
come
rivali, e poi delle loro partite come compagni di squadra.
Però mi colpì
anche che, ad un certo punto, si fossero messi a parlare anche di
argomenti
come politica e cultura: la conoscenza letteraria di Genzo
m’impressionò non
poco, nonostante ricordassi chiaramente la libreria che aveva in
salotto. Karl
scoprii che era un amante di Agatha Christie, mentre Genzo apprezzava
molto di
più Stephen King.
-Non mi
sorprende che ti piace l’horror e il thriller.-
-Però neanche
lui è riuscito a guardarsi
“l’esorcista” del tutto.-
-Davvero?!-
-Io però ho
resistito fino a metà, tu invece già alle prime
scene ti eri volatilizzato in
cucina, chissà come mai!-
E Karl si
beccò in pieno la stoccata. Mi raccontarono di quella
giornata, e di come non
fosse la prima volta che loro e i compagni di squadra si riunissero per
passare
i pomeriggi fuori dagl’allenamenti.
-Una volta
abbiamo avuto la pessima idea di fare un torneo di calcio con i
videogame.
Eravamo divise in squadre da due, e ti posso assicurare che Genzo si
è mangiato
il suo compagno!-
-Perché, tu? Ogni
volta che perdevate gli lanciavi certe occhiatacce!-
Io e Yayoi
ridevamo proprio di gusto, parlando però anche noi dei
nostri momenti passati
insieme, come per esempio le nostre riunioni con le altre ragazze della
Nazionale.
-Sanae
organizzava sempre tutto al minimo dettaglio, ce l’aveva
proprio nel sangue.-
-Non mi
sorprendere, li ha sempre fatti stare in riga quegli scatenati di Ryo e
gli
altri.-
E mi ritrovai
ad ascoltare i racconti di quando ancora non li conoscevo, di quando
erano
molto più piccoli e, forse, più indiavolati;
sentire com’era stato mio marito
prima di conoscerlo mi sorprese non poco, e Yayoi si voltò
verso di me,
sorridendo mentre diceva quell’appunto.
-Da quando ti
aveva conosciuta, mi era sembrato molto meno arrabbiato.-
-Davvero? Non
lo sapevo.-
-Ti posso
assicurare che non lo chiamavano “Tigre” per
niente.-
-In effetti
ricordo che spesso litigavamo io e lui durante i nostri primi
appuntamenti; poi
il tempo ci ha fatti calmare … almeno in parte.-
E sorrisi
divertita verso Yayoi, prima di voltarmi verso Genzo; e per un istante,
mi
accorsi chiaramente di quello sguardo a metà fra il ferito e
il malinconico. Cercai
all’istante la sua mano, e gliela strinsi, sorridendo
leggermente.
Genzo, mio
stupido orso, quello era il mio passato; tu eri e sei il mio presente.
Continuammo a
chiacchierare, io gli tenevo la mano senza pensarci troppo, e ben
presto
arrivarono i dolci e la frutta; e con essi, la gente
ricominciò a rialzarsi,
per andare a ballare o chiacchierare fra di loro.
E per la seconda
volta, qualcuno raggiunse il nostro tavolo.
-Genzo!-
Era uno
sconosciuto con i capelli biondo scuri, e quando lo vide Genzo si
alzò subito
in piedi per stringerli la mano, parlandogli in maniera confidenziale,
ma con
una strana aria in volto, come se il rivederlo fosse stata davvero una
sorpresa.
-Non mi sarei
mai aspettato di trovarti qui.-
-Che vuoi
farci, sono stato mandato dal mio allenatore per spiarvi, no? Scherzi a
parte, come
stai? Ho saputo della vostra vittoria sull’Hamburger.-
-Già …-
-Come stanno? Sono
sempre i soliti treni, che travolgono chiunque gli capiti davanti?-
-Nah, oramai
si sono calmati.-
-Beh, dopo
quanto è successo non mi stupisco.-
Era calata un’atmosfera
strana, di quelle malinconiche ma tremendamente tese, che mi fece
subito
preoccupare e guardare Genzo, aveva ancora quell’aria di
disagio, come se
parlare con quell’uomo fosse più difficile che
fastidioso; questo sembrava
avere lo stesso atteggiamento.
-Non voglio
infastidirti ulteriormente, volevo solo salutarti, era da un
po’ che non ci si
vedeva.-
-Già.-
-Allora buona
serata. Signori.-
E facendo un
cenno del capo se ne andò, e lo guardai andarsene incerta,
mentre Genzo si
sedeva accanto a me, l’aria serena che aveva qualche minuto
prima era
scomparsa, al suo posto c’era una sensazione amara, che gli
aveva visto solo
quando l’avevo spiato a bere in camera sua.
Karl prese la
parola.
-È Jonah
Sergevich, giusto? L’ex centrocampista
dell’Hamburger.-
-Si, lui si è
trasferito nel Colonia nello stesso periodo in cui sono venuto nel
Monaco dopo
quanto era accaduto.-
-Immagino che
avesse avuto dei precedenti incontri.-
-Si …-
La sua
risposta evasiva mi preoccupò ulteriormente, nonostante
avesse richiamato
qualcosa che da tempo mi aveva incuriosito, ovvero quello che era
successo
nella sua precedente squadra; avrei tanto voluto chiedergli di
più, ma l’immagine
di lui che beveva nella stanza e il suo atteggiamento adesso mi
rattrappivano
la voce in gola, impedendomi di parlare.
La serata, nonostante
tutto, era andata così bene, ci eravamo anche divertiti;
vederlo con quell’espressione,
arrivata in meno di cinque minuti, mi infastidì
profondamente, tanto che mi
alzai in piedi e mi rivolsi a lui in giapponese, in modo che solo i
presenti
della tavola ci potessero comprendere.
-Genzo,
facciamo una passeggiata.-
-… eh?!-
-Ho voglia di
andare via da qui, dai facciamo quattro passi.-
E gli porsi la
mano, guardando attentamente la sua reazione: all’inizio lo
lasciai
completamente spiazzato; poi, lentamente, la sorpresa lasciò
il posto allo
stupore, e poi ad un sorriso divertito mentre si alzava in piedi,
offrendomi il
braccio.
-Ogni suo
desiderio è un ordine.-
Mi voltai
verso Yayoi, che si alzò in piedi, e poi mi rivolsi a Karl.
-Vuoi venire
con noi?-
-… perché no? Comincio
a sentire caldo qui dentro.-
E tutti
quattro ci dirigemmo, ovviamente sotto l’occhio attento di
tutti, fuori dalla
sala, dove ci ridiedero i nostri cappotti; uscimmo
dall’hotel, e l’aria gelata
di Monaco m’investì le guance, facendo mi
rifugiare il collo e il volto dentro
il bavero del cappotto. Genzo, invece, s’infilò le
mani nelle tasche della sua
lunga giacca, rivolgendosi poi verso di me.
-Allora, dove
andiamo?-
-Ah?-
-Beh, tu
volevi fare quattro passi, no? Dove si va?-
Ah, cavolo,
non ci avevo pensato. In mio soccorso, arrivò Yayoi.
-Ci sono i
mercatini di Natale a Marienplatz?-
Karl le
rispose.
-Si, oramai
dovremmo essere in periodo.-
-Ne ho sentito
tanto parlare, vorrei andarci.-
-Mi pare una
buona idea, tu cosa ne pensi Genzo?-
-Si, si può
fare. Maki?-
Marcatini … di
… Natale?
-… si, dai,
andiamoci!-
**
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Capitolo 18 *** Marienplatz (II°Parte) ***
XVII:Marienplatz
(Piazza di Maria)
II°Parte
Uscimmo
dall’hotel, e di colpo mi sentii ricaricare di una strana
energia: sarà stato
forse il freddo dell’ultima metà di Novembre, o
magari camminare e
chiacchierare, scambiando in diversi momenti l’interlocutore
mentre la gente,
camminando, riconosceva i due sportivi e a volte ci obbligava a
fermarci, per
una foto o un autografo.
Fatto sta che
mi sentivo incredibilmente bene, nonostante cercassi di riparare
costantemente
le guance nel bavero del cappotto, accanto a me Yayoi osservava la
scena:
Schneider e Genzo erano attorniati da un gruppo di giovani fan, che
facevano
domande ai due uomini a proposito delle partite e del calcio mercato.
-Due sportivi
nel loro vero ambiente naturale.-
La donna
accanto a me sorrise mentre guardavo Genzo firmare l’ultimo
autografo e, come
me, alzare il bavero del suo cappotto, Schneider al contrario sembrava
quasi
avere caldo mentre tornavano verso di noi, riprendendo a camminare al
nostro
fianco.
-Scusate se vi
abbiamo fatto aspettare.-
-Figuratevi.-
Guardavo Yayoi
e Karl con una certa curiosità, ma cercavo di non pensarci
troppo, rivolgendo
invece i miei pensieri a Genzo, guardandolo e notando che il suo volto
era
decisamente più disteso rispetto a quando lo avevo spinto a
seguirmi fuori da
quella sala.
Aveva parlato
con un ex-compagno di squadra dell’Hamburger; ancora una
volta, quella storia
tornava a tentare la mia curiosità e a spingermi a chiedere
all’uomo cosa fosse
successo. Ma chiedergli di quella storia proprio ora che ero riuscita a
rilassarlo mi sembrò come gettarmi la zappa sui piedi,
pertanto ricacciai la
tentazione e continuai a camminare accanto a lui, rivolgendogli la
parola.
-Come va?
Meglio?-
Lui mi guardò,
e ci volle qualche secondo prima che mi rispondesse, prendendo perfino
un
respiro profondo.
-Si, va
meglio.-
Sorrisi
divertita, scuotendo il capo e rivolgendogli lo sguardo: non avrebbe
mai
ammesso che aveva avuto bisogno di allontanarsi da quel posto, o forse
non avrebbe
mai ammesso che ero brava a intuire le sue emozioni; al contrario di
Kojiro,
che le nascondeva nel suo atteggiamento serio e maturo, Genzo le
rivelava come
un bambino, in modo chiaro e limpido. Anche per questo mi era facile
comprenderlo.
Eppure, così
com’era facile intuire cosa gli dava fastidio, era difficile
vederlo lasciarsi
andare in atteggiamenti affettuosi, percepibili solo tramite i suoi
gesti
irruenti; come in quel momento, quando all’improvviso mi
prese la mano e quasi
mi obbligò a prenderlo sottobraccio, stringendola a
sé quasi possessivamente.
Lo guardai
sorpresa, aveva ancora in volto l’espressione imbronciata,
anzi sembrava ancora
più infastidito; o forse era solo imbarazzato quanto me.
-C’è molta
gente, stammi vicino o ci perdiamo.-
… una cosa
che, ancora adesso, non comprendo fino in fondo, è quanto
sono importante per
Genzo: ho quasi l’impressione che, se lo scoprissi, potrei
rimanere soffocata
da tutto quell’amore, e perderei la mia indipendenza che, so
perfettamente, è
una delle cose lui mi ammira di più. Eppure, per tutte le
volte che mi ha
sfiorata, anche solo con le parole, non posso fare a meno di chiedermi
quanta
passione ci mette, e quanta effettiva ne trattiene.
Svoltammo l’angolo,
e arrivammo a Marienplatz. E strinsi il braccio di Genzo, restando
senza
parole: era una piazza immensa, avvolta in una luce color ambra e oro,
con la
folla che passava tra di noi chiacchierando, avvolta nei cappotti,
nelle
sciarpe e nei copri capi; le bancarelle si estendevano per tutta la
lunghezza,
molte bianche ma alcune colorate da quello che contenevano e vendevano,
e c’era
un odore di dolciumi e cibarie inebriante.
Per me era la
prima volta, la prima volta che vedevo una cosa simile:
l’unico mercato che mi
veniva in mente era quelli di Naha, ed era fisso tutto
l’anno. Quelle, invece,
erano bancarelle che adesso avrei visto, per poi non vedere
più tra un mese o
due, lasciando vuota l’enorme piazza.
-Vogliamo
andare?-
Genzo me lo
domandò a bassa voce, ma io lo sentii lo stesso, e sebbene a
fatica (la
sorpresa mi aveva bloccato letteralmente le gambe),
m’incamminai, avvicinandomi
a Yayoi che, al contrario di me, aveva un’espressione
completamente entusiasta
in volto, tanto che mi si avvicinò per portarmi via da
Genzo; ebbi solo il
tempo di rivolgergli lo sguardo, prima di seguire la mia amica.
-Vieni Maki! Non
è fantastico?!-
-Come … come
facevi a sapere dei mercatini di Natale?-
-Beh, prima di
venire da te mi sono informata sugl’eventi qui a Monaco, e
speravo che avessimo
un’occasione per vederli. Guarda! Guarda qui che belli!-
E si avvicinò
ad un bancone, dove c’erano degl’angeli in
ceramica. Ero molto affascinata da
quelle figurine, erano dei lavori così raffinati, e mi
guardai intorno,
domandandomi se c’erano banconi che vendevano cose simili;
dolciumi, vestiario,
borse con sciarpe e guanti, gioielli, bambole. Un momento …
Mi avvicinai
al bancone che avevo visto con le bambole, alcune erano in porcellana,
con dei
vestiti bellissimi e i capelli acconciati, i loro abiti vittoriani
erano così
diversi da quelli delle bamboline della festa delle bambine; non
c’erano
kimono, visi con occhi a mandorla e capelli neri, ma pizzi e cuffiette,
capelli
biondi o castani e occhi azzurri fatti in vetro.
E sotto le
bambole c’erano scatole laccate chiuse, così per
curiosità ne aprii una … e ne
uscì fuori una musica; una mia compagna di classe aveva
ricevuto in regalo un
carillion, quel giorno lo aveva portato in classe e per tutto il giorno
aveva
fatto andare la melodia.
Le canzoncine
erano tutte diverse, ma ne riconobbi alcune, erano di musica classica;
forse la
mia preferita era quella del “Danubio Blu”, ma la
scatolina dove usciva non mi
piaceva, la fodera morbida all’interno e la ballerina erano
decisamente troppo
per i miei gusti. Forse qualcosa di più semplice, magari
come …
-Trovato
qualcosa?-
Alzai lo
sguardo sorpresa, Genzo era arrivato dietro di me senza che me ne
accorgessi;
guardò le scatole da oltre la mia spalla, una delle due era
piccola, con un bel
giglio smaltato sul coperchio, l’aria un po’
vecchia e l’odore era di tabacco,
probabilmente era una vecchia tabacchiera.
-Indecisa
sulle due scatole?-
-A dire la
verità no: ascolta …-
E aprii la
scatola con la ballerina, facendo sentire la melodia a Genzo, che
annuii.
-Il “Danubio
blu”.-
-Si, ma la scatola
non mi piace, mentre questa è carina ma non ha melodia.
Probabilmente prenderò
questa.-
-Aspetta …-
Mi prese le
scatole, e si rivolse all’uomo dietro il bancone, un buffo
signore con la barba
e il volto magro, con gli occhiali tondi tenuti al collo da una
catenina
dorata.
-Buona sera.-
-Mi dica.-
-Senta, è
possibile inserire in questa scatola la melodia del “Danubio
blu”?-
-Verifico
subito se ne ho un altro. –
Assieme al
vecchio uomo c’era una donna anziana con i capelli grigi
gonfi, che subito
prese una scatola di metallo, aprendone il contenuto al marito, il
quale
rovisto tra i vari pezzi di metallo e legno, fino a trovare uno strano
affare,
a cui spinse una levetta, facendo partire la melodia. Era la stessa.
-Si, ne ho un
altro. Se mi date la scatola posso sistemarlo subito.-
-Tenga.-
L’uomo si mise
la scatola sulle ginocchia, avvicinandosi una lampada per vedere meglio
mentre
la moglie gli porgeva gli attrezzi, tornando poi a sistemare il volto
di un
burattino, portandomi a spostare dal suo lato, guardando ammirata la
quantità
incredibile di pupazzi.
Principesse,
principi, re, regina, draghi, streghe, fate, gnomi, lupi. E sopra di
queste
sfere di vetro con la neve, e dentro figurine come palazzi, persone o
persino
animali.
Mi sembrò di
tornare bambina, e Genzo mi raggiunse immediatamente.
-Hai visto? Sono
bellissimi.-
Lui annuì, e
alzai lo sguardo, notando chiaramente uno sguardo malinconico nei suoi
occhi,
rivolto chiaramente ai burattini. Ripensai al fratello,
all’incontro avuto
prima e il suo atteggiamento: per quanto fosse stato tendenzialmente
possessivo
nei miei confronti, era molto più aperto e rilassato di
quando parlava con
altri.
-Ci hai mai
giocato?-
-No, no ma …
ma mia madre li usava, ricordo che quando aveva cinque anni, prima di
trasferirmi in Giappone, quando era a casa li tirava fuori. A me
piaceva
guardarli, anche se la strega m’inquietava.-
Guardai quella
che era seduta davanti a noi, ed effettivamente i suoi occhi mi davano
i
brividi.
-E qual’era il
tuo preferito? C’è qui?-
-Non lo so,
non lo vedo … aspetta … eccolo!-
Scostò qualche
burattino con la mano, e alla fine rivelò un burattino con
armatura e lancia. Sorrisi.
-Credevo
preferissi il mago.-
-Una volta mi
piaceva, ma poi ho scoperto che il cavaliere mi affascinava di
più, anche se lo
detestavo: era sempre in giro alla ricerca di avventure, salvava
tantissime
principesse ma non gl’interessava nessuna di loro, e nemmeno
le ricchezze che i
sovrani gli offrivano. Lui faceva l’eroe solo
perché gli andava, non lo capivo
questo atteggiamento.-
-Questo perché
sono sicura che, fin da piccolo, sei sempre stato un orso, con il
broncio che
faceva tanti capricci.-
-Ah, sei
ingiusta, ma devo ammettere che Babbo Natale non mi ha mai portato
molti doni.-
-Babbo …
Natale?-
-Si, Santa
Klaus, Bambin Gesù, chiamalo come ti pare. Lo conosci, no?-
-Veramente …
non molto.-
-Cosa?!-
-Chiedo scusa,
avrei terminato.-
Entrambi ci
voltammo verso l’anziano, che ci mostrò la
scatolina; me la porse molto
gentilmente, e io l’aprii delicatamente, sentendo
immediatamente “Danubio blu”
suonare, sorridendo felice; ero pronta a pagare, quando vidi Genzo
porgere i
soldi all’uomo, ringraziandolo e augurandogli una buona
serata. Rimasi esterrefatta.
-Beh? Che c’è?-
-Ma dovevo
pagarlo io.-
-… ma
finiscila, sciocchina. Tieni, mettilo qui dentro, la tua borsa
è troppo
piccola.-
Mi allungò una
borsa di stoffa, e io obbedii, seguendolo verso le altre bancarelle,
passando
davanti a quella delle caramelle, c’era persino un bancone
dove servivano birra!
-Piuttosto,
non conosci Babbo Natale?! Ma sai almeno cos’è il
Natale?-
-Si, si lo so,
ma non l’ho mai festeggiato: siamo una famiglia scintoista,
non seguiamo queste
festività. Perché, tu si?-
-Beh, si.-
-Non sapevo
che fossi cristiano.-
-In realtà non
lo sono, ma ricordo che fin da piccolo si faceva l’albero,
con palle luci e
tutto. E Isolde faceva sempre il presepe, lei è una
credente, ed è molto
affezionata a questa festività.-
-Non mi
stupisco, dopotutto parliamo di Isolde.-
E sorridemmo
entrambi, proseguendo per la gente, voltandoci solo un momento a
cercare Yayoi
o Schneider, vedendoli che anche loro ci cercavano, indicando poi un
bancone
dove servivano dei pasti caldi; li avremmo raggiunti lì.
-Allora
prepariamo l’albero di Natale questo Dicembre, ti va?-
-… davvero?-
-Beh, la
tradizione vuole che si faccia l’albero l’otto
Dicembre, all’Immacolata
Concezione, ma chissà quando sarai di ritorno dal Giappone.-
-Ti ho
promesso che tornerò presto! Ci sarò
l’otto Dicembre!-
-Hmmm, siamo
sicuri?-
-Si, si!!-
Volevo così
tanto fare quell’albero, e non perché si trattava
di Natale: perché era una
cosa che avremmo fatto io e Genzo insieme, assieme ad Isolde. Una cosa
di
famiglia, una cosa legata a lui, una cosa che mi avrebbe avvicinata a
lui
ulteriormente. Lo volevo fare, assolutamente!
-E faremo
anche il … il … come si chiama.-
-Il Presepe?-
-Si, quello!
Albero e Presepe, promesso!-
-Va bene, va
bene, mi hai convinto, ora calma.-
E mi accarezzò
i capelli, sorridendo divertito, e io gli presi la mano,
avvicinandomela alla
guancia e sorridendogli, per poi abbracciarlo e stringerlo a me.
-Grazie del
carillion. Lo porterò con me in Giappone.-
Lui non mi
rispose, ma mi strinse, prendendo un profondo respiro tra i miei
capelli, prima
di staccarsi dolcemente e, tenendomi per mano, portarmi dove si erano
seduto
Schneider e Yayoi, la mia amica subito mi mostrò i suoi
acquisti, aveva preso
uno di quei bellissimi angeli in ceramica e uno scialle ampio e dai
colori
brillanti, c’erano persino dei fili d’oro.
-È bellissima …-
-Tu che hai
preso?-
Le mostrai il
carillion, spiegandole quello che era successo. Lei ascoltò
la melodia con aria
entusiasta, seguendo il mio discorso anche se il suo sguardo era
concentrato
sulla scatolina.
-Quindi
festeggerete il Natale come si deve, che bello!-
-Voglio
riuscire a tornare a Monaco per l’otto Dicembre,
così rispetterò la
tradizione.-
Yayoi mi
sorrise affettuosa.
-Già, hai
sempre cercato di rispettare le tradizioni della tua famiglia e quelle
degli
Hyuga.-
Quelle parole
mi fecero ripensare a mia zia, alla necessità di tornare al
più presto a Naha
per discutere di quella situazione; ma anche al mio passato, alla mia
educazione, alla mia vita al ryokan prima di conoscere Yayoi, Kojiro o
Genzo.
-Quando ero
piccola ero un maschiaccio: facevo la lotta, odiavo le gonne ed ero
molto
attiva, forse troppo. Ma c’era una festa in particolare dove
io cercavo sempre
di fare la brava: la festa delle bambine. Io sono stata
l’unica femmina per
molto tempo, per tanto mi dovevo difendere dai miei cugini; e in quella
festa,
io ero la principessina, non venivo presa in giro e i miei familiari mi
difendevano. Era la mia festa.
Per questo amo
le tradizioni: seguirle mi fa sempre pensare a quando, da bambina, mi
mettevo
accanto alle bambola della famiglia imperiale, e mi sentivo al settimo
cielo.-
Alzi lo sguardo
verso Genzo, lui e Schneider erano andati ad ordinare qualcosa alla
bancarella,
e si erano fermati a chiacchiere mentre io e Yayoi eravamo sedute al
tavolo; ne
approfittai per avvicinarmi all’amica e parlarle a
quattrocchi.
-Tu invece,
che mi dici di Schneider? Mi sembravi molto coinvolta nelle vostre
chiacchierate …-
-T’interrompo
subito Maki: Karl è molto gentile …-
-Oooh, lo
chiamiamo Karl.-
-Dicevo: Karl
è molto gentile, e mi ha dato dei buoni consigli per me e
Jun, perché lui ha
vissuto la mia stessa situazione con la sua attuale compagna.-
Sorrisi
divertita, e Yayoi sorrise con me mentre i due uomini tornavano,
portandosi
dietro un vassoio di fritti e diverse bevande, riconobbi la birre dei
due
mentre, fortunatamente, a noi ci diedero della coca cola.
-Che buon
odore! Mi fa venire una fame!-
-In effetti
alla cena non abbiamo mangiato granché.-
-Ci credo,
quella roba era tremenda!-
-No dai, la
frutta non era male.-
-Fai, fai la
spiritosa.-
-Dai Maki,
lascia quell’oliva ascolana.-
-Ma come
Yayoi, non dicevi che ti era piaciuta la cena all’hotel?-
-L’antipasto
era la cosa più orrenda che abbia mai mangiato.-
-Non è vero,
ti ricordi quando abbiamo organizzato la cena a casa di Henders?-
-Oh si, che
voleva fare la pasta ma ci ha messo troppo sale e l’ha
lasciata bollire mezz’ora!-
-È uscita una
roba così collosa che non sapevamo dove buttarla.-
-Alla fine ci
siamo ordinati una pizza.-
-Ehi tu! Guarda
che ti ho visto.-
-Di che parli?
Non ho fatto niente.-
E Genzo si
mise in bocca la crocchetta mentre tutti noi ridevamo senza sosta,
continuando
a chiacchierare tra la gente che ci passava accanto, forse stupiti dei
due
calciatori ma, probabilmente, stupiti anche del nostro abbigliamento,
quattro persone
in abiti eleganti che mangiavano fritti nei mercatini natalizi!
Eppure passammo
in quel modo due ore molto piacevoli, tra chiacchiere di vario stampo,
io e
Yayoi osammo perfino assaggiare la birra, e stranamente a me piacque
mentre la
mia amica la considerò troppo amara per i suoi gusti; alla
fine fu la campana
di mezzanotte, e il cominciare delle bancarelle a chiudersi, a
spingerci ad
alzarci.
-Peccato che
non è in funzione il Glockenspiel.-
-Il cosa?-
Schneider
rispose alla mia domanda, indicando un edificio.
-Quello è il
Neue Rathaus, il Municipio, e lì si trova il Glockenspiel:
si tratta di un
carillion che funziona tre volte al giorno, alle 11, alle 12 e alle 17.
Adesso non
si vede, ma se ti capita ti consiglio di vederlo, è un bello
spettacolo.-
Io annuii,
guardando poi Yayoi ammirata.
-Ti sei
proprio data da fare, eh?-
Lei fece
spallucce, e poi riprendemmo a camminare. La strada al ritorno fu
più facile e
veloce dell’andata, e Freidrick era rimasto ad attenderci
pazientemente, e io
gli porsi un sacchetto con delle cialde.
-Grazie per
averci aspettato.-
Lui rimase
quanto meno imbarazzato dalla sorpresa, sorridendo e assaggiandone una
entusiasta,
rivelandomi che erano i suoi dolci preferiti; mi aveva suggerito Genzo
di
comprargliele, e mi voltai verso il portiere, vedendolo salutare Karl,
che
aveva la sua macchina parcheggiata da un’altra parte. Sorrisi.
Quando
tornammo a casa era tutto buio, Isolde doveva essere già
andata a dormire, e
Yayoi velocemente ci augurò la buonanotte, dicendo che era
stanca morta e
salendo su per le scale ad una tale velocità che ebbi dei
sinceri dubbi sul
fatto che fosse “stanca”.
Mi voltai
verso Genzo, e lui stava guardando me; ma invece che dirmi o farmi
qualcosa,
salì le scale molto lentamente, e io d’istinto lo
seguii, arrivando fin dentro
la sua camera, lasciandomi avvolgere nuovamente da
quell’atmosfera calda ma
severa, le poltrone lì vicino al caminetto e il letto
grande, rifatto per bene,
le pareti foderate di legno sulla parte alta, il finestrone
dall’altro lato di
dove mi trovavo io, con le tende chiuse.
Mi guardai
intorno, e appoggiai silenziosamente le mie cose in un angolo accanto
alla
porta; quando rialzai lo sguardo, lui era davanti a me, facendomi
salire il
cuore in gola, i suoi occhi mi sembravano molto più scuri
del solito, e mi
guardavano talmente tanto a fondo che mi sentii toccare
nell’anima; ma era uno
sguardo turbato, persino ansioso, e mi preoccupai.
-… Genzo?-
-… ti … ti
devo dire una cosa.-
Avete presente
quando vi sale una sensazione spiacevole, una certezza che quello che
sta per
accadere potrebbe cambiarvi? Quel pugno allo stomaco. Ebbene, lo sentii
chiaramente, ma mi feci accompagnare da Genzo verso la poltrona,
facendomi
aiutare a sfilare il cappotto, rimanendo con il vestito rosso,
sedendomi e
sentendo il cuscino tremendamente scomodo mentre lui si toglieva
giaccone e
giacca, rimanendo in camicia, sciogliendosi la cravatta.
Si prese da
bere, c’era un bicchiere con una bottiglia di liquore, e come
quella volta
anche adesso rividi quella scena di malinconia e sofferenza che mi
aveva
lasciata ammutolita; ma attesi, paziente, stringendo i pugni sopra le
ginocchia.
Mi rivolse di
nuovo lo sguardo, e si sedette di fronte a me, prendendo un profondo
respiro.
-Tu sai che
giocavo nell’Hamburger, vero?-
Io annuii, la
gola stretta in un nodo. Lui distoglieva lo sguardo, posandolo sul
bicchiere,
sulle dita che sfioravano quel bordo di vetro, per poi tornare su di
me; quando
mi diceva qualcosa, me la diceva sempre guardandomi dritto
negl’occhi.
-Prima di
conoscerti, prima del mio infortunio, la mia squadra ha … ha
attraversato un
periodo difficile.-
-… cioè?-
Avevo la voce
rauca, tremendamente rauca, e ingoiai la saliva per cercare di
schiarirla, o
quanto meno di sciogliere il nodo al suo interno; lo guardai
negl’occhi, e lui
respirò a fondo, era in difficoltà quasi quanto
me, e a dimostrazione prese un
sorso di liquore, schiarendosi poi la voce.
-… due mesi
prima del mio infortunio conobbi la sorella di uno dei miei compagni di
squadra, Achillina Von Zugar …-
Ah, ricordavo
quel nome: si, Yayoi lo aveva letto in quell’articolo, quando
ci eravamo
parlate al telefono. Nuovamente, la curiosità si riaccese, e
questa volta
sarebbe stata soddisfatta, il che da una parte mi spaventò,
cos’avrei sentito e
scoperto? Genzo, intanto, proseguì.
-Suo fratello,
Markus, era uno dei difensori, e oltre al lavoro diventammo buoni
amici, e mi
presentò sua sorella, allora era conosciuta come modella, ma
era stata anch’ella
una sportiva, e ci trovammo subito in sintonia. Ovviamente, il nostro
rapporto
si approfondì.-
Alzò lo
sguardo, come per cercare qualcosa sul mio viso, ma ero rimasta
impassibile:
non dico che non mi dava fastidio, ma ritenni più saggio
mantenere la calma e
la concentrazione, invitandolo con lo sguardo ad andare avanti nel
racconto.
-Un giorno,
nella sede dell’Hamburger, arrivarono dei poliziotti,
dicendoci che la squadra
era sotto inchiesta per sospetto spaccio e utilizzo di droga, e ci fu
chiesto
di fare i test: all’inizio gli altri si rifiutarono, ma io
andai avanti per
primo, in quanto non avevo nulla da nascondere.-
Sorrisi: si,
lui si sarebbe comportato in quel modo, perché lui era
sempre stato un uomo
onesto, nonostante la sua scorza dura.
-Risultammo
puliti, ma ognuno di noi fu sottoposto ad interrogatorio, e questo
influenzò l’andamento
del campionato: certo, eravamo i più forti, ma soffrimmo
molto nelle partite
successive, anche perché la polizia continuò a
tenerci sotto controllo.-
Unii le mani,
cercando di seguire la storia passo dopo passo. Genzo bevve un altro
sorso di
liquore, muovendosi avanti e indietro su quella poltrona, sentendo
tanti spilli
quanto ne avevo sentiti io.
-Io, Markus e
Achillina discutemmo di questa situazione, e mi sembrò
sempre che loro fossero
estranei e sconvolti quanto me della faccenda. Mio Dio, che imbecille
sono
stato …-
Erano
coinvolti. E lo avevano tradito. Una persona come Genzo Wakabayashi non
sopporta che qualcuno lo possa ferire o peggio, tradire; lo vidi
adombrare
ulteriormente lo sguardo, e mi preoccupai, tanto che mi sporsi verso di
lui.
-Genzo?-
Mi guardò,
quasi colpito che lo stessi richiamando, e io mantenni lo sguardo fisso
su di
lui; alla fine respirò profondamente e proseguì
il racconto.
-Una sera la
polizia arrivò al mio appartamento, chiedendo di poterlo
perseguire: gli era
arrivata una denuncia anonima che affermava che io possedevo
illegalmente della
droga. Li lasciai fare, e loro la trovarono sotto il mobile della Tv.
Fui arrestato
e portato in centrale.-
Svuotò il
bicchiere di liquore, raccontando stavolta con un tono basso, che
rivelava la
rabbia, anzi la furia, che il ricordo gli scaturiva.
-Venni
interrogato, accusato, ma io non avevo fatto niente e non capivo chi mi
aveva
voluto incastrare e come era riuscito a farlo; alla fine …
alla fine arrivarono
mio padre e il suo avvocato, e fui scagionato dalle accuse in poche
ore.-
Disse quell’ultima
frase con vergogna, coprendosi lo sguardo con la mano, prima di
rivelarmelo,
svelandolo lucido di fastidio e ira, tanto che mi alzai dalla poltrona
e mi
avvicinai a lui, prendendogli la mano e guardandolo
negl’occhi; lui mi
accarezzò la guancia, poi si alzò in piedi e mi
obbligò a sedermi al suo posto,
muovendosi davanti al camino come un’anima in pena.
-Passai dei
giorni d’inferno: la stampa mi era addosso, non riuscivo
più ad allenarmi in
santa pace e i miei compagni mi guardavano come un mostro. Solo
… Solo Markus
mi rimase amico … amico, bastardo …-
Rimasi colpita
dalla sua reazione, ma lui respirò a fondo e
proseguì, come se quel momento l’avesse
cancellato con un colpo di spugna.
-… un giorno,
in una partita, uno dei giocatori della squadra avversaria si fece
molto male;
gli vennero fatte le analisi, e si scoprì che era sotto
effetto di sostanze
stupefacenti. A quel punto il poveretto confessò che uno
della nostra squadra
gli aveva venduto la droga. Indovina chi era stato?-
Markus Von
Zugar. Genzo adesso proseguiva il suo racconto accelerando nella
parlata, la
rabbia muoveva la sua lingua e le sue gambe.
-La verità
venne a galla: lui era già da qualche mese che spacciava, e
aveva coinvolto la
sorella, e insieme avevano deciso di usare me come vittima in caso la
faccenda
sarebbe venuta a galla; tanto Achillina … mi veniva spesso a
trovare, non l’era
difficile “nascondere” la droga in un luogo sicuro.-
Mi rivolse lo
sguardo, ma io rimasi impassibile: Genzo, ora più che mai,
aveva bisogno che io
lo stessi ad ascoltare, senza lasciare che gelosie o patemi mi
distrassero dal
motivo per cui ero lì, seduta su quella poltrona.
-Quando tutto
fu chiarito, il mio nome venne riscattato, ma oramai capivo che non
sarebbe più
stato lo stesso nell’Hamburger: tra me e i miei compagni si
era creato un
abisso, e non riuscivo più a giocare come si deve. E poi
m’infortunai … e
conobbi te.-
Gli sorrisi, e
lui mi si avvicinò, accarezzandomi nuovamente la guancia;
cercai la sua grande
mano, appoggiandomici con il volto, e a mia volta gli accarezzai la
tempia e i
capelli, alzandomi poi in piedi e abbracciandolo, sentendo le sue
braccia
stringermi con forza, al punto da farmi quasi male.
-Maki … Maki …-
-Sono qui,
sono qui con te Genzo.-
Appoggiai la
mia fronte sulla sua, respirando insieme a lui, guardandolo dritto
negl’occhi;
desideravo sentirlo stretto a me, con me, insieme a me. Era
l’unica cosa che
riusciva a passarmi in testa, e non perché provassi
pietà o stronzate simili:
ma perché lui aveva bisogno di me.
Mi guardò
attentamente, e poi con la sua tremenda lentezza mi baciò le
labbra, toccandole
come fossero stato fatte di neve, che si scioglievano al minimo
contatto;
quando sentii il suo bacio, il mio cuore esplose nel petto, e mi
strinsi
ulteriormente a lui, lasciando che approfondisse il bacio.
Le mie mani,
nervosamente, dalle sue spalle salirono al collo e alla nuca, prima di
scendere
sulle scapole mentre le sue dita scivolavano lungo la mia schiena,
facendomi
venire i brividi mentre le sue labbra percorrevano, una seconda volta,
i
lineamenti del mio viso e la linea del collo, fermandosi sulla spalla
sinistra.
Sentii una sua
mano sul seno, che poi scivolò lungo la linea del fianco, e
i nostri occhi s’incrociarono
ancora; mi alzi sulle punte, e lo baciai delicatamente, sentendo che
lui mi
rispondeva con passione crescente. Il suo intero corpo si
piegò verso di me, e
le mie braccia, il mio busto, sembravano insufficiente per accoglierlo
pienamente. Ma lo strinsi, lo strinsi con tutta la forza che avevo.
I baci
divennero sempre più profondi e dolci, sentivo chiaramente
il sapore del
liquore che aveva bevuto, ed ebbi la sensazione di ubriacarmi solo con
il suo
sapore, il mio corpo oramai era bollente e il mio sguardo non vedeva
più
chiaramente quello che c’era intorno a noi. Riuscivo solo a
vedere Genzo. e lui
vedeva solo me.
Le sue mani,
kami le sue mani. La sua lingua, il suo corpo.
Mi sentii
avvolgere dalla passione e dalla dolcezza, dal bisogno e
dall’ansia di perdere
tutte quelle sensazioni che il mio corpo, i miei sensi percepivano. Le
mie mani,
oramai fuori controllo, cercavano quasi di grattare via la camicia di
lui per raggiungergli
la pelle mentre le sue mani cercavano, più esperte, i
bottoni per liberarmi del
mio abito.
Ah, mi avrebbe
vista nuda, era la prima volta; mi staccai dal suo bacio per guardarlo
emozionata, e lui percepì il mio cambiamento, fermandosi un
momento, per poi
lentamente allontanare le mani, portandole verso la sua camicia e
slacciandosi
ogni bottone, anche quelli delle maniche. Allora io, lentamente, mi
slacciai i
bottone sul dietro del vestito rosso, ma prima che potesse scivolarmi
giù dal
petto lo tenni bloccato con una mano, guardando l’uomo
davanti a me.
Non mi ero mai
sentita tanto in imbarazzo. La prima volta che feci l’amore
con Kojiro era
stato tutto molto più naturale; ma l’uomo davanti
a me era diverso, e mi guardò
emozionato quanto me.
Dovevo farlo,
era una di quelle cose che andavano fatte. Per fargli comprendere
quanto io l’amassi.
Presi un
profondo respiro, e lentamente feci scendere il vestito giù
dai fianchi,
abbassando lo sguardo a mia volta per l’imbarazzo, senza
però coprirmi con le
braccia. Attesi, paziente, ma lui rimase immobile di fronte a me;
allora,
lentamente, alzai lo sguardo. E lo vidi con le lacrime
agl’occhi.
Cosa …
-Genzo?-
-… scusami …
io … io non voglio più … farti alcun
male … però … però ti
desidero Maki … cosa
posso fare?-
Non compresi
subito le sue parole.
Poi mi venne
in mente: tempo prima, al ryokan, Genzo Wakabayashi mi tirò
uno schiaffo.
Uno dei tanti
problemi dell’Endometriosi è che il rapporto
sessuale, spesso, è doloroso nella
penetrazione; la cura del dolore mi permetteva di limitare tale dolore
solo all’inizio,
ma l’uomo davanti a me sapeva bene che, inizialmente, sarei
stata male.
Allungai le
mani verso di lui, prendendogli il volto, e per la seconda volta
appoggiai la
mia fronte sulla sua, respirando assieme a lui.
-… amami Genzo
… amami come hai sempre fatto. Ti amo, ti amo amore mio.-
Vidi delle
lacrime scendergli dal volto, e gliele baciai, sentendo il sapore
salato,
baciandogli in seguito il resto del volto, lasciandogli per ultime le
labbra; a
quel punto le mie mani, delicatamente, gli sfilarono la camicia,
lasciandolo a
petto nudo.
E le sue
braccia mi strinsero a se, mentre riprendeva a baciarmi. E mi sentii
come se
una grande onda mi travolgesse, facendomi dimenticare il mondo intorno
a noi.
**
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Capitolo 19 *** Liebe ***
XVIII:
Liebe
(Amore)
(Questo
è un capitolo per entrambi, per tanto lo scriverò
per entrambi. Dedicato
a loro e dedicato a tutti voi.)
Le
sue mani, Kami le
sue mani …
Il
suo corpo, Dio il
suo meraviglioso corpo …
La baciò e la
strinse così a sé da sollevarla da terra. Non la
voleva più lasciare andare,
voleva che galleggiasse nell’aria proprio come lui
l’aveva sempre immaginata,
sognata e vista; per lui ora, come mai era stata prima, Maki era una
creatura
che la terra non doveva nemmeno osare di toccare.
Maki pensò che
era così stretta al corpo caldo di Genzo che la sua pelle si
era attaccata, e
lentamente si stava facendo assorbire dai muscoli e dal sangue
dell’uomo. Ed
era una sensazione a cui non poteva già più farne
a meno, tanto da stringere le
braccia attorno al collo, baciandolo tanto in profondità che
sembravano
divorarsi a vicenda.
Le mani dell’uomo
oramai erano fuori controllo, toccavano e accarezzavano ogni singolo
centimetro
di pelle di quel corpo; dalle spalle, le dita scivolavano
giù lungo le scapole,
per poi precipitare nella schiena, dritta e liscia, frenando la loro
caduta
libera solo nella splendida curva dei glutei, così morbidi e
al tempo stesso
tonici che la tentazione fu troppo forte: trattenendo un ruggito
d’eccitazione,
Genzo strinse i glutei con le sue grandi mani.
Maki avvertì
quella pressione e alzò la testa verso l’alto; da
una parte strinse i muscoli,
come difesa, ma al tempo stesso sentì una vampata salirle
dal centro del suo
corpo, e con il volto contrito dall’eccitazione si
portò verso una delle spalle
dell’uomo, mordendogliela senza usarci troppa forza.
Si guardarono
negl’occhi, e per qualche istante entrambi sembravano due
felini che si
studiavano, pronti alla lotta; poi, sorprendentemente, fu Genzo a
sciogliere
l’espressione per primo, e dolcemente baciò la
guancia di Maki. No, non con
questa donna: aveva avuto molte donne, e con loro si era sempre
dimostrato
famelico, quasi distruttivo, certamente abile, ma privo di qualsiasi
sentimentalismo.
Ma adesso
aveva tra le braccia Maki, e non una donna qualsiasi.
Nel sentire
quelle labbra sulla pelle premere con tanta gentilezza, Maki si
sentì
travolgere dalla dolcezza dell’uomo, e pensò che
quella fosse solo la punta
dell’iceberg, che in realtà c’era molto
di più che quell’uomo stava trattenendo
per lei, per non spaventarla o soffocarla; lo guardò
nuovamente negl’occhi,
commossa, e gli accarezzò le guance, per poi baciarlo a fior
di labbra.
Al primo bacio
ne seguì uno secondo, un terzo, sempre più
affamati, sempre più smaniosi, e
nuovamente le loro mani si mossero sui loro corpi, e Maki scese
giù sulla
pancia, sulle cosce … e lì avvertì,
per la prima volta, l’effettiva eccitazione
di Genzo; lo sfiorò con le dita, ma fu più che
sufficiente per bloccarla un
momento, forse rendendosi conto di come era fatto l’uomo
davanti a lei “per
intero”, che non era solo il corpo di uno sportivo, o quello
di un uomo
affascinante: era il corpo di un uomo … che amava,
soprattutto nel senso fisico
del termine.
E lei era …
era assolutamente un’imbranata: aveva fatto sesso con un solo
uomo in vita sua,
e non era pienamente soddisfatta del suo corpo. Per la prima volta le
venne in
mente la possibilità che, probabilmente, avrebbe provato
dolore.
L’Endometriosi, infatti, rende difficili i rapporti sessuali,
proprio perché si
tratta di un’infiammazione; se ti tocchi una gengiva
infiammata ti fa male,
giusto? Figurati se l’infiammazione viene da lì
sotto!
Genzo,
intanto, aveva avvertito il cambiamento in Maki, e la guardò
preoccupato,
notando come questa fosse improvvisamente arrossita, e sul suo volto ci
fosse
un espressione simile al panico, con gli occhi spalancati e lucidi e la
bocca
semichiusa; a sua volta si fermò, pensando che forse
c’era qualche problema con
la sua malattia, o magari si sentiva a disagio.
Una delle mani
dell’uomo scivolò lungo la linea della mascella,
sfiorando l’orecchio e
fermandosi dietro la nuca della donna, assaggiando la leggera
consistenza di
quei capelli; delicatamente le fece pressione, portandola a guardare
gli occhi
scuri e profondi dell’uomo. Lui non parlò, ma la
sua domanda preoccupata si
emanava attraverso le sue iridi.
Lei parlò con
voce flebile.
-... non … non
so come … come posso farti stare bene … con il
mio corpo …-
Genzo si
sarebbe a ridere se non fosse stata per l’espressione
sinceramente preoccupata
di Maki, proprio lei esternava quei dubbi, quando lui erano giorni,
ogni volta
che la baciava o l’abbracciava, che si sentiva affamato in
ognuno dei suoi
cinque sensi: il naso voleva sentire il profumo di quei capelli fino a
perdere
sensibilità, le dita consumarsi su quella pelle, le orecchie
diventare sorde a
qualsiasi altro rumore che non fosse la sua voce, gli occhi non
volevano
sbattere le palpebre quando la vedeva, rischiando di inaridirsi, e la
bocca…
Il volto scese
ai suoi capelli, baciandoglieli con dolcezza, accarezzandole la nuca
mentre lei
posava le mani su quel petto. Le parlò con lo stesso volume,
basso e
accarezzato.
-Se non fossi
attratto dal tuo corpo difficilmente ti starei così vicino.
Maki, ascoltami: io
sarò il più delicato possibile, te lo prometto,
non ti voglio fare alcun male;
perciò tu sii te stessa, sii la stessa Amaterasu di cui sono
così perso e
innamorato.-
Maki sentì le
sue preoccupazioni diventare più leggere, come una
mongolfiera di carta Genzo
aveva acceso la candela, e adesso quel peso si stava sollevando verso
il cielo,
che commosso si sarebbe messo a piangere, ma la donna
abbracciò il collo dell’uomo,
stringendosi a lui con tutta se stessa, alzandosi sulle punte,
staccandosi solo
per guardarlo negl’occhi.
E questa volta
fu Maki a baciarlo con estrema lentezza, posando le dita sulle guance
sbarbate,
dapprima poggiando solo le labbra, approfondendo il contatto sempre di
più, mentre
la mano di lui, dalla nuca, scivolava sulla schiena, sentendo la pelle
rabbrividire al suo contatto, e stuzzicandola con la punta delle dita,
avvertendo la pelle d’oca e i mutamenti della donna mentre lo
baciava.
I baci si
fecero sempre più affamati, e nuovamente la spirale della
passione li catturò,
così come Genzo catturò Maki tra le sue braccia,
sollevandola una seconda volta
da terra e cominciando a muoversi verso il grande letto, la donna si
rese conto
dello spostamento solo quando sentì le gambe sentire la
consistenza del
materasso, inginocchiandosi su questo.
L’uomo si
sedette lì accanto, senza mai smettere di baciarla,
accarezzandole la guancia e
facendola scivolare le dita sul petto, passando sopra una delle sue
colline del
seno e fermandosi a pochi millimetri dai capezzoli; la donna, di
rimando,
accarezzò il collo forte e saldo scendendo giù,
dalle spalle fino al petto,
fermandosi sopra il cuore.
Si fermarono
un attimo a baciarsi, sentendo l’uno il battito cardiaco
dell’altra e
viceversa, e Maki sorrise felice, toccando la fronte
dell’uomo con la sua,
respirandolo. Lui chiuse gli occhi, e gli strinse la mano che ascoltava
il suo
cuore, prendendo poi anche l’altra mano, e baciandole insieme
con profondo
rispetto.
Ne baciò i
dorsi e i palmi, e la donna sentì di nuovo
quell’onda di dolcezza travolgerla
con delicatezza, e non poté fare altro che restare ferma e
lasciarlo fare; lui
risalì ai polsi, all’incavo interno dei gomiti,
alle spalle per poi scendere al
centro del petto, tra i due seni, poi l’ombelico e risalire
al volto di lei,
baciandole le guance e spingendola sul letto, facendola sdraiare. E di
nuovo
scese giù, continuando a baciarla.
Quando lo
sentì sfiorare, con le labbra, il centro del suo corpo, per
troppo imbarazzo
Maki si coprì gli occhi con un braccio, lasciando adesso che
fosse il suo tatto
a seguire Genzo mentre continuava sulle cosce, ginocchia, polpacci e
dorso dei
piedi. E la sua sensibilità moltiplicò per dieci,
cento, mille volte quei baci.
Poi, per
qualche istante, non lo sentì più, e lentamente
si tolse il braccio, per
vedere; tuttavia la mano di Genzo le coprì gli occhi, e la
baciò con passione. Nuovamente
il tatto della donna sentì moltiplicato per mille, e si
aggrappò alle spalle
dell’uomo, approfondendo ulteriormente; lui tuttavia si
staccò, e la bocca
scese giù, ai seni, stuzzicandoli.
A quel punto
Maki avrebbe voluto vedere, perché non era possibile che
stesse impazzendo fino
a quel punto per quel contatto, e le sue mani afferrarono le dita di
Genzo, per
liberare lo sguardo, ma ogni volta che la lingua dell’uomo
toccava,
accarezzava, spizzicava le sue estremità, la donna sentiva
le scariche di
eccitazione, e la forza della sua presa si perdeva in quel piacere.
Alla fine
riuscì nell’impresa di liberare lo sguardo solo
quando l’uomo staccò la bocca
dai suoi seni, e quando Genzo la vide quasi si pietrificò
dalla meraviglia: gli
occhi di Maki erano lucidi e le guance arrossate, le labbra della bocca
erano
gonfie da tutti i baci dati e quelli che voleva dare, e il sudore
cominciava
già a formarsi ai lati delle tempie.
La donna non
lasciò il tempo all’amato di ammirare il suo
volto, che subito lo baciò
affamata, le mani dalle spalle scesero velocissime lungo la schiena,
arrivando
alle natiche, ancora coperte dai pantaloni, e afferrandole per far
sentire
tutta la passione che si stava scatenando; poi quelle stesse dita
scivolarono,
più timide, sull’erezione di Genzo. Questo
sentì subito il piacere salire al
suo ventre e scendere di nuovo, manifestandosi in un mugugno e a stento
trattenne sulle labbra.
Baciò Maki con
tutto se stesso, come se avesse cercato di riversarsi su quelle labbra
per
riuscire a entrare nel corpo dell’amata, in modo da scoprire
il segreto di quel
fascino che oramai lo rendeva pazzo, cieco, idiota nei confronti del
mondo che
li circondava. La baciò con tanta forza da spingerla sul
materasso, e con una
mano si libero della cinta, dei bottoni, dei pantaloni, dei boxer.
Quando Genzo
lasciò andare Maki, lei si ritrovò
l’uomo nudo sopra di lei; si sentì
soprafatta dalla potenza che poteva avvertire nei muscoli delle spalle
e dei
bicipiti, attratta dalla tartaruga del suo ventre, imbarazzata non poco
dal suo
membro, completamente persa nel suo sguardo.
Lui guardò il
fascino di quel volto, dall’aria mascolina ma con occhi
così femminili e
misteriosi, la delicatezza del seno, la maestà dei fianchi e
la forza di quelle
gambe bronzee; lentamente si avvicinò, e ancora le
baciò le guance, per poi
spostarsi in una carezza sulle labbra, accarezzandola con una mano
mentre l’altra
cercava quella della donna , stringendogliela. La mano che accarezzava
scese
giù con sapienza, arrivando al confine tra i fianchi e le
cosce, e lì cominciò
a giocare.
Per un attimo
Maki si rese conto che l’uomo sopra di lei era
così attento ed esperto perché lei
non era stata la prima; tuttavia da come la guardava, la baciava e
l’amava, la
donna sentiva di essere l’unica.
Genzo, per un
momento, ricordò che lei era stata la donna del suo amico e
rivale di sempre, e
si rese conto che la Tigre aveva avuto una fortuna sfacciata; eppure
più la
toccava e più sentì che non voleva che nessun
altro, a parte lui e Kojiro, la
potessero toccare così.
Alla fine l’uomo
si abbassò verso la donna, sussurrandole
all’orecchio, mentre le sue dita
arrivarono a sfiorare il centro del corpo di Maki.
-Fa male?-
Maki avrebbe
voluto dire di no, ma il piacere fu tale che rispose con un gemito, e
lei per
la sorpresa del suo verso per un momento si tappò la bocca
con la mano; lui
sorrise intenerito, e gliela baciò, spingendola a togliere
quell’ingombro, e
stavolta chiedendo per gioco, continuando ad accarezzare.
-Fa male?-
Stavolta lei
strinse le labbra, per non cedere e dargliela vinta facilmente, ed
entrambi
risero divertiti di quel gioco così sciocco ma
così intimo; lentamente la mano
abbandonò quel punto, e lentamente, così
lentamente da congelare il tempo,
Genzo si preparò alla parte più difficile. Maki,
dal canto suo, prese dei
profondi respiri, e si sistemò a sua volta.
Entrò solo di
punta, ma già sentì le mani di lei stringergli
sulle spalle, e si fermò. Attese,
e avanzò ancora, poi si fermò e attese
nuovamente; lento, senza fretta, anche
perché quel corpo lo stava facendo impazzire, ed era certo
che se non fosse
stato attento non avrebbe dato il tempo alla donne di sostituire il
dolore con
il piacere.
Maki respirava
come aveva imparato, si concentrava nel rilassare i muscoli e nel
creare
spazio, e mano a mano sentì che le cose andarono sempre
meglio, e che il
piacere stava salendo a picchi vertiginosi, tanto che arrivava a non
capire più
niente, e alla fine le mani stringevano le spalle solo per il piacere.
-Ge … Genzo.-
L’uomo si
avvicinò al volto di Maki, e le loro mani si strinsero
ulteriormente; i
movimenti furono lenti, proprio come le onde sul bagno asciuga quel
giorno, quando
andarono a trovare la tomba di Kojiro. I ricordi si perdevano nel fare
l’amore,
si confondevano, e le loro anime si ritrovarono ognuna a salire sulle
stelle,
pronta ad allungare una mano per sfiorare l’infinito del
cosmo. Ma entrambi si
fermarono prima, e si cercarono.
I movimenti
fisici si fecero sempre più sicuri e ritmati, e ora il mare
si gonfiava,
proprio come allora, quando si confessarono i loro sentimenti; e con il
rumore
delle onde che s’infrangono sulla sabbia, le due anime si
trovarono, e si
presero per mano, per poi abbracciarsi e diventare un solo corpo.
E il sogno
coincise con lo stato dei loro corpi: erano così vicini che
la loro pelle si
era attaccata, ed erano diventati un solo essere nel pieno compimenti
dell’amore
mentre le loro anime, unite assieme, si perdevano nella magnificenza
dell’orgasmo,
sorridenti e brillanti come diamanti.
Non ebbero
bisogno di gridare o lamentare quando arrivarono all’apice,
non avrebbero
comunque fiato sufficiente per fare tale sforzo; ma si guardarono
dritti negl’occhi,
per non perdersi nuovamente, e respirarono insieme, stringendo le loro
mani al
punto da farsi male.
In ogni
respiro sembrava esserci un messaggio, anche solo una parola, e in quel
modo si
parlarono a lungo, raccontando di se, di quei segreti che non avevano
avuto
occasioni di confessarsi a vicenda, dei loro sogni appena nati e quelli
oramai
persi, dei loro pensieri e di tutto l’amore che si erano
dati, al punto da
diventare l’uno estraneo all’altra e viceversa.
Poi Genzo fece
un primo, piccolo movimento, e di nuovo la realtà del dolore
paralizzò Maki, che
riprese a respirare, a rilassarsi, a calmarsi, a non piangere, a
stringere le
mani di Genzo come boe nel mezzo dell’oceano mentre lui
cercava di essere il
più dolce, il più delicato possibile, mettendo di
nuovo sottosforzo cosce e
ginocchia. Quando fu fuori, entrambi presero un respiro di sollievo, e
l’uomo
crollò a fianco della donna.
Si guardarono
come fosse stata la prima volta che si vedevano: non avevano nome,
origini,
età. Erano solo due corpi stanchi che avevano appena finito
di fare l’amore.
Alla fine, con
calma, Genzo allungò un braccio, e lo portò sulla
vita di Maki, trascinandola
verso di se mentre questa prendeva la coperta, per coprire entrambi i
corpi; l’uomo
del baciò i capelli e la tempia sudata, e lei
accarezzò quel braccio e sorrise
al suo sguardo. Unirono le loro fronti, in quel gesto così
intimo e dolce, e si
ripeterono con gli occhi quanto si amavano.
E stretti in
quel modo si addormentarono, senza pensare al domani, forse arrivando a
sognarsi a vicenda, mano nella mano, sulla riva di quel mare, lei con
il suo
splendido Furisode, lui con il berretto sulla testa, che sorridevano e
iniziavano a camminare verso un punto lontano dell’orizzonte.
**
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Capitolo 20 *** Koffer ***
XIX:
Koffer
(Valigia)
Mi svegliai,
ma tenni gli occhi chiusi: mi sentivo avvolta da una calda morbidezza,
e stavo
bene, tremendamente bene. Leggera, serena. E questo perché
… perché … avevo
fatto … con Genzo.
In un momento
la mia mente divenne lucida come uno specchio, ma il ritorno alla
realtà fu
tale che, quando alzai la testa dal cuscino, la sentii girare e mi
ritrovai più
confusa che mai; al tempo mi sentii salire un misto tra imbarazzo e sorpresa: io, Genzo,
noi, l’altra notte,
sesso, aaaah!!!
Guardai verso
il cuscino e, lo ammetto, ci rimasi male nel vedere solo la mia ombra
sulla
federa, e quello che rimaneva dell’impronta di un altro
corpo; alzai lo sguardo
attorno a me, e i miei occhi furono abbastanza veloci da abituarsi alla
luce e
riconoscere le due poltrone, l’armadio, la finestra, il
camino. Per un momento
pensai che fossi sola, sentivo un silenzio ovattato.
Lentamente mi
portai al petto le ginocchia, ripensando a quello che era successo
quella
notte; e, da una parte, mi veniva da arrossire, imbarazzata, ma
dall’altra …
dall’altra ero felice.
Pian piano mi
resi conto che, nonostante la cena di beneficenza della scorsa sera,
quel
giorno dovevano comunque esserci allenamenti, e quindi come al solito
si era
svegliato per primo ed era andato; però che cavolo, pensai
al tempo stesso,
dopo quello che era successo poteva pure fare uno strappo! Ma che
crede, che
sia stato semplice far … farlo con lui?!
Per un lungo
momento mi sentii scossa dalla brutta sensazione di essere stata usata,
e
strinsi ulteriormente le ginocchia verso il petto, cercando di trovare
una
buona spiegazione: Genzo era (ed è) un uomo severo con se
stesso, oltretutto un
po’ orso, pertanto lasciarsi andare a momenti come questi non
rientrava nelle
sue “specialità”.
-Però che
diamine …-
Avevo la gola
secca, e la mia voce uscì più bassa rispetto al
normale mentre, imbronciata,
continuai a guardare la stanza dall’alto delle mie ginocchia,
la coperta mi
arrivava fino alla pancia e sentii le spalle cominciare ad
infreddolirsi.
Probabilmente
Yayoi si era già alzata, forse era di sotto che
chiacchierava con Isolde, e
feci per scendere dal letto quando avvertii lo squillo di un telefono
alla mia
sinistra, e mi voltai, notando effettivamente un cellulare sul comodino
scuro,
il display s’illuminava e si spegneva e sembrava dotato di
vita propria,
agitandosi a causa della vibrazione.
Mi sporsi
ulteriormente, per vedere chi fosse a chiamarlo; quale non fu la mia
sorpresa
nel riconoscere i kanji giapponesi che dicevano, testualmente
“Misugi Jun”.
Sentii una
porta aprirsi alla mia destra, e voltai lo sguardo: accanto al camino
c’era
effettivamente la porta che dava verso il bagno, e da questo
uscì Genzo, con
addosso una camicia nuova, pulita, di cui stava sistemando un polsino.
Rimasi tanto
sorpresa nel vederlo che quasi non riuscii a parlargli, mentre lui mi
guardò e
sorrise … divertito. Raggiunse il cellulare e si sedette sul
letto mentre
accettava la chiamata.
-Si, qui
Genzo. Oh, ciao Misugi.-
Sembrava
sorpreso quanto me di quella telefonata, e velocemente
bloccò il cellulare tra
la spalla e l’orecchio destro mentre si sistemava il polsino
della camicia.
Genzo
Wakabayashi è un uomo estremamente sintetico nelle sue
telefonate: anche se
durano anche un’ora, tutto quello che dice è
“Hm-m, si, no, va bene, ok”; se
dice qualcosa di più, e solo per spiegare quel
“no” in mezzo. Persino quando lo
chiamai io, per dirgli a che ora arrivavo da Tokyo, mi aveva detto
semplicemente “Hm-m, si, va bene, ci vediamo a
Monaco”.
E anche in
quella occasione non si smentì.
-Hm-m … si. Si
… va bene, manderò Friedrich. Ciao.-
Avrebbe
mandato Friedrich?! Ma allora …
Guardai Genzo
chiudere la telefonata e voltarsi verso di me, e nuovamente aveva
un’espressione divertita, molto probabilmente
perché io avevo, in faccia,
un’espressione assolutamente inebetita; la sua mano mi
spettinò i capelli, lo
fa ancora adesso e mi da un fastidio!
-Buongiorno.-
-…mfgiorno.-
Gli bloccai la
mano tra le mie, e lui addolcì lo sguardo, facendo scivolare
le dita dai miei
capelli alla guancia; la sua carezza mi calmò subito
qualsiasi malumore o ansia
che mi ero creata. Peccato che non durò molto, e Genzo si
rialzò in piedi per
andare a prendersi una cravatta; a quel punto mi sarei alzata dal
letto, ma muovendo
mi resi conto che … beh, a parte il lenzuolo, non avevo
proprio niente addosso.
Questo
significava che, nel momento tenero, lui mi aveva visto praticamente
tutto il
busto nudo! CAZZO!
Mi ri-fiondai
dentro il lenzuolo con la faccia in fiamme.
-Ehm, Genzo …-
Praticamente
scivolai dall’altro capo del letto, e aprendomi un varco nel
biancore riconobbi
la sua figura mentre si stava facendo il nodo alla cravatta; lui mi
guardò, e
vidi chiaramente che fece uno sforzo molto grande per non mettersi a
ridere. Doveva
sembrare una specie di verme.
-Dimmi.-
-Mi … mi
passeresti il mio abito? Vorrei … vorrei andare in camera
mia.-
Voltò lo
sguardo alla stoffa rossa abbandonata per terra, ma invece di
prendermela si
voltò e si diresse verso il bagno, tornando un momento dopo
con in mano un
accappatoio, lanciandomelo sul letto.
-Penso che
questo sia molto più comodo.-
-Ah … grazie …-
Uscii
lentamente dal lenzuolo, prendendo l’accappatoio di spugna e
mettendomelo
addosso; avvertii immediatamente l’odore di Genzo che mi
copriva come un
abbraccio, e sorridendo me lo portai verso il naso per annusare meglio
la
spugna. Quando mi voltai a guardare Genzo, notai divertita che era
arrossito al
mio gesto.
Tuttavia non
mi ero dimenticata della telefonata di prima, alzandomi dal letto.
-Che ti ha
detto Misugi?-
-Che è appena
arrivato a Monaco, e ha bisogno di un passaggio per venire qui.-
Ero colpita da
due cose: prima di tutto, dal fatto che Misugi aveva preso
l’aereo ed era
arrivato a Monaco; ma soprattutto, ero colpita dalla
tranquillità con cui Genzo
aveva reagito a quella telefonata e alla situazione.
-E perché tu
mi sembri tranquillo a questo?-
-Perché lo
sono.-
-A te non
piacciono le improvvisate Genzo.-
L’uomo andò a
prendere la sua giacca, parlandomi.
-No, non mi
piacciono, ma questa non è una vera e propria improvvisata:
ho ascoltato te che
parlavi della situazione tra Aoba e Misugi, e conosco Misugi, per tanto
m’immaginavo
che sarebbe accaduto qualcosa del genere.-
S’infilò la
giacca e prese il suo borsone, rivolgendosi verso di me mentre faceva
per
aprire la porta.
Lo ammetto: in
quel momento lo guardai come se fosse stato un estraneo. Insomma, la
sera prima
avevamo fatto … l’amore, e lui si comportava come
al solito; forse, in quel
momento, desideravo essere coccolata un pochino da
quell’orso, dato che dei due
ero io quella che aveva avuto più difficoltà, e
volevo che fosse sottolineato.
In più avevo
la brutta sensazione di essere al pari di tutte le altre donne che
aveva avuto.
Ma fu proprio questo pensiero a farmi uscire per prima dalla stanza,
dirigendomi silenziosamente verso camera mia.
-Ah, Maki.-
Mi voltai
verso di lui, e lui si fece vicino, parlandomi a bassa voce.
-Senti … stai
bene, si?-
… ma quanto
sono stupida certe volte!
-Si, sto
bene.-
-Ti … ti ho
fatto male?-
-Un pochino.-
Lo sentii
chiaramente irrigidirsi, e sorrisi, accarezzandogli una guancia.
-Ma era
prevedibile, tranquillo.-
-Si ma … uff …-
Borbottò
qualcosa, passandosi una mano tra i capelli chiaramente imbarazzato, e
poi si
avvicinò al mio orecchio per chiedermi quella
“tremenda domanda”.
-Ti … ti è
piaciuto stanotte?-
Mi veniva da
ridere: per la tenerezza, per l’imbarazzo, per la sua
espressione di disagio e
la sua premura. Mi limitai a porgermi verso il suo orecchio,
bisbigliando come
lui.
-Si.-
Poi aprii la
mia porta e me la chiusi dietro senza guardarlo, probabilmente aveva
un’espressione
tronfia in volto; mi fiondai in bagno per darmi una lavata, infilandomi
velocemente dei jeans e una felpa, per poi scendere al piano di sotto
con
ancora i capelli inumiditi per la doccia velocissima, trovando Genzo
che
chiacchierava tranquillamente con Yayoi.
Non era ancora
andato via, meno male.
-Buongiorno!-
-Buongiorno
Maki.-
-Genzo ti ha
informato a proposito di Jun?-
La vidi
bloccarsi dallo spalmare la marmellata sul pane, e guardai Genzo, che
si limito
a fare un cenno negativo con la testa mentre beveva il
caffè. Non gliel’aveva
detto; ok Maki, dagli la notizia senza troppi fronzoli.
Mi portai
verso la sedia, afferrando per prima cosa il latte caldo.
-Ha telefonato
a Genzo mezz’ora fa: è qui a Monaco, Friedrich lo
andrà a prendere.-
-L’ho già
mandato; da qui all’aeroporto, con il traffico, ci vorranno
tre quarti d’ora.-
-Capisco. Vi chiedi
scusa del disturbo che vi stiamo arrecando.-
Beh, almeno
aveva usato il “noi”, parlando di lei e Misugi.
Genzo le rispose secco.
-Nessun
disturbo.-
La colazione
proseguì senza altri intoppi, ma da quando chiudemmo quella
conversazione fino
al suono del campanello spiai Yayoi in ogni sua azione, osservando il
suo
comportamento: finita la colazione andò in camera sua,
chiudendosi dietro di se
la porta, ma la sentii chiaramente muoversi avanti e indietro, aprendo
e
chiudendo i cassetti.
Che stesse
preparando le valigie? Dunque aveva già deciso cosa fare?
Beh, può darsi che
questo suo movimento fosse dovuto alla sua intenzione in ogni caso di
partire. Tuttavia
ricordai l’ultimatum di Yayoi, e in fondo speravo che le cose
andassero per il
meglio; la lasciai fare, tornando al piano di sotto e notando che Genzo
ancora
non era uscito.
-Aspetti
Misugi?-
-Aspetto
Friedrich: devo passare da mio padre prima di andare
all’allenamento.-
-E non ci vai
con la tua macchina?-
-Nah, mi piace
fare il pigro quando vado dal mio vecchio: così gli do
l’idea di non voler fare
niente, e non mi riempie di scartoffie come fa con Ichirou.-
-Profitmaker.-
(approfittatore)
-È vero. Hai
migliorato la pronuncia.-
Sorrisi
divertita, e in quel momento sentii il cancello esterno aprirsi, e una
macchina
accelerare ed entrare.
-È arrivato.-
-Ci hanno
messo poco, forse non c’è troppo casino per
strada.-
-Genzo.-
L’uomo si
voltò verso di me.
-Vai già via?-
-Vuoi che
resti? Guarda che non succederà niente, non sono tipi da
passare alle mani.-
-Lo so, però …-
Però, se mai
avessero scelto di tornare insieme a Tokyo, io li avrei di sicuro
accompagnati:
dovevo tornare in Giappone.
-Però?-
- … io torno
in Giappone. Di sicuro andrò con loro.-
Sarebbe
rimasto?
-… Misugi è
appena arrivato, e bisogna prenotare il biglietto. Non credo
ripartirete prima
di domani pomeriggio.-
E mi guardò
con aria decisa, quasi come se mi stesse ordinando di aspettare fino al
giorno
dopo; forse, come me, avvertiva il panico di quella separazione, e
forse ne
soffriva di più perché, giustamente, riteneva
assurdo che io tornassi dalla mia
famiglia per aiutare mia zia, la persona che ci ha sempre ostacolato.
Avere la
sensazione che lui provasse il mio stesso disagio calmò il
mio animo, e sorrisi
sollevata, annuendogli; lui non rispose a quel sorriso, dandomi le
spalle.
Suonò il
campanello, e Genzo andò ad aprire.
Misugi era
proprio lì davanti, e aveva una faccia stravolto, come se
non fosse riuscito a
dormire. Dentro di me ne fui contenta, se non dormiva significava che
era
abbastanza sconvolto dalla situazione; avevo una gran voglia di correre
sulle
scale per andare ad avvertire Yayoi, ma ero certa che fosse in ascolto.
-Wakabayashi.-
-Misugi, prego
accomodati. Purtroppo non posso restare, ma Maki farà gli
onori di casa.-
Io annuii,
avvicinandomi all’uomo e invitandolo silenziosamente ad
entrare, voltandomi un’ultima
volta verso Genzo; gli vidi la schiena, e allungai una mano, giusto per
sfiorargliela. Gli parlai a bassa voce, come se non volessi che Misugi
mi
sentisse.
-A stasera?!-
Lui si voltò
verso di me, e lo vidi sorridere.
-Certo. A stasera.-
E lo vidi
andarsene, salendo in macchina con Friedrich che gli chiudeva la
portiera,
salendo in seguito al suo posto di autista; presi un profondo respiro,
adesso
la situazione era “in mano mia”.
Mi voltai
verso Misugi, e lo vidi a disagio, molto a disagio, lo sguardo basso e
i pugni
stretti; gl’indicai la scalinata davanti a noi, per invitarlo
a salire con me,
quando alzai lo sguardo e vidi Yayoi in cima alle scale, che ci
guardava con
aria innervosita.
-Yayoi …-
-Vieni Jun.-
E lui
le obbedì silenziosamente, salendo i
gradini mentre Yayoi si staccava dal corrimano, probabilmente andando
in camera
sua. Io aspettai cinque minuti in fondo alla scala, prima di salire al
piano di
sopra; vidi Isolde in quel momento entrare dal salotto, in mano aveva
uno
straccio per pulire i vetri.
-Buongiorno
Isolde.-
-Ciao cara,
scusa se non ero in cucina.-
-Figurati. Ah,
non credo che Genzo te lo abbia detto, ma è appena arrivato
un altro nostro
amico, scusaci per il disagio.-
La vecchia
donna scosse la testa.
-Ti dirò la
verità: tutto questo movimento in casa mi diverte molto.-
E mi fece l’occhiolino,
facendomi sorridere. Poi cambiò discorso.
-Invece, ho
saputo che torni in Giappone.-
-Si, ma solo
per un breve periodo! Tornerò in tempo per fare
l’albero e il presepe!-
Mi guardò
sorpresa, per poi sorridere contenta.
-Allora ti
farò trovare tutto pronto per il tuo ritorno.-
Annuii,
contenta, e a quel punto salii al piano di sopra, dovevo anche
preparare la mia
valigia, ma soprattutto dovevo recuperare il mio vestito, era rimasto
per terra
nella stanza di Genzo!
Quando arrivai
al piano, notai subito che la porta di Yayoi era chiusa, e non mi ci
avvicinai,
dirigendomi invece verso la camera del padrone di casa, socchiudendo la
porta e
sbirciando, mi sarei troppo imbarazzata se l’altra cameriera
fosse già lì a
pulire la stanza; fortunatamente ero sola, e praticamente corsi verso
la stoffa
rossa per terra.
E, lo ammetto,
dovetti cercare per bene il mio intimo. Nella … nella foga
… beh avete capito
no?! Uff.
Recuperai
tutto, e mi fermai solo un momento, sedendomi sul letto sfatto, per
ripensare a
quello che era accaduto, accarezzando la morbida stoffa del mio abito;
la cena,
i mercatini, la storia di Genzo.
Già, quella
storia … mentre mi parlava, non avevo espresso il
benché minimo commento o
pensiero, e anche in quel momento avevo la mente limpida, che mi
ripeteva
semplicemente tutto quello che l’uomo mi aveva raccontato
senza aggiungere o
togliere dettagli.
Kojiro mi
aveva sempre detto che avevo il talento di ascoltare le persone senza
metterci
niente di mio, e spesso quella mia capacità aveva
ri-sollevato l’umore di amici
e compagne di squadra, persino del mio stesso marito. Sperai di aver
fatto lo
stesso effetto anche con Genzo.
Mi guardai
intorno, e notai che, sopra un cassettone, dall’altro lato
della stanza
rispetto alla finestra, c’era la mia borsetta e, accanto, il
sacchetto con
dentro il carillion; lo liberai dalla plastica, accarezzandone il legno
decorato, aprendolo quel tanto che bastava per attivare la melodia, e
poi lo
richiusi, stringendolo e prendendo la decisione di portarlo con me in
Giappone.
Per prima
cosa, però, dovevo avvertire la famiglia.
> Pronto,
famiglia Akamine.
Toh, guarda un
po’ chi rispondeva al telefono.
-Ciao Jin,
adesso fai il centralino?-
> Maki!
-In persona,
come vanno le cose?-
> Un po’
meglio, almeno per quanto mi riguarda: da quando la zia è
stata richiamata
dalla famiglia sta sempre chiusa nella sua stanza, e raramente accetta
la
presenza di Tomoko o di tua madre.
La situazione
stava prendendo una strana piega.
-Ascoltami
Jin: di alla nonna che arrivò dopodomani mattina, prendo il
mio aereo del
pomeriggio qui a Monaco.-
> Eeeh?! Torni?!
Perché?
-La nonna ha
chiesto la mia presenza, e mi sembra giusto di esserci alla prossima
riunione
di famiglia.-
> Capisco …
avvertirò immediatamente la nonna allora.
-Ti ringrazio
Jin.-
> Ah, Maki …
come vanno le cose con Genzo?
-Tutto bene,
ti ringrazio, non vedo l’ora di rivederti.-
In fondo ero
stata io, quella volta, a gridare a tutti che l’avrei
adottato, me lo sentivo
un po’ come un fratellino o un nipote.
>A-Anch’io
non … non vedo l’ora. Ora scusa, ma
c’è del lavoro da fare.
Jin
imbarazzato, che ridere!
-Va bene,
ricordati del messaggio. A presto.-
E chiusi la
conversazione, dirigendomi in seguito verso la mia camera, cercando
negl’armadi
e prendendo il mio borsone più grosso, aprendone la zip e
cominciando a
riflettere su cosa dovevo portarmi dietro: di sicuro un kimono per la
riunione,
lì non potevo scamparla, era obbligatorio.
Poi qualcosa
di pesante, in fondo poteva essere freddo in quella stagione, e la
maggior
parte dei miei vestiti li avevo portati a Monaco: cominciai a piegare,
sistemare, prendere e scartare il mio vestiario, lasciando i kimono per
ultimi,
sopra la borsa assieme al mio beauty-case.
E per tutto il
tempo, avevo lasciato aperto il carillion, e la melodia del
“Danubio Blu” mi
accompagnò per l’intera operazione; ad un tratto
mi ricordai che mancava
qualcosa, e tornai dentro la stanza, trovandomi Isolde che stava
cominciando a
sistemarla con l’altra cameriera.
-Dimmi Maki.-
-Hai … hai
trovato un fermaglio per caso?-
-Ah si, il tuo
fermaglio.-
Infilò le mani
nel suo grembiule da lavoro, e tirò fuori dalla grossa tasca
il mio fermaglio
con i tre fiorellini, offrendomelo con un sorriso; la ringraziai in
silenzio,
tornando poi dentro la mia stanza e mettendo, con delicatezza, il
fermaglio
dentro la scatolina, chiudendola e mettendola dentro il borsone,
accanto al
kimono che avevo scelto di portare con me.
Così poche
cose avevo che mi legavano a Monaco e, soprattutto, a Genzo. Ma non me
ne
dimenticai nemmeno una: volevo portarmi tutto con me, perché
sapevo che ne
avrei avuto bisogno.
E ora dovevo
avvertire il bar e la squadra.
Ma nonostante
quelle cose da fare, il mio cuore era molto più tranquillo
di quanto potessi
immaginare; forse perché sapevo che anche lui stava male,
come me, per quel
viaggio, e dunque avevo un motivo in più per tornare a
Monaco.
Rivolsi uno
sguardo alla porta della camera di Yayoi, era ancora chiusa; poi andai
verso le
scale, per fare quelle telefonate.
**
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Capitolo 21 *** Mann ***
XX:
Mann
(Uomo)
Ragazza
mia ti spiego gli
uomini
ti servirà quando li adopererai
son tanto fragili, fragili tu
maneggiali con cura
fatti di briciole, briciole che
l'orgoglio tiene su
Sentii
il rumore della porta
della camera di Yayoi che si aprì, e dei passi che si
diressero verso la
scalinata; in quel momento mi trovavo al piano di sotto, stavo
sistemando la
tavola per il pranzo, e lentamente mi sporsi dall’uscio,
guardando chi sarebbe
sceso da quelle scale.
Fu
proprio Yayoi,
l’espressione stance e gli occhi arrossati, di chi aveva
pianto una marea di
lacrime. Per un attimo pensai al peggio, e mi venne l’istinto
di avvicinarmi a
lei; tuttavia, lei mi sorrise con aria luminosa.
-È
andata bene …-
-Mi
fa piacere. Forza, vieni a
mangiare qualcosa.-
Le
posai una mano sulla
spalla, e lei a quel contatto appoggiò il suo capo sulla mia
spalla, fremendo
per via di altre lacrime che uscirono dai suoi occhi; che strana
situazione, i
ruoli si erano invertiti: una volta sarei stata io quella si poggiava,
stanca,
sulla spalla di Yayoi, e lei mi avrebbe trasportato in camera e mi
avrebbe
tenuto compagnia per farmi star meglio.
La
feci accomodare sulla panca
del tavolo, e velocemente le posai di fronte al naso del brodo caldo
che Isolde
aveva lasciato per noi, quel giorno la vecchia governante sembrava
essere stata
divorata dalla casa, diceva che aveva un sacco di faccende da sbrigare
benché,
solitamente, quegli stessi compiti li svolgeva nell’arco
della mattinata.
Io
mi accomodai di fronte a
Yayoi, tenendo fra le mani il canovaccio con cui mi ero lavata le mani
qualche
momento prima di vederla.
-Avanti,
racconta.-
Lei
soffiò e sorseggiò il
brodo caldo, e vidi fin da subito l’effetto benefico del
liquido sul suo volto;
tirò su con il naso, e cercò il fazzoletto nella
tasca dei pantaloni, soffiando
prima di mettersi a parlare.
-Era
arrabbiato.-
-Ma
anche tu lo eri
all’inizio, no?-
-Ammetto
che, inizialmente, ho
avuto più paura che rabbia; tuttavia, appena ha cominciato a
darmi della
bambina, ho reagito. È stato … strano, non
credevo di avere così tanta … rabbia
nei confronti di Jun.-
Posai
un gomito sul tavolo, e
con la mano mi sorressi il volto mentre studiavo la mia amica,
chiedendomi come
poteva una giovane così matura, e che mi aveva aiutato
così tanto, non
accorgersi dei suoi problemi personali?
-E
sentiamo: perché, di cosa
eri arrabbiata con Jun?-
-Per
il fatto che, nonostante
ci conosciamo da anni, mi pensa ancora come la ragazzina di anni fa,
incapace
di badare a se stessa ma perennemente in ansia per gli altri, come se
non
esistesse altri nella mia vita.-
A
quel punto gli avrei voluto
dire “quindi è geloso di questo?”, ma
Yayoi non pareva aver compreso questo
piccolo passaggio, a giudicare da come proseguì il suo
monologo.
-Gli
ho detto chiaro e tondo
che ho altro che mi piace, e che sono l’ultima persona che
può accusare di non
badare a se stessa, dato che per occuparmi di lui ho dovuto imparare a
cavarmela da sola.-
-E
lui come ha reagito?-
-Niente,
non ha detto niente.-
Ovvio,
lo immaginavo.
-Allora?
Che hai fatto?-
-Mi
… mi sono arrabbiata
ulteriormente, gli ho detto che si mi considerava ancora una bambina
significava che non mi aveva mai amata veramente, che tutti gli anni
spesi
insieme erano stati inutili, anche perché non mi diceva mai
veramente ciò che
pensava, procurandomi solo ansia, e … e che era meglio
finirla.-
A
quel punto fece un verso,
soffocando in qualche modo la sua voglia di piangere, e sbuffando le
spinsi il
brodo, invitandola silenziosamente a berlo; la guardai, e pensai che
forse
Misugi non aveva tutti i torti: se c’era una cosa che Yayoi
non aveva mai
conosciuto veramente era la gelosia, intesa come sensazione di
possedere una
persona e di non sopportare che qualcuno gli si avvicini troppo contro
la tua
volontà.
In
quel senso, Yayoi-chan
poteva ancora considerarsi una di quelle rare persone che amava senza
sforzo e
senza sentire i doveri di una relazione, certe volte, come dei macigni;
da un
certo punto di vista la invidiai, dall’altro mi resi conto
che era molto più
fragile di tante altre coppie, come per esempio Sanae e Tsubasa. Kami,
ogni
volta che vedo quei due penso sempre che niente al mondo li
potrà mai più
separare!
Intanto
Yayoi si era calmata,
e dopo l’ennesima cucchiaiata di minestra riprese a parlare.
-A
quel punto, lui mi ha … mi
ha chiesto scusa e … e si è messo a piangere; mi
ha detto che aveva avuto
paura, che questa era la prima volta che mi vedeva così
decisa, e che se da una
parte era stato fiero di me, dall’altra non sapeva cosa fare.
Mi
ha chiesto consiglio,
inginocchiandosi di fronte a me … ci pensi Maki? Lui, Jun,
in ginocchio di
fronte a me.-
Io
alzai le spalle, sorridendo,
vedevo Yayoi entusiasmarsi di fronte alle sue stesse parole, e
sorridere
sollevata.
-Abbiamo
parlo, tanto, e ci
siamo ritrovati anche a chiacchierare di cose che non
c’entravano niente. Mi
mancava, mi mancava questo … e mancava anche a lui, me lo ha
detto, sai?-
A
quel punto allungai una
mano, stringendogli quella sul tavolo mentre terminava il suo monologo.
-Mi
ha anche detto … che io
gli mancavo.-
E
seppi che, di sicuro, Misugi
gli aveva detto anche qualcosa di più intimo, ma Yayoi era
una persona
riservata in quei casi.
-Che
farai, adesso?-
-…
in ogni caso devo tornare,
il lavoro mi aspetta.-
-Tornerai
con lui?-
-…
cosa pensi che debba fare,
Maki?-
Me
lo chiese veramente, non
era una domanda retorica; la guardai attenta, valutando la mia
possibile
risposta. Conoscevo Yayoi da molto tempo, ma eravamo diventate amiche
intime
solo da due anni, e ricevere una domanda simile da lei era importante,
perché
lei sa perfettamente che non le ho mai mentito.
Quando
eravamo al telefono
l’avevo spinta a reagire, ed aveva funzionato; ora si
trattava di tornare e
cominciare qualcosa di nuovo. Con o senza Misugi.
Ragazza mia sei bella
e giovane
ma pagherai ogni cosa che otterrai
devi essere forte ma forte perché
dipenderà da te
tu sei l'amore il calore che avrà
la vita che vivrai
-Portalo
con te.-
Presi
una piccola pausa, per
valutare la sua reazione: apparentemente era tranquilla, ma percepii
che era
stata colpita più dal mio tono di voce e da come avevo
impostato la frase.
Continuai con tale atteggiamento, lasciandole andare la mano.
-Forse
non te ne sei accorta
davvero, Yayoi-chan … ma credo che tu sia veramente mancata
a Misugi: è entrato
in casa … con un espressione stravolta in volto, come se
fosse da giorni che
non dorme, e da quello che mi hai raccontato … penso che tu
sia la prima
persona, e bada ho detto persona, che lo riduce in questo stato.-
A
quel punto vidi le labbra di
Yayoi socchiudersi, e la sua espressione diventare stupita; poi
abbassò lo
sguardo, come a ricordare qualcosa, e io le parlai.
-Mi
hai raccontato dei
problemi di salute di Misugi, e Kojiro ogni tanto mi parlava di lui in
campo.-
Alzò
lo sguardo, e le parlai
sorridendo tranquilla.
-Un
leader calmo e sicuro di
sé, che conosceva i suoi limiti e tentava sempre di
superarli; eppure, mi
confessò, dietro quel suo atteggiamento pacato si nascondeva
una persona …
viziata.-
L’aggettivo
stupì
ulteriormente Yayoi, e probabilmente le illuminò
più di una lampadina dentro il
suo cervello; non era la prima volta che gli dicevo una cosa del
genere, ma
adesso avevo usato quell’aggettivo anche
nell’ambiente lavorativo di Misugi.
-Tu
eri sempre lì per lui, e
lui è sempre stato sicuro della tua presenza, al punto da
potersi permettere
anche di fare il prepotente con te, anche se alla maniera sua: gentile
e
scherzosa.
Ma
tu, adesso, gli hai fatto
comprendere che tu sei una persona, e che sei stufa del suo
atteggiamento; e
lui, per la prima volta, si è sentito dire
“no” … e non sa che fare. Sono
sicura che, in questi giorni, ha fatto il bello e cattivo tempo con chi
gli
stava intorno.-
E
la mia amica sorrise
divertita. Continuai a parlare restando seduta di fronte a lei.
-Poi
si è fermato, si è
guardato intorno … e a quel punto ha capito
cos’eri per lui.-
E
non ebbi bisogno di andare
avanti nel spiegarglielo, così come prima Yayoi non mi disse
tutto quello
precedentemente.
-E
credo che se adesso non
andassi con lui, lo spaventeresti troppo. In fondo ha avuto quello che
si meritava,
no?-
-Si
… ma io mi posso fidare?
Se quello che dici è vero, in caso riprendesse a fare quello
che faceva prima,
che farò?-
La
guardai incerta, perché una
risposta mi era venuta immediatamente, ma era una risposta che io ero
l’ultima
persona al mondo a poterle dire, perché domande simili me
l’ero fatte con
Genzo, e forse ancora adesso erano dentro di me, momentaneamente sopite.
Tuttavia
non potevo
permetterle di farsi simili voli mentali.
-Io
sono l’ultima persona che
può dirti una cosa del genere, ma se lo ami davvero, e vuoi
davvero stare con
lui, devi accettare di correre questi rischi. E poi dovresti fidarti,
dopo il
viaggio che si è fatto per venirti a prendere; di certo non
è venuto per fare
visita a Genzo.-
Annuii,
e a quel punto decisi
di alzarmi, per prenderle la ciotola vuota e posarla nel lavabo,
riprendendo la
conversazione.
-Dov’è
Misugi?-
-Si
… si è addormentato, ha
detto che era stanco.-
Ci
credo!
-Va
da lui.-
La
guardai, e mi parve incerta
sulle prime; poi si alzò dalla panca, chinando la testa in
segno di
ringraziamento e allontanandosi; la sentii salire le scale e aprire la
porta
della sua camera, lasciandomi nella solitudine pacifica della cucina.
Presi un
respiro profondo, risedendomi davanti al tavolo.
Dovevo
pensare ad una strategia,
o quanto meno ad uno schema di cose da fare una volta tornata a casa:
il
viaggio sarebbe durato almeno dieci-undici ore, dovevo prendere un
altro aereo
per Naha e da lì mi sarebbero venuti a prendere. Una volta
giunta al ryokan
cosa mi conveniva fare, a parte salutare i parenti?
…
decisamente chiedere scusa a
mamma: le avevo promesso che non sarei tornata al ryokan se non per
delle
vacanze. Poi assicurarmi che nonna, Jin e Tomoko stessero bene,
specialmente
quest’ultima, lei era sempre stata la più legata
alla zia Moe.
E
poi … poi sarei dovuta
andare da zia. A quel pensiero, mi tornò in mente quando mi
presentarono a lei,
quand’ero piccola: la sua mano, sui miei capelli, era stata
delicata, forse non
voleva rovinarmi la pettinatura; eppure, al tempo stesso, era stata
incredibilmente gentile, forse perfino dolce.
Ora
le cose erano molto
diverse, lei provava astio nei miei confronti, forse perfino odio; ma
il
risentimento che provavo nei suoi confronti, oramai, era svanito, o
forse non
ci era mai stato effettivamente. Quello che sentivo, al momento, era
forse
l’amarezza: di non essere riuscita a far comprendere a zia il
mio punto di
vista, di essere stata causa del suo astio nei miei confronti, e adesso
di non
avere idea di cosa fare con lei.
-Maki,
sei qui?-
-Si,
Isolde.-
La
governante entrò con la sua
solita aria tranquilla, e la osservai stupita, lei e mia nonna erano
molto
diverse, ma entrambe emanavano un’aria tranquilla, che ti
viene voglia di
metterti la e chiacchierare con lei senza sosta.
-Cosa
c’è?-
-Mi
servirebbero le tue
braccia, Maki, e anche la tua agilità: io quella, oramai,
l’ho persa da un bel
po’.-
-Ah
dai, Isolde, in fondo sei
ancora una ragazzina!-
-Certo,
una ragazzina con più
di sessant’anni sulle spalle! Dai vieni.-
Seguii
Isolde curiosa, e lei
mi portò verso il dietro delle scale, lì dove ci
sono le scale verso lo
scantinato; ammetto che, fino a quel momento, non ci ero mai scesa, e
per me
era la prima volta in una cantina “occidentale”.
-Tieni
la testa bassa, il
soffitto non è molto alto.-
-Va
bene.-
La
luce illuminò la scala
stretta, camminavamo in fila indiana, e sentii odore di umido e
intonaco
staccato dalla parete; alla fine un’altra lampadina, scarnita
del suo
lampadario, illuminò una stanza grande, caotica e al tempo
stesso ordinata, con
scatole messe in posti diversi, e roba accatastata in vari angoli.
-Ammetto
che non è il regno
dell’ordine, ma le cose si trovano sempre.-
E
Isolde entrò per prima nella
stanza, superando … un cavallo a dondolo! Oddio, ma proprio
come quelli delle fotografie
d’epoca!
-Che
bello!!-
-Apparteneva
al padrone, il
quale l’ha dato ai suoi figli; ricordo che Akio giocava
sempre a fare il
cowboy, non riuscivamo mai a staccarlo da lì!-
Accarezzai
il muso
dell’animale di legno, notando la polvere, ma nonostante in
alcuni punti il
colore fosse sparito, il giocattolo era in ottimo stato. Mi guardai
intorno, e
notai altri giocattoli e riviste.
-E
la soffitta?-
-Ah,
lì ci sono cose che
ancora adesso i signori usano, ma qui … qui ci sono tutti
quegl’oggetti che non
vogliono buttare. Guarda questo.-
Mi
avvicinai, e Isolde teneva
tra le mani, con incredibile delicatezza, un oggetto che mai prima
d’ora avevo
visto in vita mia.
-Questo
è un sonaglio in
argento, regalato al padroncino Ichirou dalla sua madrina il giorno del
battesimo.-
Lo
mosse leggermente, e sentii
il rumore brillante del giocattolo, sorprendendomi; Isolde lo avvolse
nel suo
vellutino rosso, e proseguì il suo ruolo di guida
all’interno di quella caverna
delle meraviglie, c’era veramente di tutto: libri di
contabilità, cartelline e
altro, ma anche libri di letteratura vecchi, videocassette, balocchi
(perché
solo così si capisce quanto quei giocattoli sono vecchi) e
origami, tanti
origami.
-Li
ha fatti la signora
Wakabayashi?-
-Si,
ci sono anche le gru che
ha fatto quando era incinta del padroncino.-
-…
ci sono cose di Genzo qui?-
-Hmm,
di solito i bambini si
passavano i giocattoli quando crescevano, ma credo ci sia qualcosa
… ah,
aspetta!-
E
Isolde andò in un punto più
buio, frugando tra dei vecchi fogli di giornale, fino a prendere
qualcosa e
facendo cenno di avvicinarmi: tra vecchissimi e ingialliti fogli di
giornali,
Isolde scoprì un vecchio burattino di legno, di quelli con
il filo, un pezzo di
artigianato incredibile a mio parere. Era un cavaliere, con il
pennacchio rosso
che, nonostante la polvere, era ancora integro; l’armatura
aveva un
rivestimento lucido che, purtroppo, era staccato in più
punti, rivelando la
pittura.
In
una mano teneva la lancia
coloratissima, dall’altro uno scudo medievale con i dettagli,
così come il suo
volto, i baffi neri e sottili e gli occhi azzurrissimi, il mento
nascosto da
una parte dell’elmo.
Mi
batteva il cuore per
l’emozione.
-Il
cavaliere!-
-Già,
era il preferito del
padroncino, la signora gliel’aveva preso ai mercatini di
Marienplatz; lei aveva
i burattini da usare con le mani, eppure lo aveva sempre messo dentro
le sue
favole per il figlio. Cercava sempre di dimostrargli tutto il suo
affetto
quando era a casa con lui.-
Ricordai
che Isolde, e credo
anche Genzo, mi avevano detto che lui da piccolo si era trasferito in
Giappone,
e che ad un certo punto la signora era dovuta tornare in Europa.
-Il
burattino è andato in
Giappone?-
-Purtroppo
no, e il padroncino
poi non l’ha voluto con se. Credo che avesse paura di
soffrire nostalgia, e lui
è così severo con se stesso.-
È
un uomo fiero, che sa di
essere forte; probabilmente da piccolo questa sua consapevolezza era
moltiplicata per cento e mille, e dunque non voleva farsi piegare da
niente e
nessuno.
-Lei
crede … che potrei portarlo
su? Mi … mi piacerebbe farlo sistemare e ridarlo a Genzo per
Natale … sempre se
tu sei d’accordo.-
Isolde
mi sorrise, e avvolse
di nuovo il burattino nel giornale, consegnandomelo.
-Sono
sicura che al padroncino
farà molto piacere.-
Annuii,
e subito dopo Isolde
riprese la sua ricerca, riuscendo finalmente a trovare quello che
cercava:
erano due vecchie valigie, avete presenti le classiche valigie di
cartone
degl’immigrati? Erano uguali, ma li c’era anche un
po’ di cuoio.
Erano
sopra un armadio, per
questo Isolde mi aveva chiesto aiuto: con l’ausilio di una
scala riuscimmo a
portarle giù, ma erano davvero pesanti, le trasportammo una
alla volta e
arrivammo anche a trascinarle sul pavimento; ma quando, alla fine,
Isolde aprì
la prima valigia, mi resi conto che era valsa la pena fare tutta quella
fatica.
C’erano
… palline, tante,
tantissime palline colorate, fatte di plastica, metallo, legno, dipinte
o
decorate; e poi piccoli angeli, stelle, oggetti in miniatura, e lunghe
ghirlande d’oro e argento. Il tutto avvolto in
un’atmosfera decisamente
brillante e totalmente nuova per me: un’ondata di entusiasmo
e allegria mi
arrivò addosso, tanto da lasciarmi senza fiato.
-Ma
… ma cosa sono?-
-Decorazioni
per l’albero.-
-…
tutte queste?!-
Isolde
sorrise alla mia
sorpresa.
-Solitamente
la signora
Wakabayashi ordinava un albero molto grande, dato che una volta
decorato
serviva per le varie feste che organizzava; ovviamente,
però, da quando i
signori si sono trasferiti e qui c’è il
padroncino, molte di queste decorazioni
non vengono più usate.-
-Un
peccato, sono così belle …-
-Già,
ma in questa casa è
difficile festeggiare il Natale: il padroncino rare volte si
è lasciato
convincere dai padroni a far organizzare cenoni o feste qui.-
Conoscendo
il suo carattere
non ne ero sorpresa, ma vedere l’espressione malinconica di
Isolde contagiò il
mio umore, raffreddando leggermente il mio entusiasmo di fronte a
quella
meraviglia; ma l’eccitazione tornò non appena
aprì la seconda valigia.
Statuine,
tante statuine
occidentali: pastorelli, lavandaie, fornai, fabbri, soldati, arabi
…
-Isolde,
questi chi sono?-
-Quelli
sono i Re Magi, i tre
re che, dall’oriente, giunsero alla grotta (o capanna, non si
sa bene) del Bambin
Gesù ad offrire i loro doni.-
Alcune
statuine erano ancora
avvolte nella carta, e pesavano. I miei preferiti erano gli animali:
pecore, oche,
cani, galline, un bue ed un asinello, ma anche cammelli e altri ancora.
-Ma
quanti sono!-
-Oh
si, il Presepe prendeva
sempre un lato del salone nel costruirlo, e specialmente il signorino
Ichirou
si divertiva molto a crearlo ogni anno in maniera diversa: prima era un
paesaggio di montagna, un’altra volta con la sabbia, ma la
sua prima creazione,
quando aveva tre- quattro anni, era un Presepe sulla Luna.-
Sulla
LUNA?!
-Alla
signora l’idea piacque
molto, e nonostante il divertimento generale il Presepe fu mantenuto.-
-Che
… che tipo è Ichirou
Wakabayashi?-
Avevo
conosciuto Akio, un
ragazzo molto più espansivo di Genzo; che anche il maggiore
dei tre fosse così?
-Ah,
se ti riferisci al
Presepe fu l’unica volta che fece qualcosa di così
fantasioso: è un ragazzo
molto maturo e responsabile, e aiuta il padrone nell’azienda
di famiglia.-
-E
come sono i rapporti con
Genzo?-
-…
direi freddi: dato che
Genzo è andato all’estero da solo, per molto tempo
i due non si sono neanche
conosciuti. Si rispettano, e sono sicura che si vogliano bene; ma ad
occhi poco
allenati, forse danno l’idea di essere due estranei.-
Annuii,
e aiutai Isolde a
spolverare la maggior parte delle decorazioni, risistemandole in modo
ordinato
nelle valigie e tenendole in un angolo del salone; quando finimmo il
lavoro,
era quasi ora di preparare la cena, e Yayoi scese con Misugi al piano
di sotto.
-Ottimo
lavoro Maki. Adesso vado
a preparare qualcosa da mangiare.-
-Ah,
Isolde, come mai le hai
tirate fuori adesso?-
-Perché
così, quando torni,
sono subito pronte per essere sistemate.-
…
non potei fare altro che
sorridere, mentre Yayoi entrava nella sala con Misugi, entrambi con un
espressione decisamente più sollevata di quando li avevo
lasciati.
-Riposato?-
-Decisamente,
ne avevamo
entrambi bisogno.-
-Ne
sono lieta.-
-Tu
invece? Ti sei data da
fare eh?-
-Già!
E ho trovato cose molto
interessanti.-
-Tipo?-
-Segreto.-
-Ah,
ma dai Maki!-
Il
burattino cavaliere sarebbe
stato il mio segreto, il mio regalo di Natale a Genzo: ero certa che
gli
sarebbe piaciuto.
Il testo usato è “Anche un
uomo”, di Mina. Vi consiglio di ascoltare
sia lei (perché lei è lei, la grande, e quindi va
ascoltata XD) sia la versione
di Malika Ayane (che mi ha sorpresa, ma è meravigliosa!)
**
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Capitolo 22 *** Abflug ***
XXI: Abflug
(Partenza)
Aspettai
Genzo mentre
chiacchieravo con Yayoi e Jun, sorridendo ogni volta che li vedevo
scambiarsi
occhiate e commenti intrisi di complicità; attesi Genzo
aiutando Isolde a
preparare la tavola e a fare la cena, impegnando così le
mani per far passare
veloce il tempo. Sfortunatamente, le lancette dell’orologio
appeso in cucina
sembravano volermi fare un dispetto, andando più lente del
solito. Ma aspettai.
Aspettai
Genzo anche quando,
tutti e tre noi nipponici, andammo su internet per prenotarci il volo
di
ritorno a casa; come giustamente aveva detto Wakabayashi, decidemmo di
prendere
il primo aereo che partiva nel pomeriggio, verso le tre. Contando che
il giorno
dopo sarebbe stato Domenica, l’uomo non ci avrebbe
accompagnato all’aeroporto,
con mio sollievo.
Non
volevo che venisse: avevo
la sensazione che, se fosse venuto con noi, sarebbe stato molto
difficile
partire di me, più di quanto non lo fosse effettivamente.
Non era un addio, è
ovvio, mica ci stavamo lasciando o scemenze simili. Ma quella mia
partenza lui
non l’accettava, lo sapevo perfettamente, pertanto preferivo
che non mi
guardasse andare via; tanto sarei tornata.
Io
sarei tornata da Genzo.
Intanto,
lo aspettai anche
durante la cena, mangiando poco e continuando a chiacchierare con i
miei due
ospiti, sforzandomi di concentrarmi sulle loro parole, ma alla fine era
persa
nel giocherellare con le briciole del pane.
Non
mi ero sentita mai così
nervosa ed impaziente, nemmeno quando ero in partenza per raggiungere
Monaco:
sentivo un rimestare dentro di me, e da una parte mi dicevo di
annullare il
volo, di non andarci, di restare con Genzo; ma appena quel pensiero
diventava
nitido, mi sgridavo, dandomi della codarda e ricordandomi del
perché stavo partendo.
Maki
Akamine, perché parti per
il Giappone? … perché la nonna ha chiesto di me,
e perché voglio comunque
aiutare mia nonna.
Ogni
volta che mi rispondevo
in questo modo mi ripetevo, come un mantra, che in ogni caso sarei
tornata a
Monaco. Continuando a ripetermi questo diedi la buonanotte a Yayoi e
Jun, la
mia amica aveva deciso di non intromettersi nel mio nervosismo, e
comunque non
gliel’avrei permesso: adesso doveva occuparsi del suo uomo.
Avevo
davanti a me una grossa
tazza rossa di the, calda, con il fumo profumato che si alzava sinuoso,
illuminato dall’unica lampada che avevo lasciato accesa;
osservavo quella
striscia grigio-bianca alzarsi verso l’alto, con la testa
spenta, e aspettavo
di sentirlo tornare.
Alla
fine, la serratura della
porta scattò e si aprì, e in un secondo fui in
piedi, affacciandomi sull’uscio
della cucina. Eccolo, eccolo il mio uomo, e lo potevo dire con orgoglio.
Aveva
addosso il completo che
gli avevo visto indossare quella mattina, accanto stava poggiando il
borsone
degl’allenamenti, e in testa aveva il suo onnipresente
berretto rosso, quella
macchia di colore mi dava una sicurezza e un conforto inaspettati.
Avevo
voglia di andargli
incontro, anche abbracciarlo come a volte ero solita fare con mio
marito; ma
conoscendo il suo carattere, simili slanci lo avrebbero solo
infastidito,
pertanto incrociai le braccia e mi conficcai le dita e le unghie dentro
il
maglioncino, appoggiandomi ad uno degli stipiti e aspettandolo.
Alzò
lo sguardo su di me, e
d’istinto gli sorrisi, stranamente ricambiata da una sua
smorfia.
-Allora,
com’è andata tra quei
due?-
-Tutto
sistemato.-
-Mi
fa piacere.-
-Hai
già cenato?-
-Si.-
-…
com’è andata con tuo
padre?-
Lui
fece spallucce, avviandosi
verso le scale, io lo seguivo tenendomi sul corrimano.
-Come
al solito, niente di
nuovo.-
-C’era
anche Akio?-
Si
voltò verso di me, con aria
sospettosa.
-No,
non c’era oggi. Come mai
me lo chiedi?-
-Perché
è l’unico della tua
famiglia che conosco di persona, pertanto è
l’unico che conosco di cui posso
chiedere.-
-Isolde
non ti ha già
descritto tutto il mio albero genealogico?-
Gli
rifilai uno scappellotto
sul braccio, e lui mi sorrise divertito, dirigendosi verso la sua
stanza; e io
continuai a seguirlo, sebbene quella porta continuava a darmi una certa
agitazione ogni volta che mi avvicinavo più del solito.
-Sono
sempre io a chiedere ad
Isolde, e comunque mi ha solo parlato dei tuoi genitori e dei tuoi
fratelli.-
-E
che ti ha detto?-
Gli
raccontai di quello che mi
aveva detto a proposito dei loro Natali, e scoppiò a ridere
quando gli
raccontai del Presepe di suo fratello maggiore.
-Tu
non ricordi niente di
tutto ciò?-
-Ho
vaghi ricordi, niente di
specifico.-
Continuava
a rimanere vago
sulla sua famiglia, al punto da mettermi il dubbio se davvero ne era
affezionato, oppure me lo diceva solo per farmi stare buona; lo guardai
mentre
si scioglieva le scarpe, sedendomi sul letto, e lui mi rivolse lo
sguardo,
incuriosito.
-Beh?
Adesso non parli più?-
-Non
vuoi parlare della tua
famiglia.-
-Maki,
ci sono altre cose di
cui possiamo parlare.-
-Anche
se cambio argomento,
rimani sempre vago e apatico.-
Sbuffò,
slacciandosi anche la
seconda scarpa, togliendole e sistemandole nella scarpiera, addosso
portava
ancora il suo berretto mentre si toglieva la giacca e la sistemava
nell’armadio;
non si direbbe, ma Genzo Wakabayashi è un uomo ordinato ...
persino preciso.
-Forse
hai ragione, ma vedi
... non mi capita di parlare in questo modo così spesso.-
-E
quando esci la sera con Karl
e i tuoi amici?-
-Non
esco così spesso, e non
parlo certo del mio privato; Karl è mio amico, ma non
credere che mi conosca
così tanto bene.-
Questo
era quello che credeva
lui; io ero, anzi sono sicura, che tra me e Karl è il
tedesco a conoscerlo meglio,
e io sto cominciando solo ora a
vedere veramente quello che c’era dentro la testa del
giapponese di fronte a
me.
Questo,
intanto, si avvicinò a
me litigando, come al solito, con i polsini della camicia, guardandomi
in
faccia con aria divertita.
-Non
mi sembri convinta delle
mie parole.-
-No,
no, ti credo …-
-E
allora perché hai il
broncio?-
Come
fare a dirgli … che avevo
il muso perché ero invidiosa di Karl, del fatto che lo
conosceva meglio.
Pensiero ridicolo, lo so.
Intanto
Genzo mi accarezzò i
capelli, e il sorriso divertito si spense velocemente, assieme al suo
sguardo.
-Piuttosto
… a che ora parti
domani?-
-Tre
del pomeriggio.-
-Quindi
non ci vediamo.-
Scusami
Genzo, l’avevo fatto
apposta.
-Già:
come hai detto tu, Jun e
Yayoi vogliono riposarsi ancora un po’.-
-Dovrai
prendere un secondo
volo, giusto?-
-Si.-
-L’hai
prenotato?-
Ci
aveva già pensato mia
nonna: appena l’avevo informata si è subito messa
in contatto con la compagnia,
prenotandomi il volo. Hmm, sono quei momenti, ancora adesso fattibili,
che mi
fanno sentire come la nipote di uno Yakuza.
-Si
si.-
Continuò
a guardarmi anche lui
con aria insoddisfatta, accarezzandomi i capelli, e d’istinto
lo rimbeccai.
-Non
mi sembri convinto delle
mie parole.-
-No
no, io … ah, furba lei.-
Sorrisi,
e lui con me, per poi
accarezzarmi anche con l’altra mano, tenendomi poi la testa e
portandola verso
di sé.
Lo
avvertivo da quei gesti che
non aveva alcuna voglia di lasciarmi andare, che se avesse potuto
avrebbe
pestato i piedi e fatto i capricci; in effetti, ero un po’
sorpresa che non li
stesse facendo, e lo guardai attenta, cercando d’individuare
nei suoi occhi
qualche malessere o pensiero negativo. E i suoi occhi mi guardavano con
un’espressione
ancora infastidita, quasi scocciata.
-Che
c’è Maki?-
-…
vuoi che resti?-
Glielo
chiesi non per metterlo
alla prova, come lui si ostina a pensare ancora adesso, ma
perché volevo
davvero capire cosa stesse pensando; riuscire a penetrare oltre a
quello
sguardo scuro, anche perché, a volte risulta davvero
difficile.
Lui
abbassò la testa, e il
berretto rosso, che ancora portava, gli scivolò sul letto, e
io mi permisi di
prenderglielo, tenendolo tra le mani mentre lui si passava una mano fra
i
capelli, guardando altrove.
-…
se ti dico di si, rimarrai?-
Giocherellai
con il suo
berretto, rifiutandomi di rispondergli: tanto quello che gli avrei
detto lo
avrebbe immusonito più di me, e mi limitai a guardarlo,
aspettandomi una
risposta. Lui sbuffò di nuovo, e alla fine decise di
sfogarsi.
-E
che non capisco perché ci
devi andare! In fondo tua zia se l’è andata a
cercare!-
-Non
si tratta solo di mia
zia: riguarda anche mia nonna. È sua figlia.-
-Si,
ma comunque ha sbagliato.-
-Non
neghiamo questo, ma …-
-Ma?-
Come
fare a dirglielo? Avrebbe
capito? Strinsi il berretto fra le mie mani, come un’ancora a
cui aggrapparsi,
e presi un profondo respiro, ripensando agl’anni passati a
nascondere quel …
quella situazione.
-Ma
cosa, Maki?-
Alzai
lo sguardo verso di lui,
e lo trovai così maledettamente serio, quasi mi toglieva il
fiato per come
cercasse di cacciarmi fuori una risposta; scostai lo sguardo, e decisi
di
parlare, in fondo io amavo quell’uomo, pertanto mi dovevo
fidare di lui.
-…
mia zia … è malata. Ha
anche lei l’Endometriosi, come me, ma … per lei la
faccenda è più grave.
Lei
… lei, per questa
malattia, ha subito la mentalità di una famiglia
… arcaica, non trovo altro
aggettivo per descriverli; per tanto … soffre di
depressione, e la sua … forma,
a volte, sfocia nell’aggressività.
Le
sono state prescritte delle
medicine, ma non le prende mai, dice che non ne ha bisogno; e
così facendo, non
migliora mai.-
-…
tua nonna non le ordina di
prenderle?-
Alzai
lo sguardo, adesso la
sua espressione seria era meno aggressiva, ma di certo non si era
sciolta, con
mia gratitudine, non avrei sopportato la pietà. Gli sorrisi
amara.
-L’ultima
volta che lo ha
fatto, zia Moe ha buttato le pillole, facendo così credere
che le avesse prese
tutte.-
Lui
respirò, e io proseguii
nel racconto.
-Mia
nonna vuole che torni … perché,
questa volta, non può affrontare la zia.-
-E
scarica la responsabilità a
te?-
Gli
lanciai un’occhiata
incattivita, non si azzardasse a criticare mia nonna, mi ci voleva
niente per
tirargli un ceffone; lui lo capì, e borbottò
mentre io gli spiegavo la
situazione.
-Io
ho la sua stessa malattia,
e sono convinta che se gli parlasse, non dico risolverò la
situazione … ma
almeno metterò qualcosa a posto.-
Lui
si era alzato in piedi,
meno convinto di me delle mie parole; potei solo raggiungerlo e
obbligarlo a
guardarmi, per ascoltarmi.
-In
più sono in vantaggio: io
posso essere curata, posso guarire.
Capisci
Genzo? Qualsiasi cosa
accada, non potrà farmi niente.-
Lui
non aveva la faccia
convinta, ma appoggiò la fronte sulla mia, prendendo un
profondo respiro
assieme a me, e quando ci allontanammo, io gli rimisi il berretto in
testa,
sorridendogli.
Mi
accarezzò, mi abbracciò, mi
strinse a se. E sono sicura, non voleva più lasciarmi
andare; e io sarei voluta
davvero restare in quelle braccia. Mi sentivo così bene, al
caldo, al sicuro, e
pensando a quello che sarebbe accaduto dopo, quella sensazione mi fu di
conforto.
E
dopo quell’abbraccio furono
baci e carezze, e facemmo l’amore. Si, abbiamo fatto
l’amore: lo abbiamo
immaginato con i nostri gesti, concepito nelle nostre menti, e gli
abbiamo dato
forma con i nostri corpi.
Dormii
abbracciata a lui, e
quando fu il momento di svegliarci e prepararci restammo insieme fino
all’ultimo
momento, quando lui dovette andare allo stadio; quando ci salutammo non
ci
furono baci o abbracci, ma sulla soglia della porta di casa mi prese la
mano, e
la strinse, così tanto da farmi male, e feci lo stesso con
lui.
-Solo
… vedi di mantenere la
tua promessa.-
Annuii.
-Tornerò
per l’8 Dicembre.-
Anche
lui annuii, e non
volevamo lasciare andare la presa delle mani; alla fine lo fece lui,
con una
lentezza tale che avrei potuto benissimo riprendergliela.
Invece
rimasi a guardarlo
andare via, sulla sua macchina, sulla soglia della porta di casa.
**
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Capitolo 23 *** Familietreffen (I° Parte) ***
XXII: Familientreffen
(Riunione di
famiglia)
I° Parte
Salutai
Yayoi e Jun all’aeroporto
di Tokyo, abbracciando la mia amica con così tanta forza
che, di sicuro, fu per
quel motivo che versò qualche lacrima.
-In
bocca al lupo.-
-Sono
io che dovrei dirlo a
te. Andrà tutto bene Yayoi.-
-Si,
lo so.-
E
la vidi allontanarsi con Jun
che, cavallerescamente, le portava anche la sua valigia, dirigendosi
verso il
primo taxi che avrebbero trovato fuori dall’aeroporto; io,
invece, mi mossi
verso il settore delle “partenze” con il mio
secondo biglietto in mano.
Quando
arrivai a Naha sentii …
caldo; in effetti, rispetto a Monaco, lì l’inverno
era molto più caldo, e mi
tolsi con un certo sollievo il cappotto, aprendo la felpa e guardandomi
intorno, con il mio borsone in mano.
-Maki!-
Mi
voltai, e vidi mio padre
che si sbracciava e faceva un sorriso molto più grande del
mio; e anche quando
mi abbracciò mi strinse molto più forte di me.
-Bentornata
a casa piccola.-
Giapponese,
oh grazie kami,
giapponese!!
-Quanto
è arrabbiata mamma con
me?-
-Non
molto, credo abbia capito
la situazione e la tua presenza.
Hai
con te il Kurotomesode?-
-Si,
immagino dovrò indossarlo
appena sarò arrivata alla casa principale.-
-Passeremo
prima al ryokan,
dove Tomoko ti aiuterà ad indossarlo; poi con lei e tua
madre andremo alla casa
principale.-
-Nonna
ci aspetta là?-
-Si-
-Come
sta?-
Stavamo
per salire in
macchina, e mio padre si fermò con la portiera aperta,
tenendo lo sguardo
basso, per la gioia della mia ansia; poi mi sorrise, ma si vedeva
chiaramente
che era preoccupato quanto me per la situazione.
-Se
la sta cavando.-
-Allora
andiamo a darle man
forte.-
Per
il tragitto in macchina
lasciai il paesaggio alle mie spalle, senza guardarmi attorno e senza
riuscire
a parlare con mio padre; il quale, fortunatamente, aveva molta
più capacità di
me nel cercare una conversazione.
-Allora,
come sta Wakabayashi?-
-Bene.-
-E
Monaco com’è? so che nevica
lì.-
-Ah
no, purtroppo non sta
nevicando.-
-Ma
fa freddo, vero? Per te
sarà insopportabile.-
-…
no, non più di tanto; mi
tengo impegnata, e non ci penso più.-
-Ti
tieni impegnata? E come?-
-Lavoro
in un bar nel centro
storico … e ho trovato una squadra di softball.-
-E
i tuoi problemi fisici?-
Me
lo disse con il tono con
cui di solito mi sgridava senza essere arrabbiato; ma quella volta, per
la
prima volta, non mi sentii in colpa se stavo facendo degli sforzi
fisici, perché
sapevo bene che le cose, per me, stavano per cambiare.
-Sono
stata da un medico, uno
specialista …-
-E?-
-…
è meglio se non te lo dico
mentre guidi, potremmo fare un incidente. Te lo dirò
più tardi, promesso.-
Ma
vidi chiaramente che, a
quelle mie parole, mio padre aveva già cominciato ad
incuriosirsi e, probabilmente,
ad innervosirsi, stringendo il volante più del necessario;
sorrisi, pensando al
sollievo e, forse, alla felicità che avrei dato ai miei alla
bella notizia, e
finalmente riuscii a guardare fuori dal vetro, riconoscendo la via
sterrata che
portava alla locanda.
Tornarci,
dopo tutto quel
tempo, non mi diede alcuna sensazione particolarmente strana: ero si
sollevata,
dopo più di dieci ore di viaggio non vedevo l’ora
di arrivarvi, ma al tempo
stesso non mi sentivo appesantita dal fatto di essere di nuovo in
quella specie
di bolla senza tempo.
Ripensare
alla mia vita
vissuta la dentro mi provocò una profonda tristezza, ma
sorrisi sollevata all’idea
che, oramai, quei tempi erano lontani da me. In un flash, mi ricordai
anche della
tomba di Kojiro.
…
quando la situazione si
sarebbe calmata, gli avrei fatto visita. O forse … non
dovevo andarci?
I
miei pensieri furono interrotti
dal richiamo di mio padre.
-Jin!
Vieni a darmi una mano!-
Ah,
giusto, Jin aveva preso “il
mio posto” nel ryokan; mi crebbe la voglia di vederlo, era
cambiato? Quanto era
cresciuto dalla mia partenza? Parte delle mie domande furono risposte
quando,
in lontananza, vidi la porta aprirsi e un ragazzo si fece avanti.
Sembrava …
Kojiro. Poi capii che non era possibile.
Kami,
quei due si stavano
assomigliando in maniera tremenda: aveva preso adesso
l’abitudine di tirare su
le maniche della maglietta, ma nonostante i capelli neri arruffati allo
stesso
modo, il colorito della pelle rimaneva sempre più chiara di
quella di mio
marito. Per il mio sollievo.
Lo
vidi alzare lo sguardo, e
guardarmi … stupito, e riconobbi in quello sguardo il volto
di quel moccioso di
cui mi ero presa cura per parecchie settimane, e che fece la stessa
espressione
quando gli dissi che i documenti dell’adozione erano pronti e
lui, oramai, era
un Akamine a tutti gli effetti.
Inaspettata
… felicità.
-Ciao
Jin.-
-…
Maki one-san.-
-Sei
cresciuto ancora, è
pazzesco, ti lascio qualche mese e mi cambi ancora?-
A
quelle parole lui sembrò
riscuotersi, e prese il mio borsone con aria un po’ offesa.
-Non
è colpa mia se tu te ne
vai.-
Sorrisi
divertita, e gli
accarezzai il capo. Lo ammetto, mi era mancato quel … quel
figlio, perché in
fondo la prima volta che l’avevo urlato al mondo, avevo detto
chiaramente che
Jin sarebbe stato mio figlio; poi la nonna lo aveva adottato a suo
nome, ed era
diventato una specie di fratello.
Ma,
in fondo al cuore, per
quelle giornate passate insieme, lui era diventato per me davvero un
figlio di
cui averne cura.
-Ma
ora sono tornata, dovresti
esserne contento.-
-…
lo sono, lo sono.-
Non
mi guardò in faccia,
imbarazzato, e io gli spettinai i capelli, divertita.
-Hai
capito Jin, è
imbarazzato!!-
-E
dai smettila!-
-Maki
one-san!!-
Alzai
lo sguardo, e Tomoko mi
si buttò addosso come una furia, sorridendo ma anche con
l’aria di chi stava
per mettersi a piangere dal sollievo; io, per tutta risposta, le
accarezzai i
capelli neri, sentendomi un po’ in colpa nei suoi confronti,
dopotutto l’avevo
lasciata sola ad affrontare quel casino.
-Bentornata,
bentornata
sorellona!-
-Grazie
Tomoko. Va tutto bene
adesso, tranquilla.-
Lei
annuii, ma continuò a
stringermi, almeno fino a quando non le bussò in testa, per
richiamarla all’attenti.
-Dai
Tomoko, aiuta tua sorella
a mettersi il kimono, che abbiamo poco tempo.-
-Si!
Vieni Maki!-
Mi
afferrò la mano e mi
trascinò a forza, con Jin dietro che cercava di starci
dietro; ebbi solo il
tempo di vedere mia madre di sfuggita, che usciva dalla cucina per
vedermi, che
Tomoko mi portò nella stanza che condividevamo, prendendo il
borsone e buttando
fuori Jin in malo modo, ricevendo in cambio una serie di frasi poco
carine, ribattute
dalla ragazza che, nel frattempo, tirava fuori in modo ordinato la mia
roba.
Il
carillion fu una delle
prime cose che uscì, e nel vederlo mi sentii rincuorata, era
un po’ come avere
quella burbera e affettuosa presenza con me; Tomoko lo prese in mano
affascinata, aprendolo e trovandoci dentro il fermaglio.
-Che
belli!-
-Tomoko!-
Mi
guardò sorpresa, e anch’io
mi sorpresi nell’averla ripresa con così tanta
forza; ma quell’oggetto era mio,
solo mio, regalatomi da Genzo, come quel fermaglio, e non mi piaceva
che
qualcun altro li prendesse così, senza chiedermi il permesso.
-…
aiutami, Tomoko.-
-Ah
si, subito sorellona.-
Mi
consegnò gentilmente il
fermaglio, e subito iniziò ad aiutarmi con il mio
Kurotomesode, nero con i simboli
nella mia famiglia nella parte bassa del kimono, l’obi era
rosso e dorato, e
tra i stemmi c’era l’ideogramma che richiamava
“Amaterasu”, la dea del sole,
dato che la famiglia Akamine per tradizione discende dalla dea.
Mi
guardai allo specchio, notando
che Tomoko aveva fatto progressi nel mettere i kimono e nello stringere
l’Obi;
come ultimo tocco, mi misi da sola il fermaglio regalatomi da Genzo,
che
effettivamente era un po’ stonato nell’insieme, ma
volevo qualcosa con me che
mi ricordasse … il mio uomo, e il carillion era un
po’ scomodo.
-Sei
migliorata Tomoko,
brava.-
-Nonna
e zia mi hanno fatto
fare pratica.-
Anche
per distrarla da quello
che stava accadendo, un trucco che avevano usato anche con me; le
accarezzai i
capelli, cercando di non rovinarle la crocchia, anzi sistemandogliela
mentre
lei mi lasciava fare.
-Come
vanno le cose a Monaco,
sorellona?-
-Bene,
va tutto bene
Tomoko-chan.-
-Sei
… sei felice?-
La
guardai, e le sorrisi
affettuosa.
-Si,
ma sappi che mi mancate
tutti. Ed ora andiamo, la nonna ci aspetta.-
Annuii,
e aprì la porta, ad
attenderci Jin cambiato, indossava una camicia e dei pantaloni
più eleganti, in
mano teneva la giacca. Io lo guardai divertita, era rarissimo vestito
in quel
modo.
-Ma
quanto siamo carini.-
-Dai,
andiamo.-
-Non
fare così, Jin! Per me è
ancora più difficile vederti così elegante,
l’ultima volta è stato quando sei
entrato la prima volta nel ryokan!-
-Già,
e ancora adesso detesto
le camicie.-
-Dai
fermo, che te la
sistemo.-
Gl’imposi
di arrestarsi,
mettendomi davanti a lui nello stretto corridoio e cominciando ad
aggiustarlo.
Era un disastro! In confronto a Genzo, Jin sembrava essersi messo la
camicia in
una lavatrice: gli aggiustai il colletto, le spalle e i polsini,
guardando poi
il mio operato con soddisfazione.
-Ecco,
ora va meglio.-
-…
grazie Maki.-
Sorrisi,
accarezzandogli
dolcemente i capelli. La mia famiglia, era strano tornare dopo tutto
quello che
mi era successo e scoprire … che solo una cosa era cambiata:
io stessa.
-Maki.-
Mi
voltai, e vidi mia madre
con un kimono molto simile al mio che si stava avvicinando; ricordai
perfettamente le ultime parole che mi aveva rivolto, non sarei dovuta
tornare
per nessun motivo al ryokan se non per semplice vacanza e starci il
meno possibile.
Mi
sentii tremendamente in
colpa nel vederla davanti e guardarmi
attenta, studiando il mio volto; poi prese un profondo
respiro.
-Beh,
per lo meno stai bene.-
-Si
mamma.-
-Quanto
resterai?-
-…
devo tornare entro l’8
Dicembre.-
-…
mi sta bene. Ora andiamo,
tuo padre ci aspetta.-
E
le obbedii, con dietro
Tomoko e Jin.
La
casa principale era vicina
ad un tempio in riva al mare, con la facciata rivolta verso
l’alba; quando
facevo il liceo, spesso mi fermavo a dormire qui, anche
perché non ero molto
lontana dal campo sportivo dove mi allenavo. Ho cominciato ad abitare
al ryokan
dopo che mi ero ritirata definitivamente dal softball, prima ci andavo
solo per
le vacanze.
Guardai
la casa, e i ricordi
cominciarono ad affiorare mentre mia madre e Tomoko si avvicinavano,
spingendomi così a camminare per qualche metro sul
ciottolato, raggiungendo il
lastricato che portava all’entrata principale, dove due
cameriere aprivano la
porta inginocchiate, tenendo lo sguardo basso.
-Bentornati
a casa.-
Usavano
sempre questa formula
per tutto il parentado, al punto da renderla piatta e priva di
significato,
solo una frase che dei robot ripetevano all’infinito.
Ci
togliemmo sandali e scarpe,
muovendoci sicuri per i corridoi, incontrando parenti di vario spessore
che si
fermavano, ci salutavano, e poi riprendevano per la loro strada; io e
Tomoko
eravamo le due candidate dirette alla successione di mia nonna, e anche
se
avevo inizialmente cambiato cognome, per mia nonna rimanevo sempre in
lizza con
Tomoko. Quella era l’unica cosa che non ero mai riuscita a
cambiare.
Alla
fine raggiungemmo la
parte più nascosta della casa, dove pochi potevano entrare,
e a quel punto Jin
fu il primo a fermarsi.
-Io
… non credo di … poter
venire.-
-Jin,
sei legalmente mio
nipote, per tanto puoi sicuramente venire.-
Lui
aveva qualche dubbio, ma
alla fine mi seguì poco propenso, e io proseguii, fino a
quando fu Tomoko a
fermarsi, voltandosi verso due porte scorrevoli.
-Posso
… posso restare qui? C’è
la zia …-
Ci
pensai, mi sembrava un’idea
poco saggia, quando mio padre e mia madre si offrirono di stare con lei.
-In
fondo la nonna vuole
vedere te, e Jin è sufficiente per accompagnarti. Ci vediamo
dopo.-
-…
va bene, come volete.-
Ricominciai
la camminata, ma
sentire solo la presenza di Jin mi fece perdere parte della mia
sicurezza,
obbligandomi a rallentare il passo.
-Maki,
tutto bene?-
Mi
voltai verso il ragazzo, e
gli sorrisi.
-Non
pensavo … che sarei
tornata a casa per questo motivo.-
Jin
non mi rispose, così mi
limitai a fare spallucce, proseguendo fino all’ultima stanza.
Kami, ora si che
avrei voluto la presenza di Genzo con me; chissà cosa mi
avrebbe detto o fatto
in questo caso.
…
probabilmente avrebbe unito
le nostre fronti, in un gesto che oramai era solo nostro, dal farlo con
cattiveria per dare una testata, a cercare con dolcezza per sentirsi;
ripensai
al suo abbraccio, la notte prima, e mi feci coraggio.
Le
porte scorrevoli furono
aperte da una domestica, che subito le richiuse e si
allontanò, lasciandomi
sola con Jin … e la nonna.
Questa
mi dava le spalle, e
subito notai che era più curva del solito, il suo stesso
kimono sembrava
coperto come dalla polvere, apparendo traslucido e antico,
tremendamente
antico.
-…
nonna.-
Si
voltò verso di me, e vidi
che le rughe sul suo volto si erano fatte molto più profonde
di quando l’avevo
lasciata, e che la sua forza era scomparsa dalle spalle e dai suoi
occhi.
-Maki.
Bentornata raggio di
sole.-
Mi
mossi d’istinto: mi feci
subito accanto a lei, inginocchiandomi, e l’abbracciai a me,
come una madre può
abbracciare la propria figlia. Nonna, ma cosa ti era successo?
Possibile?
-Sono
qui, sono qui nonna.-
La
sentii annuire, e si
accocolò sulla mia spalla mentre mi voltavo verso la
terrazza, dove la nonna
aveva lo sguardo rivolto: sotto il terrazzo, seguendo una piccola
scalinata, si
raggiungeva il tempio sul mare, dove di solito la famiglia svolgeva
delle
cerimonie una volta l’anno.
Il
mare, da sempre, era stato
il mio conforto quando mi sentivo a terra: la sua forza e la sua
immensità mi
facevano calmare l’animo, e riuscivo sempre a tornare
all’attacco dopo una
lunga corsa sul bagno asciuga; ma ora il mare mi sembrava
così lontano, non
riuscivo a trovare conforto nel suo splendore azzurro, ma solo la
sensazione
che, dall’altro lato dell’orizzonte, avevo lasciato
la serenità.
Il
respiro di mia nonna era
debole ma costante, non era tipa da piangere ma di sicuro stava
soffrendo; le
parlai a bassa voce.
-Nonna
… restò qui con te
stanotte.-
-…
grazie, bambina. Perdonami
per averti chiamata.-
-Non
dirlo neanche per scherzo
nonna. Ti aiuterò, risolveremo questa faccenda.-
-Proprio
quello che avevo
bisogno di sentire.-
Si
staccò lentamente dal mio
abbraccio, e mi accarezzò una guancia sorridente, volgendo
uno sguardo affettuoso
anche a Jin, rimasto accanto alle porte scorrevoli chiuse;
parlò ad entrambi.
-Manca
ancora un’ora alla
riunione, perché noi tre non ci facciamo una passeggiata
verso il tempio?-
-Con
quest’arietta?-
-Non
vorrai fare tu la nonna,
raggio di sole?-
Sorrisi
rincuorata dal suo
atteggiamento, e stavo per ordinare alla domestica di prima di andare a
prendere dei cappotti, quando la porta scorrevole si aprì
alle spalle di Jin, sorpendendoci:
mio padre e mia madre entrarono nella stanza, guardandomi entrambi.
-Maki,
tua zia Moe ha chiesto
di te.-
-…
si, ci vado subito. Nonna,
appena torno facciamo la passeggiata.-
-Certo
raggio di sole. Ti
aspetto qui.-
E
ci sorridemmo a vicenda,
rincuorate l’una dalla presenza dell’altra.
Ma
quando mi alzai in piedi,
muovendomi da sola verso la stanza della zia, per solo un momento mi
fermai e
chiusi gli occhi.
“-Solo … vedi di mantenere la
tua promessa.-”
E
proseguii il mio cammino.
**
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Capitolo 24 *** Familietreffen (II° Parte) ***
XXIII:
Familientreffen
II° Parte
Tomoko
mi aprì, silenziosamente,
la porta scorrevole della stanza, restando inginocchiata a terra mentre
io ero
in piedi, dritta e irrigidita dalla tensione; la stanza aveva le
finestre
aperte, ed entrava dentro una luce grigiastra, la giornata era
nuvolosa. Da
quel lato, il mare era nascosto sulla destra, e si apriva una parte del
grande
giardino della casa.
Zia
Moe era seduta in
ginocchio su un cuscino basso, addosso aveva il kimono formale e i suoi
capelli
erano acconciati in maniera perfetta, senza alcun fermaglio che li
decorasse,
grigi e spenti; proprio come mia nonna, teneva lo sguardo fuori dalla
finestra.
Aspettai
in silenzio il suo
ordine per entrare, pazientando per lunghi minuti, dove nessuno di noi
si
muoveva, come se il tempo fosse stato congelato in quel preciso istante.
-…
entra.-
Feci
un passo dentro la
stanza, poi m’inginocchiai sul tatami, restando accanto
all’uscio della porta,
chinando il capo in segnoo di saluto mentre Tomoko richiudeva la porta
scorrevole.
-Tomoko,
prendi del the.-
La
giovane si voltò verso la
zia con aria sorpresa, ma si limitò ad annuire e ad alzarsi
in piedi, uscendo e
chiudendo dietro di sé l’uscio, lasciandoci sole.
L’aria
della stanza era ferma,
tanto che il mio stesso respiro si fece più basso e muto;
mentre i secondi
passavano, il mio corpo cominciò a perdere la tensione di
prima, le mie spalle
mi facevano male, chiedendomi di non contrarle così tanto.
Strinsi i pugni
sopra le cosce, spostando gli occhi un po’ sulla zia, un
po’ sul tatami sotto
di me, aspettando.
Il
silenzio era una di quelle
cose che ci aveva sempre accompagnato, a me e mia zia: ogni volta che
eravamo
nella stessa stanza, se eravamo le uniche presenti, restavamo anche per
ore
senza parlarci. Non c’ignoravamo, ma semplicemente nessuna di
noi due aveva
bisogno di comunicare con l’altra.
Inoltre,
le poche volte che ci
rivolgevamo la parola, non era certo per dirci cose gentili: per il
tempo che
sono stata al ryokan, io ero la cameriera e lei la viche di mia nonna.
Ancora
prima, criticava il mio matrimonio, e addirittura prima di Kojiro,
criticava il
mio modo di fare in sé. Insomma, hai suoi occhi niente di me
andava bene.
Eppure
non posso, ancora
adesso, dimenticare la carezza che mi diede sulla testa, il giorno che
ci siamo
conosciute la prima volta.
Alzai
lo sguardo, e vidi che
mi stava guardando, il suo volto era quasi tutto in ombra, e solo una
leggera
falce di luna indicava il profilo della fronte, della guancia e del
mento; gli
occhi erano lucidi, e mi fissavano attenti, come un gatto diffidente
che guarda
l’estraneo entrato in casa.
-…
dritta con la schiena.-
Io
obbedii silenziosamente
mentre la vedevo muoversi molto lentamente e mettersi con il busto di
fronte a
me; mia zia non era una donna particolarmente bella, ma una cosa che
non le
negherò mai era l’eleganza dei suoi movimenti,
anche quel semplice spostare il
busto dalla finestra verso di me era fatto con calma e bellezza.
Mia
madre, una volta, mi aveva
raccontato che per un certo periodo, la zia era stata una Maiko, e
sarebbe
divenuta una grande Geisha se la famiglia non l’avesse
richiamata per il suo
fidanzamento.
Ora
vidi chiaramente gli occhi
di zia Moe puntati sui miei, quasi a piegarli al loro volere. Il mio
animo, in
quei momenti, era si turbato dagl’eventi, a assolutamente
calmo nei confronti
di quell’anziana donna.
-Perché
sei qui?-
-Per
parlare con voi zia.-
-A
che proposito?-
-…
avete smesso nuovamente di
prendere le vostre medicine.-
-Non
sono affari tuoi, tu sei
fuori da questa famiglia.-
-Io
sono fuori dalla vostra
vita, ma la capofamiglia mi accetta ancora.-
-Solo
perché sei sua nipote,
ma per tutti gli altri non conti più niente.-
-Per
te non conto più niente.-
-E
allora perché mi stai
parlando?-
-Perché
mi è stato chiesto di
farlo.-
Non
mi spaventava risponderle
in quel modo, e non mi turbò la rigidità e la
freddezza del suo sguardo: non me
ne sarei andata da quella camera fino a quando non le avrei parlato. Di
cosa,
ancora non lo sapevo, in effetti la storia delle medicine era stato un
modo per
risponderle.
-Quando
ti è stato chiesto di
non sposare quell’uomo, tu hai disobbedito.-
-Nessuno
me lo ha chiesto: voi
me lo avete ordinato.-
-Io
sono tua zia, dunque
dovevi obbedirmi.-
-Io
obbedisco solo a me
stessa.-
-Per
questo sei stata
cacciata.-
-Nessuno
mi ha cacciata. Io me
ne sono andata.-
Quest’ultima
risposta le fece
stringere i pugni, lo notai con la vista periferica ma non staccai le
mie iridi
dalle sue, lo scontro era prima di tutto visivo, le parole servivano
solo come
contorno a quello che stava accadendo.
Ci
fu un lungo, lunghissimo silenzio.
Poi lei ricominciò, e stavolta vidi chiaramente che
c’era un piccolo sorriso di
soddisfazione lungo le sue labbra.
-Però
sei tornata vedo. Il tuo
uomo non ti vuole più?-
Vomitò
la parola “uomo”, quasi
disgustata dall’idea che io avessi seguito Genzo; non le
risposi, e lei
continuò nella provocazione.
-L’avevo
detto, ricordi?
avresti dovuto ascoltarmi: quelle come te non le vuole nessuno
… non sei utile,
sei sfacciata e prepotente nei confronti dei clienti, e come moglie
… non
potrai mai completare la felicità di nessuno …
nemmeno come amante.-
Nella
seconda parte del
discorso abbassò la voce, e lì approfittai con
crudeltà di quel momento di
debolezza. Dovevo farlo, non avevo altra scelta.
-Stai
parlando di te, zia.-
Lei
mi guardò con aria
cattiva, ma rimasi impassibile, continuando a parlarle.
-Io
sono felice: Genzo mi ama,
e io amo lui. La memoria di mio marito Kojiro mi accompagna, ma la mia
vita va
avanti; sono libera di essere me stessa, di sbagliare, fare i miei
errori e,
soprattutto, risolverli.
E,
soprattutto, posso essere
in grado di guarire dalla mia malattia: ho conosciuto uno specialista a
Monaco
che mi ha visitato … e mi ha parlato della
possibilità di guarie
dall’Endometriosi senza bisogno di asportazione.-
La
notiza la scioccò più di me
quando la sentii per la prima volta, e l’idea della
guarigione fu per me al
pari di uno scudo, in grado di proteggermi adesso da qualsiasi cosa lei
mi
avrebbe detto o fatto. Non avevo mai avuto veramente paura di lei, ma
il suo
atteggiamento mi umiliava e mi faceva sentire debole; adesso, invece,
sentivo
di essere diventata forte, sentivo di poterle dire tutto senza
l’angoscia
dell’umiliazione.
-Quindi,
zia, puoi lanciarmi
contro tutti gl’insulti e le cattiverie che vuoi, ma io non
sono te: io sono
libera di uscire da questa stanza quando voglio, non ho nessun obbligo
nei tuoi
confronti, e se sono qui, è solo per l’affetto che
mi lega a mia nonna, l’unica
cosa che abbiamo in comune.
Per
quell’affetto io ti
chiedo, zia Moe, di non accanirti più su di Jin, o quanto
meno di ricominciare
a prendere le tue medicine.-
E
a quel punto mi piegai in
avanti in segno di preghiera; rimasi immobile in quella posizione, con
la
sensazione di aver tolto dal mio petto un peso enorme, che mi aveva
schiacciata
fino a quel momento. Ma non sentii alcuna risposta da parte
dell’anziana, e un
nuovo pensiero si fece avanti: di sicuro la zia si sta arrabbiando,
pensavo,
alzaerà le mani? No, non ne è capace;
probabilmente mi caccerà via dalla
stanza.
-…
io ti odio.-
Glielo
sentii dire a bassa
voce, e mi venne da piangere. Non era tristezza, la mia, neanche
sorpresa: ero
solo molto amareggiata, perché sapevo che le cose sarebbero
andate a finire
così. In una situazione come la nostra, non c’era
alcuna possibilità di
incontrarci a metà via. Una delle due, per zia Moe, poteva
solo soccombere.
E
fu proprio lei.
-Ti
disprezzo, mi disgusti:
saresti stata una grande capofamiglia, a quest’ora avresti
già preso il posto
di tua nonna se non fossi così ribelle e maleducata. La tua
presunzione è pari
solo alla tua testardaggine, difetti che non posso tollerare in te, in
te dove
tutti riponevano le loro speranze!-
Dove
tu riponevi le tue
speranze, zia; mio padre, mia madre, mia nonna, Kojiro e Genzo, tutti
loro
erano fieri di me, di cosa io ero diventata. L’unica che non
poteva accettare
il cambiamento eri proprio tu, e questo oramai l’avevo
compreso.
-Mi
hai profondamente deluso:
prima con i tuoi modi da selvaggia, poi con la tua intenzione di
sposarti …
quell’uomo, e infine con la follia di scappare via insieme a
quell’altro! Sei
la vergogna della famiglia Akamine!-
Non
voleva la mia pietà.
-E
nonostante questo, la
capofamiglia … la mamma, continua a volerti bene, continua
ad amarti; non lo
sopporto, non lo posso accettare!-
A
quel punto alzai lo sguardo,
e la vidi stringere gli occhi, serrare i denti, stringere i pugni,
contenendo
dentro di se tutto quello che le stava sgorgando dal cuore; mi
guardò, e piantò
gli occhi su di me mentre io rialzavo la schiena.
-Ma
cosa ne puoi sapere tu?
Cosa puoi capire tu? Tu sei solo un’ingrata, che fa quello
che vuole e ignora i
suoi doveri di donna e membro della famiglia!
Vattene,
vattene da questa
famiglia, non meriti di essere un Akamine. Vattene, vattene!-
Voleva
che uscissi dalla sua
stanza, e mi limitai a fare un cenno della testa in segno di saluto,
alzandomi
in piedi e aprendo la porta scorrevole, chiudendola dietro di me e
notando, nel
corridoio, Tomoko tornare con il vassoio del the; mi guardava con aria
sorpresa
e turbata, chiedendomi con gli occhi cos’era successo.
Io
le sorrisi, scuotendo il
capo, e lentamente mi avviai verso la camera di mia nonna, ad
attendermi solo
lei, con lo sguardo rivolto sempre verso la terrazza; appena mi sentii
entrare
si voltò verso di me, mal celando la sua ansia nel sapere
cos’è successo.
Io
chiusi la porta, mi
avvicinai e m’inginocchiai di fronte a lei, guardandola: cosa
le avrei dovuto
dire? Che non ero riuscita a convincerla, o che finalmente mi sentivo
libera
dal tremendo peso delle sue parole? Dovevo dirle dell’odio di
mia zia nei miei
confronti, o del sollievo che sentivo io?
La
nonna parve intuire il mio
stato d’incertezza, e mi sorrise amara, allungando una mano
verso di me e
accarezzandomi una guancia; a quel tocco così delicato, il
mio cuore lasciò
andare il mescolarsi delle due emozioni, e i miei occhi si riempirono
di
lacrime, così come quelli di mia nonna erano velati da
quella patina di acqua
salata.
Lei
era triste, io sollevata.
Lei era infelice, io libera. Lei era orgogliosa di me, io mi sentivo in
colpa.
Lei voleva per me il meglio, io non avrei mai voluto lasciarla sola.
Appoggiai
la mia testa sul suo
grembo, piangendo, e lei mi accarezzò la testa, sicuramente
piangendo a sua
volta; mossi il capo verso sinistra, e vidi la linea
dell’orizzonte, sopra il
cielo era grigio perla, e il mare spumeggiava di bianco. Riempii il mio
sguardo
con quella vasta distesa d’acqua, seguendone ogni onda,
lasciandomi
accompagnare sulla riva, lì dove si alzavano i pali rossi
dell’entrata del
tempio.
Secondo
la nostra tradizione,
il tempio era sott’acqua, e quando i marinai partivano per la
pesca le donne
raggiungevano quel posto, e lì gettavano del riso, per
augurare ai loro
fratelli e mariti un pronto ritorno; pensando a quella leggenda, calmai
il mio
pianto, tornando poi a guardare la linea dell’orizzonte.
Oltre, la mia felicità
mi stava aspettando.
-Nonna
… devo ritornare entro
l’8.-
-…
certo, raggio di sole. La
tua felicità ti sta aspettando.-
Alzai
lentamente il capo,
guardando il volto vecchio e affettuoso di Kyoko, e le sorrisi con
tutto
l’amore che avevo per lei.
-Anche
tu sei la mia
felicità.-
-E
tu la mia.-
-…
ti ho mai deluso, nonna?-
-No,
mai.-
E
scosse il capo per
confermare le sue parole, imbarazzandomi leggermente mentre mi
accarezzava di
nuovo il volto; restammo in silenzio, in quell’atmosfera di
pace, e lentamente
sentii il desiderio di renderla felice, di sollevarle un po’
il morale. Presi
forza, e le confessai la grande novità.
-Nonna,
ho parlato a Monaco
con uno … specialista.-
Alzai
lo sguardo, e la vidi
incuriosita dal mio discorso, per poi fermarsi e guardarmi ancora
più
attentamente, notando l’entusiasmo che a fatica trattenevo
stringendo i pugni,
e le afferrai la mano che aveva fermato sulla mia guancia,
sorridendogli.
-Ha
detto … che c’è una cura
senza l’asporto: un’operazione non invasiva
… nonna, posso guarire
dall’Endometriosi.-
A
quel punto, non si capì chi
delle due fosse più felice: mia nonna, che dopo la notizia
rimase sconvolta,
per poi gridare contenta e abbracciarmi, oppure io che andavo al cuore
che andava
a mille, ancora una volta felice di quella notizia che da una vita, vi
giuro da
una vita, stavo aspettando.
-È
meraviglioso tesoro,
meraviglioso!-
-Lo
so!-
-L’hai
già detto a Satoru e
Natsuko?-
-No,
volevo che tu fossi la
prima.-
-Oh
cielo, cielo Maki! È … è
la cosa più bella che mi potessi dire. Wakabayashi lo sa?
Come l’ha presa?-
-È
felice quanto te nonna.-
-Quando
farai l’operazione?-
-Devo
prima fare delle
analisi, ma sicuramente l’anno prossimo prenderò
appuntamento.-
-Voglio
assolutamente esserci
quel giorno, chiaro? Voglio esserci!-
E
mia nonna afferrò il mi
oviso con entrambe le mani, guardandomi dritta negl’occhi per
farmi capire che,
se non l’avessi avvertita, allora si che sarebbero stati
grossi guai! Risi ed
annuii, e mia nonna gridò di nuovo, ringraziando gli
antenati e le divinità,
prima fra tutte Amaterasu.
Il
nostro chiasso attirò i
miei genitori e Jin, i quali rimasero piuttosto sbigottiti nel vedere
me e mia
nonna sorridenti ed entusiaste; mia nonna mi precedette nel dare la
buona notizia,
prendendomi e stringendomi a sé mentre io rivolgevo lo
sguardo ai miei
genitori, volevo assolutamente vedere le loro facce.
-Maki
guarirà! Maki guaarirà,
esiste una cura!-
-Mamma,
di che parli?-
-Della
malattia Satoru, la sua
malattia! Maki ha detto che il suo medico conosce una cura! Una cura
per
guarirla! Maki potrà guarire!-
Mia
madre si portò le mani
verso il volto, e cadde in ginocchio sul tatami preoccupandomi, tanto
che le
andai vicino per sorreggerla; lei mi agguantò le braccia,
guardandomi con gli
occhi che andavano a riempirsi di lacrime. Accidenti, reagendo
così mi faceva
tornare il pianto a me.
-Davvero?
È vero? Non ci
prendi in giro?-
Io
scossi la testa.
-È
tutto vero: probabilmente
farò l’operazione entro la fine del prossimo anno.-
A
mia madre mancò voce e
fiato, e poté solo abbracciarmi e stringermi a lei mentre
mio padre ci
raggiungeva e mi soffocava con la sua massa; io però ero
così felice, avvolta
in quel calore.
Ancora
adesso mi chiedo se la
zia, durante il suo discorso, mi avesse messo addosso qualche dubbio,
per
sentire poi un sollievo simile nel vedere i miei genitori felici;
oppure ero
proprio io la prima che aveva bisogno di sentire la loro
felicità per avere
fiducia in quell’operazione, in fondo anche con Genzo avevo
avuto una reazione
simile.
Io
Maki Akamine, definita
maschiaccio e altri epiteti simili, considerata dal mio gruppo di
softball, dai
miei amici e dalle persone più care una donna dalla tembra
d’acciaio, che non
si faceva piegare da niente, avevo un tremendo bisogno di sentire il
sostegno
degl’altri. Forse senza di questo, non sarei così
forte come voglio far
credere.
Lentamente
i miei genitori
slacciarono l’abbraccio, e in quel momento potei vedere Jin:
mi guardava con
aria fiera, non piangeva ma aveva gli occhi lucidi, e io mi alzai in
piedi,
avvicinandomi; a quel punto, lui mi allungò la mano, e io
gliela strinsi,
sorridendo divertita.
-Complimenti
sorellona.-
-Grazie.-
Quando
lo dissi a Tomoko, a
cena, lei urlò più forte di tutti, e mi
saltò addosso felice, abbracciandomi e
riempiendomi di complimenti. Lei amava me e zia Moe allo stesso modo ,e
se per
una soffriva, per l’altra era felice come una Pasqua.
Mia
nonna fece un brindisi per
la bella notizia, eravamo solo noi intimi a cenare nella sua stanza,
per quanto
fosse stata invitata la zia si era rifiutata di partecipare, ma questo
oramai
non mi turbava più.
Invece
quella notte, mentre
tutti stavano dormendo, mi alzai dal futon, guardando solo per un
momento mia
nonna, dormiva serena, forse per la prima volta, e in punta di piedi
uscii
dalla stanza, dirigendomi verso l’atrio, lì dove
solitamente tenevano il
telefono, componendo il numero di Monaco.
Squillo
… squillo … squillo …
forza Genzo! so che sei in casa!
>
Pronto, casa Wakabayashi.
-Isolde
sono Maki.-
>
Cara, ma che ore sono
lì?!
-Non
repoccuparti di questo,
passami Genzo piuttosto.-
>
Si, subito un attimo …
padroncino! È Maki!
Padroncino,
oddio padroncino!
Ecco che mi veniva da ridere, e io che lo soffocavo per non svegliar
eil resto
della famiglia.
>
Pronto?
-Ciao
Genzo.-
Gli
parlai in giapponese, e
lui ci mise un momento a rispondermi, incuriosendomi, sembrava
spostarsi da
qualche parte …
>
Come stai?
-…
abbastanza bene, ho voglia
di tornare a Monaco.-
>
E allora torna.
Sorrisi
divertita, ecco che
cercava di fare il furbo come al suo solito.
-Tornerò
quando qui si sarà
tutto sistemato. Ho detto ai miei della possibilità di
guarire
dall’Endometriosi.
>
Come l’hanno presa?
-Hanno
tutti urlato di gioia e
mi hanno riempita di baci e lacrime, mi sono dovuta asciugare con il
phon!-
Lo
sentii ridacchiare al mio
commento, e mi sentii stringere un po’ il cuore, mi mancava
già
quell’insopportabile orso brontolone.
-Tu
stai bene? Tutto a posto
lì?-
>
Tutto ok.
Bisbigliavo
sulla cornetta,
per non svegliare i parenti, e lui pian piano cominciò ad
abbassare a sua volta
il tono di voce, in una telefonata dove lui, come al solito, smozzicava
le
parole e risponda con pochi monosillabi, ma che stranamente
durò almeno due
ore, prima che gli dicessi che ore erano e, urlando al telefono, mi
ordinasse
di filare subito a letto.
**
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Capitolo 25 *** Familietreffen (III° Parte) ***
XXIV: Familientreffen
III° Parte
Erano
presenti i membri della
famiglia fino al quarto grado, alcuni provenienti anche dalle altre
isole
dell’arcipelago, tutti seduti dentro la grande sala;
c’erano due grandi tavoli,
dove stavano varie tazze di the e biscotti, e ognuno aveva il proprio
cuscino
dove accomodarsi. Le donne avevano per la maggior parte il kimono, e
solo
alcune studentesse avevano la divisa della loro scuola, così
come i ragazzi
avevano le uniformi scolastiche, compreso Jin, ma si era rifiutato di
mettersi
la cravatta, non la metteva mai.
Io
ero seduta a destra di mia
nonna, a sinistra c’era mio padre e mia madre, Jin era
accanto a me sul tavolo
principale, alla stessa altezza degl’altri; Tomoko, invece,
sedeva con la sua
famiglia, su uno dei due tavoli, ed era incredibilmente silenziosa in
quei
momenti.
Tutti
gli sguardi dei presenti
erano rivolti a noi, specie a me: se non tutti conoscevano la mia
storia
personale, sapevano il motivo per cui zia Moe rischiava
l’allontanamento, e
guardavano me come prossima causa di quelle riunioni di famiglia.
Feci
promettere, la sera dei
nostri festeggiamenti, ai miei genitori, a mia nonna e a Tomoko e Jin
di non
rivelare della cura a nessuno, perché non volevo nessuno ad
impicciarsi della
mia vita privata, loro soli erano la famiglia che consideravo, per me
tutti gli
altri erano solo estranei, specie dopo quanto avevano tentato di fare a
Jin.
E
se avevano dei dubbi su di
me, che li avessero pure, non sarei stata certo io a farglieli passare.
Quei
pranzi o cene, però,
erano uno strazio: c’era un’aria grigia ogni volta
che si stava a tavola, e
persino i piatti erano sciapi e pirivi di sapore. In quei momenti
arrivavo
perfino a trattenere il fiato, mangiando velocemente per riuscire a
svuotare il
piatto, come se l’odore del cibo m’impedisse di
masticare.
L’assenza
di mia zia Moe,
oltretutto, sembrava avvertita maggiormente: lei era sempre stata
considerata
la vice di mia nonna, la capofamiglia, e anche per tale motivo vedere
me in
quello che, di solito, era il suo posto a tavola, suscitava dubbi e,
probabilmente, incomprensioni con mia nonna. A quel punto non ero
sorpreso se
Moe era stata in grado di convincere parte della famiglia ad
allontanare Jin.
Non
saprei dire se tale
consapevolezza mi spaventasse o preoccupasse, al momento ero solo
preoccupata
per mia nonna: per quanto fosse anziana, e avesse delle prozioni
ridotte, notai
che mangiava a stento, e ingoiava a fatica anche cose come il pesce o
la zuppa
di miso. La situazione le stava prosciugando le energie.
Cos’altro
potevo fare io, per
poterla aiutare, a parte starle accanto?
-Maki.-
Parlava
a bassa voce, per non
farsi udire dagl’altri membri presenti, e io mi limitai a
lanciarle uno sguardo
veloce, ascoltandola in silenzio.
-Dopo
pranzo voglio scendere
al tempio.-
-Certo
nonna.-
-Non
ho finito: questo
pomeriggio … voglio che tu sia presente quando
parlerò con Moe.-
Voleva
un incontro riservato,
con nessun altro attorno se non la mia presenza: non voleva, infatti,
che zia
Moe influenzasse nuovamente il giudizio della famiglia, cosa in cui lei
era
molto più brava della sottoscritta, nota per essere una
“ribelle”.
A
volte mi capita i pensare a
cosa sarebbe potuto succedere … se la nonna avesse deciso di
affrontare la zia
apertamente, di fronte a tutta la famiglia: … odio dirlo, ma
temo che le
sarebbe stato difficile contrastarla; sicuramente l’avrebbe
avuta vinta, ma non
facilmente come sarebbe accaduto da lì ad un paio
d’ore. Se poi “facilmente” è
il termine giusto da usare …
Terminai
il pasto assieme a
lei, supplicandola con lo sguardo di mangiare ancora, di non lasciare
tutto
quel cibo sul piatto; lei mi sorrise affettuosa, e ingollò a
fatica altri due
bocconi, prima di alzarsi in piedi; a quel movimento, tutti i presenti
si
alzarono in piedi, e mi vidi davanti una massa di sagome scure, ai miei
occhi
crudeli privi di spessore. Ripensandoci ora, probabilmente
quegl’uomini e donne
avevano una vita, una famiglia, e forse erano addirittura
più felici e sereni
di me: ma in quel momento così delicato, tutti mi sembravano
nemici.
Chissà,
forse come
capofamiglia … no, non voglio pensarci, avevo preso la mia
decisione ancora
prima di sposare Kojiro, e non sono mai tornata indietro. Pensarci
adesso non
serve a niente, meglio che prosegua il racconto.
Ci
furono portati i nostri
cappotti, e per prima discesi dal terrazzo, offrendo la mano a mia
nonna per
aiutarla, quelle scale erano vagamente pericolose; e di colpo ebbi una
sensazione di deja-vu fortissima, avevo già provato qualcosa
di simile, ma mi
sembrava che ci fosse qualcosa di … ah, ma certo: le
posizioni erano invertite.
-Cosa
ti sei ricordata, raggio
di sole?-
Mia
nonna sembrava così
pallida che le folate di vento potevano portarla via come un aquilone,
pertanto
continuai a tenerle la mano e, per quanto potevo, a schermarla con il
mio corpo
mentre scendevamo giù, la scalinata di legno era costruita
sopra la roccia e la
terra, c’erano anche cespugli e qualche pino marino il cui
tronco andava verso
il mare, come se stesse per tuffarcisi dentro.
Io
sorrisi a mia nonna,
parlandole ad alta voce perché lì il vento
spirava forte, quello era uno dei
punti migliori per andare in barca o con il windsurf.
-Quando
andai a trovare Kojiro
assieme a Genzo, quando era al ryokan, mi obbligò a scendere
piano e a tenermi
a lui, perché era convinto che con gli Zori stavo tentando
il suicidio.-
Alle
mie parole la nonna rise
divertita mentre la discesa, mano a mano, diventava sempre
più facile, i
gradini diventavano sempre più larghi, fino a quando non
toccammo con i sandali
la superficie dura della roccia, davanti a noi si stagliava il mare nel
suo
azzurro e grigio splendore.
Amo
il mare, i paesaggi di
Monaco sono meravigliosi, ma quando, allora, ebbi di fronte quella
vastità, con
l’odore marino che mi entrava dentro i polmoni, mi sentii
incredibilmente
serena, sarei potuta rimanere la ore ad osservarlo, incantata da ogni
onda e
spuma che si sollevava verso l’aria.
Ricordo
che da piccola mi
facevo grandi nuotate, e durante l’estate, dopo la scuola, io
e le mie amiche
andavamo sempre a farci il bagno, nascosti sotto le uniformi tenevamo i
costumi;
poi mi piaceva salire sulle barche dei pescatori, e seguirli nelle loro
battute. Kojiro mi seguiva spesso, e dava una mano con me a tirare su
le reti.
Ci
dicevamo sempre, ridendo,
che se la nostra vita fosse andata male, potevamo comprarci un piccolo
peschereccio ed iniziare un’attività come
venditori di pesce. Una cosa
impensabile con Genzo, lui era il principino che viveva nel suo bel
castello, e
che era riuscito a conquistare il cuore di una selvaggia, come in un
romanzo
zuccheroso.
…
a proposito: avevo
consegnato il burattino a mio padre, e lui mi aveva assicurato che il
suo amico
lo stava trattando come fosse stato oro, e che in breve avrebbe finito
di
ripararlo. Non ne vedevo l’ora, i giorni erano passati ed era
già il quattro
Dicembre, avevo solo quattro giorni.
E
poi sarei tornata … a casa. Si,
oramai quella era la mia casa.
Mi
voltai verso mia nonna, e
le vidi tirare fuori dal cappotto un sacchetto, dentro c’era
del riso;
immaginai che volesse fare una cerimonia per la zia Moe, per augurarle
un
ritorno rapido nella famiglia Akamine. Mi feci da parte, e mia nonna
superò le
due alte colonne rosse, macchiate dal sale, ai loro piedi
c’erano incastrate
alghe.
Lei
unì le mani in segno di
preghiera, e io feci altrettanto, iniziando ad augurare a mia zia un
pronto
ritorno a casa.
-Spiriti
del mare, voi che
secoli proteggete la famiglia Akamine, vi chiedo di proteggere il mio
piccolo
raggio di sole: per favore, aiutate Maki nel suo cammino per tornare a
Monaco,
e assicuratele un ritorno sicuro e senza problemi dal suo compagno.-
Rimasi
sorpresa, e non per il
fatto che stesse chiedendo agli spiriti di aiutarmi, quando che non
stesse
chiedendo loro di aiutare la zia; la guardai attenta, i suoi gesti
erano sicuri
mentre prendeva una manciata di riso e, con un ampio movimento del
braccio, lo
lanciava e distribuiva all’acqua di fronte a sé.
Fece quel gesto per tre volte,
probabilmente ripetendo per tre volte il suo desiderio, e poi si
voltò verso di
me, passandomi il riso.
Io
la guardai amara, ma le
sorrisi, prendendo il sacchetto e andando verso l’acqua,
superando le due
colonne rosse. Sentii l’aria farsi ancora più
umida e fredda in volto, e l’odore
mi penetrò nel cervello mentre guardavo, rapita, la distesa
d’acqua di fronte a
me; mia nonna è convinta che tutti noi, prima di diventare
uomini, siamo stati
spiriti della natura. Io, di sicuro, appartenevo al mare,
all’oceano.
Presi
un profondo respiro, e
pensai a quale poteva essere la mia preghiera: forse mi sarei dovuta
rivolgere
agli spiriti su zia Moe, dato che mia nonna non l’avevo
fatto. Ma non era
quello che il mio cuore voleva, e mia nonna era sempre stata molto
severa in
questi casi, non dovevo ingannare me stessa, perché avrei
ingannato gli
spiriti, e la preghiera non avrebbe funzionato.
Cosa
volevo in quel momento,
più di ogni altra cosa, che tornasse? Cosa?
-…
spiriti del mare, io vi
chiedo di far tornare presto la serenità nella mia famiglia,
perché adesso il
momento è molto difficile, ma sono certa che le cose, con il
tempo, si
sistemeranno.-
Presi
il riso e lo lanciai,
guardando la linea dell’orizzonte, immaginando che fossero
proprio lì, a
guardarmi, spiriti del mare, e che i lvento stesse trasportando la mia
preghiera a loro; per altre tre volte pensai alla mia preghiera, e
lanciai il
riso fino a terminarlo.
Naha
è rivolta ad ovest sulla
cartina, dunque io stavo guardando nella direzione di Genzo:
romanticamente,
provai ad immaginare l’uomo che si voltava, anche solo per un
momento, verso
est, verso di me. Questo pensiero non gliel’ho mai rivelato,
ovviamente lui non
è tipo da fare cose simili.
Feci
un profondo respiro, e mi
voltai verso mia nonna, sedutasi su uno degl’ultimi gradini,
che mi stava
guardando; la raggiunsi, e lei rimase ferma sul gradino, invitandomi
con lo
sguardo a sedermi accanto a lei.
-Parlami
dell’operazione.-
-Non
è invasiva: si tratta …
di cercare nell’apparato la presenza di cisti ed escrescenze,
e di eliminare
quelle più grandi, che possono infiammarsi e provocare
l’Endometriosi; il
dottore dice che poi, in pochi giorni di riposo, torno come nuova.-
Lei
annuii, sorridendo, poi
parlando lentamente.
-Sai,
ho cercato di
proteggerla … di proteggere Moe: sono stata io a mandarla al
corso di Maiko,
credevo che facendola diventare una Geisha avrebbe avuto …
non lo so, una vita
più facile forse. Invece … ho solo ritardato la
sua tristezza.-
Le
misi un braccio attorno
alle spalle, avvicinandomi.
-Hai
fatto quello che potevi.-
-Sai,
suo padre … mio marito,
non era un uomo cattivo, anzi l’amava. Ma suo padre era il
capofamiglia, e
aveva … doveva fare quello che era giusto per la famiglia. E
Moe non si è mai
tirata indietro.-
Annuii,
mentre mia nonna
cercava la mia mano, ancora stringeva il sacchetto vuoto del riso, e me
la
strinse, le sue dita erano molto più fredde delle mie.
-Non
ho mai … conosciuto il
bisnonno.-
-Oh,
tesoro, è stato meglio
così, credimi, non saresti riuscita a sopportare quel
vecchio bigotto; ebbe da
ridire anche sul mio matrimonio, affermando che ero solo una cameriera,
un’onta
per la famiglia. Con il tempo si è dovuto ricredere, ma non
lo ha mai ammesso
apertamente.-
Sorrisi
divertita, e mia nonna
sorrise a sua volta, continuando a guardare il mare, pian piano la sua
espressione divertita si spense.
-…
non avrei … mai immaginato …
che Moe potesse assomgliargli così tanto … non
dopo quello che le ha fatto.-
-…
la zia aveva la certezza
della famiglia Akamine … e si è aggrappata a
questo in mancanza d’altro.-
-Sai,
il suo futuro marito …
non era un uomo malvagio, non voglio che tu pensi che sia stata
sfortunata in
tutto: aveva la possibilità di sposarlo ugualmente solo
… che non l’ha fatto.-
-Allora
riteneva la sua
famiglia più importante del suo fidanzato.-
-Mi
domando, se si fosse
innamorata davvero, se avrebbe fatto la stessa scelta.-
-…
credo di no nonna.-
-Ne
sei convinta?-
-Si.-
E
annuii per dare forza alla
mia convinzione, voltandomi verso l’anziana accanto a me.
questa mi sorrise
serena, appoggiando anche l’altra mano sopra la mia e
continuando a guardare il
mare.
-Fortuna
che ci sei tu, raggio
di sole. Sei il mio orgoglio, ricordalo sempre.-
-…
anche se non voglio essere il
capofamiglia?-
-Ma
certo! Tu hai saputo fare
le scelte giuste per te, per la tua vita, e guarda fin dove sei
arrivata: sei
stata una sportiva, hai incontrato e sposato l’amore della
tua vita, e adesso
stai ricominciando una vita tutta nuova con un altro amore. Non tutte
hanno una
seconda occasione.-
-Ma
ho dovuto lasciare te e il
ryokan …-
-Tesoro,
per ogni cosa c’è
sempre un prezzo, anche per la felicità. Ma non mi sembra un
prezzo così
tremendo: tu puoi sempre tornare a trovarmi.-
-Hm,
non so quanto potrà
essere d’accordo la mamma di questo.-
-Parlerò
io, nel caso, con
Natsuko. E voglio che con te, la prossima volta, ci sia Wakabayashi.-
Sorrisi
divertita, chissà se
lui avrebbe avuto lo stesso entusiasmo nel tornare qui, e magari
conoscere il
resto della famiglia: sapendo il suo carattere da despota, li avrebbe
messi
tutti in riga, facendoli sentire inferiori a lui. Oh si, lui si che si
sarebbe
trovato bene a fare il capofamiglia. A proposito di famiglia
…
-Non
ho ancora avuto modo di
conoscere i signori Wakabayashi; pare siano persone molto impegnate
…-
-Sono
sicura che, quando
tornerai, avrai modo di conoscerli. Dopotutto le cose stanno andando
bene tra
voi due, no?-
-Beh,
a dire la verità ci sono
stati problemi, tu lo sai …-
-Però
mi sembra che tutti si sia
risolto, no?-
La
nonna aveva avuto questa capacità
di obbligarmi a lasciar perdere il passato, guardando avanti; si
alzò
lentamente in piedi, tanto che mi alzai a mia volta per darle una mano,
ma con
una mano alzata mi spinse a sedermi di nuovo, dandomi prima la schiena,
e in
seguito a voltarsi verso di me.
-Il
passato ci è utile per
guardare al futuro, come le radici aiutano un albero a crescere; ma
questo non
significa che dobbiamo rimanere ancorati al passato, altrimenti non
cresceremo
mai: saremmo come tuberi, come patate.-
All’idea
di essere paragonata
ad una patata sorrisi divertita, ma subito mi riconcentrai su mia nonna
e sul
suo viso, così vecchio e grigio da come me lo ricordavo.
-Tu
devi essere un albero,
bambina mia; ho sempre voluto immaginarti proprio come questi pini
marittimi.-
E
m’indicò quelli sopra la mia
testa, in particolare uno con il tronco che si aggrappava in modo quasi
innaturale a quelle pietre, la chioma era tutta sporta in avanti ma
incredibilmente l’albero resisteva e non cadeva in avanti, e
le sue piccole
foglie erano verdissime.
-Li
vedi? Nonostante il vento,
e il terreno difficile, sono saldi e crescono forti; e così
sei anche tu. E ora
lo sarai anche di più, una volta guarita.-
M
irivolsi a mia nonna, e
sorprendentemente la vidi piangere, tanto che stavolta mi avvicinai a
lei,
preoccupata. Ma lei continuava a sorridere serena, accarezzandomi le
guance.
-Guarirai,
e quella che si
pensava una maledizione, finalmente, sarà debellata. Ti
costruirai la tua
famiglia, e dimenticherai questa.-
-Io
non mi dimenticherò mai di
te nonna, di te o dei miei genitori, o anche di Jin e Tomoko.-
-Lo
so, lo so, e questo ci fa
felici. Ma guarda la realtà, Maki: non puoi vivere qui, la
tua vita è al di là
del mare.-
Ma
significava perdere loro,
tutti loro, perché sapevo che sarebbero rimasti
lì, al di là del mare e,
addirittura, di un intero continente.
-Non
ci perderai mai, ma è
ovvio che saremo distanti. Per questo ti ho voluto con me qui, raggio
di sole:
per poterti aiutare in questo distacco.-
E
mi strinse la mano mentre io
annuivo, trattenevo coraggiosamente le lacrime e
l’abbracciai, stringendola a
me.
-Io
lo prometto, nonna:
qualsiasi cosa accada, non vi dimenticherò mai.-
-Non
lo farai, ne sono sicura
piccola.-
Sapevo
che il mio ritorno a
Naha sarebbe stato difficile, ma fino a quel punto non me
l’aspettavo, davvero;
e quello non era niente in confronto a dopo, ma non lo sapevo, non lo
potevo
ancora sapere …
Io
e nonna tornammo nella
stanza in silenzio, raccogliendo la concentrazione in ogni passo, e gli
ultimi
scalini, i più difficili, li superammo lentamente, io dietro
per aiutarla nel
caso facesse fatica, e solo quando fui sicura che fosse con entrambi i
piedi
sulla terrazza mi permisi di rilassarmi un attimo.
Il
tempo di dare i cappotti ai
domestici, e di sederci sui cuscini, e fummo pronte a quel difficile
momento;
avrei voluto stringere un’ultima volta la mano a mia nonna,
ma ci disponemmo in
distanza uguale a quella del terzo cuscino, e restammo ferme, in attesa
di mia
zia. Respirai a fondo, concentrandomi, e quando la porta scorrevole si
mosse,
mi sentii pronta ad affrontare la scena.
Zia
Moe era perfetta come
sempre, il kimono aggiustato al dettaglio e i capelli acconciati, per
l’occasione
si era fatta mettere un pettine di legno, con il bordo decorato dal
disegno di
un animale, mi parve un gatto; silenziosamente fece un piccolo inchino,
e poi
si sedette sul cuscino davanti a mia nonna, alla quale bastò
uno sguardo per
allontanare le domestiche dalla porta, che si chiuse silenziosa.
Aspettò
qualche minuto prima
di parlare, avevamo tutte una tazza di the, ma nessuna se la sentiva di
bere
anche solo una goccia.
-Moe,
ti ho chiamata per
discutere con te della tua situazione.-
-…
io non parlerò in presenza
di questa estranea.-
Mi
limitai a tenere lo sguardo
basso, oramai quelle offese non mi toccavano più, e non
avevo bisogno di
cercare il conforto di mia nonna, la quale, sono sicura,
accigliò
immediatamente lo sguardo.
-Maki
è figlia di Satoru,
dunque mia e tua nipote. Non è un’estranea, ma un
membro della nostra
famiglia.-
-Madre,
così dicendo non fate
che il suo gioco, è chiaro che il suo desiderio è
quello di dividerci.-
-Perché
mai vorrebbe questo?-
-Perché
sa bene che, se saremo
separate, per lei sarà più facile prendere
controllo della famiglia.-
-Maki
non ha mai desiderato
essere capofamiglia.-
-Madre
le credete davvero?-
-Tu
non le credi?-
-No,
non le credo.-
Rivolsi
gli occhi verso mia
zia, e la vidi tentare di avvelenarmi con il suo sguardo; io, da parte
mia, non
provavo nulla in quel momento: né rabbia, né
pietà nei suoi confronti. Quello che
veramente mi preoccupava ero lo stato di salute di nonna, fin dalle
prime
battute l’avevo vista affaticata, e mi sarebbe piaciuto
avvicinarmi solo per
poterla sostenere fisicamente; invece strinsi i pugni, obbligata
arimanere
ferma.
-Ed
è per tale motivo, Moe,
che hai mosso la famiglia contro di me?-
Queste
parole colpirono la
zia, che fece subito un’espressione stupita.
-Di
che parli?-
-Hai
convinto parte della
famiglia a cacciare via Jin, andando contro di me.-
-Non
è vero, io l’ho fatto per
te madre!-
-Per
me? E perché?-
E
di nuovo, i suoi occhi si
rivolsero rabbiosi a me. Cercai di rimanere impassibile, ma le sue
parole
colpirono anche me, incuriosendomi; poi i suoi occhi mi fecero capire
doveva
voleva arrivare nel suo discorso, e presi un profondo respiro.
-Non
capisci? La sua
intenzione è stata quella di scavalcarti, volendo adottare
quell’orfano; voleva
avere con sé un alleato per poter prendere il tuo posto!-
-…
questo discorso è senza
senso Moe.-
-Ma
madre è stata lei a
spingerti ad adottarlo, no? Lei ti ha obbligato.-
-Non
ho avuto nessun obbligo;
Maki lo avrebbe adottato di sua spontanea volontà, poteva
farlo. Tuttavia, all’ora
non era in grado di occuparsi di un bambino, non ne aveva
l’esperienza.-
-E
così ha scaricato su di te
il peso, stancandoti!-
-Jin
è sotto la mia tutela, ma
è sempre stata Maki a prendersi cura di te.-
-Per
metterlo contro di te
madre.-
-BASTA
MOE!-
Sia
io che la zia fummo
irretite dal richiamo di mia nonna, era così raro sentirla
gridare; un momento
dopo, la vidi soffrire del suo grido, e non potei più far
finta di niente,
avvicinandomi a lei e porgendole la tazza di the. Lei, però,
mi lanciò un
chiaro sguardo, rimettendomi sul cuscino con la sola forza dei suoi
occhi, e io
dovetti obbedirle mentre Moe alzava un dito contro di me.
-Ecco,
lo vedi? Approfitta delle
tue debolezze!-
-Volete
dire, zia, che voi l’avreste
lasciata soffrire senza fare niente?-
La
zia mi guardò indiavolata,
ma non voleva rispondermi, per lei era come se si fosse
“abbassata al mio
livello”.
-Rispondile
Moe.-
Mia
nonna la obbligò con il
comando, e la zia si morse le labbra, stringendo gli occhi e i pugni
mentre l’assenza
di risposta faceva male ad entrambe, a me e alla capofamiglia, che
parlò come
una madre.
-Pur
di non risponderle … mi
neghi il tuo affetto, Moe?-
La
zia la guardò colpita, e di
colpo la sua rabbia si sciolse, e lo vidi chiaramente: improvvisamente,
nei
suoi occhi ci furono migliaia di lacrime, e lei si coprì il
volto con una mano,
senza però riuscire a frenare il pianto; rivolsi lo sguardo
alla nonna,
supplicandola in silenzio di aiutarla, di fare qualcosa per lei,
qualsiasi
cosa. Io … io non ero arrabbiata con lei, sul serio.
La
nonna aveva la voce rotta.
-Moe
… la tua condotta nei
confronti di Jin è stata molto ingiusta, così
come lo è nei confronti di Maki;
e a questo punto … dubito persino del tuo affetto nei miei
confronti.-
-Nessuno
ti ama come me,
madre! Nessuno! Lo posso giurare!-
Rispose
con un tono a metà fra
il rabbioso e lo disperato, tanto che la gola mi si chiuse, impedendomi
perfino
di respirare mentre la nonna, per la prima volta da che era cominciata
quella
riunione, si permise un sorriso affettuoso.
-Lo
so bene, figlia mia, e io
amo te.
Ma
quello che hai fatto è
imperdonabile, lo sai vero?-
Mia
zia, oramai, piangeva
senza sosta, e stringendo i denti annuii, le colava perfino il naso, al
punto
che mia nonna, dal suo obi, tirò fuori il fazzoletto,
porgendolo alla figlia,
la quale lo accettò a testa bassa, soffiandosi il naso
mentre la nonna
aspettava che si calmasse, prima di parlare.
-È
per questo motivo che mi
vedo obbligata a prendere questa dolorosa scelta: Moe Akamine, ti
ordino di
allontanarti dalla casa e dal ryokan principali degli Akamine.
Verrai
mandata in un altro
ryokan, dove avrai comunque la gestione, ma fino a quando non chiederai
scusa,
o fino a nuovo ordine, rimarrai lì, e non presenzierai a
nessun’altra riunione
di famiglia.-
Aspettò
qualche momento a
parlare, vidi mia zia tremare leggermente ma tenere lo sguardo basso;
poi mia
nonna parlò a bassa voce, per non farsi sentire da nessun
altro se non da noi
due presenti.
-Ho
solo una richiesta da
farti, come madre: se mi ami, ti prego Moe, prendi le tue medicine. Ti
chiedo
solo questo.-
E
chinò la testa come segno di
supplica. Io e mia zia la guardammo, e a me si strinse il cuore.
Zia
Moe, invece, le rispose
con voce atona.
-Preparo
immediatamente i miei
bagagli.-
E
si alzò in piedi, uscendo
silenziosamente dalla stanza; io la guardai prendendo un profondo
respiro, e
poi mi rivolsi alla nonna, per consolarla.
Sotto
il mio sguardo, la nonna
svenne, facendomi morire di paura.
**
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Capitolo 26 *** Wählen ***
XXV: Wählen
(Scegliere)
Chiesi
a Jin di occuparsi di
Tomoko, la quale aveva gli occhi così rossi che di sicuro le
stavano bruciando
come fuoco: non aveva fatto altro che piangere e preoccuparsi, mentre
io ero
staata spaventosamente lucida, ordinando che fosse
chiamato il dottore e mio padre, facendomi
così aiutare a sistemarla nel letto, restandole accanto in
ogni secondo,
minuto, ora seguente, fino a quando il dottore non parlò a
me e ai miei
genitori.
-La
signora ha subito un grave
stress, e si è indebolita parecchio; ha bisogno di assoluto
riposo, e se
vedremo dei miglioramenti in due o tre giorni, potremmo sperare in una
sua
guarigione.-
Satoru,
mio padre, ringraziò
il medico, accompagnandolo fuori dalla stanza mentre io rimanevo
accanto alla
nonna, stringendole la mano pallida e guardandone il volto: era
sofferente, non
stava avendo un sonno tranquillo, e la discussione con la zia Moe mi
stava
tornando in mente in loop, come un giradischi rotto.
Era
… era colpa sua, colpa sua
se la nonna stava così male, era stata cieca ed egoista, e
la nonna per questo
ora soffriva e rischiava di … oddio, ancora adesso non
riesco apensarci, mi sembra
che ancora adesso non sia al sicuro dalla possibilità.
Ma
in quel momento mi sembrava
una possibilità così vicina e così
terrificante che mi alzai in piedi, decisa a
raggiungere la zia e … non lo so, in quel momento pensavo
che l’avrei picchiata
fino a farla cadere a terra svenuta, oppure le avrei restituito tutto
l’odio
che mi aveva gettato addosso. Avrei fatto questo ed altro se, davanti
alla
porta, mia madre non mi avesse afferrata saldamente per le spalle,
scrollandomi
con forza.
-Maki!-
-No,
no non posso lasciare che
finisca così, non così!-
-Allora
resta accanto alla
nonna e prenditi cura di lei!-
-Ma
… ma!-
-Obbedisci!-
Mia
madre mi aveva spesso
sgridato, è normale e giusto che una madre sgridi la figlia
se questa ha
sbagliato; ma quella volta non alzò la voce solo per
sgridarmi, ma per fermarmi
… ancora oggi, per quanto io e mia madre non ci parliamo
molto, in quanto è
nella nostra natura, lei mia ha sempre compreso. E in quel momento,
aveva
compreso che se non mi fermava, avrei perso la battaglia con me stessa.
Ero
preparata a tutto: ai
sfoghi di rabbia della zia, al suo odio, ai suoi tentativi di
screditarmi … ma
non alle conseguenze del suo comportamento, ad un possibile cedimento
della
nonna. Quando successe questo, il cervello si era spento, e avevo
reagito d’istinto,
proprio come la zia Moe; la mia paura mi aveva resa di nuovo debole, e
la
rabbia mi aveva spinta a muovermi.
Tutto
sbagliato.
Ma
quando tornai indietro, e
ripresi la mano alla nonna, mi sentii così inutile che
piansi di rabbia,
pensando a tutte le volte in cui avrei potuto dirle
“pensiamoci domani, lo
facciamo domani nonna, adesso riposati, ti prego riposati”, e
non l’avevo
fatto.
Mia
madre si accomodò accanto
a me, accarezzandomi la schiena.
-Maki.-
-Avrei
dovuto dirle di stare a
riposo! Avrei dovuto dirle di prendersi un giorni di riposo! Era la mia
responsabilità!-
-No,
non è vero: tu dovevi
parlare con la zia per conto della nonna, dovevi sostenerla e
l’hai fatto Maki.
Posso assicurarti che nonna è stata meglio in tua compagnia,
non riusciva
nemmeno ad uscire dalla sua stanza quando tu non c’eri.-
Le
sue parole non mi
consolavano, mi facevano sentire ulteriormente il peso delle mie
mancanze;
nonna, se quello era un altro modo che stavi usando per mettermi alla
prova,
posso assicurarti che fin da subito ho pensato di mollare. La mamma,
però, dall’accarezzarmi
la chiena prese a scrollarmi, usando un tono cattivo.
-Maki
Akamine, non ti
azzardare! Non ti permetto di comportarti così! non tornerai
indietro, non
tornerai a quando è morto tuo marito! Non mi farai
nuovamente stare in
pensiero, hai capito?!-
Ah,
già, giusto: un
atteggiamento simile lo avevo avuto con la morte di Kojiro. E dire che
credevo
di aver superato tutto.
Genzo,
in quel momento pensai
a Genzo, a quanto stava lontano da me, chilometri e chilometri; poi, in
un
lampo di consapevolezza, mi toccai la testa. Ma no, no che non era
lontano …
infatti afferrai il fermaglio che mi aveva regalato, e lo tolsi dai
capelli,
stringendolo forte in mano e guardandolo.
Quei
tre fiori mi fecero tornare
in mente il suo imbarazzo quando me lo regalò, la
delicatezza con cui mi bacia
sempre, come fossi fatta di vetro, l’ironia e divertimento
con cui mi stuzzica,
la rabbia con cui mi sgrida o con cui litigavamo. La nostalgia che
avevo di
lui, la felicità che provavo a stare con lui …
l’amore.
Presi
un profondo respiro, e
infilai il fermaglio tra la mia mano e quella di nonna; e tenendo salda
la
stretta, passai tutto il quattro, il cinque e il sei Dicembre.
Tomoko
arrivava portandomi la
cena, ed io mangiavo con una sola mano, senza lasciare per un momento
la mano
di mia nonna, ancora nel suo mondo dei sogni, ma mano a mano che i
giorni e le
notti passavano, sentivo la sua pelle fredda farsi più
calda, e le guance
perdere trasparenza, ma rimanere sempre grigie; la notte dormivo
accanto a lei,
continuando a tenerle la mano.
Avevano
portato il mio borsone
dal ryokan, e quando mi facevo prendere dallo sconforto nella notte,
tiravo
fuori il carillion e lo aprivo; sentivo la melodia del
“Danubio blu”, e mi
voltavo verso la terrazza, guardando il mare brillare alla fredda luce
della
Luna, crescente in quelle notti. Il mare era nero e blu, decorato di
argento, e
mi faceva pensare alle notti di Monaco, la villa Wakabayashi era fuori
città e
si riusciva a vedere le stelle.
Chissà
se aveva cominciato a
nevicare … chissà se Genzo si copriva
… e alla fine mi addormentavo,
dimenticando mi di chiudere la scatola, lasciandomi svegliare dalla
melodia il
giorno dopo, controllando prima lo stato della nonna, e poi verificando
che,
tenendola aperta così a lungo, il carillion dentro non si
fosse rovinato.
Il
sette Dicembre avevo perso
completamente il senso del tempo e del gusto, mangiavo solo per
riuscire a
stare in forze per tenere la mano alla nonna, e solo perché
mia madre era brava
a convincermi mi ero lavata e cambiata, abbandonando completamente il
kimono
per stare comoda nei miei jeans.
-Maki,
che ci fai qui?!-
Alzai
lo sguardo sorpresa,
Tomoko era entrata nella stanza guardandomi scioccata; io, da parte
mia, ero altrettanto
sorpresa dalla sua domanda.
-Io
… mi sto occupando dalla
nonna.-
-Ma
è il sette, sono le dieci
di mattina! Perderai l’aereo!-
Era
già il sette, sul serio?! Non
me n’ero accorta. Avevo una promessa da mantenere, ero decisa
a partire il
sette in modo da arrivare la sera tardi e, l’otto, essere
pronta a fare l’albero
e il presepe; non avevo nemmeno contattato Genzo in quei giorni, per
dirgli
quando arrivavo. Doveva essere preoccupato.
Guardai
la nonna, e mi sentii
male all’idea di lasciarle la mano: no, non potevo lasciarla,
non nel suo
stato, non si era ancora svegliata. Non l’avrei lasciata
finché non si sarebbe
svegliata, ero decisa; avrei spiegato tutto a Genzo una volta tornata a
Monaco,
ero certa che mi avrebbe capita.
-Partirò
non appena la nonna
starà meglio Tomoko.-
Ma
la ragazza sembrò dubbiosa
della mia scelta, preferendo uscire per non discutere sulla faccenda;
ci
pensarono mio padre e mia madre.
-Devi
partire.-
-Non
voglio lasciare la
nonna.-
-Dai
Maki non fare la
testarda, sono sicura che la nonna si sveglierà presto, e
appena succede ti
chiameremo.-
-No,
voglio essere presente.-
-Maki.-
-No
papà, è mia
responsabilità: sono sua nipote, mi ha chiamato per avere un
sostegno in questa
spiacevole situazione, e non ho nessuna intenzione di lasciarla.
Manterrò il
mio impegno.-
Alla
mia testardaggine, come
sempre, mio padre rispose sbuffando pesantemente, non era mai riuscito
a
convincermi di fare qualcosa contro la mia volontà, non
sarebbe riuscito a
farlo adesso. Mia madre, invece, sembrava propensa a continuare la
discussione,
ma cambiai drasticamente argomento per fermarla.
-Zia
Moe è partita?-
-È
ancora nella sua stanza:
dice che partirà non appena la nonna starà
meglio.-
Annuii,
forse anche sollevata,
dopotutto anche la zia avvertiva la responsabilità di dover
rimanere; forse, se
fosse partita, non sarei riuscita a perdonarla nel tempo.
Nelle
ore che seguirono, anche
Jin venne a trovarmi, e non appena lo riconobbi sospirai e lo guardai
supplichevole.
-Ti
prego, non venirmi a dire
anche tu di partire.-
-Figurati,
anche se te lo
dicessi non ti convincerei, giusto?-
Gli
sorrisi grata, ma il
sorriso mi durò poco, continuando a guardare il volto della
nonna, disteso nel
riposo; Jin s’inginocchiò dall’altro
lato del futon, guardandola preoccupato.
-Come
sta?-
-Meglio,
ma deve risposare. Nessuno
sa quando si sveglierà.-
-Credi
che …-
-No.
La nonna è una roccia; se
doveva accadere … sarebbe dovuto accadere molto tempo fa
…
No,
ce la farà, sono sicura
che ce la farà.-
E
Jin annuii, ma quelle parole
servivano più a me che a lui; restammo a lungo in silenzio,
e alla fine fu
sempre lui a parlare per primo.
-Cosa
dirai a Wakabayashi del
tuo ritardo?-
-La
verità, non potrei mai
mentire a Genzo.-
Non
lo sentii replicare, ed
alzai lo sguardo, notando che fossse particolarmente accigliato, direi
pensieroso; osservai la sua espressione attenta, continuando
però a mantenere
il contatto fisico con la nonna. Alla fine il ragazzo si
passò una mano tra i
capelli, prendendo un profondo respiro e parlandomi.
-Io
… sono convinto … che
nessuno potrà mai prendere il posto di Kojiro. Ma
… rispetto la tua scelta: Wakabayashi
… è un uomo arrogante … ma anche
onesto.
Pertanto
… ti auguro la
felicità … con lui.-
Guardai
Jin sorpresa,
rendendomi conto che, di fronte a me, non c’era
più il ragazzino di cui mi ero
presa cura per molto tempo, ma un ragazzo grande e maturo, che parlava
con tono
imbarazzato ma sincero; e le sue parole … mi resero ancora
più confusa nelle
mie scelte.
Avevo
fato una promessa a
Genzo, dovevo tornare da lui entro l’otto, per fare insieme
l’albero e il
presepe, e invece ero ancora lì; ma, d’altro
canto, la nonna stavo male, e non
potevo lasciarla sola, non dopo quanto era successo.
Sorrisi
a Jin grata, ma non
appena lui mi diede le spalle, il sorriso mi morì, lasciando
il posto al dubbio
e all’incertezza; e durante quelle ore, quando la luce del
sole scomparve e si
passò alla sera, dopo ache avevo consumato il mio pasto,
d’un tratto mi balenò
alla mente un’idea: anche … anche zia Moe aveva
avuto un dubbio del genere, nel
momento di scegliere?
Che
dunque io e la zia fossimo
davvero irrimediabilmente legate? E nonostante tutti i miei tentativi,
anche a
me sarebbe capitata la stessa sorte?
Qualcuno
fece scivolare la
porta scorrevole, e mio padre mi apparve, il voto ancora coperto di una
leggera
ansia, e tra le mani un involucro di carta.
-Maki,
sono le dieci, è da ore
che sei in quella posizione, dovresti cercare di riposarti.-
-Ah,
tranquillo papà: zia Moe
mi faceva stare anche di più, e ancora più
scomoda, quando mi puniva.-
Lui
mi sorrise, e si avviicnò
a me, posandomi sulle gambe l’involucro di carta.
-Il
mio amico me l’ha portato
oggi. È pronto.-
Ah,
il burattino, in tutto
quello che era successo mi ero dimenticata completamente di lui; avevo
una gran
voglia di vederlo, ma era stato accuratamente coperto dalla carta e non
volevo
rovinare il bel lavoro. Ringraziai mio padre con un sorriso, e lui si
limitò a
ricambiare, tornando poi a guardare la nonna; nel vedere la sua
espressione
così concentrata, i dubbi che mi ero covata dentro e che
avevo disperatamente
soffocato tornarono a galla.
-Papà
… nonna se la caverà,
vero?-
-…
ma si Maki, lo hai detto
sempre anche tu, no? La nonna è una roccia, se la
caverà.-
Chi
era il meno convinto tra i
due? Non ne ho idea. Ma mio padre pensò bene di cambiare
discorso, e di
riportarlo sul secondo argomento scottante di quei giorni.
-Invece
tesoro, dovresti
occuparti della tua vita.-
-Non
me la sento di lasciarla
papà.-
-Lo
so, e ti comprendo. Ma non
sarà sola: ci siamo io, tua madre, Tomoko e Jin.
E
in fondo non dimenticarti
che c’è anche zia Moe, a distanza di qualche
stanza.-
Già,
la zia. Io e la zia.
-Papà
… io e la zia ci
assomigliamo?-
-Assolutamente
no, siete
proprio una l’opposto dell’altra.-
-Eppure
… in questo momento …
mi sento in grado di capire la su sofferenza nell’aver dovuto
scegliere.-
La
mano di mio padre si posò
sulla mia schiena, e mi sentii in parte confortata mentre lui mi
parlava con
voce intenerita.
-Sono
fiero che tu la possa
capire, significa che stai crescendo, che non hai i paraocchi come lei,
e che
puoi sicuramente andare avanti e fare la scelta giusta.-
-Ma
se non la facessi, la
scelta giusta?-
-Certo
che la farai: sarà
quella giusta perché sentirai tu di aver fatto quella
giusta.-
Mi
baciò sui capelli,
spettinandomeli leggermente, lasciandomi sola che oramai erano le dieci
e mezza
di sera. Non sarei mai arrivata in tempo, me lo stavo ripetendo come un
mantra
mentre mi preparavo ad un altro notte; eppure sentii che, stavolta, non
sarei
riuscita a chiudere occhio. Dovevo chiamarlo, assolutamente, spiegargli
tutto;
ma anche se l’avessi fatto, mi avrebbe perdonata?
-…
Maki …-
Sentii
la mia mano farsi
stringere, e subito guardai il volto di mia nonna, vedendo le sue iridi
sotto
le palpebre pesanti. Oh Kami si, grazie, grazie Kami del mare e del
cielo,
grazie infinite! Mi sentii così rincuorata che quasi mi
veniva da piangere, e
mi avvicinai leggermente al suo viso, sorridendole.
-Nonna,
nonna.-
-Maki
… che … che giorno è?-
-Il
sette nonna, hai dormito
tre giorni, pelandrona.-
-Il
sette?! Ma che ore sono?-
-Quasi
meno un quarto alle
undici di sera nonna.-
-…
perché sei ancora qui?-
Quella
domanda mi lasciò
parecchio perplessa.
-Per
… per starti accanto
nonna.-
-Non
devi. Vai, devi andare.-
-Ma
nonna, non stai bene. No,
resta sdraiata!-
-Starò
sdraiaita solo quando
ti vedrò uscire da questa stanza e prendere il primo aereo
per Monaco, chiaro?-
La
guardavo senza parole: ma
come, era stata sull’orlo, e la prima cosa che mi diceva era
di andarmene? Non era
giusto, volevo stare con lei. Tuttavia lei era di tutt’altro
pensiero, e glielo
leggevo fin dentro le pupille.
-Maki
non ti permetterò di
perdere la possibilità di rifarti la tua vita, e sono sicura
che se non parti
adesso te ne pentirai per il resto dei tuoi giorni.
Ti
prego raggio di sole, va.
Va da chi ha bisogno di te adesso, io sto bene.-
Genzo
aveva … bisogno di me.
“-Solo … vedi di mantenere la
tua promessa.-”
…
cazzo, ma che stavo facendo
ancora lì?? Lasciai andare la mano di mia nonna, stringendo
forte il mio
fermaglio, e infilai carillion, burattino e vestiti dentro il borsone,
afferrandolo e alzandomi svelta per andare a buttare giù dal
letto mio padre.
Prima
di sucire, però, mi
voltai per abbracciare un’ultima volta mia nonna.
-Ti
chiamerò ogni giorno, ti
romperò le scatole per sapere che stai meglio.-
-E
io non ti deluderò raggio
di sole. Ora vai.-
La
guardai un’ultima volta, e
poi scappai.
Fuggii
dalla mia vecchia vita.
E
corsi più veloce che potei
dalla mia nuova vita, che stavo per abbandonare.
**
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Capitolo 27 *** Versprechen ***
XXVI: Versprechen
(Promessa)
Dormii
solo perché, in aereo,
ero stremata: feci il biglietto con la velocità di un
fulmine, e m’infilai sul
volo appena mi fu possibile. Avevo preso in prestito … no,
è meglio dire che
avevo rubato, l’orologio da polso di mio padre, e per tutto
il tempo che non
dormii lo fissai spaventata, guardando come le ore mi scappassero via
dalle
mani.
Avevo
paura, cos’avrebbe
pensato di me Genzo? Si sarebbe arrabbiato? Oh si, di sicuro era
furioso, non
gli piacciono le persone che non mantengono gl’impegni, e se
la persona in
questione ero io, beh mi trovavo nei guai.
Non
avrei cercato rifugio
nelle scuse: in questo momento non era importante lo stato di salute di
mia
nonna, o forse lo era ma in quel momento mi veniva da considerarla una
scusa.
Avevo solo un’angoscia in testa: che fosse troppo tardi, e
che Genzo questa
volta non mi avrebbe perdonata.
Arrivai
a Monaco che erano
le undici e mezzo di mattina, avevo
dormito si e no quattro ore, un sonno agitato che non mi aveva riposato
per
niente, e senza perdere tempo recuperai il mio borsone e volai
letteralmente
fuori dall’aereoporto, infilandomi nel primo taxy disponibile
e dicendogli
l’indirizzo con un tedesco fin troppo liscio per una come me;
continaui a
guardar el’orologio, ogni secondo in più mi
sembrava troppo, ogni minuto che
scattava pensavo che non ce l’avrei fatta.
Vidi
il profilo della villa, e
un primo momento di sollievo mi prese: almeno la casa era ancora
lì. Poi
ripiombai nell’angoscia, pagai distrattamente il tassista e
corsi oltre il
cancello, stranamente semichiuso, battendo il pungo sulla porta con una
forza
tale che l’avrei potuta sfondare. Mi aprì Isolde,
e di nuovo mi sentii meglio:
anche lei era ancora lì.
-Mein
Got! Maki!- (Mio Dio!)
-Isolde,
dov’è Genzo?!-
Entrai
in casa come una furia,
abbandonando il borsone, e stavo per salire le scale quando notai, con
sorpresa, uan presenza estranea nel salotto: un albero di Natale, un
albero
vero, dentro un vaso. Un albero alto almeno due metri e anche
più; entrai
dentro la sala, e notai le scatole delle decorazioni, e i mobili
spostati per
fare spazio al presepe e l’albero. Era tutto pronto, mancava
solo una cosa: io.
-Il
padroncino è dovuto andare
a pranzo dalla sua famiglia.-
-…
non lo sapevo.-
-Pensava
di farti una
sorpresa: voleva portarti con lui.-
Mi
avrebbe fatto conoscere la
sua famiglia. E poi, dopo, avremmo fatto insieme l’albero.
Mi
sentii un mostro, al punto
tale che m’inginocchiai a terra con le lacrime
agl’occhi, digrignando i denti
mentre Isolde mi si avvicinava, inginocchiandosi accanto a me e
prendendomi le
spalle con il braccio.
-Io
ho sempre creduto che
saresti tornata, ed eccoti qua; dai, non piangere, sono sicura che
andrà tutto
bene: sei tornata, ed è questo che conta.-
No,
non bastava, sapevo che
non sarebbe bastato: io dovevo tornare ad una determinata ora che non
mantenni,
un giorno che si ho rispettato, ma solo per testardaggine di mia nonna.
Ora toccava
a me fare il resto.
Piansi per rabbia, digrignando i denti; piansi per
il dolore, e per
quanto mi sforzassi, non riuscii ad asciugare tutte le mie lacrime. Ma
quando
smisi sapevo cosa dovevo fare, e mi rifugiai nella mia camera,
preparandomi,
togliendomi di dosso quei vestiti.
Volevo renderlo fiero di me, dimostrargli che tutto
quello che aveva
fatto per me non era andato sprecato; mostrargli come invece mi aveva
cambiata,
e come potesse avere fiducia in me. Perché lui mi aveva
salvata, portata via
dalla sofferenza e dolore, aprendosi nei miei confronti. E io volevo
fare
altrettanto, e ancora di più.
Perché ero profondamente, stupidamente e
inevitabilmente innamorata di
lui.
Aprii tutti i cassetti del cassettone, e trovai i
miei kimono in fondo,
in cima a tutti lui, il Furisode; lo presi, tirandone fuori ogni parte
con
delicatezza, e lo guardai angosciata, notando di quante parti era
composto, e
di quanto poco tempo avessi per prepararmi, dovevo anche sistemarmi i
capelli e
il trucco e … cielo!
No, no Maki, così non vai avanti: inizia
a vestirti, vedrai che ci
metterai un baleno, forza! Dipende tutto date adesso.
Mi sentii come alle qualificazioni delle olimpiadi,
quando ero sola
davanti al battitore, e potevo contare solo sulla mia forza e le mie
capacità:
anche allora mi ero scoraggiata, per poi rialzare la testa e farmi
sotto,
ottenendo il mio posto in squadra.
Lentamente iniziai a prepararmi, infilandomi la
prima parte da sola,
ricordando tutte le lezioni, i momenti, le lunghe e tediose ore passate
con mia
nonna, mia madre e Tomoko a mettermi e togliermi quei kimono che, un
tempo, definivo
scomodi e fuori moda; adesso erano diventati una parte del mio stesso
essere, e
senza di essi, forse, non sarei stata la donna che ero.
Ma sebbene avessi tali pensieri in testa, al tempo
stesso mi rendevo
conto che ogni pezzo del kimono aveva bisogno della sua cura e del suo
tempo, e
che fare tutto di fretta avrebbe solo rovinato tutto, e quando fu la
volta del
Furisode vero e proprio, mi sentii prendere dallo sconforto,
perché era un’operazione
difficile da fare da soli, e io avevo le mani che addirittura tremavano
dall’ansia.
No, così non ci sarei riuscita, ci avrei
messo tempo, troppo tempo.
-Ti serve una mano?-
Mi voltai verso l’uscio della camera,
lasciato aperto dalla mia furia:
Isolde era lì a guardarmi, sorridendo tranquilla, e mi si
avvicinò, cominciando
a sistemarmi il Furisode mentre io, istintivamente, mi fermavo e la
guardavo
sorpresa; poi, mentre la nebbia della mia ansia si dissipava
leggermente, mi
ricordai delle parole della governante, di quando un tempo aveva
sistemato i
kimoni della signora.
-Isolde … arigatou.-
Lei alzò lo sguardo verso di me e
sorrise, tornando poi a concentrarsi
sulla vestizione: sistemò alla perfezione la lunghezza del
kimono, controllandone
il fondo prima di passare alla cintura.
Passamo dei lunghi minuti in silenzio, nei quali io
maceravo nella mia
ansia; solo sentire la sua voce, sempre distesa nonostante la sua
attenzione
del vestirmi, riuscì a calmarmi in parte.
-Freidrich è con il padroncino,
perciò ho detto a Marta di chiamarti un
taxy, dovrebbe essere qui fra poco; ho già dato
l’indirizzo alla cameriera che
lo sta chiamando, perciò quando arriva non devi fare altro
che sederti e farti
portare.-
Era come mia nonna: una veggente, o comunque una
persona che intuiva le
mie intenzioni. Non che ci volesse un genio, lo ammetto.
Ma nonostante avesse organizzato questa parte,
c’era una cosa che non
sarebbe mai riuscita a sistemare: il casino che avevo creato con Genzo.
Che
cosa dovevo fare, quando me lo sarei trovata davanti? Di sicuro mi
avrebbe
guardata con rabbia, tanta rabbia, e io mi sarei ammutolita come una
stupida,
che era la cosa più sbagliata da fare!!
-Io … io non so cosa dirgli Isolde:
sarà arrabbiato con me, e non so che
dirgli per scusarmi del mio comportamento.-
Sistemò la prima cintura, passando
all’obi dorato, prendendo il cuscino
per metterlo dietro quando avrebbe fatto il fiocco, e al tempo stesso
mi parlò
con voce sicura, incrinata solo dalla concentrazione che stava usando
per
sistemarmi il vestito.
-A volte non c’è bisogno di
parole Maki: già questa tua volontà di
raggiungerlo, per giunta con un tale abito, è una prova
più che sufficiente dei
tuoi sentimenti per lui. Le parole sono superflue, fidati.-
Annuii, ma mi sentii ancora a disagio:
c’era altro, un’altra paura che
mi serrava la bocca dello stomaco.
-E la sua famiglia? Come mi devo comportare con la
sua famiglia?-
Quasi mi sbalzò davanti mentre sistemava
il fiocco dietro la schiena e
infilava il cuscino, sistemando gli ultimi dettagli, prima di
allontanarsi e
vedere l’insieme.
-Oh non temete, sono sicura che la signora
Wakabayashi non vi farà
niente: suo figlio Genzo forse non le assomiglia fisicamente, ma
credetemi se
vi dico che, quando ritengono una persona degna di fiducia, la
rispettano fino
alla fine dei loro giorni.
Ecco, siete pronta. Forza, sbrigatevi! Dovete
truccarvi e sistemarvi i
capelli, il taxy sarà qui a momenti!-
E
mi spinse verso il bagno,
per poi prendermi gli zoccoli da indossare con il kimono.
Le
lezioni di Yayoi sul trucco
mi furono d’aiuto, e impastate con le basi che mi avevano
dato nonna e zia Moe
riuscii a render eil mio volto molto più presentabile; mi
pettinai i capelli, e
presi il mio fermaglio dalla tasca del giaccone, infilandomelo ancora
una volta
tra i capelli, uscendo di corsa dal bagno e infilandomi gli zoccoli.
A
momenti rotolai giù dalle
scale, tanta era la foga, e mi fermai solo quando Isolde mi
chiamò.
-Maki
aspetta!-
Mi
voltai, e la vidi scendere
con la mia stessa foga, ma mentre io sarei semplicemente rovinata
giù dalle
scale, Isolde con la sua corporatura sarebbe di certo rotolata
giù, e la scena
era talmente tanto buffa da farmi scappare un leggero riso; in mano
aveva la
pelliccia che nonna mi aveva mandato nel pacco, e una pochette con
dentro il necessario
e i soldi per il taxi.
-Maki,
sei bellissima. Copriti
che si gela fuori.-
-Grazie,
grazie di tutto
Isolde.-
Mi
sistemò una ciocca di
capelli, e io sono sicura che ne approfittò per farmi una
carezza, sorridendomi
dolce.
-Vai
piccola.-
Le
obbeddii, il taxi mi
aspettava fuori dal cancello e l’autista rimase sorpreso di
vedermi,
limitandosi ad aiutarmi ad entrare e chiudendomi la porta, per poi
salire e
partire; avevo ancora addosso l’orologio di mio padre, e lo
guardai
incessantemente, lanciando ogni tanto delle occhiate al paesaggio
fuori, che
però non riusciva a conquistarmi.
Era
quasi l’una, accidenti;
pregai che pranzassero in ritardo mentre il veicolo mi teneva fuori dal
centro,
guidandomi verso un quartiere residenziale estremamente bello ed
elegante … e
mano a mano che vedevo quei bei palazzi, io mi sentii sempre
più un pesce fuor
d’acqua.
Mi
prese il panico: e se
avessi sbagliato tutto? Se avessi dovuto restare in casa invece di
andare lì? Lui,
dopotutto, odiava le improvvisate. In un modo o nell’altro,
ero sicura di
averlo fatto arrabbiare, e mentre pensavo a questo quasi non mi accorse
che il
taxi si fermava alla mia destinazione; l’autista,
cortesemente mi aprì lo sportello,
e io scesi con le gambe che erano fatte di gelatina.
L’edificio
di fronte a me era
elegante e moderno, sobrio, e pieno di finestre, c’era un
sacco di vetro, ma
era di quel tipo che l’interno non si poteva vedere;
sembravano più degl’uffici
che una csa, ma pagai ugualmente il tassista, ringraziandolo in tedesco
e con
un inchino, e lui mi rispose imbarazzato, lasciandomi sola ad
affrontare il mio
destino.
Camminai
lentamente, e vidi
che sul citofono del grande cancello c’era effettivamente
scritto “Wakabayashi”;
suonai, e attesi pazientemente, notando all’ultimo secondo
che, sopra il
citofono, c’era una telecamera. Oh mio Dio,
cos’avrebbero pensato di me,
conciata in quella maniera?!
Invece,
stranamente, mi fu
aperta la porta più piccola, e davanti a me comparve
un’inserviente, che mi
guardò incuriosito.
-Desidera?-
-…
sono Maki Akamine, una
conoscente di Genzo Wakabayashi. Dovrei parlare con lui, è
possibile?-
L’uomo
mi guardò stupito, ma
alla fine si decise a farmi entrare, davanti a me c’era una
piccola stradina
dove, vicino alla casa, erano parcheggiate le macchine, e riconobbi
subito
quella di Friedrich … e Friedrich stesso, che sembrava
parlare con un altro
autista; l’uomo mi riconobbe, e lo salutai con un cenno del
capo. Dopo un
attimo di smarrimento, mi rispose con un sorriso sollevato.
Anch’io
ero contanta di vedere
una faccia amica, significava che ero proprio nel posto giusto; mi fu
aprta la
porta principale, ma mi fuchiesto di rimanere nel gigantesco antrone,
la casa
era pazzesca, e il contrasto con la villa era incredibile: i muri
davanti erano
stati sostiuiti appunto con il vetro, che apriva sulla strada, sul
cacnello e
sulla via, il pavimento era di legno e le scale erano in vista, come la
stanza
del piano di sopra.
Il
resto della casa mi era, al
momento, precluso, e sinceramente avevo voglia di lasciarlo precluso.
Diedi le
spalle alla casa, cercando nella vista esterna qualcosa di confortante,
e solo
in quel momento notai che c’era un cane, prima non
l’avevo visto, forse l’avevo
tenuto fermo per farmi passare.
Era
un cane grande, di quelli
simili ai cavalli, mi sembrava di riconoscere la razza ma al momento
non mi
veniva in mente il nome.
-Maki?-
Ah,
la sua voce, la sua voce!
M’irrigidii tremendamente le spalle, e presi un profondo
respiro, chiudendo gli
occhi. Dai Maki, 1, 2, 3!
Mi
voltai, e riconobbi subito
la sua solita camicia con la cravatta, non aveva la giacca e aveva il
volto … assolutamente
stralunato; mi mordicchiai l’interno delle labbra,
ricordandomi che avevo
addosso il rossetto, e non resistetti all’impulso di
parlargli. Perdonami Isolde,
non ce la feci proprio!
-Scusami,
so che non ti
piacciono le improvvisate, ma pensavo che se non fossi venuta
… non sarei mai
riuscita a … a perdonarmi …
Mi
dispiace, mi dispiace non
ho mantenuto la promessa, ma vedi è successo un casino e
…-
-Maki,
prendi fiato, stai
diventando blu come il kimono.-
Non
mi ero resa conto di aver
trattenuto il fiato, e obbeddii, inspirando con il naso mentre Genzo,
lentamente,
si lasciava scappare un sorriso divertito, ancora stupito …
e sollevato.
-Come
sapevi che ero qui?-
-…
ha fatto tutto Isolde.-
-Tzé,
mi toccherà farle il
regalo di Natale.-
Sorrisi
divertita, ma il
sorriso mi durò poco; feci un inchino verso Genzo,
parlandogli cupa.
-Mi
dispiace di averti deluso,
non ho mantenuto la promessa.-
Lo
sentii prendermi per le
spalle, sollevandomi dolcemente, e i miei occhi furono presto nei suoi.
-Maki,
che giorno è oggi?-
-…
l’otto Dicembre.-
-E
quando dovevi tornare a
Monaco?-
-…
l’otto Dicembre.-
-Non
mi hai mai detto a che
ora saresti arrivata, e dunque non sei in ritardo, e hai mantenuto la
promessa.-
E,
con mia grande sorpresa, mi
baciò la guancia, accarezzandomela in seguito, prima di
offrirmi la sua mano.
-Avanti:
sato che sei qua, è
giusto che incontri la mia famiglia. Sei fortunata, oggi ci sono anche
Akio con
la sua fidanzata.-
E
mi prese la mano,
trascinandomi dentro il salone, ma io lo frenai, per fermarlo.
-Genzo,
aspetta!-
Mi
guardò sorpreso.
-Io
… io ho un po’ paura.-
Lui
mi sorrise divertito, e mi
posò la sua fronte contro la mia. Oh dei, come mi era
mancato quel tocco in
quei giorni.
-Non
ti preoccupare: abbaiano
ma non mordono.-
E
sorrisi, lasciandomi poi
trascinare da lui dentro casa, stupendomi che girasse con le scarpe sul
pavimento di legno; mi aiutò a salire le scale, e mi
guidò verso la sala da
pranzo, affacciata sul loro giardino. La sala era ampia e luminosa,
metà delle
pareti erano vetro, e il mobilio di legno aveva un’aria
moderna e leggera, li
avevo sentiti parlare ancora prima di entrare, e quando me li vidi
davanti mi
sentii nuovamente irrigidire.
La
prima cosa che mi colpì fu
che c’era un uomo, il più adulto di tutti, che era
praticamente uguale a Genzo,
lo stesso sgurdo negl’occhi, mentre la donna accanto a lui,
cavolo se era
bella: aveva i capelli castano scuro curati, e un bel foulard colorato
legato
intorno a collo, con un abito che sottolineava il fisico asciutto con
una
cintura all vita.
Poi
vidi altri due uomini, e
uno lo riconobbi come Akio, il quale mi guardò sorpreso, o
meglio entusiasta,
accanto a lui la sua ragazza, me la ricordai quando l’avevo
intravista alla
festa all’hotel; l’altro uomo, a me sconosciuto,
aveva un’aria molto seria,
direi quasi distaccata.
Genzo
mi fece fare qualche
passo avanti, e mi presentò alla sua famiglia.
-Madre,
padre, questa è la mia
fidanzata, Maki Hyuga Akamine.-
Ah,
era la prima volta che gli
sentivo dire una parola simile: fidanzata, prima di quel momento non ci
avevo
mai pensato che fossimo effettivamente una coppia. Certo, stavamo
insieme, ma
fino a quel momento non me n’ero resa conto.
Nuovamente
feci un profondo
inchino, presentandomi allo stesso modo con cui mi presentai alla madre
di
Kojiro, il primo giorno che la conobbi. L’unica differenza
è che dissi la
formula con il miglior tedesco che riuscii a sfoderare.
-Mi
chiamo Maki Hyuga Akamine,
sono molto lieta di fare la vostra conoscenza.-
**
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Capitolo 28 *** Eine neue Familie ***
XXVII: Eine neue Familie
(una
nuova famiglia)
La
prima volta … che conobbi
la signora Hyuga ero … molto nervosa, perché non
sapevo che persona mi sarei
aspettata: Kojiro mi aveva sempre detto che era una donna molto dolce e
gentile, ma sapevo che era vedova e che doveva pensare a tre bambini
piccoli
con lui, e quindi mi aspettavo una signora con un carattere forte, che
magari
non gradiva la presenza di un’estranea.
Mi
era stato insegnato come
rivolgermi in quelle occasioni, perché mia zia Moe si
aspettava che, in quanto
futura capofamiglia, avrei accettato la possibilità di
… fidanzamenti con
persone scelte da loro; pertanto mi aveva fatto imparare quella
formula, e
stranamente mi resi conto che quella frase, soprattutto detta in
giapponese,
aveva su di me un effetto … calmante. Quando rivolsi
nuovamente lo sguardo
sulla signora Hyuga, infatti, ero molto più sicura di me.
Ora
quella stessa formula,
benché usassi un linguaggio diverso, ebbe lo stesso magico
effetto: la mia
ansia diminuì drasticamente, e potei alzare tranquillamente
la testa, guardando
prima di tutti la signora Wakabayashi; avevo avuto
l’intuizione che, benché il
signor Wakabayashi era il capo famiglia, la signora effettivamente
muoveva le
redini.
Difatti
lei mi restituì lo
sguardo con assoluta calma, ed io rividi in quelle iridi scure lo
stesso
sguardo di Genzo, educato ma attento al minimo dettaglio; alla fine fu
il
signor Wakabayashi a farsi avanti.
-Benvenuta,
Maki. Sono Hiroshi
Wakabayashi.-
Gli
strinsi la mano, e sentii
una presa sicura sulla mia pella, e gliela restituii con tutta
l’energia che
avevo, sorridendogli cortese; anche la moglie lo raggiunse e mi porse
la mano
con un cortesia, il suo sorriso però mi era familiare: era
lo stesso sorriso di
circostanza che Genzo usava in pubblico, per nascondere i suoi pensieri.
No,
ero ancora in prova.
-Benvenuta,
Kimiko Wakabayashi.-
Kimiko,
credo che sia uno dei
miei nomi preferiti: la sua traduzione è “Bambina
imperatrice”, e pare che la
moglie del mio bisnonno avesse tale nome. Inoltre, guardando quel volto
così
affascinante, pensavo al suo nome come all’unica pennellata
di un pittore, che
con un solo movimento del polso aveva unito tutta l’essenza
di quella donna.
Aveva
un trucco leggero, non
ne aveva quasi bisogno; si vedeva che era più grande e
matura di me, ma era una
di quelle persone che, quando le guardi in faccia, ne avverti subito la
bellezza immutata, anche sotto le rughe. Mia nonna diceva sempre che,
quel tipo
di persone, erano così perché avevano mantenuto
il loro animo incontaminato dai
vizi; già, nonna, chissà come stava …
-Prego,
non stia in piedi, si
accomodi.-
La
madre di Genzo mi fece
spazio, e io lentamente mi allontanai dall’uomo, seguendola e
accomodandomi su
uno dei bianchi divani della sala, oltre che esserci il tavolo da
pranzo,
infatti, c’erano pure due divani con un basso tavolino, sopra
di questo vasoi
pieni di vivande.
-Favorisca,
non faccia
complimenti; non abbiamo molto da offrirle, ma Genzo ci aveva informato
che,
probabilmente, era ancora in Giappone.-
Prima
trappola della donna:
cercava di farmi sentire in colpa per la mia improvvisata, non le
piacevano
come il figlio. Se mi fossi mostrata mortificata, e avessi tirato fuori
qualche
scusa, sarei finita dritta dritta lì dove voleva quella
donna; non capivo se lo
faceva per mettermi alla prova o per carattere suo, ma non la temevo:
dopotutto, avevo affrontato il figlio!
Genzo,
intanto, si mise dietro
lo schienale del divano, appoggiando la mano sopra la mia spalla
destra, e a
quel tocco sorrisi confortata, scostandola gentilmente: non doveva
preoccuparsi
per me, me la sarei cavata, e inoltre se si comprotava così
m’indicava come una
persona fragile, cosa che non ero assolutamente, non dopo tutto quello
che era
accaduto.
Dovevo
cavarmela con le mie
sole forze.
-Sono
tornata solo un’ora fa
da Naha: purtroppo mia nonna, la capofamiglia, è stata male
e l’ho dovuta
assistere.-
-La
signora Kyoko è stata
male?! Cosa l’è successo?-
Genzo
si sporse dallo
schienale del divano, guardandomi turbato, e io gli sorrisi tranquilla,
per non
farlo agitare, spegandogli la situazione.
-Ha
avuto un calo di energie,
per via della riunione di famiglia, ma ora sta bene, l’ultima
volta che l’ho
vista si era ripresa egregiamente.-
Già
a momenti mi spediva calci
in culo da te, sono sicura che non l’abbia fatto solo
perché non le reggevano
le gambe; lui annuì, e io riconfermai le mie parole con un
sorriso. Ad interromperci
ci pensò il signor Wakabayashi.
-Dunque
hai partecipato ad una
riunione di famiglia.-
-Si
signore.-
-È
stato per delle festività
in particolare.-
-No
signore: ci sono state
delle incomprensioni all’interno della famiglia, ed
è stato necessario
intervenire.-
-Dovrete
essere in molti per essere
costretti a simili riunioni.-
-Nel
nucleo principale della
famiglia siamo venticinque membri compresi i cugini di secondo grado.-
Che
erano tre. Vidi il signor
Wakabayashi interessarsi al mio discorso mentre la signora Wakabayashi
mi
serviva un lungo calice con dentro spumante, e io accettai con un cenno
del
capo, prendendolo e poggiandolo momentaneamente sul tavolo.
“-Ricordati Maki: ogni incontro
è una sfida. Può essere silenziosa e
non percepita dalle altre presenze, ma c’è sempre;
pertanto devi individuare
chi ti lancia la sfida, e come una partita a Go cercare di accerchiarlo
e
sconfiggerlo con educazione, deferenza e tranquillità.
Fretta, rabbia e paura
devono essere bandite dal tuo corpo e dalla tua mente.-”
Che
strano, questo me lo aveva
insegnato proprio zia Moe, chissà come mai non me lo
ricordavo prima.
-La
tua famiglia deve avere
una forte importanza a … Naha, giusto?-
Stavolta
fu la signora
Wakabayashi a parlarmi, non riuscendo a capire qualcosa di me con il
bicchiere
di prosecco. Annuii.
-La
famiglia Akamine è una
delle più antiche e importanti di Okinawa; secondo le nostre
leggende, la
nostra famiglia discenderebbe dalla dea Amaterasu.-
-La
dea del sole,
impressionante.-
Era
giapponese doc, e anche se
non si vestiva o non parlasse come una giapponese, c’era
qualcosa in lei che mi
richiamava la nostra terra; vederle il volto mi faceva venire in mente
un
pesco, o un ciliegio in fiore, tradizionali ma sempre affascinanti.
Sedeva
sul bracciolo accanto
al marito, il quale era interessato alla parte più pratica
della mia famiglia.
-E
che tipo di attività
avete?-
-Gestiamo
una catena di
ryokan.-
-Locande
tradizionali, devono
essere molto belle.-
Avrei
voluto dirgli che poteva
chiedere a Genzo, dato che lui c’era stato, ma mi bloccai
ancora prima di
dirlo: quanto sapevano di come io e lui c’eravamo incontrati?
E quanto potevo
dirne io? In risposta alle mie domande, fu proprio Genzo a prendere la
parola.
-Ho
avuto modo di frequentare una
delle loro locande per un certo periodo.-
-Davvero
Genzo? Quando è
stato?-
-All’incirca
sette mesi fa
mamma, quando mi sono infortunato.-
-Ah,
certo, lo strappo. Credevo
però che fossi tornato a casa.-
-Ho
preferito … cambiare
aria.-
-Capisco
… e hai conosciuto lì
la signorina Akamine?-
-Signora
Akamine.-
A
quella correzione la madre,
per la prima volta, rimase veramente sorpresa, e anche il marito
alzò lo
sguardo verso il figlio. Io, da parte mia, nascosi la mia agitazione:
non
sapevano che ero stata sposata, beh conoscendo Genzo non mi sorprendevo
se lui
non avesse detto molto di me, anzi niente.
-…
signora?-
-Si:
mio marito, purtroppo, è
morto due anni fa. Si chiamava Kojiro Hyuga.-
-Mamma,
ti ricordi la
nazionale giapponese? Era uno dei compagni di squadra di Genzo.-
Akio
intervenne alla
discussione, e io rivolsi per un momento l’attenzione sulla
sua fidanzata,
Amelia, notando che questa non era particolarmente colpita dalla
notizia, forse
ne aveva parlato con il fratello di Genzo.
-Ah
ma certo, ma certo.
Condoglianze per la vostra scomparsa.-
La
ringraziai con un cenno del
capo, ma la signora non perse tempo. Mi resi conto che non era cattiva,
ma
diffidente come il figlio più piccolo, di conseguenza sapevo
come trattarla,
anche se, fortunatamente, non dovevo essere barbara come lo ero stata
con
Genzo.
Tuttavia
calò il silenzio dopo
la scoperta, e mi resi conto che quella era la prova più
difficile: ero una
vedova dopo tutto, come avrebbero preso la mia relazione con il loro
figlio con
questa novità?
-…
e adesso, come ti trovi qui
a Monaco?-
Fu
proprio la signora
Wakabayashi a farmi quella domanda, e guardai il suo volto alla ricerca
di
qualche altra trappola lei preparata; ma no, per quella volta il suo
viso
sembrava sinceramente in imbarazzo, e quella domanda era fatta proprio
per
cambiare argomento. Sorrisi cordiale, rispondendole.
-Molto
bene; la lingua è
difficile, ma ho un buon insegnante.-
E
lanciai uno sguardo d’intesa
a Genzo; a quel mio atteggiamento, vidi la signora Wakabayashi
riempirsi d’orgoglio,
sorridendo.
-Genzo
è sempre stato il più
abile nell’imparare le lingue; in fondo è un bravo
studente, se non fosse così
testardo.-
-Non
è colpa mia se non sono d’accordo
con le intenzioni di papà.-
-Kimiko,
Genzo, abbiamo sempre
detto che non si discute di lavoro quando si sta insieme. Giusto
Ichirou?-
Era
la prima volta che
prendevano in ballo il primo figlio, e alzai lo sguardo verso di lui,
notando
che annuii al padre, restando però in disparte, guardandomi
cauto; Genzo era un
orso brontolone, ma quell’uomo mi diede la chiara idea di
essere un pezzo di
ghiaccio.
Akio
intervenne come al
solito, per spingere il fratello maggiore nella conversazione.
-Già,
ogni volta la mamma deve
sempre ripetergli questa frase quando siamo a tavola; sai Maki, lui
è lo
stacanovista della famiglia.-
Era
proprio … gioviale di
carattere, e se credevo che Genzo fosse il più ribelle,
adesso nutrivo qualche
dubbio su chi effettivamente fosse la testa calda della famiglia; erano
tutti e
tre uno diverso dall’altro, e in piccole cose assomigliavano
ai genitori,
ancora seduti davanti a me.
La
signora Wakabayashi riprese
il figlio.
-Tuo
fratello Ichirou è
responsabile, figliolo, non stacanovista. Vorrei solo che avesse
più tempo per
se stesso.-
-Non
preoccuparti mamma, lo
trovo il tempo.-
-Lo
so, ma mi domando se è
abbastanza.-
Ichirou
non le rispose,
guardando me come ad un’intrusa a cui non doveva dire niente
della sua vita
privata; io, di rimando, scostai lo sguardo per fargli capire che non
avevo
intenzioni ostili. Annotazione: la voce di Ichirou assomiglia a quella
di
Genzo, ma quest’ultimo ha un tono più basso
rispetto a quella del fratello
maggiore.
Il
signor Wakabayashi tornò su
di me, dei due coniugi era il più cortese e,
inaspettatamente, il più
entusiasta della mia presenza.
-Quindi
ti sei trasferita da
poco, immagino quindi che tu non conosca molto la città.-
-A,
beh … a dire la verità
lavoro part-time nel centro storico, e ho avuto modo di visitare un
po’
Monaco.-
-Interessante,
che lavoro
hai?-
-…
sono barista presso un
piccolo pub.-
Entrambi
i genitori furono
sorpresi di sentirmi dire che lavoravo in un bar, ma quello che
più mi sorprese
e che non la presero male come pensavo, anzi.
-Dunque
appena arrivata qui ti
sei subito data da fare, eh? Sembri una donna piena
d’iniziativa.-
M’imbarazzai
alle parole del
signor Wakabayashi, e Genzo sembrò dargli man forte.
-Mi
ha convinto a tirare fuori
le nostre decorazioni di Natale alla villa.-
-Preparerete
l’albero? Davvero?-
Il
tono della signora
wakabayashi era sorpreso, ma vidi nel suo volto anche entusiasmo,
mascherato a
fatica; perfino Ichirou, a quel punto, s’interessò
al discorso, mentre Genzo
sorrideva divertito.
-E
anche il Presepe. Maki non
conosce il Natale, quindi mi sembra giusto farglielo vivere.
È tornata oggi perché
sa che in questo giorno prepariamo le decorazioni.-
A
quel punto la signora
Wakabayashi non nascose più l’emozione di quella
notizia, e parlò con aria
timida al figlio.
-Pensi
… che la nostra presenza
possa … essere di disturbo?-
Le
mancava decorare per il
Natale, a quella domanda mi venne da sorridere per la tenerezza, e
sebbene
Genzo fosse più chiuso di me, anche lui non resistette
all’impulso di un
sorriso, più divertito del mio.
-È
ovvio che no, mamma.-
A
quel punto mi sentii in
grado di mangiare, vedendo come la donna mi avesse mostrato una parte
così
delicata di sé senza poi mettersi sull’attenti nei
miei confronti.
E
vi giuro, per quanto mi
controllai, constatai anche che avevo uno certa fame, e mi resi conto
che non
avevo mangiato per più di dieci ore!
La
conversazione continuò su
altri argomenti: mi chiesero dei miei interessi sportivi, e rimasero
colpiti
del fatto che ero stata una giocatrice professionista; parlammo delle
nostre
tradizioni giapponesi, e per poco non saltai dal divano per
l’entusiasmo quando
la signora Wakabayashi mi propose di rivederci, per poter fare degli
origami.
Poi
cercarono di sapere di più
sulla mia famiglia, anche su mio marito Kojiro, e io rispondevo senza
problemi,
al punto tale che Genzo, esasperato, mi afferrò e mi strinse
a sé, prepotente.
-Adesso
basta, così me la
sfiancate!-
-Genzo,
non fare il
propotente, se Maki non vuole non risponde.-
Mi
venne da ridere, questa era
la tipica risposta di Genzo quando discuteva con me, e dolcemente mi
sciolsi
dalla sua presa, che però lui strinse, imponendomi di
rimanere addosso a lui
mentre parlavo con sua madre, imbarazzante … però
anche molto tenero.
Ce
ne andammo da quella casa
che, oramai, erano le sei del pomeriggio, e riuscimmo ad andarcene solo
perché
Genzo prese in mano la situazione, affermando che oltretutto
“avevamo un
impegno con un certo albero”; la signora Wakabayashi,
però, mi prese da parte
con una scusa, conducendomi verso la cucina per parlarmi con
tranquillità.
-Voglio
essere sincera con te,
Maki: sei una brava ragazza, e sapere che Genzo è con te mi
da un profondo
sllievo, specialmente dopo … un brutto periodo che ha
passato in Amburgo.-
-Si,
me ne ha parlato.-
-Davvero?
Ah … sei sorprendente.-
E
mi sorrise divertita, io
ricambiai con la solita deferenza.
-Tuttavia
ho una domanda da
farti.-
-Prego,
mi dica.-
-Sei
di tradizione giapponese,
e sei vedova. Perché hai addosso il Furisode?-
…
è strano, ma io sentii … che
quella domanda la stavo aspettando; portai una mano sul petto,
accarezzando il
colletto del mio kimono, parlandole con serenità.
-Questo
… era il kimono
preferito di mio marito … ed è anche quello di
Genzo: quando parlò ai miei
genitori, chiedendo loro il permesso per portarmi qui a Monaco, mi
chiese di
mettermi proprio questo Furisode.
È
… una specie di portafortuna
per me.-
La
donna aveva uno sguardo
sorpreso, per poi sciogliere il volto in un’espressione
rasserenata,
sciogliendo anche le braccia, che fin a quel momento aveva tenuto
incrociate.
-Signora
Wakabayashi … io la
vorrei ringraziare.-
La
sorpresi con le mie parole,
e mi limitai a chinare la schiena verso di lei, con la stessa ampiezza
con cui
si fa con l’imperatore.
-Genzo
… è un uomo chiuso e
testardo, ma estremamente gentile, rispettoso … e mi ha
aiutato tantissimo in
tanti difficili momenti della mia vita. Dunque … volevo
rignraziarla … per
avermi dato la possibilità di conoscere un uomo
così.-
Alzai
la schiena, guardandola
emozionata, e lei mi sorrise, per poi fare il mio stesso inchino,
tornando su
più velocemente di me.
-Sono
io che ti ringrazio,
grazie per essere venuta oggi, e grazie … per restare
accanto a mio figlio.-
Annuii
emozionata, e alla fine
la donna mi accompagnò fuori dalla cucina,
nell’atrio ci aspettava un Genzo
spazientito.
-Mamma,
ma possibile che me la
porti sempre via?!-
-Dai
Genzo, non fare così, è
così raro poter parlare con una tua compatriota.-
Sorrisi
divertita, e m’infilai
il cappotto ringraziando i signori Wakabayashi, e i loro figli,
un’ultima
volta, uscendo fuori nel gelo della sera, non mi ero accorta che a
Monaco
facesse così tanto freddo, per l’agitazione mi ero
perfino dimenticata che era
inverno!
-Allora,
contenta di essere
riuscita finalmente a conoscere la mia famiglia?-
Lo
disse per prendermi in
giro, e io lo rimbeccai mentre salivamo in machina, con Friedrich che
ci
aspettava con il motore acceso.
-Non
ho conosciuto tutti: ho
visto che hai un cane, manca lui all’appello.-
Rise
divertito, e per dispetto
mi spettinò i capelli, prima di tenermi stretta tra le sue
braccia.
-Sei
stanca?-
-Distrutta,
non ho
praticamente dormito durante il viaggio.-
-…
com’è andata a Naha?-
-…
la nonna ha allontanato la
zia.-
-Quindi
ci sei andata per
niente.-
-No,
al contrario: ho fatto
quello che dovevo fare.-
E
lo guardai serena, poggiando
la mia fronte sulla sua.
Quella
sera Isolde ci aspettò
all’ingresso, salutandomi con aria tranquilla e poi andando
in cucina a mettere
via tutto, avevamo abbondato a casa dei signori Wakabayashi, e quindi
io
preferivo non mangiare ulteriormente, salendo in camera mia.
Stavo
per entrarci, quando
Genzo mi prese una mano, tirandomi contro di lui e abbracciandomi con
forza,
quasi soffocandomi.
-…
grazie, grazie di essere
venuta.-
-Genzo
…-
-Mi
sei mancata … amore mio.-
Ecco,
in quel momento sentii
che stavo toccando la felicità a piene mani, e mi commossi
mentre Genzo si
staccava un momento, guardandomi negl’occhi; io, come sempre,
mi persi nelle
sue iridi nere, e gli accarezzai dolcemente il volto, alzandomi in
punta di
piedi per far toccare le nostri fronti.
Lentamente,
l’uomo si sporse
verso di me, e io lo accolsi sorridendo leggermente, socchiudendo gli
occhi e
sentendo, finalmente, quelle labbra toccarmi, con la stessa delicatezza
e
timidezza con cui mi aveva sempre amata.
Ad
occhi estranei, Genzo può
sembrare rozzo e possessivo nei miei confronti, ma in realtà
… essere amata da
lui è un dono, prezioso come l’oro e fragile come
il cristallo.
Io
sono la donna più fortunata
del mondo.
**
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Capitolo 29 *** Epilogo ***
Epilogo
Mia
madre prese il controllo
dell’operazione “facciamo l’albero e il
Presepe”, e il mio controllo su villa
Wakabayashi andò allegramente a farsi benedire: come se non
se ne fosse mai
andata da lì, cominciò ad ordinare a destra e a
manca, e io le impedì di
schiavizzare Maki solo perché, quando esagerava, mi
riprendevo la mia fidanzata
e me la portavo via a forza.
“-Dai
Genzo, mettimi giù!-”
“-Assolutamente
no.-”
E
lei e mie madre mi
prendevano in giro, ridendo come ragazzine, ma tu guarda, adesso dovevo
combattere contro due donne!
Però,
devo ammetterlo, il
sorriso di Maki era impagabile: era raggiante, allegra, e ogni volta
che la
guardavo mi sentivo così bene, così fortunato.
Persino mio padre me lo disse,
mentre mi aiutava a sistemare le scatole vuote in cantina.
“-Sai, io
ci ho messo un bel po’ a
conquistare tua madre, e me la fece sudare.-”
“-Mamma
dice sempre che si è innamorata di
te fin dal primo sguardo.-”
“-Certo,
ma dal primo sguardo al matrimonio
ne passa di acqua sotto i ponti.-”
E
a quel punto scoppiai a
ridere, mio padre poteva anche essere il capofamiglia, ma di sicuro la
mamma
sapeva sempre come metterlo in riga; lui rise con me, poi mi
poggiò una mano
sulla spalla.
“-Genzo,
ti chiedo solo una cortesia: non farti
scappare una donna simile.-”
“-Sta
tranquillo, non ne ho alcuna
intenzione.-”
E
riprendemmo a lavorare, anche
perché mia madre ci richiamò all’ordine.
Con
noi parteciparono anche
Ichirou e Akio, e anche se non l’ammetteva, mio fratello
maaggiore era il più
entusiasta sia a decorare l’albero, sia nei confronti di
Maki, tanto che ancora
adesso nutro qualche dubbio che il suo atteggiamento era solamente
“amichevole”.
Passammo
l’intera giornata in
quel modo, con Isolde che ci dava una mano e preparava qualcosa da
mangiare; la
sera accendemmo l’albero, e già lì Maki
rimase estasiata, figuratevi quando
accendemmo anche il Presepe.
“-È
… è incredibile …-”
Maki
aspettò il giorno di
Natale con una tale impazienza che ogni occasione era buona per
stuzzicarla e
prenderla in giro, ma quando arrivò era cos’
raggiante che non potevo dirle
proprio niente; invitammo la mia famiglia a pranzare con noi, e lei li
accolse
con un maglione e i suoi jeans. Per me, in quel momento lei era la
donna più
bella del mondo.
La
giornata trascorse
chiacchierando, scambiando i regali, e con mia sorpresa mia madre fece
un
regalo anche a Maki: un pettine d’osso per fermare i capelli,
in effetti le
erano cresciuti, oramai le raggiungevano le spalle.
Il
“tornado parenti” se ne
andò che erano oramai le undici di sera, e finalmente
rivelai il mi oregalo,
nascosto dentro un cassetto, cercando Maki; la trovai
sull’altalena, aggiustata,
fuori del giardino, e appena mi vide m’indicò il
cielo entusiasta: aveva
iniziato anevicare.
“-Finalmente,
mi sembrava un po’ in ritardo.-”
“-La neve
… la mia prima neve di Monaco!-”
La
guardai ,e sorrisi intenerito,
aveva un’espressione così felice, e lentamente le
porsi il mio regalo, curioso
di vedere la sua reazione; lei, di rimando, sorrise entusiasta, e mi
allungò un
pacchetto che teneva accanto a se, stupendomi, non me
l’aspettavo.
Li
scartammo nello stesso
momento … e per un attimo, lo ammetto, mi commossi davvero
tanto: il burattino
del cavaliere, riaggiustato, con l’armatura che brillava come
nuova, i fili
districati e sistemati in modo che non si legassero tra loro. La
guardai, e lei
sorrise imbarazzata.
“-Buon
Natale Genzo.-”
Poi
aprì il mio regalo, e
anche lei rimase sorpresa del berretto rosso; glielo misi in testa,
calcando un
po’ apposta.
“-Così,
quando giocherai con la tua squadra,
potrai ripararti dal sole.-”
“-È
… uguale al tuo.-”
“-È
il mio: oramai mi sta piccolo, e
comunque ne ho altri.-”
Mi
guardò ancora più
meravigliata, e con un balzo mi abbracciò, stringendomi
forte mentre io
ricambiavo la presa, completamente perso di lei, le sfiorai la fronte, guardandola nei suoi
meravigliosi occhi a
mandorla.
“Kimi
wo aishiteru, Maki”
“Ich
liebe dich, Genzo”
**
Lo
so, lo so, è un finale
spaventosamente zuccheroso perfino per me e per il mio diabete, ma dopo
tutto
quello che era capitato ad entrambi, un po‘ di dolce non
guasta, e poi sotto le
feste di Natale (ride).
Comunque,
ABBIAMO FINITO!! Dico
abbiamo perché è stato un viaggio mio e vostro, e
sono contenta di aver avuto
tante persone che hanno letto e commentato, sono veramente commossa!!
Ammetto
che gli utlimi
capitoli li ho scritti alla velocità della luce e senza
effettivamente
controllare gli errori, mea culpa, ma avevo l’ispirazione e
non potevo
assolutamente fermela scappare; potete chiamarti “W,
l’aggiornatrice folle!”
(ride)
Comunque
passiamo ai
RINGRAZIAMENTI: ringrazio prima di tutti Melanto, la mia folle lettrice
che ha
dovuto subire questo continuo e scostante aggiornamento. Grazie Mel,
grazie
mille.
Ringrazio
poi Cronus,
Berlinene, benji79 e releuse perché, coraggiosamente, stanno
seguendo le
avventure di Maki e Genzo fin dalla loro prima storia, ma grazie!!
Grazie
davvero, sono così felice! Spero di non avervi deluso.
E
poi ringrazio krys, Cheeza,
Thabit e albalau che si sono unite al gruppo! Benvenute e grazie mille,
ma di
più millioni di grazie per aver seguito e apprezzato.
Io
spero di vedervi molto
presto con una mia prossima fan fiction, la mia testa è un
crogiuolo di idee ma
ancora non ne ha presa forma nessuna, ma non disperate, io
tornerò, mwahahah!
Ok, la smetto, BACI!!
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