Racconti di sabbia di Trick (/viewuser.php?uid=21078)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eco e Narciso - Sirius/Dorcas ***
Capitolo 2: *** Vola via da qui - Severus/Madama Bumb ***
Capitolo 3: *** Una cosa da pazzi - Frank/Alice ***
Capitolo 4: *** Carduelis Britannina - Lucius/Tonks ***
Capitolo 5: *** Ho scelto il mio nome - Rabastan/Alice ***
Capitolo 6: *** Fra capo e coda - Rufus/Minerva ***
Capitolo 7: *** Uno dei due - Evan Rosier/Hestia Jones ***
Capitolo 8: *** Senza rispondere - Peter Minus/Bertha Jorkins ***
Capitolo 9: *** La bambola imitatrice - Remus/Marlene ***
Capitolo 10: *** Scacco matto - Remus/Lily ***
Capitolo 1 *** Eco e Narciso - Sirius/Dorcas ***
" Racconti
di sabbia" partecipa
all'iniziativa I
♥ Shipping indetta da Collection
of Starlight. Mi sono sentita abbastanza masochista da
gettarmi in quest'ennesima
questa nuova impresa mastodontica: un'antologia di fan fiction
concentrate su tutte
le ship ufficiali (canon e fanon) della Vecchia Generazione. Non so se
sarò in grado, ma sento di volerci provare. Al massimo, ci
rimetto le penne. :)
QUI
trovate l'elenco di tutte le ship sulle quale scriverò -
possibilmente in ordine, ma dal momento che sono schifosamente
disordinata, non ci giurerei.
→ Per
chi non lo sapesse, la mitologia narra che la ninfa Eco - costretta da
Era a ripetere sempre le ultime parole udite - si fosse innamorata di
Narciso. Il bel giovane, tuttavia, la respinse, ed ella
fuggì fra le vallate solitarie, finché di lei non
rimase che la voce. Da qui, il titolo "Eco e Narciso".
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Eco
e Narciso
Sirius
Black/Dorcas Meadowes
Aveva
creduto di morire
così tante volte che ora non le riusciva proprio di
accettare il
fatto che stesse morendo realmente. Eppure, lui era
lì, con
la bacchetta puntata verso il suo petto, e l'unica cosa a cui lei
riusciva a pensare era che la sua tomba sarebbe stata piena di
narcisi.
La
bocca di Lord
Voldemort si storse in un sorriso soddisfatto.
«È
un piacere
rivederti, Dorcas Meadowes».
*
Sirius
aveva la nausea
al solo pensiero di attraversare la solitaria stradina che lo
separava dal cimitero di Ottery St. Catchpole.
Aveva
sempre detestato
le funzioni religiose (in verità, aveva sempre detestato la
religione in sé, perlopiù perché non
era mai stato in grado di
capirla) e, in particolare, detestava quelle funebri. Sosteneva di
ritenerle inutili ancor più delle altre; nella morte non
c'era
proprio nulla che qualche bel discorso potesse migliorare ed era da
idioti cercare di farlo. Non c'era possibilità di ribattere,
con
lui, e nessuno dell'Ordine aveva avuto la fortuna di convincerlo a
presenziare al funerale di Fabian e Gideon Prewett. Nemmeno James,
l'unico a cui Sirius tendesse a dar retta, di norma, aveva avuto
successo.
Era
arrivato pochi
minuti dopo l'inizio della cerimonia, si era seduto sul bordo del
marciapiede all'altro capo della strada e si era acceso una sigaretta
con una lentezza quasi riguardosa, come se volesse rimarcare il fatto
che sì, Sirius Black odiava i funerali, ma rispettava la
morte.
Aspirò la prima boccata e gettò indietro il capo,
sbuffando
nell'aria un leggera nuvola di fumo grigiastro. Rimase a fissarla
mentre saliva verso il cielo limpido e si dissolveva nel nulla.
Non
credeva in Dio ma,
a volte, aveva davvero l'impressione che qualcuno si stesse prendendo
gioco di tutti loro – e di lui, innanzitutto. I McKinnon non
erano
morti che da due settimane e loro stavano già seppellendo i
Prewett;
non gli era concesso nemmeno il tempo di accettarne la scomparsa e
avvertire il morso straziante della loro mancanza. Restavano solo un
sacco di stupidi funerali celebrati di nascosto e Sirius li
odiava, perché gli facevano sempre pensare che
c'erano anche un
sacco di buche ancora vuote, lì attorno.
«Che
diavolo stai
facendo, Sirius?».
Sirius
emise un leggero
sbuffo e alzò vagamente le spalle.
«Qua
ci fottono tutti»
rispose amaramente, scuotendo la chioma corvina. «Ci stanno
davvero
fottendo un po' tutti».
Dorcas
annuì
tetramente e rivolse uno sguardo tormentato in direzione del
cimitero. Dopo pochi secondi, scoppiò in una risatina priva
d'allegria.
«A
Fabian e Gideon
sarebbe piaciuto, come elogio» spiegò.
«Già.
Non erano tipi
da stronzate, loro».
«Hai
una sigaretta?».
Sirius
si rigirò fra
le dita quella che stava fumando e gliela allungò con un
sorriso
sghembo. La guardò fumare silenziosamente per qualche
istante.
Dorcas non era una di quelle donne che saltavano all'occhio per la
propria bellezza. Era graziosa, magari, ma aveva un naso troppo largo
e gli zigomi troppo pronunciati per poter essere considerata bella.
Tuttavia, i suoi modi di fare si erano rivelati abbastanza
accattivanti da ingarbugliare Sirius quel tanto che bastava a vederla
più di una volta. Non era accaduto molte altre volte,
dacché si
ricordava. Aveva avuto un discreto numero di belle accompagnatrici,
ma Sirius era certo che di nessuna di loro avrebbe serbato un ricordo
nitido quanto quello di Dorcas.
Non
ne era innamorato,
esattamente come lei non era innamorata di lui, e non se ne sarebbe
mai innamorato, esattamente come lei non si sarebbe mai innamorata di
lui, e al momento nessuno dei due chiedeva altro.
«Non
potresti
comprartele da sola, le sigarette?» le chiese lui, tagliente.
«No.
Mi piace il
sapore della tua bocca».
«Lo
so».
Dorcas
scosse la testa
come se stesse scacciando una mosca particolarmente tediosa.
«Che
fai, stasera?».
«Proverò
a stare
vivo, suppongo. Potrei essere io, il prossimo da infossare. Tieni a
mente che non mi piacciono i fiori e che gli uomini di Dio mi
infastidiscono, per cortesia».
«Non
fare lo stronzo
con me. Non provarci nemmeno» replicò gelidamente
Dorcas. «Pensi
che inscenare il teatrino della tragedia conti qualcosa, in tutta
questa merda?».
Sirius
parve rabbuiarsi
improvvisamente.
«Non
farmi incazzare:
sto dicendo la verità. Questa merda è una
tragedia, Dorcas.
Una fottuta tragedia. E no, non so se stasera sarò vivo,
né se
domani mi alzerò vivo, né se avrò
tempo e voglia di fare sesso con
te da vivo, stanotte. Sta andando tutto a puttane,
quindi non
farmi incazzare, oggi» ribatté tutto d'un fiato,
agitando
nervosamente le mani. «Fanculo, quanto odio i funerali. Sono
inutili».
Dorcas
continuò a
fissarlo con calma, incurante del suo tono aggressivo. Si era ormai
abituata a quell'aspetto convulso del suo carattere: Sirius era un
ordigno costantemente in procinto di esplodere e l'unico modo per
evitare che accadesse, in effetti, era ignorarlo pazientemente.
«Sono
un modo per
ricordare chi non c'è più» lo
ammonì placida, aspirando piano una
boccata di fumo.
«Sono
solo un modo per
perdere tempo. Credi che a Fabian e Gideon freghi qualcosa, di quello
che stanno dicendo di loro?».
«No.
Ma frega a me.
Frega a tutti noi. E, cazzo, dovrebbe fregare pure a te».
Sirius
scosse il capo,
infastidito.
«Stronzate:
ecco, cosa
sono. Inutili stronzate. E ci toccheranno, prima o poi, ma saranno
sempre le solite inutili stronzate».
Dorcas
gettò a terra
il mozzicone e lo schiacciò con una violenta pedata del
tacco.
«Sei
sempre stato così
cinico?».
«Non
lo so» rispose
rapidamente Sirius, mentre un'ombra triste gli incupiva i begli occhi
grigi. «Ci sono troppe cose che non so più».
«Sai
cosa vuoi fare
stasera?».
Sirius
sogghignò
divertito.
«Sì».
*
«Verrei
al tuo
funerale».
Dorcas
aprì di colpo
gli occhi e alzò di scatto la testa dal cuscino per guardare
Sirius.
Lui aveva i capelli neri scompigliati attorno al bel volto e fissava
il soffitto con aria pensierosa. La luce della luna illuminava ogni
tratto del suo corpo incredibile e Dorcas si ritrovò a
chiedersi per
la centesima volta come diavolo fosse possibile che un simile pazzo
potesse essere tanto bello.
«Cosa?».
«Verrei
al tuo
funerale» ripeté atono Sirius. «Sul
serio».
«Non
so che dire»
rispose Dorcas dopo qualche istante di silenzio. «Nella tua
ribaltata visione del mondo, Sirius, cosa diavolo significa?
È un
complimento? Un avvertimento? Un'informazione di servizio?».
«Un
fatto. Verrei al
tuo funerale, se mai dovessi morire».
«Oh.
Beh, grazie. È
proprio quel genere di cose che ogni donna spera di sentirsi dire
dall'uomo con cui ha appena finito di fare sesso».
«Non
tutte le donne
hanno la fortuna di fare sesso con Sirius Black».
«Narciso
è morto di
se stesso, sai?» sbottò divertita Dorcas.
«Scrivilo
sulla mia
tomba. “Qui giace Sirius Black, morto di se
stesso”».
Dorcas
ridacchiò
appena.
«Lo
ricorderò, razza
di idiota».
*
Gli
occhi di Lord
Voldemort erano rossi e terrificanti, ma Dorcas non riusciva a
distoglierne lo sguardo. Era terrorizzata e l'idea di morire la
spaventava più di ogni altra cosa al mondo, ma proprio non
era
capace di non guardare. Si chiese se, un attimo prima di morire,
fosse normale impazzire. Perlomeno, continuava a ripetersi senza
alcun motivo, avrebbe avuto almeno un narciso sulla propria tomba e
questo, stranamente, la faceva sorridere.
«Sorridi,
Meadowes?»
sibilò lentamente Lord Voldemort, avvicinandosi a lei con un
fruscio
agghiacciante del lungo mantello scuro. Il suo volto serpentino era a
pochi centimetri dal viso di Dorcas e lei, di nuovo, non riusciva a
distoglierne lo sguardo. «Sto per ucciderti e tu
sorridi?».
Stordita,
Dorcas scosse
il capo, sotto lo sguardo sconcertato di Lord Voldemort, e
scoppiò
in una fragorosa risata.
«Pensavo
solo che mi
sarebbe piaciuto partecipare al mio funerale»
spiegò, mentre
sentiva gli occhi bruciare per le lacrime. «Mi sarebbe
piaciuto
parecchio, davvero».
|
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Capitolo 2 *** Vola via da qui - Severus/Madama Bumb ***
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Vola
via da qui
Severus
Piton/Madama Bumb
Sebbene
fosse più
piccolo e mingherlino della maggior parte dei suoi coetanei, Rolanda
lo aveva notato immediatamente: era impossibile – impossibile
– non rivedere in quel ragazzino l'ombra sputata di James
Potter.
Aveva lo stesso viso sottile, la stessa zazzera nera e, per Merlino,
portava perfino gli stessi buffi occhiali rotondi. Rolanda lo
squadrò
con maggiore attenzione. Si guardava attorno con un'espressione
timida e spaurita e il suo sguardo continuava a slittare nervosamente
in direzione del Cappello Parlante.
«Sembra
la copia di
James Potter» bisbigliò al suo orecchio la voce
seria di Aurora,
seduta alla sua sinistra. «Con un po' di fortuna, potrebbe
avere il
suo stesso talento nel volo».
Rolanda
fece un mezzo
sorriso storto e guardò l'amica in tralice.
«Lascia
che sia io a
giudicarlo» disse. «James Potter era un Cacciatore
incredibile, ma
non mi dava mai retta».
«C'è
da dire, a suo
favore, che tu eri un Capitano un po' ossessivo».
«C'è
da dire, a mio
favore, che James Potter era James Potter, e avrebbe fatto uscire di
senno chiunque».
Aurora
sbuffò
divertita e tornò a rivolgere la propria attenzione sul
piccolo
Harry. La sua espressione rigida si addolcì in un leggero
sorriso.
«Sembra
fragile».
«Lascia
che sia io a
giudicare anche questo» sentenziò Rolanda con un
sogghigno.
Voltò
casualmente la
testa verso l'altro capo del tavolo e le capitò di scorgere
Severus:
aveva gli occhi socchiusi e fissava il ragazzino con una smorfia di
puro disgusto sulla faccia. Rolanda fece un sospiro rassegnato. Aveva
dimenticato quanto grande fosse l'astio che correva fra James Potter
e Severus, ma non immaginava che il collega potesse arrivare a
disprezzare Harry, dopo tutti gli anni trascorsi.
Mentre
il Cappello
Parlante smistava a Grifondoro una ragazzina dai folti capelli crespi
di cui non aveva capito il nome, Rolanda appuntò mentalmente
di
intavolare con Severus uno di quei lunghi discorsi che lui aveva
sempre odiato.
*
Era
assai raro che
Severus sentisse la necessità di prendere una boccata
d'aria. I suoi
sotterranei erano un luogo cupo e soffocante per la maggior parte
degli abitanti del castello, ma per lui rimanevano una delle poche
zone in cui potesse trovare silenzio. Quando gli studenti
abbandonavano la sua aula di Pozioni, lui rimaneva seduto alla
propria sedia con gli occhi chiusi, beandosi della meravigliosa
tranquillità che solo una stanza deserta sapeva offrirgli.
Quella
mattina,
tuttavia, i sotterranei sembravano stringere perfino la sua indole
apatica e, colto da un impulso nervoso, era uscito di gran fretta.
Quando
si era reso
conto di non avere la minima idea di dove stesse andando, era
già
arrivato a metà del porticato che conduceva all'infermeria.
Fece un
respiro profondo, si appoggiò ad una delle colonne di pietra
e si
passò una mano sul viso.
Sciocco.
Arrogante. Inutile.
Harry
Potter era la
fastidiosa miniatura di quel dannato di suo padre, ma ciò
che stava
torturando Severus – ciò che lo aveva torturato
fin dal primo
istante – era stata la consapevolezza che in quel ragazzino,
in
fondo, ci fosse molto più di James Potter. Aveva messo
rapidamente a
tacere quell'impressione, perché sapeva che gli avrebbe
causato
soltanto un maggiore numero di grane: detestarlo, dopotutto, era una
scelta facile.
C'era
Lily, in
quel marmocchio. C'era così tanto di Lily da impedirgli di
guardarlo
senza avvertire una fitta allo stomaco. Era un mortale dosaggio di
gelosie e rimpianti, e Severus, esperto dell'arte delle Pozioni, era
perfettamente a conoscenza di quanto certi miscugli fossero
pericolosi per gli uomini.
Non
aveva mai
raccontato a nessuno di Lily; solo Silente aveva giurato di mantenere
quel segreto e Severus non dubitava della promessa fatta. Non ne
aveva mai parlato con nessun altro – e non aveva
né la forza né i
motivi per farlo. Non ne aveva parlato nemmeno con Rolanda, sebbene
fosse probabilmente ciò che di più simile a
un'amante potesse
avere.
Non
avrebbe mai potuto
amarla quanto aveva amato Lily, ma gli era sinceramente cara e la sua
presenza, stranamente, era a suo modo confortante.
*
Rolanda
riconobbe con
stupore l'ombra scura appoggiata alla colonna del portico. Era strano
che Severus uscisse di sua spontanea volontà dai propri
sotterranei
senza che ci fosse un motivo di indiscutibile serietà. Si
grattò
pensierosa la punta del naso: non era un bell'affare, senz'altro.
«Severus»
lo chiamò.
Lui
si voltò e per un
momento parve fissarla con espressione astiosa. Incurante del suo
sguardo cupo – Rolanda aveva smesso di curarsene, dopo tutti
quegli
anni – si avvicinò a lui e si appoggiò
alla colonna di fronte.
«Rolanda»
la salutò
con tono indifferente lui, alzando appena il mento.
«Sputa
il Boccino,
uomo dei sotterranei» lo prese in giro lei con un sorriso
storto.
«Qual'è il problema?».
«Se
avessi avuto
bisogno di un'infermiera, mi sarei diretto in infermeria».
«Oh,
perlomeno oggi
sei di umore migliore del solito» ribatté lei,
incrociando le
braccia.
Severus
non rispose.
«Finiscila»
lo
rimproverò lei. «Harry Potter non è suo
padre, Severus. Non puoi
stare con il naso attaccato al didietro della sua scopa a causa del
cognome che porta. È ridicolo».
«Non
accetto critiche
da una strega che ha fatto di una scopa il suo mestiere».
«Tieni
a freno quella
lingua serpentina o scoprirai a tue spese quanto possa rivelarsi
letale una scopa» lo avvertì con voce secca
Rolanda, mentre
aggiustava con aria distratta il risvolto della manica destra.
«Io
torno nelle mie stanze. Mi sento sempre stupida quando vengo fin qua
per cercarti».
Severus
rimase a
fissarla mentre si allontanava in direzione del Salone d'Ingresso:
non si stava nemmeno sforzando di trovare il modo di fermarla.
*
«Rolanda».
Rolanda
non lo aveva
nemmeno sentito arrivare – non lo sentiva mai arrivare,
in
effetti, come se lui fosse in grado di muoversi senza produrre il
minimo rumore. Il suono improvviso della sua voce la fece sobbalzare:
per lo spavento, si lasciò sfuggire il manico di scopa che
stava
lucidando.
«Severus!»
esclamò,
facendo un sospiro fiacco. «Ti possa Schiantare un Bolide...!
Mi hai
fatto venire un infarto».
Lui
la fissò con calma
estenuante, senza rispondere. Era pallido e sembrava piuttosto
provato.
«Severus?»
riprese
Rolanda con voce allarmata, avvicinandosi a lui e sfiorandogli
distrattamente un braccio. «Che sta succedendo?».
Severus
fece un respiro
profondo e aprì la bocca per parlare: sembrava quasi che
avesse
qualcosa incastrato in gola.
«Devi
andartene».
Rolanda
sbatté le
palpebre senza distogliere lo sguardo dai suoi cupi occhi scuri e
scosse il capo con aria stordita.
«Cosa?».
«Devi
andartene»
ripeté lui in un basso mormorio.
«Immediatamente».
«Che
diavolo stai
dicendo? Sto lucidando i miei manici e--».
«Voglio
che te ne
vada. Prendi una scopa e vola via».
Severus
non scherzava
mai, ma Rolanda non lo aveva mai sentito parlare con quel tono tanto
urgente: era terribilmente agitato e non era da lui: lui non era mai
agitato.
«Cosa
sta
succedendo?».
Lui
chiuse gli occhi,
massaggiandosi stancamente le tempie.
«Non
importa. Voglio
solo che te ne vada il più lontano possibile da Hogwarts,
stanotte».
Fece
per girarsi sui
tacchi e andarsene, ma Rolanda lo afferrò brutalmente per la
manica
della vesta e lo costrinse a fermarsi.
«Severus»
sibilò rabbiosa, mentre una voce nella sua testa gli urlava
di
picchiarlo. «Cosa sta succedendo?».
«Vola
via da qui,
finché ne hai il tempo».
*
Le
parole di Severus
l'avevano profondamente spaventata. Dopo pochi istanti
dacché lui
l'aveva lasciata sola ai bordi del campo di Quidditch, era corsa in
direzione dell'ufficio di Minerva.
Aveva
spalancato la
porta senza nemmeno bussare, nonostante fosse un comportamento che
Minerva odiava e nonostante lei lo sapesse fin troppo bene. Rimase
piuttosto interdetta nel trovare l'ufficio della vicepreside così
affollato a quella tarda ora della sera.
Riconobbe
immediatamente Remus e le sue sopracciglia schizzarono in alto,
mentre la consapevolezza di cosa la sua presenza a scuola
significasse si faceva largo dentro di lei.
«Oddio...»
mormorò.
«Stanno arrivando a Hogwarts».
Vola
via da qui.
|
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Capitolo 3 *** Una cosa da pazzi - Frank/Alice ***
Di
Frank e Alice
Paciock non si sa davvero nulla, se non che sono entrambi Auror e
Purosangue. A riguardo, mi sono presa un sacco
un paio di licenze artistiche – chiedo venia, ma
tant'è.
→ La
famiglia Blishwick non è proprio Canon. In
realtà, non lo è per
niente, dal momento che compare nell'albero genealogico del
film
– il che è
un'eresia, lo so, ma tant'è Blishwick
suonava
bene. Tutte le
altre famiglie Purosangue citate nella fan fiction sono Canon
(MacDougal, Gamp, Brown, eccettera...), ma i loro membri sono di mia
invenzione.
→ Sto
rileggendo per l'ennesima volta tutte le opere di Jane Austen e...
beh, temo ve ne accorgerete. Metto le mani avanti, comunque, nel caso
qualcuno volesse sottolineare il fatto che la mia versione di Frank,
Alice e tutti gli altri giovani Purosangue sono troppo... uhm,
diciamo antiquati.
Sì, forse lo sono, ma mi piace pensare che lo fossero tutte
le
famiglie Purosangue di un certo livello. E poi, ripeto, sono in
modalità Austen
a
go-go.
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Una
cosa da pazzi
Frank
Paciock/Alice Paciock
Ora
che aveva compiuto
sedici anni, Alice non aveva più scuse per annoiarsi tanto
durante i
ricevimenti. Eppure, mentre sedeva accanto alla madre e fingeva di
ascoltare i barbosi e logorroici discorsi di Mafalda MacMillan, non
riusciva a non pregare che il cielo la colpisse con un fulmine e
ponesse fine alle sue sofferenze.
«...così
ho osservato
a mia volta il tessuto che Madama McClan mi porgeva e ho
immediatamente esclamato: “Mia carissima amica”
- proprio
così, le ho detto - “questa
veste damascata calzerebbe alla
signora Flint con la stessa grazia di un Troll con un abito di
chiffon!”».
Le
signore scoppiarono
in una lieve risata e Alice, cercando disperatamente una distrazione
con lo sguardo, arricciò le labbra in un perfetto sorriso
divertito.
Stava quasi per arrendersi all'inevitabile fastidio che quel
pomeriggio le avrebbe recato, quando il giovane Frank Paciock si
fermò a pochi passi da loro.
Era
un giovane dal
portamento indiscutibilmente da Grifondoro.
Nonostante i folti
capelli scuri fossero rigorosamente pettinati e le basette
rigidamente definite, e nonostante tenesse entrambe le braccia dietro
la schiena, come si conviene a qualunque educato damerino di classe,
c'era qualcosa di troppo “Grifondoro” che balzava
subito
all'attenzione. Alice non avrebbe saputo dire se fossero i suoi occhi
azzurri, così allegri e curiosi, o, piuttosto, la mascella
definita
da una lieve barba trascurata, ma Frank Paciock, nel complesso,
sembrava gridare: “sono un Grifondoro”.
«Frank!»
esclamò
d'un tratto Augusta Paciock, scorgendo la figura del figlio accanto a
lei. «Proprio non ti avevo visto arrivare».
Frank
le rivolse un
lesto sorriso, prima di inchinarsi con estremo garbo verso le altre
streghe: Alice aveva l'impressione che fosse stato cresciuto a burro
e bon ton.
«Buonasera,
care
signore» scandì. «Mi chiedevo, e spero
vivamente non sia troppo
disturbo, se fosse possibile approfittare della cortesia della
signorina Blishwick e chiederle di unirsi a noi: temo che la nostra
discussione sui M.A.G.O. stia degenerando e sono certo che
l'intervento di una più delicata mente femminile
saprà risolvere
ogni questione».
Alice
inarcò
pesantemente un sopracciglio. Nonostante Frank avesse quattro anni in
più di lei e fosse un Grifondoro, era stato Caposcuola;
Alice aveva
già avuto modo di sentirlo parlare, ma mai – mai
– lo aveva
sentito esprimersi in modo tanto studiato. Guardò di
sottecchi tutte
le streghe che la circondavano e si stupì nel vedere quanto
compiacimento Frank fosse riuscito a destare in loro.
«Oh,
Frank,
naturalmente!» esclamò deliziata sua madre,
Teodora, posando una
mano sulla spalla della figlia e rivolgendole un'occhiata radiosa.
«Alice sarà lietissima di seguirti. Non
è vero, Alice, mia cara?».
«Ne
sarei lietissima,
signor Paciock».
Frank
le tese la mano
destra con un mezzo sogghigno e la aiutò ad alzarsi.
«Temo
di non potervi
promettere di essere in grado di riportarvela fra breve»
ammiccò
verso di loro, generando una serie di divertite risatine.
Mentre
si
allontanavano, Alice sollevò il capo verso di lui,
trattenendo a sua
volte un'importuna risata.
«Dove
hai imparato a
incantare così le povere streghe di
mezz'età?».
«Mi
riesce naturale:
ho un'imbarazzante attrazione per le rughe».
Alice
rise e Frank, che
appariva compiaciuto del suo divertimento, non aggiunse altro. La
condusse oltre un corridoio dalle pareti tappezzate di splendidi
arazzi che la famiglia MacMillan doveva custodire da generazioni
intere, e poi giù, lungo le scale, fino ad arrivare ad una
piccola
balconata che si affacciava sul giardino. Qualcuno doveva aver
gettato un Incantesimo Riscaldante tutto attorno, perché
sebbene
fosse pieno inverno e il grande parco dei MacMillan fosse ricoperto
di neve, Alice avvertiva ancora un tiepido tepore.
Seduti
attorno ad un
bel tavolo di legno dalle gambe finemente intagliate, riconobbe
subito diversi compagni di scuola.
Randolph
Brown, un
Prefetto di Corvonero al suo ultimo anno ad Hogwarts; Godwin Gamp, un
paffuto ragazzino che divideva con lei la sala comune di Tassorosso e
a cui rivolse immediatamente un aperto sorriso; i fratelli MacDougal,
veterani battitori di Corvonero, Abraham e Arnold; infine, Gaspard
MacMillan, padrone di casa, che si alzò rapidamente per
stringerle
la mano.
«Alice»
esordì in
tono pomposo. «Perdonaci se non ti abbiamo chiamato prima, ma
temevamo fosse inappropriato per una giovane strega unirsi ad un
gruppo di giovani maghi. Spero che la situazione non crei troppi
disagi a nessuno dei presenti».
Alice
evitò
accuratamente di sottolineare che Gaspard, con i suoi modi pomposi e
i suoi discorsi pieni di nulla, riusciva sempre a metterla a disagio.
Si limitò ad annuire con un sorriso educato e sedette su una
seggiola che Frank le aveva appena offerto. Quando si fu seduta, lo
sentì avvicinarsi cautamente al suo orecchio.
«Posso
uccidere
Garpard in qualunque momento tu preferisca».
Lei
si morse il labbro
inferiore per evitare di ridere.
«Stavamo
giusto
dicendo, un momento prima che tu arrivassi» le
spiegò Randolph
Brown, aggiustandosi gli occhiali con un movimento meccanico,
«che
non riteniamo affatto saggia la decisione del Preside Silente di
conferire a James Potter la spilla di Caposcuola».
Abraham
MacDougal emise
un verso di scherno.
«Andiamo,
Randolph.
Sappiamo tutti che il solo motivo per cui nutri così tanto
rancore
per Potter è che volevi essere tu, il nuovo
Caposcuola».
«Non
nutro affatto
rancore, ma sfido chiunque a dire che James Potter abbia meritato
quest'onore. Nei suoi sette anni a Hogwarts non ha combinato che
danni».
«Sciocchezze»
ribadì
Abraham. «È il miglior Cacciatore che la casa di
Grifondoro abbia
mai avuto – e un notevole Capitano, mi duole dirlo».
«Siete
troppo di
parte. Pare quasi che siate due Grifondoro, voi due».
«Non
posso che darti
ragione» esclamò divertito Frank, aprendo le
braccia con aria
drammaticamente rassegnata. «I Grifondoro sono
incorreggibili,
intrattabili e rumorosi».
«Frank!»
rise
Gaspard. «Tu sei stato Caposcuola di Grifondoro solo fino a
tre anni
fa!».
«Per
l'appunto. Non
vedo miglior intenditore dell'animo di un Grifondoro del
sottoscritto. Ho dovuto rincorrere James e la sua banda di
scapestrati per tutti gli anfratti del castello».
«E
immagino tu sia
d'accordo con la scelta di Silente».
«Lo
sono. James Potter
era un ragazzino insolente e arrogante – e devo ammettere che
quando ero Prefetto era solito combinarne di tutti i colori –
ma
credo che gli scherzi siano un capitolo chiuso della sua vita. L'ho
incontrato pochi mesi fa a Diagon Alley e l'ho trovato estremamente
cresciuto... suppongo che Lily Evans sia il motivo principale del suo
cambiamento» aggiunse con un mezzo sogghigno. «Cosa
ne pensa,
signorina Blishwick?».
Alice
trasalì nel
sentirsi interpellata. Non immaginava che qualcuno volesse sentire la
sua opinione in merito, eppure tutti gli sguardi sembravano ora
puntati su di lei. Conosceva James Potter solo di fama, e non aveva
idea del genere di persona che potesse essere. Sapeva, tuttavia, che
James Potter e i suoi Malandrini erano sempre pronti a spalleggiare i
più indifesi in qualunque rissa da corridoio – e
in quei tempi, a
Hogwarts, di risse se ne vedevano parecchi. Ricordava che Sarah
Thruston, al suo quarto anno, si ritrovò da sola in
compagnia di
Rosier e della sua banda di Serpeverde e, a sentir lei, sarebbe
finita decisamente male se loro non fossero intervenuti a difenderla.
«Ha
un buon cuore»
sentenziò dopo qualche secondo di riflessione.
Mentre
tutti la
fissavano con aria stupita, Frank Paciock scoppiò in una
fragorosa
risata.
«Una
tipica, educata e
perfetta risposta da Tassorosso!» rise. «Nessuno
potrebbe mai
dubitarne!».
Anche
Alice si lasciò
andare ad un timida risata. Si sentì improvvisamente
più a suo agio
e iniziò a discorrere amabilmente con tutti i presenti di
faccende
di mediocre importanza, come chi si sarebbe aggiudicato la coppa del
Quidditch per quell'anno e come proseguivano gli addestramenti di
Frank all'Accademia Magica per Auror.
«È
vero che vi fanno
affrontare dei draghi?» domandò a voce bassa il
piccolo Godwin,
stringendosi nelle spalle. «Ho sentito che lo
fanno».
«Non
ho mai visto un
solo drago all'interno dell'Accademia. La cosa più temibile
rimane
il cibo della mensa» rispose lui con un sorriso ilare,
facendo
nuovamente ridere tutti.
«Quando
pensi di
diventare un Auror a tutti gli effetti?» lo
interrogò Gaspard.
«Credo che tua madre abbia parlato di marzo, non è
vero?».
«Aprile,
al massimo».
«Non
credo che al tuo
posto avrei scelto di fare l'Auror» disse improvvisamente
Randolph,
scrutando intensamente il compagno. «Capisco che tu discenda
da
generazioni di Auror, Frank, ma... i tempi stanno cambiando. Si
sentono cose davvero raccapriccianti e pare che questa storia di Lord
Voldemort non sia... ecco, una storia».
Un
alone di
impenetrabile serietà calò d'un tratto attorno al
tavolo. Alice
strinse istintivamente le mani al grembo, socchiudendo gli occhi.
L'ipotesi di una guerra – tutte quelle maledette ipotesi che
tutti
avanzano – la faceva rabbrividire. Non riusciva a credere che
qualcuno potesse realmente immaginare di distruggere
l'intera
comunità magica.
«Mio
padre combatté
nella guerra contro Grindelwald al fianco di Alastor Moody, ed
è
Alastor Moody in persona che ora sta addestrano me a combattere
questa guerra, se mai dovesse esserci»
replicò con estrema
forza Frank. «Se ciò che si dice su questo
fantomatico Lord è
vero, se davvero ha intenzione di uccidere ogni
Nato Babbano e
ogni Mezzosangue, allora è nostro preciso dovere fare tutto
quanto è
in nostro potere per fermarlo. Siamo gli ultimi discendenti rimasti
delle più grandi famiglie di Purosangue che abbiano mai
vissuto in
Gran Bretagna e – Merlino! - non sarò di certo io
a rinnegare il
nome che porto».
Per
Alice, sentirlo
parlare con quel tono così deciso e prorompente fu come
inghiottire
un macigno. Si morse appena il labbro inferiore e inclinò
piano il
capo verso di lui, torturandosi un ricciolo biondo sfuggito alla
stretta acconciatura che sua madre le aveva sistemato quella mattina.
«Credi
ci sarà
realmente una guerra?».
Frank
si voltò verso
di lei e la guardò intensamente qualche istante. Le sue
labbra si
arricciarono in un affettuoso sorriso.
«Credo
di sì,
signorina Blishwick».
Gaspard
attirò
l'attenzione con un soffocato colpetto di tosse.
«Mio
padre è convinto
che si stia esagerando, e lo sono anche io. Non esiste alcuna prova
degli effettivi obiettivi di Lord Voldemort. Nessuno può
dirsi certo
che ci sarà una guerra».
«Oh,
per Godric,
Gaspard!» esclamò Frank, stupefatto.
«Non puoi fingere che non
stia accadendo nulla! Intere famiglie di Babbani continuano a sparire
nel nulla da mesi, ormai! L'aria del Ministero è tesa come
non lo
era dal 1939 – e tu sai cosa questo
significhi. Si sta
arrivando alla rottura definitiva... perfino Hogwarts non è
più un
luogo sicuro».
«Hogwarts!»
ripeté
sconcertato Randolph, scuotendo incredulo il capo. «Frank, ho
come
l'impressione che Alastor Moody stia avendo una pessima influenza su
di te. Nessun posto è sicuro quanto Hogwarts!».
«Tu
credi, amico mio?
E sia, ma non tentare di convincermi che non sia cambiato nulla. I
Lestrange, i Malfoy, i Rosier, i Black... come puoi non essertene
accorto? Eppure, quando eravamo bambini giocavamo tutti insieme
durante occasioni come questa» mosse la mano a mezz'aria,
indicandosi vagamente attorno. «Le nostre famiglie si stanno
dividendo, i Purosangue si stanno dividendo.
Presto, a noi
tutti verrà chiesto di decidere da quale parte stare, ed io
spero
vivamente che ognuno di voi sarà in grado di fare la scelta
giusta,
perché quella sbagliata, Merlino, potrebbe distruggere per
sempre il
mondo che conosciamo».
Randolph
fece un
sospiro stanco, si sfilò gli occhiali e alzò una
mano con
espressione rassegnata.
«Non
lo so, Frank. Mi
sembra una pazzia».
Alice
ispirò ed espirò
profondamente un paio di volte, torturandosi febbrilmente le mani.
«Io
combatterò»
dichiarò infine, stringendo fra loro le labbra e alzando con
fierezza il mento. «Quando arriverà il momento, i
Blishwick
sapranno da quale parte stare. Siamo gli ultimi Purosangue: difendere
la comunità magica è un nostro dovere».
Frank
le rivolse
un'occhiata raggiante e Alice ebbe l'impressione di aver notevolmente
alimentato la sua stima per lei. Una parte di sé, da qualche
parte,
fu immensamente lieta di quella consapevolezza.
Il
loro dibattito non
ebbe il tempo di proseguire, poiché l'orologio dei MacMillan
suonò
le sei in punto e i giovani iniziarono a prepararsi per ritornare
alle rispettive dimore. Frank Paciock si dimostrò
estremamente lesto
nell'aiutare Alice a sistemare lo scialle sulle spalle. Lei
ruotò
appena la testa verso di lui e lo ringraziò con un aperto
sorriso.
«Grazie
a lei,
signorina Blishwick. Mi sarei sentito tremendamente scoraggiato senza
il suo appoggio».
«Non
credo che lei
sappia scoraggiarsi, signor Paciock».
«Eccome.
Le assicuro
che saperla incapace di accettare l'inevitabilità della
guerra mi
avrebbe alquanto rattristato».
Alice
chinò
tristemente il capo.
«Io
sono molto
riluttante a questa guerra. Ne sono terrorizzata, a dirgliela
tutta, e prego ogni notte che un miracolo ci salvi da questa disumane
eventualità. Non sono una guerriera – non lo sono
mai stata – e
l'ipotesi di dover combattere non potrebbe mai non
spaventarmi»
mormorò. Alzò lo sguardo su di lui e fece un
improvviso sorriso
mesto. «Non sono una Grifondoro, io».
«Signorina
Blishwick,
mi creda, lei è già molto più
coraggiosa di molti Grifondoro di
mia conoscenza».
«No,
non credo. Vorrei
solo fuggire... vorrei poter essere in qualunque altro posto, quando
scoppierà tutto. Il solo motivo per cui mi
costringerò a restare
sarà perché non posso, non posso,
non difendere i principi
nei quali mi è stato insegnato a credere. Non posso
scappare, signor
Paciock, ma non esiterei a farlo, se potessi».
Frank
la osservò in
silenzio per qualche istante. Poi si inchinò, le prese una
mano e la
portò educatamente alle labbra.
«Questo
le fa onore,
ed io sarò onorato di restare al suo fianco quando
verrà il
momento. Randolph Brown potrà anche ritenerci due pazzi, ma
la
guerra è ormai troppo vera per poter essere scambiata per
un'assurdità da visionari».
«E
se non fosse così?
Se in realtà non stesse accadendo nulla?»
sussurrò con tono
lamentoso Alice, chiudendo gli occhi. «Se stessimo soltanto
immaginando che il mondo stia per crollare? Se fossimo davvero pazzi,
signor Paciock?».
Lui
scosse il capo con
aria immensamente desolata.
«Noi
non siamo pazzi,
signorina Blishwick. È questo il problema».
|
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Capitolo 4 *** Carduelis Britannina - Lucius/Tonks ***
Sono piuttosto
scioccata dal risultato di questa fan fiction. Non so sinceramente che
diavolo mi sia saltato in mente, ma quando ho dato un'occhiata alla straziante lunghissima lista di ship e ho
letto Lucius Malfoy/Ninfadora Tonks, beh, bum! È
stato un attimo. Ispirazione improvvisa, che bastarda. A chi
interessasse, la coppia principale rimane sempre e soltano Remus/Tonks
- toglietemi tutto, ma non questo.
→ "Carduelis
Britannina" è il nome latino del tipico
cardellino inglese che la gente ha la crudeltà di ingabbiare.
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Carduelis
Britannina
Lucius
Malfoy/Ninfadora Tonks
*
Alla
fine del gioco,
avevano perso tutto. Forse, si diceva Tonks, non ci avevano creduto
abbastanza. Forse, non avevano avuto abbastanza fortuna. Forse, non
era così che le cose dovevano andare.
Avevano
continuato a
lottare fin quando avevano avuto fiato per farlo e la maggior parte
di loro se ne era andata in piedi, esattamente come aveva vissuto.
Avevano continuato imperterriti, fino al tracollo del mondo, a
resistere per quanto di più caro possedevano. C'erano stati
momenti
in cui avevano creduto di essere a un passo dalla vittoria; la
sentivano scivolare per poco sulla punta delle dita e si ripetevano
che sì, la prossima volta sarebbe stata quella decisiva.
Poi,
Harry era morto.
Tonks
sedeva ritta e
impettita nella propria stanza, vestita con un sontuoso abito
damascato e con i capelli sbiaditi acconciati in un ricercato
chignon. Il suo sguardo fissava la gigantesca finestra che si
affacciava sull'ampio giardino dei Malfoy, ma era evidente che la sua
mente vagava a centinaia di miglia di distanza da lì. Chiuse
gli
occhi, mordendosi le labbra e stringendo i pugni con rabbia feroce.
«Remus
Lupin è
stato condannato a morte».
«A
morte, a morte!
Sì. Lo hanno preso questa notte».
«Domani,
dicono in
giro. A Hogwarts. No, non so perché proprio
lì!».
«Remus
John Lupin,
sei stato imprigionato con l'accusa di sovversione e alto tradimento
al Ministero della Magia».
Lei
era lì, quel
giorno, schiacciata fra la gente che affollava il parco di Hogwarts.
Chi per curiosità, chi per muta solidarietà e chi
per pura
rassegnazione, erano accorsi da ogni parte della Gran Bretagna per
assistere all'esecuzione di uno degli ultimi e più
importanti
baluardi dell'Ordine della Fenice rimasti in piedi. Anche Remus
Lupin, il licantropo di Albus Silente, era dovuto soccombere alla
prorompente potenza del regime di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato.
Lei
era lì, celata in
quel mare di sconosciuti e nascosta nel mantello. Sapeva che era
pericoloso uscire con il suo vero aspetto – lo sapeva da anni
–
ma Remus stava per morire, lei era lì, e non avrebbe mai
permesso
che qualcuno le impedisse di guardarlo ancora con i suoi occhi.
Era lì, in piedi, con l'impressione di aver smesso di
formulare
qualunque pensiero. Respirava e piangeva, sì, ma senza
nemmeno
accorgersene. Scuoteva debole la testa e fu in quel momento che lui
sollevò lo sguardo su di lei.
La
fissò per un
secondo che a Tonks parve un'infinità. Sembrava ci fosse un
mostro
dentro di lei che voleva scoppiare, mordere, ruggire, stracciare,
uccidere, ma non riusciva a muoversi. Non riusciva più a
fare
nient'altro che non fosse guardarlo.
“ Non credo
sopravviveremo a tutto questo, Ninfadora” le aveva confidato
qualche sera prima, mentre giocherellava distrattamente con la
spallina del suo reggiseno. “Mi dispiace”.
“ Remus... non è
colpa tua. Abbiamo fatto il possibile, solo... beh, loro hanno avuto
più fortuna di noi”.
Lui
le rivolse un
sorriso tenero e posò il volto nell'incavo del suo collo,
inspirando
piano il suo profumo.
“ Dio, ti amo
così tanto... ti ho sempre amata così tanto.
Tonks
affondò una mano
fra i suoi capelli grigi e gli baciò appena la tempia. Non
aveva la
più pallida idea che quella notte sarebbe stata l'ultima che
avrebbe
trascorso fra le braccia del marito.
«Questo
Wizengamot ti dichiara colpevole e ti condanna a morte».
Tonks
non smise mai di
guardarlo e, sebbene le lacrime le avessero appannato la vista, non
poté evitare di cogliere quell'ultimo rapido sorriso che lui
le
rivolse. Niente più di una smorfia rassegnata e di un “ti
amo”
letto sulle labbra. Niente addii struggenti, niente grida di
dolore, niente ultimi baci.
Fu
veloce, fu sterile,
fu vuoto.
Fu
atroce.
«Buonasera,
Ninfadora».
Tonks
si costrinse a
non voltarsi verso di lui o avrebbe provato nuovamente a ucciderlo.
Continuò a tenere il capo abbassato e lo sguardo puntato
sull'Incantesimo Incarceramus che le serrava saldamente i polsi l'uno
con l'altro. Era un'immagine deprimente, nel complesso, come poteva
esserlo una bambolina di porcellana riccamente vestita e con le mani
legate o un cinguettante pettirosso rinchiuso in una gabbia dorata.
«Ho
detto:
“buonasera”»
ripeté con più forza Lucius Malfoy.
«Ho
sentito»
ribatté gelidamente Tonks.
Sentire
il tacco dei
suoi stivali calpestare il parquet mentre avanzava verso di lei le
ricordava il ticchettio di un orologio – il suo orologio.
La
vittoria dell'Oscuro
Signore e la rinnovata ascesa della famiglia Malfoy aveva
indubbiamente giovato all'aspetto di Lucius. I suoi capelli biondi
erano perfettamente lisci e lucenti, il suo volto era disteso e
rilassato e i suoi abiti costosi, ricercati e tradizionali. Azkaban e
la disgrazia in cui era caduto sembrava essere per Lucius Malfoy
nient'altro che un ricordo poco piacevole relegato al passato. Tutto,
di lui, ostentava la sua vittoria.
«Sarebbe
cortesia che
tu rispondessi, quando ti saluto».
«Sarebbe
cortesia che
tu morissi, quanto non ti parlo».
Lucius
Malfoy si portò
una mano alla fronte con un verso di estenuante rassegnazione, come
se stesse cercando di insegnare i rudimenti della scrittura ad un
bambino particolarmente ottuso.
«Non
ci siamo,
Ninfadora...» mormorò sibillino, avvicinandosi
alla finestra e
appoggiandosi con le mani al davanzale. «Non ci siamo
proprio».
«Non
chiamarmi
Ninfadora. Io sono la signora Lupin».
«Tu
sei la vedova
Lupin».
Tonks
scattò come una
furia con l'intenzione di ucciderlo in quel preciso istante, ma le
corde si serrarono improvvisamente e la tirarono bruscamente verso la
testiera del letto, facendola cadere in ginocchio a pochi passi da
Lucius. Lui la scrutò ansimare per la rabbia e per il dolore
ai suoi
piedi, domandosi come fosse possibile che lei dimenticasse di essere
incatenata ogni volta che lui entrava nella sua stanza. Eppure,
avrebbe dovuto essersi abituata.
«Non
impari mai, non è
così? Nessuno di voi lo ha mai fatto» le disse
Lucius con tono
leggero. «E dire che, ormai, la situazione è
evidente. Hai perso,
mia cara. Hai perso prima la battaglia, ora la guerra. Mi chiedo per
quale sciocco motivo ti ostini ancora a resistere. Se ti piegassi,
potresti sopravvivere».
Tremante,
Tonks sentiva
il desiderio di sentire il collo di Lucius Malfoy spezzarsi sotto le
sue mani acuirsi vertiginosamente dentro il suo petto. Di questo
passo, sarebbe diventata matta. D'un tratto, nella sua mente si
riaffacciò l'ipotesi che fosse quello, in realtà,
che lui aveva
intenzione di fare. Voleva che lei impazzisse lì, in quella
dannata
stanza piena di orpelli e gingilli dorati, sola, sconfitta e
umiliata. Voleva strapparle anche il senno, alla fine.
«Sopravvivere?»
ripeté Tonks in un mormorio impercettibile, ruotando appena
il capo
verso di lui. Se i suoi occhi scuri avessero avuto il potere di
uccidere, difficilmente lui sarebbe sopravvissuto. Le sue pupille
rilucevano di un odio cocente e insanabile. «Sopravvivere? Perché?».
Lucius
storse il naso
nel vederla adirarsi tanto: detestava tutto quel rancore non
meritato. Dopotutto, lui le aveva salvato la vita. Aveva evitato che
Lord Voldemort la uccidesse, gli aveva richiesto personalmente che la
giovane nipote di sua moglie venisse risparmiata.
“ Posso
correggerla, mio Signore” continuava a ripetere,
sebbene
sapesse perfettamente che non stava facendo alcun progresso. “È
una strega dallo straordinario talento e, per quanto mi dolga dirlo,
rimane pur sempre per metà una Black. Ha solo seguito
l'influenza di
Silente per troppo tempo”.
«Hai
ucciso i miei
compagni» continuò a sentenziare Tonks,
sporgendosi febbrile in
avanti. Lucius alzò il capo con aria composta, ma non era in
grado
di distogliere lo sguardo dai suoi occhi lucenti. Come poteva quella
dannata Sanguesporco, figlia di una traditrice e concubina di una
bestie riservare a lui – lui, che l'aveva
salvata – tanta
folle avversione? Leggeva l'odio sul suo viso e sapeva perfettamente
che se solo si fosse azzardato a sciogliere l'incantesimo che la
teneva legata al letto, lei avrebbe tentato di ucciderlo anche a mani
nude. Avrebbe tentato in qualunque modo, sebbene sapesse di essere
solo una giovane strega disarmata di fronte ad uno dei più
potenti
Mangiamorte di Lord Voldemort. Lucius non sapeva spiegare la sua
stoltezza.
«Hai
ucciso mio padre.
Hai ucciso mio marito» sputò con rabbia Tonks,
graffiando le
lenzuola candide con le unghie. «Non osare parlarmi di
vita».
«Non
riesci ancora a
valutare la grandezza di quanto ho fatto per te» le
spiegò Lucius,
muovendo un braccio a mezz'aria e mostrandole la raffinatezza degli
arredi. «L'Oscuro Signore ti voleva morta. Bellatrix continua
a
volerti morta, giorno dopo giorno, ma io ti ho
salvato. Io
sto continuando a salvarti. Non hai più nessuno, a
parte me!»
gridò concitato, picchiando con violenza un pugno contro il
muro e
stringendo le labbra in una smorfia scocciata. «Io, e io
soltanto,
ti sono rimasto! Harry Potter è morto! Silente è
morto!
Quell'idiota di Black è morto! I Weasley e quell'accozzaglia
di
Babbani e Sanguesporco da cui erano circondati sono morti! Tuo marito
è morto! Morto, morto, morto!».
Tonks
aveva appoggiato
la fronte alle braccia, in un rigido pianto silenzioso. Lucius
inspirò profondamente: più della sua acredine,
odiava le sue
lacrime. Significavano che ancora soffriva, che ancora non si era
rassegnata e che ancora, dannazione, aveva intenzione di resistergli.
Per quanto diavolo ancora avesse la testardaggine di combatterlo
restava un mistero.
«Tornerò
anche
domani» la informò con voce fredda.
Si
era appena avviato
verso la porta, convinto che non avrebbe più udito la sua
voce fino
al giorno successivo. A differenza di tutte le serate precedenti,
invece, Tonks rialzò il volto rigato dalle lacrime e gli
sibilò
malevola:
«Narcissa
sa che sei
innamorato di me?».
Lucius
si bloccò di
colpo e si volse con uno scatto verso di lei. Il sorriso di Tonks
fremeva di malignità e nei suoi occhi era comparso un lampo
di folle
vendetta.
«Dimmi,
Lucius...»
riprese con più convinzione. «La mia cara zia lo
sa?».
Lui
fece una smorfia di
superiorità e finse di aggiustarsi il polsino della giacca.
«Ninfadora,
io sono
uno dei più importanti Purosangue in circolazione. Come ha
potuto
un'idea tanto sciocca attraversare la tua testa?».
«Dimmelo
tu, perché.
Hai fatto pressioni a Voldemort perché non mi uccidesse,
continui a
tenere Bellatrix Lestrange lontana da me ed io so perfettamente
quanto questo sia compromettente per la tua posizione. Sono una
fottuta Sanguesporco, no? Sono la figlia di una reietta e la moglie
di un licantropo. Che scusa hai usato per spiegare questo tuo strano
affetto per me? Hai detto loro che mi volevi, forse? Che volevi il
mio corpo? Sì? E allora, spiegami, perché non mi
hai mai toccato?
Perché non mi hai mai sfiorato nemmeno con un dito? La tua
non è
lussuria, non è il depravato desiderio di umiliarmi, non
è vero?».
Quando
vide che lui non
rispondeva, Tonks emise uno sbuffo di cinico divertimento.
«Cazzo.
Ti sei davvero
innamorato di me».
«Non
capisco di cosa
tu stia parlando» scosse il capo Lucius. «Ti ho
salvato perché,
per quanto tu sia completamente sciocca, rimani una mezza Black dai
notevoli poteri. Il tuo aiuto all'Oscuro Signore sarebbe--».
«Stronzate»
lo
interruppe bruscamente. «Vieni qui ogni fottuto giorno a
ricordarmi
quello che ho perso... a ricordarmi chi ho perso.
Perché,
Lucius, perché ci tieni così tanto a rimarcare il
fatto che Remus
sia morto?».
«Perché
era solo uno
sporco licantropo che ha avuto ciò che gli
spettava».
Il
sorriso di Tonks si
trasformò in un ghigno perverso. Fino a quel momento, Lucius
non era
ancora riuscito a cogliere la straordinaria somiglianza che correva
fra lei e Bellatrix. Parte di lui, per quanto cercasse di mostrarsi
impassibile, se ne ritrovò segretamente intimorito.
«Non
ti amerei nemmeno
se fossi soltanto una briciolo dell'uomo che era Remus».
Lui
la ignorò e si
affrettò ad abbassare la maniglia. Stava per aprire la
porta, quando
la sentii ridere – e la sua risata, buon Dio, era
così diversa
dalla cristallina risata che Lucius aveva sentito un tempo, quando la
scorgeva al Quartier Generale degli Auror o quando la spiava per
conto dell'Oscuro Signore. Era così dannatamente non
lei, ma
lui sapeva che era ancora viva, che poteva ancora tornare e che
sarebbe tornata, a qualunque costo. Sarebbe stata la stessa brillante
donna che aveva tanto bramato, prima o poi; solo che, questa volta,
sarebbe stata sua.
«Non sono io, quella
in gabbia, vero?» rise sprezzante lei, scrutandolo con aria
spietata. «Sei tu, Lucius, quello fottuto».
|
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Capitolo 5 *** Ho scelto il mio nome - Rabastan/Alice ***
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Ho
scelto il mio nome
Rabastan
Lestrange/Alice Paciock
*
La
fissava gemere sul
pavimento con l'espressione un po' annoiata e un po' disgustata di
chi ha appena schiacciato un grosso insetto. Pallido e sciupato, il
suo viso rotondo era distorto in una maschera di dolore, con gli occhi
gonfi e arrossati dalle lacrime che scendevano fino alle labbra e al
mento, i lunghi capelli biondi scarmigliati attorno alla fronte
sudata, ed ogni centimetro del suo corpo florido tremava
incessantemente. Soffriva, soffriva più di quanto avesse mai
sofferto, Rabastan lo sapeva e si beava della
vista del suo
dolore con aria compiaciuta.
L'hai
scelto tu.
C'era
qualcosa di
perversamente terapeutico nella soddisfazione provocata dal vederla
lì, ai propri piedi, sconfitta e umiliata, con la camicia da
notte
candida strappata poco sotto la spalla e i vetri del lampadario
frantumato conficcati nei palmi delle mani.
«Ti
prego...» la
sentì rantolare appena. «Ti
prego...».
Una
microscopica parte
di lui si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto portarla via
da
quella casa distrutta e dalla ferocia follia di Bellatrix. Avrebbe
potuto salvarla, forse, se solo l'eco delle risate
strappatele
da quel dannato Paciock non gli stessero ancora rimbombando nella
testa. La guardava, lì a terra, ai suoi piedi, e la vedeva
patire le
pene dell'inferno e scongiurare pietà e misericordia per il
bambino,
il dannato bambino, ma lui la vedeva ben più lontana, con
l'abito a
fiori che ondeggiava al vento e i riccioli biondi acconciati sulle
spalle, e Frank Paciock, sempre lì, sempre dannato, con la
mano
appoggiata alla sua schiena a gioire del suo sorriso.
Aveva
scelto lui.
E
il bambino, quel
dannato, maledetto bambino, quel lurido bambino che portava il suo
nome, piangeva e strepitava e strillava, e Rabastan avrebbe solo
voluto ammazzarlo. Avrebbe potuto eccome, ma non riusciva a muoversi.
«Rabastan...
ti
prego».
*
«Rabastan,
ti prego».
Stupefatto,
Rabastan
Lestrange sgranò stupidamente gli occhi. Rimase a fissarla
inebetito, con le labbra dischiuse e un continuo ronzio confuso nel
cervello. Alice chinò gli occhi con timorosa colpevolezza,
si alzò
di colpo dalla raffinata poltroncina e si avvicinò a lunghi
passi
alla finestra che si affacciava sul cortile della grande dimora dei
Blishwick. Iniziò a tormentarsi le mani e quando
parlò nella sua
voce risuonò una note di genuino dispiacere.
«Sappiamo
entrambi per
quale motivo mi stai chiedendo di sposarti».
Rabastan
si alzò a sua
volta in piedi e si lisciò istintivamente il mantello.
«Alice,
io...».
«Non
sarò io a
sostituire Andromeda Black nel tuo letto nuziale» lo
interruppe con
voce bassa. «Lei è fuggita e Narcissa è
destinata a diventare la
signora Malfoy a breve. Mi rendo conto della spiacevole situazione in
cui sei finito, ma...» si voltò per rivolgergli
un'occhiata
penetrante, «io sono una Blishwick».
«Una
nobile
casata...».
«Dai
vanti ben diversi
dei Lestrange» continuò imperterrita.
«Mi dispiace, Rabastan.
Comprendo che tu voglia mantenere alto l'onore della famiglia che
rappresenti, ma non credo di essere la donna giusta».
Paralizzato
dall'incredulità, aveva continuato a fissarla in silenzio.
L'improvvisa sensazione del fallimento gli rovinò addosso
con la
consapevolezza che suo fratello aveva avuto successo laddove lui si
era impantanato. Di nuovo, Rodolphus continuava ad essere il
primogenito di spicco e l'importante baluardo degli ultimi Lestrange,
mentre lui, Rabastan, aveva permesso che un sudicio Sanguesporco gli
rubasse la promessa sposa. Non amava Andromeda Black, né mai
probabilmente avrebbe potuto amarla, ma sarebbe potuta
diventare
una moglie devota e servizievole come la sorella più giovane
si
apprestava a diventarlo per Malfoy. Non poteva vantare né la
bellezza eterea di Narcissa né la tempra e la
passionalità di
Bellatrix, ma Rabastan si sarebbe accontentato, arrendendosi ancora
una volta alle ben più floride possibilità del
fratello maggiore.
Andromeda avrebbe dovuto pagare lo scotto dell'umiliazione, della
vergogna, della sua fuga d'amore con quel cane di
un Tonks,
eppure era lui, Rabastan, la testa sul quale
stavano
scrosciando tutte le derisioni e le beffe delle famiglie Purosangue.
Aveva
sperato di poter
trovare in Alice Blishwick quello che non aveva potuto ottenere da
Andromeda Black; lo aveva sperato al punto tale da convincersi che
nessuna giovane nubile avrebbe mai potuto rifiutare la sua proposta
di matrimonio. Era ricco, era nobile ed era puro.
Era un
Lestrange, ma ora quella dannata ragazza – una
Tassorosso,
per giunta! - gli si opponeva. La bellezza di Alice Blishwick si
discostava largamente da quella delle sorelle Black: di modesta
statura, dai fianchi floridi e dal portamento semplice e sereno di
una persona a cui non è mai stata insegnata l'arte
dell'ambizione. Non era
niente, a conti fatti, non era che l'ultima
discendente nubile
di una casata destinata a estinguersi con lei, eppure sembrava non
interessarle. Lui e ciò che poteva
offrirle non le
interessava.
Rabastan
si sentì
montare dalla furia.
«Non
potete pretendere
altro» le ringhiò con una smorfia.
«Credete forse che saranno in
molti ad accorrere alla porta di vostro padre per chiedere la vostra
mano? Non possedete né la ricchezza dei Malfoy né
il fascino dei
Black né potete vantare conoscenze altolocate. Non siete che
una
famigliola di periferia alla stregua dei Weasley,
come potete
rifiutare me? Sono quanto di meglio potreste mai
ottenere».
Per
un attimo Rabastan
credette che l'offesa l'avrebbe fatta inferocire, che l'avrebbe
scacciato
dalla propria proprietà, dandolo in pasto agli Ippogrifi
allevati
nelle scuderie del padre. Invece, la giovane Blishwick rimase
impassibile, rigida davanti alla grande finestra del salotto e con le
mani compostamente strette al grembo. I suoi grandi occhi celesti
luccicavano appena, ma Rabastan non intravide nulla nel suo viso che
potesse esprimere rabbia o indignazione. Sembrava serena,
tranquilla... compassionevole.
«Mi
sposerò solo per
amore» ripeté con un sorriso mesto. «E
mi dispiace, Rabastan, che
voi non possiate capire quanto questo sia importante».
«L'amore
non è
che...».
«L'amore
è vitale»
lo interruppe. Si avvicinò di qualche passo a lui e gli
posò appena
la mano sul petto. «Spero solo che un giorno possiate
rendervene
conto a vostra volta».
Il
ricordo fin troppo
limpido della sincerità e dell'apprensione della giovane
strega tentò di
torturarlo per diversi giorni a seguire. Lo tenne distante,
ripetendosi che non c'era nulla di giusto in quella maledetta
Tassorosso, nulla di puro, nulla di nobile. Era solo Alice Blishwick,
era solo l'ultima di una dinastia di perdenti. Era solo una ragazza
dal viso rotondo e il sorriso allegro che mai avrebbe
potuto
rendere onore alla famiglia dei Lestrange. Eppure, parecchi mesi
più
tardi, quando la Gazzetta del Profeta pubblicò l'annuncio
del suo
matrimonio con quel ridicolo Auror, sentì nuovamente la
collera
montargli nel petto. L'aveva osservata ridere dalla fotografia in
bianco e nero e agitare una mano accanto a quello stoccafisso con la
divisa degli Auror – quell'idiota – fin quando il
pensiero che
lei sarebbe dovuta essere sua
non divenne troppo feroce e gli fece strappare ogni centimetro del
giornale.
Avrebbe
dovuto essere sua.
*
«Rabastan...
ti
prego».
«Ti
avevo offerto una
straordinaria possibilità, Blishwick. Avrei potuto donarti
tutto ciò
che una donna potrebbe desiderare, qualunque gioiello e qualunque
abito... avresti avuto ogni cosa, se solo avessi scelto me».
Rabastan
si inginocchiò
davanti al suo volto cereo con un sogghigno maligno. Avvertiva
nell'aria qualcosa di tremendamente giusto, come se ogni pezzo avesse
dovuto incastrarsi proprio lì, nel soggiorno di casa
Paciock, con
lui che finalmente sovrastava quella folle sciocca che lo aveva
denigrato per l'ennesima volta e che aveva portato ogni membro della
comunità magica ad additarlo come un idiota, un fallito, un
incompetente. L'ombra del fratello Rodolphus, l'ombra di qualunque
altra conquista dei Lestrange. E ora Alice era davvero lì,
sconfitta e umiliata, e la sua fastidiosa bontà era distante
nel
tempo e nello spazio.
«Saresti
stata ricca.
Saresti stata potente. Saresti stata tutto ciò che non
potrai mai
più essere, ma hai fatto la tua scelta, e alla fine era la
scelta
sbagliata, Blishwick».
Le
afferrò con rudezza
il mento e la costrinse a sollevare il capo verso di lui. Quando
incrociò i suoi brillanti occhi celesti, Rabastan trattenne
a stento
un brivido. Vi era qualcosa di folle, nel suo
sguardo intenso,
qualcosa di malato nella feroce determinazione con
cui lo
fissava. Sembrava voler gridare, sembrava esplodere di coraggio e
virtù, sembrava non temere più né lui
né la morte, e Rabastan si
convinse di non aver mai visto un paio d'occhi più belli di
quelli
di Alice Blishwick. Sebbene gli stesse morendo ai piedi, sebbene le
grida infinite e il dolore gli avessero ormai strappato la voce,
pareva proprio che fosse lei, quella in procinto di vincere.
Tremanti,
le labbra di
Alice si storsero in un sorriso beffardo che lo fecero rabbrividire.
«Rabastan,
ti
prego...» mormorò con audace sarcasmo.
«Il mio nome... è
Alice Paciock».
|
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Capitolo 6 *** Fra capo e coda - Rufus/Minerva ***
Oggi
sono particolarmente in vena di tirare avanti questa mastodontica
raccolta – e dire che ho una vita da questa parte dello
schermo da
mandare avanti a sua volta, eh. Che posso farci?
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Fra
capo e coda
Rufus
Scrimgeour/Minerva McGranitt
«Non
starai gongolando
un po' troppo?».
Le
sottili labbra di
Minerva si arricciarono in un sorriso borioso. Sollevò
appena il
capo dalla coppa dorata che stringeva fra le mani e rivolse al
ragazzo un'occhiata impertinente.
«Ne
ho tutto il
diritto. Grifondoro ha vinto la Coppa di Quidditch per merito
mio».
Rufus
fece uno sbuffo e
si avvicinò alla poltrona sulla quale si era acciambellata
come un
gatto. Della rumorosa festa improvvisata nella sala comune di
Grifondoro non restava che qualche festone rosso e oro abbandonato
sul pavimento e diversi calici vuoti appoggiati un po' su questo e un
po' su quel tavolo. Agli occhi di Rufus, quel caos era oltremodo
intollerabile e se solo quella disgraziata di Minerva non gli avesse
chiesto di dimenticare i propri doveri di Caposcuola per quella sola
serata, avrebbe probabilmente dato di matto.
«Non
sei rimasto
nemmeno un minuto per festeggiare» disse lei.
Rufus
si lasciò
scivolare sulla propria poltrona preferita, situata in una posizione
particolarmente tattica per il controllo di qualunque cosa accadesse
all'interno della sala comune. Intravide un paio di mozziconi di
sigarette Babbane davanti al davanzale di una delle grandi finestre,
lasciata un poco aperta, e fece una smorfia stizzita.
«Dimenticavo»
riprese
con tono divertito Minerva. «Tu odi le
feste».
«Sono
Caposcuola».
«Lo
è anche Margareth
Collins, ma non mi pare che questo le abbia impedito di pomiciare con
Herbert Proudfoot nella sala da tè di Madama
Piediburro».
Rufus
la fissò con
espressione pensierosa.
«Com'è
possibile che
tu sia sempre informata su qualunque sciocchezza accada in questa
scuola?».
Lei
fece le spallucce e
riprese a rimirare la coppa.
«Nessuno
studente sano
di mente racconterebbe al proprio Caposcuola cosa combina o non
combina a Hogsmeade. E tu, poi, sei proprio uno di quelli a cui non
raccontare nemmeno cosa si combina o non si combina al
gabinetto».
«Che
vorresti
insinuare?».
Senza
sollevare lo
sguardo dalla coppa, Minerva inarcò un sopracciglio con
profondo
divertimento. Rufus fece un sospiro rassegnato: quella ragazza era
tremenda. Presuntuosa, ironica e dannatamente intelligente, Minerva
McGranitt era una di quelle giovani streghe che Rufus non avrebbe
augurato di sposare nemmeno al peggiore dei suoi nemici. Più
che di
una dama, sfoggiava la bellezza sfacciata e incurante di una
guerriera delle brughiere scozzesi, con i lunghi capelli neri
spettinati attorno al viso e gli occhi verdi rilucenti di brillante
arguzia. Era selvaggia, esattamente come le terre dalle quali
proveniva, e Rufus ben si ravvedeva dal farsi incantare da quella sua
aria da studentessa modello. Nascosta sotto la divisa e gli
eccellenti voti, c'era una strega malata di competizione – e
questo
Rufus proprio non riusciva a sopportarlo, perché lui,
per
primo, sapeva di voler vincere sempre.
«Io
non insinuo mai.
Io faccio constatazioni»
ribatté lei pungente. «E ho
constatato, Rufus, che sei un vecchio bigotto nascosto nel corpo di
un diciassettenne».
«Sono
Caposcuola».
«Sì,
mi era giunta la
voce...» lo prese in giro Minerva, appoggiando il capo sul
palmo
della mano. «Rissati, Rufus, o un giorno le regole finiranno
per
ammazzarti».
*
«Saresti
un ottimo
Auror».
«Ho
già trascorso fin
troppo tempo fra le mura del tuo Ministero»
ribatté pungente
Minerva con un sopracciglio boriosamente inarcato.
«Francamente,
Rufus, quel posto mi dà la nausea».
«Francamente,
Minerva,
quel posto ti dà lo stipendio».
Le
sue labbra sottili
si storsero in un sorriso saccente. Minerva si allungò verso
di lui,
evitando con la grazia di un gatto il grande calice di Idromele che
stava sorseggiando. Se solo non fosse stato certo che l'avrebbe fatta
adirare, sarebbe scappato a ridere davanti alla sua espressione
pretenziosa. Era fastidiosa e saccente, c'era poco da discutere
–
e, a conti fatti, Rufus non le avrebbe chiesto di cambiare,
né lei
avrebbe mai tollerato una proposta simile.
«E
se ti dicessi che
non lavorerò a lungo in quel buco?».
«Di
che stai
parlando?».
«Il
Preside Silente mi
ha offerto la cattedra di Trasfigurazione» soffiò
soddisfatta. «E
io ho accettato».
Rufus
si fece quasi
sfuggire dalle mani il bicchiere di Whisky Incendiario. Lo sconcerto
del primo impatto durò ben poco e venne rapidamente
sostituito da
un'ombra scura e maldisposta e una profonda ruga comparve in mezzo
alla sua fronte. Appoggiò cauto il bicchiere al tavolo del
Paiolo
Magico al quale si erano accomodati venti minuti prima e rimase in
silenzio qualche istante. A modo suo, anche Minerva sembrava
improvvisamente cauta e attenta ad ogni reazione del giovane mago.
«Silente
ti ha...
cosa?» mormorò Rufus, e
l'ultima parola parve quasi un
sibilo furente.
«Hai
capito
perfettamente».
«Tu
hai... non mi hai
detto nulla».
Minerva
sollevò
austera il naso.
«È
la mia vita,
Rufus. La mia, non la tua».
«Credevo
di farne
parte».
Lei
accusò il colpo
con quanto più contegno possibile. Senza calare lo sguardo,
né
smuoversi dalla sua impassibile posizione composta, continuò
a
fissarlo con una luce dura e fredda negli occhi verdi. Rufus sentiva
la collera montare vorticosamente dentro di lui e a poco
servì
ripetersi nuovamente il mantra con il quale aveva sempre sopportato
ogni colpo di testa di Minerva: è fatta
così.
«Sebbene
tu non abbia
alcuno scrupolo nel lasciare da parte me per il
tuo lavoro, io
non ti ho mai chiesto di mettere da parte il tuo lavoro per me»
lo ammonì con voce tremante. «Dunque non osare
intrometterti nelle
mie scelte».
«Avrei
solo voluto
esserne informato prima».
«Lo
avrei comunque
accettato. Non sarebbe cambiato niente».
«Sarebbe
cambiato
tutto!» esclamò concitato lui, sbattendo il pugno
sul tavolo e
attirando su di loro l'attenzione di due maghi seduto al tavolo a
fianco. «L'avrei saputo prima, avrei
potuto dirti se ero
d'accordo con--».
«Con
cosa?»
replicò testardamente lei, afferrando il bordo di legno con
entrambe
le mani e fulminandolo con un'occhiata gelida. «Con cosa,
Rufus? Con
le mie scelte? Credi davvero che io abbia bisogno
del tuo
parere per decidere cos'è meglio per la mia vita?
Io non ho
bisogno di nessuno».
«Tu
hai sempre
bisogno di qualcuno. Sei davvero così sciocca da
credere di
potertela cavare da sola? Sei una testa calda, agisci sempre prima di
pensare ed io, povero idiota, ti sono sempre dietro
per
sistemare ogni tua imprudenza. Hai pensato alle conseguenze? Hai
pensato che sarai perennemente a Hogwarts? Hai pensato che anch'io
faccio parte della tua vita?».
Minerva
aprì la bocca
per protestare, ma si bloccò tutto d'un tratto e rimase
ferma. Fece
un respiro profondo, socchiuse le palpebre e bevve d'un sorso quel
poco che restava del suo Idromele. Poi si alzò di scatto,
estrasse
dal portamonete una manciata di Zellini e le lanciò sul
tavolo.
«Eccoti
la risposta,
Rufus» ringhiò fra i denti prima di svanire
rapidamente oltre la
porta del Paiolo Magico.
Lui
non tentò nemmeno
di fermarla.
Era
fatta così.
*
Quasi
le venne un colpo
quando si ritrovò Rufus Scrimgeour nel bel mezzo del
corridoio del
settimo piano. Era ormai sera inoltrata e Minerva si era appena
accertata che nessuno dei suoi studenti di Grifondoro avesse
oltrepassato varco celato dalla Signora Grassa. La giornata era stata
oltremodo spossante e a ben poco era servita la Pozione Rinvigorente
di Poppy; avvertiva un gran bisogno di riposare e le palpebre si
arrischiavano a socchiudersi da sole.
Quando
lo vide, la
sonnolenza svanì di colpo e lasciò spazio ad un
fastidioso senso di
smarrimento. Lui parve provare la stessa sensazione – e
Minerva fu
attraversata dal pensiero che Rufus avesse percorso i corridoi del
castello con la speranza di non incontrarla affatto.
Erano
trascorsi anni
dall'ultima volta in cui avevano avuto modo di parlarsi. Entrambi
avevano inutilmente cercato di risanare un rapporto che non era mai
stato destinato a perdurare, ci avevano riprovato e avevano fallito
innumerevoli volte. Avevano litigato ancora, ancora e ancora, ma
nessuno dei loro tentativi era valso a qualcosa. Forse erano troppo
simili; forse erano troppo diversi; forse non era così che
sarebbe
dovuta andare, si erano detti, e qualunque cosa avessero condiviso si
era seccata con la rispettiva decisione che non avessero più
niente
da recuperare. Dopotutto, la loro non era stata che una storia come
tante altre e il tempo aveva fatto il suo corso, portandoli agli
antipodi della società magica.
«Minerva»
disse Rufus
stupito, e più che un saluto parve proprio un'esclamazione
non
voluta.
«Rufus»
rispose lei.
«Perché sei qui?».
Lui
fece un profondo
sospiro e indicò vagamente un punto alle sue spalle.
«Sono
qui per conto
del Quartier Generale degli Auror» spiegò con
rigida
professionalità. «Devo parlare con
Silente».
«Ricordi
dov'è il suo
ufficio?».
«Naturalmente».
«Bene».
Rimasero
in silenzio
diversi secondi, senza che nessuno dei due si decidesse ad aggiungere
altro. Era assurdo, pensò Minerva, che l'indifferenza
generata dal
passare dei giorni potesse svanire così rapidamente.
Ritrovarselo
davanti l'aveva scossa fin dentro le viscere; e dire che mai avrebbe
pensato di poter provare sentimenti tanto caotici nel rivederlo. Non
c'era amore, non c'era affetto, non c'era nulla di quello che c'era
stato in passato: c'era solo turbamento e imbarazzo e lei, sempre
così ostinata ad avere il controllo su tutto, iniziava a
innervosirsi.
«Devo
andare, ora» la
liquidò sbrigativamente Rufus, riprendendo nuovamente i
proprio
passi. «Ho molte cose di cui discutere con Silente e il tempo
non è
dalla mia parte. Arrivederci, Minerva».
La
superò senza
aggiungere altro, ma per una volta, per la prima volta,
uno
dei due si decise a fermare l'altro. Chissà,
ripensò nuovamente
Minerva, forse il motivo per cui nessuno dei due si era rivelato
adatto all'altra era proprio quello: non si erano fermati abbastanza,
non si erano fermati quando avrebbero dovuto fermarsi e si erano
intromessi quando avrebbero dovuto lasciar andare.
«Rufus»
lo richiamò
Minerva.
Lui
si bloccò e rimase
immobile con le spalle rivolte verso di lei.
«È
per Riddle? È per
quella storia dei Mangiamorte?».
«Sì»
rispose dopo
qualche istante.
«È
vero quello che si
vocifera? È vero quello che sta facendo?».
Rufus
si voltò per
rivolgerle un'occhiata preoccupata.
«Sì».
Minerva
fece una
smorfia addolorata e serrò per un attimo gli occhi. Lei e
Tom
Riddle, ormai noto con la timorosa nomea di Lord Voldemort, avevano
frequentato Hogwarts nello stesso periodo. Non erano mai stati
nemmeno conoscenti – né qualcuno dei due avrebbe
voluto esserlo –
ma il semplice fatto che conoscesse quel folle che
andava
incitando lo sterminio dei Babbani e dei Nati Babbani era
maggiormente frustrante. C'era un'atmosfera cupa e densa di
aspettative e ansie, in quei tempi, e Minerva non era del tutto certa
che sarebbe svanita in fretta.
«Devo
andare» la
informò Rufus. «Stammi bene».
«Fa'
attenzione».
Per
la seconda volta,
lui si bloccò di colpo. Senza muovere un muscolo, rimase
piantato
nel mezzo del corridoio, con le mani insaccate nelle tasche della
divisa da Auror e il capo chino sul pavimento.
«Fa'
attenzione,
Rufus» ribadì Minerva, senza avere la
più pallida idea del motivo
di quell'ondata di apprensione. «Qualunque cosa succeda...
fa'
attenzione».
Lui
si voltò quel poco
che bastava per rivolgerle un flebile sorriso amaro.
Era
fatta così.
|
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Capitolo 7 *** Uno dei due - Evan Rosier/Hestia Jones ***
Non si sa se Hestia
Jones fosse o meno un membro del primo Ordine della Fenice. Nella
fotografia che Moody mostra a Harry nel quinto libro lei non compare,
ma questo non significa necessariamente che non ci fosse. Voglio
dire, ehi, in quella foto compare pure Aberforth e ci viene
espressamente detto che lui non faceva parte dell'Ordine. Magari
Hestia era a fare la spesa, quando l'hanno scattata; magari non c'era
e basta, ma io ho dovuto arrangiarmi.
In questa fan fiction,
quindi, Hestia è nata attorno agli anni Cinquanta ed
è un membro
del primo Ordine della Fenice. E ora questa coppia assurda mi piace
da impazzire. Sono uscita di senno.
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Uno dei
due
Evan
Rosier/Hestia Jones
Ai
tempi di Hogwarts
era tutto differente; lo erano loro,
lo era il mondo fuori e
lo era qualunque cosa li agitasse dentro.
Hestia non avrebbe mai creduto possibile che la propria vita si
potesse rivoltare su stessa, eppure l'aveva fatto, aveva schiacciato
ogni serenità che ancora si avvinghiava all'eco sereno dei
giorni
passati ed ora era lì, immobile e spenta, seduta su un
sofà tarmato
a contare i grani di polvere che ricoprivano il tavolo.
Non
si era nemmeno
lavata le mani.
*
Della
battaglia che
aveva appena distrutto mezza Montford non restavano che un gran
cumulo di macerie e un paio di Obliviatori del Ministero che ancora
inseguivano qualche Babbano che gridava di aver visto “gente
folle
che faceva magia, magia vera”. Il
polverone sollevato
dall'esplosione della piccola locanda si era ormai diramato, gli
Auror si erano già Smaterializzati e i membri dell'Ordine
erano
svaniti ben prima del loro arrivo. Solo Hestia aveva deciso di
rimanere e si era mischiata all'orda di Babbani che si era accalcata
nella via. Piangevano e urlano, si stringevano l'uno con l'altro, e
poi urlavano di nuovo. Diverse pattuglie di polizia erano
già
piombate sul luogo del disastro; le luci dei lampeggianti delle
automobili si allungavano e si ritraevano sulla facciata distrutta,
creando delle ombre a forma di artiglio che celavano appena gli
interni scoperti. Hestia riuscì a riconoscere ciò
che restava di
una stanza da letto.
«Una
bomba! Una
bomba!» strillava un'anziana signora con i bigodini scomposti
e la
camicia da notte a fiori. «È stata una bomba! Una
bomba!».
“ No, non lo è stata”
pensò d'istinto Hestia, affondando le mani nelle tasche dei
jeans
Babbani.
Poi
lo vide.
Sembrava
dannatamente
fuori posto fra la folla esagitata, dritto e impettito accanto a un
lampione al quale era esplosa la testa, come se l'atmosfera tragica
non lo potesse attaccare nemmeno un poco – come se lui non
c'entrasse niente.
Hestia non sapeva se lui l'avesse a sua volta
vista, né si soffermò a pensare che potesse
annidarsi un'imboscata
dietro al fatto che lui, un Mangiarmorte, fosse ancora
lì, in
mezzo al disastro che aveva generato, piuttosto che essere fuggito
al sopraggiungere degli Auror.
Voleva
agire e basta,
doveva agire e basta.
Senza
attendere oltre,
si fece largo a forza attraverso la gente, e aveva appena estratto di
soppiatto la bacchetta quando lui si era voltato di colpo verso la
sua direzione. Hestia si irrigidì e l'imprudente
audacia
che l'aveva trascinata fino alle sue spalle scemò di colpo,
lasciando spazio ad un'orribile sensazione di pericolo. D'istinto, le
sue piccole dita si strinsero attorno all'impugnatura di salice.
Non
vedeva Evan dacché
lui si era unito ai Mangiamorte e si era fatto marchiare
l'avambraccio; si ritrovo scioccamente a pensare che il suo viso non
era cambiato poi così tanto. Gli ondulati capelli chiari gli
ricadevano un poco più lunghi sulle spalle e il suo colorito
era più
pallido e cereo, ma i suoi occhi azzurri la scrutavano ancora con lo
stesso annoiato distacco di sempre, come se non riuscisse a
visualizzarla davvero.
«Giù
la bacchetta,
Hestia» la ammonì con voce roca e lei
trasalì nel rendersi conto
di quanto quella, al contrario, fosse profondamente mutata.
«Siamo
circondati da Babbani».
«È
nascosta dal
cappotto» gli rispose, cercando di apparire ben
più sicura di
quanto non fosse. «Potrei ammazzarti ora e tu cadresti a
terra
senza che nessuno di loro se ne accorga».
Evan
soffiò divertito
e distolse lo sguardo da lei per scrutare un punto indistinto oltre
le teste delle persone davanti a lui.
«Non
è nel tuo
stile».
«Cosa
ne sai, tu?».
Lui
sorrise sotto i
baffi.
«Lo
so».
Hestia
si mosse il più
velocemente possibile e puntò la bacchetta alla sua schiena
prima
che lui potesse muovere un solo dito. Per un attimo ebbe
l'impressione che l'idea di scansarsi non lo avesse nemmeno sfiorato,
ma si costrinse a pensare che era lei, quella che
lo teneva
sotto scacco, ora. Era lei, era la sua bacchetta,
quella ben piantata contro di lui – lei
che avrebbe potuto
ucciderlo in qualunque momento.
«Non
pensi mai che
avremmo potuto essere felici, noi due?» le domandò
d'un tratto,
girando appena la testa per rivolgerle un'occhiata in tralice.
«Ci
pensi mai, Hestia?».
Lei
chiuse gli occhi e
affondò ancora di più la bacchetta nella sua
schiena.
«No».
«Bugiarda»
la accusò
con tono cordiale. «So che ci pensi».
«Vuoi
sapere a cosa
penso? Penso che hai fatto la tua scelta, e che se non dovessi
ammazzarti oggi, farò qualunque cosa per ammazzarti la
prossima
volta».
«Lo
spero» ribatté.
«Perché io cercherò di fare lo stesso e
francamente mi
dispiacerebbe non vederti fare nemmeno un tentativo».
«Sarò
io ad
ammazzarti, Evan. Tienilo a mente. Io ammazzerò
te».
Contro
ogni logica,
Evan scoppiò in una leggera risata.
«Siamo
proprio nati
nelle vite sbagliate, io e te... del tutto sbagliate».
«Avresti
potuto
cambiare».
«Io
sono nel giusto
esattamente quanto tu credi di esserlo. E l'unica cosa
giusta è che nessuno di noi conosce un motivo valido per il
quale cambiare, a conti fatti».
«Non
c'è niente di
giusto in quello che fai» gli ringhiò.
«Non c'è mai stato
qualcosa di giusto in nessuna cosa tu abbia mai fatto».
«Io
ero davvero
innamorato di te, Hestia» soffiò debole.
«Ma non c'era nulla che
né io né te potessimo fare. Te l'ho detto. Siamo
nati nelle vite
sbagliate».
Si
voltò finalmente
verso di lei, incurante della bacchetta premuta sull'addome e
sollevò la mano destra per toccarle il viso. Hestia
scansò rapida
il suo gesto premuroso e gli scoccò un'occhiata glaciale.
«Vattene»
sibilò con rabbia.
Evan
sbuffò divertito
una seconda volta e annuì con aria ironica.
«Solo
un ultimo
consiglio: la prossima volta in cui proverai a uccidermi, mettici un
po' più di volontà o sarò io
ad ammazzare te».
*
Hestia
ne era più che
mai certa: aveva esitato. Aveva visto con immane chiarezza
l'incertezza con cui aveva abbassato di qualche centimetro la
bacchetta, e dire che lei era lì,
disarmata davanti a lui e
senza alcuna via di fuga; ma Evan si era bloccato per un istante e
quell'istante, Merlino, gli era stato fatale.
Il
volto di Alastor
Moody avrebbe portato i segni del duello con Evan Rosier per il resto
della
sua vita, ma non era lui, quello caduto. Non era lui,
quello che
aveva esitato a un passo dalla sopravvivenza.
“ Mettici un po'
più di volontà o sarò io ad
ammazzare te”.
Hestia
aveva ancora il
suo sangue sulle mani.
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Capitolo 8 *** Senza rispondere - Peter Minus/Bertha Jorkins ***
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Senza
rispondere
Peter
Minus/ Bertha Jorkins
Per
Bertha Jorkins non
era stato facile convincere i mille abitanti del piccolo villaggio di
Liqenas di non essere altro che una reporter per una modesta testata
giornalistica britannica.
“ Mi occupo di viaggi”
aveva spiegato al titolare dell'unica locanda della zona. “La
rivista per cui lavoro è molto interessata al Lago di
Prespa”. Non
era certa che avesse capito: gli abitanti di Liquenas in grado di
masticare qualche parola d'inglese erano davvero pochi e lui aveva
continuato a fissarla con espressione vuota per diversi istanti,
prima di annuire sbrigativo e lanciarle la chiave della stanza numero
tredici. Che avesse compreso o meno, tuttavia, non era certo un
problema di Bertha; era alla ricerca di Alkan Masereka, ex-Battitore
della nazionale albanese di Quidditch che aveva misteriosamente
rifiutato l'ingaggio offertogli dalle Vespe di Wimbourne per poi
svanire nel nulla. L'Ufficio per i Giochi e gli Sport Magici era
intenzionato a scoprire cosa gli fosse accaduto ed eccola
lì, Bertha
Jorkins sperduta nei Balcani e senza la più pallida idea di
dove
poter cercare Masereka. Credeva che la madre fosse originaria di
Liquenas, ma era probabile avesse confuso il nome del villaggio,
perché a Liquenas nessuno sembrava aver mai udito il nome di
Masereka. Sembravano non essere mai nemmeno esistiti, dei Masereka.
E
lei, allora, dove
diavolo era finita?
*
Peter
era rimasto
immobile davanti a lei e l'unica cosa alla quale era stato in grado
di pensare era che la sua fronte arrivava a malapena al suo seno. Si
era sentito umiliato, spaventato e profondamente arrabbiato tanto con
Sirius quanto con James, fermi a sghignazzare del suo imbarazzo; si
era sentito adirato pure un poco con Remus, che avrebbe avuto la
forza di impedirglielo e per l'ennesima volta non aveva mosso un
dito.
Bertha
aveva due anni
in più di lui, era alta almeno il doppio e parlava quattro
volte
tanto, ma quando Sirius aveva avuto la pessima idea di spingerlo
addosso a lei per chiederle se avesse desiderato portarselo ad
Hogsmeade quel fine settimana, lei aveva accettato con aria
divertita.
Peter
aveva sgranato gli occhi. Nessuna ragazza aveva mai voluto andare a
Hogsmeade con lui: lui non era affascinante quanto Sirius,
né
simpatico quanto James o gentile e intelligente quanto Remus. Non era
niente di tutto ciò, sapeva che non lo sarebbe mai stato
– lo
sapevano tutti
–
ma Bertha aveva ugualmente accettato.
Aveva
i capelli biondi
e scarmigliati, il volto lungo e la bocca molto larga, ma a modo suo
era comunque abbastanza carina. Peter non riusciva a decidere se
invitarla a Hogsmeade fosse stata un'idea molto buona o un'idea molto
cattiva.
*
Nonostante
fossero
trascorsi più di quindici anni da quell'ultima occasione in
cui
avevano parlato, a Peter erano bastati pochi istanti per
riconoscerla. I capelli biondicci erano acconciati in modo goffo e
aveva scelto un improbabile completo da Babbana color aragosta per
mimetizzarsi fra gli abitanti di Liquenas. Peter la osservò
cinguettare con un macellaio che probabilmente non stava capendo che
un quarto delle sue parole e pensò scioccamente che dovesse
essere
piuttosto fiera della vita che stava conducendo. Non aveva la
più
pallida idea del motivo che avesse portato Bertha in quel villaggio
sperduto dell'Albania orientale, né come una tale
coincidenza fosse
possibile, ma si sentì improvvisamente teso e spaventato.
Cosa
gli sarebbe potuto
accadere se avesse dovuto scoprirlo? Sarebbe stata in grado di
riconoscerlo? Dopotutto, tredici anni trascorsi dietro le fattezze di
un roditore avevano lasciato un segno indelebile sul suo viso. Era
scialbo, era svuotato, era vecchio; e pure lei,
sotto il
vestito elegante e il trucco impiastricciato, era cambiata.
Rifletté
a lungo sulle
possibilità che gli rimanevano, mordicchiandosi nervoso le
unghie
sporche. Poi chiuse gli occhi, si concentrò e si
trasformò in un
piccolo topo dall'aspetto malaticcio.
C'era
solo una cosa che
poteva fare.
*
«Al
Ministero dicono
che Ludo Bagman sia un Mangiamorte» cinguettò con
aria allegra
Bertha, controllando per l'ennesima volta l'infusione del tè
verde
di Peter. «Non ti sembra assurdo? Per me lo è.
Voglio dire, conosco
Ludo Bagman da secoli e proprio non ce lo vedo ad
andare in
giro ad ammazzare i poveri Babbani. Ludo Bagman, hai presente? Il
Battitore».
Peter
la guardava con
le labbra appena dischiuse e l'espressione vacua e distante; eppure
era attento ad ogni sua parola, assaporava il trillo acuto della sua
voce, godeva di ogni suo gesto nervoso. Talvolta, i suoi modi lo
stordivano al punto tale da farlo fuggire – o da fargli
picchiare
più e più volte la testa contro lo spigolo del
tavolo – ma
qualcosa in lui finiva sempre col suggerirgli di restare con lei e
annuire semplicemente ai suoi esasperanti monologhi.
«Peter,
mi stai
ascoltando?».
«Certo...
il
Battitore, Ludo Bagman».
Bertha
storse le
labbra, si sedette di fronte a lui e incrociò le dita delle
mani con
aria profondamente concentrata. Sotto il suo sguardo indagatore,
Peter si sentì improvvisamente molto più svestito
di quanto già
non fosse.
«Questa
storia
dell'Ordine della Fenice ti sta facendo impazzire, sai?»
decretò
con sicurezza lei dopo qualche istante di riflessione. «Dico
davvero, Peter, ti sta proprio facendo impazzire. Guardati: tremi, ti
agiti, stai sempre zitto... a volte ho l'impressione che tu non mi
stia nemmeno a sentire».
Peter
deglutì
stentatamente.
«Io...
io sono sempre
stato piuttosto zitto» buttò lì con una
mezza risatina impacciata.
Lei
lo liquidò con un
cenno sbrigativo della mano.
«Oh,
andiamo, Peter,
sai perfettamente di cosa sto parlando. Sai cosa si vocifera sul
conto di Silente? Dicono non sia normale che si ostini ad opporsi al
Ministero, che stia macchiando qualcosa di grosso al sicuro fra le
mura di Hogwarts...».
«Sono
sciocchezze»
borbottò Peter. «Silente non... non approva i
nuovi sistemi del
Ministero della Magia. Dice che non possiamo combattere Tu-Sai-Chi e
i suoi Mangiamorte con le loro stesse Maledizioni. Dice che dobbiamo
essere migliori».
Bertha
lo scrutò per
qualche istante ancora, poi si alzò con un verso sarcastico
e tornò
a controllare la teiera fumante.
«Pensa
ciò che vuoi,
ma di certo non riuscirai a cambiare la mia opinione».
Confuso,
Peter scosse
il capo.
«Non
era mia
intenzione... tu puoi pensare a ciò che vuoi».
«È
quello che
faccio».
«Certo,
io intendevo
solo dire che..» azzardò Peter. Si interruppe di
colpo, si
massaggiò appena le tempie e infine alzò entrambe
le mani in segno
di resa. «Per amor di Morgana, possiamo parlare
d'altro?».
Bertha
si voltò e gli
rivolse un lieve sorriso. Dopo avergli appoggiato il vassoio per il
tè davanti al naso, si slacciò il grembiule,
girò attorno al
tavolo e si fermò a pochi centimetri da lui, sorreggendosi
al bordo
del tavolo. Gli passò affettuosamente una mano fra i capelli
per poi
accarezzargli appena la guancia rotonda rasata di fresco.
«Mi
piace tanto quando
mi dai ragione... anche se lo fai senza rispondermi».
*
Se
si possiede la
capacità di trasformarsi in un topo, introdursi di soppiatto
all'interno della stanza di una locanda di second'ordine è
un gioco
da ragazzi. Seduto su una sedia sbilenca, Peter continuava a
rigirarsi la bacchetta fra le mani senza osare distogliere lo sguardo
dalla porta. Lei sarebbe arrivata a momenti e lui avrebbe dovuto
agire con estrema rapidità.
Socchiuse
gli occhi ed
ispirò profondamente, mentre il suo udito avvertiva l'eco
delle
scale di legno che scricchiolavano al di là della parete.
Era
arrivata.
Si
alzò di scatto al
rumore della chiave infilata nella toppa.
Doveva
essere
rapido.
La
porta si aprì e
Bertha entrò nella stanza, rivolgendogli inconsapevolmente
le
spalle.
Era
stato fortunato.
«Incarceramus!».
Dalla
punta della sua
bacchetta scaturirono grosse funi che si avvilupparono attorno ai
polsi e alla caviglie di Bertha; la strega cacciò uno
strillo acuto
e franò sul pavimento, sollevando una leggera nuvola di
polvere.
Peter s'affrettò a chiudere la porta e per un attimo rimase
ad
osservare inorridito il risultato dell'incantesimo che aveva evocato.
«Chi
c'è!?» gridò
Bertha, mentre si dimenava su se stessa. «Chi
c'è!?».
«Non
muoverti» disse
Peter, stupendosi di quanto suonasse roca e distante la propria voce.
«Se ti muovi, le corde si stringeranno di
più».
«Chi
c'è?»
piagnucolò ancora. «Chi c'è
lì?».
Mi
piace tanto
quando mi dai ragione.
«Lumos»
mormorò
Peter.
Bertha
era riversa a
terra, le braccia serrate attorno al torso e le gambe strette l'una
contro l'altra. Un ciuffo di capelli chiari le era scivolato davanti
al volto esangue. Parve paralizzarsi quando fu in grado di alzare lo
sguardo verso il proprio aggressore. Lo studiò attentamente
con
occhi stravolti, e Peter quasi credette di poter seguire il filo
logico che l'avrebbe portata a riconoscerlo. Lo stava scrutando con
troppa attenzione – era questione di minuti, secondi.
«Peter?».
Peter
non trovò il
coraggio di risponderle.
*
«Mio
Signore...»
balbettò cauto Peter, spingendo Bertha all'interno della
fatiscente
cascina e piantando con forza la bacchetta nella sua schiena.
«Mio
Signore, ho trovato... ho trovato Bertha Jorkins. Lavora al Ministero
della Magia».
«Bertha
Jorkins?» si
levò un sibilo sinistro nella penombra. «Oh, quale
immenso piacere.
Non abbiamo mai molti ospiti, qui».
L'istinto
la spinse a
cercare di dimenarsi dalla stretta di Peter, ma lui fu più
svelto e
la spinse di nuovo sul pavimento. Atterrò con un grido e
rimase con
la guancia schiacciata a terra e il fiato corto; sentiva le viscere
stringersi, sentiva di non aver mai provato un terrore tanto feroce.
Aveva la sensazione che sarebbe morta da lì a poco, e la
consapevolezza non faceva che alimentare il pensiero di non voler
morire – non in quel momento, non così.
«Peter...»
supplicò
ancora. «Peter, sei tu?».
Peter
non trovò il
coraggio di risponderle nemmeno quando dovette disfarsi del suo
cadavere.
Mi
piace tanto
quando mi dai ragione, anche se lo fai senza rispondermi.
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Capitolo 9 *** La bambola imitatrice - Remus/Marlene ***
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
La
bambola imitatrice
Remus
Lupin/Marlene McKinnon
«Bonny-Lee
era
entusiasta della bambola che le hai regalato»
sussurrò con un
sorriso gentile Marlene, senza distogliere lo sguardo dal lato della
scuola di Kingsford che si affacciava su Triumph Road.
«Soprattutto
quando ha scoperto che poteva ripetere qualunque sua
boccaccia».
Remus
sollevò il viso
dalle pagine del Daily Mirror. Non lo stava nemmeno leggendo, si
stava limitando a scorrere vagamente da una notizia all'altra,
domandandosi per quale motivo non gli fosse venuto in mente prima di
incantare la Gazzetta del Profeta in modo che solo lui avesse potuto
riconoscerla. Avrebbe potuto sapere qualcosa sul provvedimento che il
Ministro Bagnold e Crouch volevano approvare sull'uso delle
Maledizioni Senza Perdono, e agli occhi di qualunque Babbano di ceto
medio sarebbe stato semplicemente un ventenne con lisi abiti di
seconda mano e la faccia stravolta di un tossico intento a leggere un
giornale da comunisti. Invece no, il pensiero non lo aveva sfiorato
fin quando non si era seduto sulla panchina di ferro della fermata
dell'autobus di Triumph Road.
«Ne
sono felice» le
rispose appena.
«Non
avresti dovuto
disturbarti».
«L'ho
fatto con
piacere».
Il
sorriso di Marlene
si fece un poco più largo e un po' più triste.
«Lo
so, ma non devi
sentirti in obbligo di fare regali a mia sorella».
«Era
il suo
compleanno».
«Non
importa».
“ Non era per te”
avrebbe voluto dirle Remus. “Era soltanto un regalo per
Bonny-Lee,
perché so cosa significa avere sette anni e dover restare
nascosti
in casa. Tu non c'entri, era solo per Bonny-Lee”. Invece,
rimase
zitto e distolse lo sguardo, ripetendosi che quello non era
assolutamente il momento migliore per causare un litigio con Marlene.
Non dubitava che ne avrebbero riparlato presto – con lei se
ne
riparlava sempre presto – ma quella non
era né l'ora né la
circostanza adatta.
«Eccoli»
sviò di
colpo Remus, attirando l'attenzione di Marlene su un'ordinata fila di
ragazzini che era appena uscita da una porta secondaria della
Kingsford.
Assottigliò
gli occhi
alla ricerca di una testolina bionda piena di riccioli. Nonostante la
distanza, individuare la piccola Amy Collins fu piuttosto facile:
svettava di almeno una spanna dal compagno di classe più
alto.
«Mi
chiedo come si
possa far male ad una bambina».
«È
una Nata Babbana
che non sa ancora di essere una strega» rispose apatico lui.
«Niente
potrebbe attrarre di più i Mangiamorte».
«Se
solo potessimo
beccare la spia all'Ufficio delle Relazioni con i Babbani...».
Remus
fece uno sbuffo
divertito.
«Se
solo...».
*
Alla
fine nessuno di
loro aveva potuto far qualcosa per salvare Amy Collins. Credevano di
essere preparati, credevano di aver studiato ogni
possibilità,
credevano di aver già anticipato qualunque imprevisto fosse
potuto
succedere, e forse la causa della sua morte era da imputare a tutto
quel credere. Forse, continuava a ripetersi Remus seduto nel sua
piccola cucina, avevano di nuovo sopravvalutato ciò che
potevano e
non potevano fare, e gli sarebbe importato molto meno se solo a
pagarne lo scotto non fosse stata una bambina di dieci anni.
La
campanella d'ottone
appesa nell'ingresso iniziò a trillare improvvisamente.
Remus scattò
in piedi, afferrò la bacchetta e corse verso la porta
principale,
appiattendosi contro il muro e pronto a Materializzarsi al minimo
segnale di pericolo. Avvertiva appena l'eco dei passi di qualcuno che
risaliva le scale esterne e ringraziò la buon'anima di sua
madre di
avergli lasciato quella campanella incantata per riconoscere gli
intrusi sui gradini di casa.
Chiunque
fosse
dall'altra parte della porta bussò per tre volte, rimase
immobile,
ribussò altre due volte, restò di nuovo immobile
e poi bussò
ancora un'ultima volta. Remus sentì i muscoli rilassarli un
poco:
era uno dei segnali adottati dai membri dell'Ordine, uno dei tanti
che significava semplicemente “non è detto che sia
un
Mangiamorte”.
«Chi
sei?».
«Sono
Marlene
McKinnon. Mia sorella Bonny-Lee ha compiuto sette anni tre giorni fa
e tu le hai regalato una bambola con i capelli verdi che imita le sue
smorfie. Avrei preferito non l'avessi fatto e tu sai
perché».
«Vuoi
entrare?» le
chiese lentamente Remus, serrando ancora di più la bacchetta
e
pregando che rispondesse “no”.
Era
la loro seconda
parola d'ordine, il loro ultimo tentativo di salvarsi a gli uni con
gli altri: “Vuoi entrare” intendeva “Ti
hanno preso e sono lì
con te? Devo scappare?”.
«No»
rispose in
fretta Marlene. «No, tranquillo, non voglio
entrare».
Con
un sospiro di
sollievo, Remus agitò la bacchetta e liberò la
porta dagli
incantesimi di protezione.
«Ti
farei accomodare
in soggiorno, se solo ne possedessi uno».
*
«È
tardi, dovresti
stare con la tua famiglia» osservò Remus, cercando
di non infilare
un accento critico nel proprio tono di voce. «Che ci fai
qui?».
«Casa
mia è protetta,
Remus».
Remus
prese due
bicchieri dalla credenza e una bottiglia piena di liquido ambrato che
sua madre doveva aver travasato chissà quanti anni prima.
«Whisky
Incendiario?»
chiese curiosa lei.
«E
chi può
permetterselo? Credo sia del Kilbeggan».
«Cosa?».
Remus
fece un sorriso
ironico. Nonostante tutti gli anni trascorsi in compagnia di maghi e
streghe che ben poco avevano avuto a che fare con il mondo dei
Babbani, capitava ancora che qualche domanda gli suonasse ancora
assurda. Cos'era il Kilbeggan, gli aveva chiesto... a lui, figlio di
una Babbana irlandese e momentaneamente residente nella sua vecchia
casa di Limerick.
«Whisky.
Semplice,
economico e per nulla speciale whisky».
Marlene
sorrise.
«Andrà
benissimo».
*
«Che
ci fai qui?»
ripeté con maggior insistenza Remus. «È
davvero molto tardi e di
norma la gente non si prende il disturbo di visitare un posto come
Limerick per un goccio di Kilbeggan».
Marlene
abbassò il
capo. Un ciuffo sfuggito dalla lunga treccia scura le ricadde davanti
al viso affilato.
«Non
facevo altro che
ripensare a quella bambina e tutto d'un tratto ho sentito il bisogno
di andarmene via. Sei il primo che mi è venuto in mente...
è come
se fossi sempre al centro dei miei pensieri».
Remus
la guardò in
tralice e la vide sogghignare appena. Marlene era la perfetta
personificazione del detto “lanciare il sasso e nascondere la
mano”: provocava con rapidità sconcertante,
incurante di quali
ferite sarebbe andata a punzecchiare, e poi rimaneva muta, a volte
arrossendo e a volte sorridendo sotto i baffi, come se non avesse mai
nemmeno parlato. Eppure parlava eccome, Marlene, e sapeva esattamente
quando e come parlare. Aveva una faccia pulita e genuina, con gli
occhi grandi e il sorriso aperto; una di quelle facce che
difficilmente portano la gente a pensar male, perché a
nessuno
sarebbe mai venuto in mente che una donna dall'aria tanto mite
potesse essere tanto fastidiosa.
«Marlene...»
la
rimproverò un poco esasperato Remus. «Ti
prego...».
«Era
solo una battuta»
ribatté lei a mo' di scusa, arricciando ancora le labbra in
un
sorriso tutt'altro che sereno. «Ho bisogno di distrarmi,
Remus. Ne
abbiamo bisogno entrambi».
Remus
appoggiò il
braccio allo schienale tarmato del piccolo sofà e fece un
sospiro
carico di pesante stanchezza. Si passò una mano sul volto
segnato e
si bloccò con i polpastrelli sulle palpebre, massaggiandole
con
piccolissimi movimenti rotatori.
«Era
solo una
bambina...» sentì sussurrare Marlene.
«Marlene»
la riprese
nuovamente lui, abbassando la mano per guardarla in viso.
Sul
momento, vederla
stringere con forza il bicchiere di whisky con gli occhi gonfi di
lacrime lo lasciò spiazzato. Credeva di aver imparato ad
affrontare
i piccoli cedimenti nei quali tutti loro scivolavano di tanto in
tanto, ma ogni volta capiva sempre un po' di più che la
natura umana
non poteva accettare la guerra come un'abitudine. Perlomeno, la sua
natura non ne era in grado. Silenziosa come se avesse il timore di
disturbare, Marlene piangeva seduta accanto a lui e per l'ennesima
volta Remus si rese conto che non possedevano altro che frasi di
conforto prive di senso.
Si
avvicinò a lei e
intrecciò le proprie dita con le sue. Marlene
serrò con decisione
gli occhi con un moto di dolore e poi si lasciò scivolare
sulla sua
spalle, sprofondando il viso nel tessuto sdrucito del suo maglione.
Nessuno
parlò fino
all'alba.
*
Marlene
aveva
quell'aria da ragazzina giocosa e ingenua di cui ci si sarebbe potuti
innamorare molto facilmente e Remus non credeva assolutamente di
poterne essere immune. Rideva con slancio e senza freni, e sembrava
proprio voler vivere la propria vita con il brio di una giornata di
primavera. Da quando tutto quel disastro infernale era iniziato,
tuttavia, la sua sensibilità la faceva rabbuiare
più spesso, ed era
allora che tutta la sua insicura fragilità riemergeva sul
suo viso.
Remus l'aveva vista piegarsi come un filo di grano innumerevoli volte
e si era sempre premurato di esserle a fianco, di essere lì,
di
essere pronto a ripetere che sarebbe andato tutto bene, che ogni
sarebbe finita e che dovevano solo attendere
l'opportunità
decisiva.
Non
sempre era stato
convincente; non era facile esserlo quando lui per primo avrebbe
avuto bisogno di un briciolo in più di speranza. Marlene lo
sapeva
bene e nonostante tutto lo ascoltava con tutta con se stessa, e poi
tornava a sorridere guardando le nuvole primaverili.
Remus
si era chiesto
parecchie volte se non lo stesse facendo per lui.
«Lupin»
lo chiamò il
ringhio soffocato di Moody. «Lupin, è meglio che
ce ne andiamo».
Remus
annuì con
espressione assente, senza distogliere lo sguardo da ciò che
restava
della casa dei McKinnon: calcinacci e legni rotti, pezzi di mobilia,
qualche arredo irriconoscibile e stracci colorati incastrati fra le
pietre. Quasi del tutto nascosta sotto una trave, Remus riconobbe una
piccola testolina verde. Si avvicinò con estenuante lentezza
senza
nemmeno rendersene conto, si inginocchiò e raccolse la
bambola
incantata che aveva regalato due settimane prima alla piccola
Bonny-Lee per il suo settimo compleanno. Marlene aveva detto che ne
era stata entusiasta, perché non aveva mai posseduto una
bambola in
grado di ripetere tutte le sue boccacce e i suoi sberleffi.
Remus
si sentì
invadere dal feroce bisogno di gridare, ma qualcosa dentro di
sé
continuava a frenarlo, a impedirgli di fuggire. Stretta fra le sue
mani tremanti, la bambola di Bonny-Lee continuava a piangere.
|
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Capitolo 10 *** Scacco matto - Remus/Lily ***
Questa
storia stava marcendo nel mio hard-disk dall'anno scorso, temo. Temo
anche fosse un residuo della fantastica prima edizione di I
♥
Shipping di CoS e ora che l'ho ritrovata mi dispiace un sacco
non
averla terminata per tempo. È sempre colpa della vita
sociale da
quest'altra parte dello schermo. Mi pareva fosse una sfida
tristemente non portata a termine, ma non ricordo né di chi
né
quali fossero gli obblighi, mi dispiace tantissimo.
Tant'è
che questo è ciò che brucava nella zona
abbandonata dei miei
documenti, mi sono sentita in colpa ed eccola qui. Con questa salgo a
quota -140 altre ship da coprire. Ce la posso fare... eh, beh.
Racconti
di sabbia
Fan
fiction perdute nel tempo
*
Scacco
matto
Remus
Lupin/Lily Evans
L'eco
sordo dei passi di Remus pareva risuonare all'interno di quelle
pareti cupe come una marcia funebre. Camminava lentamente con quel
suo incedere calmo un po' tutto suo e le mani sprofondate nelle
tasche dei pantaloni, scrutando curiosamente le centinaia di sfere
luminescenti riposte sugli alti scaffali. Ne stava cercando una, ne
era certo, ma in quel momento non riusciva a ricordare quale.
Non
ricordava nemmeno quando e perché fosse entrato nell'Ufficio
Misteri.
Un'altra
volta.
«Remus?».
Rimase
impietrito. Sebbene fossero anni – secoli
– che non
sentiva il suono di quella voce, l'avrebbe riconosciuta fra centinaia
di altre donne: tuttavia, non era possibile. Lei non
poteva
essere lì, alle sue spalle, all'interno dell'Ufficio
Misteri... lei
sarebbe dovuta essere a Godric's Hollow, sotto tre metri di
terra.
Si
voltò con profonda cautela e trattenne il fiato. Lily Evans
era
proprio lì, davanti a lui, con i capelli ramati raccolti in
una
treccia e la spilla da Prefetto bene in vista sulla sua divisa di
Hogwarts. Quando lo vide, i suoi begli occhi verdi parvero incupirsi.
«Mi
dispiace, Remus» gli disse con un sorriso mesto.
Inizialmente,
Remus non riuscì a capire per quale motivo Lily dovesse
dispiacersi
per lui. Non capiva nemmeno perché lei fosse lì,
né come fosse
possibile che lui si trovasse all'interno di quel dannato Ufficio,
quando pochi istanti prima era a Hogwarts a combattere.
La
rivelazione lo colpì come una doccia gelida, mentre una
miriade di
immagini fluttuavano vorticose davanti ai suoi occhi. Hogwarts, i
Mangiamorte, la Torre Nord, le Acromantule, il duello con Dolohov...
Dolohov.
«Buon
Godric...» mormorò fra sé.
«Sono morto».
Lily
annuì una volta soltanto. Stava per aggiungere qualcosa,
quando
Remus fu travolto dall'agghiacciante consapevolezza che non sarebbe
tornato a casa, quella notte. Portò le mani al volto e
premette con
forza le palpebre, tentando di ricacciare indietro qualunque mostro
stesse risalendo la sua gola. Tonks lo aveva supplicato di
tornare con il loro bambino stretto fra le braccia. Aveva appoggiato
la fronte al suo petto, irrigidita in un pianto silenzioso e fiero e
lui le aveva giurato che sarebbe tornato da lei, in un modo o
nell'altro e a qualunque costo.
Ed
ora era morto.
Fu
in quel momento che lo sguardo gli ricadde casualmente sulle proprie
mani. Le sollevò davanti al volto, studiandole con aria
turbata.
Fissò entrambi i dorsi, i palmi e ogni singolo dito, senza
riuscire
a credere che quelle mani lisce e bianche appartenessero proprio a
lui. Ne portò al volto una e si sfiorò titubante
la mandibola: non
aveva un solo filo di barba. Si toccò il naso, la bocca, la
fronte e
più cercava di visualizzare nella mente il proprio aspetto,
più si
rendeva conto di non essere più lui.
«Sei
il Prefetto di Hogwarts, Remus» le spiegò Lily con
un sorriso,
camminando verso di lui e stringendogli con salda gentilezza la mano.
«Di nuovo».
«No,
Lily» ribadì con decisione lui. «Io non
posso morire».
«Lo
so. Lo abbiamo creduto tutti» rispose lei.
«Andiamo, Remus. Ci
stanno aspettando».
Lui
non si mosse di un centimetro.
«Perché
tu?» domandò a bruciapelo.
«Perché sei venuta proprio tu, perché
io ho ancora quindici anni? Perché non ci sono James e
Sirius,
qui?».
Lily
parve ferita dalle sue domande. Assottigliò minacciosamente
gli
occhi e lo fissò con un moto di improvviso astio.
«Sai
perfettamente il perché, Remus. D'altronde, sei sempre stato
tu, il
Malandrino intelligente».
Remus
fece una smorfia nauseata.
«Sono
passati anni, ormai, Lily...».
«Non
qui. Non in questo posto. Qui il tempo non esiste
più».
«Cosa
ti aspetti che faccia, quindi? Devo prenderti per mano e
trotterellarti dietro come se fossimo davvero due
adolescenti?
Devo chiederti di venire a Hogsmeade con me e fare a botte con
Prongs? Devo--».
«Devi
chiudere la partita. Con me, ora».
Lily
alzò l'indice e indicò un punto alle spalle di
Remus. Lui si girò
e sul suo viso comparve un'espressione imperscrutabile. Davanti ai
suoi occhi, in chissà quale momento, erano comparse due
belle
poltrone rosse che appartenevano alla sala comune di Grifondoro:
Remus non avrebbe potuto non riconoscerle. Fra loro, c'era un piccolo
treppiedi di mogano e una scacchiera dall'aspetto malandato.
Lily
si avvicinò a passo sicuro e si lasciò
sprofondare su una delle due
poltrone.
«Ricordi,
Remus? Era maggio e quella sera pioveva».
Remus
si avvicinò senza nemmeno rendersene conto e prese posto
davanti a
lei. Da qualche parte, in lontananza, gli pareva di sentire il
tintinnante rumore della pioggia che sbatteva contro i finestroni
della sala grande. Eppure, erano ancora lì, nell'Ufficio
Misteri,
circondati da profezie e polvere vecchie di secoli.
«Non
finimmo mai questa partita» continuò Lily,
fissando pensierosa i
pezzi della scacchiera. «Ricordi? Sirius fece esplodere una
decina
di Fuochi d'Artificio Freddi davanti alla porta del dormitorio delle
ragazze».
Remus
sorrise teneramente.
«Quell'idiota...
sperava che Mary MacDonald sarebbe scesa in mutandine»
commentò con
una risatina rassegnata, scuotendo appena il capo. «Alfiere
in C7».
Lily
ridacchiò candidamente.
«Ci
vollero ore prima di riuscire a spegnere il fuoco che aveva appiccato
al cappello di Sturgis. Cavallo in E3».
«E
delle mutandine di Mary MacDonald non vi fu nessuna traccia»
terminò
con tono nostalgico Remus. «Mi manca il tempo in cui
bastavano un
paio di Fuochi d'Artificio a strapparci una risata. Gli anni in cui
nessuno aveva ancora realizzato quanto grande realmente fosse la
minaccia di Lord Voldemort. Gli anni in cui eravamo tutti insieme, e
il mondo ci sembrava tanto più piccolo di noi».
Lei
lo fissò senza aggiungere una parola. Remus
continuò a scrutare le
caselle bianche e nere della scacchiera, nonostante avesse ormai
dimenticato quale mossa avesse intenzione di fare. Grazie a Lily, la
sua mente stava rivivendo i sette anni trascorsi ad Hogwarts ad una
velocità disarmante; difficile dire come fosse possibile che
non si
perdesse un qualche racconto e che lui, dopo una vita e dopo una
morte, ricordasse ancora ognuna delle fanciullesche avventure dei
Malandrini. Era così perso nei propri pensieri che si
accorse al
pelo delle goccioline che avevano iniziato a bagnare la vernice della
scacchiera.
Aggrottò
confuso le sopracciglia e rivolse a Lily un'occhiata interrogativa.
Lei alzò il capo al soffitto dell'Ufficio Misteri.
«Ricordi,
Remus? Era maggio e quella sera pioveva».
Remus
dischiuse le labbra, ma non trovò niente da dire.
Appoggiò a sua
volta la nuca al poggiatesta della poltrona e rimase lì,
immobile,
mentre la pioggerellina estiva gli bagnava il naso e gli zigomi,
mentre l'acqua fresca gli entrava nella camicia e l'odore di bagnato
si insinuava lentamente dentro di lui.
La
pioggia gli aveva sempre ricordato la cittadina di Kinsale, dove
aveva vissuto con la madre per gran parte della sua adolescenza.
Quando pioveva, a Kinsale, Remus aveva sempre l'abitudine di
spalancare il piccolo lucernario della sua camera. Sebbene
s'affacciasse su Pearse St., il vento riempiva la piccola soffitta
dove dormiva dell'aroma aspro del mare. L'olfatto sopraffino di
Remus, poi, riusciva a cogliere l'odore delle brughiere e delle
grandi vallate bagnate che circondavano la cittadina. In quei
momenti, desiderava con tutto se stesso poter essere lontano da
Pearse St. e dagli strilli dei pescatori che bevevano Guinnes al Blue
Haven, sotto casa sua. La pioggia aveva il profumo della
libertà, il
retrogusto amaro di qualcosa che in un'altra vita avrebbe potuto
afferrare e non mollare mai più.
«Perché
non mi hai mai invitato a Hogsmeade?» domandò Lily
con casualità.
«Ti avrei detto di sì e tu lo sapevi. Pedone in
D7».
«E
tu sapevi che non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Non a James.
Torre in A3».
Lily
inclinò appena il capo e appoggiò il mento alla
mano con
espressione impenetrabile. Remus sollevò lo sguardo su di
lei,
realizzando per l'ennesima volta dopo una vita intera quanto fosse
bella. Aveva la bellezza frizzante e genuina delle brughiere
irlandesi, la freschezza d'animo della pioggia di Kinsale. Si chiese
cosa sarebbe cambiato, se solo le avesse permesso di entrare in
profondità nella sua vita, di aiutarlo ad afferrare quella
libertà
che da sempre gli era sfuggita. Lei parve leggergli nel pensiero
–
e forse fu proprio quello che fece.
«Avrei
davvero voluto andare a Hogsmeade con te, Remus. Una volta, due
volte, dieci volte... avrei potuto chiacchierare con te per altre
mille volte, e probabilmente non mi sarei mai
stancata».
«Era
così che doveva andare, Lily. Regina in F6».
«È
così che tu hai scelto».
«Non
capisco cosa tu voglia recriminarmi. Hai amato davvero
James e
continuerai ad amarlo esattamente come io continuerò ad
amare mia
moglie».
«Mi
avresti amato?».
La
domanda era arrivata talmente inaspettata che Remus non seppe cosa
dire per diversi minuti. Lily stava insinuando un numero
così grande
di ipotesi e assurdità che si ritrovò a pensare
che non sapesse
nemmeno lei dove aveva intenzione di concludere. Dove voleva
arrivare, con quelle intricate supposizioni? E lui, da quella cotta
adolescenziale che aveva messo a tacere per rispetto nei confronti di
James, avrebbe saputo realmente innamorarsi di lei? Le parole gli
uscirono dalla bocca prima ancora che terminasse di formulare il
pensiero.
«Eccome,
Lily... eccome».
Lily
sorrise.
«Alfiere
in C6. Scacco matto, Remus».
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