Avskjed

di formerly_known_as_A
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Addio ***
Capitolo 2: *** Il lungo addio - Norvegia ***
Capitolo 3: *** Tomhed ***
Capitolo 4: *** Legato a te ***
Capitolo 5: *** Fine ***



Capitolo 1
*** Addio ***


Rieccoli lì, dove ogni cosa è cominciata. Dove tutto finirà.

Sembra solo uno stupido modo di dire -e l'ha sempre considerato tale- ma 'sembra ieri'. Sembra trascorso un solo giorno da quel primo appuntamento.

No, non gli è stato annunciato nulla, ma sa perfettamente quello che sta per affrontare.

Ci sono i segni, seppur difficilmente individuabili. Abbracci mancati, mani che non si trovano più come un tempo e neppure forse si cercano. Ad un occhio esterno, nulla però è cambiato.

Norge non è il tipo da tenergli la mano in pubblico, neppure mettersi a baciarlo in un luogo come quella spiaggia, neppure se gli unici spettatori danno già spettacolo.

No, lui è quello che gli tiene discretamente la mano solo quando sono tanto vicini che è impossibile distinguerli. Hanno addosso lo stesso cappotto. Colore e modello.

Come sembra ridicolo, adesso.

Un anno esatto da quando li hanno comprati. Inizialmente non era previsto -nulla, tra loro, lo è mai stato, è sempre stato un caso, un colpo di testa-, aveva avuto quell'idea solo nel negozio, quando per divertimento si era provato lo stesso cappotto, scherzandoci su.

Cappotti identici, blu scuro. Un colore che sta decisamente male al danese, ma che, sul momento, non importava affatto. Norge aveva detto la solita cosa carina mascherata da commento sarcastico e li aveva presi, senza neppure pensarci... che cosa aveva detto, per convincerlo?

Probabilmente nulla di eccessivamente carino.

Anche i guanti avrebbero dovuto essere identici, per portare la follia al suo apice, ma ne rimaneva un paio del modello che piaceva ad entrambi ed avevano finito per comprarli ed indossarne un paio in due. Norge continuava a sottolineare come fosse un'idea del danese, quella, ma era stato lui a metterla in atto.

Non aveva parlato, fuori dal negozio, quando aveva cominciato a nevicare. Aveva separato i guanti dal pezzo di plastica che li teneva insieme e se n'era infilato uno, dando il secondo a Den e prendendo la mano al freddo con la propria, nascondendola dentro la tasca del cappotto. Senza una parola.

Che cos'aveva detto sui cappotti? Giusto, come ha fatto a dimenticare?

Se ci teniamo per mano e siamo abbastanza vicini, le persone, da lontano, ci prenderanno per una persona sola. Non sapranno dove inizia uno e finisce l'altro.

Parole rarissime, quelle, tanto che doveva averle scritte sul calendario e poi trascritte in quell'agendina che portava sempre, in cui segnava tutte le frasi che gli scaldavano il cuore e che era proprio il suo ragazzo a pronunciare.

Come ci sono finiti su quella spiaggia, abbastanza lontani da essere soltanto due uomini stupidi con lo stesso cappotto?

Mette una mano in tasca, rovistando tra caramelle, chiavi e troll di plastica, fino a raggiungere le sigarette.

Le tira fuori, apre il pacchetto, ne tira fuori una facendo scorrere prima il dito sui filtri, come per sceglierne una -come se non fossero tutte maledettamente uguali, anche loro- e se la porta alle labbra.

Gli lancia un'occhiata mentre accende, ma il norvegese continua a fissare l'acqua e non nota neppure il rumore dei tentativi dell'accendino mezzo vuoto per creare una fiamma.

Alza lo sguardo verso il cielo ed ha il riflesso di buttarsi nella sabbia, liberando nella caduta un po' dell'ansia che gli sta mangiando pezzo per pezzo lo stomaco. E' grigio. Probabilmente pioverà tra poco. E' uno di quei momenti di calma irreale prima di un temporale. E' tutto troppo calmo per non insospettirsi.

Oh, ironia. Persino gli elementi lo prendono in giro. O forse è solo lui a vedere similitudini ovunque.

“Detesto quando fumi.”

Si volta verso Norge, leggermente sorpreso e si lascia sfuggire una risata amara, insieme al fumo. “Detesto quando menti.” ribatte, portandosi le ginocchia al petto e poggiandovi la guancia, il viso rivolto verso di lui.

Non gli importa di sembrare ferito prima del tempo o di non sorridere come al solito. E sa perfettamente di sembrare patetico.

Gli importa di poco, ormai. Solo della sensazione di vuoto che continua a crescere nel petto.

“Dimmelo e facciamola finita, Norge.”

L'altro sobbalza ed infila una mano nella sabbia. Pensa che dopo sarà pieno, che rimarrà nelle maniche e che gli darà fastidio e che la sua pelle si arrosserà da morire.

Sa che non dovrebbe importargli neppure.

“Ho baciato un'altra persona.”

Ah.

Ha sicuramente molta sabbia nella gola e altrettanta è riuscita ad entrare nei polmoni, bloccandoli e rendendo una tortura anche fare semplici respiri. Non ha sempre fatto così male, respirare, vero?

“Quella che è iniziata come un'amicizia è sfociata in questo e prima di fare altri danni forse è meglio finirla.”

Finirla.

Anche se non si ferma per balbettare o cercare le parole, sente che quelle sono dette con difficoltà. Almeno anche lui soffre.

Gli sfugge un sorrisetto sadico, ma lo reprime. Ha combattuto per reprimerla, quella parte... hanno combattuto, insieme come un tempo ed è anche merito suo se riesce a prenderla bene, senza afferrare il primo oggetto contundente per sfogare la rabbia su chiunque osi presentarglisi davanti. Gli riconosce quel merito, per quella rabbia scomparsa, ma non sente altro, quindi ci dev'essere qualcosa di irrimediabilmente rotto. Irreparabile.

A cosa serve essere sani, ora? A cosa serve sentirsi tanto vuoti, sentire soltanto il deserto nella gola e i polmoni e il nulla totale nel petto?

“Dan...”

“Come si chiama?”

“Dan...”

“Non chiamarmi come se non fosse mai successo nulla!” riesce a sbottare, stringendo i pugni e raddrizzandosi, improvvisamente furioso.

“Mattæus...”

Non è meglio. Affatto. Sentirsi chiamare con quel nome, dopo quelle parole, davanti a quell'incredibile distanza che è riuscito a mettere di nuovo tra loro, dopo i mesi e gli anni trascorsi a creare un ponte, pietra dopo pietra, un sorriso, uno sguardo, un tocco gentile... tutto... per niente?

Quel nome è insopportabile perché solo lui può usarlo. Un nome che gli ha dato, per separare la Nazione e la persona che ama. Che amava.

Danmark non è Mattæus.

Ah, Mattæus. Ha un suono meraviglioso. Aveva. Deve imparare che quello è il passato, che fa parte soltanto dei ricordi. Un suono bello e sempre diverso, Mattæus... la dolcezza del miele in quello del buongiorno e il fuoco quando lo gemeva un milione di volte mentre facevano l'amore.

Ricordi. Cose che non torneranno. Perse.

Per lei chi sei? Lukas?” chiede, infilando la mano nella sabbia fredda e stringendo il pugno. Perché questo terrore? E' solo un nome... Solo uno stupido nome inventato una mattina in cui erano ancora stanchi ed assonnati per la notte appena trascorsa.

Non essere ridicolo, Lukas è solo tuo.” è la risposta pronta di Norge, mentre si volta finalmente verso di lui.

Se Lukas è suo, allora... significa che Lukas è morto?

Mi dispiace.”

Un'altra cosa imparata insieme, quella. Chiedere perdono, superare l'orgoglio, abbassare la testa e riconoscere una colpa quando questa fa male all'altro. Non sono cose da fare in pubblico, neppure quelle, ma poco importa, no? L'importante è il gesto, dovunque esso sia.

Non importa.” gli risponde, automaticamente, alzandosi e spazzolandosi i vestiti con le mani.

Comincia a fare freddo e non ha guanti. Deve andare a casa, prima di...

Danmark... Mattæus. Lukas ti ha lasciato, hai capito?

Ha capito. Sa esattamente tutto ciò che sta perdendo.

Sta perdendo il suo viso come la prima cosa che vede al mattino. L'aroma di caffè come presenza costante in ogni angolo della casa. Le sue mani nelle proprie quando si ferma a guardare fuori dalla finestra e lui lo avvolge, aspettando che termini il proprio fantasticare, la testa sulla sua spalla a guardare lo stesso nulla. Il suo peso sul petto quando dormono insieme. Raccogliere le fragole di bosco e litigare su come mangiarle -ogni anno- finché inevitabilmente non decidono di fare a metà. La fossetta che gli si forma sulla guancia quando sta sognando qualcosa di bello e sembra un sorriso. I tentativi di cucinare qualcosa insieme che terminano sempre con qualche ustione ed una pietanza orribile ma miracolosamente buona. Il modo in cui gli accarezza i capelli quando guardano la televisione sul divano. Come gli stringe la mano quando qualcuno li addita per strada. La sua furia quando le occhiate diventano insulti, che sembra placarsi solo quando l'altro fa qualche battuta sui poveri sfigati che non hanno capito nulla della vita.

Tutto questo è irrimediabilmente perso.

Vorrebbe aver immortalato ogni singolo istante, per dire che non tutto è perduto.

Ucraina. E' lei.”

Scuote la testa. Non gli importa neppure quello. Eppure deve dire qualcosa, reagire, non può stare fermo a dare calci alla sabbia, no? Deve fare una battuta, dire qualcosa di incredibilmente stupido.

Ma Lukas non era quello timido di fronte agli altri? Quello che doveva assolutamente fuggire o farsi scortare quando doveva conoscere persone nuove? Come ha fatto a conoscere abbastanza quella donna -che poi, da quando gli piacciono le donne?- da baciarla, da decidere di mandare all'aria tutto, al diavolo il proprio ragazzo, per stare con lei?

Da qualche parte una vocina gli sussurra che potrebbe essere la causa della sua sicurezza e della propria rovina.

Si sente... svuotato.

Tornare a casa raggomitolarsi sotto le coperte, per ora, sembra l'unico futuro possibile... almeno per qualche tempo. Ma no. Le lenzuola hanno il suo profumo.

Andare da Berwald. Infilarsi nel letto degli ospiti. Liquirizia e detersivo sono odori innocui, vero? Sì, è un buon piano B. E' quasi sicuro che Svezia non lo caccerà di casa non appena si presenterà alla porta. Con un po' di fortuna Tino gli preparerà anche qualcosa di caldo. Veleno per topi, ad esempio. Non sarebbe affatto male, se ci pensa.

Ucraina è Tino con le tette, Lukas. Quando lo saprà Berwald lo chiuderà in cantina per paura che glielo rubi!” esclama, senza energie, accendendo l'ennesima sigaretta, dicendosi che potrà fumarne fino a sciogliersi i polmoni, d'ora in poi. Dovrebbe essere consolante?

Non si lasceranno mai, quei due, lo sai. Berwald ne impazzirebbe.” sussurra il norvegese.

Si mordicchia la mano, laddove inizia il pollice, in un gesto nervoso che non fa da moltissimo tempo.

Berwald impazzirebbe. E lui? Lui, con la sua psiche rattoppata a fatica, con quella voragine che ha sempre sentito nel petto, chiusa soltanto dai suoi gesti e dalle sue rare parole, non rischia lo stesso?

Ucraina. Oh, davvero, non ho possibilità contro la sua intelligenza. Di cosa parlate? Ammesso che parliate.” sibila, scuotendo la testa. Ha ancora la gola secca e quelle parole escono quasi atone, senza la giusta dose di rancore e rabbia.

Battuto da una forma parassitaria di tette su un corpo ospite. Non si ricorda neppure la sua voce, non è molto certo che abbia mai parlato. E' possibile che si esprima con il boing boing, in alfabeto Morse?

Oh bé, fosse stata la sorella avrei cominciato a pensare che la tua fosse una patologia o che avessi uno strano fetish per i malati mentali.” continua, sempre meno convinto, sempre più vuoto.

Ancora? Probabilmente non lo sta neppure ascoltando. Non cambierebbe comunque idea, no?

Ha uno strano gusto in gola, ma non lo registra immediatamente. Se ne accorge soltanto quando fa per sbottonarsi il cappotto, soffocato da quel colore che comincia a detestare -è così? Detesterà qualsiasi cosa piaccia a lui, ora?- e vedendo la mano martoriata.

Non ha perso tempo, eh? La prima vecchia abitudine è una delle peggiori. Si è morso fino ad arrivare alla carne, poi all'osso, pezzo per pezzo e la mano sanguina abbondantemente. Non fa abbastanza male da distrarsi, però. Ricrescerà ogni cosa, nei minimi particolari, nel tempo di una settimana...

Ha sempre funzionato. Un dolore per un dolore, fissare il sangue e dimenticare quello che fa male dentro. Ora è troppo? Dovrebbe staccarsi la mano, dito dopo dito, per stare anche solo un po' meglio?

Mattæus... non farlo. Non...”

Oh, mani. Quelle sono perfette e tengono le sue come se non avessero fatto altro, tutta la vita. Come se fossero create per questo. Le riconoscerebbe tra mille. Le stringe, sorridendo.

E' stupido sorridere, ha quelle mani solo per qualche manciata di secondi, non può trattenerle.

Si macchiano del suo sangue, ma a lui non sembra importare. Il gesto successivo è automatico e patetico, ma si considera ormai tale, quindi non importa neppure quello.

Si porta la mano al petto e la stringe, poi torna a guardarla. Sta gocciolando di sangue, come se fosse stata fisicamente dentro al petto a comprimergli il cuore.

Sentimentale e melodrammatico come sempre, vero Danmark?

Appena metterà piede in casa di Berwald gli sequestrerà la discografia completa degli ABBA per completare il quadretto patetico.

Oh, ma chissà se ci arriverà, fino a lì.

Il mare, quando si accorge di essere rimasto solo, è diventato dannatamente invitante.

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Capitolo 2
*** Il lungo addio - Norvegia ***


Note dell'autrice del primo capitolo:

Sembra che qualcuno abbia preso a cuore questa storia al punto di scriverne un seguito, dal punto di vista di Norge. Ho deciso di pubblicarla, con il suo permesso, come secondo capitolo.

Sembra che questa diventerà una Long a quattro mani, ma non ne sono sicura, visto che non era la mia intenzione originaria (e per questo motivo la tengo “completa”). Come potrete notare, abbiamo due modi di scrivere totalmente differenti, quindi potrà risultare un po' strano leggere l'uno e l'altro capitolo.

Buona lettura a tutti. :)
Amy





Due settimane.

Non è molto tempo, ma è abbastanza.

Due settimane senza vederlo, senza nemmeno sentirlo.

Non ha potuto nemmeno scrivergli, chiedergli come stesse, non dopo averlo lasciato in quel modo, non dopo essersene andato con la sua mano sanguinante impressa nella mente.

Il senso di colpa lo sta uccidendo.

Non si pente di averlo lasciato, era la cosa giusta da fare.

Baciare un'altra persona, donna o uomo che fosse, è stato un motivo più che valido -dal proprio punto di vista- per allontanarsi.

Se è arrivato fin lì, se ha permesso che accadesse, se ha provato attrazione per lei... non poteva -assolutamente- restare insieme a Danimarca. Non sarebbe stato giusto.

Gli manca. Certo, gli manca molto.

Gli mancano soprattutto le stupidaggini e la sua risata chiassosa.

E' come quel guanto, singolo; e forse dovrebbe darglielo.

Così potrebbe usarli tutti e due normalmente. Gli piacevano.

Lui preferisce non rimescolare troppo i ricordi, anche se... una parte rumorosa di sé gli sussurra di tenerlo, perché non vuole separarsi da quello stupido indumento.


Ricorda il sangue che gli macchiava le labbra. Lui, che prende e lo lascia in quello stato, a fissare a tratti il mare, a tratti quella stessa mano che gli aveva stretto brevemente per farlo smettere.

Sarebbe fuori luogo chiamarlo. In parte non ha semplicemente il coraggio.

Sarà andato da Svezia? L'importante è che non stia solo.

Con che diritto continua a preoccuparsi per lui? E' adulto e...

Sì, ma non sta bene. E' sempre stato fragile e psicologicamente instabile. No, lo era. Era.


Quando cammina per strada con Ucraina, nessuno li addita né li guarda male.

Sono una coppia giusta, legittima e normale per la gente. Un uomo e una donna, come dovrebbe essere.

Lei lo tiene sottobraccio e sorride, parla in continuazione con una vocetta allegra, riempie il silenzio.

E' bello camminare con lei senza sentirsi al centro dell'attenzione.

E' strano. Nonostante siano tanto diversi e non lo capisca del tutto, stanno bene insieme.

Solo...

Dov'è la passione? Quella travolgente, accecante nebbia che prendeva possesso della sua mente e lo spingeva a premere Danimarca contro la prima superficie disponibile, non appena erano soli in casa? Non c'è niente di tutto quello. Non che cerchi la passione, ma non c'è.


Danimarca starà bene.

(Ci crede davvero?)


Riunione.

Per la prima volta dopo infinito tempo sono nella stessa stanza come due estranei.

Seduti al tavolo insieme ai propri Capi, con fogli pieni di scritte fittissime sotto il naso, a discutere di politica e riforme.

Deve dargli merito, non credeva si sarebbe presentato così presto.

Danimarca non lo guarda -almeno non a quanto gli sembra-, ma resta testardamente con gli occhi bassi a bere caffè e a parlare solo quando è il suo turno, concentrato e serio.

Troppo serio.

Non è abituato a non sentire nemmeno una battuta, sia pure durante le riunioni ufficiali.

Indossa dei guanti di pelle. Bruttissimo segno.

Non è affar suo, quindi eviterà di chiedergli qualsiasi cosa ed eviterà di farsi vedere troppo.

Finita la riunione, andrà a lavarsi le mani -maledette penne e il loro inchiostro- e tornerà a casa.

Non ha bisogno di chiedergli come stia, può indagare con le altre Nazioni.

Vede la confusione di Islanda dipinta in ogni tratto del suo viso sempre un po' infantile.

Non gli ha detto niente e di sicuro nemmeno lui.

Dev'essere incredibilmente strano vederli seduti lontani. Chissà a cosa sta pensando.

Non ha intenzione di star lì a spiegargli come sia finita. Mani e casa. Veloce.

Si alza, non appena è chiaro che la riunione sia conclusa, raccoglie le sue cose e si dirige con passo sicuro verso la toilette. Evita attentamente di passare dalla parte di tavolo dove è seduto il fratello e volge la sua attenzione alla porta.

In bagno posa la valigetta in terra e apre l'acqua del lavello. Si lava le mani con cura, come sempre.

Non si accorge nemmeno della porta che si apre alle sue spalle e dei passi incerti che si avvicinano.

E' tardi quando solleva il viso e vede nello specchio il volto di Danimarca, le sue mani inguantate protese in avanti.

Non fa nulla per difendersi, resta semplicemente a fissarlo, apatico.

Se lo merita?

Forse.

Le mani si stringono attorno al proprio collo pronte a soffocarlo.

La cosa peggiore è il suo sguardo.

Uno sguardo che non avrebbe mai voluto rivedere. Mai, mai più.

Socchiude gli occhi e resta a fissarlo mentre cerca di ucciderlo.

Danimarca però non stringe. Rimane semplicemente con le mani in quella posizione e per quanto il gesto sia minaccioso, nelle mani non c'è forza né volontà, per cui sembra quasi qualcosa di tenero.

Passano meno di cinque secondi, scanditi dal suono di poche gocce d'acqua, prima che si ritragga.

Norvegia continua a guardare il suo aspetto tremendo con occhi inespressivi.

“Perché ti sei fermato.”

Ma lo sa. Sa che non gli ha mai fatto del male, in nessuna circostanza.

Lui lo guarda di rimando, le mani tremanti che gli si stringono adesso intorno al petto, tirandolo indietro e abbracciandosi in maniera scomposta.

“Non... non si fa del male alla persona che si ama. Me l'hai insegnato tu.”

Mattæus, non dire così. Non continuare ad amarmi.

Sospira e abbassa la testa, prendendogli una mano -senza trovare resistenza alcuna- e sfilandogli lentamente il guanto di pelle nera.

Come temeva: sotto, la mano è completamente fasciata da bende che iniziano a trasudare sangue, forse per la tensione muscolare di poco prima.

Le srotola e si riavvicina di quel mezzo passo necessario a mettergliela sotto l'acqua.

“Se continui non guarirai mai.”

“Non voglio guarire.”

Sì, perché dolore scaccia dolore. Lo so, me l'hai detto.

Gli libera anche l'altra mano e mette sotto l'acqua anche quella, lavando via il sangue per quanto possibile. Sono ferite fresche, come se si fosse appena staccato la carne a morsi.

Odia quello spettacolo, ma sa di esserne la causa.

Non può chiedere scusa, non avrebbe senso.

Con un altro sospiro -consapevole di dare l'impressione di fregarsene di lui, forse di essere perfino infastidito, ma incapace di reagire in altro modo-, prende un mucchio di carta e gliele protegge in un impacco.

Si volta e lo guarda direttamente negli occhi, dopo un lento momento speso a raccogliere il coraggio di farlo per affrontarlo di nuovo.

“Abbi cura di te stesso, per favore.”

Danimarca ridacchia, un suono insano e incerto.

“A chi importa?”

A me, idiota. Anche se ora non lo credi possibile.

“Fallo e basta”, sbuffa voltandosi per riprendere la valigetta.

Viene travolto e spostato, buttato di peso dentro un cubicolo della toilette.

In un attimo è stretto tra le sue braccia, malamente costretto in una presa di puro panico.

Danimarca cade seduto sulla tazza chiusa, portandoselo contro, emettendo un verso strano e stringendolo con delicatezza.

“M-Matt...”, tenta debolmente.

“Lukas... Lukas... solo un... momento...”

E' stato abbastanza freddo e distaccato, alla spiaggia?

Ora come può negargli un abbraccio? Sembra averne un bisogno inesauribile.

Poi, non è che non gli importi più nulla di lui dall'oggi al domani.

Norvegia annuisce e si lascia stritolare senza obiettare, ma anche senza ricambiare la stretta.

E' imbarazzante. Chiusi in quel bagno, in quel modo.

Se ne accorge a scoppio ritardato, ma ha il cuore nelle orecchie. Un tamburo costante.

Danimarca sposta il viso e finisce con il naso sul suo collo, immerso tra il colletto della camicia e i capelli biondi un po' lunghi. Lo sente respirare veloce, ma lottare per calmare quell'affanno e aspirare meglio il profumo che -ha sempre detto- gli sente addosso. Un profumo di cose dolci.

Lo lascia fare, incerto su quanto tutto quello possa essere sano.

E' piacevole essere stretti da lui, ma deve interromperlo.

Non stanno più insieme e quel tipo di abbraccio ha così poco dell'amicizia...

“Adesso basta”, mormora cercando di non essere troppo duro, ma con voce ferma.

Lo sente emettere un altro piccolo verso, una specie di gemito di protesta.

Non mi hai guardato mai... mai... ed io avevo sempre gli occhi su di te... volevo che mi guardassi almeno un istante... solo un secondo della tua attenzione, Lukas...”

Deve essere di nuovo il bastardo della situazione? Sia.

“E' finita, Danimarca. Ti prego, lasciami andare.”

E' certo che stia pensando di essere patetico e si starà odiando, ogni secondo.

Dev'essere incredibilmente triste per lasciarsi andare tanto.

“Ho baciato un'altra p...”

“Questo lo so!”, sbotta Danimarca stringendolo ancora di più a sé. “Lo so molto bene. Me l'hai detto. Tino con le tette, come faccio a dimenticarlo?!”

Una pausa nervosa, prima di una domanda che deve premergli molto.

“Stai insieme a lei adesso?”

Lascia passare qualche momento, pensando a cosa rispondere. Poi, opta per la verità, come sempre, anche se potrebbe benissimo tacere.

“No.”

Lo sente rilassarsi un attimo e poi tornare a stringerlo, muovendo le braccia dietro la sua schiena.

“Sei... tu sei... innamorato?”

No, non ha mai provato niente del genere per lei, ma non è quello il punto.

“Ti ho tradito. Mi sembra sufficiente.”

L'altro scuote la testa e torna a respirare il suo profumo direttamente dal collo, tenendogli i fagotti delle mani contro la scapole.

Sente un mugolio, ma è perché deve aver risposto qualcosa. E' talmente vicino e schiacciato che non riesce a parlare bene. Cos'ha detto?

Non ha tempo per questo, deve uscire da lì.

“Non importa.”

Sta scherzando?

“Non mi importa niente.”

Questo lo fa arrabbiare. A lui importerebbe, moltissimo. Significherebbe che non ha più senso stare insieme, che tutto quello in cui credeva non esiste più. Perché non lo capisce?

“Devo andare, dico sul serio.”

“Voglio solo restare con te, cazzo! E' tutto quello che mi interessa! Vada a farsi fottere anche quel bacio!”

Resta immobile, lasciando che si sfoghi, facendo in modo che la propria rabbia sfumi e non esploda. Odia perdere il controllo, anche in una situazione del genere.

“Non è giusto e non devi pensarla così.”

“Non dirmi come devo pensarla, Lukas!”

Non sta gridando, ma è alterato.

Non ama i toni alti e la voglia di tornarsene a casa è diventata quasi un'urgenza.

“Mm, allora la penso io in un altro modo. Un modo che non mi permette di...”

“Sta-stammi a sentire!”, sbotta spostandosi e prendendogli il viso tra le mani, se 'mani' possono essere quei mucchietti umidi di carta ruvida. Danimarca lo guarda, ma solo per un breve istante: abbassa lo sguardo e parla con lui, fissando un punto imprecisato della sua camicia.

“Mi importa, mi fa stare male e mi fa morire dentro pensare... anche solo ad un bacio... ma non ce la faccio, capisci? Non ce la faccio senza di te. E' più importante stare ins... non... non sto...”

Bene. Non stai bene. Lo vedo. Mi sembra di rivederti impazzire secondo dopo secondo.

Non posso farci niente. Non posso aiutarti, né tornare indietro.

Approfitta della sua momentanea debolezza per liberarsi. Si alza, si allontana, si libera della sua presa e resta appoggiato con la schiena, in piedi, alla porta chiusa dietro di sé.

Danimarca non tenta di riprenderlo, ma china la testa e respira pesantemente.

“Abbi cura di te stesso”, gli ripete in un soffio.

“Mi importa”, lo sente replicare in un sussurro tremante, come se non avesse sentito. “Mi importa molto che tu l'abbia baciata. So che è qualcosa di speciale, conosco l'importanza che hanno per te i baci.”

Grazie. Basta parole, adesso. Sto aprendo la porta, non lo senti?

“Non mi ami più?”

Norvegia si blocca, sussultando involontariamente.

Dove lo trova il coraggio di porre domande tanto dirette? A lui, poi.

“Questo non l'hai detto. Quando... quando hai smesso?”

Quando ho smesso? Mai. Mai, ovviamente. E' complicato.

Non hai bisogno di me.

Lei mi piace. Volevo stare con una donna. Volevo baciarla.

Il solo fatto di averlo pensato e fatto... mi allontana da te. Lo capisci. Lasciami andare.

Non voglio arrabbiarmi per chi mi giudica.

Quegli sfigati che non capiscono niente della vita, giusto?


Non gli risponde. Non può farlo.

Apre la porta e lo abbandona.


Di nuovo.


Il guanto che ha lasciato sul lavello aspetta di essere raccolto.

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Capitolo 3
*** Tomhed ***


Si sente stupido a continuare in quel modo.

Non riesce a dormire bene, riesce soltanto a chiudere gli occhi quando è troppo esausto, dormendo poco, svegliandosi più stanco di prima. In qualche modo, riesce sempre a sognarlo.

Si addormenta con il corpo teso e rivolto a quella parte del letto ormai vuota da tempo -quanto? Ha smesso di contare, fa troppo male-, la mano posata sul cuscino, come se potesse sentirlo ancora tornare a tarda notte, sbuffare e spostarla per infilarsi sotto alle coperte, posandola poi sul proprio petto.

Il dolore e la disperazione dei primi mesi -oppure erano anni?-, le crisi in cui arrivava a rosicchiarsi le dita, in cui si ritrovava con ciocche di capelli in mano, piano piano sono diventati pianti sommessi, finché, alla fine, non è che rimasto il vuoto. E l'insonnia.

Quello che più gli pesa non è la mancanza del suo corpo in quella parte del letto, è quello che riusciva a fargli provare. I sorrisi che gli dava. Il calore quando si svegliava con il suo sguardo su di sé. Le sue mani che l'accarezzavano e gli aprivano un buco nel petto, da quanto erano dolci.

La verità è che nessuno è mai stato così e nessuno l'ha mai fatto sentire in quel modo.

Per questo non può decidersi a buttare il letto e prenderne uno singolo. Per questo ancora tiene tutto ciò che ha dimenticato. I suoi libri, i suoi disegni, i suoi post-it, quelli che scriveva con cura maniacale quando doveva andarsene in fretta, per non abbandonarlo.

Non può dormire, quando quella parte del letto resta vuota.

E non è neppure vero che non piange più.

E' estremo nelle proprie manifestazioni di affetto o odio, lo sa. Sa di essere irritante.

Vorrebbe che la propria mente smettesse di riflettere così tanto su ogni singolo dettaglio, che la smettesse di chiedersi se e cosa fa con lei. Forse Lukas è diventato il nome con cui lo chiama anche lei. Non ha idea di quale sia quello dell'ucraina. Non gli è mai importato.

E' una sconosciuta, qualcuno che non è mai importato molto, nella propria esistenza.

Una persona che guarderebbe morire con il sorriso sulle labbra.

Forse non è affatto cambiato. Forse quella parte di lui che sembrava svanita in realtà si è soltanto nascosta, aspettando il momento giusto per tornare alla luce, per colpire.


Sa perfettamente perché aveva rinchiuso quella parte violenta in un angolo della propria anima. Quella ragione non c'è più. Forse dovrebbe spaventarlo, tutto questo. Ma si ritrova a pensare che non gli importa. Sopravvive con movimenti automatici, mangia, beve, mantiene il proprio corpo come un guscio vuoto, soltanto perché deve, perché non può fuggire all'altro lato del mondo e lasciare che quella parte esploda.


Andare alle riunioni lo fa sentire vuoto, più del solito. Non si sottrae alle proprie responsabilità, non l'ha mai fatto. Sa quali sono i propri doveri in quanto Nazione.

Ha solo smesso, progressivamente, di sedersi accanto ai propri fratelli. Si siede lontano, tra Germania ed Inghilterra. Ha lasciato il proprio posto ad Estonia e sa che il paese Baltico ne è più che contento.

Non è una soluzione definitiva. Non è neppure una soluzione, a dire il vero. Sa che prima o poi tornerà a sedere accanto a Svezia ed Islanda, ma non sopporta la voce di Norvegia tanto vicina, non sopporta l'idea di voltarsi e trovarlo lì, indifferente come solo lui sa esserlo. Apatico.

Come se non fosse successo nulla.

C'è un lato negativo a tutto questo. Spostandosi il più lontano possibile da Norvegia (continua a pensare a lui come Lukas e fa dannatamente male, ogni volta), si è ritrovato di fronte a lei.

Quella donna continua a disgustarlo, ma si è scoperto ad osservarla spesso, come per cercare qualcosa, quello che li rende diversi, quello che la rende migliore.

Lei è sempre gentile. Anche con la sorella, anche con il fratello. Li adora, nonostante evidentemente entrambi siano completamente pazzi. E soli.

Lei divide il pranzo con tutti, lei prende appunti dettagliati che non esita a prestare, così come sembra sempre avere una penna in più per chi se la dimentica o un foglio, che non le verranno mai restituiti.

Nonostante tutto questo, la sua opinione nei dibattiti non è mai considerata e, in fin dei conti, anche lei rimane una persona profondamente sola.

Più pensa a quanto lei lo disgusti, più si ritrova a rivolgere quell'odio verso sé stesso.

Lei è una persona gentile, non ha un difetto, a parte forse essere un po' ingenua e credere che ci sia del buono in ogni persona. A mano a mano che il tempo passa, si rende conto che, se non fosse egoista, se non fosse ancora innamorato, non potrebbe che sperare che lei lo renda felice. Lei è la persona giusta. Quello che lui non è stato.

Ma se la disperazione è diventata vuoto, non può fare a meno di provare quel sentimento bruciante di amore, odio e gelosia, quando ci pensa troppo. E' insopportabile. E' straziante.


Nonostante questo sentimento, questo dolore, quando le richieste dell'Ucraina per una penna, in un giorno come tanti, cadono nel vuoto, la propria mano sembra muoversi con volontà propria e precede quella sottile del norvegese.

Lo sforzo per non afferrarla e stringerla richiede tutta la propria volontà.


Giunto a casa, si rompe la mano contro il muro d'ingresso. Essa è doppiamente colpevole.

Sa che sta cedendo.


Non vuole smettere di amarlo. Non vuole che quel sentimento svanisca. Non vuole liquidarlo come una cosa da nulla, una cosa passata, quando fa parte del proprio presente in quel modo così violento. I ricordi felici degli ultimi sei anni sono quasi tutti legati ad esso.

Il resto ad una famiglia che non esisterà più. Che non esiste più, da quel giorno e che lascia egoisticamente allontanare.


Sono trascorsi sette mesi, tre settimane e due giorni.

Danimarca si sente patetico ad averli contati tutti.

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Capitolo 4
*** Legato a te ***


Qui Amy.

Non ero molto decisa, ma, in fondo, non ho scritto io, non ho nessun diritto di non pubblicarlo. E rimane sempre un capitolo bellissimo.

Devo ritrovare la forza di cominciare e finire il capitolo successivo, ci vorrà ben più di una settimana, questa volta, temo. Dovrete aspettare un po', me ne scuso.

Intanto vi lascio con questo.



“Uhm...”

Ykaterina esita, osservando il profilo addormentato del ragazzo.

Dovrebbe svegliarlo, fargli notare che non gli fa bene dormire così ricurvo, appoggiato alle proprie braccia incrociate, ma vuole lasciarlo in pace. Ne ha bisogno.

Inavvertitamente, allontanandosi pian piano, urta col gomito una pila di faldoni e li fa miseramente crollare per terra. Lancia un verso stridulo e si rannicchia con le mani sulla testa, mortificata.

Quando si fa coraggio e alza lo sguardo al di sopra della spalla, lo vede perfettamente sveglio intento ad osservarla con una curiosità che -se c'è- decide di non mostrarle.

“Ah... uhm... s-scusami!”, squittisce sollevandosi e voltandosi demoralizzata.

“Non importa”, le risponde Norge passandosi una mano tra i capelli e sistemandosi la clip.

Segue un silenzio imbarazzante, durante il quale lui cerca di capire come possa essersi addormentato in quel modo e lei si riempie la testa di domande e domande, finché...

“Non stai bene, Nor?”

La Nazione la guarda, gli occhi seri e inespressivi, ma non abbastanza da non farle giungere una profonda sensazione di tristezza.

“Sto bene, grazie”, le risponde in tono calmo e cortese, stirandosi discretamente.

“Intendevo... ecco... dormi bene la notte?”


No. Non dorme bene. Continua a fare sogni (sogni?) pieni di lui.

Lui che grida, lui che piange, lui che lo implora di non andarsene e che si ferisce, accusandolo di ogni cosa.

Sensi di colpa? Sono moltissimi.

Lo sta lasciando solo, ma non osa stargli vicino, non dopo quello che hanno condiviso, non dopo il modo freddo in cui si sono lasciati. Lo ha lasciato. Non può essergli amico.

Se solo fosse sicuro che stia meglio, se riuscisse a scambiare due minuti di parole, studiare... ah, ma studiare cosa.

Lo vede ad ogni riunione e si è allontanato dal solito posto.

Non riesce nemmeno a condividere lo stesso spazio, ormai.


La ragazza si avvicina e lo abbraccia senza dire una parola, come se lui avesse risposto alla sua gentile domanda di interessamento.

Lei è carina, è presente, lo accudisce. A volte gli prepara il pranzo, gli riassetta casa senza che lui la veda (oh, ma se ne accorge) e non è mai invadente. Si occupa di lui e non chiede niente in cambio.

E' dolce, è tranquilla e buffa, trasmette affetto e protezione, serenità; non grida, non si arrabbia, non da' i numeri. Perché, lei, circondata da una sorella e un fratello completamente pazzi, è così buona?

Lukas volta il viso e incontra il palmo della sua mano che gli si posa sulle labbra.

“Davvero, mi dispiace averti svegliato. Sembri tanto stanco”, gli sussurra piano.

E' bello appoggiarsi a qualcuno come lei senza doversi preoccupare che si sbricioli. E' bello farci l'amore, è bello essere baciato, è rassicurante ricevere le carezze tra i capelli e sul viso quando finiscono. E' bello, anche, essere al centro di quei piccoli gesti teneri.

Che cosa prova per Ykaterina? Lei è tutto quello che l'Amore della sua vita non è mai stato.

Da lei non si aspetta che tiri pugni al muro, che si strappi i capelli, che graffi la parete a sangue scorticandosi le dita, che urli e prenda a testate un armadio.

Non si aspetta che lanci piatti, né che, durante una crisi, lo spinga via mandandolo a sbattere contro una vetrata.

Che non ricordi nemmeno di averlo fatto.

E' trascorso più di un anno da quel giorno. Non ci sono graffi sul suo corpo, non ci sono lividi nella schiena, solo pensieri e ricordi.

E, ad essere onesto fino in fondo, una cicatrice. Sottile e già bianca, insignificante pur se lunga.

Non riesce a farla sparire, perché è stato da quel momento che qualcosa ha iniziato a spezzarsi tra loro, inesorabilmente.

La stanchezza di dover essere sempre quello su cui contare, quello che rimette insieme i pezzi, che aspetta con ansia celata nuove crisi -imprevedibili e molto lontane una dall'altra, segnali di un malessere mai del tutto sanato-, lo shock di veder arrivare le sue mani con intenzioni malevole.

Cosa dire, poi, del sorriso enorme col quale gli ha portato il caffè a letto la mattina dopo? Tutto passato, Matt è tornato quello di sempre, quello che ama e che non ferisce nessuno, quello che prende ago e filo per riparare con pazienza uno strappo al suo vecchio peluche.

Non era quello dello spintone, né quello che ha spezzato come un grissino il polso di un ragazzo un po' stupido, colpevole di aver osato fare un apprezzamento sessuale al suo compagno.

Quasi come a leggergli nel cuore, l'altra mano della Nazione donna scende a sfiorargli le spalle e poi le scapole, delicata e quasi materna, coccolando attraverso la stoffa della camicia la cicatrice della quale non conosce la vera origine.

Un amore sereno: è questo che c'è tra loro? E' qualcosa che ha sempre voluto.

Se sta bene quando è insieme a lei, perché continua a tormentarsi pensando a...



“Non sei un egoista, Noru. Ti conosco, non riesci a ignorare di essere la causa del dolore di altri. Sei fatto così.”

La voce calma e sempre un po' imbronciata del fratello minore gli risponde, giungendo al suo cervello momentaneamente distratto.

Fissa il grosso bicchiere di cartone che contiene il caffè e poi lancia un'occhiata apatica alla gente che passeggia lungo il viale, irrigidendosi sulla panchina.

Island è triste, lo sa. Li vedeva come una bella coppia, sapeva che si amavano da moltissimo tempo prima di mettersi insieme, ma lui non conosce quegli episodi recenti. Forse, in realtà, pensa che sia un idiota ad averlo lasciato, solo perché si è avvicinato ad un'altra persona -una donna, per di più- che sicuramente trova insignificante. Non comprende per nulla le sue motivazioni e soffre ancora per quel legame spezzato.

“Penso che dovreste parlarvi di nuovo”, dichiara dopo un po', senza guardarlo.

“Non saprei più cosa dire”, mormora bevendo un lungo sorso.

C'è troppo silenzio in mezzo.



Quando si ritrova davanti alla porta di casa sua, una settimana dopo quella conversazione, con le mani affondate nelle tasche e il respiro che si condensa davanti al viso per la temperatura rigida della sera, si chiede perché sia lì.

Per farla finita? Ne è uscito vivo alla spiaggia ed è tornato a casa con le proprie gambe dal loro ultimo scambio verbale, perché cercare ancora un dialogo?

Non può farci niente. Deve sapere fino a che punto si è ripreso.

Può darsi che lo trovi con una mano affondata in una scatola di biscotti, indifferente, oppure che abbia una bottiglia stretta tra le dita e altre dieci, vuote, sparse per il pavimento.

Qualsiasi scenario gli si presenti innanzi non può più vivere senza conoscere il suo stato mentale e fisico. Paura o meno e incapace di porvi rimedio o meno, quell'uomo è la sua debolezza e ci ha sempre tenuto da morire, anche se non è mai riuscito a dirlo apertamente.

Anche se i ti amo chiusi nel proprio cuore non arrivavano nemmeno a un decimo di quelli, sussurrati tra dolcezza e passione, del danese.


Estrae dalla tasca una mano avvolta nel guanto e preme l'indice sul campanello.

Uno.

Due.

Tre.

Tre trilli, a breve distanza.

E' sempre stato il suo modo di suonare, per annunciare con anticipo chi fosse dietro la porta, perché sì, dimenticava le chiavi talmente spesso da renderle quasi inutili.


Se non apre è perché non vuole vederlo.

C'è luce che filtra da sotto la porta, quindi è in casa.

Spera per un momento che gli apra qualcun altro. Qualcuno di sorridente e allegro, qualcuno che abbia la forza necessaria per stargli accanto.


Se non apre è perché non vuole vederlo.

Non è perché non può arrivare alla porta.

Vero?

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Capitolo 5
*** Fine ***


Premessa:

Questo capitolo è scritto a quattro mani dalla sottoscritta e la responsabile dei capitoli pari ed è la conclusione di questa storia. Ci sono parti di Danimarca (di cui ho scritto il punto di vista) che non mi convincono molto, ma l'ho rimaneggiato abbastanza e se continuo finisce che non pubblico nulla. Ringrazio chi ha letto (più di 300 letture, yay!) e chi l'ha messa tra le preferite/ricordate. Ergo: adrienne riordan, Maa chan, medinspower Ari, Milla Chan, OrochiMary, Tifawow, Fuiuki e alala.

Ringrazio sentitamente chi si è fermato cinque minuti a commentare, alcuni commenti sono stati utilissimi per concludere la storia (sì, anche quelli che dicevano che sono una sadica, su Facebook), spero che quest'ultimo capitolo vi piaccia.

Amy


La responsabile dei capitoli pari ringrazia allo stesso modo! Per le recensioni, per i consigli, per aver letto e aver sofferto fino a qui. Spero sinceramente che tutto risulti abbastanza fluido, pur essendo, appunto, un lavoro a quattro mani. E' stato un capitolo difficile per me, oserei dire di essermelo sognato per una settimana intera! Per cui taglio qui e lascio spazio alla fine della storia, sperando regali emozioni come ha fatto a noi.

Lulu



Oh, Dio. Non se lo aspettava. Non poteva aspettarselo. Ritrovarselo lì, sentirsi stupido ed inappropriato, dopo una notte in bianco -l'ennesima-, facendosi vedere fragile, debole, sentendosi vulnerabile davanti al suo sguardo.

Come se non bastasse, è completamente intontito dai medicinali. Quelli che gli impediscono di cadere a pezzi, necessari per la propria sopravvivenza in quanto spirito di una Nazione.

Vorrebbe stringerlo al petto, nonostante tutto. E si odia per questo, perché non deve pensarlo. Deve soltanto chiudergli la porta in faccia, fargli una scenata. Ecco, è una soluzione, no?

Perdonare. Così ha detto Fin, vero? Perdonare. Non è certo che riuscirebbe a perdonare veramente Sve, se facesse qualcosa del genere. E ancora, è diverso, perché un bacio non è poi così importante, vero?

Norge, mi hai lasciato davvero per un bacio? Uno stupido bacio, soltanto? Non ha significato, se è dato nella foga del momento, sai? Se è dato soltanto perché magari, quel giorno, eri arrabbiato con me per qualche motivo, perché, magari, eri ubriaco o soltanto non avevi bevuto le tue cinque tazze di caffè ed eri confuso o... No, non funziona così.

Dentro di sé, nonostante quei pensieri, non può fare a meno di provare gelosia. E' un sentimento terribile. Lo porterebbe a fare cose terribili, se solo gli permettesse di prendere il controllo.

Anche se vuole perdonarlo, anche se vuole soltanto dirgli che gli oggetti che gli appartengono, in casa, fanno male come una pugnalata, ogni volta che li nota, anche se vuole soltanto portarselo al petto e dirgli che non può andarsene, che non deve più andarsene, tace. Resta immobile, sulla porta, a guardarlo.

Vorrebbe sapere come. Cosa. Perché. Vorrebbe capire il suo tradimento e, allo stesso tempo, comprende e giustifica il suo comportamento. Ha mille domande, ma non ne pone nessuna. Le considera essenziali, ma non parla. Non può.

Se parlasse ora, sotto quello sguardo che lo rende tanto vulnerabile, non potrebbe che dire che sta morendo lentamente, senza di lui. Ma è ancora orgoglioso, anche se non sorride da tempo, anche se non ne perde più a pettinare nel solito modo assurdo i propri capelli e sono, comunque, diventati troppo lunghi per questo. Anche se non riesce neppure a stare dritto e sta tremando, si aggrappa con forza allo stipite ed incontra il suo sguardo.

Non lo sfida. Non ne ha la forza. Lascia che il suo sguardo apatico frughi nella propria anima e gli mostra quanto quegli occhi siano diventati simili.

Una vendetta che non lo soddisfa. Ma non gli importa.


Stava quasi per andarsene, convinto in cuor suo che non gli avrebbe aperto. E' un anno, mese più mese meno, che non vede quella porta, quella casa; è un po' meno, ma ugualmente molto tempo, che non incrocia degnamente il suo sguardo.

La sorpresa di vederlo viene immediatamente sostituita da alcune considerazioni.

Non aveva la più pallida idea che fosse lui a suonare, è evidente dalla medesima sorpresa che ha visto per qualche lungo istante sulla sua faccia; è in uno stato che non merita commenti.

Lo osserva lungamente, mentre ogni dettaglio che nota lo ferisce in più e più modi. Non sono i capelli ormai piuttosto lunghi e lasciati a loro stessi, non è il fatto che sia mezzo nudo e palesemente assonnato in maniera insana (come se si trascinasse da un luogo all'altro senza pensare all'importanza di aprire la porta con dei vestiti addosso e un aspetto presentabile), non è nemmeno – soltanto - la dolorosa consapevolezza di quanto sia cambiato.

E' il vuoto.

E' l'assenza di espressione, tolto quel sussulto iniziale di vita ed una serie di emozioni contrastanti che gli ha visto passare nelle iridi alla velocità della luce. Una rapidità di pensiero che sembra essere sparita, come se avesse spento un interruttore in qualche luogo remoto del suo cervello.

Non c'è niente in quegli occhi e non c'è il solito Danmark che sorride di riflesso anche se è triste, anche se ha tante cose che lo preoccupano.

E' una statua dai capelli troppo lunghi, troppo magra, stanca e tremante.

Se ne accorge dopo un po', preso com'è a contemplarlo, ma sì, sta tremando. Nota la mano aggrappata allo stipite e non può fare a meno di chiedersi se si stia trattenendo dallo spingerlo via.

Nonostante veda disgregarsi in un istante le sue rosee aspettative di un Danmark felice, solo o in compagnia di qualcuno che tenesse viva la sua risata fragorosa, cerca di non farsi vedere colpito dal suo aspetto come in realtà è.

“Mattæus”, comincia, decidendosi a spezzare il silenzio. “E' molto tempo che non parliamo. Avevo bisogno di sapere come stavi.”

Tutto lì, l'essenziale, la verità. Inutile girarci intorno, chiedergli di farlo entrare o di mettersi addosso qualcosa. Non è importante come sentirlo dire qualcosa, fosse anche per rispondergli che può andare al Diavolo e prenderlo a braccetto.


E' strano vederlo lì davanti, ma, da qualche parte, sembra che abbia perso completamente importanza.

L'ha chiamato Mattæus. Solo quello, un tempo, avrebbe provocato una piccola fitta di felicità. E' passato un anno... e ancora sa il suo nome. Anche se quello non è il suo Lukas, anche se non lo ritroverà più, avrebbe dovuto provare... qualcosa di diverso.

Si porta i capelli all'indietro, notando passivamente quanto non sia affatto cambiato. Sembra che sia trascorso un giorno soltanto -come se non avesse neppure avuto importanza- e questo dovrebbe fare male. Dovrebbe soffrire terribilmente, eppure...

“Non è abbastanza evidente?” chiede, non senza una traccia di sarcasmo.

Sarcasmo. E' indispensabile per sopravvivere, per non soccombere al vuoto che sembra volerlo trascinare via.

Vuoto, stanchezza. Oh, Dio... Si sente così stanco, comincia a non sentire nulla, neppure quando lo guarda negli occhi, cercando di tenere i propri aperti. E' diventato così difficile.

Che cosa... che cosa l'ha convinto ad aprire la porta? Se non lo avesse fatto, se si fosse soltanto lasciato andare nella vasca calda, ora sarebbe calmo. In momenti come questi sembra che non esista più nulla, se non il vuoto assoluto che regna finalmente nella propria testa.


Evidente.

“Sì, lo è”, risponde socchiudendo gli occhi e rendendosi conto di trovare davvero insopportabile quello sguardo, quella vista in generale. “Scusa se l'ho chiesto.”

Ecco, ci sta ricadendo. Non riesce a lasciarlo in quel modo e anche se adesso è più sereno e tranquillo, non è passato giorno di quell'anno senza che pensasse a Matt, senza che si sentisse male per averlo abbandonato.

Sospira brevemente e studia ancora la sua espressione, cercando di leggerne i pensieri come se fosse tecnicamente possibile.

Non è abituato a quella versione. Conosce quella dolce, quella romantica, quella violenta, quella miserabile, quella appassionata, quella infantile... ma non quella spenta.

Anche nella malinconia, Matt ha sempre mostrato la sua sofferenza; quel nulla, invece...

Vorrebbe non averlo mai amato. Così, adesso, non lo avrebbe perso anche come amico e potrebbe fare qualcosa.

“Probabilmente non ti interessa essere aiutato da me, ma almeno rivolgiti agli altri. Sve, Fin e mio fratello hanno un telefono. Dovresti smetterla di allontanarli.”

Non siamo amici e non mi sorriderai mai più. Non mi infastidirai, né mi preparerai il caffè. Lo so. Sapevo che sarebbe successo.

Per una frazione di secondo, solo un battito di ciglia e anche meno, abbassa lo sguardo. Contemporaneamente stringe le labbra e osserva l'ennesima nuvoletta di respiro causata dalla temperatura. Sì, fa freddo e dovrebbe farlo rientrare.

“Non puoi continuare a vivere in questo modo. Guardati. La tua vita non è finita perché non siamo più una coppia. Hai tante cose da fare, non sei un uomo qualunque.”

Fa un piccolo passo indietro rimettendo le mani in tasca, dicendosi che non era una grande idea, dopotutto, quella di andare di persona. Dovrebbe dire a Island di chiamarlo al posto suo, insistere anche se non risponde o se riattacca.

“Non permetterti di lasciarti andare in questo modo e smetti di farti del male. Per piacere.”

Non ha molto da dire e tornerà indietro più preoccupato di prima, ma cosa può fare, materialmente? Quel vuoto lo spaventa anche più delle sue crisi, questa è la verità.


“Gli altri hanno la loro vita.” risponde, semplicemente.

E' sempre stato così, anche prima. Lui c'era. Lui era il suo sostegno, la persona a cui raccontare ogni cosa. Gli altri... erano altri, appunto. Non che li consideri estranei, quello mai... ma, con il passare del tempo, hanno finito col creare le proprie famiglie, dividendosi. Non più loro cinque, ma coppie.

E' stanco. Esausto. Vederselo così, davanti, all'improvviso, non può che stancarlo. Ha vissuto per mesi cercando di non pensare, di lasciar scivolare via quel sentimento, finché, piano piano, non è riuscito ad essere... soltanto una Nazione.

Queste cose le sento da tantissimo tempo. Forse da prima del tempo. E' tanto che lo penso, che ho una forma umana solo per te. Solo per conoscerti, importunarti, prendere pugni da te e... amarti.

A cosa serve, quella forma, se non ha più il senso che ha sempre avuto? Voleva appartenergli, voleva che ogni singolo pensiero fosse rivolto completamente a lui, voleva che lui fosse l'unica ragione per cui aveva una forma umana ed esisteva.

Ed è stato così, per un tempo che è sembrato lunghissimo e perfetto, un periodo in cui si è sentito, finalmente, una persona completa. E non ha mai messo nulla, durante quei momenti, prima di Lukas. Nulla. Mai.

“Qual'è il problema, per te, Norvegia?” chiede, apatico, prendendo distrattamente nota delle nuvolette di vapore che emette quando respira. Se riuscisse ancora a sentirlo, direbbe che fa freddo.

“Non salto riunioni, i miei capi sono soddisfatti, non causo problemi. Mi sto comportando come una Nazione come si deve. Non vedo... quale possa essere il problema per te.” aggiunge, con quel nuovo tono piatto, quel tono in cui riesce a proteggersi.

Di nuovo, però, il nulla è sostituito, come quando ha aperto la porta, da mille sentimenti contrastanti. Vorrebbe ancora chiedergli tante cose, vorrebbe trattenerlo lì, comincia ad avere freddo. Ma non può permetterselo.

Se vuole essere solo un guscio, se vuole continuare a pensare che può resistere, in quella disperata sopravvivenza, deve uccidere quegli ultimi barlumi di coscienza, fingere di stare bene... di essere... svuotato.

“Non farò nulla di patetico come suicidarmi, se questa è la tua preoccupazione. Puoi tornare a casa.” sussurra, quando l'unica cosa che desidera, dal fondo del cuore, in quei momenti, è soltanto stringerlo ed intrappolarlo accanto a sé.



“Non mi preoccupo che tu possa suicidarti. Non ti ritengo tanto debole”, risponde soffermandosi ancora, trattenuto dalle sue parole. Almeno parla, almeno dice qualcosa ed è meglio del silenzio, anche se non è abituato a quel tono. Non che abbia da lamentarsi: lo preferisce così, giunti a quel punto, rispetto a quello che lo intrappolava tra le braccia nel cubicolo del bagno e si ribellava alle sue decisioni. In qualche modo, così sembra che abbia accettato la fine di tutto.

Non gli sfugge il fatto di essere stato chiamato col nome impersonale che lo rappresenta. Anche quello va bene, ma non riesce a fare lo stesso. Quando pensa a lui o quando ne parla con altri, può anche uscirgli Danmark, ma l'altro nome è così importante che rivolgendoglisi con calma deve chiamarlo da umano.

“Non era nei miei desideri che ti spegnessi in questo modo, sarà questo che mi preoccupa.”

Stava bene insieme a lui e odia il fatto di dover passare per quello che l'ha ridotto così, quando non avrebbe potuto chiedere altro che rimanere insieme altri mille anni e mille ancora dopo.

Odia anche il fatto che sembri importare solo a lui, quando non è così.

Si aggrappava tanto e dipendeva troppo da lui, forse avrebbe dovuto creare un distacco più lento, ma a che scopo se la fine era quella?

“Sembra che tu non abbia bisogno di niente”, sussurra incontrando per l'ultima volta i suoi occhi chiari. “Torna subito dentro, Matt, fa freddo.”

China la testa un momento in un cenno di saluto mite e contenuto, retrocede di un paio di passi e si volta andando via.


Ed ecco... di nuovo la sua schiena, un'altra volta.

Gli basterebbe allungare una mano per fendere l'aria fredda, soltanto due secondi, ha il tempo di reagire, di cambiare le cose, di porre almeno una domanda, una domanda fondamentale.

Lascia che gli invadano la testa, lascia che il freddo l'avvolga, ad occhi chiusi.

Non lo ritiene tanto debole.

Cosa ne sa? Cosa ne sa di quello che è diventato, senza di lui? Cosa ne sa, di cos'è capace? Non è questione di debolezza, non è... non è questione di coraggio. E' senso del dovere, prima di tutto.

Una rappresentazione di Nazione non muore mai completamente, qualcuno prende il suo posto, ma servono anni per insegnare a quella nuova tutto quello che deve fare, i suoi obblighi, quello che non può essere, mai.

“Se sembra che io non abbia bisogno di nulla è perché ormai di questo vorrei essere fatto...” mormora, ma non è sicuro che sia udibile.

Eccola, una piccola crepa, un piccolo segno di quanto in realtà si senta spezzare, appena si lascia andare, appena ritrova quell'umanità.

“Mattæus aveva tante domande da fargli. Avrebbe voluto scrivergli una lettera, ma l'ha sempre e solo abbozzata, perché, lo sai, non era affatto bravo con le parole... si lasciava trasportare dalle emozioni e alla fine si perdeva il senso ultimo.” dice, finalmente a voce alta e ferma.

Parlare di Mattæus, come se fosse morto, come se fosse qualcuno di distante, fa meno male, anche nel gelo di quella serata. Lui ha perso Lukas, quel Lukas che è morto quel giorno, di fronte al mare. Se si fossero gettati tra le onde, se fossero rinati senza memoria, forse sarebbe così.

“Io non sono Matt e tu non sei Lukie... Ma nell'eventualità che in te non fosse completamente morto, persino io sono curioso e vorrei sapere cos'è andato storto. Che cos'è cambiato tra loro? Sei anni distrutti da un bacio... è davvero possibile?” chiede, facendo una piccola smorfia.

Un tempo lontanissimo, una persona ormai scomparsa, avrebbe definito quella smorfia un sorriso. Qualcosa di simile, anche se svuotato del proprio significato originario.

“Nel nulla che c'è dentro di me ho ancora le sue domande.” mormora, abbassando gli occhi, prima di spostare l'attenzione sui cappotti appesi dietro la porta ed infilandosene uno.


Nor resta voltato di spalle, il piede fermo nell'atto di compiere un passo, un altro piccolo passo che lo allontanerebbe ulteriormente da lui, un passo che scopre di non voler fare nonostante l'incredibile distanza che si è creata tra loro.

Sospira piano sentendosi il viso gelato, soffocato da pensieri, preoccupazioni, desideri, sentimenti che non vogliono sparire e altri che non hanno la forza di soppiantare i precedenti, come un affetto per Ukraina che non riesce a diventare amore e un amore che non si lascia uccidere.

Ecco, dovrebbe dirgli che lo ha lasciato perché non lo amava più.

Si volta e recupera in fretta la distanza. Apre la bocca con la ferma intenzione di sparare quella cazzata che porrebbe la parola fine alle sue domande. A quello non ci sarebbe replica.

Le sue labbra restano dischiuse, ma la voce non riesce a venire fuori. Non emette il benché minimo suono, bloccato e schiacciato dal peso di quell'assurda bugia.

La richiude e rinuncia, stando in silenzio per il tempo necessario ad appellarsi ad una compostezza più naturale.

Sei anni gettati via solo per un bacio... no, non è del tutto vero.

Sono passati pochi secondi da quando Danmark ha smesso di parlare, eppure gli sembra di essere rimasto lì impalato e zitto a fissare il suo cappotto per molto più tempo, motivo per il quale si decide finalmente a rispondergli.

“Non è il bacio, è come ci sono arrivato.”

Soffia un po' d'aria, le mani rigidamente infilate in tasca. Ci siamo, eh. Deve dirglielo.

Se Danmark parla di sé al passato in quel modo, come se fosse morto, come se ora non fosse altro che una Nazione senza le particolarità che lo distinguevano, forse è abbastanza distaccato dal non accusarsi troppo.

“Ci sono delle cose che non ricordi, cose che non ho mai voluto dirti. C'è stata quella volta... dopo mesi di calma assoluta, hai avuto una crisi. Avevi sognato qualcosa del passato e continuavi a gridare, agitandoti per la stanza. Ho cercato di calmarti e mi hai s... spinto via.”

Prende un bel respiro e gli rivolge uno sguardo molto tranquillo.

“Hai presente quella vetrata che ti ho fatto credere di aver rotto accidentalmente? Non è stato accidentale. E' dove sono andato a sbattere.”

E' dove mi sono tagliato, dove ho cominciato a temerti e perdere qualcosa.

“Non è stato per il gesto, ma da quella mattina sono rimasto sulle spine. Continuavo a chiedermi se potesse capitare di nuovo qualcosa del genere o di peggiore e cosa avrei dovuto fare, nel caso. Tutta quell'ansia si è ingigantita e non sono più stato in grado di gestirla, tanto che senza quasi rendermene conto mi sono allontanato da te giorno dopo giorno.”

Ascoltare la propria voce posata rievocare situazioni e pensieri che sono rimasti chiusi dentro di sé per lunghissimi mesi lo stordisce. Non credeva di essere capace di dire tanto, proprio a lui, ammettendo debolezza e fragilità.

“Ho sbagliato. Avrei dovuto affrontare questo discorso all'epoca, farti conoscere le mie paure, ma sapevo che ti saresti odiato e il fatto di non ricordarlo rendeva tutto più ingestibile. Adesso puoi odiare me, perché non ho saputo fare di meglio che cercare più calma. Qui dentro”, aggiunge sfiorandosi un secondo la tempia con l'indice.

Si lascia scappare una minima smorfia e, preso da quella confessione sempre taciuta, non si rende conto di essersi esposto troppo fino a quando non ha la mano sul petto, sopra il cappotto abbottonato, e ascolta la propria voce parlare ancora.

“Qui, invece, non è cambiato proprio niente, perché non ho smesso di essere Lukas.”

Che cosa sta dicendo? Non gli serve sentire quella parte, non serve a nessuno di loro. Niente di quello che può dire ha il potere di sistemare le cose.

E' tardi perfino per rimangiarsi quanto si è appena lasciato fuggire, ma riesce a fermarsi in tempo prima di dire troppo.

Abbassa la mano, lasciando il braccio penzoloni lungo il fianco e guardando l'uomo.

“Ho risposto alle domande di Mattæus?”, chiede, completamente incolore.


La vista è appannata. Ha cominciato quando Norge gli ha confessato quella cosa terribile e si è trattenuto, per un po', nella speranza di bloccare le sue parole con una porta.

Ma non è riuscito a tagliare il discorso, a smettere di ascoltare la sua voce.

Matt ha sempre avuto una dipendenza per la voce di Lukie. Era talmente raro, sentirlo parlare così tanto, che non poteva fare a meno di ascoltarlo in silenzio, qualsiasi cosa dicesse, fosse anche per lamentarsi di qualcosa che aveva fatto.

Certe abitudini non muoiono così in fretta. Non basta un anno ad ucciderle, perché sono nate e si sono consolidate nel corso di tutta un'esistenza.

Sapere di aver ferito Lukie uccide le ultime parti di Matt che speravano ancora.

Patetico, certo, ma... Nonostante non possa non ripetersi che ormai l'ha perso, ha sempre avuto quella piccola speranza, la convinzione che, un giorno, forse, Lukie sarebbe tornato e che non ci sarebbero state domande o accuse, soltanto un abbraccio.

Se ne va' con le lacrime, che cominciano a scendere silenziosamente, su un viso che non vuole cambiare espressione, che vuole rimanere impassibile, ma che quelle grosse gocce tradiscono.

Ha promesso di non fare mai del male a Lukie. Ha promesso di cambiare, di essere migliore, di proteggerlo da quella persona che era diventato quasi senza accorgersene, verso la fine di Kalmar, quando si era lasciato andare alla paura, affidandosi ad una persona che non era mai stato prima, perdendo a poco a poco se stesso.

Sapere di avergli fatto male, nonostante non legga accuse nel suo sguardo, lo spezza.

“Credevo ci fosse fiducia, tra di noi. Credevo fossimo riusciti a stabilire un rapporto solido proprio per questo. Perché io ho mille cose che non vanno e che ci facevano male, ma che... Stavo cambiando per te. Per quel noi che hai distrutto mentendomi!” sbotta. Il suo tono di voce si alterna tra furia e apatia, in un'altalena di emozioni contrastanti che sottolineano ancora una volta come stia perdendo il controllo.

Non gli importa più di mantenere Matt nella tomba, di parlarne come se fosse qualcun altro, come se la comparsa improvvisa di quell'uomo, dopo un anno, non lo sconvolgesse.

Non basterebbero milioni di calmanti per mantenere la farsa.

“Che cosa credevi di fare, Lukas? Che cosa pensavi di ottenere, nascondendomi una cosa del genere? Proteggermi? E del fatto che avrei dato la mia vita, per proteggere te, che sarei arrivato... Avresti dovuto dirmelo! Non mi sarebbe importato di sentirmi morire, se tu stavi soffrendo, se ti stavi allontanando, avevo il diritto di sapere, perché ti amavo, dannazione!”

Resta in silenzio, continuando a fissare i suoi occhi viola attraverso il velo delle lacrime, dicendosi che vorrebbe chiudergli la porta in faccia o schiaffeggiarlo, ma che non lo farà, perché il solo pensiero di fargli ancora del male è terribile.

Invece crolla in ginocchio, aggrappandosi ai lembi del suo cappotto ed appoggiandosi il viso.

I suoi vestiti hanno mantenuto quel suo profumo particolare, quello di dolci e caramelle, come un carretto di una fiera di paese. L'aveva preso in giro spesso, per quel cambiamento, rispetto alla salsedine dei tempi in cui era un vichingo, salsedine mista a sangue. Gli aveva detto che si era rammollito con il tempo, ma poi gli aveva confessato che quel profumo caratteristico era quello che distingueva Norge da Lukas... Il suo... Il suo Lukas.

“Perdonami.” riesce a sussurrare, prima di allontanarsi, notando come tra i dolci ci sia qualcosa di completamente diverso... come... paglia.

Questa persona non è più tua. pensa, per l'ennesima volta. Non è la prima volta, sa tutto quello che ha perso e sa tutto quello che non avrà mai più.


Lo guarda e non sa che fare. La mano dentro la tasca si stringe da sola formando un pugno, tremando, convogliando in quel misero punto una miriade di emozioni violente.

La sinistra è ancora lì, attaccata al braccio abbandonato lungo il fianco. Nor lo guarda crollare e tenergli il cappotto, ascolta il suo pianto, vede le sue lacrime; ha accettato ogni accusa senza poter replicare, perché ha perfettamente ragione. Avrebbe dovuto parlare, ma la paura di sbagliare lo ha fermato. Ha sempre pensato troppo alle conseguenze e ora... ora...

Desidera toccarlo, consolarlo, come avrebbe voluto fare quell'unica volta in cui lo ha cercato e lui lo ha respinto mostrando una freddezza che non sentiva. Voleva liberarlo da sé, da quella presenza inutile che non era in grado di stargli vicino nel modo giusto, voleva a sua volta liberarsi da quella presenza incognita che lo teneva sul filo di un rasoio.

A distanza di un anno sembra che nessuno di loro sia riuscito a liberarsi dall'altro.

E ancora, vuole rassicurarlo. Non può lasciarlo a quel modo.

“Matt...”, sussurra allungando la mano e cercando di sfiorargli i capelli. La ritrae dopo pochi secondi, avvicinandosela alle labbra, guardandolo con una profonda malinconia e temendo anche quel gesto. Prima sembrava che, preso dalla rabbia, volesse seriamente picchiarlo e lui... glielo avrebbe lasciato fare. Non c'è niente di sensato nella propria testa quando lo vede in quel modo e pensare che è tutta colpa sua, che non ha saputo reagire correttamente e l'ha lasciato perché voleva fuggire, in sostanza, dal loro rapporto, fa dannatamente male.

Come può allungare le mani come se niente fosse e accarezzarlo? Ma continua a vederlo scosso dai singhiozzi e non resiste oltre. Ignora il freddo e si sfila il guanto con i denti, tornando con minor esitazione alla sua testa, lisciando i capelli con le dita come faceva un tempo. Si abbassa quasi senza rendersene conto e in un secondo è in ginocchio davanti a lui, con la sua guancia nel palmo della mano. “Ti ho nascosto una cosa importante, il che equivale a mentire. Hai ragione... quello che avrei voluto non si è avverato, quindi è evidente che abbia sbagliato tutto. Non serve a molto dirlo adesso, vero? Mi dispiace. Non devi scusarti tu”, sussurra con la maggior dolcezza possibile.

Ah, si... si sta lasciando andare troppo, ma non vuole che pianga.

Lo accarezza piano col pollice sentendo la mano riempirsi delle sue lacrime.

Ci mette un po' a capire che anche l'altra mano -non c'è stato bisogno di togliere guanti da quella, non li ha più messi entrambi- è finita sul suo viso e si muove piano per spostargli le lunghe ciocche dietro l'orecchio. La guarda come in sogno, chiedendosi quando e come ci sia andata senza il permesso del cervello. Scuote leggermente la testa e cattura i suoi occhi, serissimo, addolorato in fondo all'anima.

“Ti chiedo perdono.”

E' brutto, ma si sente più leggero. Non perché è ridotto così, assolutamente no, ma per avergli svelato qualcosa che ha sempre tenuto chiuso in un luogo inaccessibile, insieme a tante frasi dolci che non è mai riuscito a dire a voce alta.

Si avvicina e gli posa un bacio sulla fronte, scivolando alla tempia e poi fino allo zigomo, sfiorandolo con le labbra come se avesse timore a premerle completamente sulla sua pelle fredda.

Respirandogli vicino dopo tanto tempo è colpito, oltre che dal tatto, da quel profumo solo ed esclusivamente suo al quale era abituato e che, senza rimedio, associa alla vita che condividevano: era quello che sentiva sempre prima di addormentarsi.

“Vorrei tornare indietro e agire diversamente. Perdonami... perdonami... perdonami, Matt.” mormora, tra un piccolo bacio e l'altro.


Sta tremando dalla testa ai piedi. Non riesce a fermarsi, non quando è così vicino, non quando sente di nuovo le sue mani, le sue labbra... sono sempre state tanto delicate?

Gli hanno sempre fatto così tanto male?

Scuote piano la testa, aggrappandosi al suo cappotto, spinto dal bisogno di tenerlo tra le braccia, di gridargli che non importa, che deve assolutamente entrare in casa e tornare a dare un senso a tutto quello che si è lasciato alle spalle... anche a Dan stesso. A Matt.

Quando riesce a sfiorarlo con le labbra, anche lui, gli sembra di sentire uno strappo, al centro del petto. Non è un bacio, quello, non è il contatto che ha sempre immaginato, dopo tutto il tempo trascorso separati, qualcosa di violento ed irruento, che ottenebra la mente.

E' fin troppo cosciente del modo in cui si stanno sfiorando, dopo quelle parole, dopo le scuse e le lacrime. Perdonarlo. Perdonarlo, ora che glielo sta chiedendo, con questa tristezza incredibile, con le labbra calde che sfiorano la pelle come se non volessero osare troppo, come se fosse il loro primo bacio... può farlo?

Può perdonare, invece, se stesso, per quello che li ha fatti allontanare?

Alza le mani per sfiorargli il volto e i capelli, ad occhi chiusi, respirando a malapena, con il petto bloccato dal dolore, dalla felicità che esplode dentro di lui per quel piccolo gesto.

Ha creduto che non avrebbe mai più... Mai più sfiorato quella pelle che sta diventando fredda, mai più tenuto in quel modo, mai più... quelle parole che l'hanno ucciso, gli hanno tolto il respiro.

Non ho smesso di essere Lukas.

Entra in casa, Lukie. Entra, resta con me, sei freddo, non voglio che ti ammali per colpa mia. O almeno rimettiti i guanti, anche se sentire le tue mani su di me, ancora una volta, dopo tanto tempo...

“Freddo...” riesce a sussurrare, quando si accorge di poter parlare senza il rischio di singhiozzare, scivolando con le braccia intorno a lui e stringendolo come a volerlo scaldare e sentendosi bruciare laddove sente il contatto con il suo corpo, come se il proprio fosse completamente teso a cercarlo, come se questo fosse qualcosa di indispensabile che a lungo si è negato.

Resta a respirare sulla sua spalla, bloccandosi di tanto in tanto come per intrappolare il suo profumo più a lungo, come per riabituarsi a qualcosa che credeva di aver perso.

Ma quel profumo non è il solo e dopo alcuni lunghi respiri non può fare a meno di allontanarsi, abbassando la testa.

“Devi tornare da lei.”


Per un po', sentire le sue braccia cercarlo lo ha riportato indietro. Si è lasciato stringere senza respingerlo, sperando che anche solo quello potesse calmarlo.

Teso com'è a cercare un perdono, teso com'è a cercare di rivedere quello di un tempo (è lo scopo col quale è andato lì, no? Dirgli qualcosa che potesse aiutarlo - in caso stesse ancora male - e fargli capire che lui non è sparito se ha bisogno), non si è goduto pienamente il contatto. E' distratto da troppe cose, troppi pensieri e vorrebbe davvero poterli rinchiudere da qualche parte, parlare apertamente, esprimersi senza le solite difficoltà, ammettere ancora di aver sbagliato.

Gli è mancato da morire, questa è la verità, ma sapeva benissimo che sarebbe stato così, dopo. Non avrebbe mai voluto lasciarlo, ma quel bacio... quando è successo, quando, non spinto da un desiderio fisico o da una tempesta ormonale di strana origine, si è avvicinato a lei e ha premuto le labbra sulle sue trovando un'immediata risposta, qualcosa si è spezzato.

Quel bacio gli ha detto che era arrivato al limite, che se cercava conforto in qualcun altro e non aveva il coraggio di aprire la sua mente alla persona che amava e che aveva accanto, beh, i giochi erano finiti, le luci si erano spente, la pista da ballo era deserta. Finito.

Aveva bisogno di lei, in quel momento, e lei c'era. Aveva bisogno di sentirsi protetto, al sicuro, trattato in maniera prevedibile, senza essere la colonna portante di una coppia. E lei c'era.

Tornare da lei.

Rabbrividisce, un po' per il freddo, un po' perché sono ancora molto vicini e non può negare che gli faccia effetto, che anche se ha cercato di vederlo in altri modi quello è l'uomo che...

Che... ah.

Osserva i suoi capelli ricadere giù a nascondergli il viso abbassato e si chiede se lei potrebbe sentirsi usata, buona solo per colmare un vuoto che era diventato troppo fastidioso, anche se non stanno insieme e non ne hanno mai parlato.

A volte ha pensato che lei sapesse perfettamente come stavano le cose dentro di lui. Non è possibile, ovviamente, ma certe volte, nei suoi occhi, gli è sembrato di leggere la consapevolezza di non essere la persona di cui sentiva la mancanza durante la notte. Anche se Norge vorrebbe amare Ukraina e ogni cosa di lei sia perfetta tanto da avergli fatto pensare più di una volta di essere adatta a stargli vicino, non può comandare a piacimento i propri sentimenti.

Amala. Non è facile. Sì, lo sarebbe, perché lei è amabile, ma... non quando c'è un precedente così forte.

Si trattiene ad accarezzarlo ancora un po', volendo sinceramente spiegargli meglio le cose, ma non trovando le parole perché parlare di sentimenti è sempre stato complicato. Gli sposta i capelli indietro con una mano, lasciandoli scivolare tra le dita e socchiudendo gli occhi mentre si avvicina.

“Non stiamo insieme, non siamo innamorati.”

Come se questo spiegasse tutto.

Una parte di lui voleva che lo sapesse, forse... forse sta lavorando troppo di fantasia. Deve smetterla di pensare di poterlo avere ancora, anche se i problemi tra loro potrebbero risolversi spiegandosi meglio, con calma, affrontando con coraggio ogni momento no, imparando dagli errori commessi.

Un anno non si cancella così e Matt non è lì ad aspettarlo.

Nemmeno i sei, nemmeno i sei.

Stringe la mano dietro la sua nuca e se lo spinge sotto il mento, sul petto.

Lo tiene in quel modo per un po', senza parlare, ripiombato nella solita quiete verbale dopo il lungo discorso di prima che - fa male -, ma era doveroso a fronte delle domande irrisolte.

Vorrebbe tenerlo molto di più, nonostante il freddo e nonostante stia passando per un approfittatore seriale. Sospira interiormente e alla fine, dopo aver resistito alla tentazione di dargli ancora un piccolo bacio sulla testa, lo allontana restando davanti a lui.

“Torno a casa. Non volevo farti star male, venendo stasera. Se puoi perdonarmi, un giorno, fammelo sapere. Basta un sorriso... come quelli che facevi spesso”, mormora aspettando che lo guardi ancora una volta.

Non voglio tornare da nessuno, voglio restare qui, pensa, trattenendosi dal sollevare a forza il suo viso e baciarlo fino al mattino dopo. Non per bisogno di affetto, ma proprio perché lo vuole.


Non stanno insieme, non sono innamorati.

E' improvviso il gelo che sente. La rabbia che preme per sfogarsi e quel terribile senso di nulla che sembra volerlo inghiottire dall'interno.

Non alza la testa, quando si allontana, in cuor proprio pensa sia meglio non guardarlo e lasciare che se ne vada, nonostante tutto il calore che ha sentito prima, per il semplice sfiorarsi delle labbra.

Si è sentito vivo per la prima volta in quella che gli è sembrata una vita, ma che è solo un anno.

Però non va' bene. Non va' bene, quella frase, è talmente sbagliata che non può non fargli male.

Che cosa vuol dire, non sono innamorati? Che cosa vuol dire, quando per mesi l'ha detestata, ha sognato le peggiori immagini di loro due felici, lontani anni luce da lui, che tentava di andare avanti con i pezzi che gli erano rimasti, costretto a sopravvivere in una casa in cui ogni singolo centimetro gli ricordava lui?

“Non vi amate...” sussurra, con una voce che non gli esce del tutto normale. Spezzata, sofferta, stanca da quel continuo sbalzo di umore. Vorrebbe trascinarsi fino alla camera e prendere i soliti calmanti, sprofondare in un sonno senza sogni ed annullarsi.

Tornare ad essere solo Danmark, nonostante tutte le emozioni provate in quello sfiorarsi timido.

“Come faccio a sorridere, se neppure quello che desideravo per te era vero? Credevo... credevo fossi felice, con lei, ero pronto a dirti che è una ragazza tanto carina e che non la devi assolutamente far soffrire!” sbotta, alzando la testa di scatto.

E' ancora lì. Sembra che voglia indugiare il più possibile, sembra quasi non voglia andarsene... e nonostante gli abbia detto che è ancora Lukie -il suo Lukie?- non vuole crederci, non vuole illudersi ed essere risbattuto in terra dalla realtà dei fatti.

Eppure tende la mano per afferrargli un polso, per trattenerlo.

“Mi ami da morire.” comincia, guardandolo dal basso, il petto ancora bloccato dallo strappo che ha sentito prima, ancora spaventato. Ma se quello è il suo Lukie... Quello è lui, vero? Suo, suo, suo.

Gli gira la testa, ma non gli importa.

“Più di quanto ritenevi possibile, ogni giorno di più. Quando mi hai lasciato eri distrutto e, anche se sei andato avanti per la tua Nazione, ti sei spento ed il tuo cuore è diventato un blocco di ghiaccio. Hai continuato ad evitarmi, stai usando qualcuno perché così credi sia più semplice, ma in realtà ti senti solo quanto me e in cuor tuo sai che mi amerai ancora fino al Ragnarök.”

Non voleva pronunciare quelle parole, perché è quello che spera, quello che desidera, quello che lo renderebbe così felice da ucciderlo, probabilmente. Se Norge negasse... Se dicesse che sono solo elucubrazioni mentali malate, se tornasse da lei come gli ha chiesto...

Ma lei lo merita. Si mette un attimo al suo posto e la immagina aspettarlo, con quel viso sempre sorridente e dolce, nonostante tutto. Non si amano. E Lukas cosa diavolo ne sa?

E se anche tornassero insieme, di fronte all'abisso delle loro personalità, cosa lo tratterrebbe accanto a lui? Se anche... Non deve pensarci. Non deve assolutamente, non deve sperare consciamente queste cose.


Devo tornare a casa, devo andare via. Alzarmi e percorrere a ritroso la strada che ho fatto, senza voltarmi. Adesso.

Lo pensa intensamente, ma sono occhi negli occhi, vicini, ha il polso bloccato dalla sua presa ed è stordito.

Dovrebbe correggerlo e dirgli che non sta usando una persona, che le vuole bene, che lo ha trattato con la massima cura e gli ha dato quello che poteva, ma anche che lei non soffrirà perché amava (e ama) un altro uomo. Per una volta vorrebbe davvero aprire la bocca e chiarirgli le parti in ombra di quell'anno trascorso e di quel rapporto, ma non c'è spazio per altro dopo che gli ha mandato il cuore in gola.

Gli dirà ogni cosa, se vuole ascoltare, ma non ora. Ora ci sono solo loro.

Quelle... parole...

Avrebbe saputo dar voce ad una dichiarazione simile con la medesima intensità? Forse nemmeno per iscritto. E sa di non aver mai detto niente del genere in vita sua, eppure...

“Ogni parola”, dichiara sentendo spezzarsi qualcosa dentro, dolorosamente e improvvisamente, quel qualcosa che cercava di tenere chiuso in un angolo perché non facesse troppo rumore.

“E' vera ogni parola.”

L'ha ammesso. Non avrebbe dovuto, ma avverte un'ondata di calore assieme allo strappo delle proprie cuciture - accurate solo in apparenza - perché Mattæus ha capito tutto.

Non potevo dirlo meglio, pensa, schiacciato dall'imbarazzo e da quel suono invadente e martellante che continua ad essere il proprio battito. Non sente più freddo, nemmeno al viso.

Continua a guardarlo negli occhi, passando in pochi secondi da uno all'altro, finché si spinge contro di lui ed è un movimento quasi sincronizzato dato che Matt gli si getta addosso nello stesso istante.

Norge lo prende per il bavero del cappotto e lo bacia senza poter aggiungere altro, senza la forza né la volontà di farlo. Lo preme contro la cornice della porta e si schiaccia così violentemente al suo corpo che, mentre viene a sua volta circondato da due braccia decise, gli manca il respiro.


Per qualche secondo si dice che è quasi buffo, il modo in cui si sono avventati l'uno sull'altro.

Ma tutto è presto annullato in un soffio, mentre incrocia le braccia nella sua schiena, come se temesse una sua fuga -un'altra! Non potrebbe sopportarlo!- e risponde a quel bacio. O lo inizia. Poco importa, ora.

E' vera ogni parola. Significa che lo ama e basta quello. Davvero, basta, è sempre bastato.

Nella propria testa è come se avesse fatto tabula rasa di ogni cosa. Lacrime, rimpianti, accuse. Non c'è più nulla, ma è un nulla che non è affatto desolante come quello che gli offrono le medicine. E' un nulla assolutamente pieno di Norge. Di Lukas.

Gli appoggia le mani sul viso, nella disperazione di quel bacio, non appena si accorge che sono di nuovo legati, che Norge non scapperà e non lo lascerà solo.

Non gli è mai piaciuto farlo sentire in trappola, seppure il desiderio di chiuderlo in uno scrigno, come qualcosa di incredibilmente prezioso, sia sempre stato forte.

Una prigione, per trattenerlo e non farlo scomparire.

Per un attimo ha desiderato respingerlo, dirgli che li ha lasciati morire, che non potrà mai più fidarsi, che ha il terrore di perderlo nello stesso modo, ma come potrebbe riuscirci? L'idea di avergli fatto del male, di esserselo dimenticato, è abbastanza da farlo tacere.

Danimarca sa di essere egoista.

Per questo lo trascina in casa, chiudendo la porta dietro di loro, senza staccare un secondo le labbra dalle sue. Perdere un secondo soltanto di quel contatto sarebbe un delitto. L'ha desiderato troppo.

Resta. Resta, per favore, torna a darmi un senso. Sono debole e stupido e dipendo da te. Non è così che si comporta una Nazione, ma non mi importa. Non mi è mai importato.

Tu sei la persona che ho scelto e quelle parole, quella dichiarazione, era la mia.

Vorrebbe gridarglielo e sussurrarglielo allo stesso tempo, ma non ne ha la forza. Come tante cose prima di questo, chiude tutto in una parte del cuore, in attesa di trovare parole che lo facciano apparire meno patetico.

Norge... Lukie deve sapere che è indispensabile. Quando troverà quelle parole e sarà capace di dirglielo senza fargli del male, allora... Allora potrà togliersi quel fiume di parole dal cuore. Riversargli addosso tutto il proprio amore.


Norge si accorge vagamente di essere dentro casa e che la porta è stata chiusa con una pedata. Lo sa perché le mani di Matt non si sono mosse dal suo viso e dai capelli e lo sa perché ha udito lo sbattere secco che non è riuscito a farlo sobbalzare nemmeno di un millimetro.

Nonostante la delicatezza di quel tocco e le continue carezze che riceve, non riesce ad essere composto allo stesso modo. Semplicemente ha perso la capacità di fingere, di controllarsi, di mentire – o è troppo stanco per continuare a farlo - e quelle maledette parole continuano a rimbalzargli in testa, vorticando.

Camera, camera, camera.

E' importante arrivarci?

Scosta violentemente i lembi del suo cappotto e lo abbassa lungo le braccia, sbottonando il proprio, veloce, fino a lanciarlo dietro di sé con poche mosse furiose.

Non smette di baciarlo, non ci pensa nemmeno, ma si prodiga lo stesso a far sparire più indumenti che può per unirsi finalmente, di nuovo, all'unico corpo che ama.



Apre gli occhi di scatto, subito colpito da un feroce mal di testa. E' sempre così, quando le medicine smettono di fare effetto. I pensieri corrono più velocemente, non più rallentati e bloccati. Non è più apatico e sente il dolore, tutto il possibile dolore, troppo intenso per essere sopportabile.

La prima cosa che fa, di solito, è tendere il braccio verso il comodino per trovare le pillole, ma questa volta è diverso.

E' diverso perché ricorda la sera precedente, ricorda che Lukas è tornato, ricorda che gli ha detto che lo ama, che hanno fatto l'amore. Ferocemente. Il proprio corpo conferma, non era un sogno, ha male ovunque e, se si guarda, ha probabilmente il segno dei morsi.

Eppure, nonostante la violenza, sa che non hanno mai fatto l'amore in un modo così dolce. Con tutto il cuore, dopo mesi passati a mentirsi e negare ciò che ormai è ovvio.

Se non controlla lo stato del proprio corpo, è perché ha paura ad abbassare gli occhi ed accorgersi che quello è veramente un sogno o che, peggio, è solo nel letto.

Eppure ha detto che mi ama.

Ingenuo. E' davvero ingenuo ad aggrapparsi a quelle parole.

Lo sai benissimo che potrebbe essersene andato anche dopo questo. Lo ha già fatto.

Vorrebbe prendere le medicine e raggomitolarsi sotto le coperte, nascondersi agli occhi del mondo, vergognarsi per come si è comportato, preso dalla foga del momento. Ma è impulsivo, dannazione.

E lo ama. Così tanto.

Guardando il soffitto, rimane teso a cercare il respiro della persona che -deve- dormirgli accanto. Trattiene il proprio, per così tanto tempo che i bordi della propria visuale diventano neri. Quando respira rumorosamente, tutto in una volta, è consapevole che il letto è vuoto.

Gli bruciano gli occhi, ma non ha più lacrime. Le ha versate tutte la sera precedente. Diavolo. E' stato così felice. Una felicità così grande esplosa nel petto in un solo momento, come il primo respiro doloroso dopo un'apnea.

Ed è così. E' rimasto in una sorta di stasi, per un lungo anno, un sonno profondo, da cui ormai si sente lontano. Anche volendolo, non può tornare a quello stato di catatonia.

Deve guardare la realtà... e scoprire se quella notte è stata solo qualcosa di irripetibile, un'occasione in cui si sono sentiti soli oppure... Oppure.

Tende un braccio verso la parte vuota del letto, facendo un piccolo sorriso quando si rende conto che è stato automatico addormentarsi così, come se, veramente, Lukas avesse ripreso almeno quel posto alla sua destra, a lungo vuoto.

Sfiora il tessuto e lo sente fresco. Risalendo, tendendosi all'inverosimile, nulla cambia. Il sorriso svanisce. Il vuoto prende di nuovo il sopravvento.

Un vuoto ben diverso da quello con cui si è svegliato -non pensare a nulla, essere felici- o quello che ha provato ogni secondo, nel corso di quell'anno. Il vuoto che si forma quando qualcosa che è perfettamente al proprio posto viene portato via. Doloroso, lo fa tornare ad un'apnea diversa, quella che precede un singhiozzo. Non vuole. Non può.

Basta debolezza.

Ti ha offerto molto più di quello che meritavi, questa notte. Ti ha dato un modo per staccarti da lui.

Ma mille ragioni per stargli accanto. Non posso smettere di amarlo.

Si rannicchia su un fianco, artigliando il cuscino vuoto e portandoselo al petto, dicendosi che non deve farlo, ma respirando a pieni polmoni il leggero profumo dolce dell'uomo che ama.

Ricorda di averlo fatto anche la prima volta che hanno fatto l'amore, mentre Lukas era sotto la doccia. L'aveva trovato così e Den l'aveva fissato mentre, sfregandosi i capelli con un asciugamano, lo guardava tra il confuso e il perplesso, chiedendogli cosa cavolo stesse combinando e togliendogli il cuscino.

Il suo profumo lo fa sentire male e bene allo stesso tempo, come uno squarcio nel cuore che si risana e torna a formarsi, in continuazione. E' una presenza. Un'assenza.

E' Lukas.

Resta a respirare ad occhi chiusi, quando sente un botto provenire dalla cucina e sobbalza, scattando in piedi.

Recupera l'ascia e scende rapidamente di sotto, fino all'origine di quel rumore, pronto ad affrontare l'avversario. Ma quello che si ritrova davanti non è affatto uno sconosciuto entrato di nascosto.

“Lukie...” sussurra, lasciando l'ascia appoggiata al muro ed osservando la scena che gli si presenta dinanzi. C'è qualcosa di bruciato e fumante, nella padella abbandonata nel lavandino. E le fette di pane tostato non se la passano meglio. Il caffè profuma e sovrasta tutto l'odore di bruciato.

E poi c'è lui. Impeccabile, nonostante il segno nero sotto l'occhio -da dove esce il carbone?- solo un po' stizzito per il disastro in mezzo al quale lo ha trovato.

Ma è lì. E' nella sua cucina e sta cercando di preparare un sembiante di colazione. E non l'ha mai fatto. E anche se la cucina è probabilmente da cambiare, quel gesto è incredibilmente bello.

Per questo lo abbraccia di slancio, incrociando le braccia nella sua schiena e non facendo alcun movimento che indichi che voglia lasciarlo andare. Non vuole. Non può.

Questa volta lo intrappola, posando la guancia sulla sua testa e sfregandosi piano. Il profumo lo invade completamente e riesce finalmente a respirare normalmente, senza scatti strani, senza strappi.

“Non sei andato via. Sei ancora qui.”


“... Ce-certo che sono qui”, borbotta Norge dopo qualche secondo, arrossendo furiosamente per il modo in cui l'ha trovato e per quell'abbraccio stritolante.

Non ci è andato affatto leggero durante la notte. Hanno fatto l'amore senza lasciarsi il tempo di riprendersi, più e più volte, per ore, toccandosi e baciandosi con una foga che non ricorda di aver mai avuto, nemmeno i primi tempi. C'era tanto bisogno di riaverlo e ancora di più sentirsi suo. Non c'è stato un singolo istante di imbarazzo mentre si trascinavano reciprocamente verso la camera da letto, sbattendo in ogni angolo, ansimando senza ossigeno tra un bacio e l'altro, finendo finalmente uno sull'altro. Come se non avessero mai smesso di amarsi in quel modo.

Tuttavia, i suoi slanci gli sono mancati e riescono ancora a coglierlo di sorpresa.

Norge si è svegliato presto restando ad osservarlo dormire, con una fissità tale che temeva si sentisse squadrato e si svegliasse. Lo ha sfiorato con la punta delle dita, pensando tanto, fermandosi ad analizzare ogni momento della sera prima, ogni parola e ogni gesto.

Mi ami da morire.

Si è ritratto e si è voltato sul fianco, mettendosi seduto e guardandosi le gambe graffiate. Niente di preoccupante: i segni che ha lasciato su Matt ci metteranno molto di più a guarire e... vuole fargliene altri, ancora. Vuole dormire in quel letto, vuole farsi amare da lui.

Vuole, non vorrebbe. Vuole.

Si è alzato con l'intenzione di andarsene e la voglia di rimanere. Per un po' ha pensato che si è lasciato prendere troppo da lui, dai suoi occhi e da quel bisogno disperato di riaverlo con sé che ha sentito in ogni sua reazione. Ha pensato che doveva essere sicuro di quello che faceva, che non poteva spuntare a quel modo nella sua vita e rimanere senza la ferma convinzione di tornare ins...

Mi ami da morire.

La verità assoluta, più forte di qualsiasi paura, una verità che gli ha fatto girare la testa come una giostra e lo ha ributtato a sedere, affondato, con l'unica risposta alle proprie incertezze.

Non poteva andarsene, non di nuovo, non in quel modo. Perché andarsene? Ha molta più voglia di restare e ha molte più ragioni per farlo.

“Sono qui”, ripete con maggior convinzione. “Ma ho combinato un disastro”, borbotta in tono serio e lamentoso al tempo stesso, cercando di darsi un tono. “Non so cosa mi sia saltato in mente... forse è meglio che esca a compr...”

Non lo fa finire. Matt lo stringe talmente forte, gemendo piano, che il solo pensiero di andare a comprare qualcosa di commestibile, caldo e già pronto per la colazione, scivola dalla sua mente come sabbia tra le dita.

“O forse no. Chi se ne frega”, aggiunge appoggiando la fronte alla sua spalla e posando le dita sulla pelle nuda della schiena. Riesce a sentire i graffi sotto i polpastrelli e, per un attimo, si domanda se non abbia esagerato. Li accarezza piano seguendone il rilievo, sentendo la sua guancia premuta contro la propria testa. Se lo stringe ancora un po' rischia di fargli mancare l'aria, ma sembra che a Matt non importi altro che tenerlo lì, fermo, intrappolato, sotto controllo.

A Norge la cosa non dispiace assolutamente.

Quante mattine avrebbe voluto riaverlo vicino in quel modo? Quante notti? Quante volte si è chiesto se avesse preso una decisione giusta e sensata?

“No, non credo di dover andare da qualche parte”, aggiunge salendo con le mani e trovando le punte dei capelli decisamente troppo lunghi.

“Questa mattina preferisco tagliarti i capelli.”

Li arrotola tra le dita, socchiudendo gli occhi e provando una pace che bramava da moltissimo tempo. Spera che anche per lui sia lo stesso, che gli basti anche solo tenerlo a quel modo.

“E ti dirò una cosa che sentirai ogni giorno, a partire da oggi.”

Si solleva e avvicina le labbra al suo orecchio, spostando di lato le ciocche invadenti con la punta del naso.

“... Buongiorno, Matt.”

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