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Nella seconda metà
del sedicesimo secolo, il Giappone è devastato dalla guerra civile.
I fuochi delle battaglie distruggono
la terra, e il potere centrale è inerte dinnanzi alla violenza indiscriminata
che di giorno in giorno diventa sempre più incontrollabile.
Molti signori della guerra, alla
guida dei rispettivi clan, si combattono ferocemente tra di loro per ottenere
il potere, e fra di essi vi è Oda Nobunaga, daimyo della provincia di Owari.
Carismatico e sanguinario, Nobunaga è impegnato da anni in una difficile
campagna militare volta ad unificare l’intero Paese sotto un solo stendardo, e
per riuscire in questa difficile impresa il
signore degli Oda si è avvalso di ogni possibile soluzione, sfruttando al
meglio la propria abilità di condottiero e uomo politico; per assicurarsi una
vantaggiosa alleanza ha dato in sposa la sorella Oichi a Nagamasa Azai,
garantendosi in questo modo l’alleanza del potente clan Azai della provincia di
Omi.
In quanto dotato di grande
esperienza e di una mentalità aperta al cambiamento, Nobunaga ha compreso
subito l’immenso potenziale offerto dalle armi da fuoco, allora ancora
sconosciute in Giappone e arrivate da oltreoceano grazie ai mercanti
portoghesi; inoltre, usando come un’arma la nuova religione predicata dai
missionari arrivati dall’Europa, che in poco tempo aveva trovato un buon numero
di fedeli, è riuscito nell’intento di seminare sospetto tra i suoi oppositori,
ostili nei confronti dei costumi occidentali, che troppo occupati a scontrarsi
l’un l’altro non riescono a coalizzarsi per contrastare la sua armata, che
diventa di giorno in giorno sempre più potente.
Uno dopo l’altro i nemici degli Oda
cadono come foglie secche, e ormai i clan Takeda e Nagao, guidati dai loro
ultimi discendenti, Shingen Takeda e Uesugi Kenshin, sono tutto ciò che divide
Nobunaga dal controllo totale sul Giappone.
Tuttavia, prima di infliggere il
colpo finale agli unici avversari in grado di minacciarlo, il signore degli Oda
ha voluto assicurarsi un altro prezioso alleato, pertanto, accompagnato dai
suoi più fedeli generali, Ieyasu Tokugawa e Akechi Mitsuhide, e dal suo nuovo
genero, Azai Nagamasa, ha mosso le proprie armate in direzione di Kyoto per
spodestare Ashikaga Yoshihide, shogun fantoccio controllato dal clan Miyoshi, e
mettere al suo posto un proprio alleato, Ashikaga Yoshiaki, con l’intento di
occupare militarmente la capitale del Paese e poter contare allo stesso tempo
su di uno shogun fedele che avrebbe legittimato tutte le sue future conquiste.
Mentre i nobili e i potenti si fanno
la guerra, nei campi i contadini cercano per quanto possibile di continuare la
propria pacifica esistenza, ma i briganti, le razzie, le confische e i continui
ribaltamenti di potere hanno esasperato gli animi, portando ovunque sconforto e
rassegnazione, e ora che Nobunaga si appresta ad entrare a Kyoto sono in molti
a ritenere che da ora in poi le cose potranno soltanto peggiorare.
Provincia di Tamba
Agosto 1568
La giornata volgeva al termine nel piccolo villaggio
adagiato placidamente sul fondo della vallata, circondato dalle risaie.
Il sole
stava quasi per completare la sua discesa oltre l’orizzonte, e il fresco
venticello della sera trasportava dalle montagne un piacevole odore di erbe,
preannunciando quella che sarebbe stata una splendida notte.
Da
laggiù, da quel piccolo eremo di tranquillità e pace, la guerra che
imperversava nel resto del Paese sembrava così lontana, ed erano passati anni
dall’ultima volta che gli abitanti avevano visto un soldato o un samurai. Gli
alti monti fornivano protezione, e gli unici valichi che li attraversavano
erano troppo stretti per permettere ad un esercito di passarci agevolmente,
senza contare che solo pochi ne conoscevano l’ubicazione. Infine, la vicinanza
alla capitale scoraggiava le azioni dei briganti, che altrove invece regnavano
indisturbati.
La
campana posta in cima alla torre annunciò a tutti la fine del lavoro, e i
contadini, affaticati ma soddisfatti da una lunga giornata lavorativa,
cominciarono a rientrare; le spighe crescevano come non avevano mai fatto, e
per la fine dell’estate si preannunciava un raccolto davvero memorabile.
Uno degli
ultimi ad abbandonare il proprio lavoro fu un giovane appena diciottenne
dall’espressione amichevole. Ciò che colpiva maggiormente di lui erano i suoi tratti,
che pur rievocando in parte quelli tipici del popolo giapponese, con occhi
leggermente allungati e i capelli neri, erano in verità molto particolari, e
praticamente unici all’interno della sua comunità: altezza leggermente sopra la
media, corporatura slanciata e prestante, occhi marrone scuro e volto
tondeggiante.
Il suo
nome era Iguro, ed era figlio di Toru Takemura, uno degli uomini più in vista
del villaggio, e di certo il più rispettato.
Appena
tornò verso casa, l’unica leggermente più sfarzosa delle altre e circondata
anche da un piccolo muretto, gli venne incontro proprio suo padre, che invece
era già rientrato da alcuni minuti. Lui che era suo figlio non ci faceva caso,
e lo stesso valeva per i suoi concittadini, ma la zoppia che affliggeva Toru
alla gamba destra era più che evidente, tanto da costringerlo ad una camminata
ondulante e molto lenta, ma questo serviva solo ad accrescere il senso di
rispetto che la sua figura suscitava in chi gli stava intorno.
Poco più
che cinquantenne, aveva occhi neri che trafiggevano più di una lama, capelli
corvini raccolti in cima alla nuca in una coda nobiliare, cosa insolita per un
contadino, per quanto rispettato, e un accenno di barba a circondargli la
bocca.
«Bentornato,
figliolo.»
«Grazie,
padre.» rispose il ragazzo facendo un lieve inchino.
Poco dopo
sopraggiunse anche la madre, Suzue, una donna che, per quanto piuttosto avanti
con gli anni, conservava ancora un certo fascino: di dieci anni più giovane del
marito, in gioventù aveva lavorato come governante a Kobe, sua città natale,
presso alcune nobili famiglie occidentali, soprattutto di ricchi mercanti, la
più importante delle quali era stata senza alcun dubbio la famiglia
dell’esploratore portoghese Fernão Mendes Pinto, in assoluto il primo occidentale
nella sTorua ad aver messo piede in Giappone.
«Iguro.»
«Madre.»
«Anche
oggi hai fatto tardi.»
«Mi
dispiace, avevo del lavoro da finire.»
«Avanti,
venite dentro tutti e due. Ho appena finito di riscaldare l’acqua».
Al
termine di una massacrante giornata nei campi non c’era niente di meglio di un
bella immersione in una tinozza d’acqua calda per recuperare le forze, e non
era raro che, come quella sera, padre e figlio facessero il bagno insieme per
ridurre al minimo il consumo sia dell’acqua che della legna per riscaldarla.
Dopo il
bagno venne il momento della cena, insolitamente abbondante per una famiglia di
contadini: riso bollito, pesciolini di fiume essiccati ed insaporiti con daikon
grattugiato e della verdura. Come detto, il villaggio di Iguro se la passava
piuttosto bene, e ora che il nuovo raccolto, peraltro così abbondante, era alle
porte era possibile dare maggiormente fondo a quelle scorte che durante tutto
l’arco dell’anno erano state prudentemente messe da parte di previsione di un eventuale
periodo di magra.
A rendere
la cena ancor più vivace ci pensava Sota, lo splendido Akita Inu che Iguro
alcuni anni prima aveva trovato ancora cucciolo a vagare per le risaie attorno
al villaggio e che tutti gli abitanti in qualche modo avevano adottato. Come
ogni sera, si presentò alle otto in punto di fronte alla porta della casa,
lasciata aperta, e come vide il suo padrone venirgli incontro con una ciotola
piena di riso, pesce tagliuzzato e qualche avanzo della cena prese subito a
scodinzolare, saltando in tutte le direzioni.
«Sei
contento di vedermi, eh?» disse il ragazzo ricevendo feste a non finire.
Come
l’ultimo raggio di sole scomparve del tutto una splendida notte senza nubi
illuminò la vallata con la luce di milioni di stelle; la luna, grande e piena,
brillava con tutta la sua forza, rendendo quasi superfluo il tenue bagliore
prodotto da qualche lampada accesa qui e là al di fuori delle case.
A causa
della lunga e difficile giornata lavorativa quasi tutti nel villaggio si
coricarono subito dopo aver finito la cena, ma per Iguro restava ancora
un’ultima cosa da fare prima di andare a dormire. Recatosi nel retro del
giardino, in un piccolo spiazzo circolare di una decina di sei o sette metri di
diametro, armato di un lungo bastone leggermente ricurvo, incominciò come ogni
sera ad allenarsi minuziosamente nell’arte della spada, dimostrando di
possedere abilità, grazia ed eleganza assolutamente non comuni per un
contadino.
Fin da
piccolo aveva sentito di provare una certa attrazione per quella vita, la vita
del guerriero, e anche se sapeva svolgere il suo lavoro alla perfezione chi lo
aveva visto allenarsi riteneva, senza peccare di esagerazione, che la sua
vocazione era quella del samurai, e non del contadino.
Negli
ultimi anni alcune persone di umile estrazione erano riuscite ad imporsi
all’attenzione e al rispetto di alcuni tra i più potenti clan del Giappone
grazie alla loro perizia con la spada, all’abilità militare o al carisma con
cui riuscivano a persuadere anche gli animi più forti, e qualcuno diceva che
forse, se solo Iguro fosse uscito da quella specie di isola remota che era la
valle in cui era cresciuta, nascondendo magari le sue vere origini, un giorno o
l’altro avrebbe potuto fare fortuna, arrivare in alto.
Ma
questo, in verità, allo stesso Iguro non importava più di tanto: la sua vita
gli piaceva, aveva tutto quello che si potesse desiderare: famiglia affettuosa,
degli amici fedeli e una casa accogliente. Ogni tanto, per via dei suoi tratti
così singolari, si sentiva come un pesce fuor d’acqua, e più di una volta,
soprattutto durante la prima adolescenza, si era domandato se quello fosse
davvero il suo giusto posto nel mondo, ma con il tempo questi pensieri si erano
affievoliti, e più passavano i giorni e le stagioni più si convinceva che il
suo giusto posto lo aveva già trovato.
D’un
tratto, mentre era nel bel mezzo di un esercizio, si accorse di avere addosso
gli occhi di suo padre, che lo osservava da sotto la veranda, appoggiato al
muro della casa. Chissà da quanto tempo era lì a guardarlo, e lui, concentrato
com’era, non se ne era accorto.
«Padre!?»
«Stai
migliorando. Questo si vede.»
«Da
quanto… da quanto siete qui?»
«Da un
po’.»
«Io… io
credevo che dormiste.»
«E lo
starei ancora facendo, se non fosse per il baccano che fai.»
«Mi… mi
dispiace. In effetti è molto tardi. Sarà meglio che vada a letto».
Zoppicando,
Takemura raggiunse a sua volta il piccolo campo d’allenamento, e prima che il
figlio posasse il bastone strinse le sue mani.
«Tieni le
mani troppo distanziate.» disse riposizionandole nel modo giusto «Con un
bastone leggero può anche andar bene, ma impugnando la spada in questo modo
faticheresti a controllarla, e i tuoi movimenti sarebbero impacciati. Ecco,
così va’ meglio».
Non c’era
da stupirsi che suo padre conoscesse il modo più corretto di impugnare una
katana.
In pochi
nel villaggio lo sapevano, ma l’uomo chiamato Toru Takemura era stato in
gioventù un samurai al servizio del Clan Rokkaku, e aveva combattuto per il
grande condottiero Rokkaku Yoshikata, con cui aveva stretto uno speciale
rapporto di amicizia, in numerose battaglie. Purtroppo, quando era ad un passo
dalla nomina ad ufficiale una brutta ferita di guerra segnò la fine della delle
sue aspirazioni. Impossibilitato a proseguire la sua carriera militare aveva
cercato il suicidio, ma Yoshikata, in memoria del legame che li aveva uniti, lo
aveva convinto a non togliersi la vita e a fare ritorno al suo villaggio, dove,
sposatosi, aveva iniziato una nuova vita come semplice contadino.
Di tanto
in tanto Takemura soffriva per la sorte avversa che lo aveva colpito, si vedeva
chiaramente, ma il pensiero di avere accanto a sé una moglie ed un figlio
migliori di quanto avesse mai sperato serviva ogni volta a dargli forza, e a
ricordargli che in fin dei conti non era stato tutto vano.
«Grazie
padre».
Toru
sorrise leggermente, poi diede al figlio un leggero scappellotto.
«E ora a
letto, forza. Domani c’è da alzarsi presto».
Non aveva idea di dove si trovava, né di cosa gli stesse
succedendo.
Davanti
ai suoi occhi scorrevano immagini strane, incomprensibili e straordinarie, ma
anche spaventose, e ormai ci era passato così tante volte che una parte di lui
sapeva quanto potevano diventare spaventose.
Vedeva
città immense, città che non somigliavano a nulla che avesse mai visto, alcune
affacciate su di un oceano senza fine, altre immerse in un mare di sabbia e
illuminate da un sole così forte da accecare chiunque avesse osato guardarlo
direttamente, altre ancora in cui svettavano ovunque altissime torri di pietra,
e tutte erano circondate da mura talmente possenti da dare l’idea che nessun
esercito, per quanto grande, sarebbe stato in grado di abbatterle.
E poi
genti, genti a non finire, vestite nei modi più strani. E lui era lì, in mezzo
a loro; camminava, e gli sembrava quasi di sentirli, di sentire i loro abiti
sfiorare il suo, di ascoltare le loro parole, parole che in parte riusciva
addirittura a comprendere.
Poi, di
colpo, si ritrovò in alto, sui tetti, intento a saltare da una parte all’altra
come nessun uomo sarebbe stato in grado di fare; poi un salto lunghissimo, in
direzione di una torre, che mutò il suo aspetto appena vi si aggrappò, passando
da una costruzione circolare color ocra ad una quadrata, di colore rosso e
sormontata da una piramide verde con in cima una creatura alata tutta d’oro.
La
scalata fu incredibilmente semplice, le braccia e le gambe forti gli
permettevano di salire con uno sforzo apparentemente minimo, e come fu in cima,
dinnanzi a lui si materializzò uno spettacolo incredibile; tutto attorno vedeva
una grande città che sembrava quasi emergere dall’acqua, e i suoi palazzi,
tutti di solida pietra, parevano gettare le proprie fondamenta al di sotto
della superficie. Una cosa del genere non l’aveva mai vista, e mai avrebbe
pensato che potesse essere possibile.
Dopo
qualche altro istante si vide saltare giù, precipitare verso terra, ma non
avvertiva alcun senso di paura, come se dentro di sé sapesse che non gli
sarebbe accaduto nulla di male; forse era la consapevolezza di essere soltanto
in un sogno, forse qualcos’altro, fatto sta che davvero non successe nulla,
perché la sua caduta venne agilmente frenata da una grossa pila di fieno che si
trovava, leggermente appartata, ai piedi della torre.
Quello
era però era il momento peggiore, perché era quello che segnava la fine del
sogno e l’inizio dell’incubo.
Un attimo
di buio, poi, come un’aquila, si vide volare al di sopra di una cittadella
circondata da una terra arida e con poca vegetazione, e arroccata su di una
collina. Nuovo buio, poi vide una luce, una luce circolare, e vide che a
generarla era un oggetto indistinguibile stretto da un uomo, forse un vecchio a
giudicare dalla lunga barba, che nell’altra mano stringeva una spada. L’oggetto
divenne ancor più brillate, accecandolo, e quando riaprì gli occhi si trovò in
un posto diverso, una sorta di gigantesca sala rettangolare piena di uomini
distesi a terra. Di fronte a lui un altro uomo, un altro vecchio, stavolta
vestito tutto di bianco, che nella sua mano stringeva un lungo bastone luminoso.
Fece
appena in tempo a vederlo mentre si avvicinava con aria minacciosa, poi di
nuovo buio, ed ecco apparire dal nulla una figura fatta di luce, mentre tutto
attorno a lui si materializzavano migliaia e migliaia di strani simboli. In
parte provava un senso di attrazione, e anche una certa curiosità, ma più di
ogni altro sentiva la paura, una paura terribile.
«Devi
impedire che accada.» disse una voce echeggiante di giovane donna «Il tempo sta
scadendo! Devi trovarla! Trovala!».
Poi, solo
buio e terrore.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Avevo promesso una
nuova fan fiction sul mondo di Assassin’s Creed, ed eccomi qui a mantenere la
promessa.
Come avete visto
questa nuova storia costituisce un ponte tra il secondo e l’ancora misterioso
terzo capitolo, ed è ambientato nel Giappone del Periodo Sengoku, tra la fine
del ‘500 e l’inizio del ‘600. Vista la grande quantità di eventi storici ai
quali si farà riferimento consiglierei a chiunque voglia leggere di andare a
dare una spulciata a wikipedia, in modo da avere un’idea più chiara degli
eventi che saranno descritti.
Beh, concludo qui e
vi auguro buona giornata, ringraziando in anticipo tutti coloro che leggeranno
e recensiranno.
Fin dai tempi più antichi, nessun generale
o signore della guerra si era mai azzardato ad entrare in armi nella Capitale
dell’impero.
Marciare
alla testa del proprio esercito nel luogo più sacro del Paese era un’eresia, un
affronto che non poteva essere tollerato.
Ma
Oda Nobunaga, signore di Owari,
amavano dire i suoi generali, non temeva né gli uomini né gli dèi, e l’unico
giudizio che gli interessava era quello che i posteri avrebbero riservato alle
sue imprese.
Per
lui, che ormai si apprestava ad unire sotto la sua bandiera l’intero Paese,
avere alle proprie spalle uno shogun accondiscendente e, soprattutto, con un
grande debito nei suoi confronti, sarebbe stato un incredibile vantaggio, poiché
avrebbe legittimato da lì in poi tutte le sue future conquiste.
YoshiakiAshikaga era un uomo
senza onore, un malato di mente con manie di grandezza e poco cervello, ma
proprio per questo era il candidato perfetto per rivestire il ruolo di
governatore fantoccio, da rigirare e manovrare a proprio piacimento.
Quando
si era presentato alla fortezza di Owari implorando Nobunaga di aiutarlo a togliere il potere al cugino Yoshikage, Nobunaga aveva
immediatamente accettato, e aveva inviato nella capitale due distinti gruppi d’armata
destinati a sbaragliare le residue forze del clan Miyoshi
che controllava e manovrava l’attuale shogun; ultimamente i Miyoshi
non se la passavano troppo bene, da quando il loro ultimo signore era morto
lasciando tre fratelli incapaci ed ambiziosi a contendersi il comando, ma con
la minaccia di perdere la propria influenza nella capitale a pesare sulle loro
teste poteva capitare che mettessero da parte le loro rivalità per fare causa
comune contro il nemico e riprendere a farsi la guerra in un secondo momento.
La
prima armata era guidata da AzaiNagamasa
e TokugawaIeyasu, e
sarebbe arrivata a Kyoto da oriente. Ieyasu,
nonostante la giovane età, era un generale esperto, e aveva già dato prova di
possedere un acuto spirito strategico; quanto a Nagamasa,
era legato a doppio filo a Nobunaga, avendone sposato
alcuni anni prima la sorella Oichi.
La
scelta di destituire uno shogun, per quanto fantoccio, non era passata
inosservata, e aveva suscitato un mare di risentimento tra i signori della
guerra ancora indipendenti e che si opponevano alla campagna di conquista di Nobunaga.
E
infatti, come Ieyasu aveva previsto, il clan Rokkaku, storico alleato dei Miyoshi
che comandavano Kyoto, era pronto ad intervenire per impedire il colpo di stato,
e secondo gli esploratori inviati a raccogliere informazioni aveva in programma
di muovere guerra a Nobunaga nel momento in cui fosse
iniziato l’assedio alla capitale, così da intrappolare gli assedianti in una
morsa a tenaglia attaccandoli contemporaneamente da davanti e da dietro.
Proprio
ad impedire che tutto ciò potesse accadere era destinata la prima armata, il
cui compito era quello di stringere d’assedio i castelli dei Rokkaku situati lungo la strada per la capitale onde
impedire loro, oltre che di minacciare la campagna, anche di avvertire gli
alleati di quanto stava accadendo. Nel frattempo la seconda armata, guidata da Nobunaga in persona, e con al seguito il futuro shogun,
avrebbe raggiunto la capitale arrivando da sud lungo percorsi alternativi e
poco battuti, piombando sul nemico senza preavviso e sbaragliandolo prima che
questi avesse anche solo il tempo di organizzarsi.
L’assedio
ai tre castelli dei Rokkaku non si sarebbe rivelata
un’impresa troppo impegnativa; erano strutture vecchie e poco fortificate,
oltre che pesantemente danneggiate da conflitti precedenti, e la loro conquista
non avrebbe richiesto che poche settimane. Ognuno dei due generali comandava l’assedio
ad una delle due fortezze principali, mentre l’assedio al terzo castello era
stato affidato a TadakatsuHeihachiro
Honda, il più fedele e brillante dei generali di Ieyasu.
A differenza della maggior parte degli altri
signori della guerra, Nagamasa e Ieyasu
sembravano attribuire una certa importanza alla vita dei propri soldati, ma se
nel caso del primo questo si traduceva in una certa indecisione e difficoltà
nell’ordinare attacchi ad altro rischio, nel caso del secondo invece tale
condotta non pregiudicava minimamente la sua capacità di riportare grandi
vittorie.
Ieyasu era infatti uno stratega eccezionale, capace di trarre
vantaggio da qualsiasi cosa, anche la più improbabile.
In
quel caso particolare, il suo alleato principale era il sole.
Combattere
sotto l’opprimente calura di agosto poteva essere un vero problema, soprattutto
per degli assediati acqua razionata, e costretti a guardare da lontano gli
assalitori che si rifornivano senza sosta dal vicino torrente, per non parlare
di quelle tremende armature nelle quali ci si squagliava letteralmente dentro.
Dopo
soli cinque giorni dall’inizio dell’assedio, con gli assediati cotti a puntino,
Ieyasu aveva quindi ordinato un attacco totale al
cancello secondario nell’ora più calda, poco dopo mezzodì, impegnando buona
parte delle sue truppe, e mentre i Rokkaku si
affannavano a respingere quell’assalto un manipolo di shinobi
guidati da HattoriHanzo,
detto anche Hanzo il Demonio, si infiltrarono nella
fortezza e uccisero le poche guardie a presidio del portone principale, lasciato
pericolosamente sguarnito, che poco dopo si spalancò.
I
Tokugawa a quel punto dilagarono nel castello,
travolgendo i Rokkaku, che colti di sorpresa opposero
una resistenza quasi nulla. Lo stesso Ieyasu prese
parte alla battaglia, ma quando lui e i suoi uomini raggiunsero la stanza in
cima al castello il generale nemico, un ragazzetto poco più che ventenne, aveva
già compiuto seppuku.
I
suoi occhi erano ancora spalancati, la sua espressione innaturale, piegata in
un ghigno di dolore. Non tutti riuscivano a restare impassibili mentre si sventravano
con un pugnale; persino i samurai più anziani e temprati dalle battaglie
talvolta, nell’atto di darsi la morte, tradivano la paura o il dolore.
Ieyasu si tolse l’elmetto, rivelando il volto di un uomo
dalle fattezze leggermente paffute, con un accenno di barba a contornargli la
bocca e guance un po’ grassocce, ma con uno sguardo profondo e penetrante ed un’espressione
che trasmetteva un senso di fierezza e risolutezza.
Inginocchiatosi,
con un cenno della mano chiuse gli occhi al giovane avversario, e quando uno
dei suoi uomini tentò di decapitarlo perché la sua testa potesse essere
presentata a Nobunaga quale segno di vittoria Ieyasu lo fermò.
«La
testa di un ragazzo non ha alcun valore.» disse secco «Tanto vale lasciargliela
sul collo».
In
quella un samurai arrivò nella stanza, inginocchiandosi immediatamente.
«Il
nobile Tadakatsu ha preso il terzo castello, mio
signore!»
«Capisco.»
rispose lui senza voltarsi «E Nagamasa, invece?»
«L’assedio
è ancora in corso, mio signore.»
«Quel
ragazzino. Avrà anche un buon cuore, e un animo generoso, ma se continuerà a
permettere alle sue emozioni di decidere per lui un giorno o l’altro finirà per
pentirsene».
Tornato
sui suoi passi, Ieyasu fece ritorno al suo
accampamento all’esterno del castello, e qui trovò ad attenderlo un messaggero
degli Oda.
«Un
messaggio dal mio signore.» disse quello inginocchiandosi a sua volta e
piegando la testa «Il nobile Nubunaga sta
attraversando con le sue truppe la provincia di Tamba.
Nessuno si è accorto fino ad ora del suo arrivo.»
«Vorrei
vedere. Con quello che abbiamo fatto per attirare l’attenzione di tutti
altrove.
Dove
si trovano in questo momento?»
«Entro
domani attraverseranno la valle di Ookami, e in
cinque giorni al massimo raggiungeranno la capitale.»
«La
valle di Ookami.» disse Ieyasu
come pensieroso «Che peccato. A quanto pare, anche quell’ultimo eremo di
tranquillità sarà infine travolto da questa maledetta guerra».
La mietitura era ormai vicina, e il
raccolto andava così bene che per un giorno, eccezionalmente, tenendo conto
anche del caldo, gli abitanti del villaggio avevano deciso di concedersi un
giorno di riposo e di non lavorare.
Alcuni
di loro, approfittando di quell’insperato momento di pausa, avevano deciso di
riprendere in mano i lavori di ricostruzione della torre campanaria al centro
del villaggio, distrutta alcuni mesi prima durante una violenta tempesta e mai
rimessa a posto.
Mentre
gli uomini lavoravano, le donne facevano avanti e indietro con le otri piene
per portare loro un po’ di acqua fresca con cui combattere l’impietoso
martellare del sole.
Anche
Iguro dava il suo contributo, e come in ogni altra
cosa alla quale si dedicava era infaticabile.
Sua
madre venne a porgergli l’otre, e lui, che si era fatto prendere a tal punto
dal lavoro, accortosi di quanto stanco e sudato fosse accettò di buon grado.
«C’è
qualcosa che non va?» domandò Suzue «Mi sembri
strano.»
«Niente
di serio, madre. È qualche notte che dormo male.»
«Sempre
quei sogni?».
Il
ragazzo chinò il capo e fece cenno di sì.
«Ancora
non capisco che cosa vogliano dire. Tutti quei luoghi sconosciuti, quelle genti
così strane. Sono sicuro di non aver mai visto niente del genere. Ma se è così,
perché tutto ciò fa parte dei miei sogni?»
«Si
dice che i sogni siano il punto di collegamento tra noi e i nostri antenati. Forse
è il loro modo di comunicare con te.»
«Ma
se è così, cosa vorranno dirmi? Io non capisco.»
«Abbi
pazienza, figliolo. Con il tempo, sono sicura che tutto ti apparirà chiaro».
Prima
di mezzodì la torre era ormai finita, quindi fu il momento di issare nuovamente
in cima la pesante campana di ferro; fu necessaria la forza di dieci uomini per
trasportarla alla base della struttura, e altri cinque ne servirono al momento
di issarla con la carrucola e agganciarla al suo alloggiamento.
Quindi,
alla presenza di tutto il villaggio, venne battuto il primo colpo, salutato
dagli abitanti con un grido di festa, che subito dopo demolirono ancor più
festanti la torre piccola e di fortuna che avevano eretto in sostituzione dell’originale.
«Finalmente,
potremo tornare dai campi al suono della nostra cara, vecchia campana.» disse Takemura osservandola soddisfatto.
Venne
quindi allestito in tutta fretta un festino nella piazzetta a cui presero parte
tutti i contadini; di solito quel tipo di celebrazioni si facevano solo al
termine della mietitura, ma vista l’eccezionalità dell’evento e l’abbondanza
del raccolto che stava per venire, per una volta era lecito ed ammesso
festeggiare due volte.
Mentre
tutti festeggiavano, alcuni bambini, dribblando l’attenzione degli adulti,
salirono sulla torre per godersi il panorama.
D’un
tratto, la loro attenzione fu attirata da una strana nuvola di polvere che si
sollevava sul sentiero diretto a sud e che sembrava avvicinarsi con grande
velocità al villaggio.
«Ehi
voi, che fate lassù?» domandò Iguro, accortosi di
loro «Scendete subito, è pericoloso.»
«Abbiamo
visto qualcosa.» disse una bambina.
Dapprincipio
il ragazzo pensò che stessero solo fingendo, giusto per avere la scusa per
restare un altro po’, ma poi, data la loro insistenza, salì a sua volta per controllare
se stessero dicendo la verità.
«Avete
ragione.» disse quando ebbe notato a sua volta la nuvola di polvere «C’è
qualcosa laggiù.»
«Che
cosa pensi che sia?» domandò il figlio del capo villaggio
«Non
lo so».
Poi,
però, qualcosa cominciò ad intravvedersi, e l’espressione di Iguro, da preoccupata, si fece terrorizzata.
«Mio
Dio.» mugugnò, quindi si sporse dal parapetto «Samurai! Arrivano dal sentiero a
sud! Vengono verso di noi!».
Gli
uomini che Iguro aveva visto arrivare era la seconda
ondata dell’esercito di Nobunaga, quella destinata a
raggiungere Kyoto per cogliere di sorpresa i Miyoshi
e spodestare lo shogun.
Purtroppo,
non era affatto raro che un’armata di samurai sottopagati e malnutriti
decidesse di racimolare del bottino extra razziando ogni villaggio che aveva la
sfortuna di trovarsi lungo il loro cammino, ed era esattamente questo che gli
uomini di Nobunaga si stavano preparando a fare, con
grande divertimento e soddisfazione da parte di Ashikaga,
che dall’alto del suo cavallo in cima ad un piccolo crinale osservava ridacchiando
i soldati lanciarsi contro lo sfortunato villaggio urlando e sfoderando le
armi.
Bassetto
e minuto, aveva un aspetto orribile, un volto aguzzo e sgraziato contornato da
due piccoli occhi neri e che ben si portava ad ospitare su di sé un’espressione
sadica e malevola.
«Bruciate
tutto! Distruggete tutto! Vi autorizzo io! Radete al suolo! Bruciate! Non deve
restare niente!».
Poco
dopo lo raggiunse Nobunaga, il signore di Owari, il più potente daimyo del
Paese.
Contrariamente
a lui, era un uomo di bellissimo aspetto, alto e slanciato, con lungi capelli
neri raccolti alla maniera dei nobili d’alto rango, un accenno di barba tutto
intorno alla bocca e occhi scuri pieni di carisma.
Indossava
un’armatura strana, dalla foggia sia orientale che occidentale, completamente
nera, e sia il cavallo che montava sia la spada che aveva alla cintura, una
lama dritta e a doppio filo, erano un dono fattogli da alcuni missionari
occidentali per la generosità e la magnanimità dimostrate nei loro confronti;
alla cintura aveva anche una pistola, un bello schioppo portoghese di legno e
ottone con il cane alzato e pronto al fuoco.
«Non
abbiamo tempo per saccheggi e razzie, amico mio.» disse calmo
«Questo
villaggio è da sempre una tana infetta di serpi Miyoshi.
Era da tempo che desideravo estirparlo, ma non riuscivo mai a trovare l’entrata
di questa maledetta valle.
Ma
ora, grazie a te e ai tuoi esploratori, finalmente ci sono riuscito, e ora mi godrò
appieno la sua distruzione».
La
campana, che avrebbe dovuto scandire da lì in avanti momenti festosi, venne
invece suonata per informare tutti dell’arrivo dell’attaccato.
Purtroppo,
si rivelò un gesto inutile; prima ancora che gli abitanti potessero anche solo
rendersi conto di quello che stava per succedere, i soldati si abbatterono sul
villaggio come un’onda gigantesca su di un porticciolo.
I
più piccoli, soprattutto bambini, vennero travolti dalla carica, e molti di
quelli che scappavano si trasformarono in bersagli mobili per gli arcieri a
cavallo. Tutto ciò che si muoveva veniva attaccato, e a nulla valsero i
tentativi di alcuni di opporre resistenza armati di forconi e altri attrezzi
contadini.
Quando
arrivò l’ondata Iguro non era ancora sceso dalla
torre, che privata di tre dei suoi quattro cavi di sostegno presto crollò,
vanificando il lavoro di un’intera mattinata. Il ragazzo riuscì a saltare giù
all’ultimo momento, cadendo sul tetto di una casa vicina e sfondandolo, ma
finendo in questo modo a tu per tu con un soldato che stava saccheggiando la
casa. Questi tentò di infilzarlo mentre era ancora a terra, ma fulmineo Iguro si alzò e con un calcio allontanò il samurai,
rubandogli la naginata rimasta conficcata nel tatami,
quindi quello sguainò la spada.
Iguro come soldato aveva pochissima esperienza, e
praticamente nessuna nell’arte della naginata, o
comunque della lancia.
Eppure,
ciò nonostante, come prese in mano l’arma il ragazzo si sentì pervaso da una
strana euforia, e il tempo per un istante sembrò quasi fermarsi, per poi
ricominciare a scorrere come al rallentatore.
Il
samurai avanzò, urlando e brandendo la spada, ma senza difficoltà Iguro lo evitò, girò su sé stesso e con un fendente preciso
al millimetro gli squarciò in un sol colpo armatura e torace, lasciandolo senza
vita e in un lago di sangue.
Per
un attimo il ragazzo non riuscì a rendersi conto di quello che aveva appena
fatto, ma poi quella foga nuovamente lo pervase, e uscito all’esterno
ricominciò a combattere usando la spada sottratta al nemico appena ucciso.
Nel
mentre Takemura, rientrato in casa, scardinata una
trave del pavimento aveva rivelato un vano segreto contenente la sua katana,
tutto ciò che gli restava della sua vita passatala, e sguainatala si era
lanciato in quella che sapeva sarebbe stata la sua ultima battaglia.
Seppur
vecchio e zoppicante, la sua abilità era ancora quella di un guerriero nel
fiore degli anni, e quando cominciò a mozzare braccia e a tagliare gole la sua
bravura si rivelò tale che presto gli Oda si rivelarono timorosi di
affrontarlo.
Poco
distante, Iguro, ancora pervaso da quella foga
indescrivibile, continuava a combatte come un leone; i suoi movimenti erano
fluidi, armoniosi, impossibili da attribuire ad un principiante o ad un
contadino.
Tre
samurai gli si fecero incontro tutti insieme, armati rispettivamente di una naginata, una katana e una lancia. Iguro
uccise quello con la naginata con un preciso fendente
alla gola, schivò quello con la lancia atterrandolo con un calcio, scambiò un
paio di colpi con lo spadaccino quindi, schivato un secondo colpo di lancia,
affettata l’arma la ruppe in due con un solo colpo, decapitò di netto il
lanciere quindi, disarmato con la spada lo spadaccino, lo trafisse in pieno
petto con la punta di lancia.
Alzato
lo sguardo, vide, dall’altra parte dello spiazzo, suo padre, ancora intento a
battersi contro una marea di nemici.
Purtroppo,
a vederlo era stato anche Ashikaga, che riconosciuto
in lui il fedelissimo dei Rokkaku che tante volte gli
avevano messo i bastoni tra le ruote, strappato l’arco ad un soldato, e ancora
in sella al suo cavallo, aspettò che gli desse la schiena per poi colpirlo da
lontano con una scoccata precisa che lo trafisse alla spalla sinistra.
Atterrito,
Iguro lo vide tendersi allo spasimo, con lo occhi spalancati
e la schiena piegata spaventosamente all’indietro, per poi sputare un rivolo di
sangue ed accasciarsi infine a terra apparentemente morto.
«Padre!»
gridò correndo verso di lui.
Forse
fu colpa della rabbia, forse della disperazione, fatto sta che quella lucida ed
incomprensibile efficienza che lo aveva guidato fino a quel momento, come era
comparsa, sembrò scomparire, facendolo tornare il ragazzino inesperto e
impreparato di sempre.
Un
gruppetto di nemici gli sbarrarono la strada, ma lui, incapace di opporsi a
loro con la stessa, infallibile precisione di poco prima si ritrovò a mulinare
la spada come un viaggiatore farebbe con il suo bastone per respingere un
branco di lupi.
I
soldati tennero per un momento le distanze, poi uno di loro si fece avanti ferì
il ragazzo di striscio ad un fianco.
La
rabbia si rivelò più forte del dolore, ma a quella ferita se ne aggiunse presto
un’altra, e un’altra, e un’altra ancora; tutte superficiali, ma non per questo
poco dolorose.
Quando
Nobunaga arrivò in mezzo a quanto restava del
villaggio, ormai quasi completamente dato alle fiamme, Iguro
era ancora lì, solo contro il mondo, incurante del sangue e della fatica a
gridare e ad agitare la spada, mentre i samurai tutto intorno a lui sembravano
ridersela divertiti, aspettando solo l’occasione migliore per mettere fine ai
giochi.
A
prima vista poteva sembrare uno come tanti altri, uno di quei contadini
disperati come ne aveva visti tanti, aggrappati alla vita con le unghie e con i
denti sorretti soltanto dalla disperazione.
Eppure,
qualcosa di lui lo colpì.
C’era
qualche cosa di strano nei suoi occhi; la sua non sembrava disperazione. E poi
quei lineamenti, così occidentali. Per lui i barbari d’oltreoceano erano tutti
uguali, ma quello aveva qualcosa di famigliare.
Ciò
nonostante, sfoderata la pistola, gliela puntò contro e, come lo vide guardare
verso di lui, gli sparò.
Iguro udì un dolore fortissimo al fianco destro, come se
mille spade insieme lo avessero trafitto nello stesso punto, mentre l’odore
acre della polvere da sparo si diffondeva tutto intorno assieme al fumo
prodotto dallo scoppio.
Il
ragazzo, attonito, cadde dapprima in ginocchio; tentò di respirare, ma il
respiro gli rimaneva strozzato in gola. Quindi, dopo aver tentato un’ultima,
disperata resistenza, si accasciò nel fango e nel sangue.
Uno
dei samurai si avvicinò per finirlo.
«Lasciatelo
lì!» comandò Nobunaga riponendo la pistola «Ormai è
già morto».
Ashikaga si avvicinò invece a Takemura,
ancora vivo ma agonizzante, riverso sul petto ai piedi del muretto di una casa.
Con un calcio lo girò, e come Takemura lo guardò
negli occhi con quello sguardo sofferente ma fiero, Ashikaga
rise.
«È
davvero un piacere vederti così, amico mio.»
«Cane
schifoso. Non hai un briciolo di onore.»
«E
tu allora? A fare il contadino?»
«Quanto
hai valutato… la tua dignità…
quando l’hai venduta agli Oda?».
Yoshiaki gli mollò un nuovo calcio, stavolta al mento,
quindi sguainò la spada.
«Porta
i miei saluti al tuo signore.» disse prima di infilzarlo.
In
un estremo atto di sadismo, non colpì un punto vitale; voleva godersi la morte
di uno dei suoi più agguerriti nemici un po’ per volta. Tuttavia, per quanto
rigirasse e muovesse la lama, le urla di Takemura
erano molto più contenute di quelle che avrebbe voluto, e alla fine,
spazientito, gli inflisse il colpo di grazia trapassandogli il cuore.
Iguro, che era ancora cosciente, assistette impotente all’intera
scena, mugugnando di lasciare in pace suo padre mentre le lacrime gli rigavano
il volto, poi una stanchezza senza fine lo pervase, e tutto divenne nero.
Nota dell’Autore
Eccomi
qua!^_^
Vi
ricordate di me?
Ma
soprattutto, vi ricordate di questa fanfic? Era da un
sacco di tempo che non l’aggiornavo, questo nonostante continuassi a promettere
a cartaccia bianca e a me stesso di farlo.
Ma
ora è successo un fatto importante.
Mi
sono laureato! E con la fine dell’università, sono tornato padrone del mio
tempo, e la prima cosa che ho voluto fare è stato riprendere in mano questa fan
fiction, che all’epoca aveva, ed ha ancora oggi, una grande importanza per me.
Un
altro motivo per il quale ho voluto riprenderla in mano è lo scarso interesse
(per non dire nullo) riservato all’altra fanfic che
avevo da poco iniziato su AC, quindi ho deciso di riprendere questa per vedere
se avrà maggior fortuna.
Questo
capitolo è breve, molto più breve dei miei standard abituali, ma perora non
riesco a scrivere di più. Sono troppo stanco.
Ringrazio
Cartacciabianca, Miss Revenge,
Renault e Kimi per le loro
recensioni
Grazie
di tutto!^_^
Infine,
una notizia.
Questa
fan fiction, approssimativamente di una ventina di capitoli, avrà un seguito, Assassin’sCreed 2.5 –
Parte Seconda – Le Memorie di Sekigahara, che
invece dovrebbe aggirarsi sui dodici capitoli.
Vi
prego, ditemi cosa ne pensate. Una recensione non fa mai male, e potrebbe
servire a migliorarmi.
2
Iguro non sapeva per quanto tempo fosse
stato immerso nel tetro oblio della morte.
Ore,
giorni. Settimane.
Di
certo non si aspettava di riaprire gli occhi; quando lo fece, però, lottando
con il dolore che lo dilaniava in ogni parte del corpo, desiderò di non averlo
mai fatto.
Il
suo villaggio, quell’eremo di pace e di armonia, placidamente adagiato nella
vallata e circondato dalle risaie, non esisteva più; al suo posto, avvolto in
una nebbia spettrale e immersa in una luce soffusa, come da anticamera
dell’oltretomba, solo una distesa di terra insanguinata, corpi senza vita,
ruderi devastati e legni bruciati.
Nessuno
era stato risparmiato.
Uomini,
donne, bambini, vecchi. Tutte le persone che aveva mai conosciuto ora giacevano
senza vita nel loro stesso sangue, trafitti dalle frecce, sventrati dalle
spade, infilzati dalle lance.
Molte
donne, le più giovani, erano state violentate, e sicuramente qualcuna era stata
portata via, macabra e crudele consuetudine dei samurai di più alto rango che
così facendo accrescevano il numero delle proprie dame di favore evitando di
doverle comprare in qualche mercato.
Lottando
con il dolore, cercò di rimettersi in piedi, ma come riuscì a poggiare
nuovamente sulle sue gambe una fitta terribile al fianco destro lo costrinse a
lanciare un urlo di dolore. Sgomento, si guardò la parte lesa, appena
distinguibile sotto la tunica insanguinata; il proiettile sparato dall’uomo a cavallo,
quella specie di demone nero che aveva intravisto allontanarsi dopo averlo
colpito, lo aveva ferito solo di striscio. Una ferita trascurabile, ma che
unita a tutte le altre si era rivelata più di quanto il suo fisico potesse
sopportare.
Il
sollievo per essere riuscito, in qualche modo, a sopravvivere, fu ben presto
annientato dalla consapevolezza che lui sembrava essere stato il solo al quale
il destino aveva voluto guardare con benevolenza.
Come
un fantasma, si ritrovò a camminare senza meta in mezzo a quella distesa
informe di cadaveri e corpi straziati, chiamando con la poca voce che riusciva
a trovare i propri amici, chiedendo se ci fosse qualcuno ancora vivo, ma i suoi
appelli si perdevano nella nebbia.
Un
cane selvatico intento a dilaniare una carogna si diede alla fuga dopo avergli
ringhiato un momento contro appena lo aveva visto arrivare; tutto era
desolazione e morte.
Quasi
per caso, si ritrovò a tu per tu con il corpo senza vita di suo padre.
«Padre…» mormorò inginocchiandosi.
Anche
nella morte, Takemura aveva saputo mantenere tutto il
suo orgoglio; i lineamenti erano distesi, l’espressione serena, gli occhi
chiusi. Sembrava quasi che stesse dormendo, ma la veste arrossata e il moncone
di freccia nello sterno testimoniavano la cruda realtà.
Solo
dopo, quando le lacrime smisero per un momento di inondargli gli occhi, Iguro
si accorse che quello sul quale suo padre era appoggiato con la schiena era il
muretto della loro casa; per chissà quale miracolo, il fuoco non l’aveva
raggiunta, ma i segni del passaggio di quei barbari razziatori erano più che
evidenti.
Avventuratosi
all’interno, non prima di aver composto per quanto possibile il corpo di suo
padre ed averlo seppellito, la sua disperazione se possibile divenne ancora più
grande quando, entrato nella saletta da pranzo, trovò sua madre riversa sulla
schiena, con una spaventosa ferita alla spalla sinistra, i capelli strappati e
spettinati e il volto tumefatto.
«Madre!»
disse correndo da lei.
Lei
aprì leggermente gli occhi, un gesto semplice ma che le costò, sicuramente, un
enorme sforzo.
«I…Iguro…»
«Madre… resisti. Ti salverò…»
«Lascia
stare… ormai per me è finita…
e tu lo sai.»
«Madre…» disse il ragazzo a denti stretti, sforzandosi di
non piangere
«Figlio
mio. C’è una cosa che devo dirti… finché ne ho la
forza.» quindi chiuse un momento gli occhi, come a voler richiamare a sé le
ultime forze per trovare il coraggio di parlare «Iguro…
tu non sei nostro figlio.»
«Che
cosa!?» replicò il ragazzo spiazzato
«Tua
madre… era una nobildonna…
di Nagasaki. È lì… che tu sei nato.»
«A
Nagasaki!?»
«Tuo
padre… era un comandante di navi. Veniva da
occidente. Io servivo nella loro casa. Ti ho… ti ho
visto nascere. E quando la loro famiglia venne spazzata via da una congiura…lui… ti affidò a me. Mi
disse di nasconderti… di farti crescere in pace.
Voleva
che tu… avessi una infanzia felice. In previsione di
quello che ti aspettava.»
«Di
che stai parlando?»
«Tuo
padre era speciale. Non era venuto in questo Paese…
solo come mercante… e navigatore. Lui…
aveva una missione. Ma ha fallito. Sua moglie, tua madre, è morta…
e lui… è stato costretto a scappare».
Un
violento colpo di tosse costrinse la donna a fermarsi; fiotti di sangue
colarono dalla sua bocca, e il suo respiro si fece sempre più affannoso.
«Madre!».
Lei
allora, sollevato il braccio, indicò in alto, verso il piccolo altare degli
antenati affisso alla parete; gli oggetti sacri come quello erano l’unica cosa
che persino dei samurai razzatori, a meno che non fossero realmente disperati,
evitavano di toccare, pena una sventura e una sorte terribili per mano degli
dèi che avevano offeso.
Iguro,
poggiata delicatamente la madre sul tatami, si alzò e si avvicinò al tempietto,
sfiorandolo con le mani, quindi guardò di nuovo la donna.
«Rompilo.»
disse lei.
Lui,
dapprincipio, esitò, anch’egli timoroso delle conseguenze di un gesto così
blasfemo, ma poi, dinnanzi allo sguardo d’acciaio della madre, afferrò l’altare
e lo scaraventò a terra con tutta la sua forza, riducendolo in pezzi.
Tra
le schegge di legno, come per magia comparve un oggetto strano; sembrava un
bracciale, un bracciale di cuoio rinforzato e decorato con intarsi d’argento,
uno dei quali raffigurava due asticelle disposte a formare una sorta di
compasso.
Un
oggetto occidentale senza dubbio, opera di un artigiano espertissimo. Attonito,
Iguro lo raccolse, rigirandoselo tra le mani.
«Quell’oggetto… mi fu affidato da tuo padre. Disse di dartelo… quando fossi stato pronto. Non so…
se tu lo sia… ma ormai… il
mio tempo è scaduto».
Un
rantolo di agonia annunciò quelli che erano gli ultimi momenti di vita della
donna.
«Madre!»
disse Iguro tornando da lei
«Voglio
che tu sappia… che io e tuo padre…
ti abbiamo… sempre amato. Amato…
come un figlio. Siamo entrambi immensamente fieri di te.»
«Madre.
Anche io ringrazio il cielo di essere stato vostro figlio. Ma ti prego. Non
morire. Non mi lasciare.»
«Ormai
è giunto il mio momento.» disse, quindi prese Iguro per la collottola «Vai… vai ad Hakuba.»
«Perché?
Cosa c’è ad Hakuba?»
«Il…tuo…destino…».
Aquel punto, dopo aver accarezzato brevemente
il volto del figlio accennando un sorriso, Suzue
spirò.
Iguro
ormai non aveva più lacrime per piangere, ma strinse a sé il corpo della madre
con tutte le sue forze e poggiò la fronte sul suo seno, cercando di raccogliere
quel poco di calore che ancora vi albergava.
Poco
dopo, portatala delicatamente all’esterno, la seppellì, proprio accanto a Takemura; il pensiero che i suoi genitori si fossero
ricongiunti lo faceva stare un po’ meglio, ma il dolore era incontenibile, e
con esso la rabbia.
Il
suo primo pensiero era di correre dietro ai bastardi che avevano attaccato il
suo villaggio ed ucciderne quanti più poteva, ma ciò che restava del suo
raziocinio gli diceva che in questo modo avrebbe ottenuto solo di morire
inutilmente.
Dopo
aver rivolto le preghiere di rito, guardò il bracciale trovato nascosto
nell’altare, ora infilato al polso sinistro.
Se
sua madre aveva voluto a tutti i costi che lo avesse, doveva essere qualcosa di
veramente speciale.
Di
colpo, gli tornò in mente quella strana euforia che aveva provato nel mezzo
della battaglia, e gli venne voglia di scoprire cosa ci fosse di tanto
importante ad Hakuba da spingere sua madre a usare le
poche forze che le erano rimaste prima di morire ad invitarlo, quasi con tono
di ordine, ad andarci.
Ciò
che aveva appena sentito era stato per lui come un colpo al cuore.
Ora
si spiegava quel senso di estraneità che lo aveva accompagnato fin da quando
gli riusciva di ricordare, quella consapevolezza di essere diverso che non
riusciva a spiegarsi ma che percepiva come reale.
Chi
era suo padre?
Anche
questo voleva scoprire. La lista delle domande, dei quesiti sulla sua vita,
diventava sempre più lunga, e qualcosa gli diceva che solo ad Hakuba avrebbe trovato le risposte. E poi chissà, poteva
anche darsi che laggiù avrebbe incontrato qualcuno pronto ad insegnargli come
sfruttare quella sorta di istinto guerriero che poco prima si era impadronito
di lui, permettendogli così di aspirare ad ottenere la propria vendetta.
Alzato
lo sguardo, vide un cavallo che pascolava tranquillamente in un cortiletto con
in sella il cadavere di un samurai infilzato alla schiena da un forcone.
Avvicinatosi,
gettò a terra il corpo e calmò l’animale, quindi, salitovi in groppa, lasciò il
villaggio; prima di andarsene, raggiunta la cima di una collinetta, si volse
un’ultima volta a guardare quell’eremo di pace violata in cui era cresciuto, e
che in tutta la vita non aveva mai lasciato, poi, con gli occhi lucidi, gli
volse le spalle, dirigendosi verso l’uscita della valle.
Nagasaki
Settembre
1568
Da quando gli occidentali avevano
incominciato ad insediarsi nel Paese, la città di Nagasaki, il più grande porto
commerciale e militare del sud, era diventata il centro culturale più multietnico
dell’Impero.
Tra
le sue strade non era raro incontrare mercanti, dignitari e religiosi
stranieri, soprattutto europei, e i porti pullulavano di imbarcazioni
occidentali, così grandi e maestose che al confronto anche i più grandi
vascelli locali sembravano barchette da diporto.
Ovunque,
e soprattutto nei quartieri a sud, erano state costruite case, negozi,
magazzini e luoghi di culto occidentali, e non era raro, camminando in quelle
zone, imbattersi in uomini vestiti di nero, sacerdoti come venivano chiamati
dai barbari, che indottrinavano e predicavano i rudimenti e la magnificenza
della propria fede ai passanti.
Le
conversioni a questa nuova religione, il cui simbolo era una croce, si erano
fatte abbastanza numerose negli ultimi anni; correva voce che anche molti
signori locali si fossero convertiti, infatti non era raro vedere le portantine
di alcuni di loro scortate nelle loro uscite ufficiali da quegli uomini in
nero.
Da
quando l’ultimo vicario dell’ordine dei Gesuiti, così si facevano chiamare,
aveva lasciato il Paese, il potere effettivo era gestito da Paolo Miki, un locale convertito; giovane e bello, aveva lunghi
capelli neri, e se non fosse stato per il voto di castità impostogli dal suo
status, con quei suoi tratti gentili e quasi femminei avrebbe fatto strage di
cuori tra nobildonne e principesse di ogni nazione.
Quella
mattina, molto presto, Paolo e alcuni altri sacerdoti avevano lasciato
l’abbazia in cui risiedevano, un vecchio tempio zen riconvertito a chiesa
cristiana, e si erano diretti al porto, dove verso mezzogiorno era approdata
una nave battente bandiera portoghese, ma con sulla prua un’insegna di legno
dipinta di rosso sulla quale erano raffigurate due chiavi incrociate.
I
ponticelli vennero calati, e da uno di essi, tra i primi a sbarcare, scese un
giovane sacerdote dai tratti gentili.
Doveva
avere pressappoco la stessa età di Paolo, tra i ventisette e i trent’anni, ma i
suoi tratti erano chiaramente occidentali; capelli rossicci abbastanza lunghi,
barbetta attorno alla bocca, occhi ambrati grandi e profondi, corporatura
slanciata e robusta.
Paolo
e gli altri piegarono la testa, e lui gli si avvicinò.
«Benvenuto
a Nagasaki, vostra eccellenza Valignano.»
«Voi
siete Paolo Miki, ho ragione?»
«Sì,
vostra eccellenza. Sono il capo dei Gesuiti di questa città.
Se
volete seguirmi, vi accompagnerò all’abbazia».
Il
corteo compì quindi a ritroso il cammino dal porto al convento, e una volta
giuntivi i due religiosi andarono subito ad appartarsi in un angolo tranquillo
del giardino che circondava l’edificio.
Il
nuovo arrivato restò un momento in silenzio a rimirare la perfezione e la
straordinaria bellezza del giardino, un eremo di pace e di assoluta perfezione
gestito con mano sapiente da un piccolo gruppo di esperti giardinieri. Nella
sezione occidentale, un piccolo laghetto a forma di girino ospitava sulla sua
superficie tre piccole isole, collegate tra di loro e con la terraferma da
ponticelli di pietra; lungo le sponde, salici piangenti e alberi di ciliegio
protendevano i loro rami fin oltre il ciglio, e nell’acqua nuotavano stuoli di
pesci dai colori più diversi.
«Che
posto è bellissimo. Mai visto niente di simile.»
«In
questo Paese quella del giardino è a tutti gli effetti un’arte. Il nostro
popolo vi dedica la stessa cura ed attenzione che rivolge alla propria anima.»
«Capisco».
Si
sedettero ad un elegante tavolino di pietra all’ombra di una tettoia di legno,
e poco dopo un confratello venne a portare loro delle tazze di tè con anche dei
curiosi dolcetti composti da tre palline dai vari colori infilzate in uno
stuzzicadenti.
«E
questo?» domandò Valignano
«È
un mocchandango. Un dolce
di riso. Il colore delle parti è dato dal ripieno.»
«Molto
buono.» commentò l’ospite dopo averlo assaggiato.
In
quella, uno strano tremore scosse l’intero giardino; sembrava provenire
direttamente dal terreno, tanto che Valignano guardò
in basso con un accenno di preoccupazione.
«Dovrete
farci l’abitudine, vostra eccellenza.» disse Paolo dopo aver accennato, non
visto, una risatina «In questo Paese purtroppo la terra è piuttosto bellicosa.»
«Da
quello che ho sentito, mi pare che tutto in questo Paese sia piuttosto
bellicoso».
A
quelle parole Paolo cambiò subito espressione, abbassando lo sguardo.
«Purtroppo,
la situazione in questo momento non è per niente rosea. Giusto pochi giorni fa,
Nobunaga Oda è entrato nella capitale con le sue
truppe e ha preso il controllo della città. Lo shogun è stato ucciso.» quindi
strinse i pugni e digrignò i denti «Avevamo faticato tanto per riuscire a
metterlo al potere, ed è durato meno di sei mesi.»
«Ho
sentito parlare di questo Nobunaga Oda. Sembra stia
creando parecchi problemi.»
«E
non è il solo problema. Purtroppo, da quando il nostro ultimo vicario è
scomparso nel nulla durante il suo viaggio in Cina, gran parte del potere e
dell’influenza che potevamo esercitare in questo Paese è andato disperso.»
«A
quanto pare, non ne siete stato informato.»
«Di
che cosa, vostra eccellenza?»
«Il
nostro confratello, Francesco Saverio, non è scomparso nel nulla. È stato
assassinato.»
«Assassinato!?»
esclamò Paolo quasi balzando in piedi.
Valignano sorseggiò un altro po’ del suo tè.
«Dunque
non sapevate niente. Immagino non si fidassero a sufficienza di voi. Siamo
abbastanza sicuri che gli Assassini abbiano messo radici in questo Paese.»
«Gli
Assassini!? Com’è possibile?»
«L’uomo
che ha ucciso Francesco Saverio era un occidentale, ma viveva in questo Paese.
Anche se siamo riusciti a renderlo inoffensivo, temiamo abbia avuto il tempo di
far nascere una confraternita.
È
questo uno dei motivi per i quali sono stato inviato qui.»
«Ora
che mi sovviene, la vostra fama di cacciatore di Assassini è quasi leggendaria
all’interno dell’ordine. Avete sradicato le confraternite degli Assassini in
tutto l’estremo oriente.»
«Sì.
Ma ho il sentore che qui sarà diverso. Da quanto ho avuto modo di apprendere
nel corso del viaggio, usando i documenti e i rapporti redatti dai miei
predecessori, questo è un Paese particolare. Non solo è perennemente in guerra
con sé stesso da mille anni, ma qui l’arte dell’omicidio e dell’assassinio
furtivo è estremamente diffusa e ben applicata.
Sarà
difficile rintracciare gli Assassini in questo stato di perenne confusione.
Quindi,
come prima cosa, sarà necessario mettere fine a questo caos. A quel punto,
potremo procedere nella nostra ricerca.»
«Mi
rincresce doverglielo dire, ma ci abbiamo già provato. Ma ogni volta che
cerchiamo di portare al potere uno o l’altro signore della guerra, dopo una
manciata di tempo arriva qualcun altro che lo spazza via.
Inoltre,
qui al sud gli occidentali sono visti con una certa benevolenza. Ma il centro
del potere è al nord, ad Honshu. E i nobili di laggiù
non hanno molta simpatia per noi.»
«Compreso…Nobunaga Oda?».
Di
nuovo, Paolo parve nascondere a stento lo sdegno.
«E
pensare che lo chiamavano il Pagliaccio di Owari. Ora
invece non c’è signore o potente in tutto il Paese che non lo tema. Abbiamo
provato a servirci anche di lui. Ma quel maledetto si è preso le nostre
tecnologie, le nostre conoscenze e ci ha mollati, e ora diffida di noi almeno
quanto diffida dei pochi che ancora lo contrastano.»
«Se
ho capito bene, questo Oda Nobunaga è un avversario
pericoloso.»
«Molto
pericoloso. È solo una questione di tempo. Prima o poi l’intero Paese sarà suo.
E a quel punto, le cose per il nostro ordine potrebbero farsi davvero
complicate.»
«Questo
non è detto. In fin dei conti, non siamo venuti qui per estendere il nostro
controllo sul mondo? Molte nazioni e colonie sono già sotto il nostro
controllo. Qui sarà la stessa cosa. A tal proposito, se davvero Nobunaga si appresta a diventare il nuovo signore di questo
Paese, non vedo perché non dovremmo cercare di intrattenere buoni rapporti con
lui.
Se
è davvero così potente, riuscire a farne nuovamente un nostro alleato sarebbe
un’ottima cosa.»
«Perdonate
la franchezza, ma non ci riuscirete. Quell’uomo agisce solo per sé stesso. Non
ha paura di niente, e gli piace dimostrarlo. Ha preso di petto situazioni
davanti alle quali anche il più coraggioso di noi sarebbe fuggito.
La
gente pensa che lui sia un oni?»
«Un
oni?»
«Uno
spirito, un demone. In ogni caso, un essere soprannaturale.»
«In
tal caso.» disse Valignano sorseggiando quanto
restava del suo tè «Tutto quello che dobbiamo fare è trovare un sostituto.
Qualcuno disposto a venire a più miti consigli.» quindi guardò Paolo «Mi hanno
parlato molto bene di voi, Paolo Miki. Al momento
giusto, le vostre abilità e la vostra esperienza sono sicuro potranno tornare
molto utili».
Provincia
di Shinsu
Settembre
1568
Iguro, non essendo mai uscito dai confini
del suo villaggio, non aveva idea di dove si trovasse Hakuba.
Durante
il viaggio, transitando per una piccola cittadina, aveva chiesto informazioni
ad un mercante, ma tutto quello che era stato in grado di scoprire era che il
villaggio si trovava da qualche parte tra le montagne che circondavano Nagano.
Ci
erano volute molte settimane, ma ora sentiva di non essere molto lontano.
In
tutto quel tempo, le ferite avevano avuto modo di guarire, e ora sentiva di
essere tornato, se non in perfetta, quanto meno in buona forma.
Non
avendo con sé né soldi né altro per pagarsi l’alloggio in qualche locanda,
aveva trascorso tutte le sue notti all’addiaccio, in una radura tra i boschi o
lungo il letto di qualche ruscello, al fuoco di un bivacco. Tuttavia, aveva
paura ad addormentarsi, perché se lo faceva le immagini di quel massacro
tornavano a perseguitarlo, risultando più terribili ed insopportabili anche di
quei sogni a cui non era ancora riuscito a trovare un senso.
Rivedeva
i suoi genitori, i loro volti tumefatti e devastati dal dolore, i suoi amici
morire ed osservarlo, immobili ed evanescenti come fantasmi, immersi nell’oscurità,
il suo villaggio cadere in macerie e popolarsi di spettri.
Durante
il viaggio, più di una volta era stato costretto a cambiare direzione per
evitare battaglie sanguinose che vedevano coinvolti gli eserciti di chissà
quali signori della guerra, e più passava il tempo più si rendeva in quali,
pietose condizioni fosse il Paese del quale fino ad ora non aveva conosciuto
che una piccola vallata.
A
metà del ventesimo giorno di marcia, dopo aver attraversato laghi, foreste,
fiumi e montagne, Iguro si era ormai inoltrato di molto nella provincia di Shinsu; tuttavia, nonostante fosse ormai a poche miglia da
Nagano, e per quante persone fermasse per chiedere informazioni, nessuno sapeva
spiegargli con certezza dove si trovasse Hakuba.
Alcuni
addirittura, per la maggior parte contadini che incontrava transitando lungo le
risaie, si rifiutavano di rispondergli, volgendo lo sguardo altrove e
seguitando a lavorare o a camminare.
Finalmente,
una vecchia signora ebbe pietà di lui e della sua espressione smarrita.
«Il
villaggio di Hakuba si trova a nord. Ai piedi del
monte Karamatsu.» poi aggiunse, minacciosa «Ma state
attento. Quello è un luogo infestato dal male, un covo di tagliagole esperti ed
infallibili. Nessuno di quelli che vi si è spinto è mai tornato, inclusi i
samurai.»
«I
samurai? Quali samurai?»
«Quelli
dei Takeda. Questa terra fa parte dei loro domini. Hanno
tentato più volte di sottomettere Hakuba, ma di tutti
gli eserciti che gli sono stati lanciati contro non ce n’è uno che abbia fatto
ritorno.»
«Capisco.
Grazie dell’informazione.»
«Fate
attenzione, giovane. Non vorrei faceste la stessa fine».
Ormai
certo di essere sulla strada giusta Iguro continuò a seguire il sentiero che
stava percorrendo, che in breve lo condusse ai piedi delle montagne che,
secondo le parole della vecchia contadina, circondavano Hakuba.
Nonostante
il sole e il grandioso spettacolo offerto dalle cime, alcune innevate
nonostante l’estate, dai boschi di pini pullulanti di vita e dai torrenti
impetuosi, quel posto emanava davvero un’aura, se non tetra, quantomeno
fortemente mistica. Sapeva quasi di luogo inviolato e inviolabile, dove a
nessuno straniero era consentito l’accesso.
Verso
mezzodì, dopo aver viaggiato per tutta la mattina attraverso il bosco, il
ragazzo uscì finalmente all’aperto, ma i suoi occhi si aprirono su di uno
spettacolo orribile.
Nella
radura, circondato da prati e risaie, stava un piccolo villaggio, per la verità
più uno sparuto agglomerato di povere case; un manipolo di samurai,
probabilmente quanto restava di una di quelle armate di cui aveva parlato la
vecchia signora, lo stava depredando, proprio come era successo con il suo,
razziando tutto quello che trovava e uccidendo chiunque resistesse o tentasse
la fuga, donne e bambini inclusi.
Prima
ancora che Iguro potesse comprendere appieno ciò che stava accadendo o decidere
cosa fare, un gruppetto di samurai che stavano setacciando i boschetti attorno
al villaggio in cerca di superstiti lo notarono, e presero a tirargli addosso
coi loro archi. Il ragazzo spronò il cavallo e si allontanò, riuscendo a
seminarli, ma poco dopo incrociò un gruppo di contadine che disperatamente
cercavano di mettersi in salvo dagli aggressori salendo lungo il crinale che
conduceva alla strada.
Due
di loro, a causa del terreno ripido e del pesante canestro che portavano ancora
sulla schiena, inciamparono, rotolando giù proprio in bocca ai samurai, uno dei
quali si preparò a finirle.
«Fermatevi!»
urlò senza pensarci.
Era
disarmato, senza niente con cui difendere sé stesso o quelle donne, ma
nonostante ciò decise che doveva fare qualcosa e lanciò il cavallo verso di
loro.
D’improvviso,
qualcosa in lui parve risvegliarsi; quello spirito guerriero che già aveva
saggiato nell’attacco al suo villaggio. Di nuovo, tutto parve andare al
rallentatore, e una strana foga si impadronì di lui, assieme alla certezza di
sapere cosa fare.
Il
cavallo saltò giù dalla strada, un salto di parecchi metri, e mentre l’animale
era ancora in volo il ragazzo saltò giù, proprio sopra ai samurai; con un gesto
repentino, inarcò il polso sinistro, e immediatamente dal fondo del bracciale
che portava ancora al braccio sinistro scaturì una lama lunga e sottile,
finemente decorata ed intarsiata.
Come
un dio della morte, piombò sul samurai che stava per uccidere le contadine,
buttandolo a terra e piantandogli la lama nella gola uccidendolo sul colpo. Con
la stessa rapidità, recuperò la spada del nemico appena ucciso e la usò per
trafiggere uno dei suoi compagni, ma l’arma restò incastrata tra le ossa e l’armatura
del morto e dovette lasciarla.
Un
terzo samurai ne approfittò, ma Iguro prima deviò la lancia, quindi la afferrò,
tirò l’aggressore a sé e gli piantò la lama del bracciale dritta in un occhio,
quindi usò l’arma appena conquistata per trafiggere un quarto nemico al
costato.
I
restanti samurai, cinque o sei, cominciarono ad indietreggiare, spaventati da
una tale dimostrazione di forza, e a quel punto ad Iguro bastò uno sguardo di
fuoco per convincerli a cambiare aria.
Altrettanto
fecero le contadine, che corsero via dopo aver brevemente ringraziato il loro
salvatore, e subito dopo, come era già accaduto prima, la foga,
improvvisamente, scomparve, abbandonando Iguro e lasciandogli soltanto un’immensa
stanchezza e un principio di vomito per la vista di come aveva conciato quegli
uomini.
Era
talmente impegnato a sforzarsi per non vomitare da non accorgersi che l’ultimo
samurai che aveva colpito, invece di venire ucciso, era stato solo ferito, per
quanto gravemente. Questi, rialzatosi e afferrata la spada, corse contro al
ragazzo, che ebbe a malapena il tempo di voltarsi.
Un
rimbombo assordante riecheggiò nell’aria, e quando già Iguro stava cominciando
a saggiare il sapore della morte il suo aggressore crollò a terra come spinto
violentemente da una mano invisibile, morto sul colpo.
Attonito,
il ragazzo guardò in alto, verso la strada.
Inginocchiato
a terra, e armato di uno di quei bastoni sputa fuoco del quale Iguro aveva
sentito parlare, stava un giovane uomo, pressappoco sulla trentina, i
lineamenti puliti e il viso molto bello, destinato senza dubbio ad attirare l’attenzione,
uno sguardo sbarazzino e provocatorio stampato in faccia e un’espressione
fiera, sicura di sé.
Dalla
cima della sua arma usciva un fumo grigiastro che emanava un odore
maleodorante, peggiore anche di quello del sangue.
Indossava
una casacca verde con le maniche lunghe, come un mercenario, e sotto di essa
parti di un’armatura, sicuramente sottratta a qualche nemico morto.
Alzatosi
in piedi dalla posizione inginocchiata, l’archibugiere misterioso guardò Iguro,
e come gli cadde l’occhio sul bracciale di cuoio le sue labbra si piegarono in
un sorrisetto divertito.
«Ma
guarda un po’.» disse tra sé e sé.
Sceso
dal crinale si avvicinò al ragazzo, prendendo a squadrarlo da capo a piedi;
Iguro si sentiva un po’ a disagio, anche perché non era certo di potersi fidare
appieno di quel tipo.
«Devo
ammettere che questo è l’ultimo posto in cui mi sarei aspettato di incontrare
un Assassino.»
«Un
Assassino!?» ripeté il ragazzo
«I
tuoi tratti mi sono molto famigliari. Tu devi il figlio del comandante Pinto.»
«Tu
conosci mio padre!?».
Quello,
di nuovo, sorrise.
Poco
dopo, da tutte le direzioni sbucarono decine di uomini vestiti di nero che
lanciatisi sul villaggio fecero strage dei samurai razziatori, uccidendoli o
costringendoli alla fuga; li guidava un uomo spaventoso, un gigante grosso come
una torre che impugnava un’enorme lancia.
Sembravano
degli shinobi, ma avevano qualcosa di strano; la loro
tecnica di lotta era particolare, così come i loro vestiti, una sorta di
tuniche con un lungo cappuccio che copriva loro il volto; inoltre, avevano
tutti al polso sinistro quei bracciali con la lama segreta.
«Ma
chi sei tu?» domandò perplesso e confuso Iguro rivolto al suo salvatore
«MagoichiSaika.» rispose lui
poggiandosi l’arma sulla spalla «Per servirti».
Scortato da Magoichi
Iguro raggiunse il villaggio di Hakuba, distante da
lì solo un paio di miglia.
A
prima vista sembrava un villaggio come tanti altri, costruito in cima ad una piccola
altura sulle sponde di un piccolo lago artificiale creato ponendo una diga sul
ruscello che scorreva poco distante.
C’era
però qualcosa di strano, come un che di mistico tanto nel luogo, recintato in
ogni direzione da alte e ripide montagne, fatta eccezione per lo stretto
passaggio ricoperto di bosco dal quale Iguro era passato, quanto negli
abitanti, soprattutto donne e bambini; vestivano tutti con indumenti locali, ma
i tratti somatici di alcuni di loro erano molto simili a quelli di Iguro, chiaramente
occidentali.
Sembrava
uno di quei villaggi shinobi dei quali il ragazzo
aveva sentito tanto parlare, quelli isolati dal mondo e impossibili da trovare
per chi non ne conoscesse l’ubicazione.
Il
nuovo venuto non passò inosservato, ma pochi furono quelli che fecero qualcosa
di più che sbirciare fuori dalle finestre.
Magoichi condusse Iguro in quella che aveva tutta l’aria di
essere la piazza centrale; al centro di quel grande spiazzo si trovava una
sorta di recinto quadrangolare delimitato da una corda, come una specie di ring
per i combattimenti.
La
piazza era dominata da una collina, in cima alla quale si trovava una
prestigiosa villa signorile circondata da un muro di cinta non troppo alto.
«Eccoci
arrivati.» disse Magoichi «Benvenuto ad Hakuba. D’ora in poi, questa sarà la tua casa».
Al
centro del quadrato in mezzo alla piazza, cinque uomini si battevano tra di
loro in un tutti contro tutti sfoderando armi di legno di vario genere; a
sorvegliarli, il gigante che Iguro aveva intravisto nell’attacco al villaggio,
e che ora, visto da vicino, sembrava ancor più spaventoso.
Se
gli oni* avessero avuto una forma, sarebbe stata la
sua; doveva essere alto quasi due metri, e l’armatura rosso fuoco che indossava
rendeva la sua imponenza ancor più annichilente. Anche il suo viso, seppur non
brutto, non ispirava molta simpatia, con quella mascella squadrata, quegli
occhi da tigre famelica e quell’espressione vagamente truce.
Il
suo sguardo trasmetteva una sensazione di indomito vigore, specchio di uno
spirito che aveva attraversato mille battaglie uscendone sempre vincitore.
«Così
non va’ bene!» sbraitò ad un certo punto rivolto a quelli che dovevano essere i
suoi allievi «Siete troppo lenti! Più sciolti nei movimenti, e metteteci un po’
di entusiasmo! Ho visto donnicciole maneggiare la katana meglio di voi! Ora
ricominciate daccapo, e guai a voi se mi deludete ancora!».
Il
gigante a quel punto si accorse dei nuovi venuti, avvicinandosi a loro.
«Ce
ne avete messo di tempo. Lo sapete da quant’è che siamo qui?»
«Ti
chiedo scusa.» rispose Magoichi «Ma ho voluto
assicurarmi che il villaggio fosse di nuovo tranquillo, e che in giro non ci
fossero altri sciacalli».
Quello
allora guardò Iguro negli occhi, e per farlo dovette quasi mettersi
accovacciato; il ragazzo si sentì a dir poco atterrito da quel volto truce, da
quello sguardo così indagatore e dalle dimensioni mastodontiche di quel tizio.
Se solo lo avesse voluto, sarebbe stato capace di stritolargli il cranio con
una mano.
«Allora
è lui.»
«Così pare.» disse Magoichi
«Sembra che qui ci
sarà un po’ di lavoro da fare. Un po’ tanto.»
«Credo
sia giusto fare le presentazioni. Questo campione di buone maniera è KeijiMaeda. E purtroppo per te,
sarà uno dei tuoi maestri.»
«Uno
dei miei maestri!?» ripeté Iguro «Di cosa state parlando.»
«Ehi,
Magoichi.» disse Keiji «Ma
questo qui ha una benché minima idea del casino in cui si trova?»
«Sembrerebbe
di no. A quanto pare, sarà necessaria una rapida spiegazione.
Vieni.
Parleremo in un posto più tranquillo».
Magoichi condusse Iguro nella villa in cima alla collina,
sorvegliata sia dentro che fuori da quelli che, a differenza degli altri,
sembravano comuni samura; a giudicare dall’aspetto
trascurato e dalla sobrietà con cui vestivano, dovevano essere dei ronin.
I
due si accomodarono in un salottino la cui porta aperta dava sul cortile
interno, e fu servito loro del tè da una delle domestiche, a cui Magoichi non mancò di fare un romantico apprezzamento che
fece arrossire l’interessata; che avesse l’aria dello sciupa femmine Iguro lo
aveva capito al primo sguardo, ma che lo facesse in modo tanto esplicito questo
non lo aspettava.
«D’accordo,
ora credo sia giusto darti una spiegazione.» disse Magoichi
facendosi improvvisamente molto più serio «Solo, ci sono così tante cose che ti
dovrei dire, che non so da dove cominciare.» quindi tornò a comportarsi come lo
scavezzacollo che sembrava, dandosi una bella stiracchiata «D’accordo, io direi
di cominciare da quello che deve starti più a cuore.
Sto
parlando dell’identità di tuo padre.»
«Tu
l’hai conosciuto, vero? Il mio vero padre.»
«Era
un navigatore. Venuto da occidente. Uno dei primi occidentali a raggiungere
questo Paese. Si chiamava FernãoMendesPinto.
Anche
se a tutti quelli che lo conoscevano poteva sembrare un normale esploratore, in
realtà lui era anche qualcos’altro».
A
quel punto, Magoichi si fece nuovamente serio.
«Tuo
padre era un Assassino.»
«Un
Assassino!?» ripeté Iguro
«Gli
Assassini sono un ordine segreto di monaci guerrieri fondato in occidente cinquecento
anni fa. In origine il nostro scopo era assicurare la pace eliminando i
corrotti e chiunque ricercasse il profitto personale a danno della società.
Rapidamente, però, le cose sono cambiate.
Grazie
ad un maestro assassino di nome Altair, i tuoi antenati
scoprirono che il nostro nemico aveva un nome.
Erano
i Templari.»
«I… templari!?» disse Iguro pronunciando quel termine a
fatica
«Una
società segreta non molto diversa dalla nostra. Il loro obiettivo è il dominio
totale del mondo. Mirano ad asservire tutti gli uomini al loro volere e a
distruggere la società per ricostruirne una nova e, a loro giudizio, migliore.
La
battaglia che vede contrapporsi Assassini e Templari dura da diversi secoli.
Abbiamo inferto duri colpi ai nostri nemici, ma nonostante ciò questo conflitto
prosegue ancora oggi.
Anzi,
da quando in occidente è iniziata l’era delle grandi esplorazioni, la
situazione si è fatta anche più difficile.
I
libri di storia asseriscono che i Templari non esistono più, ma è solo una
menzogna; anche la loro stessa distruzione è stata orchestrata ad arte, così da
poter continuare ad operare segretamente tirando dall’ombra le fila del mondo.
In questo modo, hanno diminuiti considerevolmente i rischi comportati dal dover
agire alla luce del sole, dove avevano capito di rappresentare per noi dei
facili bersagli. Ora si nascondono e agiscono esattamente come noi, per
renderci più difficile localizzarli e ostacolare i loro piani.
Ormai
sono secoli che tengono in pugno i maggiori stati d’occidente, o tramite
consiglieri corrotti e accondiscendenti che affiancano i potenti o comandandoli
essi stessi. E adesso che il mondo va allargandosi, puntano ad estendere la
loro influenza su ogni nuova terra che viene scoperta.»
«In che modo?»
domandò Iguro, che in realtà stava capendo poco o niente
«Circa
cinquant’anni fa, un templare di nome Ignazio di Loyola
ha fondato l’ordine dei Gesuiti. Ufficialmente il loro scopo è visitare nuove
terre per diffondere la cultura e la religione occidentale, ma è solo una
facciata. Ciò che fanno davvero è piantare i semi per una futura dominazione
templare. Ed è ciò che stanno facendo anche qui, in questo Paese.»
«E noi cosa
possiamo fare?»
«Cercare di
fermarli, ovviamente. Tuo padre venne in questo Paese quando i Templari vi si
erano insediati già da qualche tempo. Riuscì ad uccidere l’attuale vicario
dell’ordine, ma purtroppo questo non impedì ai Templari di continuare a
prosperare.
Al contrario. Dopo
essersi ripresi, organizzarono un complotto contro di lui.
Tua madre, una
principessa figlia di un importante uomo politico, venne uccisa, e lui, vedendo
la sua identità smascherata, fu costretto a fuggire. Prima di andarsene, però,
aveva avuto il tempo necessario per far crescere questa piccola confraternita,
e iniziare i primi di noi ai precetti del Credo.»
«Il Credo!?»
«Il nostro codice
d’onore. A differenza degli shinobi, che antepongono
la fedeltà e il dovere ad ogni altra cosa, il nostro ordine è sottoposto ad
alcuni dogmi e precetti che non ci è permesso infrangere, anche a costo di
andare contro quelli che sono i nostri obblighi di difensori dell’Uomo.
Inoltre, affidò te,
suo figlio, alle cure di una governante. Ordinò di tenerti al sicuro fino a che
non fossi stato pronto per finire quello che lui aveva iniziato».
Iguro si sentiva
disorientato, smarrito.
Aveva perso i suoi
genitori, che poi veri genitori non erano, aveva attraversato mezzo Paese per
andare in un posto che non conosceva, e solo per venire iniziato ad una setta e
ad un fantomatico dovere superiore che non gli riusciva di comprendere e che, a
conti fatti, non percepiva come tale.
«È il tuo destino
Iguro. Puoi scegliere. Puoi fuggire, e passare la tua vita a nasconderti, o
puoi andargli incontro.
Con la rete di spie
e di informatori che hanno per ogni dove, i templari non ci metteranno molto a
scoprire la tua identità, e a quel punto di daranno la caccia anche in capo al
mondo pur di metterti a tacere. Temono te più di qualsiasi altra cosa.
Perché tu sei il
figlio dell’Eletto.»
«L’eletto!?»
«Nelle tue vene
scorre il sangue di Altair, il nostro grande padre, e
degli Auditore, una nobilissima famiglia che da cinquant’anni è diventata la
guida del nostro ordine. Tuo padre è l’unico figlio che Ezio Auditore, l’ultimo
patriarca della famiglia, abbia mai avuto. O almeno, l’unico del quale abbiamo
notizia certa.
Conoscendo la
storia di tuo nonno, è facile supporre che non fosse fedele ad una sola donna».
Iguro di colpo ebbe
un’illuminazione.
Quei sogni, quella
strana euforia. Forse era il sangue dei suoi antenati; le loro memorie.
«Dal tuo sguardo,
si direbbe che tu abbia capito di che cosa sto parlando.
Tu sei speciale,
Iguro. Dentro di te risiedono capacità che noi non ci sogniamo neanche
lontanamente di possedere. Tutti i tuoi antenati avevano qualcosa che li
rendeva unici. Come un sesto senso che li aiutava nel momento del bisogno.
Anche tu
sicuramente possiedi qualcosa del genere. Il difficile sarà imparare a
dominarlo. E credimi, non sarà una passeggiata».
Iguro non sapeva
cosa pensare.
Una cosa, però, la
sapeva, e bene. Qualcuno aveva ucciso i suoi genitori, presunti o reali che
fossero, e quel qualcuno doveva pagare. Che fossero stati o meno i templari,
ciò che Magoichi e gli altri abitanti di quel
villaggio potevano insegnargli gli avrebbe permesso di potersi vendicare di chi
aveva distrutto il suo villaggio, ucciso la sua famiglia e massacrato i suoi
amici, chiunque egli fosse.
Della missione,
almeno per il momento, non gli importava nulla.
Ora c’era solo la
vendetta. Il resto poteva aspettare.
Magoichi intercettò il suo
sguardo, nel quale vi lesse molte cose, ma soprattutto la volontà di
raccogliere il guanto di sfida.
«Insegnatemi a
diventare un guerriero. Un vero guerriero. E io farò quello che vorrete.»
«Ti avviso, non
sarà facile.» disse Magoichi svuotando la sua tazza
di tè «Qui si parla come minimo di due anni di esercizio folle. Come minimo,
rimpiangerai la schiena spaccata e le punture d’insetto del lavoro nelle
risaie.»
«Non mi interessa».
Magoichi sorrise, quindi si
alzò in piedi.
«Molto bene. Ma
bada, sei stato tu a scegliere. Non c’è modo di tornare indietro. Una volta
nella Confraternita, se ne può uscire solo in un modo. Dentro una botte**».
Anche stavolta
Iguro non parve intenzionato a tornare sulla sua decisione, e anzi fece un
ulteriore cenno di assenso.
A quel punto, Magoichi lo condusse fuori dalla villa, e insieme
viaggiarono fino alla ripida scala di pietra che conduceva ad un piccolo tempio
che sorgeva subito fuori del villaggio, in cima ad un’altura.
Nel piazzale,
trovarono ad attenderli Keiji e due monaci zen,
questi ultimi con le mani giunte in segno di preghiera.
Si respirava
un’aria strana, misteriosa, che incuriosì e allo stesso tempo inquietò Iguro.
«La forza e
l’efficienza di un Assassino.» disse Magoichi «Si
basa su tre cose. Agilità nei movimenti, abilità nel combattimento, e furtività
nell’omicidio.
Come forse avrai
già intuito, il qui presente Keiji sarà il tuo
maestro di spada. Ti insegnerà tutto ciò che c’è da sapere su come affrontare
da solo cento samurai e uscirne vincitore e senza un graffio. Per quanto
riguarda l’agilità, che per quanto mi riguarda è la compagna più importante per
un Assassino, sarà materia mia.»
«E la furtività
nell’omicidio?»
«Per quella ci sarà
tempo. Prima impara a proteggere la tua vita, poi ti insegneremo a togliere
quella degli altri.»
«Sono pronto.
Insegnatemi.»
«Dai tempo al
tempo, amico mio. Prima che tu possa cominciare l’addestramento c’è una cosa
che tu, in quanto figlio di tuo padre, devi assolutamente fare.»
«E sarebbe?»
«Devi comprendere
il legame che ti lega ai tuoi antenati. Devi diventare un tutt’uno con loro.»
«Non comprendo.»
«Seguimi e capirai».
Magoichi affidò Iguro ai
due monaci zen, che condussero il ragazzo all’interno dell’edificio principale.
«Non mi stupirei se
ci restasse secco.» commento Keiji vedendo Iguro
sparire dietro le pesanti porte dipinte, che vennero chiuse e sbarrate «Lo hai
visto vero? Potrebbe andargli in fumo il cervello.»
«Forse. E se
accadesse, vuol dire che non ci serve.» rispose serio Magoichi
«Almeno conosce i
rischi che corre?»
«Lui crede di sì.
Ma si sbaglia, e non è detto che sia un male. Dopotutto, anche questo significa
crescere».
Una volta
all’interno del tempio, Iguro venne fatto sedere sul pavimento di legno proprio
dirimpetto al braciere sacro, ai piedi del quale stava, in atto di preghiera e
di spalle rispetto al ragazzo, una giovane sacerdotessa, che ondeggiava il suo
ventaglio salmodiando incessantemente parole incomprensibili.
I sacerdoti se ne
andarono, e Iguro restò da solo con quella donna, che continuava a salmodiare
come se non si fosse neppure accorta della sua presenza.
In questo lasso di
tempo infinitamente lungo, il ragazzo poté approfittarne per guardarsi attorno.
Il rosso era il colore
predominante di quel luogo, sia dentro che fuori; una serie di colonne
sostenevano un tetto fatto di travi sovrapposte, e sui battenti di ognuna di
esse erano dipinte immagini allegoriche raffiguranti animali, divinità e strani
simboli che Iguro non aveva mai visto.
Era presente, qua e
là, anche il simbolo a forma di compasso che Iguro aveva sul suo bracciale, e
abbassato lo sguardo il ragazzo si accorse che lo stesso simbolo era tracciato
in forma mastodontica anche sul pavimento, utilizzando travi di un colore
leggermente più scuro.
Era tutto così
strano; Iguro si sentiva come perso, come se qualcosa non stesse andando per il
verso giusto. La noia si stava impadronendo di lui, e con la noia arrivava la
stanchezza; la fiamma del braciere si muoveva senza sosta, come una miko***
intenta ad eseguire una danza sacra, e il ventaglio della sacerdotessa
produceva un suono stridulo, ma per qualche strano motivo piacevole da sentire.
D’un tratto Iguro
ebbe, per la terza volta, l’impressione che il tempo rallentasse; stavolta,
però, non percepiva quella strana euforia, quella voglia di combattere e di
vincere che aveva dominato le sue azioni in passato. Al contrario, tutto quello
che sentiva era un senso di oppressione, di impotenza; anche l’aria sembrava
essersi fatta pesante; i vapori caldi del braciere emanavano un odore come
d’incenso, che unito al suono del ventaglio e al movimento della fiamma
rendevano difficile ad Iguro fare qualsiasi cosa, compreso pensare lucidamente.
Il tempo continuò a
rallentare, senza il ragazzo potesse o riuscisse a fare qualcosa per cercare di
impedirlo, e alla fine si fermò del tutto, lasciando dietro di sé solo una
fitta oscurità ed il nulla più assoluto.
Lisbona
Marzo
1508
Ezio era arrivato in Portogallo già da qualche
tempo seguendo le indicazioni dei suoi informatori.
In base alle
informazioni raccolte dalla confraternita portoghese e fatte pervenire a Monteriggioni, i Templari del Portogallo, già da tempo
infiltrati nelle più alte sfere del potere e della politica del Regno, con il
sostegno del re, stavano armando una spedizione navale con la quale puntavano a
raggiungere una destinazione, al momento, ancora sconosciuta.
Nonostante la morte
di Rodrigo e la scomparsa di Cesare, pensava sconsolato Ezio osservando la
città dall’alto del faro che svettava sul porto, l’ordine si era ripreso molto
in fretta.
Da qualche tempo, i
capi templari dei quali conosceva l’identità si erano radunati attorno ad un nuovo
capo, un ragazzino neanche ventenne di nome Ignazio, che approfittando del
vuoto di potere lasciato dalla scomparsa di Cesare aveva fatto piazza pulita
dei pochi avversari degni di nota e si era prepotentemente piazzato al vertice
dell’organizzazione.
Ezio fino ad ora
non lo aveva mai visto, ma stando alle parole degli informatori, nonostante la
giovane età sembrava essere un ragazzo terribilmente furbo, ambizioso e
imprevedibile; aveva smantellato sul nascere la confraternita della andalusa,
cosa che gli era valsa l’attenzione di Ezio, e con il passare del tempo si
stava facendo un nome, oltre che come comandante e pianificatore accorto, anche
come spietato torturatore.
Sotto la pressione
dei suoi interrogatori, persino alcuni degli Assassini che Ezio reputava
maggiormente fedeli erano infine crollati, rivelando segreti che avevano messo
nei guai le confraternite di mezza Europa costringendo a fughe precipitose e
repentini cambi di sede.
Quella serpe
malefica doveva essere decapitata, o solo gli Antenati sapevano quali altri
problemi avrebbe potuto causare.
L’occasione era
propizia.
Se gli informatori
dicevano la verità, Ignazio in persona era in procinto di imbarcarsi per quella
spedizione.
Molto
probabilmente, pensava Ezio, il suo piano era di trasferire la sede centrale
dell’ordine fuori dall’Europa, dove rappresentava un bersaglio facile, così da
poter continuare a tirare le fila del potere da una posizione più sicura e
defilata.
La prima cosa da
fare era scoprire dove fosse diretta la spedizione.
Ezio era quasi
sicuro che l’obiettivo fosse il Nuovo Mondo, lì dove c’era terra in abbondanza
e dove i Templari avrebbero potuto senza difficoltà fondare una propria
colonia. Già una volta Ezio aveva sventato questo loro piano, e non era da
escludersi che, dopo aver lasciato passare un po’ di tempo per far calmare le
acque, l’ordine avesse deciso di ritentare l’impresa.
Comunque, serviva
la certezza.
E dal momento che
Ignazio non era ancora arrivato in città, e nessuno sapeva con certezza dove
fosse, la cosa migliore da fare era intrufolarsi sulla nave ammiraglia della
flotta templare e dare una sbirciata ai documenti che sicuramente vi erano
contenuti, nella speranza di trovarvi le informazioni desiderate.
Ezio si guardò
attorno con cautela; il ponte della nave, una caravella di notevoli dimensioni,
era pulito, fatta eccezione per un paio di guardie che però, anche da lassù,
davano l’idea di essere parecchio alticce, a giudicare dalle grida e dai canti
sguaiati che lanciavano barcollando a destra e a sinistra.
Con un balzo saltò
giù dalla torre, tuffandosi direttamente in acqua; nuotando in apnea, raggiunse
la chiglia della nave, e aggrappatosi ad una gomena cominciò a risalirla nel
più assoluto silenzio. Nonostante fosse ormai alla soglia dei cinquanta, la sua
agilità e la sua esperienza avevano del prodigioso.
Senza neanche
bisogno di uccidere qualcuno di quei marinai ubriachi, l’Assassino si
introdusse nelle cabine del capitano passando da una finestra lasciata
socchiusa, accendendo subito una candela per farsi un po’ di luce; come aveva
previsto, la scrivania al centro traboccava di carte, e poggiato il candelabro
sul tavolo cominciò a rovistarle in cerca di indizi.
Quasi tutti i
documenti erano cifrati, ma niente di impossibile per uno del suo livello.
Quello che lesse,
però, lo colpì; ad essere citato più e più volte non era il Nuovo Mondo, come
si aspettava, ma l’oriente. In particolare, si faceva riferimento alla
necessità di raggiungere quanto prima, istituendovi dei soliti avamposti,
l’impero della Cina e l’impero di Cipango.
Ezio aveva sentito
parlare di questo Cipango, il Regno delle Isole, il
solo Paese al mondo che, stando agli scritti di Marco Polo, fosse stato capace
di respingere i Mongoli di Kublai Khan. Ad oggi,
molti consideravano Cipango una leggenda, una terra
immaginaria, ma se i Templari la stavano cercando forse la verità era un’altra.
D’un tratto,
l’Assassino sentì un rumore sopra di sé, e subito dopo una chiave infilarsi
nella serratura della porta della cabina; fulmineo spense la candela e cancellò
ogni traccia del suo passaggio per poi infilarsi, tramite una botola nascosta
sotto un tappeto, nella stiva.
Pochi secondi dopo
nella stanza entrò un giovane sacerdote di neanche vent’anni, il viso
bellissimo e i tratti gentili, chiaramente nobiliari, ma uno sguardo di
ghiaccio che gelava il sangue.
Ezio poté scorgerlo
tramite un piccolo foro nel fasciame delle assi, e capì che doveva trattarsi,
dal modo in cui i suoi tre tirapiedi si rivolgevano a lui, proprio di Ignazio
di Loyola.
«Come procedono i
preparativi?»
«Bene, mio
signore.» rispose un soldato «Rispettiamo i tempi. Se tutto andrà come
previsto, saremo in grado di salpare entro la fine del mese.»
«Non abbassate mai
la guardia. Le nostre spie mi hanno avvertito che il capo degli Assassini ha
lasciato l’Italia poco tempo fa. Potrebbe essere qui.»
«Se è così, siamo
pronti ad accoglierlo. La nave e il resto della flotta sono sorvegliate giorno
e notte.»
«Non credo che
quegli ubriaconi perdigiorno possano essere considerati una guardia affidabile.
Prendete provvedimenti.»
«Sarà fatto, mio
signore».
Come Ignazio e gli
alti tre lasciarono la stanzia, Ezio riemerse dalla botola, indeciso sul da
farsi.
Tecnicamente la sua
preda era a portata di mano, ma da quello che aveva avuto modo di scoprire nel
corso delle sue indagini Ignazio, oltre ad essere molto bravo con la spada,
amava circondarsi di alcuni tra i più efficaci e spietati schermidori e
tagliagole d’Europa, il che rendeva rischioso un assalto improvviso e senza
alcuna impostazione o pianificazione.
Ciò nonostante,
prima di andarsene volle dare un’ultima occhiata a quello che succedeva; se
fosse stato fortunato, magari avrebbe potuto cogliere qualche informazione
extra.
Aperta leggermente la
porta, quel tanto che bastava per vedere e sentire, gettò l’occhio all’esterno.
Ignazio era ancora
sul ponte, sempre attorniato dai suoi fedelissimi, uno dei quali stava
riempiendo di botte il capo dei sorveglianti sorpresi ubriachi a fare il
proprio dovere; dopo che il suo uomo aveva rotto tutte le ossa a suon di pugni
al malcapitato, e nonostante le suppliche della vittima, fu lo stesso Ignazio a
trapassargli la gola con la spada, lasciandolo morto a terra e incaricando i
suoi di buttare a mare il cadavere.
I due incaricati di
eseguire il corpo avevano appena gettato il corpo fuoribordo, quando l’ombra
bianca di un assassino balzò giù dall’albero maestro e piombò su Ignazio; tentò
di ucciderlo, ma il ragazzo se ne accorse immediatamente e schivò il colpo,
quindi ad un suo cenno tutti i suoi uomini fecero cerchio attorno
all’aggressore.
Ezio non riusciva a
capire.
Aveva dato ordine
che nessuno si avvicinasse alla nave fino a che non avesse fatto rapporto.
Qualche pazzo
doveva aver disubbidito facendo di testa sua, e ora stava per rimetterci la
vita.
Quelli attaccarono
tutti insieme, ma l’Assassino, nonostante l’aspetto gracile e magrolino, si
rivelò estremamente agile, riuscendo a tenerli a bada; vista la mala parata
tentò anche di fuggire, ma una delle guardie di Ignazio fu più veloce di lui e
gli lanciò addosso una rete per la pesca, immobilizzandola e lasciandola alla
mercé degli altri nemici.
Credo o no,
missione o no, Ezio non se la sentiva di lasciare un confratello in difficoltà;
per questo, saltato fuori dal suo nascondiglio, piombò sull’uomo che stava per
vibrare il colpo di grazia e lo uccise con un solo affondo, quindi riuscì a
ferirne anche un secondo che finì dopo aver liberato il prigioniero dalla rete
che lo ricopriva.
Ignazio, nonostante
non lo avesse mai visto, riconobbe subito il nuovo venuto, e senza pensarci
troppo su abbandonò il campo, e con esso i suoi uomini, che alla fine caddero
tutti morti; Ezio avrebbe voluto risparmiarne uno per farlo parlare, ma quello
che aveva solo ferito, nella confusione, si era tagliato la gola, e quando Ezio
lo raggiunse era già morto.
A quel punto, Ezio
si volse, con sguardo leggermente irritato, verso il suo confratello, che al
contrario teneva lo sguardo basso senza proferire parola.
«Si può sapere che
accidenti ti è saltato in mente?» sbraitò andandogli vicino «Avevo dato ordini
precisi! Nessuno doveva avvicinarsi a questa nave prima che io avessi fatto
ritorno!».
Quello non rispose,
e seguitò a tentare di nascondere il proprio volto guardando in basso; nonostante
cercasse di nasconderlo, era chiaro che si trattava di una ragazza.
«Ma ti rendi conto
che hai mandato tutto in malora? Ora che sanno che li teniamo d’occhio, i
Templari di qui saranno ancora più cauti!»
«Ignazio ha fatto
uccidere mio padre e mia madre.» rispose quella, una voce gentile ma ferma
«Erano Assassini, tutti e due. Sei mesi fa erano quasi riusciti a prenderlo, ma
lui li ha catturati, tortunati e infine uccisi.
Doveva pagare.»
«Evidentemente i
tuoi maestri non ti hanno mai parlato dei doveri del nostro ordine, o se
l’hanno fatto tu dormivi.
Anteporre i propri
desideri personali al proprio dovere e farsi guidare dalle emozioni è il più
grave errore che un Assassino possa fare».
Di nuovo, la
ragazza restò in silenzio.
Ezio sospirò.
«D’accordo, quello
che è fatto è fatto. Ora però, cerchiamo di fare qualcosa per queste navi.
Forza, dammi una mano».
Circa un’ora dopo,
il porto di Lisbona venne illuminato a giorno dall’assordante e fragorosa
esplosione, quasi simultanea, della santabarbara di quattro grandi caravelle,
che sventrate colarono a picco in pochi minuti tra il fuoco e le fiamme.
Ezio e l’altra
assassina osservarono la scena dall’alto del tetto di una villa che dava
direttamente sul molo. Ezio sapeva che questo non sarebbe bastato a scoraggiare
Ignazio e i Templari, ma si chiedeva quale potesse essere il motivo che li
avesse spinti ad organizzare una spedizione così grande e costosa; doveva
trattarsi di qualcosa di grosso, e qualsiasi cosa fosse era necessaria
scoprirla al più presto.
«In questo modo
abbiamo ritardato la loro partenza. Ma se ho capito che tipo d’uomo è questo
Ignazio, non passerà molto prima che tenti di organizzarne un’altra.» quindi si
rivolse alla sua compagna «Ora, se non ti spiace, vorrei sapere chi sei».
Quella, finalmente,
si tolse il cappuccio, rivelando il volto di una bella giovane di venticinque o
trent’anni; aveva occhi marrone scuro e lunghi capelli paglierini, lisci e
morbidi come la seta.
«Mi chiamo Maria.»
disse «Maria Pinto».
* Nel folklore giapponese, gli Oni sono delle creature mitologiche; il significato
attribuibile a questa parola è piuttosto vario, ma quello più diffuso li
paragona agli orchi della tradizione occidentale; grandi e grossi, raffigurati
spesso seminudi e provvisti di corna, sono noti per la natura violenta e
bellicosa, oltre che per l’aspetto terrificante.
** Nell’antico Giappone, fino all’epoca
della Restaurazione Meiji del 1869, era molto diffusa
l’usanza, soprattutto tra i contadini e i ceti meno abbienti, di essere sepolti
nella terra viva; quando una persona moriva, il corpo veniva trasportato dalla
casa al cimitero all’interno di una botte di legno alta circa un metro e
portata a spalla da due uomini.
*** Nei templi scintoisti la miko è tradizionalmente una vergine incaricata di
presiedere al corretto funzionamento dei santuari; nella maggior parte dei casi
erano adibite ad incarichi che andavano dalla pulizia, all’esibizione in danze
sacre, ad affiancare il sacerdote nelle funzioni religiose. Tuttavia, in alcuni
casi, alcune miko erano esse stesse delle
sacerdotesse, officiando rituali e ricoprendo una posizione di vertice
all’interno del proprio tempio.
Nota dell’Autore.
Eccomi
qua!^_^
Ci è
voluto un po’ più del previsto, ma finalmente sono riuscito ad aggiornare.
Il
fatto è che in questi giorni sono stato un po’ occupato con il lavoro, e poi ho
appena acquistato un nuovo gioco per la ps3 che aspettavo da tempo e che nei
primi giorni mi ha praticamente rapito.
Ho
scritto questo capitolo di getto, anche se ammetto che l’ultima parte mi è
costata un po’ di fatica.
Una
precisazione. Anzi, due.
La
prima; per le descrizioni del Giappone, dei suoi templi e dei suoi paesaggi mi
sto ispirando ai filmati raccolti da un gruppo di amici.
La
seconda; per i tratti somatici dei personaggi storici ammetto candidamente di
ispirarmi a quelli creati per la saga Samurai Warriors;
perciò, chiunque fosse curioso di vederli, non deve fare altro che cercare le
immagini su google.
Ecco,
credo di aver detto tutto.
Ringrazio
i miei lettori e recensori, Skydragon e Glaucopis, per le loro recensioni così sincere e
appassionate. A Glaucopis
dico anche che quanto prima leggerò la fic che mi ha
consigliato.
Iguro si svegliò di soprassalto,
letteralmente affogato da un getto d’acqua fredda come se si fosse addormentato
sotto una cascata.
Era così intontito
e disorientato che, nonostante la doccia gelata, impiegò parecchi secondi a
discernere sogno da realtà, mondo reale da allucinazioni.
Quello che aveva
appena visto non aveva per lui alcun senso, e anche se aveva avuto
l’impressione di assistere a quella specie di vivido sogno come ad una
rappresentazione teatrale, seduto tra il pubblico, tutto gli appariva fuorché
come una cosa chiara.
Ancora sconvolto,
cercò di capire cosa fosse successo.
L’ultima cosa che
ricordava era quell’odore d’incenso, e quella sensazione di impotenza.
Nei pochi secondi
di raziocinio che riuscì a conquistare, si guardò attorno.
Doveva trovarsi in
qualche capanna, poco più di una catapecchia a giudicare dallo stato dei muri e
del soffitto e dai buchi nella carta delle porte e delle finestre. Il tatami
era in uno stato pietoso, tutto sgualcito e secco, e puzzava da morire, come se
ci avesse dormito una mandria di mucche, inoltre si vedevano segni evidenti del
passaggio di topi e scarafaggi.
Persino il futon
dove stava dormendo, ora fradicio come lui, rassomigliava più ad una coperta da
cavallo, sporca e ruvida.
Dai buchi nella
carta entravano raggi di un sole mattutino, uno dei quali gli arrivava dritto
in faccia; con la mano cercò di farsi ombra, quel tanto che bastava per riuscire
a riprendersi del tutto da quella specie di sbronza che rassomigliava
incredibilmente all’unica ubriacatura della sua vita, durante la festa del
raccolto dell’anno scorso.
Rapidamente le
immagini si fecero più nitide, e quando poté dire di aver recuperato quasi
completamente il controllo di sé vide la figura di Magoichi
che lo sovrastava; aveva in mano un secchio vuoto, e gli sorrideva beffardo.
«In piedi,
signorino. È l’ora dell’allenamento.» e gli tolse le coperte di dosso
«Ma che…» disse Iguro, finalmente sveglio al cento per cento
«Dove sono i miei vestiti?»
«Parli di quegli
stracci puzzolenti? Bruciati.
Erano incrostati di
fango e sangue. Là ci sono dei vestiti di ricambio. C’è anche un tojiki all’umeboshi*. Fattelo bastare,
perché non mangerai altro fino a domani.»
«Ma dove siamo?»
domandò il ragazzo guardandosi attorno
«Mi sembra ovvio.
Nella tua nuova casa.»
«Casa!? Persino una
stalla sarebbe meglio?»
«Hai voluto entrare
nell’ordine? Allora adeguati. Da questo momento sei un novizio come tutti gli
altri, il che significa che comincerai dalla base della torre. Qui vige la
regola del do utdes.»
«Del cosa?»
«Del dare per
ricevere. Mostrati degno di restare qui, e vivrai in condizioni più dignitose.
Deludi me o qualcun altro dei tuoi maestri, o vieni meno ai tuoi doveri, e
finirai a litigarti la cena con i cani».
Iguro era senza
parole.
La persona che
stava davanti a lui non somigliava neanche lontanamente al MagoichiSaika che aveva conosciuto; persino i suoi occhi, di
solito così vispi e ironici, sembravano diversi, pieni di fredda determinazione
e severo giudizio.
«Ti do due minuti, per
mangiare e renderti presentabile, poi voglio trovarti nella piazza del
villaggio pronto a cominciare».
Rimasto solo, Iguro
sentì come se il mondo gli fosse improvvisamente crollato addosso una seconda
volta.
Era arrivato ad Hakuba nella speranza di trovare un luogo ospitale, dove
sentirsi al sicuro, ma ora, nonostante l’iniziale impressione che si era fatto,
sembrava proprio che quel posto di ospitale non avesse nulla.
Alzatosi, trangugiò
quasi d’un fiato la palla di riso e indossò quelli che sarebbero stati i suoi
nuovi vestiti, una sorta di kimono ed un hakama** entrambi di colore scuro,
quindi uscì all’esterno.
Hakuba, illuminata dalla luce
del primo mattino, e avvolta da una sottile nebbia di montagna, sembrava ora
molto diversa da come Iguro l’aveva veduta la prima volta; ora rassomigliava
davvero ad una città fantasma, ad uno di quei villaggi di shinobi
pieni di tagliagole dai poteri sovrannaturali, con le sue case che emergevano
pallidamente dalla bruma come un esercito di fantasmi, arroccate lungo le
sponde del lago e le pendici della montagna.
La casa di Iguro,
se di casa si poteva parlare, sorgeva molto defilata da tutte le altre, quasi
al limitare della palizzata di legno, non lontano dal portone nord.
Il ragazzo arrivò
nella piazza che la nebbia si era già in parte diradata. Magoichi
lo aspettava ai piedi della scalinata che portava alla villa, ma la sua
espressione, nonostante quel sorrisetto enigmatico, sembrava alquanto
contrariata.
«Venti secondi di
ritardo.» disse ordinando a Iguro di mettersi sull’attenti «Per stavolta passi,
ma da domani un ritardo simile ti costerà metà della tua razione di cibo».
Iguro era ancora un
po’ frastornato per il brusco risveglio, e il sole negli occhi certamente non
aiutava; per un attimo ebbe un mancamento, barcollando leggermente, ma con un
urlaccio degno di un padrone che richiama il proprio servo Magoichi
lo costrinse a riprendere il controllo.
«D’ora in poi,
arriverai qui tutte le mattine alla stessa ora, pronto ad iniziare
l’allenamento. Eventuali ritardi non saranno più tollerati. Ogni mancanza sarà
punita severamente, in base alla gravità della stessa.
Spero di essermi
spiegato».
In quella, altri
tre guerrieri raggiunsero il piazzale camminando in fila indiana, come in una
marcia; silenziosi, senza produrre altro rumore che quello dei loro passi,
entrarono nell’arena, posizionandosi al centro, e rivolgendo i loro sguardi
verso i due monaci zen che sembravano aspettare il loro arrivo assieme a Keiji.
Abbassatisi il
cappuccio, piegarono la testa in avanti; il monaco superiore li cosparse di una
strana sostanza polverosa raccolta da un’urna dal colore biancastro, quindi il
suo attendente agitò davanti a loro un aspersorio di acqua mistica. A quel
punto fu il turno di Keiji, che sfoderato un pugnale
incise la nuca sopra l’orecchio sinistro ad ognuno di loro; quello, avrebbe
scoperto Iguro molto più avanti, era il segno distintivo degli Assassini del
Paese, il marchio segreto attraverso il quale era possibile riconoscersi pur
restando nel più assoluto anonimato.
«Gli uomini che
vedi, sono diventati degli Assassini.» disse Magoichi
vedendo che Iguro non riusciva a fare a meno di guardarli «Al momento, tu non
sei degno neanche di baciargli le scarpe. E ora girati!».
Il ragazzo,
spaventato da un tono tanto cattivo, obbedì, e a quel punto Magoichi
prese a girargli attorno, come un lupo con un cerbiatto pronto ad essere
sbranato.
«Prima di
cominciare, è meglio che tu sappia questo.
Da quando mi è
stata affidata la guida di questo posto, di media addestriamo dieci aspiranti
Assassini all’anno. Alcuni vengono da noi spontaneamente, dopo aver sentito
parlare del nostro operato o aver saputo in qualche modo della nostra
esistenza. Altri li recuperiamo noi stessi, grazie ai nostri informatori e
procacciatori di nuovi talenti. Altri ancora ci vengono raccomandati e spediti
da potenti e signori che ci conoscono e ci sostengono, perché nemici dei
Templari tanto quanto noi.
E tu lo sai, di
questi dieci, quanti di media riescono davvero a entrare nella confraternita?
Due.
Dei restanti otto,
quattro si arrendono e finiscono per rinunciare, tre sono costretti a ritirarsi
per gravi ferite o infortuni invalidanti. E uno…»
quindi si fermò, e disse sarcastico «Uno mediamente ci lascia la pelle».
Iguro di colpo
sentì il latte alle ginocchia, e lo colse un’invisibile tremarella; in quale
specie di inferno si era andato a cacciare?
«Ora, stammi bene a
sentire. Il tuo addestramento si svolgerà in due fasi. La prima durerà diciotto
mesi, durante i quali sarai affidato alle “cure” mie e di Keiji.
Ti allenerai contemporaneamente nell’agilità e nel combattimento, cosicché tu
possa imparare a combinare queste due abilità di modo che ognuna delle due
tragga vantaggio dall’altra.
Se, e ripeto se,
arriverai alla fine di questi diciotto mesi, allora inizierai la fase finale.
Ti verrà assegnato un terzo maestro, da cui apprenderai le più efficaci e
raffinate tecniche di omicidio. Nel corso degli anni, il nostro ordine è
riuscito a creare uno stile di lotta e di assassinio diverso da quello dei tuoi
antenati, che unisce la forza bruta della tecnica importata dall’occidente con
la furtività e l’eleganza propria degli shinobi.
Padroneggiarlo non
è cosa da tutti, e per il momento tu sei l’ultima persona di questo dannato
Paese che possa riuscirci. Ragion per cui…».
Dopo essersi
avvicinato al ragazzo, e con una scioltezza ed un’agilità incredibili, Magoichi gli sfilò il bracciale di cuoio recidendo i
cordoncini che lo assicuravano al polso.
«Ehi!» gridò Iguro,
non riuscendo stavolta a restare indifferente
«Questo per il
momento dovrai scordartelo.»
«Era di mio padre!»
«E si vergognerebbe
di vederlo al tuo polso. Parola mia. Dimostrami che sei davvero suo figlio, e
che nelle tue vene c’è davvero il sangue di un Assassino, e allora se ne
riparlerà.
Ora, cominciamo
l’addestramento.
Comincia a
correre.»
«Correre!?» ripeté
il ragazzo incredulo
«Che c’è, non hai
capito? Esci da questo villaggio e corri come se avessi alle spalle un esercito
di oni!»
«E fino a dove devo
correre?»
«Non sei nella
posizione di poter fare domande. Muoviti!».
Iguro non poté fare
altro che obbedire, e abbandonato il villaggio si inoltrò nella foresta, lungo
lo stesso sentiero che solo il giorno prima aveva percorso all’incontrario.
All’inizio la cosa non si presentò particolarmente difficile; essendo cresciuto
nelle risaie, come un contadino, e abituato quindi a svolgere lavori faticosi,
il suo fisico era temprato quanto bastava da permettergli di tenere una buona
cadenza di corsa senza che questo gli costasse eccessiva fatica.
I contadini che
lavoravano nelle risaie all’altro capo della foresta lo videro passare verso
metà mattina lungo il sentiero principale; transitò anche per il loro
villaggio, ripresosi senza grossi problemi dall’attacco di quei briganti, e
qualcuno anche lo salutò, saluti ai quali lui rispondeva con un cenno del capo.
Tutto sembrava
andare per il verso giusto, ma all’improvviso, mentre correva su di un sentiero
che inerpicava su per la montagna, il ragazzo sentì qualcosa che non si
aspettava: stanchezza.
Il fiato gli si
stava accorciando, diventando faticoso, e la lingua si impastava, reclamando
acqua.
Com’era possibile?
Aveva percorso solo
un paio di miglia, tenendo un’andatura tranquilla, e il terreno non era poi
così ripido.
Di solito ci voleva
ben altro per fargli sentire il peso della fatica.
Come poteva essere
che bastasse qualche ora di passeggiata veloce, perché poi corsa vera e propria
non la si poteva neanche definire, per far boccheggiare uno come lui, abituato
a fare avanti e indietro di corsa dal villaggio alle risaie portandosi appresso
pesanti canestri o ingombranti attrezzi da lavoro più volte al giorno?
Riuscì a correre
solo un altro paio di minuti, poi fu costretto a fermarsi, appoggiandosi ad una
roccia a lato della strada con il fiato corto e il petto in fiamme.
«Che… che mi sta succedendo?» disse incredulo «Perché… sono già stanco?».
Improvvisamente, il
rumore di uno sparo squarciò il silenzio tutto intorno, e il proiettile si
conficcò a terra non lontano dal suo piede sinistro, facendolo sobbalzare
incredulo e spaventato; voltatosi, con suo grande stupore vide Magoichi seduto sul ramo di un albero, con l’archibugio
ancora fumante puntato nella sua direzione.
«Cosa c’è, sei già
stanco? Non ti ho detto che potevi fermarti.»
«Ma cosa…»
«Che ti aspettavi?»
disse beffardo Magoichi «Questa non è la ridente
valle in cui sei cresciuto. Qui siamo in alta montagna. L’aria è rarefatta. È naturale
che chi non ci è abituato si stanchi presto».
Ora si spiegava
tutto!
La valle di Iguro,
pur trovandosi tra le montagne, non era molto in alto sul livello del mare, e
le particolari condizioni climatiche che vi si trovavano rendevano l’aria pura
e molto respirabile, tutt’altra cosa rispetto ad Hakuba.
Iguro strinse i
denti per la rabbia; sicuramente, Magoichi sapeva che
sarebbe andata a finire così, ma non gli aveva detto niente così da vedere fino
a che punto avrebbe resistito. E poi, come aveva fatto ad arrivare fino a lì
così in fretta, senza mostrarsi né stanco né sudato?
«Hai deciso di
arrenderti? Vuoi gettare la spugna?
Forse sarebbe
meglio.
Mi risparmieresti
di perdere il mio tempo con un ragazzino che non riesce neppure a correre mezza
giornata senza stancarsi.»
«Ti piacerebbe!»
sbottò Iguro, ferito nell’orgoglio «Ma non ci contare!» e rialzatosi riprese a
correre.
Magoichi stette a guardarlo
fino a che non scomparve dietro la curva, ridendo sommessamente, quasi con
rassegnazione.
Purtroppo, ben
presto, Iguro pagò cara quello scatto d’ira, così come l’eccessiva fiducia in sé
stesso.
Incapace di
ammettere la propria incapacità, soprattutto davanti ad una persona come Magoichi, rivelatosi essere ben diverso da come aveva
voluto ipocritamente apparire all’inizio, il ragazzo continuò a correre
nonostante le sue condizioni e i limiti che il suo fisico gli imponeva.
Dapprima furono
annaspi, poi la lingua divenne carta vetrata, le narici si infiammarono, la vista
si appannò sempre di più, le tempie si scavarono, riempiendosi di sudore, le
gambe si fecero di piombo e tutti i muscoli sembravano sul punto di esplodere.
Alla fine,
stremato, il ragazzo crollò sul sentiero, quasi incapace di trattenere i conati
di vomito; era talmente disidratato ed esausto che tentò di trascinarsi fino ad
una pozzanghera per berne l’acqua sporca e fangosa, ma le forze lo
abbandonarono prima e rantolò esanime senza più un briciolo di energia.
Aveva appena perso
i sensi, quando Magoichi comparve accanto a lui;
stette a lungo a guardarlo, senza far nulla per cercare di aiutarlo, con una
mano stretta attorno alla cintura e l’altra che reggeva il fucile, poggiato
come al solito sulla spalla.
«Ne abbiamo di
strada da fare.» commentò.
Castello
di Kiyosu
Gennaio
1569
La fortezza di Kiyosu
sorgeva nel mezzo della città di Nagoya, nel cuore della provincia di Owari***,
patria e culla del clan degli Oda, ed era la residenza principale di Oda
Nobunaga.
Meno appariscente e
sfarzoso di altri castelli dell’epoca, non era costruito per essere una
fortezza difensiva, con le sue basse mura e l’assenza di vari livelli difensivi
a protezione dell’edificio principale; rassomigliava piuttosto ad una elegante
dimora signorile, costruito sulle sponde di un fiume, con un pregiato ingresso
principale, un elegante giardino, raffinato stagni e persino un piccolo teatro.
Nobunaga era forse
un signore della guerra temuto e spietato, disposto a tutto pur di ottenere la
vittoria nelle sue campagne, ma era anche un uomo raffinato, amante delle arti
della cultura; praticava la danza col ventaglio, suonava vari strumenti e
scriveva poesie. Era anche un erudito dal grande bagaglio culturale, e alla
perenne ricerca di spunti con cui accrescere il proprio sapere; dai barbari
occidentali aveva appreso varie lingue, tra le quali quella usata dai loro
monaci, un po’ asettica ma bella da sentire, e anche la loro storia.
Non era raro che i
suoi dignitari e generali, quando andavano a trovarlo o venivano da lui
chiamati per discutere questioni politiche o militari, lo trovassero intento a
leggere pergamene o volumi di cui i barbari stranieri gli avevano fatto dono
nel tentativo di tirarlo dalla loro parte.
Ed era esattamente
ciò che stava facendo quando, in un gelido pomeriggio d’inverno, mentre grandi
fiocchi di neve coprivano la città e il castello di uno stupendo manto bianco,
i suoi più eminenti generali vennero da lui per il rapporto giornaliero sulle
ultime campagne di conquista, nell’immenso salone in cima al castello
utilizzato come luogo dei ricevimenti.
Erano presenti, tra
gli altri, Tokugawa Ieyasu, messosi di recente in
buona luce con la presa dei castelli Rokkaku, Toyotomi Hideyoshi, un figlio di contadini divenuto chissà
come uno degli uomini più capaci e fidati del Signore, Shibata Katsuie, un uomo possente e minaccioso, con una corporatura
massiccia e una folta barba da Ainu, che alcuni
ritenevano fosse, e Akechi Mitsuhide, la lealtà fatta
persona, un samurai della vecchia scuola forte e devoto, pronto a morire per il
suo signore.
Affianco a
Nobunaga, seduto su di un umile scranno in legno dirimpetto all’ingresso, la
sua nobile consorte, Nohime; Ieyasu ne incrociò lo
sguardo quasi per caso, dopo aver sollevato un momento. Quella donna non gli
era mai piaciuta; era bella, molto bella, ma non quella bellezza eterea e quasi
sovrannaturale che albergava invece in lady Oichi, la sorella del suo signore;
era più una bellezza misteriosa, per non dire inquietante, come una maschera
indossata al solo scopo di celare ciò che c’è al di sotto; e quegli occhi poi,
insolitamente azzurri, freddi e senza espressione, ma capaci, dal semplice
posarsi sul proprio sposo, di caricarsi di un sentimento così forte da farsi
quasi lucida follia.
Ieyasu era sicuro
di non essere il solo a pensarla così; nei corridoi del castello c’era chi si
azzardava a scherzare sulla “bellezza mostruosa” di Nohime,
cautelandosi ovviamente che certe voci non arrivassero mai all’orecchio dell’interessata,
gelosa oltremodo della sua bellezza e del fascino che riusciva ad esercitare
sulla maggior parte degli uomini.
«Mio signore.»
esordì Hideyoshi, che solitamente era sempre il primo a parlare «Come avevamo
previsto, i Takeda e gli Hojo
hanno iniziato a combattere tra di loro, e almeno per il momento hanno cessato
di rappresentare una minaccia.»
«Anche a oriente le cose vanno bene.» disse
Ieyasu «UesugiKenshin è
impegnato a sedare alcuni dissapori all’interno del proprio clan, e per questo
è stato costretto a rimandare l’invasione ad ovest.»
«Mio signore.»
disse Mitsuhide «Questo potrebbe costituire un momento propizio per
stabilizzare la situazione all’interno dei nostri domini.»
«O forse per ampliarli.»
disse Shibata «Ritengo che questa sia l’occasione buona per occuparci di una
questione che da troppo tempo andiamo procrastinando.»
«Sono d’accordo.» disse Hideyoshi «Ultimamente
gli Asakura hanno alzato un po’ troppo la testa.»
«Credevamo chemettere al potere uno shogun a noi fedele
sarebbe bastato a calmare i bollenti spiriti di Yoshikage.»
disse Ieyasu come tra sé «Ma a quanto pare quell’uomo ha la testaccia dura.»
«Le nostre spie
riferiscono che molti superstiti del vecchio shogun si siano rifugiati nei territori
degli Asakura, e che sia stato proprio Yoshikage ad
offrire loro protezione.»
«Quel maledetto Yoshikage.» mugugnò Shibata «Prima razzia i nostri domini,
poi attacca i nostri contingenti che transitavano nelle sue terre dopo aver
loro permesso di entrarvi, e ora offre riparo ai nostri nemici.
Quella serpe
malefica va’ schiacciata subito.»
«State dimenticando
tutti una cosa importane.» intervenne Mitsuhide «Negli ultimi due anni non
abbiamo fatto altro che combattere. I nostri eserciti sono più che dimezzati.»
«Per non parlare di
una cosa molto più importante.» disse Ieyasu «Vi siete dimenticati di chi sono
alleati gli Asakura?».
Hideyoshi a Shibata
a quel punto spalancarono leggermente gli occhi, per poi abbassarli come
contrariati.
«Gli Azai e gli
Asakura sono legati da un’alleanza ventennale. È proprio per questo che Yoshikage è certo di poter fare quello che vuole. Finché la
sua alleanza con Nagamasa resta salda, noi abbiamo le mani legate.
Yoshikage sarà pure uno
stupido egocentrico con manie di grandezza, ma sa di non potere niente contro
gli Oda. In compenso però, è abbastanza furbo da sapere che finché Nagamasa gli
resta amico, lui potrà fare quello che vuole.»
«Secondo me stai
sopravvalutando il problema.» disse Hideyoshi «È vero, gli Azai e gli Asakura
sono alleati da vent’anni. Ma non devi dimenticare che il capo degli Azai è
legato da vincoli di matrimonio al nostro signore, un legame assai più forte di
qualsiasi alleanza.»
«Trattandosi di
Nagamasa, mi dispiace dirlo, non ci metterei la mano sul fuoco.
Lo conoscete tutti.
È un ragazzino, mite e caratterialmente fragile. Impossibile stabilire quale
sarebbe la sua scelta, se messo con le spalle al muro.»
«Stai dicendo che
dovremmo continuare a sopportare i colpi di testa degli Asakura per colpa di un
maledetto ragazzino?» disse Shibata contrariato
«Voi lo vedete?»
domandò provocatoriamente Ieyasu «È qui tra noi questo ragazzino?».
Di nuovo, Hieyoshi e Shibata si azzittirono.
«È evidente.»
proseguì Ieyasu guardando Nobunaga «Che anche il mio signore è prevenuto nei
confronti di Nagamasa. È il suo fratello di sangue, e probabilmente lo conosce
meglio di chiunque altro.
Il mio umile
suggerimento, prima di compiere una qualsiasi azione ai danni degli Asakura, è
di comprendere appieno la psicologia e gli intenti del signore degli Azai, e
cercare per quanto possibile di assicurarsi, se non la sua alleanza, quantomeno
la sua neutralità.» quindi disse risoluto «Dal momento che puntiamo a
riunificare il Paese, l’ultima cosa che possiamo permetterci è un tradimento
dall’interno».
All’improvviso
Nobunaga, che fino a quel momento era rimasto immerso in un irreale silenzio,
chiuse il ventaglio che aveva in mano, e subito tutti tacquero, interpretando
il gesto come un segnale del fatto che il loro signore si apprestava a parlare.
«Quello che dice
Ieyasu è saggio, e riflette la sua natura astuta e calcolatrice.» disse
guardando il diretto interessato, che non sapeva se sentirsi fiero o a disagio
«Nagamasa è un giovane dall’animo bianco e candido come latte, e nel cui cuore
battono sentimenti antichi, scomparsi dai cuori raggrinziti e marci di molti di
noi.»
«Mio signore.»
disse Hideyoshi «Dunque intendete rinunciare a dare battaglia agli Asakura?»
«No. Avete ragione.
Abbiamo tollerato gli Asakura abbastanza a lungo, e questa è l’occasione buona
per far pagare loro tutte le colpe di cui si sono macchiati. Degli sporchi
malfattori senza onore come loro non troveranno mai posto nel nuovo mondo di
pace e unità che vogliamo costruire.
D’altra parte però,
di un cuore così puro e indomito mi dispiacerebbe immensamente fare a meno. È
proprio per questo che ho voluto porvi una catena, destinata a tenerlo sotto
controllo e al tempo stesso a preservarne la forza. Ed è su quella catena che
intendo fare affidamento».
In quel momento, un
servitore si palesò alla porta della stanza.
«Mio signore.»
disse prostrandosi e rimanendo oltre l’uscio «La nobile signora è qui.»
«Fatela entrare».
Tutti restarono un
momento interdetti, come se non si aspettassero una cosa del genere; poco dopo
le porte si riaprirono, e la giovane più bella che cielo e terra avessero mai
visto poggiare il piede in tutto il Paese si palesò nella stanza.
Aveva lunghissimi
capelli neri, elegantemente raccolti in una coda come da sacerdotessa, occhi
rosso sangue lucidi e scintillanti di vita, una pelle candida come di bambola e
morbida come una distesa di fiori di pesco, labbra minute ma abbastanza carnose
e un naso piccolo che pareva scolpito ad arte.
Se la dèa della
bellezza avesse avuto una forma, sarebbe stata la sua.
Il kimono che
indossava, con un lungo strascico e ricamato d’oro, era di purissima seta color
del tramonto, ricamato con fiori bianchi di ciliegio simbolo del casato degli
Oda; sotto di esso un altro kimono, bianco, come a testimoniare l’inarrivabile
purezza di colei che lo indossata.
Nel suo sguardo vi
era qualcosa di strano, come un che di silenziosa malinconia, un male di vivere
da parte di uno spirito troppo puro per vivere in un epoca di sì fatto orrore.
A vederla così, a
prima vista, si sarebbe detta quasi una bimba, ma a ben guardarla doveva avere
tra i venti e i venticinque anni.
Tutti si
prostrarono, toccando il tatami con la fronte, e rivolsero il loro saluto alla
nuova arrivata.
«Venerabile
signora.» dissero quasi all’unisono.
Lei avanzò,
lentamente, come durante un rito sacro, e giunta ai piedi dello scranno del
signore si inginocchiò a sua volta, chinando il volto verso terra.
Nohime, non vista,
distolse lo sguardo, digrignando i denti e piegando gli occhi in un’espressione
come di malcelata sopportazione, un gesto che non sfuggì ad alcuni del presenti,
primo fra tutti il marito.
«Benvenuta, Oichi.»
disse Nobunaga
* Il tojiki è il
classico dolce di riso giapponese di forma triangolare. Può avere varie
farciture, a seconda dei gusti e, in certi casi, del momento della giornata in
cui si consuma; una di queste è l’umeboshi, un
condimento a base di prugne
** Gli hakama
sono quella sorta di gonne-pantaloni che vengono utilizzati nelle arti
marziali; il loro scopo principale è quello di celare il movimento dei piedi,
così da rendere difficile all’avversario anticipare un eventuale assalto.
*** L’antica provincia di Owari si trovava nella zona centro-meridionale del
Giappone, nell’odierna Prefettura di Nagoya
Nota dell’Autore
Salve
a tutti!^_^
In
questi giorni, finalmente, ho un sacco di tempo libero, e così posso aggiornare
con una certa frequenza e contemporaneamente stare dietro agli ultimi capitoli
del mio primo romanzo, nella speranza che qualche editore si decida a farsi
vivo.
Comunque,
questo capitolo possiamo considerarlo di semplice intermezzo, e anticipo fin da
ora che la parte relativa all’addestramento di Iguro occuperà ancora tre o
quattro capitoli, per quanto cercherò di farla procedere il più speditamente
possibile così da non sviare dalla storia vera e propria.
Ringrazio
come sempre i miei recensori, Glaucopis e Skydragon.
Infine,
una notizia, giusto per testimoniare la mia natura vanesia^_^
Tra due
giorni, venerdì, si terrà la cerimonia di laurea in Piazza San Marco per i
neolaureati dell’Università di Venezia. Sarà una cerimonia in stile americano
(con consegna dei diplomi, cappello in aria etc), la
prima di questo tipo in Italia, quindi potrà capitare che se ne interessi anche
qualche tg nazionale. Se mai vi capitasse, dategli un’occhiata,
anche perché vedete… tra tutti quei laureati ci sarò
anch’io!
Tutti i dignitari, i comandanti e i
condottieri lasciarono velocemente la stanza senza che Nobunaga dovesse neppure
scomodarsi ad ordinarglielo.
L’ultima ad
andarsene fu Nohime, che non mancò, subito prima di
fare l’inchino al marito e chiudersi la porta alle spalle, di rivolgere alla
principessa un’ultima occhiataccia.
Subito fuori della
stanza, ai piedi della scalinata di legno che vi consentiva l’accesso, si formò
un piccolo assembramento di persone, tutte ugualmente sorprese per
l’eccezionalità dell’evento; era da quando si era sposata che lady Oichi non
metteva piede al castello.
I più preoccupati
sembravano Iayasu e Hideyoshi; Ieyasu, da acuto
stratega quale era, intuiva che probabilmente dietro a questa mossa del suo
signore vi era l’estremo tentativo di causare l’ennesima guerra e scongiurare
la minaccia di un conflitto civile all’interno degli alleati degli Oda.
«Se gli Azai
dovessero infrangere l’alleanza, altri potrebbero seguirli.» disse quando gli
fu chiesto di esporre la propria opinione «E la rete di alleanze che il nostro
signore è riuscito a costruire in anni di fatiche e di intese politiche
minaccerebbe di andare in pezzi».
L’intuizione di
Ieyasu si rivelò essere corretta.
Rimasti soli nella
stanza Nobunaga e Oichi stettero a lungo in silenzio, lui in piedi e di spalle
e affacciato dalla finestra che dominava tutta la città lei inginocchiata ai
piedi dello scranno con lo sguardo basso e le mani poggiate sulle ginocchia.
Sembravano così
diversi, e allo stesso tempo così simili; stessi occhi scuri, stessi capelli
neri, ma se Nobunaga trasudava di vigore e di spirito guerriero, Oichi al
contrario emanava un’aura come di mistero, un che di mistico che rendeva il suo
fascino ancor più magnetico.
Uomini e dignitari
dei quattro angoli del Paese avevano offerto mari e monti alla famiglia Oda per
averla in sposa, e invece Nobunaga, che in quanto fratello e unico consanguineo
aveva su di lei un’autorità quasi assoluta, l’aveva data in moglie a Nagamasa,
l’unico che non glielo avesse espressamente chiesto.
A Nobunaga era
sempre piaciuto quel ragazzo; un grande guerriero, ma soprattutto un giovane di
nobilissimo animo, gentile e cortese, educato secondo le più antiche e nobili
tradizioni. Proprio per questo lo aveva voluto al suo fianco, offrendogli la
propria sorella in sposa per rendere l’alleanza con lui qualcosa di più
profondo rispetto a ciò che lo legava alla maggior parte degli altri daimyo suoi alleati o vassalli.
Proprio per questo
voleva evitare che si arrivasse ad una guerra; quel ragazzo gli piaceva troppo,
e non sopportava l’idea di vederlo buttare via la sua vita in quel modo, prima
di aver fatto quelle cose grandi e memorabili che era destinato a fare.
Ma c’era un’altra
ragione, più politica e di convenienza; se proprio Nagamasa, il suo fratello di
matrimonio, si fosse schierato contro di lui, molti altri avrebbero potuto
imitarlo, gettando le basi per una vera e propria guerra civile interna
all’alleanza degli Oda.
Oichi era il
collante che teneva Nagamasa legato a lui, e allo stesso tempo era sia il
braciere che alimentava la fiamma del suo nobile spirito sia la catena che lo
imbrigliava, impedendogli di espandersi più del dovuto così da spingerlo sulla
brutta strada o a compiere azioni che potessero ferire la sua amatissima
moglie.
O almeno, questo
era quello che Nobunaga sperava.
«È passato molto
tempo, sorella.»
«Molto, fratello.
L’ultima volta è stato al mio matrimonio, alla fortezza di Odani.»
«Mi mancano molto
le verdi pianure di Omi, e l’aria pura di Odani. Mi piacerebbe tornarci uno di questi giorni.
E il mio amato
fratello di matrimonio come sta?»
«Abbastanza bene,
fratello. Negli ultimi tempi ha molti pensieri.»
«Anche io sono
stato molto impegnato».
Seguì una lunga
pausa, carica di tensione; Oichi guardò in basso, verso le proprie mani
appoggiate sulle ginocchia, Nobunaga invece cercò di seguire con lo sguardo i
rapidi movimenti di un passero che volteggiava nel cielo eseguendo maestose
acrobazie.
«Tu lo sai perché
ti ho mandata a chiamare, vero?».
Oichi abbassò
ancora di più gli occhi e non rispose, almeno non a parole. A quel punto
Nobunaga si volse verso di lei, si avvicinò e si inginocchiò, così che furono
viso a viso.
Lei lo guardò come
stranita; probabilmente era l’unica persone con la quale il potente signore
degli Oda si abbassava a fare una cosa del genere.
«Nagamasa è un
guerriero di valore. Un uomo di sani principi, che dà uguale valore tanto
all’onore per sé stesso e il suo clan quanto all’amore per la sua sposa.
Non posso
permettere che un uomo di sì fatta grandezza, destinato a compiere imprese memorabili,
venga condotto alla rovina per una stupida alleanza sancita dai suoi antenati.»
quindi le sfiorò il mento, sollevandolo perché lo guardasse «Tu non lo vuoi,
vero? Non vuoi che Nagamasa abbia a pagare per colpa di un vile senza orgoglio
come Yoshikage Asakura».
Oichi non replicò,
troppo provata e confusa per poterlo fare.
Nonostante il
matrimonio con Nagamasa le fosse stato imposto amava sinceramente il suo sposo,
e lui amava lei. Ma non era una sciocca; sapeva bene che suo fratello l’aveva
fatta sposare solo per cementare un alleanza, e non certo perché tenesse a
vederla maritata con l’uomo migliore del Paese.
Tuttavia, questa
era una cosa che non le importava; essere al fianco di quell’uomo così gentile
e premuroso, esserne la sposa, era un dono per il quale ringraziava ogni giorno
gli dèi, e avrebbe dato qualsiasi cosa, compresa la vita, per saperlo al
sicuro.
«Lui ti ama più
della sua stessa vita, sorella. Non farebbe mai niente che andasse contro il
desiderio e le suppliche della sua amatissima moglie.
Tu devi farlo
ragionare. Con il tempo e le parole posso fare in modo che la sua alleanza con
gli Asakura venga infranta, ma devo essere sicuro che, almeno per ora, non farà
niente di stupido.» quindi Nobunaga si alzò, tornando a sedere sul suo scranno
e ridiventando così il potere signore di Owari
«Proteggilo, Oichi. Fa che la sua giovane vita non sia destinata a spegnersi
così presto.»
«Se questo è il
vostro desiderio, fratello.» rispose lei prostrandosi leggermente «Io lo
esaudirò».
Poco dopo la portantina
di lady Oichi lasciò il castello scortata da un manipolo di guardie e dalla
fedele dama di compagnia della principessa; Hideyoshi e Ieyasu la osservavano
dal torrione che dominava l’ingresso.
«Che ne dici?»
domandò Ieyasu
«Dico che per un
po’ possiamo smettere di preoccuparci di Nagamasa. Lady Oichi forse non se ne
rende conto, ma quell’uomo è come fango nelle sue mani. Lord Nobunaga questo lo
sa, e ha dimostrato di saperne trarre vantaggio.»
«Secondo me state
sopravvalutando troppo quella ragazzina. Così come state sottovalutando
Nagamasa. Un paio di occhietti e un viso da dea in terra non lo tratterranno a
lungo dal fare ciò che potrebbe ritenere giusto.»
«Forse. Ma questo
in ogni caso non fermerà il nostro signore. Se alla fine Nagamasa dovesse scegliere
di impugnare le armi contro di noi, lo farà a proprio rischio e pericolo».
Ieyasu guardò
Hideyoshi molto male, quasi con astio. Per un uomo d’onore come lui, pur con
tutti i suoi difetti, appariva sconveniente e vergognoso che si manipolasse a
proprio piacimento una persona ingenua e buona d’animo come la principessa
Oichi in un modo tanto spregiudicato.
D’accordo che
questo avrebbe permesso di evitare una guerra, anche se solo per poco, e di
questo ne era sicuro, ma anche così non riusciva ad accettarlo.
«Dove vai?» domandò
Hideyoshi vedendolo andar via
«Torno a Mikawa. È tanto che manco dalle mie terre. Ho voglia di
rivedere la mia famiglia.»
«Come sta tuo
figlio Nobuyasu? Quanti anni ha?»
«Nove anni. Sta
bene. E un giorno sarà un guerriero valoroso tanto se non più di suo padre.»
«Non ne dubito.»
disse tra sé Hideyoshi rimasto solo.
Ieyasu, seguito
dalla propria scorta, abbandonò quindi Nagoya dirigendosi a nord, verso i suoi
domini, fermandosi per la notte in una radura aperta non lontano da un piccolo
villaggio al limitare del dominio degli Oda.
Aveva molti
pensieri per la testa. Tentò di scacciarli con un po’ di esercizio, impugnando
la spada di suo padre e maneggiandola con incredibile maestria.
Se ripensava alla
sua vita, si sentiva un verme.
La sua famiglia,
per quanto antica e ricchissima, governava su di un feudo molto piccolo,
circondato da potenziali nemici ingordi e ambiziosi. Per proteggere la propria
gente, aveva giurato fedeltà a ImagawaYoshimoto, che a quel tempo sembrava il più potente signore
della guerra in circolazione. Ma poi Yoshimoto era
stato sconfitto e ucciso ad Okehazama, e a Ieyasu non
era rimasta altra scelta che implorare la clemenza di colui che era stato
l’artefice della morte del suo signore, un ragazzino sbucato dal nulla:
Nobunaga Oda.
A dire la verità,
Nobunaga gli era piaciuto fin dall’inizio; un ragazzo sveglio, con una mente
acuta e una forte predilezione per la raffinata strategia militare, proprio
come lui. Forse anche Nobunaga pensava la stessa cosa, infatti lo risparmiò e
lo prese al suo servizio, facendone uno dei suoi più stretti collaboratori.
Ma a Ieyasu questo
non bastava.
Non si accontentava
di essere un secondo, un servitore, come suo padre e suo nonno.
Lui voleva di più.
Aveva in mente
tante cose per portare unità e pace nel Paese, cose grandiose, e sapeva che mai
avrebbe potuto compierle fino a che fosse vissuto all’ombra di qualcun altro.
Tuttavia, le sue
aspirazioni di gloria e di rivalsa non pregiudicavano il senso di lealtà che lo
legava al suo signore; solo, a differenza della maggior parte dei vassalli
degli Oda, sentiva che avrebbe potuto fare grandi cose anche da solo. E semmai
un giorno il cielo avesse voluto accordargli un’occasione, l’avrebbe colta
immediatamente. Di questo era sicuro.
Riposta la spada si
preparò per dormire.
«Hanzo.» disse prima di entrare nella tenda
«Sì, mio signore?»
rispose HanzoHattori
sbucando da un angolo buio.
Come tutti gli shinobi, i suoi occhi sembravano vuoti, senza vita, mentre
il resto del volto era coperto dalla maschera scura che indossava, e che gli
permetteva di aggirarsi nella notte più nera come un fantasma invisibile,
oscuro messaggero di morte per i nemici del suo signore.
Eppure, c’era
qualcosa di strano, di diverso in lui; per quanto vuoti, i suoi occhi non
sembravano completamente spenti, come se sotto quel guscio vi fosse ancora un
cuore capace di battere.
«Tieni d’occhio la
principessa Oichi e gli Azai.»
«Come desiderate.»
«Nobunaga e Hideyosh credono di aver messo il bavaglio a Nagamasa, ma
secondo me sono solo due ingenui. È la tigre in gabbia quella maggiormente
imprevedibile».
Hakuba
Aprile
1569
Iguro aveva finalmente cominciato a
comprendere il significato di tutti quei massacranti quanto insoliti
allenamenti, ma gli ci era voluta una lezione coi fiocchi per riuscirci.
All’inizio non
riusciva a capire cosa servisse tutto ciò che veniva costretto a fare con il
diventare un vero assassino.
Ogni mattina,
spesso anche prima dell’alba, iniziavano le sue giornate, fatte di allenamenti
al limite dell’umano, e a volte talmente strani e apparentemente inutili che
gli veniva da domandarsi a cosa mai potessero servire.
Oltre alla corsa,
gli esercizi che Magoichi gli imponeva comprendevano
il correre su e giù per le scale del tempo, guadare fiumi, nuotare avanti e
indietro senza mai fermarsi, restare fermo e cercare di schivare i sassi che
tutti i bambini del villaggio gli tiravano dietro, trascinare enormi pesi per
tutta la foresta servendosi solo della forza delle spalle e passare giorni
interi appeso al ramo di un albero a testa in giù.
La corda della
sopportazione per quella specie di incubo si era tesa fino al punto da
spezzarsi, e un giorno Iguro, distrutto dall’ennesima corsa al limite dello
svenimento e provocato dalle parole sprezzanti di Magoichi
sulla sua dubbia bravura, nonché discendenza dal sangue del suo eroico padre,
quale esso si volesse considerare tale, il ragazzo era infine sbottato.
«Ne ho abbastanza
di tutto questo! Ne ho abbastanza dei tuoi ridicoli allenamenti, dei tuoi
insulti, delle tue provocazioni, di tutto il resto! Sono stufo di essere
bastonato, provocato, insultato! Stufo di svenire sulla strada, di correre
tutto il giorno con niente nella pancia, di giocare a fare il bersaglio per i
sassi, di trasportare vecchi avanti e indietro dal tempio!
Basta! Basta!».
Di tutta risposta Magoichi gli aveva puntato contro il suo archibugio, con
tanto di baionetta innestata sotto.
«Se è così che la
pensi, non ha più senso per te rimanere.» e aveva preso a lanciare un affondo
dietro l’altro.
Iguro, spiazzato,
aveva capito subito che il suo maestro non stava scherzando, ma era talmente
scosso che l’unica cosa che gli riuscì di fare tu tentare di schivare i colpi.
E fu a quel punto
che se ne accorse; al villaggio, subito dopo che quella foga di uccidere lo
aveva abbandonato, era ridiventato un semplice contadino, vulnerabile e
indifeso. Ora invece, e senza che la foga ci mettesse del suo, riusciva ad
opporsi agli affondi e agli altri colpi di Magoichi
con una certa facilità. Non solo riusciva a schivare ogni attacco, ma per
confondere l’avversario compiva notevoli acrobazie, come abbassarsi al volo,
strisciare sul terreno come sul ghiaccio e compiere salti altissimi servendosi
degli alberi come di un trampolino.
Mesi di allenamento
apparentemente insensato lo avevano invece temprato fin nel profondo; le gambe
e le braccia erano diventate forti, le ossa resistenti, i muscoli elastici e i
riflessi allenati.
Accortosi dello
sguardo del suo allievo, Magoichi si era alla fine
fermato, e poggiatosi l’archibugio sulla spalla era tornato a sfoggiare quel
sorriso provocatorio e ammiccante che Iguro aveva visto la prima volta.
«Capisci adesso?
Niente di ciò che hai fatto negli ultimi sei mesi è stato inutile.»
«Io… io non me ne rendevo conto.»
«Direi che come inizio
non c’è male. Ma c’è da lavorarci ancora su».
Da quel giorno
Iguro aveva cominciato a considerare l’allenamento con altri occhi, ma ciò non
toglieva che tutti quegli esercizi restavano qualcosa di inumano, capaci di
privare di ogni energia anche il più reattivo e perseverante degli uomini.
Un pomeriggio, il
ragazzo riuscì a tornare a casa un po’ prima del solito dopo aver corso per
otto chilometri, nuotato per tre, camminato nell’acqua per uno e trasportato
vecchi semi-paralizzati su e giù dal tempio per quattro o più. Quel giorno,
stranamente, Magoichi non lo aveva seguito, delegando
l’incarico a uno degli altri maestri del villaggio, se possibile ancor più
sadico di lui, e Iguro sentiva di non avere più un solo briciolo di forza in
tutto il corpo.
«Non ce la faccio
più.» disse crollando letteralmente sul tatami «Se muovo un altro passo, mi
romperò come un vaso».
Stava quasi per
addormentarsi quando, vanificando sul nascere la sua speranza di trascorrere in
tranquillità quanto restava della giornata, un altro discepolo bussò alla
porta.
«Magoichi-sama vuole che tu vada alla villa. Deve parlarti
con urgenza.»
«Arrivo.» rispose
lui sconsolato.
Chissà cosa voleva Magoichi. Forse lamentarsi del suo scarso rendimento e
appioppargli del lavoro extra per il giorno dopo; non sarebbe stata la prima
volta.
Con l’umore a pezzi
Iguro raggiunse la villa, facendo appello a tutte le forze che gli restavano
per salire e spalancare il portone; non vi era più tornato da quel giorno, il
giorno del suo arrivo, perché il suo basso grado non glielo permetteva. Appena
entrato, una delle inservienti lo condusse nella stessa saletta dove lui e Magoichi avevano parlato per la prima volta sei mesi prima:
il suo maestro, posato l’archibugio, lo aspettava seduto davanti ad un pregiatissimo
goban in legno massiccio e lavorato, sorseggiando la
solita tazza di tè.
«Benvenuto.»
«Magoichi.» rispose il ragazzo un po’ allibito «Che cosa…»
«Mi stavo un po’
annoiando. Immagino saprai giocare. Che ne dici di una partita?».
Iguro sapeva
giocare a go fin da quando aveva cinque anni; glielo aveva insegnato suo padre,
e capitava spesso che durante la sera dopo cena giocassero insieme, a go come a
shogi. Certo, non era un campione, ma la sua bella
figura sapeva farla.
Sedutosi di fronte
a Magoichi, aprì lo scrigno contenente le sue pedine
e fece la prima mossa. Magoichi replicò con la
propria, e in breve la scacchiera si riempì di pedine bianche e nere che si
fronteggiavano le une con le altre descrivendo un intricato disegno strategico.
Anche Magoichi ci sapeva fare con il go, infatti si portò subito
in vantaggio mettendo all’angolo uno dei gruppi d’armata di Iguro e riuscendo
nel contempo a limitare i movimenti di un altro.
«E questo cosa
avrebbe a che fare con l’addestramento?» domandò Iguro posizionando un’altra
pedina
«Un assassino non
deve essere ferrato solo nell’agilità e nell’omicidio. Deve anche possedere una
mente acuta, che possa aiutarlo a toglierlo d’impaccio nelle situazioni più
difficili».
La partita
continuò; con un paio di buone mosse, e con un certo stupore da parte del suo
maestro, Iguro riuscì a rompere l’assedio al suo secondo gruppo e a catturare
il gruppo che aveva tentato di accerchiarlo, ma per riuscirci dovette
rinunciare alla sua prima armata.
Nonostante tutto
però Magoichi alla fine ebbe la meglio, chiudendo la
partita con un una vittoria a dir poco schiacciante.
«Anche su questo
aspetto ci sarà da lavorare. Ad ogni modo, preparati. Da domani inizierai ad
allenarti anche nel combattimento.»
«Dici sul serio!?»
esclamò Iguro
«Aspetta a
festeggiare. Questo non significa che i miei allenamenti saranno interrotti. Al
contrario, da ora in poi la strada rischia di farsi ancor più in salita».
Questo a Iguro non
importava.
Finalmente, avrebbe
potuto apprendere sul serio i rudimenti del combattimento, e questo gli bastava
per farlo sentire al settimo cielo, arrivando quasi a fargli scordare la
fatica.
Andò a letto con
l’animo molto sollevato, e la mattina dopo si presentò al campo di allenamento
anche più presto del solito; là lo attendeva già il suo nuovo insegnante, KeijiMaeda, in piedi e immobile
come una statua al centro del quadrato di sabbia.
«Ti vedo euforico.»
fu il suo primo commento «Menare le mani ti piace così tanto?»
«È solo che da mesi
non facevo che allenarmi negli esercizi fisici. Non nascondo che l’idea di
poter finalmente imparare a combattere mi entusiasma.»
«Come vuoi. Ma se
pensi che sarà una cosa da niente, ti ricrederai fin troppo presto.» disse Keiji, che a quel punto gli lanciò una delle due bokken che aveva con sé «Avanti, fammi vedere che sai
fare».
Senza farselo
troppo ripetere Iguro si mise in posa di guardia, mentre al contrario Keiji restò rilassato e disteso come se niente fosse,
tenendo la sua arma con una sola mano e con uno sguardo a dir poco
disinteressato stampato sulla faccia.
Iguro sapeva che
quello davanti a lui era un guerriero formidabile, l’aveva visto combattere con
i suoi occhi, ma un simile atteggiamento lo faceva comunque andare su di giri;
davvero credeva di avere di fronte un ragazzetto come quelli che lo aveva visto
bastonare durante i suoi soliti allenamenti?
Suo padre gli aveva
insegnato, e lui stesso aveva praticato l’arte della spada fin da bambino.
Volle prendersi
ancora qualche secondo, giusto per essere sicuro di non agire senza riflettere,
quindi, lanciando un urlo, partì all’attacco menando un fendente dall’alto in
basso. La risposta di Keiji tuttavia fu spiazzante e
inesorabile; con due soli attacchi prima disarmò il ragazzo colpendolo ai polsi
e poi minacciò di sfondargli lo stomaco affondandogli il filo della spada
subito sotto l’ultima costola.
Così, dopo soli due
secondi da che aveva iniziato il suo attacco, Iguro si ritrovò inginocchiato a
terra con i conati di vomito e un doppio dolore al polso e allo stomaco; non
era neppure sicuro di aver capito appieno cosa fosse appena successo, ma quel dolore
tremendo gli diceva chiaramente che aveva avuto la peggio.
«Decisamente
mediocre.» fu il commento spietato di Keiji.
Punto sul vivo
Iguro si rialzò, re impugnò l’arma e si preparò ad un secondo tentativo; di
nuovo, Keiji restò impassibile, e di nuovo, all’assalto
del ragazzo, rispose con prontezza e inclemenza. Stavolta di colpi gliene
servirono tre, uno per deviare, uno per aprirsi un varco e uno per colpire alla
spalla, ma il risultato fu esattamente lo stesso di prima.
«Ti manca tutto. Tecnica,
precisione, rapidità, resistenza. E i nemici che ti attendono fuori di qui non
impugnano spade di legno».
Nonostante il
dolore tremendo in tutto il corpo Iguro, facendo appello più al suo orgoglio
che alla sua forza, si rimise faticosamente in piedi, assumendo per la terza
volta una posa di sfida. Keiji, accortosene, assunse
un’espressione come di stizza.
«Non ne hai già
prese abbastanza?»
«Affatto!» rispose
lui lanciandosi nuovamente all’attacco.
E nuovamente, come
era accaduto le prime due volte, Iguro fu sconfitto e abbattuto, ma stavolta la
sua perseveranza e ostinazione costrinsero Keiji ad
impegnarsi un pelino di più, e ad assestare molti più colpi, per riuscire ad
avere finalmente ragione di quel ragazzetto scatenato.
«Per oggi basta
così. Ma mi tremano le vene al pensiero di quanto ci sarà da lavorare».
Il ragazzo aveva il
morale sotto i piedi.
Anche nel
combattimento, dove pure sentiva di potersela cavare, era invece ancora
terribilmente immaturo, e nonostante ci avesse messo tutto sé stesso in quella
piccola battaglia simulata al suo avversario era bastato davvero poco per
metterlo al tappeto.
Ma non volle farsi
prendere dallo sconforto; aveva deciso che non sarebbe più accaduto. Se era
debole, poteva diventare più forte; se il suo stile era mediocre, poteva
migliorarlo.
In un modo o nell’altro,
si diceva, sarebbe diventato un guerriero, anche se si fosse trattato di
sputare su quella sabbia tutto il sangue che aveva; solo così avrebbe avuto i
mezzi per compiere la sua vendetta, quella vendetta che era uno dei pochi
pensieri che gli dessero la forza di sopportare tutto ciò che stava passando.
Nagasaki
Giugno
1569
Valignano era davvero un
uomo straordinario.
Dopo il suo arrivo,
in soli cinque mesi aveva imparato il giapponese quasi alla perfezione, quindi
aveva spostato la sua attenzione sulla dottrina shinto
e gli insegnamenti del Buddha, questi ultimi già in parte assimilati nel corso
del suo recente viaggio in Cina.
Aveva fatto venire
all’abazia il padre superiore di un vicino tempio zen e accolto molti altri
monaci viandanti ai quali aveva offerto cibo e protezione a patto che,
giornalmente, si intrattenessero con lui in lunghe ed appassionate dispute
teologiche e filosofiche.
Pur essendo un uomo
di fede Valignano aveva una mentalità all’apparenza
molto aperta, gli piaceva la filosofia e amava dibattere su qualsiasi materia,
e soprattutto sulla fede. I suoi insegnamenti avevano influenzato molti dei
dotti coi quali dibatteva, ma anche lui a sua volta era stato influenzato da
alcune delle loro dottrine e teorie.
La cosa non piaceva
particolarmente ad alcuni dei monaci, soprattutto a quelli esterni all’ordine,
come i francescani del monastero vicino che saltuariamente si recavano lì in
visita, ma a Valignano questo non importava.
Infine, aveva
voluto documentarsi sulla storia del Paese, e su sua disposizione Paolo gli
aveva procurato tutti i testi e i trattati di storia che era riuscito a mettere
insieme; il resto se lo faceva raccontare da quei religiosi, che come gli
antichi cantori si tramandavano la storia del proprio ordine e del Paese in
generale di maestro in allievo da secoli.
Una mattina di
inizio estate, Paolo raggiunse il suo maestro sotto il solito gazebo; come
previsto, lo trovò intento a leggere un vecchio libro regalatogli da un monaco.
Era un libro di poesie; ultimamente si era interessato anche a quello.
«Amico mio.» esordì
Valignano accortosi di non essere solo «Il cielo non
voglia che un giorno qualcuno là fuori intraprenda una guerra con il tuo popolo.
Anche se perdeste, fareste pentire ai vostri nemici di averla cominciata.»
«Che intendete
dire?»
«Il tuo popolo deve
la propria forza non alla potenza delle sue armi o alla vastità dei suoi
eserciti, ma dalla grandezza delle proprie virtù. Vivono nel nome della guerra,
sono preparati a morire, ma allo stesso tempo anelano e apprezzano la caducità
e la bellezza della vita. Un simile connubio può creare una sola cosa: un
soldato impossibile da sconfiggere».
Posato il libro Valignano sorseggiò una tazza di tè.
«Qual è la
situazione su al nord?» chiese poi
«Per il momento,
abbastanza pacifica. Ma ho il sentore che non lo sarà ancora per molto.»
«A cosa ti
riferisci?»
«Nobunaga si trova
in una brutta posizione. Ultimamente gli atti intimidatori nei suoi confronti
da parte degli Asakura si sono fatti sempre più sfrontati. A livello di forze
gli Asakura non sono niente; il problema è che Nagamasa Azai, il genero di
Nobunaga, è alleato sia degli Oda che degli Asakura. A ragione di ciò, al
momento Nobunaga si trova in una brutta situazione; teme che se decidesse di
entrare in guerra con gli Asakura Nagamasa potrebbe tradirlo, spingendo altri a
fare lo stesso.»
«Suo genero, hai
detto?»
«Nagamasa ha
sposato la sorella di Nobunaga, Oichi. Si dice che sia talmente bella da poter
rivaleggiare con il sole e la luna messi insieme. In questi mesi si vocifera
sia riuscita a trattenere Nagamasa dal voltare le spalle agli Oda, ma
probabilmente è solo una questione di tempo.»
«Brutta cosa le
donne belle.» commentò Valignano tornando a leggere
«La loro bellezza finisce spesso per essere la rovina degli uomini, e cambiare
il corso della storia.
Basti pensare a
Cleopatra, o a Elena di Troia.»
«Mi sono permesso
di fare anche qualche ulteriore ricerca, nella speranza di scoprire qualcosa di
più circa l’ubicazione della confraternita degli Assassini.»
«E?»
«Nulla di fatto,
purtroppo. Come potete facilmente immaginare, di villaggi perduti e nascosti i
cui abitanti sembrano possedere capacità sovrumane ce ne sono tanti in questo
Paese, e il volto ama esagerare con i suoi racconti. Per condurre una buona
ricerca serviranno indagini meticolose e personali.»
«Capisco.
Comunque, per il
momento, credo che la cosa migliore da fare sia aspettare.»
«Sono d’accordo con
Voi. Anche perché, in ogni caso, anche nell’eventualità in cui Nobunaga riesca
ad impedire il tradimento di Nagamasa, le cose per lui non si stanno mettendo
comunque bene. I Takeda e gli Uesugi,
che da tempo si facevano la guerra tra di loro, hanno stabilito una tregua, e
vista la loro natura belligerante non passerà molto tempo prima che decidano di
contendere a Nobunaga il controllo su Kyoto e reclamare per sé il titolo di
Shogun.»
«Devo dire di
essere molto colpito, Paolo. La tua rete di informazione è davvero eccezionale.
Un giorno o l’altro
mi dovrai raccontare come fai».
Nota
dell’Autore
Salve
a tutti!^_^
Chiedo
scusa per questo lungo periodo di silenzio. Il fatto è che tre anni di
università sono duri da sopportare, soprattutto quando si è trascorso le estati
a preparare esami o a fare tirocinio, quindi quest’anno avevo più che mai
bisogno di una vacanza. Ho quindi approfittato dell’invito di un mio amico e mi
sono concesso due piacevoli (e bagnate) settimane nel Regno Unito, tra Londra e
la Scozia.
Questo
capitolo avevo iniziato a scriverlo subito prima della partenza, e nel tempo
libero laggiù l’ho abbozzato nella sua interezza per poi metterlo insieme una
volta tornato.
Essendo
un po’ che manco dal sito sono indietro anche nelle recensioni, ma adesso
cercherò di rimettermi in pari.
Grazie
come sempre a Skydragon
e Glaucopisper le loro recensioni, e ad entrambi
dico che leggerò quanto prima i loro aggiornamenti.