Sogno reversE

di LunaBlu89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Walk On ***
Capitolo 2: *** The Real Dream of a Woman ***
Capitolo 3: *** A Call ***
Capitolo 4: *** Un Senso per Andare Avanti ***
Capitolo 5: *** Amico ***
Capitolo 6: *** Una Stella Chiamata The Calling ***
Capitolo 7: *** Incontro ***
Capitolo 8: *** Freedom in Love ***
Capitolo 9: *** Solving Smile ***
Capitolo 10: *** Hope ***
Capitolo 11: *** God is on Our Way ***



Capitolo 1
*** Walk On ***


Allora. Questa è una storia che volevo pubblicare da molto, ma non riuscivo a darle un titolo. O meglio... ve ne era uno stampato nella mia testa, quello che poi ha dato nome a questa storia, ma non riuscivo a capire quale fosse il suo significato, e forse non lo capirò mai completamente.
Ma credo di esserci arrivata vicino, ora.
Sogno reversE fa parte dei sogni storti, di quelli che vorresti tanto realizzare ma che non sono sogni comuni; quelli che sembrano strani anche ai sogni stessi. Sogni capovolti, che non hanno né inizio né fine, e se proprio ne devi trovare la genesi e la morte, allora puoi solo dire che iniziano con te e finiscono con l'ultimo fremito delle tue fibre.
Sogno reversE è anche un sogno in reverse, e cioè un sogno in retromarcia: non come i sogni che si fanno la notte, elaborazioni della realtà, che partono dal concreto e finiscono nell'astratto della mente, ma sogni che da pura astrazione mentale - e di cuore - arrivano alla loro realizzazione.
Ma... completa realizzazione? Beh, spero di no, perché altrimenti sarebbe stasi, e quindi, morte.


Con questa fanfict ho vinto il concorso "Calling All Bandits!" del sito ufficiale italiano di Alex Band, quindi la potete trovare anche nella Hall of Fame del sito.
PS: Questi avvenimenti avvengono prima del successo, come il titolo suggerisce.
PPS: Se i personaggi sono OOC non ci posso fare niente, perché non si può conoscere a fondo la psicologia di persone così distanti. Essendo una mia storia, ho dato loro una forma. Ai lettori l'ardua sentenza XD







Era uno di quei giorni in cui il sole è già alto a Los Angeles, ma il gas e il fumo lo coprono di nuvole grigiastre. Un giorno in cui ti alzi con i sogni già storti ma impressi ancora nella mente; un giorno in cui, guardandoti allo specchio, ti rendi conto, con un’inquietante quanto temporanea preveggenza, che non potrebbe andare peggio di così. I tuoi desideri sono così vividi, sai che la loro realizzazione è dietro l’angolo ma la strada allontana incessantemente il fine per cui tu corri così tanto.
Eppure, che cosa poteva esserci, che non andava sul serio?
Il solo fatto che era una giornata di merda, o che quel giorno lui avrebbe dovuto incontrare l’uomo a cui aveva dato il suo cd - il loro cd - ed aveva un brutto presentimento?
E lui lo sapeva che, cazzo, il suo intuito c’aveva sempre ragione.

“Cosa?! Ma l’ha ascoltato per bene, vero?”
Alex rincorreva il suo uomo, che intanto si dirigeva frettolosamente verso la sua auto. Aveva fretta.
“Certo che l’ho sentito.” Guardò l’orologio di Calvin Klein e girò il capo a destra e a sinistra, pronto ad attraversare la strada. Alex lo raggiunse.
”E allora?”
“E allora niente. Non va.” Alzò gli occhi al cielo con evidente segno di gratitudine, quando le macchine diedero per qualche secondo tregua alle strisce pedonali.
“Come?” La strada ricominciò ad essere frenetica, e Alex fece slalom tra le macchine.
“Cosa vuol dire che ‘non va’?”
L’uomo finalmente si fermò, mise una mano nei pantaloni e tirò fuori un mazzo enorme di chiavi. Alex fece fatica a frenare le gambe, dopo l’impresa artistica di pochi secondi prima.
“Non sai cosa vuol dire ‘non va’, ragazzino?”
Alex espirò e si grattò la fronte con l’indice e il medio. “Io non sono un ragazzino.”
L’uomo finalmente lo guardò in faccia e lo squadrò, con indifferenza. Alto quasi sull’ottantina, magro, capelli biondi, occhi verdi, con la faccia da bambino. Ritornò alle sue chiavi.
“A me sembra di sì.” Fece per aprire.
Alex sbatté la mano sinistra sullo sportello, e lo guardò con fare deciso. L’uomo ricambiò. Parlava a macchinetta. “Che cosa c’è che non va ammesso che sia vero? Le dà fastidio che dei ragazzi non ancora propriamente ventenni possano avere la possibilità di conseguire un sogno?” La vena vendicativa gli attraversò la lingua. “E’ frustrato perché lei non c’è riuscito per caso?”
L’altro sbuffò e alzò il sopracciglio. La sua espressione, mista al viso paffuto, lo rese ridicolo. “Sai qual è il problema? Ebbene, il problema è che tu e i tuoi amichetti attirereste solo le ragazzine che affogano nei loro stessi ormoni, e io sono stufo di questo. Dopo un anno, se non addirittura un mese, queste cosiddette ‘band’ si sciolgono e danno grane a noi delle case discografiche. Voglio qualcuno di più serio.”
Fece forza nell’aprire lo sportello, ma Alex continuava ad impedirglielo.
“Noi siamo serissimi e siamo affiatati; se solo ci desse una possibilità, potremmo dimostrarglielo. Così mostra solo di avere pregiudizi.”
L’uomo gli menò un’occhiataccia e fece ancora più forza. Alex lasciò improvvisamente lo sportello, e l’anta si aprì con violenza. L’uomo ruggì tra sé e sé.
“Un altro problema è che ho fretta.”

Mani nelle tasche dei jeans, cappuccio della giacca a coprire la testa, auricolari del mp3 alle orecchie. Camminava sul marciapiede e intanto cercava le chiavi della sua Ducati Monster rossa, parcheggiata a poca distanza da lì.
“Vaffanculo, lo sapevo lo sapevo.” Pensò a quando l’uomo era entrato nella sua macchina e subito si era messo a trafficare col cellulare, mentre partiva. “Stupidi manager.”
Arrivò alla Ducati, che rifletteva i vetri del palazzo sotto cui era stata parcheggiata. Si mise il casco, salì sulla sella e mise in moto. Ci volle un po’ di tempo, come consuetudine, prima di trovare un po’ di spazio per immettersi sulla strada, ma ci riuscì. Per tutto il tempo, pensò alla conversazione che aveva fatto e che gli aveva rovinato la giornata. O meglio, che gli aveva confermato che quella giornata non sarebbe dovuta essere nella lista di quelle da vivere.
Un’altra delusione. Si stava abituando. Eppure non capiva, non capiva il motivo del discreto successo che avevano nei pub e nei locali quando si esibivano, se poi le persone che avrebbero dovuto dare un futuro a quei due, non dava loro nemmeno la più piccola speranza.
‘Walk on’ degli U2 suonava nelle orecchie.

‘Walk on, walk on
What you got they can't steal it
No they can't even feel it
Walk on, walk on...’
*


“Walk on, sì... ma se qui non mi fanno passare”, disse con pessimo humor, mentre cercava di passare tra la fila che si stava intasando. Girò la testa in direzione delle vetrine, e vide una serie di chitarre elettriche in mostra. Non sapeva più quanti pomeriggi aveva passato a guardarle, a scegliere la migliore… Poi, qualcos’altro attirò la sua attenzione: fiori lilla si cullavano su una gonna bianca che sembrava fluttuare. Alzò lo sguardo e si sentì perso. Una donna bellissima, con un vestito estivo e gli occhiali da sole camminava con disinvoltura, nonostante i tacchi neri vertiginosi. Aveva una piccola borsa in una mano, mentre con l’altra si aggiustava i capelli d’oro. E sorrideva. Sorrideva come se, tutto quello che succedeva ogni giorno in quel piccolo pezzo di mondo, avesse sempre qualcosa di buono, qualcosa che lui, ora, non riusciva a vedere. Un clacson lo riportò alla realtà e gli fece rivolgere gli occhi alla strada. La donna che aveva suonato, lo vide girare verso il marciapiede in una manovra assurda, per cercare di non sbattere contro l’auto che lo precedeva.
Si fermò e tolse il casco. Si guardò, poi esaminò punto per punto la moto, temendo qualche eventuale danno. Si calmò nel vedere che non le era successo niente, e chiuse gli occhi prendendo una boccata d’aria. Poi, si girò indietro di scatto, cercando la ragazza che lo aveva fatto andare fuori strada.
Era sparita.









*"Walk On" from "All That You Can't Leave Behind", U2

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Capitolo 2
*** The Real Dream of a Woman ***


“Ed ora che gli dico?” Alex faceva avanti e indietro nervosamente. Davanti a lui, piccoli gradini di marmo che portavano ad una porta bianca con campanello dorato, e tutto intorno, fresca erbetta verde appena curata.
“Allora…” Diede un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce, poi abbassò il suo tono naturale. Gesticolava come un dittatore davanti al suo popolo. “Aaron, anche questa volta abbiamo subito perdite, ma resisteremo anche oggi!” Sì girò e cambio nuovamente espressione. “Aaron…” colpo di tosse. “Sì, Aaron, mi dispiace…” si mise una mano sul viso facendo finta di piangere e dando pacche all’aria, “mi dispiace amico mio, non ce l’abbiamo fatta…!” Sbuffò e si rigirò. “No Aaron, non fare così! Dai, non è una cosa così grave!” Si voltò, cambiando tono ed espressione. Alzò il dito indice contro un presunto fantasma. “E’ tutta colpa tua, Alex! L’avessi incontrato io, avrei sicuramente fatto meglio di te!” Si voltò. “Ma Aaron, sii comprensivo, insomma… ho fatto quel che potevo!” – “Ah sì?! Allora sei un incapace!”

Da dentro, un ragazzo, avendo sentito rumori insoliti, si stava dirigendo verso la porta.
Aaron aprì mentre ancora Alex stava facendo il suo discorsetto. Lui si girò con la mano alzata e stette a fissarlo per un paio di secondi, poi fece un sorriso timido e si mise le mani in tasca, alzando le spalle. “Mi fai entrare?”

A giudicare dalla canottiera metà dentro e metà fuori i suoi boxer blu, i capelli riccioluti all’aria e il numero di sbadigli che riusciva a mettere in serie, Aaron si era appena svegliato. Entrarono nel salone e si sedette sul divano.
“Dimmi che c’è.”
Alex abbassò gli occhi. “Ciao comunque, eh.”
Aaron stette in silenzio. “Non è andata, vero?”
Nessuna risposta. Aaron espirò e si mise le mani sulla faccia. “Capisco. Non è colpa tua.”
Alex alzò la testa al soffitto e inspirò. “A volte mi chiedo se sia stato conveniente per te scegliere di suonare con me invece di continuare a stare con mia sorella. Anzi, ora mi chiedo anche il perché l’hai fatto.”
Aaron lo guardò. “Ovvio, perché sei più figo tu.”
Si guardarono e iniziarono a ridere. Alex si stravaccò sul divano come se fosse a casa sua, e in effetti, ci mancava poco. Prese il telecomando e accese la tv, iniziando a fare zapping.
“Tanto lo sai, che non smetteremo fino a quando non troveremo qualcuno che capisce la nostra musica.” Aaron strabuzzava gli occhi davanti allo schermo.
Alex continuava la ricerca. “Sicuro? Sicuro che… che ne so, la nostra musica debba essere capita?”
Aaron si spinse in avanti e mise i gomiti sulle ginocchia. “Tutta la musica ha bisogno di essere capita, perché sono le note che meglio esprimono l’anima.”
Alex smise un attimo di fare zapping e lo guardò. Sogghignò e rimise il dito sui tasti. “Ti escono certe robe dalla bocca, appena sveglio…”
L’altro gli tirò uno schiaffo sulla testa. “A me escono sempre ‘certe robe’, sai.”
Alex si mise a ridere. “Almeno ho sognato.”
”Cosa?”
“Una donna.”
Aaron alzò le sopracciglia. “Ma dai.”
Alex lo guardò. “Non intendo un sogno porno! L’ho vista… l’ho vista in giro, dopo aver parlato con quell’imbecille. Credo di aver avuto un’allucinazione.”
Aaron si alzò e andò in cucina. Cercava pane e mostarda. La sua voce si sentiva a fatica, tra i vari cambi di canale. “Mai pensato che possa essere vera, eh?”
“Una donna così non esiste.”
Aaron ritornò con fette di pane, coltello e un barattolo quasi vuoto. “Se è per questo, nemmeno io credevo che potesse esistere una voce come la tua. Magari è reale.”
“Bah, mi sento troppo sfigato oggi per sperarci.”
“Ok, ma almeno smettila di cambiare canale, mi stai facendo venire già il mal di testa.”
“…Su MTV stanno facendo un servizio sulla musica house… meglio lasciar perdere.” Premette un pulsante a caso. Una donna bionda e bellissima recitava in un film. Alex smammò.
Aaron si mise a ridere, mentre spalmava la mostarda sul pane. “Non mi dire che è quella.”
Lui mantenne la stessa espressione. “Sì.”
Aaron ritornò serio. “Davvero?”
“Sì, è la donna dei miei sogni.”
Aaron mise una mano sul volto e fece una risata. “Quella è Jennifer.”
Alex si girò. “Jennifer…?”
Aaron mantenne il sorriso. “Jennifer. Jennifer Wacha.”
Alex sgranò gli occhi. “La tua amica attrice?”
L’altro annuì con la testa. “Esatto.”

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Capitolo 3
*** A Call ***


Jennifer non poteva voler di più dalla vita, o almeno, più di tutto quello che aveva sempre desiderato e che d’un colpo si stava materializzando. Stava realizzando il suo sogno, e a chi affermava che i sogni son belli perché rimangono tali, lei rispondeva che quando essi diventano realtà, è quest’ultima che cambia in meglio, e non loro in peggio.
Era giovane, veramente giovane, ma con l’anima di una donna. Chi la guardava superficialmente poteva giudicarla un’oca senza cervello – le tipiche bionde -, ma in realtà aveva un’eleganza di spirito senza eguali. E questo, piaceva.

“Mi raccomando, solo pochi minuti di pausa!” Il regista li pregava di non far tardi.
“Ti sembra che io mi sia mai presa più tempo di quello dovuto?”, disse sorridendo.
“Non è di te che mi preoccupo, mia bella.” Il regista le fece l’occhiolino, e lei si voltò divertita, destinazione camerino. Iniziò a correre, e si fece scudo dal sole con la mano vicino agli occhi. Quando arrivò, chiuse la porta e si sedette, soddisfatta.

Quella giornata era iniziata proprio come piaceva a lei: buon risveglio dopo una bella dormita, colazione, doccia, trucco e lavorare senza intoppi. Fare quel mestiere a volte era faticoso, ma pieno di soddisfazioni. Stava facendo quel che più le piaceva, e questa era la cosa più importante.
“Signorina mi scusi, tra cinque minuti si riprende.” Il cameraman sentiva di star facendo, in quel momento, qualcosa che non gli competeva.
“Va bene.”
“Vuole che le chiami la truccatrice?”
Jennifer si guardò allo specchio e, sebbene le sembrasse che il trucco tenesse ancora abbastanza bene, sentì che sarebbe stato meglio dire di sì.
“Sì, grazie.”
“Tra un minuto sarà da lei.”

Si guardò nuovamente allo specchio. Prese la borsa e la aprì. Le unghia rosse erano curate perfettamente. Mentre cercava tra i documenti, le chiavi di casa, l’eyeline, cipria e rossetto, ripensò a qualche ora prima, mentre si dirigeva a piedi verso il luogo in cui quel giorno avrebbero dovuto girare. Aveva notato un ragazzo in moto che conosceva solo di vista, ma per cui un suo caro amico avrebbe fatto di tutto. Aaron le aveva mostrato una sua foto, quando le aveva comunicato di aver finalmente trovato il cantante giusto per formare una sua band. Era cambiato molto da allora, ma era comunque riuscita a riconoscerlo, anche perché aveva visto delle loro foto più recenti.
Invece, molto probabilmente, lui non l’aveva notata. Ma anche se lo avesse fatto, sarebbe cambiato qualcosa? Aveva iniziato a fare l’attrice da poco, e non era ancora così famosa da esser riconosciuta in mezzo alla strada. Inoltre, non si erano mai visti.
In ogni caso, mentre trovava finalmente il cellulare, pensò fosse carino informare Aaron dell’accaduto. Si concesse due minuti di conversazione prima che arrivasse la truccatrice.

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Capitolo 4
*** Un Senso per Andare Avanti ***


Per Alex, la musica era tutto. Più di quanto avesse voluto, più di quanto avesse mai potuto immaginare. Aveva guardato per la prima volta la sua chitarra con gli occhi lucidi, regalatagli dal padre dopo tante insistenze, e la cosa più bella era che, a distanza di dieci anni, non aveva cambiato mai la sua espressione. Anzi, sembrava solo che fosse sempre più in grado di esprimere con le corde, tutto quello che aveva nell’anima e che in nessun altro modo riusciva a tirare fuori. Era la sua condizione essenziale.
Infatti, se non avesse avuto la possibilità di toccare le corde di quella musica, Alex era convinto… che non sarebbe riuscito ad andare avanti. In qualsiasi senso.
Musica era ricordo, dolore, ma anche e soprattutto speranza. Speranza di un mondo migliore, di una vita migliore. Di affetti sinceri.

Così, quando Aaron gli aveva detto di trovarsi “alle 5.00 p.m. nel tuo garage per provare”, Alex aveva avuto la brillante idea di rinchiudervisi dentro alle 4. Poi, come ogni altra volta, ci era andato due ore prima l’orario stabilito perché gli prudevano le mani al solo pensiero, mandando all’aria ancora una volta il tentativo dei vicini di fare il proprio riposino pomeridiano.
“Qui… meglio se qui alzo di una nota.” Scriveva su uno spartito già troppo scarabocchiato. Poi, provò il pezzo di canzone. Fece una smorfia. “…Non mi convince. E se invece elimino il giro di Do?” Riprovò e annuì. “Molto più melodiosa.”

Il cellulare squillò, sullo schermo c’era un nome: Aaron.
“Che è successo?” Alex rispose, perplesso.
“Eh?”
Diede un’occhiataccia allo schermo. “Non dirmi che le prove son saltate.”
“No, volevo solo darti un’informazione.”
“C’entra con la musica?”
“No, macché musica…” Aaron cambiò espressione. “…dimmi che non stai già provando.”
Nessuna risposta. Aaron alzò il tono. “Madòòòòòòòòò, lo sapevo! Vabbé comunque, volevo solo dirti che m’ha chiamato Jennifer.” Rise tra sé e sé.
Alex si raddrizzò sulla sedia. “Ah e che ha detto? Cioè, se me lo stai dicendo, vuol dire che c’entro qualcosa io, voglio dire…”
”Alex, non andare fuori di testa. M’ha solo detto che t’ha visto in moto, oggi.”
“Cazzo.”
“Evidentemente non ha visto quando stavi uscendo fuori strada come un cretino per lei.”
“Ok, ritiro ‘cazzo’ e dico ‘che culo’”.
“M’ha anche detto che sei più… apprezzabile dal vivo.”
Alex stette zitto per un po’, poi riprese. “Dai se devi fare il cretino allora chiudo, stavo provando.”
Aaron gli menò un ‘vai a quel paese’. “Sto dicendo sul serio, idiota.”
“Ah. E che ci faccio io di questa informazione?”
Aaron diede un’occhiataccia al cellulare. “Ma che cavolo Alex, mi sono sforzato a chiamarti e a dirti tutto questo odiandomi perché sembro una di quelle ragazzine che parlano di ragazzi, e tu mi rispondi in ‘sto modo?”
“Vabbé ma… nemmeno la conosco.”
“Tu non ti preoccupare, per questo.”
Inizialmente Alex non capì, e quando si rese conto di quello che intendeva dire e si affrettò a chiedergli chiarimenti, Aaron aveva già chiuso la conversazione.










PS: Nella realtà, la prima chitarra è stata regalata ad Alex dallo zio, e non dal padre :)

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Capitolo 5
*** Amico ***


Quando Aaron fece un rumore assurdo per alzare la saracinesca del garage, Alex gli si fiondò sopra con tutta la chitarra. Iniziò a parlare a macchinetta, come suo solito quando era nervoso.
“Che cosa volevi dire due ore 35 minuti 4 secondi 20 decimi fa? Che cos’era quel tono? Io so che cos’era so come sei quando c’hai in mente qualcosa avanti sputa il rospo che cos’è che vuoi fare alle mie spalle allora se hai qualcosa da dire dilla non stare a fissarmi così come un pesce lesso senza dirmi niente senza interrompermi se no continuo all’infinito oh insomma cazzo dovresti pensare di più alla tua ragazza invece di cercare di trovarne una a me se no sai quella ti tradisce sì ti tradisce perché si sente trascurata”
Aaron lo guardò immobile e serio per tutto quel discorso senza senso. Poi, una volta accertato che avesse finito, si tolse la chitarra dalle spalle e si sedette su di uno sgabello. Alex aveva ancora il fiatone e lo seguiva con lo sguardo.
Aaron aprì la custodia, si mise la chitarra sulle ginocchia e iniziò ad accordarla.

“…e se si sente trascurata poi sai che fa con gli altri con loro fa tutte le cose che non ha mai fatto con te e poi”
“Eeeohhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh!!!!!!!! E alloraaaaaaaa! Datti ‘na calmata!!!” Aaron gli rivolse uno sguardo di fuoco. Alex ammutolì. Aaron si rimise ad accordare la chitarra.

“…Niente, non ho in mente niente. Ho solo pensato ad un modo per farvi incontrare, infondo sono amico di entrambi, non ti pare?”
Alex lo fissava. Aaron finalmente lo guardò, poi ritornò alle sue corde.

“…”
Aaron lo riguardò.
“…”
Fece un sospiro e lo lasciò perdere.
“…Sì però come si fa insomma so che”
“Basta! Alex, respira” Gesticolava. “Respira.” Inspirò mentre portava in alto le mani, “Inspiraaaaaaa”, ed espirò portandole giù “ed espiraaaaaaaaaa” Alex lo seguiva. “Bene, vedi che funziona?” Continuava a gesticolare.
Alex chiuse gli occhi ed espirò per un ultima volta.
“Ora si può cominciare?”
Alex lo guardò. “Ok.”

Fu un pomeriggio come tutti gli altri, a parte l’episodio scioglilingua iniziale. Alex aveva come suo solito cambiato qualcosa alle canzoni, Aaron lo sgridava per la troppa iniziativa personale, Alex lo forzava ad ammettere che le aveva cambiate in meglio e Aaron gli ripeteva che doveva interpellare anche lui. Così si rimettevano a rivedere le canzoni e a provarle. Poi, Aaron lo scongiurava di lasciare in pace quelle che ormai erano definitive.

Alex alzò le mani. “Ok ok… non faccio più niente.”
”Giuramelo.”
”Giuro.”
”Dì: ‘Giuro che, nella mia intera esistenza, non toccherò mai e poi mai una canzone approvata sia da me che dal grande Aaron.”
“Ma non l’ho mai fatto.”
”Non si sa mai, giura lo stesso.”
”E va bé, giuro.”
”Dì: ‘Giuro che…’”
“Sì, quello.”
Aaron alzò gli occhi al soffitto e sbuffò. “Comunque sia, ti ricordi del Rock Café?”
Alex lo guardò, mentre stava lucidando il pianoforte. “Certo che me lo ricordo, abbiamo suonato lì un paio di mesi fa.”
Aaron annuì. “Esatto. C’è un buco per il sabato della prossima settimana, e dato che passavo di lì, il proprietario mi ha chiesto se lo riempiamo noi con un paio di canzoni.”
Ad Alex si illuminarono gli occhi. “Ma come fai ad avere un così grande culo?”
“Non mi chiamo Alex, ovvio.”
Lui strizzò gli occhi. “Vattene, che è meglio.”
Aaron si alzò. “È quello che sto facendo.”

Uscì dal garage quando mancava poco a fare buio, e mise in moto la sua Ducati nera. L’ultima cosa che gli disse fu ‘femminuccia’.
Mentre Alex lo mandava a fanculo, pur sempre con amicizia, Aaron si allontanava dalla casa con il sorriso sulle labbra, pensando a quanto fosse stato fortunato ad averlo trovato.

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Capitolo 6
*** Una Stella Chiamata The Calling ***


Erano passati un paio di giorni da quell’episodio, e Alex si era promesso di non chiedere più niente ad Aaron. Non sapeva cosa volesse fare per farli incontrare, non sapeva nemmeno se ci stesse pensando ancora… sembrava tranquillo, come sempre.
Troppo tranquillo, per l’Alex di quei giorni.

Era notte fonda, i due erano usciti per una birra almeno cinque ore prima. Quando decisero di lasciare il locale, erano entrambi un po’ brilli.
Un po’ troppo.
Alex riusciva a mantenere l’equilibrio e la sua dignità con discreto successo, ma non era un merito di quel momento. Infatti, lui sapeva che il suo fisico secco non avrebbe resistito molto, e aveva bevuto molto meno di un Aaron rosso paonazzo in volto che doveva esser sorretto ogni tanto.
Alex guardò il cielo, cercando di non farsi girare la testa. “Aaron.”
Rispose a fatica. “Eh.”
“Tu credi che ci saremmo incontrati comunque, anche se non ti fossi mai messo con mia sorella?”
Aaron mise una mano su una vetrina. “Ma perché ti vengono certi pensieri in mente proprio nei momenti meno opportuni?” Alex bevve un sorso dalla bottiglia di birra che aveva in mano. “Era solo per chiedere.”
“Tieniti la domanda per quando ci sarà qualcuno in casa.”
“In casa del tuo cervello, intendi.”
Aaron ruttò. Alex si mise così tanto a ridere che per poco non stava per vomitare. Si trattenne.
“Che cosa ne sarà… della nostra vita?”
“Quello che decideremo, Alex.”
Rialzò gli occhi al cielo. Le stelle erano ben visibili, stranamente, quella notte. Una brillava più di tutte, e sperò che il suo nome fosse uno dei loro.
“Come fai ad essere così tanto ottimista?”
Aaron brontolò. “Perché sono sbronzo, Alex. E’ normale.”
Alex sogghignò. “Allora sei sempre ubriaco.”
”E perché, di grazia?”
“Perché tu sei sempre ottimista.”
“Beh, quando non ho bevuto qualche alcolico di troppo, sono ottimista perché credo in noi. Tu no?”
Alex bevve ancora un po’. Gli venne la nausea e buttò la bottiglia di vetro in mezzo alla strada. “Io ci credo. E’ negli altri, che non credo.”
Aaron fece un ghigno ma dovette tapparsi la bocca, perché quel brusco gesto gli aveva portato su tutto dallo stomaco.
“Se non credi negli altri, allora continua a suonare solo per te.”
“Ma io suono solo per me.”
”Certo, ma non sei riconosciuto da nessuno. Non vuoi questo?”
Alex sospirò. “Non è la cosa più importante.”
”Non lo è, perché la cosa più importante è far sapere al mondo che ti piace quello che fai.” Alex lo guardò. Lui si avvicinò e gli diede una pacca sulle spalle un po’ troppo forte. “Tu hai talento. Non vuoi far vedere a tutti che sei bravo in quello che ami? Che non sei un fallito?”
Alex guardò in basso e si accorse, più o meno consciamente, che stavano percorrendo il marciapiede delle star. “Io voglio solo far conoscere la mia musica. La nostra musica.”
Aaron gli strinse la spalla. “E vedrai che ce la faremo, amico mio.”
Alex alzò il volto, sperando di rivedere quella stella. La trovò e sorrise. Sì, quella notte avrebbe avuto uno dei loro nomi. Anzi, tutti e due.
Rise. “Conosci qualcuno più azzardato di noi?”
Aaron ricambiò. “Solo i sogni, Alex. Solo i sogni.”

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Capitolo 7
*** Incontro ***


Il Blum era un pub come tutti gli altri, ma sempre pieno di gente. Ogni volta che ci andava a suonare, Alex si chiedeva che cavolo volesse dire il suo nome, se era escluso che fosse un’onorificenza al leader socialista del Fronte popolare francese del 1936. Che poi… una dedica ad un francese nel pieno dell’America statunitense?

“Forse qua son tutti francesi, con quel loro accento del cazzo.” Alex spiava il pubblico da dietro le quinte. Aaron arpeggiava con la chitarra. “Ma perché dici così tante puttanate?”
“E’ che sono nervoso.”
Tirò una corda. “Tu dici sempre tante puttanate.”
”Ma pensaci! Insomma… che cavolo vuol dire Blum se non questo? Cioè che è una dedica a quel socialista francese…”
”Basta. Basta.” Aaron mise le mani avanti. “Niente storia e niente puttanate, ok?”
Alex stette zitto. Cercò di sentire qualcosa tra il vociare della gente.
“Ecco! Ho sentito uno parlare francese!”
”E continui imperterrito!”
Alex scosse la testa con una smorfia. “Che schifo d’accento.”
“Quando diventeremo famosi e andremo in Francia che farai? Sono convinto che c’avresti la faccia tosta di dire che è il tuo paese preferito.”
Alex rise. “Buona idea.”

Un uomo che conoscevano ormai come le loro tasche, andò sul piccolo palco e prese in mano il microfono.
Alex ebbe un fremito alla schiena, Aaron s’alzò. “Oh, ora tocca a noi.”

Il pubblico li conosceva bene. Nonostante in quel posto ci fosse un via vai incredibile di gente, tutti li avevano sentiti almeno una volta. E, soprattutto, vi si erano affezionati. Erano calorosi, gradivano la loro musica ed erano ben disposti ad ascoltare qualcosa di nuovo. Per loro due, invece, salire sul palco era come la prima volta. E, ogni volta, Alex si chiedeva come avrebbe potuto resistere su di un palco enorme, con migliaia di fan, senza svenire. Ci sarebbe riuscito?
Menomale che, appena iniziava a cantare e a suonare la chitarra, diveniva improvvisamente sicuro di quello che faceva, e la sua voce arrivava a tutti, anche ai più scettici. Chi ormai credeva in loro, rinnovava il suo patto d’amore verso la loro musica.
Aaron era un mito. Non sembrava mai nervoso, né prima né durante la performance, però Alex sapeva ormai riconoscere, dai piccoli gesti, quello che provava.
Anche in lui, in fondo a quella sua bravura, batteva un cuore umano.

Cantarono cinque canzoni e finirono tutto in mezz’ora, quando a loro sembrava esser passato solo qualche secondo. I ragazzi lanciarono grida d’entusiasmo e loro si sentirono carichi come se quella non fosse sera inoltrata, e come se non avessero perso un sacco di energie solo per agitarsi inutilmente, prima di salire sul palco.
Fecero il giro da dietro le quinte, dopo aver messo in custodia le loro chitarre. Aaron ordinò una vodka e Alex una semplice coca-cola.
A quella scelta, Aaron commentò con un: “Mpf, americano…” Alex lasciò perdere, per una volta, e sorrise. “Ora ci mancano solo gli autografi.”
Aaron sorrise. “Vero.”

Quando uscirono, Alex si tolse lo sfizio di andare dal proprietario del locale, il barman, a chiedere spiegazioni. Il ragazzo alzò lo sguardo dal bicchiere che stava lucidando. Sembrava troppo francese.
“Scusa, ma… ‘Blum’ ha un significato particolare?”
Il ragazzo annuì.
“Riguarda per caso il leader socialista francese del primo dopoguerra?”
Il ragazzo annuì con un sorriso. Lasciò la pezza con cui stava pulendo il bicchiere e alzò la manica già corta della maglietta. Sul braccio, c’era tatuata la bandiera francese come sfondo al simbolo della falce e del martello.
Alex rise e raggiunse il suo amico, che stava già aspettando fuori. Per fortuna, Aaron non aveva sentito.

“Eccomi.”
“Era ora!” Aaron rideva. Alex lo guardò strano. “Che hai tanto da ridere?”
Aaron non rispose e si girò davanti a lui. Alex allargò la sua ristretta visuale e vide che stava parlando con una ragazza con un vestito nero e i capelli raccolti.
Non con una ragazza qualsiasi.

“Jennifer, ti presento il mio amico.” Aaron si girò nuovamente, e vide che Alex era sbiancato. Gli scappò una risata e se lo portò avanti con una pacca sulla spalla. “Alex – Jennifer. Jennifer – Alex.” Lei sorrideva. Quando si diedero la mano, la schiena di Alex venne percorsa da un brivido.
Lei continuava a sorridere. “Vi ho sentiti suonare.”
Aaron si intromise. “Già! L’ho invitata io, gentile vero?” disse con un tono complice.
Alex gli menò un’occhiata fulminea, poi si girò verso di lei e sorrise. “Gentilissimo.”
Si guardarono un attimo in imbarazzo, poi Aaron si sfregò le mani e alzò tono di voce.
“Bene! Io ho affari più importanti, come chiamare la NASA, dare ordini alla CIA e discutere di politica con Bush davanti ad un film di Rambo e popcorn. Quindi vado!” Si mise a correre per non farsi inseguire da Alex. “Voi divertitevi eh!”

Mentre Alex guardava disperato il suo amico lasciarlo solo con la donna più bella del mondo, si girò e le sorrise timido.

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Capitolo 8
*** Freedom in Love ***




Pensò che le cose fossero andate bene. All’inizio era un po’ imbarazzato, ma pian piano era riuscito a sciogliersi e a parlare di tutto e di più. Lei aveva una voce soave. Era bello e rilassante stare ad ascoltarla, e poi il suo mestiere aveva sempre tanti imprevisti interessanti. Alex si sentiva intimidito da una persona che stava mettendo a frutto ufficialmente la sua passione, e almeno per una ventina di volte, pensò a come sarebbe stato per lui realizzarsi. Per tutte le venti volte, c’era sempre la stessa risposta.
Sarebbe stato il culmine della sua vita.

Da quel giorno era passata più o meno una settimana, e non era mancata occasione di sentirsi. Jennifer si era divertita con lui e aveva scoperto uno spirito profondo dietro quell’aria apparentemente spensierata. Era interessata a conoscerlo, e non aveva nessun problema a scambiare quattro chiacchiere con lui ogni tanto. Spesso Aaron le passava la chiamata.
Dal canto suo, l’amico non perdeva occasione per sfottere Alex e per dirgli che forse finalmente aveva trovato qualcuno che lo potesse sopportare. Quando era serio, gli diceva che aveva trovato qualcuno che fosse alla sua altezza. Se sarebbe nato qualcosa tra di loro, si sarebbe visto col tempo, ma Aaron ci aveva scommesso cinquanta dollari e non aveva nessuna intenzione di perderli.

Il mare era calmo, ma non rinunciava a far sentire il suo respiro. Portava con sé l’aria e la salsedine, che facevano immaginare posti lontani, o anche solo posti felici. O casa. Il suo manto era punteggiato dalle piccole luci del cielo stellato, e culminavano con la grande luna che si affacciava all’orizzonte.
Alex guardò il cielo, mentre respirava l’aria di Santa Monica Beach, che sembrava un posto lontano dal caos e dai fumi della città. Sorrise.
“Eccola.” Indicò su, col dito.
“Cosa?” Jennifer si voltò, e il vento le scompigliò i capelli sciolti. Camminava dolcemente a piedi nudi sulla sabbia.
“La mia stella.”
Jennifer sorrise e gli si avvicinò. “La tua stella?”
“Sì.”
Jennifer guardò in alto, mentre portava sul volto la mano per allontanare i capelli. “Hai una stella?”
Alex sorrise di nuovo. “Non mi appartiene, e io non appartengo a lei. Entrambi sappiamo solo i nostri nomi.”
Jennifer sorrise. “Il tuo lo conosco, il suo qual è?”
“Si chiama Alex… si chiama Aaron. Si chiama anche Jennifer.” La guardò.
Lei ricambiò lo sguardo. “Ha anche il mio nome?”
”Ha il nome di tutte le persone che stanno lottando per qualcosa.”
“E io per cosa starei lottando?”
Alex le sorrise. “Semplice. Per essere te stessa.”
Jennifer lo fissò per un paio di secondi, poi sbatté le palpebre e diede la vista al mare. Riprese a camminare felice, poi si fermò, prese parte della gonna nera tra le mani e si sedette su di un grosso masso.
“Fammi vedere che anche tu stai lottando per qualcosa.”
Alex guardò in basso e allungò le labbra. “Non c’è bisogno di vederlo.”
“E invece sì. Fammi vedere che anche tu doni un piccolo pezzo di te al mondo, quando ti dedichi a quello che ami.”
Alex mantenne lo sguardo basso. La sabbia gli ricopriva i piedi. “Non è solo quello che amo. E’ la mia vita.”
Jennifer rise, comprensiva. “La vita si ama. Dai... la tua stella ne sarebbe contenta. Io ne sarei contenta.”
La guardò. “Cosa devo fare?”
“Suonami una tua canzone. Se sarà allegra, ballerò, se sarà triste, sarà sufficiente ascoltare.”
Alex sorrise. “Mi hai già sentito cantare.”
“Vuoi dire che qui è la stessa cosa?”
Alex si guardò intorno e osservò la spiaggia, il mare, i ciottoli, le palme, l’atmosfera notturna e lei. Vero, non era la stessa cosa.
Si girò e spostò la sabbia che gli stava ridisegnando i piedi. Camminò verso la chitarra, la prese, poi ritornò indietro e si sedette per terra a gambe incrociate.
“Questa è una canzone… molto importante per me. È per mia madre.”
Jennifer rimase in silenzio. Non conosceva la sua famiglia, e nemmeno sapeva che quello fosse solo il suo passato. Alex si schiarì la voce, poi iniziò a suonare. Jennifer sentì aprirsi lentamente il cuore.

‘You left me with goodbye and open arms
A cut so deep I don’t deserve
You were always invincible in my eyes
The only thing against us now is time...’
*


Jennifer cominciò a comprendere che, se Alex si era sentito in grado di cantare una canzone con un carico emotivo così forte, voleva dire qualcosa. Poi aveva già capito, al Blum, che la sua voce era bella e particolare, ma si rese conto che, senza quello schiamazzare, era sublime.
Si fece cullare fino alla fine, mentre osservava la sua anima farsi grande. Era la prima a sapere che la passione rendeva invincibile ogni uomo, e che i suoi frutti odoravano di arte.

‘Like sand on my feet
The smell of sweet parfume
You stick to me forever
And I wish you didn’t go
I wish you didn’t go
I wish you didn’t go away
To touch you again
With life in your hands
It couldn’t be any harder...’
*


Finì e stette un attimo a guardare la sabbia. Jennifer temette che da un momento all’altro si sarebbe messo a piangere, e invece alzò all’improvviso la testa e sorrise. Lei ricambiò.
“È molto bella… e commovente.” Abbassò gli occhi.
Alex sogghignò. “Me lo puoi chiedere.”
Jennifer fece un sorriso imbarazzato e si coprì il viso con le mani. “Mmhh… ok.” Ritornò a guardarlo. “Tua madre… è andata via?”
Alex annuì. “Dieci anni fa.”
Le venne la pelle d’oca. “E… ed è più tornata?”
Alex sospirò e adagiò la chitarra sulla sabbia. “No.”
Jennifer rimase in silenzio per un po’, poi chiese: “E tu la pensi molto?”
Lui sorrise. “Forse sì… forse no.”
“Magari un giorno ritornerà.”
Non rispose, si alzò, prese la sua mano e la portò davanti al mare. “Facciamo a chi si butta per primo?”
Lei fece una smorfia divertita.
Lui rise. “Dai, vediamo chi è il più sprezzante del pericolo.”
“E pericolo di cosa?”
“Di ibernarsi nei ghiacci, mi pare ovvio.”
Lei scoppiò a ridere e lo spinse in mare. “Tu!”










*"Could It Be Any Harder" from "Camino Palmero", The Calling

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Capitolo 9
*** Solving Smile ***





Jennifer si era divertita, la notte prima. Alla fine erano ritornati alle proprie case bagnati fradici, ma a loro non importava. Stavano bene così. Lei aveva scoperto qualcosa di più di quel ragazzo, e iniziava a piacerle sempre di più. Era convinto di quello che faceva ed era anche deciso, ma a volte si lasciava prendere dallo sconforto.
Ci ripensò dispiaciuta, perché era veramente un gran talento, e lui e Aaron si intendevano alla perfezione. Non aveva mai visto il suo amico così contento, e lei credeva che avesse dei motivi validi per esserlo, ed era d’accordo con quei motivi.

Insieme creavano arte. Un’arte personale, un’arte che era frutto della fusione di due anime che riuscivano a intendersi con i suoni. Con le melodie.
Erano diversi, ma così riuscivano a completarsi.
Bisticciavano, ma quando suonavano sembrava che fossero reduci dalla più bella conversazione della loro vita. E questo le era arrivato al cuore, ed era sicura fosse arrivata a tutte le persone che si erano trovate in quel locale, quella notte, ed era ancora più convinta che sarebbe potuta arrivare a tante altre persone nel mondo, se solo…

Voleva aiutare quel ragazzo che la stava facendo sentire così bella, in quei giorni. Voleva dimostrargli che non era solo Aaron a credere in lui.
Voleva dimostrargli che era riuscito a donare molto di più di un piccolo pezzo di sé al mondo, quella notte in spiaggia.

Il bar in cui aveva voluto incontrarsi con quell’uomo aveva un gazebo che dava su un delizioso spazio aperto. Aveva scelto apposta quel posto, dava buonumore anche alle persone che avevano avuto la giornata più nera.
E sapeva com’erano i tipi come quello, troppo indaffarati per concedersi un po’ di tempo libero. Incontrarsi in un luogo del genere sarebbe stato l’ideale per calmarlo.

Il cameriere arrivò al tavolino con un aperitivo rosso. Jennifer ringraziò e iniziò a berlo, mentre aspettava. Il suo uomo non si fece attendere molto. Arrivò con la sua andatura frettolosa al bar, si girò intorno per vederla e quando la riconobbe le fece un cenno. Poi si avvicinò e si sedette davanti a lei.
“Scusami per il ritardo.”
Lei fece un sorriso. Lo guardava da dietro i suoi occhiali da sole. “Non ti preoccupare, sono appena arrivata.”
“Non hai da lavorare, quest’oggi?”
“Oh sì, ma le scene che devo fare sono tra un’ora. Ne ho approfittato per chiamarti.”
L’uomo fece un cenno al cameriere. “Lo stesso cocktail della signorina, grazie.”
“Sì, cos’hai di tanto importante da riferirmi?” Sorrise. “Ti serve un favore? Chiedimi qualsiasi cosa e io farò in modo di accontentarti. Sai che non mi faccio pregare.”
“Lo so, ma non è un favore.” Si tolse gli occhiali e rivelò i suoi occhi verdi. “Cioè sì, lo è. Ma è veramente piccolo.”
Lui fece un sorriso smagliante, da pubblicità. “Ebbene dimmi.”
“Ecco… conosco due ragazzi veramente in gamba. Sono un duo, li ho sentiti suonare.”
“Un duo? Vanno più di moda le boy band.”
Ecco. ”A loro non interessa andare di moda. Loro vogliono suonare.”
Il cameriere arrivò con il suo cocktail.
“Sai che noi della BMG cerchiamo persone con dei canoni ben precisi.” L’uomo si girò verso il ragazzo, lo ringraziò e gli diede con noncuranza una mancia da venti dollari. Il ragazzo strabuzzò gli occhi e si affrettò ad accettarli.
Jennifer sospirò. “Lo so. Ma vedi, io non ti chiedo molto, solo di andare a sentirli. A quel punto, sarai tu a decidere se dare loro una possibilità.”
L’uomo diede un sorso al cocktail. “Quindi non è una raccomandazione?”
Jennifer scosse la testa. “No. Non ne hanno bisogno, credimi.”
L’uomo si grattò il mento, pensieroso. “E dove posso trovarli?”
“Suoneranno al Rock Café, sabato. Aaron Kamin e Alex Band.”
“Aaron Kamin e Alex Band, sabato. Rock Café.” La guardò. “E va bene. Credo di esser libero per quel giorno.”
A quelle parole, Jennifer fece uno dei sorrisi più radiosi e sinceri della sua vita.


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Capitolo 10
*** Hope ***





Il Rock Café era sicuramente il posto più giusto per farsi conoscere, non a caso era pieno zeppo di aspiranti musicisti e giovani di talento che si alternavano il palco. Era sicuramente più grande del Blum e anche di altri locali alla moda, e si trovava proprio al centro della città.
Per i due era un po’ difficoltoso arrivarci, dato che abitare nella periferia di una megalopoli non era come abitare in quella di una comune cittadella. In ogni caso, ritornarci era sempre bello, soprattutto perché non mancava di incontrare qualche personaggio famoso o, meglio ancora, rappresentanti di qualche casa discografica in cerca di nuovi volti.

Alex e Aaron si trovavano nelle quinte. C’erano così tanti ragazzi da entrare quasi in confusione. Proprio in quel momento, Alex ricordò il motivo per cui, la prima volta che avevano suonato lì, aveva detto ad Aaron che entrare in quel posto era come farsi una dose di stupefacenti. E soprattutto, capì perché lui non gli aveva risposto in malo modo o con qualche battutina. Anche Aaron, infatti, si trovava un po’ fuori dalla realtà.

Jennifer entrò nel locale con disinvoltura, come se fosse abituata a quell’atmosfera. Era vestita di rosso e tutti la notavano. Sapeva di essere in anticipo, ma non voleva perdere quello spettacolo per niente al mondo, e, soprattutto, voleva assicurarsi che il suo uomo mantenesse l’impegno.

Alex si sfregava le mani da almeno una decina di minuti, e dava così tanto fastidio ad Aaron da indurlo a prendergli con forza le braccia.
“Smettila.”
“Non posso fare niente per scaricare la tensione?”
“Sì che puoi. Scaldati la voce, meglio.”
Alex sospirò. “Jennifer mi ha detto che sarebbe venuta.”
Aaron si passò una mano tra i capelli. “Allora vuol dire che verrà.”
Alex rimase in silenzio. “…Già.”
Una ragazza con una chitarra elettrica sbatté contro di loro. “Fatemi passare.” Le diedero un’occhiataccia mentre si allontanava. “Fatemi passare”, Aaron le fece il verso.
“Dici che qualcuno di importante ci sentirà, stavolta?”
Aaron pensò. “Beh, credo di sì. Mi sento più allegro del solito, vuol dire qualcosa.”
Alex sbuffò. “Se lo dici tu…”
Aaron gli prese le spalle. “Sì, lo dice il grande ed invincibile Aaron, e non puoi avere alcun dubbio riguardo la certezza delle parole che Egli pronunzia.”
Alex si mise a ridere. “Ok ok.”
“Egli con la lettera grande, eh.”
“Ma ovvio.”
“Piuttosto, mi dai ‘sti cinquanta dollari che mi devi?”
Lo guardò perplesso. “Eh?”
“I cinquanta dollari della scommessa.”
“Macché cinquanta dollari e cinquanta dollari… ancora non si sa.”
“Eh figlio mio quanto sei lento!”
Alex gli fece una smorfia. “Non vado dritto al sodo, io.”
Aaron gli diede delle spinte col gomito. “La stai cocendo per bene, eh?”
Lui si mise a ridere. “Non dire cazzate!”

Jennifer vide succedersi sul palco così tanti cantanti da perdere presto il conto. Da una parte non vedeva l’ora che fosse il loro turno, ma dall’altra avrebbe voluto farli aspettare fino a quando non sarebbe arrivato il tipo.
Ma poi, come poteva essere sicura che non fosse già arrivato? Era così pieno di gente da non capire più dove lei si trovasse…

Quando Alex e Aaron salirono sul palco, molti li riconobbero. Sembravano delle star che avevano girato il mondo e che quindi si conoscevano un po’ ovunque, e in effetti, il paragone era azzeccato. Era vero che Los Angeles l’avevano girata in lungo e in largo.
Alex si osservò intorno e non ebbe difficoltà a vedere Jennifer. Quando si accorse che realmente era andata per sentirli suonare, fece un sorriso da trentadue denti. Anche Aaron la vide, e le fece l’occhiolino. Lei rispose a entrambi con un saluto della mano.
Avevano deciso di cantare The One e When It All Falls Down, perché sembravano più adeguate ad un posto del genere.
Jennifer trovò la voce di Alex inalterata, e si convinse di non averla solo sognata, l’altra notte, ma anche realmente vissuta. Erano energici e ci mettevano l’anima, Aaron giocava con la chitarra e produceva suoni che sembravano impensabili. Questo esaltava Alex, che saltellava per tutto il palco. Furono solo dieci minuti, ma dieci minuti intensi.
Quando finirono, urla riempirono la stanza. Jennifer fece un sorriso dolce ad entrambi e Alex capì che sarebbe stato sufficiente, se anche nessun altro avrebbe gradito quella performance. Bastava che fosse piaciuta a lei.

Scesero dal palco e le andarono incontro. Lei abbracciò Alex.
“Siete stati bravi!”
Loro si guardarono con un largo sorriso. “Già.”
Aaron espose la sua divinità. “D’altronde, c’ero io sul palco.”
Alex gli menò una gomitata e lei si mise a ridere. “Certo!”
“Purtroppo il suono divino della mia chitarra viene sporcato da quello impuro di questo comune mortale, ma è un pegno per poter rimanere su questa Terra.”
Alex rise. “Credevo che gli dèi fossero esenti da pegni e cose del genere.”
Lui lo guardò minaccioso. “Ehi, sono io a fare le regole!”
Alex continuava a ridere. “Sì sì!”
“Come osi contraddirmi?”
Alex si voltò e vide Jennifer girarsi intorno. Sembrava cercasse qualcuno.
“C’è qualcosa che non va?”
Lei fece un sorriso stentato. “Cosa? No no… niente.”

Uscirono dal locale una mezz’oretta dopo. Alex sembrava aver perso l’entusiasmo di prima.
“Nemmeno oggi. Hai sbagliato, Aaron.”
Lui non rispose, Jennifer si guardò indietro. Non vide nessuno. Guardò davanti a sé e abbassò gli occhi.
“Non è mai troppo tardi”, disse Aaron.
Alex sospirò. “Vorrà dire che metterò un cappello in strada e canterò per elemosina.”
“Ma dai.”
Jennifer fece caso al rumore della porta del locale che si apre, così si rivoltò. Poi, le si illuminarono gli occhi. Verso di loro, stava correndo quello che forse sarebbe diventato l’uomo più importante della vita di quei due.
Jennifer li fermò con una mano, “Aspettate” e si rigirò. Questa volta, anche loro fecero altrettanto.
Alex guardò perplesso quell’uomo incravattato.
“Salve, Jennifer. È sempre un piacere vederti.”
Lei sorrise come se le avesse fatto il commento più bello che avesse mai sentito. Alex se ne accorse e lo guardò con una smorfia. Non sapeva il perché di tutta quell’improvvisa allegria di Jennifer. Almeno, non ancora.
Subito si rivolse ai due. “Siete voi…” Guardò su un foglietto. “Aaron Kamin e Alex Band, vero? È stata una fatica trovarvi lì nel locale, poi siete usciti.”
Loro si guardarono. “Beh sì, siamo noi. Ci dica.”
Lui fece un sorriso. “Bene.”



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Capitolo 11
*** God is on Our Way ***





Quella sembrava esser stata la notte più importante della loro vita. Quando l’uomo si presentò, tutta la perplessità dei due e la gelosia – solo di Alex – sparirono. A ricordare, ancora nitido nella loro mente vi era: “Per quel che ho sentito, mi sembrate talentuosi. Se state cercando una casa discografica pronta a firmare un contratto con voi, basta che mi diate un vostro cd. Dopo averlo ascoltato, vi chiamerò per farvi sapere cosa ne penso. Magari vi farò venire in studio.”
Avevano saputo che era stata Jennifer a contattare quel manager, informandolo che quel sabato si sarebbero esibiti. Non sapevano come ringraziarla. Ora era lei, in un certo senso, una divinità.
Lei si era sentita felice e sollevata, ma non voleva cantare vittoria troppo presto. Ci sarebbe stata un’altra prova da superare, la più difficile, e dovevano esser pronti a qualsiasi risposta.

Da un paio di giorni, vivevano entrambi vicino al telefono, come se il resto della casa fosse inaccessibile. Non vi furono giorni più ansiosi.
Poi, una chiamata di un numero sconosciuto. Si fiondarono sulla cornetta e aprirono insieme. Il ‘Pronto?’ rimbombò.
Avevano lasciato le moto a un centinaio di metri dalla destinazione, si erano messi le chiavi in tasca e si erano incamminati.
Alex fremeva. “Non ci posso credere.”
Aaron era nervosissimo. Stavolta si vedeva. “Alex, mi agiti ancora di più.”
Lui continuò. “Non credevo che ci avrebbe chiamati sul serio.”
Il cuore batteva forte. “E invece l’ha fatto.”
Alex lo fermò mettendosi davanti a lui e prendendogli le spalle. Sorrideva. “Sì, l’ha fatto.”
Aaron non si trattenne e sorrise. “Dai, andiamo.”

Pochi passi e si fermarono davanti all’enorme palazzo. Entrambi alzarono il capo per scorgere la fine, poi ritornarono a quelle vetrate. BMG.
Alex si girò per l’ultima volta a guardare Aaron. “Dici che è questa?”
Lui si voltò. “’Questa’ cosa?”
Alex mise i pugni in tasca. “La nostra chiamata.”
Aaron si morse il labbro inferiore, poi ritornò a guardare davanti a sé.
“Vedremo, Alex. Vedremo.”
















***
Note:
So di aver aspettato troppo, decisamente troppo, prima di pubblicare questo capitolo, ma c'è un motivo: è pronto da sempre, ma mi resi conto che era troppo frettoloso, che avrei potuto scrivere di più e allungare le sensazioni... così lo riscrissi. Purtroppo, però, la seconda versione andò perduta e provai a recuperarla, invano. Per un po' ci ho pensato, ma non posso proprio riscriverla: non sarebbe mai la stessa cosa e ormai è passato troppo tempo; il mio stile è maturato ed è in parte diverso... così preferisco lasciare che sia perfettamente coerente col resto della storia, sotto tutti i punti di vista. Non era comunque molto diversa da questa, vi erano solo alcune aggiunte descrittive e di dialogo. Spero che la prima versione, per quanto breve, sia lo stesso apprezzabile.
Scusatemi mille volte per avervi fatto aspettare così tanto.

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