I'm loving Angels instead

di Lucysmile
(/viewuser.php?uid=136855)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


   
 
 

C'erano sulla terra i Nephilim a quei tempi
- e anche dopo – quando i figli di Dio
si univano alle figlie degli uomini
e queste partorivano loro dei figli:
sono questi gli eroi dell'antichità,
   uomini famosi.

Genesi, 6 1-8
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 

Prologo
 

 
1775

Era una notte tempestosa, quella. Le campagne inglesi non erano mai state così buie, lugubri e paurose. La luna era scomparsa dietro grossi nuvoloni grigi e l’unico spiraglio di luce proveniva dal faro sulla costa, a più di due miglia di distanza.            
Katherine Sullivan stava passeggiando nel vialetto recintato della sua villa di campagna. Le mattonelle color salmone erano tutte perfettamente lavorate, frutto di anni e anni di lavoro. L’intera villa era circondata da lunghe recinzioni di siepi alte e verdeggianti e le luci della casa si riflettevano anche nel giardino.   Katherine si fermò vicino la fontana in marmo bianco e mise una mano sotto il getto delicato dell’acqua limpida e fresca. La sensazione fredda sulla pelle liscia e soffice le fece venire i brividi, ma le piaceva. Allontanò la mano dall’acqua e se l’asciugò con un fazzoletto bianco che portava cucite le sue iniziali: K S.  
Pensò a quando sua sorella maggiore Mary Rose glielo aveva regalato; lo aveva fatto lei, da sola, con le sue lunghe e possenti mani. Katherine immaginava ogni volta le mani della sorella che lavoravano alacremente, e ciò era un evento eccezionale, dato che a Mary Rose non piaceva fare lavori manuali: quello spettava alla servitù, come diceva lei.  Conservò il fazzoletto immacolato nella sottoveste del lungo abito impreziosito da gemme e rubini e si allontanò dalla fontana. Quella sera in casa non c’era nessuno della sua famiglia, a parte sua figlia e la servitù.     
La piccola e dolce Lucy. Suo padre era un bracciante che lavorava nella sua tenuta. Non appena il padre di Katherine aveva saputo che era stato con sua figlia lo aveva immediatamente cacciato. La verità era però che non voleva si venisse a sapere che aveva avuto una figlia con un uomo dei bassi fondi. Quindi molto meglio far sapere alla gente che quella bambina era stata adottata.Stava incamminandosi verso il labirinto, quando una brezza di aria fresca e pungente le alzò il vestito. Cercò un riparo e corse verso il labirinto buio. Non appena entrò, cercò a tastoni la torcia che vi era infissa a destra dell’ingresso. Ma non c’era. Andò un po’ più avanti, convincendosi che probabilmente doveva essere un po’ più a destra di quanto si ricordasse. Camminò alla ceca fino a quando non arrivò alla curva. E se invece la torcia si trovava a sinistra? No. Si ricordava benissimo che si trovava a destra. Dopotutto in quel labirinto ci era cresciuta.
Un rumore sordo e spaventoso proveniente da dove era arrivata le fece venire la pelle d’oca. Non sapendo cosa fare, reagì d’impulso: corse dritto, fino a quando non incontro un bivio e scelse una strada qualsiasi. Corse alla ceca, con la notte immensa che la sommergeva e senza neanche una torcia in aiuto. Corse, corse, per Dio sa quanto tempo, con il cuore che le batteva forte nel petto e il respiro affannoso tanto che le faceva male la gola.       
I lunghi capelli nero corvino le si erano appiccicati alla faccia e il vestito era sporco di fango all’estremità che poggiava sull’erba. Sentì un fruscio, poi un altro rumore sordo e infine... un respiro. Un respiro regolare, agghiacciante. Freddo. Girò la testa a destra e a sinistra, ma era inutile: non vedeva niente.        
-Buonasera, signorina Sullivan. -disse una voce dal nulla. Katherine rimase immobile, tentando di captare da quale direzione provenisse quella voce. Era di un ragazzo, quello lo aveva capito.   -Chi sei? -riuscì a mormorare lei, con una paura insensata nella voce: poteva essere qualsiasi membro della servitù.         
-Ah ah. Non posso dirvelo questo. -disse lui. Katherine trattenne il respiro e tentò di concentrarsi su quella voce. L’aveva mai sentita prima? Da quale direzione proveniva? Improvvisamente sentì una mano ruvida e silenziosa lungo la sua schiena. Uno sfioramento impercettibile, silenzioso, ovattato. Katherine sentì un brivido salirgli lungo la schiena seminuda.  -Cosa vuoi? -chiese al buio. Sentì un movimento e poi entrambi le mani del ragazzo sui suoi fianchi.                                      
-Mi sembra chiaro. -disse la voce. Ora riusciva a vederlo, sotto la luce chiara della luna.                                                   
Era un ragazzo biondo, con i capelli che gli coprivano le orecchie. Aveva due spalle possenti e dei muscoli lunghi e asciutti: doveva essere un bracciante. Indossava solo ed esclusivamente un pantalone largo e marrone, rattoppato qua e là con della stoffa più scura. Vide la sua testa avvicinarsi al suo collo e subito dopo le sue labbra avide sulla sua pelle nuda e morbida. Le mani del ragazzo si muovevano disperatamente lungo la sua schiena e sui fianchi, con movimenti lenti e persuasivi. Poi improvvisamente Katherine si sentì più leggera: le braccia dell’uomo la stavano sorreggendo. Lui cominciò a slegargli i legacci del vestito da cerimonia, con movimenti intricati e aggraziati. Le sue labbra avevano raggiunto il mento della giovane e ora stavano dirigendosi sulle sue labbra. Katherine sentì la bocca fresca del giovane mordere la sua, con movimenti flessuosi e sensuali. Poggiò le mani sulla pelle nuda di lui, toccando i suoi pettorali duri.                                             
-Aspetta. -mormorò, con le labbra di lui ancora incatenate alle sue. Lui si staccò, lasciando tra di loro appena un centimetro di aria. -Andiamo nelle mie stanze. -mormorò Katherine. Lui sorrise nel buio e tornò a baciare le sue labbra. Poi si diressero verso la villa silenziosa.

 
Quella mattina Katherine si sentiva strana. Non ricordava nulla della sera prima. Solo il buio profondo della notte. Si rigirò tra le lenzuola, infilando un braccio sotto il cuscino. Respirò il profumo di bucato delle lenzuola immacolate e si girò dall’altra parte. Si rannicchiò sotto le lenzuola e si mise le mani sotto la testa. Ma il cinguettio degli uccellini le impediva di dormire. Aprì lentamente gli occhi ancora sonnolenti e si guardò in giro. Le coperte erano tutte spiegate e ammucchiate in disordine in fondo al letto. Aveva dormito con qualcuno? Poi lentamente ricordò.                           
Ricordò le mani e il corpo del ragazzo del giorno prima, delle sue braccia forti e possenti che la tenevano sospesa in aria.         
Si alzò di scatto, guardandosi in giro. Dov’era ora? Doveva mandarlo via, magari farlo uscire dalla finestra. Non poteva rischiare di farsi sorprendere di nuovo con un bracciante. Si alzò veloce dal letto e indossò la vestaglia di lino attaccata lì di fianco. Rabbrividì per il contatto con il pavimento freddo e mosse qualche passo incerto verso la porta che dava sul corridoio centrale. -Sta cercando qualcuno? -chiese una voce alle sue spalle. Si voltò spaventata, sobbalzando: era lui.                                                
-Sei tu. -disse sospirando.                                           
Era più bello di quanto ricordasse: capelli biondo grano scompigliati e ribelli, occhi marroni come nocciole e labbra morbide da far venir voglia di morderle. Era là davanti a lei, con un solo asciugamano intorno alla vita. Le sorrise dolcemente e piegò la testa. Katherine non poté far a meno di sorridere e gli si avvicinò, togliendosi di dosso la vestaglia e rimanendo con la sola leggera tunica di pizzo che le arrivava alle ginocchia. Non appena fu tra le braccia del giovane si alzò in punta e lo baciò freneticamente. Lui la tenne dalla schiena e ricambiò il bacio. Katherine lo guardò in volto e sorrise di nuovo: era davvero bello. E improvvisamente fu lui ad attirarla a sé. La baciava freneticamente, sulle labbra, sul mento, sull’incavo tra il collo e la spalla. Le prese la gamba e se la mise all’altezza della vita, poi la distese sul letto, sotto di lui. Katherine gli cinse le spalle e lo attirò a sé, quasi non volesse che scappasse.                                                                               
E improvvisamente sentì una fitta allo stomaco.                   
E poi... dolore. Tanto dolore.                                            
E odore di sangue.                                                            
Il ragazzo si alzò, si tolse l’asciugamano e s’infilò i pantaloni che aveva la sera prima, quelli rattoppati. Sfilò dallo stomaco di Katherine quello che sembrò un pugnale e lo pulì con l’asciugamano. Katherine sussultò. Era come se le avessero bucato lo stomaco, e in realtà era proprio questo che era successo.                                   
-Perché lo hai fatto? -riuscì a mormorare incredula, fissando il giovane con lo sguardo inorridito. Si portò le mani al grembo e si toccò la ferita. Il ragazzo la guardò compassionevole.                      
-Oh, Katherine. Giovane e ingenua Katherine. - le disse, sedendosi sul letto accanto a lei. La guardava con uno sguardo serio, come se stesse spiegando a un bambino una lezione un po’ difficile, una questione da “adulti”.                                                    
-Non avrei voluto farlo, davvero. -continuò. -ma questo è il mio lavoro. -affermò. Poi le accarezzò i capelli e le esaminò la ferita. -Mmm... dovrai soffrire ancora un po’, credo. Ma ora ti spiego. -disse, accavallando una gamba sull’altra.                                       
-Vedi, c’è una razza, per così dire, un po’ diversa da quella umana. È quella a cui appartieni tu. Si chiama razzaNephilim. Si tratta di una specie che vede la presenza di ibridi sulla terra. Questi sono i Nephilim. Ovvero esseri mezzi umani e mezzi... angelici. Si, esatto angelici. -disse, guardando fuori dalla finestra. Poi tornò con lo sguardo su Katherine. -Sai, io sono un angelo. Ma un angelo buono, se così vogliamo definirmi. Si, perché esiste anche un altro genere di angeli. Sono gli angeli caduti. Tua madre faceva parte di questa specie. Ed è per questo che abbiamo dovuto eliminarla. Si era innamorata di un umano, tuo padre, e dalla loro unione sei nata tu. Tua sorella invece è figlia di un matrimonio precedente, quindi non è una Nephilim. Ma tu si, Katherine. -disse, continuando a sorriderle e carezzandole i capelli. -Sai, il mio è un lavoro sporco: ma qualcuno deve pur farlo. Eliminare gli angeli caduti e i Nephilim è il mio compito. E devo portarlo a termine. -   
Poi le tolse i capelli dalla fronte e gliela baciò, con lo sguardo inorridito di Katherine che lo fissava. La giovane sentì le mani dell’angelo toccargli il fianco, poi respirò un’ultima volta, come per portar via tutto ciò che di bello c’era nella vita, come per portar via il profumo che c’era nella stanza. Chiuse gli occhi prima che lo facesse la morte e sentì come una sensazione febbricitante, come se l’anima stesse staccandosi dal corpo. Girò la testa da un lato, in tempo per vedere il giovane che si chinava a prendere l’asciugamano. Pulì di nuovo il pugnale di legno inciso sporco di sangue e uscì dalla stanza, con il passo aggraziato e felpato che solo un angelo poteva possedere. L’ultima cosa che Katherine sentì fu un fruscio ovattato e il suono di ali che si dispiegano e prendono il volo.          
“Lucy, piccola Lucy” pensò tra la confusione che c’era nella sua testa. Poi tutto si spense e il dolore cessò.

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


S

tiamo per chiudere. –mi disse la libraia, comparendo dal bancone. Le lanciai uno sguardo confuso e annuii. Misi Romeo e Giulietta nel vano che aveva lasciato nella libreria, e presi Orgoglio e Pregiudizio. Vidi il prezzo sul retro della copertina e mi diressi al bancone. Ci poggiai sopra il libro e cercai quindici dollari nella borsa. Li trovai quasi per miracolo e li misi sul bancone, di fianco al libro. L’anziana libraia mi guardò con uno sguardo bonario, sorridendomi affettuosamente. Ricambiai il sorriso e attesi che registrasse il mio acquisto. Poi mi mise il libro nuovo di zecca nella busta e me la porse. La ringraziai con un sorriso e uscii dalla libreria.                                                 L’aria era rigida, più di quanto mi aspettassi. Le strade erano affollate di persone e automobili e i nuvoloni grigi promettevano pioggia. Mi strinsi la sciarpa color cachi al collo e svoltai l’angolo. Attraversai velocemente le strisce pedonali e corsi vicino alla mia Mustang rosso ruggine. Infilai, con la mano tremante dal freddo la chiave nella serratura e lo sportello si aprì con uno scatto. Mi sedetti veloce sul sedile lacerato e sbattei la portiera. Misi la testa sul manubrio, facendo attenzione a non fare troppo pressione, rischiando di fischiare il clacson davanti a tutti.                                    Avevo fatto tutto: comprare il libro, lavare l’auto, prenotare  una manicure per Gwen e prendere cibo d’asporto. Tutto in regola. Avevo svolto il nuovo il mio compito a dovere. Come sempre, dopotutto.                                                                          Misi la chiave e il motore si accese sbuffando. Io feci lo stesso. Premetti l’acceleratore e misi la seconda. Ruotai il manubrio e mi infilai nella strada.    Il telefono mi vibrò in tasca: Vichy.               -Dimmi. –dissi, controllando che non ci fossero vigili nei dintorni. La voce di Vichy arrivò all’improvviso.                                 -Stasera vieni a dormire da me. Ci facciamo la manicure, la pedicure e poi ci rilassiamo con i Bon Jovi. –mi disse, sprizzando eccitazione. Wow. Non vedevo l’ora. E poi avevo sempre odiato i Bon Jovi. Alzai gli occhi al cielo e svoltai a sinistra.                      –Non lo so, Vic. –dissi, frenando d’improvviso e evitando un tamponamento per un pelo. Lei rise con la sua risatina squillante e mi disse: -Guarda che non te l’ho chiesto.– e chiuse la chiamata. Sbruffai rumorosamente e imprecai sottovoce. Viaggiai per quasi mezz’ora, con la musica a tutto volume e i finestrini sbarrati, nonostante il display sul cruscotto diceva chiaramente che fuori c’erano meno di due gradi. Arrivai a casa che erano quasi le sette. Vivevo con mia cugina nella villa dei miei. Mia madre era sparita quando avevo dieci anni, andandosene con un figo pazzesco che a quel tempo aveva soltanto il doppio della mia età. Non sapevo dove fossero, ma io immaginavo che si fossero sposati a Las Vegas e che ora lui facesse il meccanico e lei l’alcolizzata: era quella l’immagine che avevo davanti. E mio padre era rimasto con me, con una ragazzina di dieci anni a cui nessuno avrebbe potuto spiegare che sua madre era fuggita con un ventenne. E anche se mi diceva frottole del tipo: la mamma è partita per lavoro, lui sapeva meglio di chiunque altro che io sapevo tutto.                       E quando era morto anche lui, avevo sofferto più di quanto se n’era andata mia madre. Forse perché lei non mi aveva mai dimostrato l’affetto che mi aveva dimostrato lui. Mio padre mi ha cresciuta. Certo, crescere con un uomo in casa non è il massimo: nessuno con cui parlare di questioni di cuore, calzini sparsi per tutto il salotto, gonne o minigonne inesistenti, converse come unico modello di scarpe. Ma mi piaceva la mia vita con lui: parlavamo di football, di stelle. Mio padre amava le stelle. Diceva che per lui erano qualcosa di misterioso, di ignoto: nessuno sa cosa ci sia oltre il sistema solare. E lui voleva scoprirlo. Ma quando sei un semplice uomo non puoi decidere niente, puoi soltanto attenerti al copione. E mio padre era morto perché la sua parte nello spettacolo della vita era finita.                                                      E come dicevo, mia cugina si è trasferita a casa mia. Vivevo bene con lei, e pranzavamo quasi ogni giorno con il suo ragazzo, Matt. Ma mi mancava mio padre. Sentivo un vuoto dentro, come quando c’è una parte che ti manca e che non potrà tornare indietro: la tua vita resta uguale, ma qualcosa dentro cambia. Non senti più quel calore, quell’amore; non sai più cosa significhi davvero amore quando la persona che più ami al mondo ti viene sottratta da un momento all’altro. E voler bene non è sinonimo di amare. Amare è quando per una persona daresti la vita, quando non puoi vivere senza di lei. Ed era così che mi sentivo. E non riuscivo ancora a capire come facessi a reggermi ancora in piedi. Forse questo era il mio copione. Forse il destino aveva in serbo per me qualcosa di diverso, magari qualcosa di grande.                    E da quel giorno non ho più amato. Non ho più trovato un motivo per farlo. E questo è tremendo.

 

- Gwen, oggi vado a dormire da Vichy. –dissi, trascrivendo gli ultimi appunti di biologia. Gwen uscì dal bagno asciugandosi i capelli con un asciugamano. Entrò in cucina e mise del latte a bollire. –Mi lasci tutta sola? –scherzò. E se qualcuno mi rapisse? –continuò, sedendosi sull’isola, accanto ai miei libri.                             -Potresti uscire con Matt. –le dissi, come se fosse un’idea che mi era appena entrata in testa. In realtà ci stavo pensando da un po’. -Non sarebbe una cattiva idea, ma il suo turno finisce alle dieci e domani devo alzarmi presto. Non mi piacciono questi fianchi e questi cuscinetti. Da domani comincio a fare jogging. –mi disse, con uno sguardo deciso, e io le sorrisi. Gwen che faceva jogging. Mi sarei divertita a vederla fallire; non aveva mai percorso più di dieci metri a piedi e non faceva altro che mangiare. Nonostante tutto era magra come una sottiletta, e non riuscivo a spiegarmelo in modo razionale. E anche il fatto che si vedesse grassa. -Ci sarà da divertirsi. –dissi, chiudendo il libro. Mi sorrise e annuì. Salii veloce in camera e prepararmi lo zaino, e ci misi dentro un po’ di tutto: libri, creme, smalti, I-pod. Come se dovessi partire per la Florida. Mi misi lo zaino in spalla e scesi veloce le scale. Gwen era già in poltrona, con una tazza fumante di latte bianco in mano e la scena che preferivo di Titanic sul televisore al plasma.                                                                                 -Di nuovo Titanic? –le chiesi, prendendo le chiavi.                      -Lo sai che non smetterei mai di guardarlo. –disse, girandosi verso di me. –Mi raccomando, divertiti da Vichy, ok? –mi disse, con un filo di tensione nella voce.                                                      -Certo. – Ci proverò.                                                                   Aprii la porta d’ingresso e uscii sul vialetto. Pestai per qualche secondo la sterpaglia e le pietruzze che c’erano in giardino e corsi in macchina. Si gelava fuori.                                                      Il telefono squillò e feci una fatica enorme per trovarlo nella borsa: risposi al sesto squillo. –Dimmi Vic. –dissi, con il palmare tra l’orecchio e la spalla. Feci retromarcia e uscii dal giardino.            -Stai arrivando? –mi chiese. C’era un leggero tremolio nella sua voce. -Si, perché? –le chiesi, preoccupata. Mi infilai nella stradina che portava al centro della città e misi la terza.                      -Non so. Non ricordo molto bene. È successo un’oretta fa. –mi disse e sentivo che la sua voce era piuttosto confusa. Si era ubriacata in qualche pub? Dovevo chiederle dove fosse.                      -Dove sei? –                                                                     -Ora sono a casa. Ma... io... ecco, prima sono andata in un pub... –ecco, lo sapevo. Aveva bevuto troppo ed ora non poteva entrare in casa altrimenti sua madre non l’avrebbe più fatta uscire.      -... e ho incontrato un ragazzo... –cosa? L’avevano molestata? Ingranai la quarta e accelerai un po’.                                  -Vic, non essere vaga! Cos’è successo, qualcuno ti ha picchiata? –le chiesi, con la voce e le labbra che tremavano.                   -No, no niente di tutto questo. Io sto bene. Ma, ecco, questo ragazzo mi ha... mi ha chiesto di te... –disse e si bloccò per un istante. –O cavolo, mi fa male la testa, e non ricordo più nemmeno il suo volto, è come se mentre parlassimo mi avesse bendata. -       Forse era stata drogata. Cosa era successo? E chi era questo ragazzo che chiedeva di me?                                                    -Vic, sto arrivando. Non ti muovere, sto arrivando. –le dissi, voltando l’angolo e dirigendomi in periferia.                                 -No! No, ti prego Sam! È già da un po’ che non lo vedo in giro, ma ho paura che ti faccia del male, Sam. Torna a casa ti prego. Non ti chiedo molto, dai. Dormirai da me un altro giorno.-       Cosa? Mi stava dando buca? Anzi, mi stava chiedendo di darle buca. E per cosa? Per un maniaco-pedofilo che forse era solo frutto di una serata passata a bere. Sbuffai, accostai e spensi il motore. –Sam, ti prego ascoltami. Torna a casa. Domani ne parliamo con più calma, ok? –mi chiese, con la voce un po’ più tranquilla. Sospirai e le dissi: -D’accordo, sarà per la prossima volta. Ora va a dormire. Ci vediamo domani. –dissi, e chiusi la chiamata. Dovevo sapere cos’era successo quella sera, e il giorno dopo sarebbe stata la prima cosa che avrei chiesto a Vichy. Girai la testa per alleggerire la tensione dei muscoli e incrociai la scritta luminosa CAFE. Un cappuccino caldo e un krapfen alla crema non avrebbero fatto male a nessuno. Entrai dentro e subito un’ondata d’aria piacevolmente calda m’investì. Andai al bancone e mi sedetti, aspettando che il barman mi dedicasse un po’ attenzione.     -Non è sicuro che una ragazzina come te stia per strada a quest’ora. –disse una voce alle mie spalle. Mi voltai sospettosa e quasi mi spaventai. Un uomo sulla trentina era di fronte a me, sullo sgabello accanto: strano che non lo avessi notato. Aveva un’ispida barba corta e i capelli arruffati e castani. Mi guardai l’orologio con fare teatrale e annuii. –Sono solo le nove di sera. -dissi, con una punta di acidità nella voce.                                      Sorrise divertito e guardò la mia borsa.  –Si, lo so. Ma a quest’ora e in questo quartiere le strade non sono sicure. –continuò, bevendo un sorso di caffè. Annuii e mi voltai. Poteva essere un maniaco o chissà cosa. Meglio non dargli corda. -Non preoccuparti, non voglio farti del male. –disse, fissandomi insistentemente. Cominciavo a sentirmi a disagio.                          -Signorina, vuole che l’aiuti? –mi chiese il barman, lanciando un’occhiataccia al ragazzo che continuava a fissarmi. Doveva avere una quarantina d’anni e aveva l’aspetto bonario. Era calvo e aveva una rosa tatuata sotto l’orecchio sinistro.                               –Si, grazie. –dissi, lanciandogli uno sguardo eloquente. –Vorrei un bicchiere di acqua frizzante. –continuai. La voglia di cappuccino e krapfen era completamente svanita. Il barman mi portò veloce un bicchiere trasparente con dell’acqua dentro, la bevvi tutta d’un sorso e lasciai cinque dollari sul bancone. Un po’ esagerati, ma non avevo voglia di aspettare che il barman mi facesse la ricevuta e mi desse il resto. Non volevo rimanere in quel posto un minuto di più.                                                 Non appena fuori, ripresi a respirare. Svoltai l’angolo e aumentai l’andatura. Faceva freddo e avevo paura. Di cosa non lo sapevo, ma temevo che l’uomo nel bar potesse inseguirmi e... e... sarei dovuta tornare a casa. Forse era lui l’uomo che diceva Vichy, il tizio che chiedeva di me. Ma non lo conoscevo; quella sera lo vidi per la prima volta. Attraversai la strada e feci qualche altro passo. D’un tratto una mano mi afferrò il braccio, cingendolo in una stretta lancinante. Cercai di urlare, ma qualcuno mi tappò la bocca. - Non preoccuparti, non voglio farti del male. –disse. Era l’uomo del bar. Cominciai a respirare affannosamente, mentre l’uomo mi sbatteva contro il muro, con l’avambraccio che pressava sul mio collo. Cosa sarebbe successo? Mi avrebbe aggredito o cercava solo soldi? Mi sentivo svenire, ma non potevo mollare proprio allora. Dovevo combattere. Cercai di liberarmi dalla stretta tagliente dell’uomo, ma il risultato fu scadente. Tentai di tirargli una ginocchiata in mezzo alle gambe, ma il mio ginocchio era attaccato alla sua coscia e non riuscivo a muoverlo. Avevo paura; avevo tanta paura.                                                            E poi successe tutto troppo velocemente. La pressione sul mio collo diminuì, riuscii a divincolarmi dalla stretta ai polsi e mi allontanai dal muro. Un ragazzo alto, slanciato e che non riuscivo a vedere in volto a causa della mancanza di luce, aveva preso il mio aggressore e lo aveva sbattuto contro il muro. Gli aveva tirato un gancio destro così violento che temevo gli avrebbe rotto la mascella, e poi un diretto così pulito da conferirgli il colpo di grazia. L’uomo era a terra, con del sangue che gli usciva dalla bocca. Avevo una serie di immagini confuse in testa che non riuscivo a distinguere, come un film a diapositive che si succedevano una dopo l’altra e di cui non capivo il senso. Un brivido di freddo mi percorse la schiena calda.                                                          -L’hai ucciso? –urlai, portandomi le mani alla bocca. Il cuore mi batteva forte; ma non sapevo se fosse per il grande spavento o altro. Quel ragazzo mi aveva salvata. Lui mi guardò. Non riuscivo a vedere i suoi occhi, ma li immaginai neri, come la notte che ci circondava. Respirava affannosamente; lo capivo dalle spalle che si alzavano e si abbassavano, ed era teso. Avrei voluto chiedergli tante cose. Come si chiamava? Mi aveva salvata, ero in debito con lui.                                                                           -Grazie. –mormorai, guardando l’uomo a terra senza sensi. Lui continuò a fissarmi per non so quanto, forse un minuto, forse cinque, e poi corse via, nel buio. –Aspetta! –urlai. Ma era troppo tardi. Era già sparito.

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=747277