All my certainties

di monochrome
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** C'era una volta in America ***
Capitolo 3: *** Armadi, rane, vacche e John Travolta ***
Capitolo 4: *** Fragolosi bipolarismi in atto ***
Capitolo 5: *** Zero Assoluto ***
Capitolo 6: *** Corri, maratoneta, corri! ***
Capitolo 7: *** E ora ti punirò nel nome della Luna! ***
Capitolo 8: *** Shelly-Ann Fraser ***
Capitolo 9: *** Non è il mio trombamico! ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


All my Certainties





C’erano poche certezze nella mia vita, cose nemmeno così fondamentali agli occhi degli altri. Per me erano le mie certezze e, anche se mi fossero sembrate stupide, non vi avrei rinunciato facilmente. Questo perché sapevo che, quando le cose si mettevano di merda, quelle poche cose erano in quel modo, andavano a modo mio e tutto sembrava meno di merda e un po’ più di schifo. Una sorta di normalità, insomma.
Ero certa che, se un serial killer avesse voluto uccidermi, gli sarebbe bastato appostarsi accanto all’acquario dei pesci tropicali che avevo a casa. Andavano nutriti almeno una volta a settimana e mia madre, svampita com’era, se ne sarebbe certamente dimenticata. O magari avrebbe tentato di liberarli e restituirli al loro habitat naturale, che per lei significava scaricarli nel mar mediterraneo. Triste ma vero, erano gli unici animali domestici che mi era concesso tenere. Con la bellezza di allergie agli acari, alle graminacee, ai peli di gatto e di coniglio, ai pollini di betulle, noccioli e compagnia bella (quella famiglia di alberi era una specie di parolaccia in ugrofinnico), alle muffe, nonché al latte, al glutine e agli arachidi ero decisamente impossibilitata a fare qualunque cosa. E un cane era decisamente fuori discussione per mia madre, casomai avessi sviluppato allergia pure a quello. Se mio marito fosse stato allergico alle punture di vespe e api, mio figlio, molto probabilmente, sarebbe stato il bambino più sfigato della faccia della terra. Per ora, quel primato apparteneva a me.
Ero più che sicura che il tumore al cervello che avrebbe ucciso mio padre tre anni dopo, al momento della mia nascita doveva già avergli causato dei seri danni. Nessun uomo sano di mente avrebbe chiamato la propria figlia, dai capelli ricci e scurissimi e gli occhi di un marrone tanto freddo da sembrare nero, Albina. Albina, dico. Era quantomeno un ossimoro. E mia mamma, evidentemente, amava gli ossimori, perché aveva accolto la proposta con entusiasmo. L’epidurale doveva essere una droga magnifica.
Sapevo con certezza che non mi sarei mai sacrificata per nessuno al mondo. Non ero propriamente egoista, ma non mi sarei mai danneggiata, mortificata, umiliata o limitata nell’aiutare qualcuno. Forse per questo non ero una cima nello stringere nuove relazioni: non sono mai stata brava a trovare accordi o ad andare incontro ai bisogni delle persone. Amavo me stessa più di qualsiasi altra cosa, una sorta di venerazione della mia individualità. Kierkegaard sarebbe stato fiero di me.
Uno dei miei punti fermi, era la sicurezza che, quando avessi agito, avrei agito per il meglio. Non agivo spesso di impulso e se lo facevo era per rispondere a bisogni stupidi della mia mente, come cucinare un dolce o leggermi un libro. Non ero mai stata una persona impulsiva, ponderavo le mie scelte. E se anche le mie scelte non mi avevano portato a grandi risultati, non sono mai riuscita a rimpiangerle col senno di poi. Le avevo scelte davvero; tornando indietro le avrei riscelte per lo stesso motivo. E, se mai ve lo steste chiedendo, col senno di poi mi resi conto che avevo solo bisogno di crederlo, solo per essere più coraggiosa, per essere più forte. Se avessi cominciato a farmi troppe seghe mentali non ne sarei più uscita. In questo modo potevo essere sicura di me ed essere la stronza arrogante che tutti conoscevano.
Infine, la mia più grande verità. Si dice spesso che uomini e donne non possono essere amici, che ci sarà sempre qualcosa a rovinare il rapporto, che uno dei due si innamorerà irrimediabilmente dell’altro e che tale rottura sarà irrecuperabile. Stronzate. Puttanate. Cavolate. Cazzate. Chiamatele come volete, ma per me queste teorie valevano quanto l’astrologia per Margherita Hack: un dannatissimo niente. L’amicizia fra uomo e donna esisteva e non si discuteva. I miei tre migliori amici ne erano la dimostrazione. Avrei piuttosto avvallato la teoria che fosse l’amicizia fra persone dello stesso sesso a non esistere: in quindici anni di scuola e mezzo, ero riuscita a legare solo con una ragazza, alle elementari. Piuttosto deprimente. La mia teoria era decisamente da prendere in considerazione.







Che posso dire? È l'ennesimo esperimento, che questa volta però sono certa porterò a termine. Spero vi piaccia.
Prossimo aggiornamento a prestissimo :)

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Capitolo 2
*** C'era una volta in America ***


All my Certainties

C'era una volta in America




Tenni fisso l’indice destro a premere quel campanello dal suono assordante. Ero in ritardo pazzesco e non mi sentivo per niente in colpa. Orribile a dirsi, ma credo che ormai si fossero tutti abituati. Tenevo nella sinistra una busta in plastica, contenente cinque o sei film a noleggio fra i quali avremmo dovuto scegliere quella sera. Sempre che qualcuno mi avesse aperto la porta prima che mi congelassi: era pieno inverno, gli spazzaneve avevano ammonticchiato quella che una volta era neve – e ora solo una poltiglia fangosa – ai lati di ogni strada, rendendo il paesaggio stranamente sporco e deprimente, e io, quella sera, avevo deciso di indossare degli striminziti pantaloncini filopassera. Gli stivali a mezza coscia non riscaldavano per niente.
Sentii un rumore di passi oltre il portone d’ingresso, così decisi di togliere il dito dal campanello, donando un po’ di pace alle orecchie dei poveri malcapitati all’interno della casa.
Mi arrivò un commento dall’altra parte della porta, relativo a quel mio gesto magnanimo. «Molto saggio da parte tua, Al.» Riconobbi la voce di Ivan, il padrone di casa, che però non si decise ad aprirmi. Avrei scommesso che mi stesse osservando dallo spioncino.
«Il mio culo sta congelando Iv.» sbottai, stizzita. Saltellai sul posto, stringendomi nel cappotto pur di riscaldarmi appena. Il mio respiro si trasformava in allegre nuvolette bianche, quasi a volermi sfottere.
La porta si aprì appena, lasciandomi intravedere gli occhi azzurrissimi del ragazzo e i suoi capelli ribelli che qualcuno, se non fossi stata presente, avrebbe definito neri. In realtà erano solo castano molto scuro.
Vidi le sue labbra carnose incresparsi in un sorriso strafottente e malizioso al tempo stesso. «Complimenti per la mise, cherie.»
Alzai gli occhi al cielo, ignorando la sua risata, e avanzai qualche passo per entrare in casa. Quando spinsi con la sinistra sulla porta, lui la bloccò col piede. Non gli risparmiai un’occhiataccia furente. Sapevo di essere tanto infreddolita da avere le gote arrossate e, con la mia stupida fissazione che toccare le cose indossando i guanti fa schifo, avevo le dita completamente insensibilizzate. Dovevo davvero decidermi a comprarlo un paio di guanti.
«Ivan» intimai. Se fossi riuscita a entrare non sarei stata decisamente né carina né gentile. Non lo ero mai, men che meno quando ero infreddolita e incazzata.
Lui sembrava divertirsi un mondo. Indicò con un cenno della testa la busta che tenevo nella mancina.
Sbuffai, passandogli tutti quei dvd.
Osservò ogni singolo titolo, per poi guardarmi in modo indecifrabile.
«Ho preso di tutto, nessuno può lamentarsi. Nemmeno quella palla di Cristina.»
Scosse la testa, decidendosi a farmi passare. Lo guardai malissimo, nell’oltrepassare la porta d’ingresso e lui rise di gusto.
«La mia ragazza non è una palla!» ribatté poi, spintonandomi gentilmente contro lo spigolo del tavolino. Soffocai un’imprecazione. «E si lamenterà. Qui non c’è niente che sia romantico.»
Mi massaggiai la coscia che aveva urtato poco gentilmente con la mobilia, seguendolo lungo il corridoio.
«Come non c’è? Non è una storia d’amore quella in Alien vs Predator? Alexa è innamorata di Sebastian!» argomentai, convinta. L’amorevole Cristina mi aveva chiesto di includere il “Titanic” nella lista dei film da noleggiare. Non avrei retto tre ore di film su Jack e Rose e se lo avessi preso ci sarebbe toccato sorbirci l’esecuzione di My Heart Will go on per praticamente tutto il film. Eventualità quantomeno agghiacciante.
Ivan mi guardò, evidentemente non convinto della mia brillante idea. Dopotutto la ragazza era la sua, mica la mia.
«Beh, magari Marla Singer rappresenterà il suo ideale di eroina romantica» borbottai, sentendomi improvvisamente colpevole.
Mi tolsi il cappotto, lanciandolo sulla prima poltrona che vidi, una volta arrivati nel salotto. Stavano aspettando tutti me, inutile dirlo.
Cristina, la biondissima ragazza di Ivan, con un perfetto naso alla francese che le aveva assicurato il soprannome Nasino a maiale, stava allegramente chiacchierando con Mel, che gesticolava come una matta come suo solito. Quest’ultima si era tagliata i capelli da poco: un taglio radicale. Aveva abbandonato i lunghi capelli lisci e pari che aveva avuto da quando l’avevo conosciuta, da bambina, per passare a un taglio molto corto, quasi un caschetto, che le rendeva il volto magro più dolce, più adatto a lei.
Seduti per terra, Lorenzo e Marco alzarono lo sguardo su me e il castano al mio fianco.
Il primo, i capelli lunghi fino alle spalle e leggermente ondulati, di un colore simile al mio, mi squadrò da capo a piedi con i suoi occhi nocciola.
«Dio, quanto diavolo sei alta?» sbottò. Il mio metro e settantatre non gli era mai andato a genio, soprattutto perché lui riusciva a superare il metro e settanta solo con la sua collezione di New Balance.
«Se sono più alta di te è solo perché tu sei basso» risposi, prendendo posto per terra, accanto a loro. Avevo deciso di lasciare il divano alla coppietta e a Mel, che speravo fosse la sola a sopportare quell’oca di Nasino a maiale. Ma non sapevo perché, avevo la sensazione di essere l’unica a non averla accettata. Sarà stato per quella sua aria da fighetta che non abbandonava mai; sarà stato per il fatto che, ogniqualvolta le era possibile, si appolipava a Ivan non facendolo respirare, anche quando noi eravamo presenti; sarà stato per il fatto che aveva tentato di trasformare uno dei miei migliori amici in un ragazzo anonimo, tutto moda, feste e mondanità, uguale a tutti gli altri. Cristina non mi piaceva, ma lei sembrava non averlo capito. Forse perché ero acida con tutti? Secondo me, non mi piaceva anche perché era incredibilmente stupida.
Una volta sedutami, lanciai uno sguardo al tavolino da salotto apparecchiato con la cena. Dannazione! Il fattorino del cinese era arrivato prima di me! Mi sentii improvvisamente in colpa. Dovevo decidermi a uscire di casa prima che scoccasse l’ora dell’appuntamento.
«Mangiamo?» domandai gentile, quasi volessi farmi perdonare.
Vidi Ivan e Lorenzo avventarsi voraci sugli involtini primavera, Mel lanciarsi sui ravioli al vapore, Marco accaparrarsi un intero vassoio di spaghetti alla griglia. Sorrisi dell’espressione scandalizzata di Nasino a maiale. Si schiarì appena la voce, tentando di portare al suo piatto un involtino primavera, prima che fosse divorato dal suo ragazzo.
Io, dal canto mio, mi assicurai la mia scorta di nuvole di gambero. Niente di meglio per farmi amare la serata e poi erano una delle poche cose che avrei potuto mangiare. Dio benedica la tapioca!
«Che film hai preso, Al?» mi domandò Mel, dopo aver ingoiato un intero raviolo. «La strega dai capelli ricci ha preso Fight Club, Alien vs Predator…» cominciò Ivan.
Sentii un «Fi pfeho mmo, l’ho fifto oartfo giofno» provenire da Marco.
«Bastardi senza gloria»
«Brad Pitt merita in ogni sua forma» esclamò convinta Mel.
«Inception»
«Mai capito nulla in quel film, anche se l’ho visto tre volte»
«Fast & Furious, X-Men: the origin»
«Anche Hugh Jackman merita in ogni sua forma!»
«E... C’era una volta in America.» così Ivan terminò l’elenco.
Io guardai Mel con complicità.
«Noodles, cos’hai fatto tutti questi anni?» domandai, recitando una battuta del film.
«Sono andato a letto presto.»
Nasino a maiale ci lanciò solo un’occhiata perplessa, evidentemente non capendo il gioco, per poi spostare lo sguardo su Ivan.
«Niente Titanic?» domandò, delusa. Mi avrebbe anche fatto pena, se solo avessi sopportato quel suo comportamento da principessina. Serata nostra, film nostri. Lei era solo un’infiltrata.
«Mi pare di capire che voi due vogliate C’era una volta in America, giusto?» domandò Marco, riferendosi a noi due, con un sorriso. Aveva le fossette quando sorrideva, gliele avevo sempre invidiate. Magari con le fossette sarei stata meno stronza. Avevo l’impressione che le persone con le fossette non riuscissero ad essere stronze.
«I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te?» continuai quel giochetto con Melania, mentre Lorenzo scuoteva la testa divertito e Marco, passatosi una mano fra i corti capelli biondo cenere, si apprestava a inserire il film nel lettore dvd.
«Io avrei puntato tutto su di te»
Inutile dirlo, la biondina era andata a farsi consolare dal suo pseudo moro e aitante giovane fidanzato.
«E avresti perso», borbottai, lanciando uno sguardo ai due che si erano già abbarbicati sul divano. Con uno sguardo invitai Mel a sedersi accanto a me: era decisamente imbarazzante rimanere in quella stanza con loro due che si sbaciucchiavano come sanguisughe, figurarsi stargli seduti accanto a distanza ravvicinata.
Il film cominciò e io addentai una nuvola di gambero, sentendola scricchiolare deliziosamente sotto i denti. Il paradiso.
Lori, accanto a me, richiamò la mia attenzione con una gomitata. Lo vidi fissare con desiderio quella mezza nuvoletta fra le mie dita. Alzai gli occhi al cielo, esasperata, e senza guardarlo (i miei occhi erano fissi sul film, che, sebbene sapessi a memoria, non avevo la minima intenzione di non seguire) e gli piazzai quella pseudo patatina davanti alla faccia. Quando sentii qualcosa di umido e viscido succhiarmi le dita, ritrassi la mano, stizzita, senza reprimere un gridolino disgustato.
Udii Lorenzo ridere della mia reazione. Lo spintonai.
«Dio, che schifo! Giuro che non ti offro più nulla.» sbottai sottovoce. Lui rise più forte, fino a quando una mia gomitata ben piazzata non lo zittì.
Passò una buona mezz’oretta di film, durante la quale gli uomini spazzolarono tutto tranne il mio pollo in salsa al limone e Mel e io continuammo a recitare sottovoce le battute del film, guadagnandoci infamate da Ivan, che nel frattempo aveva consolato Nasino a maiale a sufficienza e trovava irritante quel nostro chiacchiericcio. Se Iv non si fosse incazzato probabilmente avremmo smesso, ma vedere quelle labbra carnose borbottare imprecazioni era impagabile.
Marco era l’unico a guardare il film senza fiatare. Non si lasciava innervosire da me e Mel, non si distraeva come Lori, che continuava a punzecchiarmi il fianco da ormai dieci minuti, e decisamente non mi guardava insistentemente, come invece stava facendo quell’oca giuliva di Cristina.
Non sapevo se mi stesse guardando con astio, con curiosità o magari con semplice indifferenza, fatto sta che fin quando avessi continuato a guardare il film, avrei potuto ignorarla allegramente. Sempre che lei non mi avesse chiamato.
«Albina…» Usando il mio nome intero per giunta. Niente di più sbagliato per richiamare la mia attenzione.
«Chiamami Al» borbottai, ben poco propensa alla conversazione.
«Ma è così maschile…» osservò lei, seriamente convinta che nessuna ragazza avrebbe voluto un soprannome che potesse farla sembrare un maschio. Se anche lei si fosse chiamata Albina, avrei scommesso che qualsiasi soprannome che non avesse richiamato quello scempio del suo nome l’avrebbe accontentata.
Probabilmente non colse il mio sbuffo, perché continuò, impedendomi di concentrarmi sul film e ignorarla. «Comunque, volevo proporti una cosa.»
«Non puoi farlo dopo? Stiamo guardando un film.» soffiai, incrociando le braccia al petto.
«Oh, ma lo hai già visto almeno 20 volte!» ribatté, e se non fosse stata lei, avrei convenuto che perdermi cinque minuti di film non era poi così straziante. Ma era lei, e sapevo che avrei dovuto puntare i piedi per evitare una stupida conversazione su non so che diavolo di marca di smalto o chissà cos’altro. Una conversazione che, in ogni caso, sapevo di dover evitare.
Mi girai, con uno sguardo che non doveva essere troppo amichevole, a giudicare dal tono della mia voce. Lorenzo aveva smesso di punzecchiarmi, sentendo odore di guai. Molto intelligente da parte sua.
«Senti Cristina…» cominciai. Ma poi intercettai lo sguardo supplicante di Marco, che voleva davvero vedere il film e lo sguardo implorante di Ivan, che mi chiedeva di assecondarla e cercare di andarci d’accordo. Sospirai, sentendomi improvvisamente colpevole, non so bene nemmeno per quale motivo. Mel mi aveva ripetuto tante volte di dare una possibilità a Nasino a maiale. Magari se lei riusciva a trovarla simpatica, avrei potuto riuscirci anche io…
«Andiamo di là.» sospirai, alzandomi per precederla verso la cucina. Intravidi l’occhiata riconoscente di Ivan e il sorrisetto soddisfatto di Nasino a maiale, prima che si alzasse per seguirmi sui suoi tacchi altissimi. Quando mi affiancò lungo il corridoio, mi chiesi quanto si sarebbe fatta male se l’avessi spinta accidentalmente.
Arrivati nel cucinotto mi versai un bicchiere d’acqua, come se fossi a casa mia, senza chiederle se ne voleva. La mia gentilezza si era esaurita nel portarla a litigare da un’altra parte.
«Allora? Che c’è?» domandai, con un tono neutro. Davvero non riuscivo ad essere carina con lei. A dir la verità, mi era difficile essere carina col mondo.
La vidi sorridere, il tipico sorriso da reginetta di bellezza, che nelle foto avrebbe prodotto uno sbrilluccichio.
«Beh, Ivan mi ha detto che non hai mai avuto un ragazzo…» cominciò, convinta di aver cominciato nel modo giusto. Io mi accostai all’isola solo per non saltarle addosso. Avrei davvero voluto spingerla accidentalmente.
«Ah-ah» mormorai, tentando di non risultare aggressiva. Almeno riuscii a contenere un ringhio decisamente poco amichevole «E ti ha detto anche il motivo?»
«Secondo me è solo perché sei un po’ timida»
Io mi sarei definita piuttosto stronza sociopatica. Non ero timida, odiavo semplicemente le persone.
«Comunque» continuò, ignorando la mia espressione scettica «Voglio darti una mano. C’è questo mio amico che sarebbe molto…»
Non le lasciai finire la frase. Non mi sarei lasciata incastrare in un appuntamento al buio. Non da Nasino a maiale.
«Lo conosco?» domandai, fredda come il ghiaccio.
«Beh, non credo. Direi di no, non è che tu conosca molte persone…»
La ringraziai mentalmente per la frecciatina. Se era una strategia per convincermi ad accettare, non aveva decisamente funzionato.
«E come farebbe, questo tuo amico, ad essere molto interessato? Magari nemmeno mi ha mai vista…»
«Massì che ti ha vista. Gli ho fatto vedere le tue foto di facebook!»
Avevo finalmente capito perché Cristina non mi piaceva. Era una dannata impicciona che non sapeva farsi i fatti suoi, una ragazzina tutta trucchi e ragazzi che non meritava nemmeno la mia attenzione. Incarnava alla perfezione lo stereotipo della bionda e stupida. Era insignificante e Ivan meritava decisamente di meglio.
«Il mio profilo è privato, solo gli amici possono vedere le mie foto.» osservai, calma. Volevo farle confessare che non era il suo amico ad essere interessato, ma che era stata lei a voler combinare la cosa, solo per uscire con i suoi amici e Ivan. Aveva capito da tempo che il suo ragazzo non sopportava la compagnia della sua combriccola di modaioli e aveva pensato di rendergliela più piacevole includendovi anche me. Mel era occupata, altrimenti avrebbe decisamente combinato l’appuntamento a lei. «E tu nemmeno ci sei fra i miei amici»
Lei sospirò, visibilmente a disagio. Traballò sui tacchi alti, mordicchiandosi le labbra piene grazie al lucidalabbra al cioccolato bianco.
«Sono entrata con l’account di Ivan.» ammise poi, senza guardarmi. «Ma ti giuro che gli piaci davvero. Uscite insieme solo una volta. Ivan ha detto che avresti accettato.»
Stava piagnucolando. Uno spettacolo patetico. Avevo la nausea di lei, dei suoi amici e di quella stupida serata. Mi aveva rovinato il sabato sera. Se solo avessi potuto bere qualcosa, magari mi sarei sentita meglio, ma l’unica birra presente in quella casa non era per celiaci.
«Ivan ha detto così eh?» borbottai, soppesando le alternative. Sapevo che Ivan mi voleva bene, ma se non avessi cominciato ad essere carina con Nasino a maiale, probabilmente avrebbe smesso di portarla alle nostre cene, e non sarebbe più venuto nemmeno lui. Mi era incomprensibile come quella ragazza potesse piacergli, ma gli piaceva, e tanto anche. Conoscendolo, voleva che andassimo tutti d’accordo, altrimenti si sarebbe allontanato. Dall’altra parte c’era la combriccola di amiche sceme di Cristina, con questo misterioso ragazzo, che al 99% delle possibilità si sarebbe rivelato un idiota, ma che, all’1%, avrebbe anche potuto piacermi.
«Quanto ci tiene Ivan a questa cosa?» domandai, in crisi.
Lei sorrise, certa di aver fatto centro. L’aveva capito anche lei che l’amicizia è il mio punto debole, ma come avrebbe potuto essere altrimenti?
«Tantissimo!»
Sospirai.
«E va bene» borbottai, decisamente controvoglia «Quando sarebbe questo fatidico appuntamento?»





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Capitolo 3
*** Armadi, rane, vacche e John Travolta ***


All my Certainties

Armadi, rane, vacche e John Travolta




Non mi ero resa conto a quale terribile evento sarei andata incontro quando avevo accettato quell’uscita. Avrei dovuto cominciare a sospettare qualcosa quando, quella sera stessa, Nasino a maiale mi aveva chiesto che numero di scarpe portavo, quanto fossi alta, quale fosse il mio colore preferito… Lì per lì avevo solo pensato che avesse preso il mio accettare quell’appuntamento come un contratto di amicizia. Niente di più sbagliato, avevo continuato a risponderle a grugniti. Era stato quando era arrivata all’argomento trucco, facendomi notare che con un po’ di matita sarei stata molto più carina, che mi ero spazientita. Avevo troncato sul nascere ogni sua possibile lezione sul blush, sullo smooky eyes o chissà che altra diavoleria mettendola al corrente della mia allergia al trucco. Lei mi aveva sorriso comprensiva –ed è a quel punto che mi sarei dovuta preoccupare enormemente-, dicendomi che anche lei usava trucchi anallergici e che quindi non avrei dovuto preoccuparmi. Preoccuparmi per cosa?
In ogni caso avevo rinunciato a capirla quando aveva tentato di spiegarmi la differenza fra tanga e perizoma. Alla mia domanda sul perché avesse intavolato quella discussione non richiesta, aveva risposto che il tanga andava bene, ma che il perizoma al primo appuntamento era disdicevole. Ancora, non ero riuscita a capire perché diavolo avrei dovuto mettermi qualcosa di diverso dalle mie adorabili mutandine con le fragole. Ma non lo dissi. Informare i miei amici sulla mia biancheria non mi sembrava una mossa saggia, soprattutto contando che Lorenzo si annotava mentalmente ogni mia risposta, giusto per prendermi un po’ più in giro di quanto non facesse già normalmente.
Comunque avevo accantonato in un angolo il pensiero di quella serata per tutta la settimana, anche se, sotto le insistenze di Iv, ero stata costretta ad aggiungere Nasino a maiale alla mia lista di amici su facebook. Dopo un suo tentativo di conversazione via chat, nella quale aveva tentato di suggerirmi di indossare un push-up sabato, inutile dire che l’avevo bloccata.
Così, avevo accantonato anche il pensiero di Cristina, fino al sabato pomeriggio successivo alla sua richiesta, quando a 5 ore dall’orario in cui avevamo deciso di incontrarci con la sua combriccola di amici, me l’ero ritrovata sotto casa, alla guida della sua lancia argentata.
Mi aveva obbligata a salire, senza nemmeno lasciarmi posare la cartella in casa o concedermi il tempo per suicidarmi, ed era partita alla volta di casa sua. Avevo scoperto con estremo rammarico che non abitavamo poi così lontane. Se fossimo state amiche la cosa mi avrebbe fatto piacere.
L’avevo seguita docilmente in casa sua, dove mi aveva offerto almeno cinque possibili veleni per il mio organismo e io mi ero accontentata di un bicchier d’acqua solo per farla contenta, altrimenti non avrebbe smesso fino a quando, mangiata una fetta di torta, mi fossi assicurata un biglietto di sola andata per l’ospedale.
Mi sforzai di considerarla gentile – diamine! era davvero gentile! – ma il mio malumore, dovuto in gran parte al fatto che mi aveva prelevata da casa senza il mio consenso, mi impediva di rilassarmi e apprezzarla come avrei dovuto. Ce la stava mettendo tutta per piacermi e io ero la solita stronza. Mi sforzai un po’ di più e, forse, riuscii a considerarla vagamente piacevole.
Parlammo di Ivan, o meglio, ne parlava lei e io la ascoltavo. Capii che per quanto potesse essere stupida, non gli avrebbe mai fatto volontariamente del male. Capii anche che gli voleva molto più bene di quanto gliene volessi io: sebbene non le piacessi, si sforzava di andare d’accordo con me, mentre io l’avevo sempre trattata di merda. Mi sentii in colpa. Solo per qualche minuto, solo per quella volta.
Poi suonò il campanello, e mi diedi della stupida per averlo fatto.
Nasino a maiale si era fiondata alla porta, tutta eccitata, lasciandomi nella sua camera tutta rosa e giallognola, prima di tornare, seguita dal chiacchiericcio di altre quattro ochette.
Facevo fatica a distinguerle. Erano tutte già infighettate, con quintali di fondotinta e un rossetto rosso fuoco che le faceva sembrare dei transessuali alle prime armi.
«Albina» Nasino a maiale si rivolse a me per presentarmi, come per attirare ancor di più l’attenzione di quelle galline sulla sottoscritta «Ti presento Sara, Michelle, Marianna e Anastasia», rispettivamente uno scricciolo dal viso cavallino e una coda di cavallo che incrementava la sua somiglianza a un equino, una bionda così finta che una mia riproduzione della Gioconda sarebbe risultata vera al confronto, una castana dai lineamenti molto dolci, con decisamente troppi chili di troppo per quella minigonna giropassera che indossava con tanta disinvoltura e una specie di elfo lentigginoso che emanava eccitazione da tutti i pori.
«Le ho chiamate per aiutarti a prepararti» Cristina sorrise radiosa ed io rabbrividii. Sperai di avere una, seppur minima, voce in capitolo, ma poi mi resi conto che l’avevo avuta, quando avevo confessato a Cristina la mia taglia, il mio numero di scarpe, il mio colore preferito e tutto il resto. Ero finita.

Uscii da quella casa tre ore dopo, completamente irriconoscibile. Mi avevano costretta a indossare un tacco dodici, cosa che mi rendeva una sorta di gigantessa. Avrei dato qualsiasi cosa per vedere la faccia di Lorenzo se mi fossi presentata davanti a lui con quei cosi. Probabilmente avrebbe riso, visto che non riuscivo a starmene in piedi senza un qualsiasi appoggio. Una cosa tremenda.
Anastasia, o una qualsiasi altra del quartetto dei trans, era rimasta molto delusa dal fatto che non avessi indossato un push up, come Cristina mi aveva consigliato. La mia risposta era stata che nessun tipo di reggiseno sarebbe riuscito a valorizzare la mia taglia -20. Lei si era vista costretta a cambiare vestito: da un tubino nero iper attillato e con una scollatura vertiginosa che sarebbe risultata quantomeno ridicola addosso a me, aveva optato per un vestito color vinaccia con allacciatura al collo, molto leggero e svolazzante. Peccato che quel colore, accostato alla mia pelle chiarissima e al nero dei miei capelli (capelli che avevano inutilmente tentato di domare per poi rinunciare con mia somma soddisfazione), mi faceva sembrare piuttosto inquietante, avrei azzardato uno zombie.
Mi avevano truccato gli occhi più di quanto avrei fatto io in dieci anni e anche se il risultato era tutt’altro che malvagio, sapevo che dopo un’ora, in cui, per citare Nasino a maiale, sarei stata molto carina, avrei avuto l’aspetto di una drogata tutta triplo caffè dello studente e oscurità. E quel dannato colore non avrebbe fatto altro che incrementare l’effetto.
Dopo tutto quel lavoro, avevo pensato che fosse il caso di informarmi sul tizio che avrei dovuto incontrare. Prima non me ne ero minimamente preoccupata, ma avevo passato le ultime tre ore sotto le grinfie di tre modaiole pseudo estete e la cosa mi aveva messo addosso agitazione.
Durante il tragitto in macchina mi avevano ripetuto non so quante volte il nome del ragazzo “alto, carino, biondo con gli occhi azzurri” che avrei dovuto incontrare, ma giuro che non ero ancora riuscita a memorizzarlo. Gianfranco? Mattia? Michele? Ludovico? Che cavolo di nome avevano detto?
«Luca ti piacerà» Cristina continuava a ripeterlo. Almeno mi ricordava ogni due minuti che si chiamava Luca. «Devo dire che è molto piacente, anche fra le ragazze più grandi»
«Ah ah» risposi, atona. Mentalmente continuavo a ripetermi “Luca”. Poi incontravo una superficie riflettente e mi prendeva un colpo.
Passammo così tutto il tragitto in macchina, con la ragazza cavallina che era ancora risentita perché avevo tentato di accopparla quando aveva tirato fuori una piastra per capelli e Cristina che continuava a blaterare di Luca. Perché avevo la sensazione che mi ripetesse sempre le stesse cose?
In ogni caso arrivammo sani e salvi a destinazione. Non avrei mai detto che Nasino a maiale sapesse guidare così bene, ma ci riusciva. Bene per lei e ottimo per me, che non avevo rischiato la vita.
«Ok, dov’è che dovremmo andare?» domandai, ormai rassegnata alla serata. Non mi ero azzardata a muovere nessun passo senza avere un appoggio. Quindi mi ero appoggiata alla macchina, ma poi il piccolo elfo biondo mi aveva crocifissa con lo sguardo, perché le stavo sgualcendo il vestito e quindi ero stata costretta a rimettermi in una posizione dignitosa.
Vidi degli individui sbracciarsi dall’altra parte della strada e poi mi arrivò l’inconfondibile voce di Ivan che urlava un «Ehi!» prima di lanciarsi in mezzo alla strada per attraversare. Un paio di auto inchiodarono, assordandoci con i loro clacson, ma il mio amico non diede segno di curarsene. Corse a baciare la sua ragazza e poi si rivolse a me, con un sorriso che urlava al mondo “ti ricatterò finché avrò vita”. Avrei scommesso che, prima o poi, qualcuno avrebbe tirato fuori una macchina fotografica per immortalarmi in quel momento imbarazzante.
«Iv» lo salutai con un cenno della testa, intimandogli con lo sguardo di non fare cazzate. Era bravo, lui, a fare cazzate.
Cristina arrivò saltellante a interrompere quello scambio di minacce silenziose. Si portava dietro quello che presunsi essere il tanto famoso Luca. La prima cosa che pensai fu “armadio”, in relazione alla sua corporatura, parola seguita a ruota da “rana”, per la bocca enorme che aveva, “leccata di vacca”, per tutto il gel che aveva nei capelli e “John Travolta”, visto che sembrava appena uscito dalla copia italiana di Grease.
«Albina, lui è Luca. Luca, Albina!» esclamò cinguettante quella strega bionda.
Luca mi sorrise, io riuscii solo ad inarcare le sopracciglia. Ero intontita. Dovevo essermi persa qualcosa. Non riuscivo a capire come diavolo fossi finita a passare la serata con quel… coso. La risata di Ivan mi arrivò piuttosto attutita. Cristina stava blaterando qualcosa e io me ne stavo fregando.
Poi, non so bene perché, Leccata di vacca mi porse il braccio, con un sorriso tiratissimo e un’occhiata alle mie scarpe. «Immagino tu abbia bisogno di una mano per arrivare al pub, eh piccola?»
Penso che non potessi avere un’espressione più scettica. Cos’era, una nuova tattica da rimorchio? Solo a quel punto mi guardai intorno, scoprendo che tutte le componenti del club dei transessuali avevano usato i tacchi come scusa per spalmarsi addosso ai loro accompagnatori della serata e lo stesso stava facendo Nasino a maiale, dicendo di non riuscire a salire la salita fino al ristorante senza un appoggio. Beh, le avevo viste correre e saltare su quei trampoli. Dubitavo che una dannatissima salita, per quanto fatta di pietrini romani, potesse fermarle.
«Ce la faccio benissimo da sola» sbottai, allontanando il braccio dal suo. «E non chiamarmi più piccola, intesi?»
«Come vuoi tu, bambolina.»
«Anche bambolina fa schifo» soffiai, tentando di mandargli il chiaro segnale che ne avevo fin sopra i capelli di lui e quella dannata serata. Ed erano passati solo 10 minuti. Un record anche per me.
«Miciotta?»
«Potrei vomitare!»
«Come dovrei chiamarti allora?»
Aveva abbandonato il sorriso da paresi, aggrottato le sopracciglia troppo curate per essere quelle di una ragazzo e aveva finalmente cominciato a guardarmi in cagnesco. Adesso la serata sarebbe stata più interessante. Non stavo soffrendo da sola! Un punto per me che riuscivo a fare incazzare il mondo!
«Severi. È il mio cognome. Ma ti prego di usarlo solo per avvertirmi di una mia possibile morte prematura. In tutti gli altri casi, stronza megalomane va più che bene.»
Sorrisi, un sorriso vuoto e quasi cattivo. Ero arrabbiata e la rabbia era confortante. Almeno sapevo come comportarmi.
Leccata di vacca mi avrebbe uccisa, se avesse potuto. Lo vidi stringere e distendere i pugni come se gli prudessero le mani. Uno spettacolo. Poi decise che non valeva la pena picchiarmi e rischiare un’incarcerazione solo per farmi essere un po’ più gentile. Si avviò a passo pesante dietro a tutti gli altri, su per la salita, lasciandomi come un’ebete attaccata a quella lancia argentata.
Mi guardai intorno. Non ero sicura di volerli seguire. Volevo bene a Ivan, ma ero decisamente di cattivo umore e a rimetterci non sarei stata io, sarebbe stato Luca-Leccata di vacca. Se lui aveva abbastanza autocontrollo da non passare alle mani -una grande dote tra l’altro, se non fosse stata oscurata dal fatto che aveva anche solo preso in considerazione di zittirmi a suon di cazzotti- io non ne ero abbastanza dotata. E poi stuzzicare le persone era il mio passatempo preferito.
Presunsi, comunque, che ovunque fossi voluta andare, avrei avuto un grande problema chiamato tacco 12. Quella dove Cristina aveva parcheggiato era una dannata stradina che portava o a una salita o a una discesa e non ero sicura di quale fosse più facile affrontare con i tacchi, senza contare che più salivo più poi avrei dovuto scendere.
Sentii le note di “Welcome to the Jungle” risuonare nella sera e riuscii a trovare il cellulare prima che la chiamata cadesse. Ero anche riuscita a leggere di sfuggita il nome di Ivan sul display, quindi fui preparata a dimostrarmi innocente.
«Sì?» cinguettai, angelica.
«Albina? Dove sei?» una voce piuttosto acuta, che decisamente non apparteneva al castano, ma piuttosto a una certa biondina di mia conoscenza, risuonò attraverso l’altoparlante.
«Alla tua macchina, Cristina.»
«Beh? Che aspettate a raggiungerci?»
«Preferirei non farlo, se non ti dispiace»
La sentii ridacchiare, maliziosa, la qual cosa mi fece sospirare.
«Quindi vai subito al dunque eh?» tentò di scherzare, come se fossi una sua amica, come in una di quelle tipiche confidenze fra donne che mi erano estranee. Decisamente Ivan, Marco e Lorenzo non erano i migliori confidenti in fatto di pomiciate.
«Comunque qualcosa dovrete pur mangiare! Non potete mica vivere d’amore!»
Mi schiarii la voce, preparandomi a spiegarle una cosa che decisamente riteneva impossibile.
«Cristina, ascoltami bene. Luca se ne è andato Dio solo sa dove. Pensavo vi avesse raggiunti, ma evidentemente non è così.»
«Ti ha lasciata da sola?!» aveva alzato la voce, probabilmente attirando l’attenzione anche di chi le stava intorno. La udii borbottare cose indistinte a qualcuno, prima che fosse disposta a prestarmi nuovamente attenzione.
«Non preoccuparti. Sistemo tutto io. Mi aveva assicurato che gli piacevi!» sembrava seriamente dispiaciuta, cosa che rese ancor più difficile per me confessarle che era colpa mia. Ma cavolo, mi andava bene così.
«Non penso tu possa sistemare il mio carattere Cristina.»
Penso rimase un tantino sorpresa da quell’affermazione. Davvero ancora non aveva capito con chi aveva a che fare?
«Tu e Ivan e le tue amiche godetevi la serata. Io me ne torno a casa senza rimpianti. Io e Luca ci saremmo potuti prendere solo a cazzotti, in una gabbia e con un arbitro a decretare la fine dell’incontro!»
Non riuscii a farla ridere. Poi improvvisamente sentii una voce a me molto familiare. E, brutto da dire, Ivan non sembrava contento.
«Che ti ha detto?»
Dritto al punto. Mi piaceva anche per quello.
«Scusa?» Non volevo dirgli che lo avevo preso di petto prima ancora di parlarci. Lui sapeva che lo avrei fatto. Lo facevo sempre con qualsiasi ragazzo che fosse interessato a me. Era per quello che mi aveva fatto quella domanda. Ma per una volta volevo sentirmi innocente. E invece mi sentivo in colpa, perché stavo mettendo a repentaglio la relazione di Ivan, o, peggio, la nostra amicizia.
«Che ti ha detto per farti incazzare? So già che poi tu gli avrai detto qualcosa che l’avrà fatto incazzare ed è per questo che se ne è andato. Ma lui che ti ha detto?» Non riuscivo a decidermi se fosse arrabbiato con me, con lui, o solo in pensiero. Magari tutte e tre. Il problema, in quel caso, era che era arrabbiato con me.
Aspettai qualche secondo a confessare. Mi faceva vergognare di essere affrettata e incazzosa, che in realtà erano due qualità di me stessa che amavo profondamente. Non mi facevano mai annoiare.
«Mi ha chiamato piccola, bambolina e miciotta nel giro di tre frasi.» borbottai.
Come prevedibile Ivan sbuffò, per comunicarmi il suo disappunto.
«Non potevi sopportare un po’?»
Potevo? Forse sì, ma non lo avrei mai ammesso.
«No. E comunque ci sono andata leggera. È lui che è troppo permaloso!»
La sua risata mi giunse con tutto il suo sarcasmo. Era risentito o era una mia impressione?
«Lui? Eddai, Al!»
Sospirai, sconfitta. Ma tanto sapevamo entrambi che lo avrei rifatto, ero fatta così: innaturalmente arrabbiata col mondo. Lo psicologo della scuola aveva detto che era a causa della morte di mio padre. Io, da quanto ne sapevo, staccavo le teste alle barbie anche prima che avesse cominciato a stare male.
«Mi dispiace, so che ci tenevi, ma potevi trovarmi qualcuno di meglio!»
Sperai che stesse sorridendo. In effetti, quando parlò di nuovo, mi sembrò che mi avesse perdonata. Non era più arrabbiato, evviva!
«Quelli meglio erano intimiditi dal tuo sguardo arrabbiato, Al.»
«Fa parte del mio fascino!»
Ridemmo insieme, e mi sembrò che tutto andasse di nuovo a gonfie vele. Che bella cosa l’amicizia.
«Ascoltami bene però» Era tornato serio e la cosa mi spaventò. Che avesse davvero finito la pazienza e mi stesse dando un ultimatum? «Ora chiami Marco o Lorenzo o chiunque altro e ti fai venire a prendere»
«Preferisco lo stupro ad essere presa per il culo a vita da voi» sbottai. Non era vero, ma, se fossi riuscita ad arrivare sana e salva in fondo a quella dannata discesa, contavo di prendere un taxi coi soldi della cena. Se era possibile, perché non salvare sia l’orgoglio sia la mia verginità?
«Al» mi intimò Ivan. Non avrei ceduto un’altra volta però. Non potevo perdere sempre io.
«Che c’è?»
«Non so se ti sei vista, ma stasera hai un vestito che tu, molto raffinatamente, definiresti giropassera. Faresti cambiare squadra al presidente dell’Arcigay»
Non riuscii a reprimere una risata.
«È un complimento? Perché io mi sento solo ridicola!»
«Fammi il favore di non tornare a casa da sola.»
Come facevo a non acconsentire, se me lo chiedeva con quel tono? Diamine! La mia parte femminile stava prendendo il sopravvento sull’orgoglio. Molto male. Dovevo chiudere la conversazione prima che accadesse.
«Ah-ah»
«Promettimelo.»
Mi morsi il labbro. Tornando in taxi, in teoria, non sarei stata sola.
«Te lo prometto.»





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Capitolo 4
*** Fragolosi bipolarismi in atto ***


All my Certainties

Fragolosi bipolarismi in atto




I primi dieci passi per allontanarmi dalla macchina non erano andati male. Ero riuscita a camminare anche dignitosamente, forse, senza la parvenza di avere un palo conficcato nel didietro. Beh, facevo un passo ogni dieci secondi, giusto per essere certa di beccare la piastrella più in piano possibile in quella dannata discesa (perché diamine non ero nata nella pianura padana, bensì nelle colline toscane, ancora dovevo capirlo!) e per assicurarmi di non cadere. Dopotutto passava della gente di lì e anche se conoscevo poche persone, per la legge di Murphy come minimo avrei trovato l’improbabile gruppetto di Luca-Leccata di vacca, Lorenzo e Marco pronti a ridere di una mia stupidissima caduta.
A proposito di caduta… il tacco mi scivolò accidentalmente in un piccola buca, portandomi a cadere rovinosamente a terra e rigorosamente di lato, addosso a un povero omino di passaggio, che non solo non arrestò la mia caduta, ma cadde con me, perché al peggio non c’è mai fine.
Sentii dei commentini sarcastici arrivare dai suoi amici e uno sguardo perforarmi la schiena. Non me ne curai. Mi curai piuttosto di un idiota che, appoggiato alla saracinesca di un negozio in una pessima imitazione di Vegeta, stava ridendo fino alle lacrime. Chi diavolo fosse nemmeno lo so.
Non conoscevo nessun ragazzo dal fisico così asciutto e longilineo. Aveva i capelli scuri, leggermente lunghi e un accenno di barba che avrei trovato sexy, se non fosse stata sulla faccia di uno che mi stava prendendo per il culo.
«Ma che diavolo vuoi?!» sbottai, senza riuscire ad alzarmi dal povero malcapitato che era cascato con me. Non gli avevo nemmeno chiesto scusa.
«Ma che diavolo vuoi tu! Sei tu che mi sei caduta addosso!» mi rispose il tizio su cui ero praticamente seduta.
«Non te, il cretino che sta ridendo!»
«Sì però alzati, cazzo!» la sua voce mi arrivò distrattamente. Ero completamente concentrata ad odiare quel tizio che, anche se aveva smesso di ridere, continuava a guardarmi insistentemente.
«Già che ci sei potresti anche darmi una mano, visto che ti è piaciuto lo spettacolino!» borbottai, leggermente a disagio. Non mi piaceva essere fissata a quel modo. Scivolai a sedere per terra, permettendo a quel tizio intrappolato sotto di me di svignarsela con tranquillità.
Nemmeno lui mi aveva aiutata ad alzarmi e lì, in mezzo alla strada, senza nessun appoggio, io non ci riuscivo davvero.
«Oh, non saprei. Mi piace questo spettacolo.» Era un dannatissimo strafottente. Mi sorrideva, sornione, e giuro che in quel momento non riuscii a capire di che diavolo di spettacolo stesse parlando. Ero seduta a sedere a gambe larghe come sempre, col cappotto nero a proteggermi il sedere dal freddo della strada. Forse non riuscii ad afferrare subito il concetto perché i suoi occhi chiari si incatenarono per qualche istante nei miei, che esprimevano tutto il mio pessimo umore, insieme al broncio che avevo messo su. O forse perché avevo solo tanta voglia di spaccargli quel suo naso perfetto.
In ogni caso, mi venne in aiuto, ridendo un altro po’ del mio atteggiamento.
«La stai mostrando al mondo» mi informò. Molto gentile da parte sua farmelo notare solo dopo aver ammirato l’opera d’arte. Non so dire se fui più veloce a unire le cosce o ad arrossire. So solo che sentii immediatamente la faccia andarmi a fuoco, una sensazione che tra l’altro detesto. Soprattutto se poi quello che ti ha fatta arrossire si mette a ridere ancora più forte.
Mi si avvicinò, tendendomi una mano.
«Su, ti aiuto ad alzarti» continuava a sorridere e sembrava divertito piuttosto che strafottente. Ma io ero incazzata e quindi scacciai la sua mano, senza nemmeno guardarlo.
«Adesso vuoi aiutarmi? No grazie. Piuttosto aspetto l’intervento dello spirito santo!» sbottai, puntando le mani a terra. Tentai di alzarmi da sola, con l’unico risultato che battei una culata pazzesca e per poco non mi slogai una caviglia.
Lo vidi con la coda dell’occhio scrutare il cielo dubbioso.
«Non vedo colombe con rametti di ulivo né strane fiaccole solcare il cielo. Non credo che lo spirito santo arriverà presto», mormorò, riprovando a porgermi una mano. Questa volta non la colpii, la ignorai e basta.
Mi concentrai piuttosto sulle mie decolté, che mi apprestai a togliere, rimanendo a contatto con la pietra con le calze trasparenti che Biondona finta mi aveva prestato.
A quel punto mi alzai molto meglio. Avrei buttato volentieri le scarpe, ma poi pensai che il tacco avrebbe potuto cavare un occhio a qualcuno, e quindi le tenni in mano, appese alle mie dita, così, per sicurezza.
«È meglio prendersi qualche fungo, piuttosto che accettare una mano eh?» Non sembrava risentito. Chissà perché era ancora lì. Magari sperava in qualche altro capitombolo?
Ricominciai a camminare, ora molto più veloce, ignorando il moretto bellamente. E lui, non capii mai perché, mi seguì, mansueto. Teneva le mani infilate nelle tasche del giubbotto. Solo allora notai la sua espressione così dolce.
«Mia madre mi ha detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti» risposi, atona. Non riuscivo ad essere cattiva, se continuava a fissarmi in quel modo. Sono stronza, ma non senza cuore. E nemmeno senza ormoni a dirla tutta. Se non mi avesse riso in faccia forse non l’avrei nemmeno guardato o, molto più probabilmente, sarei stata io a fissarlo, giusto per rifarmi un po’ gli occhi. Ma siccome passava da strafottente a gentile in pochi nano secondi, mostrando una tendenza al bipolarismo, non lo avrei mai ammesso.
«Non ti ho offerto caramelle» osservò, in modo fin troppo innocente.
«Oh, sono sicura che lo avresti fatto.» commentai, reprimendo un sorrisetto di scherno. Anche lui sorrise, pensando forse che stessi scherzando. Oppure lo facevo semplicemente ridere, con la mia aria scorbutica e asociale.
«Matti» disse e basta. Io aggrottai le sopracciglia, non riuscendo davvero a capire. Mi sfuggivano molte cose in presenza di quel ragazzo.
«Scusami?»
«Mi chiamo Mattia, ma puoi chiamarmi Matti.» ripeté. Io annuii. Una reazione naturale di cui mi pentii immediatamente. Matti. Mi piaceva, sembrava quasi un insulto.
«Che soprannome orribile. Se non ti dispiace ti chiamerò…» ci pensai un attimo, fermandomi a studiarlo da capo a piedi. Lui si fermò di fronte a me, sempre con quel sorrisetto cordiale e appena accennato dipinto sulle labbra sottili. «Sorriso da paresi.»
Annuii, convinta della mia scelta. Poi ripresi a camminare, accompagnata dalla sua risata. «E non vuoi dirmi come ti chiami, signorina Cipiglio
Lo guardai di sottecchi. Non si era scomposto nemmeno un po’. Non era divertente stuzzicare chi non si arrabbiava. No, non c’era alcun gusto.
«Prova a indovinare, Sorriso da paresi.» sottolineai quell’appellativo, per vedere se avesse delle razioni. Beh, allargò solo quella sua dannatissima smorfia. Perché ormai non era un sorriso appena accennato per me, era una schifosissima smorfia. Avrei fatto qualsiasi cosa per modificargli l’espressione del volto. Anche rifarla vedere al mondo.
Lui stette in silenzio, a studiarmi un altro po’. Dio, ma perché quella strada non finiva mai? Volevo seminarlo, volevo che se ne andasse. Non sapevo comportarmi. Sono a mio agio con la rabbia, la mia e l’altrui. Sono a mio agio a punzecchiare le persone e ad essere punzecchiata. Mi resi improvvisamente conto di non riuscire a sostenere una conversazione civile con nessuno che non mi conoscesse abbastanza perché io riuscissi a fidarmi. Uno schifo assurdo. Odiavo e amavo me stessa per non essere una persona normale. Poi era Mattia il bipolare!
«Perché diavolo mi stai seguendo, comunque? Non hai nulla di meglio da fare il sabato sera?» borbottai, in preda al disagio più completo.
«Un mio amico mi ha chiesto di lasciarlo solo con la ragazza che gli piace, Martina.»
«Ritenta, sarai più fortunato.»
«Francesca?»
Storsi la bocca, in un chiaro segno di disapprovazione.
«Chiara?»
«Quasi, ma non nel senso che intendi tu.» borbottai. Mi stavo sbilanciando, quasi volessi che indovinasse il mio nome. Ma io non lo volevo, giusto? E poi, se anche lo avesse indovinato, cosa avrebbe comportato? Non lo avrei decisamente più rivisto. No, decisamente non volevo rivederlo. Ma magari, se avessi fatto uno sforzo, il mio carattere sarebbe migliorato?
Chiusi gli occhi, cercando di scacciare quei pensieri.
«Nel senso che non è Sara?» domandò. Gli avevo tolto il sorriso dal volto, missione compiuta. Ora era tutto corrucciato a tentare di cercare un nome che mi si addicesse.
«Non lo indovinerai mai!» esclamai, vittoriosa. E sorrisi, anche, prima di rendermi conto di averlo fatto e metter su un cipiglio più accentuato del precedente.
Mai mostrarsi carini e simpatici con gli estranei, Al, è la prima regola!
Lui fece finta di non averlo visto, anche se lo aveva fatto, ne ero più che certa. Fu una mossa molto saggia. Altrimenti mi sarei imbarazzata talmente tanto che difficilmente avrei spiccicato una parola anche solo vagamente cordiale o diversa da “vaffanculo”.
«Beh, a questo punto hai due alternative» riprese lui. Eravamo arrivati infondo alla discesa e cominciai a cercare il cellulare nella borsa. Da qualche parte dovevo avere anche il numero dei taxi. In rubrica, in borsa… o magari sulla mia scrivania, a casa. Sicuramente non era lì, con me, in quella borsetta striminzita che mi avevano affibbiato quelle oche.
«Dirmi il tuo nome, e non sarebbe una cosa fatta male a mio modesto parere, oppure scegliere fra due possibili nomi in codice»
«Ossia?»
La sua espressione esprimeva solo diabolicità, come se sperasse di costringermi, con degli stupidi soprannomi offensivi, a confessare il mio nome. Non lo avrei fatto. Sarebbe stato come dargli una possibilità di conoscermi e io non volevo. Avevo tutti gli amici che mi servivano.
«Signorina Cipiglio, ma questo già lo conosci, e il bellissimo Fraisier.»
Inarcai un sopracciglio.
«Fraisier?» il mio francese –sempre che di francese si trattasse- si fermava a “oui”, “non”, “voulez vous coucher avec moi, cette soir?” e quest’ultima frase non ero certa che sarei mai riuscita ad usarla. «E che vorrebbe dire?»
Lui sorrise, di nuovo sornione e malizioso. Rabbrividii, immagino per la paura o magari per il freddo. No, decisamente non poteva essere l’effetto di quel sorriso sui miei ormoni. «Significa fragolosa. A proposito, mi piacciono le tue mutandine.»
Mi bloccai col cellulare a mezz’aria. Molto probabilmente, in tutta la mia vita, non arrossii mai più velocemente che allora e la sua risata, che mi inondò le orecchie, non mi aiutò.
«Vaffanculo» soffiai, prima di dargli le spalle e allontanarmi di qualche passo. Mi vennero in mente tanti di quegli insulti che glieli avrei urlati volentieri, se solo non mi fossi vergognata come una ladra e se non avessi sentito urlare il mio nome.
Mi girai verso la fonte di quell’«Al!», scoprendo piacevolmente Marco e Lorenzo a guardarmi, il primo dolce, il secondo incapace di fermare le risate. Non fui mai tanto più felice di vederli e non mi fregava più di essere presa per il culo per quell’orribile color vinaccia, o per il trucco sulla mia faccia o per il fatto che stavo camminando scalza in mezzo alla strada.
Sentii una presenza alle mie spalle e li vidi cambiare espressione.
«Al?» mi sussurrò all’orecchio Sorriso da paresi, che quasi quasi avrei chiamato volentieri Bipolarismo in atto, in un tono curioso e quasi seducente. Sperai che si stesse sforzando, perché altrimenti aveva ragione Lorenzo: avevo bisogno di una sana scopata.
«Alberta per caso?» domandò, innocente, come se non mi avesse umiliata, ma solo presa amichevolmente in giro. Mi dispiaceva che non ci fosse arrivato: non eravamo amici, non lo saremmo mai stati.
«Albina, stupido idiota!» sbottai, allontanandomi da lui e andando incontro a Marco e Lorenzo. Mi ricordai solo allora di avere dei tacchi, facilmente trasformabili in armi, in mano, ma sarei sembrata una povera matta se fossi tornata indietro ad accoltellarlo col mio tacco a spillo.
«Chi era quello?» Ignorai la domanda di Marco, continuando a camminare per la mia strada, seguita a ruota da entrambi i miei amici.
«Fraisier è molto più carino!» mi urlò dietro quel Bipolare in atto. Ignorai anche lui, fino a quando non gli mostrai il dito medio, senza nemmeno degnarmi di guardarlo.
Mi ritrovai a sorridere, non so bene nemmeno perché. Furono gli sguardi indagatori di Marco e Lorenzo a riportarmi alla mia espressione severa e impassibile.
«Portatemi a casa» dissi solo stancamente. Si guardarono per alcuni istanti, prima di seguirmi, ridendo.
«Senti Al ma…» cominciò Marco, trattenendo un sorriso. «Che fine hanno fatto le tue scarpe?»
Gliele tirai e lui le afferrò al volo, a pochi centimetri dalla sua faccia.
Risi, sotto il suo sguardo di rimprovero. «Scusa»
Lori mi guardò come suo solito, col suo sguardo da ninfomane represso e la malizia sulle labbra.
«Nonostante il coloraccio, approvo la maglietta Al. Ma dove hai lasciato i pantaloni?»
Rimpiansi di non avere più le scarpe da tirargli.

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Capitolo 5
*** Zero Assoluto ***


All my Certainties

Zero Assoluto




Ne ero certa, stavo scrivendo cose senza alcun senso. Copiavo febbrilmente ogni singola sbavatura di gesso che quel feticista della matematica del mio professore stava scrivendo alla lavagna, senza capirci un accidente. Cosa diavolo erano le variabili aleatorie continue standardizzate? Una z e il disegno di una collina? Forse ero incapace di mio, ma avrei scommesso che senza il continuo richiamare la mia attenzione di quella palla del mio compagno di banco, magari avrei afferrato almeno a cosa diavolo servissero quelle bestemmie matematiche.
Stavo disegnando l’ennesima collina sul piano cartesiano, quando Matteo cominciò a blaterare qualcosa di musica, qualcosa su un concerto, dei biglietti che supposi dovesse avere e tali Zero Assoluto. Ironico che “zero assoluto” fosse il mio grado di conoscenza del gruppo, ma soprattutto di quello che avevo capito della spiegazione del prof.
«Ahah» mormorai, distrattamente. «Divertiti.»
Continuai comunque a copiare, in un disperato tentativo di raccogliere più informazioni possibili sull’argomento per poi farmelo rispiegare dalla mia fidatissima professoressa di ripetizioni. Quella donna era una santa. Avevo già ordinato il marmo per scolpirle io stessa una statua commemorativa.
Il prof alla lavagna accennò a certe tavole di Sheppard e a cosa servissero non lo capii mai. In quel momento, infatti, Matteo la piaccica cominciò a insistere perché andassi al concerto con lui, punzecchiandomi il fianco. Se non fossimo stati in un luogo pubblico gli avrei spaccato quello stupido ditino indice, ma siccome eravamo a lezione –e a lezione di matematica soprattutto!- dovetti accontentarmi di mandarlo a fanculo. Nel mentre intercettai anche lo sguardo di Mel, che da due file avanti, si stava sbracciando per sussurrarmi ammiccante un «Dottor Stranamore».
Risposi con un’alzata di spalle e un’espressione che esprimeva tutta la mia incapacità di comprendere. Doveva andare dal ginecologo, per caso?
Intanto il prof era passato alla risoluzione degli esercizi. Poggiai sconsolata la testa sul mio quaderno aperto. L’ultima cosa semisensata che avevo scritto era il titolo, le variabili aleatorie continue.

Come ogni mercoledì pomeriggio, da un mese a quella parte, mi ritrovai di fronte a quel portone in vetro. Mi strinsi nel cappotto lungo, nascondendo il naso nella sciarpona di lana che mi ero arrotolata intorno al collo, mentre con la destra suonavo distrattamente il campanello del terzo piano.
La voce metallica della mia prof di ripetizione mi invitò a salire, non appena sentii il portone aprirsi in un clack.
Nell’aspettare l’ascensore mi tolsi sciarpa e cappotto, così da essere completamente libera una volta varcata la soglia dell’abitazione. Non c’erano corridoi di ingresso, quindi mi ritrovai direttamente nel salotto di casa.
«Mettiti pure comoda Albina!» mi gridò Marianna dalla cucina e la sua voce mi giunse piuttosto ovattata. «Vuoi un po’ di the? È al gelsomino.»
Buttai la mia roba sul divano, non sapendo che altro fare. Odiavo il the, al limone, alla pesca, verde, giallo o nero che fosse. Preferivo di gran lunga un buon caffè espresso, un breve momento di intenso godimento. Il the richiedeva tempo e calma per essere bevuto. Serviva una pazienza che non avevo per goderselo a pieno. Io tendevo a trangugiare qualsiasi cosa mi capitasse a tiro.
«No grazie!» risposi, alzando la voce.
Non sapevo se sedermi o rimanere lì in piedi come un’imbecille. Non avevo mai osservato bene la casa, non me ne era mai fregato nulla, in tutta onestà. E poi, di fronte alla grande incognita della matematica e degli esami imminenti, l’arredamento perdeva fascino anche per un disegnatore di interni.
Siccome, però, Marianna non dava segno di volersi allontanare dai fornelli e desistere nella preparazione della sua bevanda, mi misi ad osservare qua e là, lasciando vagare lo sguardo dalle stampe di Gaugin, al televisore di fronte al divano, alla libreria stracolma di classici, alle foto disposte ordinatamente sulla mensola accanto a me.
Presunsi che fossero tutte abbastanza vecchiotte: Marianna e suo marito dovevano avere almeno quindici anni di meno. Avevano molte meno rughe in quella foto in riva al mare.
C’erano anche tante foto di un bambino, da quando aveva appena un anno, fino ad arrivare ai cinque-sei. Aveva i capelli scuri e lisci della madre e gli occhi chiari del padre, un colore a metà strada fra l’azzurro cristallino e il verde acqua. Mi accorsi che solo in poche foto sorrideva davvero. In tutte le altre esibiva un mezzo sorriso, a metà fra lo strafottente e il cordiale. Non avrei saputo descriverlo altrimenti. Mi resi anche conto, e non senza pentirmene, che se fossi stata una bambina di tre anni, mi sarei innamorata di quel bambino. Diavolo, me ne sarei innamorata anche quel giorno, a diciotto anni compiuti!
«Eccomi!»
Sobbalzai, per poi girarmi di scatto, sotto il sorriso materno di Marianna. Le rughe sottili che le rigavano il volto lo rendevano ancora più simpatico.
Esibiva un vassoio, con la sua tazza di the e una tazzina più piccola che, dall’odore, supposi essere di caffè appena fatto.
«Ho pensato di fartene una tazza.»
Le sorrisi, grata. Niente di meglio di un caffè per cominciare una spiegazione di quei geroglifici che qualcuno si ostinava a chiamare linguaggio matematico!
La spiegazione fu lunga, gli esercizi pure e devo dire che non ero ancora sicura di aver afferrato l’argomento alla perfezione. Decisamente, ancora non avevo capito a cosa diavolo servissero quelle dannate variabili, né tantomeno la funzione di ripartizione. Una cosa però l’avevo capita: potevo depennare fin da subito matematica dalle opzioni universitarie. Nemmeno sotto la minaccia di cinque kalashnikov mi sarei lasciata convincere ad imbarcarmi in cinque anni di numeri e strani simboli. Per quanto ne sapevo, nella definizione di limite poteva esserci scritto evviva il tonno in scatola.
Fu il suono di una chiave nella serratura della porta in ingresso a risvegliarci entrambe da quella catalessi da matematica. Era passata circa un’ora e mezza ed entrambe avevamo bisogno di una pausa. Io, almeno, avevo bisogno di un altro caffè.
«Deve essere mio figlio. Tu non lo hai mai incontrato, vero Albina?» mi domandò Marianna, cordiale.
Scossi la testa. Mi chiesi che tipo fosse il figlio di una professoressa di matematica, ma liquidai la domanda con un’alzata di spalle. Decisamente non m’importava granché.
Alzarsi e comunicare faccia a faccia non era nello stile della professoressa. Secondo lei era molto più veloce urlare da una stanza all’altra, nonostante il rischio da telefono senza fili: nessuno capiva mai una parola.
«Matti! Siamo nello studio!»
Non so perché, ma non avvertii il pericolo. Avevo incontrato un Mattia solo quattro giorni prima, ma diedi per scontato che fossero persone diverse. Quante probabilità avrebbero potuto esserci che il figlio di Marianna fosse proprio quel Mattia-Sorriso-da-paresi? Senza contare che quella donna era una santa, infinitamente paziente e carina, mentre quel troglodita era uno strafottente. Ero stranamente convinta che uno in quel modo non potesse venir fuori da una professoressa di matematica.
Ripensai al sorriso insolente del bambino nella foto solo un attimo prima che una testa castano scuro facesse capolino dalla porta e non ebbi il tempo di impanicarmi. Non incontrai subito i suoi occhi chiari. Lui non mi guardava, guardava la madre e le diceva qualcosa e lei gli diceva qualcos’altro. Non so che cosa, ero troppo impegnata a valutare da quale parte fuggire.
La porta? Fuori discussione. Non ero abbastanza bassa e anonima per sgattaiolargli fra le gambe senza che se ne accorgesse. Lorenzo ci sarebbe riuscito, forse. Ma per come era fatto, probabilmente lo avrebbe preso a cazzotti direttamente. La finestra? Eravamo al terzo piano, ma magari, se fossi riuscita ad appendermi ai rami di quel pino…
Rimaneva l’opzione nascondersi, e stavo per buttarmi sotto la scrivania, quando, con un pessimo tempismo, Mattia alzò lo sguardo su di me.
Sicuramente non avevo indossato il mio sguardo da dura. Lui, però, aveva indossato quello di un leone che ha adocchiato una gazzella e già se la pregusta.
Mi sentii rimpicciolire sotto il suo sguardo, nonostante riuscissi a reggerlo senza problemi. Non volevo essere umiliata di nuovo, non da lui. Perché diavolo non stavo tirando fuori gli artigli? Se lo stava chiedendo anche lui? Oppure pensava solo a come divertirsi con il suo nuovo giocattolino?
Cazzo, no! Io non ero il giocattolino di nessuno! Ero io a giocare con le persone, non il contrario! Lo fulminai, stizzita. Mai più mi sarei mostrata debole e sorpresa ai suoi occhi. Non avrebbe più avuto questo vantaggio su di me, non lo avrei permesso.
«Allora Mattia? Vorresti prepararci un the e un caffè?» borbottò la madre, insofferente. Ecco cosa gli aveva chiesto non appena era arrivato.
Lui rispose con uno sbuffo, sparendo oltre la porta che aveva lasciato socchiusa. Un’ottima via di fuga, se proprio volete saperlo.
«Scusa Marianna, ma devo proprio andarmene.» suonai ansiosa e trafelata persino a me stessa. Non me lo sarei mai perdonata.
«Sicura? Mi sembra tu abbia ancora delle incertezze…»
Buttai matite, penne, quaderni e quant’altro nella cartella, senza curarmi del fatto che, inavvertitamente avevo strappato una pagina al libro degli esercizi.
«Cos’è la vita, se non si rischia un po’?»
Sparai quella stronzata perché sapevo che queste frasi le piacevano e mi avrebbe lasciata andare più facilmente. Mi issai la tracolla sulla spalla, dirigendomi verso la porta. Mi voltai a guardarla, con la mano sulla maniglia e un piede nel salotto, pronta a darmi alla fuga, in preda a quell’istinto irrazionale di andarmene da quella casa il prima possibile.
«Ci vediamo…» Mercoledì, avrei dovuto dirlo. Perché era così difficile? Mio Dio! E lei non poteva darmi la certezza che Sorriso da paresi non si fosse trovato in casa il mercoledì dopo? «Sì, insomma, ti chiamo se non capisco qualcosa!»
E sia benedetto chiunque abbia inventato il telefono!

Camera mia era un campo di battaglia, una discarica, un... ero troppo stanca e agitata anche solo per pensare a un paragone più calzante. Avevo svuotato l'armadio, in preda al panico, frugando nelle tasche anche di vestiti che non mettevo da almeno un anno. Avevo rovesciato il contenuto delle mie borse sul letto, che si rivelarono inevitabilmente vuote. Avevo lanciato libri ovunque, ricontrollato i mobili, avevo cercato in ogni anfratto, ma non avevo trovato quello che stavo cercando.
Ero quindi passata al resto della casa, sotto lo sguardo vigile di mia madre che si augurava non riservassi al divano lo stesso trattamento della mia stanza.
Non trovai nulla. Mi veniva da piangere. Dove diavolo avrei potuto lasciare il mio cellulare?
Non riuscivo nemmeno a pensare a dove lo avessi visto l'ultima volta. In camera mia? A scuola? A casa di Ivan?
Non appena mi venne in mente, mi lanciai sul telefono di casa, scrivendo sulla tastiera quel numero che oramai sapevo a memoria, dopo anni di chiamate.
Mi stavo mangiando le unghie -o meglio, le pellicine-, un vizio che avevo perso da anni, ma che riaffiorava nei periodi di crisi.
Rispose al secondo squillo, per grazia divina.
«Al?» rispose, quasi sorpreso.
«Non trovo il telefono!» sbraitai, prima che potesse dire qualcosa. «Io-non-lo-trovo! Non ho la minima idea di dove possa essere!»
La razionalità non era mai stato il mio forte, davvero. In preda al panico poi, era ridicolo anche solo pensarci. Non che fossi una drogata di cellulare: detestavo messaggiare con le persone, a meno che non avessi cose fondamentali da dire; era difficile che rispondessi al telefono alla prima chiamata, anche perché di solito lo appoggiavo e abbandonavo al suo destino. Come in quel momento.
Avrei voluto dire a Mel dell'incontro-fuga con Sorriso da paresi, volevo che analizzasse la mia reazione, che mi dicesse perché diavolo mi ero comportata in quel modo. La mia teoria era che era un arrogante idiota con un sedere da infarto e che, decisamente, era quest'ultima sua caratteristica a mandarmi in panne il cervello, ma avevo bisogno che qualcuno me lo confermasse. Quel qualcuno doveva essere Mel: se mi fossi messa a parlare di culi con Marco o Lorenzo o Ivan, le reazioni sarebbero state imprevedibili come le apparizioni della Madonna.
«Che vuol dire che non trovi il telefono?»
Non so perché, ma non mi sembrava abbastanza allarmato. Era una catastrofe! Avrebbe dovuto urlare, avrei dovuto sentirlo sbutolare casa sua dalle fondamenta, pur di riuscire a trovarmi il mio dannato cellulare. E invece lui mi chiedeva “Che vuol dire che non trovi il telefono?”!
«Vuol dire che non lo trovo, idiota!» sbottai. La rabbia era incredibilmente più facile della paura. La rabbia era familiare. Oh sì, mi sarei arrabbiata ancora un po' con Ivan, se non avesse alzato il culo e non avesse cominciato a cercarmi il cellulare.
«E io che posso farci?»
«Cercalo! Magari è lì da qualche parte!» soffiai. Era così ovvio, perché diavolo non ci arrivava? Lo sentii sospirare, dall'altra parte della cornetta.
«Al, quel dannato cellulare non può essere qui con me.» Si dimostrò paziente, come se fossi ammattita tutt'a un tratto e lui fosse il poliziotto incaricato di farmi abbassare la pistola. Una cosa terribile. E umiliante. Soprattutto umiliante. Ero stanca di sentirmi umiliata. «Per prima cosa, non sono a casa, bensì a casa di Cristina e, scusa se te lo dico, il tuo cellulare non è nemmeno nella top ten dei miei pensieri in questo momento. Secondo, dall'ultima volta che sei stata a casa mia, o a casa di Cristina, ti ho chiamata almeno quattro volte.»
Improvvisamente non seppi cosa dire. Mi sentii offesa e messa da parte.
La me razionale capì la situazione: Ivan era con Cristina, la sua ragazza, la ragazza che amava e decisamente non sarebbe corso in mio soccorso, perché era con la sua ragazza ed era giusto che fosse così. Io ero la sua migliore amica. Non si rinuncia a stare con la propria ragazza, con la casa libera, se la tua migliore amica ti chiama in preda a una crisi isterica perché non trova il cellulare che probabilmente ha lasciato nella tasca del giubbotto.
Ma un'altra parte di me si sentì ferita e non riuscì a reprimere un pizzicore agli occhi. L'altra parte di me, realizzò finalmente che, nonostante per me Ivan e tutti gli altri fossero al primo posto, per lui non era la stessa cosa. Mi dissi che magari, una volta trovato un ragazzo, l'avrei pensata allo stesso modo, ma mi augurai il contrario.
«E quante volte ti ho risposto, di quelle quattro?» Avevo aspettato un po' a rispondere. Avevo paura che la voce mi avrebbe tremato. Alle mie orecchie suonai sull'orlo del pianto. Ma io non stavo piangendo, vero? Non ancora.
Probabilmente Iv non colse quella sfumatura della mia voce. Sentii piuttosto quella di Cristina dire qualcosa di indistinto e mi augurai di non cogliere nemmeno una parola di senso compiuto. Non avrei gradito.
«Tutte e quattro Al!» Stava sorridendo. Voleva rincuorarmi? Oppure stava sorridendo a lei? Non volevo sapere nemmeno questo.
Attaccai il telefono, senza salutare. Non era nel mio stile e non ne avrei avuto la forza. Improvvisamente il problema del telefono scomparso non mi parve così drammatico.

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Capitolo 6
*** Corri, maratoneta, corri! ***


All my Certainties

Corri, maratoneta, corri!




«Quindi è il figlio di Marianna, eh?» commentò Mel, dopo il mio resoconto del giorno precedente.
Non dissi nulla. Ce ne stavamo una accanto all’altra di fronte alla macchinetta del caffè della scuola. Avevamo scoperto con somma gioia l’assenza del professore della prima ora e, dal momento che sembravamo scoperti, avevamo convenuto che un caffè caldo non avrebbe fatto poi così schifo.
Quindi continuai a sorseggiare il mio mocaccino, mentre aspettavamo che quell’affare sputasse fuori il the di Mel.
«Ho solo una domanda per te» cominciò, ma non le lasciai il tempo di continuare.
«Poi mi darai un consiglio serio?»
Lo chiesi, perché sapevo che quella domanda sarebbe stata estremamente stupida.
«Quanto è figo per averti fatta scappare?» La guardai male. Non ero andata via (non scappata, decisamente non ero scappata, perdio!) perché era “figo” –che poi, detto fra noi, era un concetto troppo relativo-, ero andata via perché mi ero appena resa conto di non aver collezionato tutti i Pokemon sul Pokedex e dovevo assolutamente rimediare.
«Insomma, è figo alla Robert Downey Junior o alla Jonathan Rhys Meyers?»
Alzai gli occhi al cielo, di fronte al suo sorrisetto malizioso. Intanto la macchinetta aveva cominciato a traballare con suoni piuttosto inquietanti, segno che aveva deciso di dissetare quella maniaca della mia amica.
«Direi piuttosto… affascinante alla Jake Gyllenhaal. O magari alla Ashton Kutcher…» Soppesai le mie parole per qualche secondo, sotto lo sguardo di rimprovero di Mel. «No, Jake e Ashton sono decisamente su un piano superiore.»
Annuii convinta, prima che mi arrivasse un pugno sul braccio destro.
«Tu hai fra le mani un Jake Gyllenhaal e scappi?!» per poco non urlò. Ringraziai il cielo che le bidelle del nostro piano fossero delle balenottere azzurre il cui unico scopo della mattinata era mangiare. Chiunque altro si sarebbe alzato e ci avrebbe intimato di rientrare in classe all’istante.
«Ti ho già detto che sono andata via. Non sono scappata!» soffiai, indignata. Era una precisazione importante.
Lei sbuffò, ignorando le mie parole. «Lascerei Alessio per un Jake Gyllenhaal!» borbottò. Il suo umore non migliorò, nel prelevare la bevanda dalla macchinetta. Al posto del the al limone tanto pregustato era uscita acqua bollente, limpida limpida.
«E questo che diavolo dovrebbe essere?!» sbottò. Mel non aveva il mio temperamento aggressivo, ma se si arrabbiava faceva quasi più paura di me. Non eravamo amiche a caso.
«Il tuo the.» risposi, piatta, a quella domanda retorica. «Bevilo o si raffredda»
Non penso gradì il mio sarcasmo. So che nascosi una risata nel mio bicchiere e che corsi verso l’aula prima che decidesse di rovesciarmelo in testa.
«Quanto sei simpatica!» borbottò, prima di aprire la porta della classe.
A proposito: chi l’aveva chiusa? E, soprattutto, quando?
Seguii quello scricciolo di Mel oltre la soglia, lanciando uno sguardo dispiaciuto alla cattedra.
«Carino da parte vostra raggiungerci in classe» ci accolse una voce a me tragicamente familiare. La mia espressione dispiaciuta si tramutò dapprima in incredulità, successivamente in raccapriccio. Infine, mi assestai sul mio broncio abituale.
«Scusi prof» sentii Mel, che intanto stava andando a sedersi, a differenza mia, che ero rimasta in piedi come un’ebete a fissare quegli occhi acquamarina che mi guardavano con estremo divertimento, nonostante il viso di Mattia fosse rimasto imperturbabile. «Albina è stata colta da un calo di zuccheri»
Mostrai il bicchiere, impacciata, per avvalorare il nostro alibi. Ancora però non mi ero decisa a smuovermi da quella stupida porta.
«Hai intenzione di sederti?» mi chiese, calmo. Eppure lo vedevo, stava ridendo di me. Eccome se stava ridendo. Si divertiva a torturarmi. Da quando in qua, poi, era un professore? Dio, non poteva avere più di ventidue anni, dati per grazia divina poi!
Avevo intenzione di sedermi? Non so. Dopotutto i Pokemon avevano raggiunto il del tutto rispettabile numero di 649 e non ero sicura che quelli leggendari fossero inclusi…
Mi trascinai alla mia sedia, incenerendolo per quel suo dannato sguardo. Se non fosse stato un dannato professore, il “the” di Mel sarebbe finito direttamente su quella sua faccia da scopo-solo-io.
«Benissimo» cominciò e non so perché provai un irrefrenabile desiderio di sbatterlo al muro «Ora che Severi e Rossi ci hanno raggiunti… non penso abbiate voglia di fare matematica.»
Sentii qualche oca della mia classe ridacchiare e lui rispose loro con quella sorta di sorriso a metà che mi aveva sbattuto in faccia il sabato prima. Non si curò del mio sguardo di rimprovero. Non si curò proprio di me.
«Beh, non va neppure a me. Però ho trovato proprio ieri sera la ricetta della mia torta preferita.»
Si era alzato, aveva frugato nella sua borsa, mostrandoci poco educatamente (e decisamente poco rispettoso verso le mie coronarie, che rischiarono di esplodere) il suo adorabile didietro fasciato da quei dannati jeans stretti. Perché diamine non si era messo qualcosa di largo? Un po’ di decenza per l’amor di Dio!
Aveva tirato fuori un libro che aveva tutta l’aria di essere un ricettario di torte.
«A chi di voi piacciono le fragole?» domandò, entusiasta, lanciandomi, anche se per pochi secondi, uno sguardo molto eloquente. Era una sfida? Io sentivo solo odore di guai, mentre tutte le altre ragazze alzarono la mano, facendo a gara a chi riusciva a toccare il soffitto. Quella puttanella di Margherita si era addirittura alzata in piedi.
«Facciamo così, vi scrivo ingredienti e procedimento passo passo. Vi posso assicurare che la Fraisier è una torta deliziosa!»
Avevo detto odore di guai? Avvampai in meno di un nano secondo.
Melania si girò a guardarmi, allarmata. Alla fine aveva capito anche lei. Mi fece il labiale di «Jake Gyllenhaal?!», ma sapevo che, se avesse potuto, l’avrebbe urlato. Adesso mi avrebbe creduto, se le avessi detto che era uno stalker incallito e che me lo ritrovavo ovunque? E dire che a scuola non lo avevo mai nemmeno visto, prima di averlo incontrato quel malaugurato sabato pomeriggio!
E mentre col suo ghignetto vittorioso Mattia scriveva alla lavagna un sacco di stronzate tipo crema al burro, 500g di fragole e cazzi vari, io combattevo con me stessa per non guardargli il culo e non lanciarmi dalla finestra.
Sprofondai un po’ sulla sedia, lasciando scivolare un ciuffo di capelli a coprirmi parzialmente il volto, che doveva tendere al violaceo, piuttosto che al rosso.
Sentii un movimento di sedia accanto a me, ma non me ne curai. Ero troppo impegnata a cercare un modo di salvare la faccia.
«Ma che cavolo sta blaterando questo idiota?» mi borbottò Matteo in un orecchio.
«Va al diavolo Matteo!» sbottai, senza nemmeno guardarlo, con la mia pazienza che aveva raggiunto i minimi storici.
«Oh, non mi dirai che è interessante!»
Era la prima volta che lo sentivo rispondere a tono. Avrebbe attirato la mia curiosità, se non fossi stata distratta da ben altra persona.
Mattia si era girato per dire chissà che cosa, ci aveva guardato e aveva perso il suo ghignetto strafottente.
«Tu biondino.» disse, piatto. Non lo guardava male, non proprio almeno, non se non riuscivi a cogliere quella scintilla di non so che cosa nel suo sguardo.
Matteo si auto indicò come per chiedersi “Che diamine vorrà questo pazzo da me?”.
«Sì, proprio tu. Ti dispiace spostarti in quel banco vicino alla finestra laggiù in fondo?»
«Ehm… perché?» Capii la voglia di Matteo di controbattere: quel posto era rimasto strategicamente vuoto dato il pressoché inevitabile contatto con le tende della finestra che, negli anni, da un originale color bianco erano passate a un marroncino piuttosto inquietante e che certamente non odoravano di rose.
«Beh, Severi era andata a farsi una passeggiatina. Va punita, non credi?»
Era la mia impressione o suonava giusto un tantino… acido? Avrei riconosciuto quel tono ovunque. Era o non era la mia specialità?
«Perché non ci manda lei, là in fondo!» replicò Matteo il biondiccio. Rabbrividii al solo pensiero. Mattia però non sembrava molto incline ad assecondare il suo suggerimento.
«Perché se ci mandassi Albina, poi lei potrebbe parlare col brufoloso là in fondo, mentre se ci mando te rimarrà isolata per il resto dell’ora. Comprendi?»
Il brufoloso là in fondo, alias Alessandro Della Ratta, borbottò qualcosa di indistinto sull’acne giovanile, ma nessuno gli badò. Le ragazze non badarono nemmeno a Matteo, che continuava a mormorare improperi al giovane professore, mentre si apprestava a sedersi nel posto maledetto: il caro prof si era messo a scrivere il procedimento per il pan di spagna e decisamente nessuna di loro poteva perdersi quest’importante nozione!
La campanella, mezz’ora dopo, salvò me e le poche persone che avevano conservato un briciolo di sanità mentale da altri discorsi sul marzapane, sulle decorazioni e sui tempi di compattamento della torta.
Melania mi si avvicinò di soppiatto, mentre Mattia raccoglieva le sue carabattole per lasciare il posto alla prof di inglese.
«Non-ci-credo!» mormorò, esterrefatta «Non mi avevi detto che era un professore!»
Come se lo avessi saputo!
«Lo sai come sono fatta, nasconderti le cose mi eccita oltre misura!» sbottai, offesa, incrociando le braccia sotto il seno. Lanciai un’ultima occhiataccia torva al diretto interessato che, chissà poi per quale motivo, mi stava guardando con un piccolo broncio di indecisione.
Adorabile mi sussurrò una vocina smielosa nella testa.
Tentai di ignorarla, altrimenti avrei vomitato.
«Severi?»
Mi irrigidii nel sentire il mio cognome. Pronunciato da quelle labbra non promettevano niente di buono.
«Sì, professore?» marcai l’ultima parola con un tono mieloso che nascondeva silenziose minacce di morte. Mi girai a guardarlo.
Era sulla porta, aveva abbandonato la borsa per terra e in mano gli erano comparsi non so quanti libri di matematica.
«Mi aiuteresti a portare la mia roba in quarta D?» domandò. Lascio a voi immaginare con che faccia da finto tonto lo chiese.
Inspirai a pieni polmoni per non rispondergli male. No, non volevo andarci. Non volevo rimanere sola con lui, dannazione!
«E, di grazia, perché io? Un giovane aitante come lei non dovrebbe risparmiarsi l’esercizio fisico o presto neppure un’ottima giacca riuscirà a nasconderle la pancia.»
Mi resi conto di averlo detto solo grazie allo sguardo scandalizzato che mi rivolsero in molti –diciamo pure tutti-. Lui però non si scompose. Avrei giurato che stesse per scoppiare a ridere di fronte a tutta la classe.
«Stare in piedi per un’ora a spiegare è un esercizio più che sufficiente, non trovi?»
Alzai gli occhi al cielo. Avevo fatto trenta, tanto valeva fare trentuno, no?
«Su, vieni.»
Mi alzai scocciata, senza trattenere uno sbuffo. No, non mi piaceva quella situazione. Sicuramente non mi piacque trovare la borsa di Mattia leggerissima e completamente vuota. Col cazzo che aveva bisogno del mio aiuto! Avevo bruciato tre calorie per cosa? Per seguire un imbecille fuori dalla porta?
Sogghignò, sfacciato, di fronte alla mia espressione scettica.
Poi si incamminò verso chissà quale luogo arcano. Ricordavo che la quarta D fosse dalla parte opposta…
«Dove stai andando?» borbottai, seguendolo senza alcuna voglia. Sbatacchiavo la sua schifo di borsa a destra e a manca. Non mi sarebbe dispiaciuto distruggergliela.
Non mi rispose. Cominciò solo a guardare tutte le porte delle aule, fino a trovarne una vuota, entrarvi e chiudermi la porta alle spalle.
Lo guardai interrogativa poggiare i suoi libri –che, lasciatemelo dire, non avevano decisamente un aspetto liceale- sulla cattedra, per poi voltarsi verso di me.
«Cos’è? Vuoi approfittarti di una povera studentessa indifesa?»
«Non riusciresti a sembrare indifesa nemmeno con le trecce e un vestitino da bambola rosa» mi rispose lui, sorridendo appena.
Tentai di immaginarmi in quelle vesti e la visione che ebbi fu piuttosto inquietante. Mi sarebbe mancata una mannaia insanguinata et voilà! La perfetta assassina di un film horror di serie Z.
Si frugò nelle tasche dei jeans, prima di porgermi qualcosa di piccolo e nero, con uno schermo touch screen e pochi tasti. Un cellulare. Il mio cellulare!
Mi fiondai a rubarglielo dalle mani, improvvisamente felice di averlo rivisto. Quell’uomo, un professore o il figlio di Marianna che fosse, io lo amavo! Dovevo mandare non so quanti messaggi per informare tutti che sì, il piccolo Sigismondo, il telefono errabondo, era tornato a casa.
Mi si erano illuminati gli occhi e lui lo notò, perché si mise a ridere, divertito dal mio repentino cambio d’umore.
«Ehi!» Mi ripresi all’improvviso da quell’euforia. «Perché diavolo ce l’avevi tu?!»
«Lo hai dimenticato ieri a casa mia» spiegò lui, calmo. Per una volta si era tolto quel ghignetto dalla faccia. Riuscivo quasi ad apprezzarlo. Forse. «Sai, durante la tua fuga
No, non ci riuscivo proprio a trovarlo piacevole. Si era rimesso a sfottere.
«Non stavo fuggendo!» sbottai. Continuare a ripeterlo era spossante. Perché la gente non ci credeva? «Dovevo solo andare via
«Continua a ripeterlo, magari riuscirai ad auto convincerti che è così!» Stava sorridendo, uno di quei pochi sorrisi veri che avevo visto nelle foto del bambino in casa di Marianna.
Incrociai ancora una volta le braccia sotto al seno, distogliendo gli occhi dai suoi acquamarina e lasciando vagare lo sguardo nell’aula.
«Posso farti una domanda?» borbottai, piuttosto a disagio, chissà perché poi. Decisamente non eravamo vicini. Lui se ne stava poggiato alla cattedra, io per poco non mi spalmavo sulla porta, per allontanarmi da lui il più possibile. Precauzioni. Andavano prese in ogni caso.
«Solo se poi posso fartene una io.» rispose, tranquillo.
Spostai nuovamente lo sguardo su di lui. Apparentemente il suo non si era mosso da me.
«Che diavolo vuoi da me?» Non ero stata aggressiva. Avevamo deposto le armi –io la mia aggressività e lui quel ghigno fastidioso- solo per qualche minuto, in un tacito accordo.
Si mosse appena, sul posto, forse a disagio, forse per stare più comodo. Avrei scommesso sulla seconda: quelli come lui non sono mai a disagio. Punto.
Ci pensò su per attimi infiniti. Sembrava non voler rispondere. Lo sorpresi a mordicchiarsi l’interno delle labbra e mi sorpresi a sorridere. Che il mio viso avesse reazioni autonome era quantomeno agghiacciante. Magari se mi fossi imbottita di botox avrebbe smesso?
Mi girai verso la porta, poggiando una mano sulla maniglia, pronta ad abbassarla.
«Ho capito. Grazie per il telefono, io torno in classe.» Salutai con un cenno della mano e aprii quella porta, ma non riuscii a metter fuori il piede. Venni fermata dalla sua voce.
«Non lo so.»
Quando mi girai, richiudendomi la porta alle spalle, lo trovai a guardarsi le scarpe.
«Mi fanno ridere le tue reazioni illogiche. Mi viene voglia di farti arrabbiare ogni volta che ti vedo.»
«Ah, grazie mille!» borbottai, roteando gli occhi e spostando il peso sulla gamba sinistra. Ero un giocattolo. Evviva! La mia più grande aspirazione, dopo quella di collezionare tutte le barbie, si stava realizzando!
«Lasciami finire.» Non era irritato. Stava solo cercando le parole per dirmi chissà cosa. «Mi attiri. Sei prevedibile e imprevedibile allo stesso tempo.»
Non sembrava voler aggiungere nient’altro. Una risposta piuttosto deludente. Che lo divertivo lo avevo capito da sola.
«Quindi?» incalzai. Chissene se lo attiravo come una lampadina attira una zanzara, io volevo sapere quando mi avrebbe lasciato in pace!
Rispose con un’alzata di spalle. «Bisogna avere un motivo per tutto?»
«Questa stronzata te l’ha detta tua madre?» chiesi, piuttosto insofferente per quelle frasi ad effetto da film hollywoodiano. Io ero pragmatica, se facevo qualcosa lo facevo per un motivo, magari anche stupido, ma avevo un obbiettivo e mi aspettavo che tutto il mondo facesse e ragionasse come me.
«Ok, diciamola così allora.» disse, allontanandosi dalla cattedra e avvicinandosi a me. Non di troppo, solo di qualche passo, ma non mi piacque per niente. «Ti trovo incredibilmente sexy con le tue mutandine con le fragole»
Aveva ritirato fuori il ghigno strafottente. Era sulla difensiva e io potevo contraccambiare.
«Mi dispiace per te, oggi indosso banane.» soffiai, sostenendo il suo sguardo con uno di sfida.
«Esci con me.» E non era una domanda.
«Non ho mai sopportato le imposizioni.»
«Allora non uscire con me.»
Vacillai appena, sotto il suo sorriso. Sentivo il bisogno di arretrare, ma il mio orgoglio non mi consentiva di farlo. E lui si stava avvicinando, porca miseria!
Si fermò a un passo da me. Fu un grosso errore quello di respirare profondamente, perché il suo profumo mi annebbiò il cervello per qualche secondo. Era asprigno, eppure incredibilmente piacevole.
«Le tue tecniche da rimorchio fanno concorrenza a quelle del mio vicino di casa, che ha cinque anni e mangia la sabbia. Almeno lui però mi ha regalato una margherita!»
Lui sorrise, soddisfatto di aver avuto una minima reazione da parte mia. Che avesse percepito la mia titubanza? O magari un fremito nella voce? Sperai che non fosse stato quel brivido che mi era corso lungo la schiena a tradirmi.
Abbassai lo sguardo sulle mie converse. Erano decisamente più interessanti di quei suoi orribilmente caldi occhi chiari.
«Albina?»
«È questa la tua domanda?» sbottai, sulla difensiva. Dovevo andarmene da lì, porca miseria!
Arretrai di un passo e la maniglia della porta mi si conficcò dolorosamente nella schiena. Meglio quel dolore a perdere il controllo.
«Vuoi lasciare la questione in sospeso?»
«È questa?»
Emise un sospiro che assomigliava più a uno sbuffo. Mi rifiutavo di guardarlo negli occhi. Chissà, magari si divertiva a vedermi così indifesa, o magari stava diventando insofferente a quei miei tentativi di svignarmela.
«Chi è Ivan? È questa la domanda.» rispose, piatto. Sì, decisamente era diventato insofferente alla mia reazione codarda. Non ci si può appellare alla scusa dei Pokemon più di una volta con la stessa persona, purtroppo.
Lo guardai, finalmente (e solo perché avevamo lasciato in sospeso l’altra questione), tentando di capire perché gli interessasse, ma trovai solo uno sguardo imperscrutabile.
«Perché vuoi saperlo?» domandai e la voce aveva riacquistato quel minimo di sicurezza per non farmi sembrare Jerry messo all’angolo da Tom.
Lui scrollò le spalle, facendo finta che la cosa lo interessasse relativamente.
«Immagino di dover sapere con chi ho a che fare.»
Quella spiegazione non fece scomparire il mio sguardo interrogativo. Sbuffò ancora, perché io ero tarda e non ci arrivavo. Magari era perché avevo una maniglia conficcata nella schiena? O magari perché non ci volevo arrivare?
«Insomma, devo considerarlo un rivale? E a che altezza della corsa? Non credo di essere proprio in fondo, diciamo che sono sicuramente avanti a quel fesso del tuo compagno di banco, ma ho la vaga sensazione che in cima alla corsa ci sia qualcuno e che io non riesca a intravederne nemmeno l’ombra in lontananza da quanto mi ha distaccato.»
Ignorai l’ultima parte del discorso. La metafora sportiva non richiamava la mia attenzione. Mai nella vita mi sarebbe saltato in mente di mettermi a correre in tondo, sudando e facendo fatica solo per un dannato pezzo di metallo.
Una cosa però aveva attirato la mia attenzione. Matteo?!
«Cosa ti fa pensare di avere più chance di “quel fesso”?» Era appurato che avesse più chance di lui. Matteo non aveva chance, non le avrebbe mai avute. Ma perché poi, a Matteo interessava avere delle chance? In ogni caso gliela buttai là con un tono che avrebbe fatto presagire il contrario. Chissà perché poi. Ultimamente non riuscivo più a capire i miei pensieri e le mie azioni. Era snervante.
«Per favore! Almeno mi consideri. Quel poveretto ha tentato tutta l’ora di richiamare la tua attenzione e l’unica cosa che ha ottenuto è stata un “vaffanculo”!»
«Poverino!» recitai la parte dell’ingenua dispiaciuta, solo per divertirmi un po’. Si stava esponendo lui, non io. L’unica cosa che potevo fare era godermi la scena. «Non era mia intenzione ignorarlo. Dici che dovrei andare di là a consolarlo in qualche modo?»
Sbattei le ciglia, giusto per calarmi più nel ruolo. Gli strappai un sorriso, o un accenno di sorriso o uno sbuffo d’aria dalle narici. Quello che era insomma.
«Non fare l’idiota» mi rimproverò, seppur non seriamente. «Dico davvero, dove collocheresti Ivan in questa maratona?»
Aggrottai le sopracciglia, scettica. «In fondo? Non dico proprio dopo “quel fesso-poveretto” e nemmeno dopo il 99% della popolazione mondiale che mi sta sul cazzo ma… è il mio migliore amico!» Lo dissi come se avessi spiegato ogni cosa. Beh, per me le due paroline “migliore amico” spiegavano ogni cosa. Spiegavano l’affetto che provavo nei suoi confronti, spiegavano perché lo cercavo, spiegavano la voglia di vederlo e il fastidio nei confronti di Cristina.
Ci pensò un attimo, prima di dire qualcosa.
«Hai la password per i messaggi, ma non nel registro delle chiamate. È la persona che chiami più spesso…»
Sorvolai sul fatto che mi aveva frugato nel telefono. Finalmente la password aveva adempiuto al suo compito, ma anche se non ci fosse stata non avrebbe trovato altro che “Ok” o “Usciamo stasera?” da parte del quartetto amazzonico Mel-Lori-Marco-Ivan.
«È il mio migliore amico.» ripetei, perché quella era la mia spiegazione. Che migliore amico era uno che non chiamavi mai?
Si mordicchiò ancora il labbro inferiore, piuttosto indeciso sul da farsi.
Alzai gli occhi al cielo. Mi scoprii a sentire la mancanza di quella sua maschera strafottente. Troppa serietà e confidenze, dopo un po’, mi annoiano.
«Oh mio baldo professore!» ricominciai a recitare, in un incrocio fra Giulietta sul terrazzo e una pessima attrice degli anni cinquanta, aggiungendo anche un leggero accento inglese «Come si piazzerà in questa gara? So che una certa Albina Severi ha puntato un milione di sterline sul suo piazzamento all’ultimo posto!»
Sogghignò appena, prima di rispondermi con un ben più marcato accento anglosassone.
«Oh povera stella, perderà il suo patrimonio quando arriverò primo! E, a proposito, gentile signorina, potrebbe informarla che non sono un professore? Penso che la cosa faciliterebbe la mia vittoria»
«Non sei un professore?»
«Non studio nemmeno qui. Frequento il primo anno di matematica…»
Avevamo abbandonato entrambi i nostri falsi accenti. Io lo guardavo sconcertata, lui mi guardava come se fingersi un professore fosse la cosa più normale al mondo.
«Ma… che diavolo ti è saltato in mente?!» E per poco non urlai.
Lui scrollò le spalle, ancora una volta. «Dovevo riportarti il telefono e sapevo che eravate scoperti, mia mamma è la vice preside, ricordi?»
Annuii, indecisa se ucciderlo o essere scioccata.
«Vederti cambiare tonalità al tuo ingresso in classe è stato impagabile.»
Oh sì, lo avrei ucciso.













Ok, è da tanto che non lascio le note a fondo pagina ma… questo capitolo è stato un parto? Sarà che non avevo idea di come farli rincontrare e ho seguito la prima idea folle che mi è passata nella testa? Sarà che poi questa idea folle non sapevo come diavolo scriverla?
Fatto sta che mi fa schifo…
Penso che andrò a collezionare i Pokemon nel Pokedex. °^°’’

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Capitolo 7
*** E ora ti punirò nel nome della Luna! ***


A Medea00,
perchè è la mia beta e mi incoraggia a scrivere
con la sua febbre da shipping compulsivo.
A
Nih,
perchè anche lei è un'assetata di capitoli
e continua a ripetermi che devo scrivere tutto quello che mi passa per la testa
(è colpa tua se tutta questa faccenda è surreale a livello Dalì)
A
_Trixie_,
perchè è una merapendosa lettrice.
A
SerenityEndimion,
perchè si è letta e ha recensito tutti i capitoli in un giorno,
rendendomi la scrittrice più soddisfatta al mondo.






All my Certainties

E ora ti punirò nel nome della Luna!




Il mio telefono, abbandonato su un tavolino, da qualche parte nel mio salotto, strillò un “E ora ti punirò nel nome della Luna!”, segno che mi era arrivato l'ennesimo messaggio del giorno.
Lo ignorai, sotto lo sguardo dubbioso di tutti gli altri. Mi concentrai piuttosto sulla mappa del risiko che avevamo piazzato sul tavolo da pranzo. Io, fiera rappresentante dei carrarmatini neri, dovevo distruggere in tanti piccoli pezzi l'armata rossa di Marco, spazzandola via, incenerendola e, perchè no, rubandogli anche qualche carrarmato dall'Africa quando non stava guardando, sotto lo sguardo complice di Lorenzo. Ok, lui avrebbe dovuto fare fuori me, me lo aveva confidato in via del tutto straordinaria, ma non era mai stato il tipo che porta a termine gli obiettivi. La sua strategia, piuttosto, era quella di scegliere un caso disperato da spalleggiare e lanciarsi in missioni suicide per agevolarlo. Beh, io ero la sua causa persa del giorno. Incoraggiante.
«Attacco... la Cina dal Giappone!» affermai convinta, accaparrandomi i tre dadi rossi da attacco.
«Al, non puoi.» sbuffò Ivan, di fronte alla mia noncuranza delle regole.
«E perchè scusa?» ribattei, decisa ad averla vinta almeno quella volta.
«Basta, ci rinuncio!» borbottò il castano, alzando gli occhi al cielo. Gli risposi con un'occhiata sfrontata. Era tutta la sera che era intrattabile e dovevo capire il motivo. Persino Cristina era più simpatica di lui quella sera. Forse la mia suoneria lo irritava? A dire la verità aveva irritato anche me, fino alle sei del pomeriggio, ma poi avevo imparato ad ignorarla.
Marco, dotato decisamente di una pazienza maggiore, tentò di sostituirlo nello spiegarmi quella regola che davvero io ancora non avevo compreso.
«Il Giappone e la Cina non sono collegati sulla mappa. Puoi attaccare solo territori confinanti.»
Annuii, pensosa. Poi scossi la testa, ancora più convinta di prima.
«Se il Giappone ha invaso la Cina settentrionale nel '36, non vedo perchè non possa farlo io nel 2011!»
«Stai usando dei carrarmati, porca miseria! I carrarmati non possono saltare gli stati! Devono passargli attraverso!»
Ivan aveva alzato la voce, esasperato. Come avrebbe preso il fatto che lo stavo facendo apposta solo per farlo arrabbiare? Chiamiamola una piccola vendetta per non aver contribuito alla ricerca del cellulare scomparso.
«E ora ti punirò nel nome della Luna!»
Sbuffò, prima di sbattere la testa contro il tavolo. Ridacchiai silenziosamente.
«Beh, se è per questo i carrarmati non attraversano nemmeno l'acqua!»
«Ti prego Al, attacca la Mongolia. Non me ne frega nulla se perdo un territorio!» mi propose Mel, nonostante si stesse divertendo un mondo anche lei a vedermi stuzzicare Iv in quel modo.
Beh, non recepii il messaggio. O, meglio, mi rifiutavo di chiudere quella polemica così velocemente. Dovevo pur sfogarmi in qualche modo!
«Ma io voglio attaccare quelle orribili armate rosse di Marco!»
«E allora attaccalo in Kamchatka!» replicò Ivan, che ancora non aveva rialzato la testa dal tavolo e se l'era contornata con le braccia.
«Ho cinque miseri carrarmatini in Giappone! Marco ne ha almeno una decina in Kamchatka!»
«E ora ti punirò nel nome della Luna!»
«Al, ma sei sicura di non voler leggere nemmeno un messaggio? Magari è importante...»
Come al solito Marco arrivava a fare da paciere. Mi prese il telefono e fece per porgermelo.
Declinai l'offerta con un sorrisetto malizioso sul volto.
«È solo Mattia che mi sta infamando. Gli ho detto che per uscire con me deve prima impararsi a memoria la discendenza di Finwe fino ad Elrond ed Elros.» spiegai, pratica, esaminando la mappa del gioco. «E va bene, attacco l'Alaska dall'Alberta.»
«Bastarda!» borbottò Lorenzo a mezza voce, prendendo i dadi blu per la difesa.
«Al, tu non la sai la discendenza di Finwe.»
«Grazie per l'ovvietà, Mel»
Intanto avevo conquistato l'Alaska, sotto lo sguardo rassegnato alla sconfitta di Lori.
«Non è crudele?» s'intromise Cristina, che fino a quel momento se ne era stata zitta ad ascoltare i nostri discorsi. Con molta sorpresa da parte mia avevamo scoperto che era una grande appassionata di Risiko. Il fatto che stesse vincendo, rendeva la cosa ancor più inquietante. «Insomma, se non vuoi uscirci non fai prima a dirglielo?»
«Ma così è più divertente!»le rispose Lorenzo, al posto mio. Sorrisi a Nasino a maiale (no, non avrei mai smesso di chiamarla in quel modo), come per dirle «Ci ha preso in pieno!».
«In realtà era la mia prima idea ad essere crudele...» cominciai, ma venni sovrastata da un altro messaggio in arrivo. «Avrei voluto proporgli come sfida quella di farmi amare quell'insulsa materia chiamata matematica, ma così avrebbe perso in partenza» risposi, pratica.
Marco mi guardò in modo strano, come se volesse guardarmi dentro, in modo profondo, e capire che cavolo di intenzioni avessi. Beh, non lo sapevo nemmeno io. Sapevo che mi ero voluta vendicare per lo scherzetto del falso professore e che quella era la prima cosa che mi era venuta in mente. Sapevo che, siccome era lui a voler uscire con me, conducevo io il gioco, anche a costo di tirare troppo la mano. E anche se si fosse stancato di me, mi sarei davvero persa una grande occasione? Ne dubitavo e quindi potevo permettermi di fare tutto quello che mi passava per la testa. O almeno, io la pensavo così.
«Ma si può sapere chi diavolo è questo Mattia?» borbottò Ivan a un certo punto, riemergendo dal suo groviglio di braccia e guardandoci tutti, me in particolar modo, per capirci qualcosa.
Lorenzo fece spallucce, Mel sorrise maliziosamente e sapevo perfettamente che stava pensando una cosa tipo “Chiappette d'oro”.
«Mattia, quello di sabato scorso. Sorriso da paresi, Bipolarismo in atto... non mi ricordo come te l'ho chiamato.» risposi, liquidando la faccenda con un gesto e senza nemmeno guardarlo negli occhi. Ero tutta presa dal sapere se avevo collezionato un tris per buttare un po' di forze in quel povero Giappone. Il Kamchatka andava distrutto!
«Quello?!» domandò, Ivan, in un misto di incredulità e principio di rabbia. Chissà poi cosa aveva da scaldarsi tanto. «E come cavolo ha fatto ad avere il tuo numero?!»
«È lui che mi ha riportato il cellulare.» Non c'erano cadenze particolari nella mia voce, una gran cosa, visto che Ivan stava per dare in escandescenze. Non ero convinta fosse per i miei Risiko-dispetti. Doveva essere qualcos'altro, ma non riuscivo a capire cosa.
«Beh, ce lo ha avuto lui tutto il tempo, era il minimo.» mormorò Mel, quasi timorosa di averlo detto, come se avesse potuto sganciare una bomba atomica dritta dritta sulla capigliatura perfetta del nostro amico alterato.
Ivan sbarrò gli occhi, guardando da me a lei per capirci qualcosa.
«Perchè non ne sapevo nulla? E da quando lo chiami Mattia?!» Si era alzato in piedi, aveva poggiato le mani sul tavolo e si sporgeva verso di me. Mi sembrò scortese non guardarlo negli occhi, ma quasi mi sconvolse vedere nei suoi occhi di ghiaccio tanto calore. Capii finalmente che avrei potuto scottarmi se non avessi agito con cautela, ma il mio orgoglio non mi permise di trattenermi.
«Lo avresti saputo se ti fossi dedicato a me solo per dieci minuti in questi ultimi giorni.» Volevo suonare piatta, ancora una volta. Invece nella mia voce riuscirono tutti a notare una vena di risentimento. Ebbene sì, non lo avevo perdonato per avermi messo da parte. Problemi?!
Lui assottigliò gli occhi, cercando di capire che razza di intenzioni avessi, ma poi, sotto l'incoraggiamento di Cristina, si rimise seduto e lasciò perdere.
«Mi dispiace Albina, sono stata io a monopolizzarlo» Sembrava realmente dispiaciuta ed io ero troppo concentrata a capire quella strana scenata di Ivan per prendermela con lei. La colpa era di Ivan, che non riusciva a dirle di no, non sua. Quindi le rivolsi, in un moto di improvviso buonismo, un mezzo sorriso.
«E ora ti punirò in nome della Luna!»
«Nessun problema Cristina»
Ignorai lo sbuffo contrariato di Iv.
«Ma quanti soldi sta spendendo?» domandò Lorenzo, l'unico estremamente divertito dall'intera faccenda. Secondo Mel stavo solo sprecando tempo. Tanto, a suo parere, saremmo sicuramente finiti a letto nel giro di un mese, meno se smettevo di torturarlo in quel modo. Marco si era rabbuiato nel sentir starnazzare quel telefono così tante volte. Avrei scommesso che non gli piaceva la suoneria, ma era decisamente meglio di quella che recitava “Angeli protettori, della Terra custodi, miao!” presa dalle Mew Mew. Cristina appariva interessata, ma disturbata dai miei “metodi da rimorchio”. Ivan invece sembrava infastidito e basta, da cosa non si era capito. Magari aveva solo mangiato brioche e acidità a colazione, a pranzo e a cena. Avrei dovuto sottoporre a test clinici i resti della sua pizza celiaca.
«Penso abbia la Tim per tutti, o una robaccia così» buttai là, osservando il campo di gioco. Ormai, lo avevo capito, nessuno avrebbe più ripreso a giocare.
«Ma tu non hai Tim» osservò Marco, che tante volte si era lamentato di quella mia mancanza, visto che per mandarmi messaggi spendeva una fraccata di soldi ogni settimana.
Toccò a me fare spallucce. «Lui non me l'ha chiesto.»
Il telefono ricevette un altro messaggio e questa volta quella pasta di pane del mio amico decise di leggere qualcosa.
«”Stronza bastarda, ho finito i soldi!”» Aggrottò le sopracciglia, leggendo quegli improperi senza la minima inflessione. «Quello prima recitava “Ma tu hai Tim, vero?”»
Sorrisi, soddisfatta del mio operato.
«Sicura di non voler leggere gli altri? Ce ne sono venti non letti e la metà di questi insulti non li avevo mai sentiti...» borbottò.
«Ne ho già letti una cinquantina da stamattina. Alcuni sono davvero originali.»
«Tipo?»
«In uno mi ha dato della brutta faccia di merlo»
«Offesona!» scherzò Lorenzo. Cominciammo a mettere a posto carrarmati, carte e mappa, visto che tanto l'interesse era scemato. Avevo la sensazione che se la serata non fosse finita in fretta qualcuno di noi ci avrebbe rimesso. Ivan, magari, che sembrava davvero di pessimo umore. Oppure io, che non avevo la minima intenzione di venirgli incontro.
Lorenzo si schiarii la voce, richiamando su di sé l'attenzione anche di quello scazzatissimo Iv.
«Visto che siamo in vena di confidenze sentimentali...» cominciò, leggermente titubante. La cosa non allarmò nessuno (tutto il contrario di quando io avevo riferito a Marco e Lori di Mattia) rendendo tutti quanti -e dico davvero tutti- stranamente felici ed elettrizzati. L'ultima storia di Lorenzo non era finita proprio benissimo. «Vi ricordate di Camilla?»
Capimmo improvvisamente la sua titubanza. Vide i nostri sorrisi ammosciarsi a quella notizia.
Camilla era la sua per-ben-dieci-volte-ex, con la quale si era preso e lasciato per circa un anno e con la quale diceva di aver chiuso ogni rapporto da almeno sei mesi. Non ci aveva mai voluto confessare i motivi delle rotture. Non a me, almeno. A me nemmeno l'aveva mai presentata. L'unico ad averla conosciuta era stato Marco, che ne era rimasto piuttosto dubbioso. E se Marco era dubbioso vuol dire che a me non sarebbe piaciuta certamente. Beh, Marco era piuttosto dubbioso anche su Mattia, magari un'occasione -l'ennesima- a questa Milla-Camilla avrei anche potuto dargliela...
«Ce la ricordiamo, Lorenzo» borbottò Ivan, che aveva rimesso il broncio. Cristina cominciò a sussurrargli qualcosa all'orecchio, nel tentativo di calmarlo e, per una volta, apprezzai quella donna. Magari lo avrebbe reso più piacevole per il resto della serata.
«Beh, abbiamo deciso di riprovarci.» ci informò, entusiasta della sua scelta. Tentammo tutti di mostrarci emozionati. Mel e Marco ci riuscirono mediamente bene, assestandogli qualche pacca sulla schiena, congratulandosi con quel sorriso incerto sul viso, dicendogli quanto erano felici. Ivan non disse nulla, contrario almeno quanto me a quella storia, mentre Cristina gli rivolse un sorriso caloroso solo perchè non aveva passato circa tre mesi della sua vita a tentare di raccogliere i pezzi del nostro amico dopo ogni rottura con quella ragazza.
Io, dal canto mio, non sapevo che diavolo fare. Dirgli che ero felice per lui sarebbe stata una balla colossale e non mi piaceva mentire, non quando, quella sera, lui era stato l'unico insieme a Mel ad appoggiarmi con tutta la storia di Mattia (a proposito, che l'avesse fatto per questo?). Non potevo nemmeno dirgli che stava facendo la più grande cazzata della sua vita, però! Lo avevo fatto a sufficienza le sei volte precedenti, quando ormai mi ero stancata di vederli prendersi e lasciarsi. «Ottimo, davvero» commentai, senza esserne però realmente convinta. Gli rivolsi un debole sorriso, che lui però accettò comunque. Sapeva già la mia posizione su quella faccenda senza che gliela comunicassi e il fatto che non demolissi il suo entusiasmo gli bastava.
Annuii, accompagnando quel gesto a un movimento accondiscendente della mano, come per dirgli «Farò un tentativo». Avevo la vaga sensazione che avrei conosciuto Milla-Camilla molto presto.
«Ottimo! Adesso ci basta trovare una ragazza a Marco e poi saremo tutti sistemati!» esclamò, Lorenzo, fin troppo euforico sotto lo sguardo seccato del biondo.
Io aggrottai le sopracciglia, leggermente interdetta.
«Io non sono sistemata»
«Perfetto! Mettetevi insieme e risolveremo la cosa in un batter d'occhio!» sbottò Ivan. Alzai gli occhi al cielo, senza la minima intensione di mettermi a litigare con lui. Marco, dal canto suo, arrossì, senza però smettere di guardare Iv in cagnesco. A dire la verità tutti quanti stavano guardando male Ivan, persino Nasino a maiale. Un evento irripetibile. Perchè diavolo non mi portavo mai dietro la macchina fotografica?!
«Direi che è l'ora di andare a casa» borbottò Mel, alzandosi dal tavolo. «Mi riaccompagni tu Lori?»
Il moro annuii e sia lui, sia Marco si alzarono, seguendo la ragazza verso l'armadio dove avevano riposto i cappotti.
«Avete intenzione di lasciarmi da sola con il sindaco di Sono-incazzato-col-mondo-ma-dovrei-solo-togliermi-dal-culo-quel-palo e la sua first lady?» dissi, guardandoli in quella loro sfilata verso l'uscita del mio appartamento. Se proprio le mie tre ancore di salvezza dovevano andarsene, perchè diavolo non se ne andavano anche Mr.Musone e la sua donna?
«Oh, non preoccuparti Al, ce ne andiamo anche noi. Almeno riusciremo a salvare la serata con un po' di buon sano sesso. È un problema per te?» rispose acido Ivan, alzandosi e chiedendo a Cristina di fare altrettanto.
Questa si scusò ancora con me, con lo sguardo. Risposi con un gesto incurante della mano. Mi sentivo improvvisamente stanca, non avevo nemmeno la forza di incazzarmi.
«Bye bye» salutai, senza nemmeno accompagnarli alla porta. Rimasi lì al tavolo a riordinare il risiko, senza sapere esattamente come avrei dovuto sentirmi.
Magari in colpa, perchè con Ivan avevo esagerato, sia con la suoneria idiota, sia con le continue battutine. Magari incazzata, perchè era stata la sua ragazza a chiedermi scusa, e non lui. La qual considerazione mi faceva sentire stranamente benevola con lei ed estremamente soddisfatta per essere stata la causa del cattivo umore di Iv.
Alla fine mi sentii soltanto spossata. Amavo le cose semplici e, chissà perchè, Ivan era diventato improvvisamente complicato. Sbuffai, nel chiudere la scatola.
«E ora ti punirò nel nome della Luna!»
Afferrai il telefono distrattamente, andando a leggere l'ultimo messaggio ricevuto.
“Non so come usare questi ultimi centesimi che mi rimangono. Ho l'impressione che se ti augurassi la buonanotte mi manderesti a quel paese. Ti informo che rinuncio alla dinastia di Finwe. Altre torture alternative?”
Sorrisi appena. Stavo per rispondere, quando sentii un movimento alle mie spalle e mi girai. Mi sorpresi nel trovare Ivan ancora accanto alla porta.
«Non mi piace.» disse, piatto. Eppure riuscii a notare una strana inflessione nascosta nella sua voce, o nel suo sguardo. Un qualcosa che mi fece capire la sua preoccupazione.
«Pensavo fossi andato via.» risposi, soltanto, posando il telefono sul tavolo e appoggiandomici a mia volta.
«Non mi piace.» ripeté ed io inarcai le sopracciglia, per farlo essere meno criptico. «Sorriso da paresi. Non mi piace.»
Annuii, per fargli capire che avevo capito, che avevo preso in considerazione il suo punto di vista. «Si chiama Mattia. Comunque ok.» Suonai calma. Ero calma. Avevo capito che il cattivo umore di Ivan era stato causato anche dalla sua preoccupazione. Non mi era mai piaciuto un ragazzo, non tanto da parlarne con loro. Ad essere sincera, non ero nemmeno sicura che Mattia mi piacesse. Ma lo trovavo interessante e avevo voluto condividerlo con i miei amici, anche solo per sapere cosa diavolo stavo facendo.
«Ti piace?» chiese soltanto e si sforzò di rimanere impassibile. Non mi piaceva in quella veste. Era stranamente inquietante in quel modo, lontano da me, stagliato sulla porta con quel suo cappotto nero e lungo.
Scrollai le spalle in risposta. Non lo sapevo.
«Però lo chiami Mattia.»
«Gli troverò un soprannome carino se può farti piacere.»
«Sorriso da paresi o Bipolarismo in atto erano soprannomi carini per lui» borbottò, mettendo le mani in tasca e distogliendo lo sguardo da me.
«Un po' offensivi» commentai, con semplicità. Non capivo dove volesse andare a parare. O almeno, lo capivo, ma non capivo perchè facesse tanti giri di parole. «Non mi danno l'idea di esserci in confidenza»
Lui spostò nuovamente gli occhi azzurri su di me, assottigliandoli appena nel guardarmi, un po' minaccioso, un po' arrabbiato.
«Voi due non siete in confidenza!» soffiò, quasi offeso dalla sola idea.
Roteai gli occhi, cominciando a perdere la pazienza.
«Potremmo diventarlo.»
Rimanemmo in silenzio, ognuno nella propria irritazione, a scrutarci da lontano. Io non avevo intenzione di parlare, non fino a quando non mi avesse detto che diavolo voleva da me e, magari, fino a quando non si fosse scusato.
Quindi fu lui a ricominciare a parlare.
«Lui non mi piace.»
«Lo hai già detto.»
«L'ho ripetuto, magari la capisci.»
«L'ho capita, ma non capisco dove tu voglia arrivare.»
Quello sbuffò, ballando appena sul posto e guardando al cielo. Attesi che mi rispondesse, che si aprisse e mi confidasse cosa esattamente gli dava fastidio.
«Non è adatto a te» esalò infine, come se gli costasse una gran fatica confessarmelo.
«Non ho mai detto che lo sia. Non ho nemmeno capito se ho voglia di uscirci o no.»
«È ovvio che tu voglia uscirci!»
La mia espressione scettica lo fece sbuffare ancora. Se non gli avessi voluto bene lo avrei chiamato Locomotiva.
«Se tu non fossi interessata non gli avresti nemmeno parlato. Ma tu gli hai dato il tuo numero, gli lanci delle sfide, sorridi ai suoi messaggi! Ti piace! Ti piace anche se non è giusto per te!»
Forse fu l'aggressività con cui lo disse, il tono che voleva far intendere che fossi in errore ad aver dato il mio numero a qualcuno o a sorridere a qualcuno che non fosse lui o uno di noi, forse fu il fatto di sentirmi sbattere in faccia cose che ancora non avevo metabolizzato, fatto sta che mi incazzai.
«E chi diavolo sarebbe giusto per me?! Eh?! Qualcuno come te, che mi scarica per la prima biondina che passa e non si degna nemmeno di starmi vicino quando ho bisogno di aiuto? Chi, esattamente, sarebbe giusto per me?»
«Non sarò io, non sarà Marco o Lorenzo o chi ti pare, ma non è lui! Sei il suo giocattolo! Si divertirà e ti metterà da parte! E non verrà a chiederti scusa, come ho fatto io!»
Fui io a sbuffare, alzando gli occhi al cielo.
«Tu non mi hai chiesto scusa! È stata Cristina a farlo!» gli gridai contro, con estremo dispiacere di mia nonna che dormiva al piano di sopra, tra l'altro.
«Ok, ti chiedo scusa.» disse, abbassando il tono, magari tentando di essere dolce, ma facendo suonare quelle scuse solo come una concessione da fare a una pazza. Storsi la bocca, quasi disgustata. «Tu però non uscire con lui.»
«Non sono fatti tuoi.» sbottai.
«Siamo amici, sono anche fatti miei.» rispose, con semplicità. Non sembrava nemmeno più arrabbiato, come se tutta la sua incazzatura fosse stata trasferita a me in meno di un nano secondo. Si avvicinò appena, allontanandosi dalla porta quando invece avrei voluto soltanto vederlo uscire e andarsene. Ma nel guardarlo negli occhi, nel vedere il suo dispiacere, la sua apprensione, il suo non so davvero che diavolo di che nel suo sguardo, non riuscii più ad essere arrabbiata quanto avrei voluto. Mi chiesi se avevo davvero bisogno di quelle scuse sincere. Mi risposi che sì, le volevo e le avrei avute, ma che per qualche strano motivo uno sguardo così bastava e avanzava a me stessa per perdonarlo.
«Sai cos'è la nostra amicizia per me Iv?» domandai, più calma di quanto avrei voluto e dovuto essere. Non lo lasciai rispondere. Magari nemmeno lo avrebbe fatto. Aveva capito che era una domanda retorica immagino. «Vuol dire che se tu mi chiamassi alle due di mattina dicendomi che ti si è scaricata la batteria nell'autogrill Brembo a Osio Sopra, io ti risponderei soltanto “Arrivo”. Prenderei la macchina e in 5 ore, 4 se mi prendo almeno 10 multe per eccesso di velocità, sarei da te, magari anche senza cavetti, perchè nella fretta me ne sarei dimenticata.»
Sentii il mio sguardo su di lui, ma mi rifiutai di guardarlo. Presi la scatola del risiko dal tavolo e lo superai per andare a riporlo nel suo scaffale. Lui non staccò le iridi azzurre da me nemmeno per un secondo.
«Mi dispiace» disse infine, e questa volta suonò sincero. Avrei voluto sorridere, ma non lo feci.
«Sono stato un idiota, lo ammetto, ma penso davvero che Mattia non sia adatto a te.»
Mi voltai a mostrargli un mezzo sorriso storto.
«Te lo farò sapere. Intanto vattene, o Cristina congelerà!»
«Da quando ti preoccupi per lei?»
«Da quando sei diventato più sgradevole di lei!»
«Era quella dannata suoneria!» tentò di difendersi. «Ti entra nel cervello e non ti lascia più! A me nemmeno piace Sailor Moon!»
Risi della sua sofferenza, perchè era divertente e la mia vendetta era davvero andata a segno. «Vorrà dire che la prossima volta sceglierò qualcosa da Dragon Ball. Una roba tipo “Onda Energetica vai!”»
Lo accompagnai alla porta, aprendola e facendolo uscire.
«Se Sigismondo manca di nuovo all'appello chiamami. Giuro che non sbaglierò ancora!» Notai con piacere che tutto il cattivo umore lo aveva sfogato urlando contro di me. Ancora non capivo bene cosa fosse successo, ma se avevamo risolto non poteva essere qualcosa di così malvagio.
Fu un attimo. In preda all'entusiasmo Iv si sporse a baciarmi una guancia, per poi correre via, verso la sua macchina e Cristina. Rimasi intontita qualche secondo a domandarmi che diavolo fosse successo. Infine rientrai in casa, chiudendomi la porta alle spalle.
Quella sarebbe stata la serata delle insensatezze. Dall'incazzatura alla sbollitura di Ivan, dal nostro litigio a quello che stavo per fare.
Mi mossi sotto l'influsso del mio istinto, Solo per quella volta, sentii il bisogno di lanciarmi e agire impulsivamente. Presi il telefono, cercai un numero in rubrica e, ignorando che fosse mezzanotte, lo chiamai.
La voce che volevo sentire rispose al secondo squillo.
«Pronto?»
«Ciao faccia di merlo!»
«Fraisier!»
Sorrisi, quasi divertita da quel soprannome che di primo acchito avevo detestato.
«Cos'è? Sapendo di essere in svantaggio sei tornato ai soprannomi umilianti?»
«Devo pur difendermi in qualche modo.»
Sembrava piuttosto cauto e capivo anche il motivo: conoscendomi, una parola detta male avrebbe potuto farmi scattare sulla difensiva. Ma cavolo! Lo avevo chiamato io! Non era forse una dimostrazione di interesse?
«Mi hai chiamato per scaricarmi? Se proprio ci tieni ritenterò con la discendenza di Finwe, ma sappi che è crudele e insensato!» sbottò poi, tutt'a un tratto, illuminandomi. Ecco perchè era così titubante.
«Vieni al cinema con me.»
Rimase in silenzio per pochi secondi, il tempo di farmi pensare che fosse caduta la linea o gli fosse presa una sincope.
«Cosa?»
Risi di fronte alla sua incredulità. Mi sentivo euforica e non sapevo nemmeno perchè. Non poteva essere stato il suono della sua voce a farmi questo. No, assolutamente. Era più probabile che ci fosse una fuoriuscita di gas in casa e che mi stesse annebbiando il cervello.
«È la tua nuova... aspetta, com'è che l'hai chiamata? Ah sì, tortura alternativa!»
«Oh, non saprei. Ne varrà davvero la pena?» suonava divertito. Perchè diavolo avevo quel sorriso ebete stampato in faccia? Un po' di contegno Albina, porca miseria! «Suona come una tortura tremenda!»
«La più terribile. Potrebbe segnarti a vita.»
«Correrò il rischio. Va bene domani?»
«Cioè oggi» osservai, gettando uno sguardo alle lancette dell'orologio che segnavano la mezzanotte e un quarto. «Dammi dieci ore per dormire, un paio per svegliarmi... Massì, alle quattro è perfetto.»
«A domani alle quattro Fraisier.»
«Chiamami Al»
«Al?»
«Sì, voglio che mi chiami Al.»
Annuii, convinta. Non avrei retto un altro minuto l'alternanza fra Fraisier e Albina. Fraisier era uno scherzo e Albina era un'estranea. Non volevo essere né l'una né l'altra.
«Solo se mi chiami Matti.»
«Matti? Mai nella vita. Il tuo nome si abbrevia in Tia!»
Non so cosa avrei dato per vederlo sbarrare gli occhi dall'orrore dall'altra parte della cornetta. Già ridevo al solo immaginarmelo.
«Tia? Mio Dio, è osceno!»
«Ok, allora Ti.» convenni, giusto per stuzzicarlo ancora un po'.
«Non ci siamo.» borbottò, suscitando ancor di più la mia ilarità.
Abbassai appena la mia voce di un tono, provando a sembrare seducente. Non ho idea di cose ne uscì. «Professore, fa così il difficile con tutte le sue studentesse?»
Lo sentii sorridere dall'altra parte della cornetta.
«Solo con quelle che mi sottopongono a torture assurde.»





Capitolo riletto appena e che ritengo altamente improbabile. Ma ieri mi girava così, quindi ve lo tenete così come è venuto.
Come diceva Hugo, «compiuta che sia la cosa, non abbiate ripensamenti, non ritoccatela più. Quando il libro è stato pubblicato, quando il sesso dell'opera -virile o meno- è stato riconosciuto e proclamato, una volta che il neonato ha emesso il suo primo vagito, eccolo, è nato, è fatto in un certo modo, né il padre né la madre possono farci più nulla, egli appartiene all'aria e al sole, lasciatelo vivere o morire così com'è. Il vostro libro è riuscito male? Tanto peggio. Non aggiungete capitoli a un libro malriuscito. È incompleto? Bisognava completarlo nel generarlo. Il vostro albero è nodoso? Non lo raddrizzerete. Il vostro romanzo è tisico? Il vostro romanzo non è vitale? Non gli potrete rendere il respiro che gli manca. Il vostro dramma è nato zoppo? Datemi retta, non mettetegli gambe di legno.»

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Capitolo 8
*** Shelly-Ann Fraser ***


All my Certainties

Shelly-Ann Fraser




Mi rassettai la gonna un'ultima volta davanti allo specchio, tentando di lisciarla e tirarla giù a coprirmi un po' più le gambe. Mi mordicchiai un labbro, nello studiare la mia figura allo specchio. Mi girai, facendo tintinnare la cintura dorata che portavo sui fianchi. Infine annuii: gonna di jeans, canottiera blu, golfino marrone aperto sul davanti, stivaletti del medesimo colore e accessori in oro era un perfetto abbinamento per uscire con Mattia.
Afferrai il cappotto blu, la borsa abbinata e uscii dalla camera a passo spedito. Lanciai uno sguardo raggiante a mia madre che, in salotto, davanti alla tv, mi rispose con uno sbuffo e un'occhiata perplessa.
Sbuffo e occhiata perplessa?
Mio dio, ero completamente impazzita?! Tornai di corsa in camera, lanciai gli stivaletti da qualche parte, la gonna sopra una lampada e chissà dove finì la canottiera in quella smania di togliermi di dosso quei vestiti orribili. Come avevo solo potuto pensare di mettere il naso fuori dalla camera conciata in quel modo?!
Presi in considerazione di indossare un vestitino grigio e nero in stile impero, semplice, carino, né troppo lungo né troppo corto. Lo stavo indossando, quando mi resi conto che sembrava stessi andando a un funerale. Serviva qualcosa di brioso porca miseria!
E allora cercai golf e magliette allegre, vivaci, di colori sgargianti come il rosso, l'arancione, l'azzurro o il verde e fu allora che arrivò quella consapevolezza: ero una persona estremamente triste. Non avevo un solo capo che variasse dai neutri toni del nero, grigio, blu, bianco e marrone. Forse avevo una gonna rosa antico da qualche parte ma...
Mi lasciai cadere sul letto, sconsolata, con in mano solo due stupidi cardigan neri. Perché non ne avevo mai comprati di... che diavolo ne so, fucsia?!
Mia madre era comparsa sulla soglia di camera mia, con quel suo sopracciglio alzato e un'espressione dubbiosa che esprimeva a pieno il mio pensiero principale: cosa diavolo ci si mette ad un primo appuntamento?
«Si può sapere cosa stai facendo Albina?»
Cosa diavolo stavo facendo? Non lo sapevo nemmeno io. Improvvisamente non ebbi più molta voglia di uscire.

«Sei in ritardo» constatai, quando alle quattro e sette Mattia mi raggiunse davanti alla biglietteria del cinema.
Lui non diede il minimo segno di aver notato quella precisazione, né di essere dispiaciuto o di aver perlomeno tentato di recuperare il ritardo. No, lui era arrivato tranquillo, tanto calmo che sembrava emanare profumo di rose dai pori, senza nemmeno una piega su quella sua dannata camicia a righine azzurre e i suoi stupidi capelli acconciati con quel look falso spettinato da spocchiosi.
Presi un bel respiro: ero troppo acida persino per i miei standard. La ricerca del vestito perfetto mi aveva innervosita oltre misura. Primo, perché improvvisamente nessun capo riposto nella mia cabina guardaroba sembrava starmi bene; secondo, perché io non ero il tipo che si provava cinque abbinamenti maglietta-calzini diversi per poi rendersi conto che tanto i calzini, con gli stivali, nessuno li avrebbe visti. Ma in quell'ora di puro delirio li avevo voluti abbinati e la cosa mi irritava al solo pensiero. Visto e considerato, però, che io non mi irritavo mai da sola, l'unica spiegazione possibile a quel mio improvviso sragionare era Mattia. Ecco, in quel momento avevo deciso che Mattia mi irritava enormemente.
Mi irritava il suo sguardo caldo, mi irritava il suo dannato ciuffetto ondulato, mi irritavano le sue labbra, il suo naso perfetto, mi irritava la sua camicia e il modo in cui faceva risaltare i suoi occhi. Mi irritavano persino le sue scarpe, delle dannatissime converse blu. Perché cavolo si era messo delle converse blu? E perché cavolo mi stava fissando con quell'occhietto critico e le mani nelle tasche dei jeans?
«Sei venuta di corsa?» domandò, scettico.
Scossi la testa.
«In vespa.» risposi, piatta e, forse, visibilmente irritata.
«Ma eri andata a correre.» continuò, e questa non era una domanda.
Sbuffai, incrociando le braccia sotto il seno, ormai spazientita.
«Mattia, il primo passo per conoscermi è sapere che anche se dalla vittoria dei cento metri in piano potesse dipendere la soluzione all'atroce dubbio sul vero orientamento sessuale di Clooney, e io lo do per gay, io non correrei. Io non corro. È roba da narcisisti e masochisti!»
Per poco non gli ringhiai contro. Oh, quanto ero nervosa. E il suo sorriso di scherno decisamente non aiutò.
«Ok» disse solo, accondiscendente. «Visto il tuo odio per i velocisti, la prossima volta evita di vestirti come Shelly-Ann Fraser. Specialmente a un appuntamento.» Sottolineò quella parola, non so se per darmi fastidio o perché fosse risentito dal mio abbigliamento. Alla fine, avendo constatato che mi facevo schifo con tutto, avevo convenuto che, schifo per schifo, tanto valeva vestirmi con i pantaloni della mia tuta della Nike, una canottiera e un golfino aperto sul davanti.
Alzai un sopracciglio, a mo' di sfida. Poi però rinunciai, pensando che mi sarei solo incazzata di più, e lui solo divertito ulteriormente. In ogni caso, perdevo io.
«Che film vorresti vedere?»
Ci voltammo entrambi verso il tabellone dei film in programmazione, fra i quali risaltavano i classici titoloni iper pubblicizzati e spuntavano qua e là locandine di film che non avevo nemmeno mai sentito nominare. Mi chiesi come avessi fatto a non aver nemmeno mai visto il trailer di quello Shelter, di che diavolo parlasse e perché cavolo avrei dovuto volerlo vedere, visto che l'unica pubblicità che si faceva era la locandina e faceva schifo pure quella.
Lui fece spallucce.
«Beh, dopo Avatar, James Cameron è una garanzia.»
Mi voltai ad osservarlo, scettica. Volevo capire se fosse serio o meno, ma non notai quel suo dannato ghignetto strafottente, quindi immaginai che ci credesse davvero. Mi prese una tristezza immensa.
«Di riciclaggio e perdita di tempo.» borbottai, a completare la sua frase.
Mi guardò anche lui, inarcando un sopracciglio. Sorrise a mezza bocca e mi sentii rimpicciolire sotto quel ghigno maledettamente malefico.
«Devo supporti una fan di Cameron?» domandò.
Improvvisamente non seppi cosa diavolo rispondergli. Avevo paura della sua reazione. Se avessi acconsentito che il regista di Avatar era un genio assoluto, sarei andata ad affogarmi nel lavandino più vicino e non credevo di essere fisicamente capace di inserire nella stessa frase le parole “Cameron” e “talento”, a meno che non fossero divise da una montagna di negazioni e improperi vari. Ma ero convinta che, se avessi espresso la mia opinione, me ne sarei enormemente pentita. Già me lo vedevo schizzare di corsa verso la biglietteria per comprare due biglietti per Sanctum 3D -e se c'era una cosa che detestavo era il 3D! Che inutile spreco di soldi! Oh sì, sarebbe stato capace di offrirmi anche il biglietto pur di sottopormi a quella tortura. E io gli avevo anche rivelato che non correvo. Una lumaca mi avrebbe staccato senza problemi.
«L'unico Avatar che merita di essere visto è La leggenda di Aang, l'ultimo dominatore dell'aria. Ho odiato Pocahontas da bambina e il mio giudizio non è cambiato. Però almeno lei cantava.»
borbottai, scrutando attentamente ogni suo piccolo movimento. Se avesse mosso un solo singolo passo verso la biglietteria, sarei stata pronta a scaraventarlo al di là della balaustra, sui gonfiabili per bambini del piano di sotto. Alzò gli occhi al cielo, in un moto di silenzioso divertimento dissimulato. Mosse le dita della mano sinistra dentro la tasca dei jeans. Che stesse afferrando il portafoglio? O magari io ero solo paranoica? Beh, i paranoici avevano sempre avuto ragione, a parer mio. E San Potter e Samvise l'Impavido ne erano dimostrazioni sufficienti. «Scommetto che questo film lo troveresti interessante» rispose, malizioso.
Rimasi a bocca aperta, indecisa se arrossire -il mio corpo decise per me: avevo raggiunto in tempo record una colorazione tendente al violaceo- o indignarmi.
Rise, e mi ritrovai ad odiarmi per aver rabbrividito a quel suo gesto.
«Hai l'aria di una a cui piacciono le grotte e le catastrofi naturali.»
Fu gentile a tentare di farmi riprendere dallo shock. Ma non lo avrei mai ammesso, non con lui.
Ancora un po' mi irritava. Era l'unico che mi costringesse, senza volerlo, a comportarmi come una ragazza. Tirava fuori la parte anche solo vagamente femminile di me, una parte che quasi non sapevo di avere e che lì per lì non volevo conoscere. Mi piacevo come maschiaccio. Ero quasi certa che mia madre mi avesse sottoposta all'operazione per cambio di sesso a mia insaputa.
«Magari morirà qualcuno...» mi ritrovai a pensare ad alta voce, mentre Mattia pagava i due biglietti. Oh sì, mi aveva offerto quella tortura psicologica o, in alternativa, una dormita di un'oretta abbondante.

«Questo film fa schifo.» commentai ad alta voce, dopo appena mezz'ora di visione.
Sentii la risata di Mattia accanto a me ed ebbi l'insana voglia di sentirla ancora. Che diavolo di collutorio usava perché la sua risata suonasse così dannatamente... erotica?
Arrossii al solo pensiero, e ringraziai il cielo che i film si guardassero nel buio più totale.
«Insomma... ma che diavolo ci sono andati a fare in quelle stupide caverne subacquee? E guardarsi un bollettino del meteo prima di andarsi a ficcare in una dannata grotta a rischio frane?»
Sentii qualcuno borbottare contrariato sul mio tono di voce troppo alto, ma me ne fregai. Stavo realmente mettendo in discussione la sanità mentale delle persone. Avevo anche io il mio gusto per l'orrido, ma quel film superava abbondantemente la soglia del sopportabile.
«E poi perchè diavolo non ci può essere mai una dannato posto mortale chiamato Passo dell'unicorno rosa shocking? Mi piacerebbe vedere gente morire per mano di fiorellini colorati per una volta!»
Qualcuno tentò di tirarmi dei pop-corn, con una mira talmente pessima che beccarono un malcapitato a tre posti da me che mi stava incenerendo con lo sguardo. Se possibile, dopo che si era tramutato in un bersaglio, mi guardava pure peggio.
E quel deficiente di Mattia continuava a ridere. Ero per caso l'unico essere pensante in quella sala?
«L'unica cosa di cui mi rammarico è che ancora non sia morto quel cretino di John» disse poi, quando si fu ripreso dalle convulsioni da risata. Ma non aveva abbandonato il sorriso. Non sapevo se essere contenta del fatto che lo divertivo: non mi ero mai considerata il pagliaccio di corte. Nel mio immaginario ero sempre stata il consigliere bastardo che alla prima occasione ammazza il sovrano e lo rimpiazza. Era una vita sfigata quella del sovrano.
«L'unica cosa di cui mi rammarico è che mi sia lasciata convincere da te a entrare in questa sala. I dieci euro peggio spesi della mia vita. Peggio di quando, da bambina, buttai metà dei miei risparmi in una stupida fontana perché volevo che mia madre mi preparasse il tiramisù per cena!»
Il tizio che aveva tentato di colpirci coi pop-corn, questa volta andò pericolosamente vicino all'orecchio di Mattia.
Sentii un «Qualcuno vorrebbe seguire il film», dalle file in fondo, ma non ci badai troppo. Mi girai, irritata, a scrutare la sala. Nessuno poté vedere il mio sguardo minaccioso, ma avrebbe fatto desistere quell'imbecille dal tiro al pop-corn.
«Che diavolo ve ne frega» borbottai «Tanto si salveranno tutti alla fine! Alla faccia di quella sfigata di Judes che è già morta nella grotta satanica.»

Se ci ripenso ora, non riesco a ricordare la fine di quel film e non credo reggerei l'ennesima visione. So che mi persi a studiare il profilo di Mattia, ad un certo punto, quando il terrorista armato di cibarie varie rinunciò alla sua causa di prenderci in pieno e io mi decisi a chiudere il becco.
Mi ero ritrovata a pensare, con mio sommo imbarazzo, che non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno un po' se quel ragazzo si fosse girato e avesse annullato ogni distanza fra di noi. Provavo un insano desiderio di mordicchiargli quelle labbra sottili, che lasciava socchiuse nel guardare il film con incredibile attenzione. Possibile che non avesse sentito il mio sguardo su di lui?
Che cavolo! Mi sentivo un'allupata pazzesca e lui faceva la parte del ghiacciolo!
Sprofondai nella poltrona del cinema fino alla fine del film, chiudendomi nel mio mutismo, in un'incredibile imbarazzo e, soprattutto, nel mio risentimento. Da quando in qua i ragazzi si facevano tanti scrupoli, porca miseria?
Erano quasi le sei e mezza quando uscimmo dal cinema. Il massimo contatto che avevamo avuto era uno stupido sfioramento di dita e avevo ritratto la mano, decisamente di cattivo umore. E poi prendere la mano alla gente è una cosa che detesto. Un po' perché non mi significa nulla di particolare. Né vicinanza né altro. Sarà che nelle prove antincendio alle elementari ci facevano tenere tutti per mano, ma davvero, non riesco a capirne il gesto. E poi perché solo il pensiero di non poter muovere una mano in caso di necessità, perché bloccata da quella enorme e magari pure sudaticcia di qualcuno, mi uccide. Sono una gesticolatrice di professione, non posso limitare il mio estro in questo modo!
Parlammo, certo, mentre mi riaccompagnava alla vespa. Un po' del film, ma visto che mi ero persa la fine per frenare i miei bollenti spiriti, mi ritrovai incapace di argomentare efficacemente la mia affermazione “Uno dei film peggiori che abbia mai visto (a metà)”.
Buttammo là qualche stronzata su altri film che ci avevano ucciso con solo i primi dieci minuti di visione, roba come Black Sheep o Pomodorini Assassini, delle perle della comicità involontaria. Senza parlare poi dello Star Wars turco, che avevo visto una sera insieme a Marco e dal quale non ci eravamo più ripresi a causa degli improbabili suoni assordanti e i droidi-frigoriferi.
Arrivai alla mia moto con la voglia di andarmene tendente allo zero meno e una voglia di baciarlo tendente ad infinito. Sembrava avessi capito i limiti, finalmente.
Tirai fuori il casco dal bauletto sotto il seggiolino, giusto per non stare ferma come un'idiota a guardarlo. Aspettavo solo di sentirlo avvicinare appena. Eppure lui se ne rimaneva là, mani in tasca, sguardo penetrante e labbra socchiuse. Se non fossi stata incredibilmente insicura, gli sarei saltata letteralmente addosso. Invece aspettavo che fosse lui a fare qualcosa, perché io, in quanto a esperienza, ero ai livelli di un'odierna dodicenne. Deprimente, lo so, ma era una delle poche volte che ero riuscita ad arrivare in fondo all'uscita senza mandare a quel paese qualcuno.
Beh, Mattia ci sarebbe andato molto vicino, se non si fosse deciso alla svelta a chinarsi. Sapevo per esperienza che essere presi a randellate con un casco non era un'esperienza piacevole ed ero certa che lui non avrebbe voluto provare.
E poi finalmente, lo vidi sorridere, appena. Era un mezzo sorriso il suo, non strafottente, ma incredibilmente carino. Lo avrei definito dolce.
«Allora ci salutiamo qui...» disse appena e io feci spallucce, per dissimulare.
«Grazie del film»
Successe tutto velocemente, eppure lo ricordo ancora come un momento infinito. Mattia mi si avvicinò, appena, riducendo la distanza fra di noi e chinandosi appena per arrivare alla mia altezza. Chiusi gli occhi e, istintivamente socchiusi le labbra.
Lo sentii poggiare la sua mano destra sul mio braccio e il mio cuore per poco non tentò di tuffarsi nel mare dei suoi occhi, piuttosto che rimanersene al sicuro nella mia cassa toracica. Che cuore ingenuo e avventato!
Sentii le labbra di Mattia sfiorarmi una guancia, prima di spostarsi verso il mio orecchio.
Il suo sussurro mi diede il colpo di grazia.
«Grazie a te, Fraisier»
Quando riaprii gli occhi, umiliata e incazzata l'ennesima volta, lui si stava già dirigendo verso la macchina.
Deglutii, ricacciando indietro un pizzicorio agli occhi incredibilmente fastidioso. Strinsi il laccetto del casco in modo spasmodico.
Che diavolo avevo fatto di male, per meritarmi uno stupido bacio sulla guancia? Persino Lorenzo con me era più affettuoso di quel bipolare di merda!
Realizzai che gli avevo lanciato il casco solo quando vidi quella pseudopalla volare a mezz'aria e colpirlo dritto a una spalla. Il mio subconscio, probabilmente, aveva mirato alla testa, ma, conoscendomi, era già tanto che lo avessi colpito.
Si girò, massaggiandosi la spalla, a metà fra l'incazzato e il sorpreso. Non capita tutti i giorni che uno stecchino ti tiri un casco verde mela.
«Si può sapere quale diavolo è il tuo problema?!» urlai, e non me ne fregava nulla che tutto il parcheggio potesse sentirmi.
«Quale diavolo è il tuo di problema! Io non ti ho mai lanciato un casco!» urlò di rimando, optando per l'incazzato. Gli avevo fatto male e non poteva fregarmene meno. Anzi, ero incredibilmente contenta. Ad aver avuto un altro casco lo avrei rifatto. Ancora e ancora.
«È vero! Tu non hai fatto niente! Tu sei solo entrato di prepotenza nella mia vita! Ti sei solo finto un professore! Mi hai solo insultata allo sfinimento perché volevo renderti impossibile uscire con me! Mi hai solo portata a vedere uno dei film più brutti di questi ultimi tempi!»
Stavo urlando cose senza senso, me ne rendevo conto. Davvero. Ma giuro che non riuscivo a smettere. Lo odiavo. Era entrato nella mia vita e poi se ne andava così, come un idiota, dieci secondi prima che stessi per cedere. Anzi, ero già ceduta, ma era troppo scemo per rendersene conto.
«Dio!» sbottò, muovendo qualche lungo passo nel riavvicinarsi a me. «Non fai altro che lamentarti! Del film, dei soprannomi, della mia camicia! E avrai sicuramente pensato che la mia macchina ha un colore orribile! Cosa diavolo vuoi?!»
Lo incenerii. Cosa diavolo volessi era abbastanza ovvio.
«Volevo che tu mi baciassi, razza di idiota! Adesso voglio solo vedere qualcuno rubarti la tua stupida orribile macchina e investirti!»
Inutile dire che la sua stupida orribile macchina io nemmeno l'avevo mai vista.
Rimanemmo a guardarci in cagnesco per altri momenti interminabili, prima che io distogliessi lo sguardo e cominciassi a camminare verso di lui. No, non stavo camminando verso di lui, stavo correndo verso il mio stupido casco, così avrei potuto lanciarglielo di nuovo, solo che Mattia era in traiettoria.
Lo superai con una spallata, perché volevo fargli fisicamente male. Non credo ci riuscii. Dopotutto ero un fuscello e lui, per quanto longilineo, pur sempre un uomo.
«Al!»
Mi chiamò, ma non mi fermai né voltai. Gli sarei saltata addosso, ma solo perché in quel momento mi ispirava una violenza inaudita. Tirai dritto ed ero quasi arrivata al mio casco, quando mi strattonò il polso destro, ripetendo il mio nome e costringendomi a voltarmi al suo indirizzo.
Sfruttai la sua forza e il suo slancio per assestargli un pugno sulla spalla, ma lui mi ignorò. Senza che me ne accorgessi aveva azzerato la distanza fra le nostre bocche, cominciando a divorarmi le labbra.
Non fu affatto un bacio dolce e nemmeno passionale. Fu violento e struggente. Continuavamo a morderci vicendevolmente, a succhiarci, a cibarci dell'altro.
Fu un bacio rumoroso. Le nostre labbra e le nostre lingue schioccarono più volte, affamate e insaziabili di quel contatto. Ci staccavamo solo quel tanto che bastava per riprendere fiato, ansimando.
Fece scivolare una mano alla base della mia schiena, costringendomi ad aderire a lui con tutto il mio corpo. La sua mano corse su e giù per la mia schiena, provocandomi i brividi, per poi fermarsi sul mio fondoschiena. Aveva pericolosamente lasciato scivolare il pollice oltre l'orlo della mia tuta, lasciando solo le altre dita a contatto con quella parte del mio corpo.
Siccome mi teneva ancora la mano destra bloccata, portai la sinistra ad accarezzargli il collo, infilandola poi fra i suoi capelli ondulati. Continuai a divorargli il labbro inferiore, mordicchiandolo a sangue. Gli scappò un gemito gutturale, roco, incredibilmente eccitante.
Quando si staccò da me, mi protesi, per catturargli nuovamente le labbra, ma lui si scansò quanto bastava per impedirmi di raggiungerle.
Avevamo entrambi il fiatone, le labbra gonfie. Le sue persino sanguinanti. Ero una dannata ninfomane, porca miseria!
«Che c'è?» domandai, anelando un nuovo contatto. Il pollice della sua mano si era spostato pericolosamente dentro l'orlo della mia tuta, lasciando poi le altre dita ad esplorarmi il fondoschiena.
«Non va bene» disse soltanto. Mi corrucciai a quelle parole.
«Che cavolo significa?»
Lui sembrò pensarci un attimo, cercando di trovare le parole. Fece un passo indietro, abbandonando definitivamente ogni contatto con me.
«Conosco le ragazze come te. Volete la storia importante, l'uomo della vostra vita.»
Scosse la testa, di fronte alla mia espressione dubbiosa.
«Non sono quel tipo di ragazzo, Al. Non vado bene per le storie a lungo termine. Non vado bene nemmeno per assicurarti l'esclusiva! Ecco perché non ti ho baciata.»
Mi fece sorridere, perché si stava aprendo, perché era sincero e incredibilmente ingenuo, perché voleva proteggermi, anche se per lui ancora non ero altro che una ragazza con le mutande con le fragole e non ce n'era alcun bisogno.
«Tu mi hai baciata» osservai, con semplicità.
«Ma non dovevo. Cavolo! Non potevo! Sono un idiota!»
«E io un diavolo tentatore un po' manesco»
Mi avvicinai a lui, perché aveva distolto lo sguardo. Gli presi le mani, anche se odiavo farlo, perché pensai avesse bisogno di uno stupido contatto. Non so perché, ma a volte se ne ha bisogno. Lui continuò a non guardarmi.
«Adoro la mia vita così com'è, amo l'equilibrio che è venuto a crearsi con i miei amici, amo il rapporto che ho con loro. Non voglio legarmi. Non voglio un ragazzo. Non ora almeno.»
Nonostante non mi guardasse, vidi chiaramente che Mattia alzò gli occhi al cielo. Liberò le sue mani dalla stretta delle mie.
«Lo vorrai. Forse non ora, ma lo vorrai.»
«Non sta a te preoccupartene. Se mai capiterà, te lo farò sapere. Magari moriremo prima che arrivi quel giorno.»
Avevo tentato di sdrammatizzare. Lo vedevo struggersi, per quello stupido, esaltante, divino e bellissimo bacio, con quel taglietto sul labbro inferiore e gli occhi così dannatamente azzurri! Non potevo lasciarlo stare così.
E a quel punto mi guardò, mi incatenò col suo sguardo di mare e mi sentii mozzare il fiato.
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!











Ok, alcune note di fine capitolo. Shelly-Ann Fraser dovrebbe essere la campionessa 2008 dei 100 metri piani.
Shelter è un film assurdo, che non ho mai sentito nominare, ma che ho trovato fra i film in programmazione nel febbraio 2011.
Non ho mai visto Sanctum 3D, quindi scusate eventuali cazzate scritte, ma io, come Albina, detesto Avatar e James Cameron e questa dannata moda del 3D. Il fatto che mi dimentico sempre gli occhialini a casa e poi al cinema me li fanno pagare ogni volta magari ha incrementato questo mio cieco odio, ma, in generale, lo ritengo solo uno spreco di soldi.
Black Sheep e Pomodorini Assassini sono due film realmente esistenti che vidi con i miei amici: risate assicurate! Esiste anche lo Star Wars turco, che è una cosa davvero allucinante. Non guardatelo mai. O___O
Infine, non ho mai provato a tirare un casco, ma spero faccia male xD


Capitolo a dir poco osceno. Non si può partorire, dopo un mese, una cosa così indecente. Ma fra il Rimini Comics, la partenza per il mare, la programmazione di nuovi cosplay, questa roba è l'unica cosa che sono riuscita a produrre. Sono mortificata, soprattutto perchè... boh, dovrebbe essere abbastanza importante come capitolo. Quindi scusatemi, o almeno provateci.
Ne approfitto per ringraziare di cuore chi ha aggiunto la storia fra le preferite, chi fra le seguite, chi fra le ricordate, chi commenta e chi legge dai meandri più oscuri della terra senza farmi sapere la sua opinione, ma facendomi comunque immensamente piacere.

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Capitolo 9
*** Non è il mio trombamico! ***


All my Certainties

Non è il mio trombamico!




Entrare in camera di Alessandro, il ragazzo di Mel, soprattutto in assenza di quest'ultima, era sempre molto strano. Forse perché il suo mondo era diametralmente opposto al mio.
San abitava da solo, essendosi trasferito due anni prima per frequentare la facoltà di ingegneria informatica, e il suo intero trilocale, ad eccezione della sua stanza, era la manifestazione del gusto della madre: mobili antichi di ciliegio, tappezzeria elaborata (e le tende di raso dorato del salotto ne erano l'estrema dimostrazione), ma pur sempre sobria, e l'arredamento perfettamente rispettante il feng shui o una robaccia così. L'unica volta che l'avevo incontrata, aveva tentato di spiegarmi l'importanza di non disporre per alcun motivo il letto con i piedi puntanti la porta. Era una cosa che aveva a che fare con bare, morti e tanta tanta sfiga, ma siccome il mio letto era disposto proprio in quel modo e avevo già abbastanza sfighe nella mia vita, avevo deciso di rimuovere l'informazione, piuttosto che spostare il letto. Meno ne sapevo e meglio era.
La sua stanza, però, era il suo regno. Totalmente opposta al resto della casa, era paragonabile a un negozio di informatica. Un computer fisso occupava, assieme alla stampante e a un paio di casse -che avrei definito enormi-, l'intera scrivania, disposta sotto la finestra. Un portatile era poggiato sul letto a due piazze, insieme a strani apparecchi informatici di cui non volevo sapere il nome (e probabilmente non avrei neppure saputo ridirlo). Ovunque c'erano CD, programmi, enormi volumi di programmazione, cellulari e quant'altro potesse appagare la vita di un nerd. Contando che nei miei diciotto anni di vita avevo rotto due fotocamere, perso un cellulare, altri due erano stati distrutti cadendo rispettivamente dalla tromba delle scale e in una vasca da bagno, ucciso il mio walkman, uno stereo, fuso tre volte la playstation e una volta il computer, se ne deduceva che un elefante in una cristalleria sarebbe stato meno pericoloso di me in quella dannata stanza.
San era seduto alla scrivania, intento a fare qualcosa -e Dio solo sa cosa- con quel pc. Mi aveva aperto la porta, mi aveva invitata a salire e poi si era seduto nuovamente alla scrivania a continuare il suo lavoro. Notai che, dall'ultima volta che l'avevo visto, si era scorciato i corti capelli castano chiaro.
Rimasi sulla soglia, incredibilmente a disagio con tutta quella tecnologia.
«Entra pure Al!» mi disse, affabile, senza però staccare gli occhi dallo schermo. «Mel dovrebbe arrivare fra un po'»
Annuii e, non sapendo che altro fare, presi posto in un angolino del letto, il più lontano possibile da qualsiasi cosa io potessi rompere. Contando che usava tutta quella robaccia per lo studio, mi sarei sentita doppiamente in colpa se, premuta accidentalmente la barra spaziatrice del suo portatile, questo avesse mostrato la schermata nera della morte. Quindi mi sedetti composta e tranquilla, tutto il contrario delle mie abitudini, la qual cosa non fece che mettermi ancor più a disagio.
«Che stai facendo, San?» chiesi ad un certo punto, dopo infiniti attimi di silenzio intervallato da rumori di tastiera. Era una cretinata da dire, ma sentirmi a disagio mi buttava ancor più addosso quell'odiosissima sensazione. Avrei fatto qualsiasi cosa per non sentirmi un pericolo pubblico in un mondo che non era mio.
«Hai presente i suoni che emette un computer quando si rompe?» disse lui, senza smettere di guardare il pc.
«Ne so qualcosina...»
Ed era vero: i miei computer intonavano concerti ogni mese.
«Beh, c'è un suono diverso per ogni tipo di danno. Sono diversi per le tonalità dei bip, per la loro durata e disposizione.»
«Stai imparando le corrispondenze danno-suono?» domandai, ingenua.
Lui si mise a ridacchiare, come se avessi detto la cosa più buffa al mondo. O magari ero io la cosa più buffa al mondo.
«Ma no! Sto costruendo un programma per far suonare al computer delle melodie famose con questi bip.» Spiegò. Premette invio con uno slancio impressionante e poi si girò allegramente soddisfatto di sé. Adoravo San, perchè non si lasciava toccare dalle mie espressioni scettiche.
«E a che diavolo serve?»
«A far suonare il computer» ripetè, con semplicità.
«E... ehm... basta?»
Lui fece spallucce.
«Può allietare le giornate di chi non ha un ipod»
La sua sicurezza mi sbalordiva ogni volta. Era la fierezza nerd. Una di quelle cose che non avrei mai capito.
«A proposito!» riprese slancio, nell'osservarmi. «Per caso conosci le note di qualche canzone? Vorrei provarlo, ma l'unica musicista che conosco è Mel!»
Io strabuzzai gli occhi, presa in contropiede. Era già tanto se conoscevo i nomi delle note. Anzi, peggio. Dopo che Mel mi aveva detto che le note erano in realtà infinite, anche all'interno di una sola ottava, ma che, per convenzione, se ne usavano dodici, ero stata certa che la musica non avrebbe mai fatto parte del mio lavoro.
Fui salvata dalla stessa Mel, che girò le sue chiavi dell'appartamento nella toppa ed irruppe di corsa nella stanza, estremamente felice.
Saltellò da San, a richiedere un bacio incredibilmente tenero, prima di notare la mia presenza sul ciglio del letto.
«Al!»
Restituì alla mia occhiataccia uno sguardo di raggiante felicità. Giuro che cominciai a spaventarmi.
«Ha chiamato Lori. Dice se domani pomeriggio ci va di uscire con lui e Camilla»
«Sono incluso nell'invito?» domandò il ragazzo, fissando anche lui un po' dubbioso la sua fidanzata.
«Solo se vuoi» rispose lei, ma si vedeva che ci teneva immensamente che venisse pure lui.
In risposta, San fece spallucce.
«D'accordo, come vuoi tu. Mi hai portato gli spartiti?»
La castana annuì, tirando fuori dalla sua inseparabile tracolla un pacco di fogli alto quanto il mio libro di chimica. Nessuno notò la mia espressione scandalizzata.
«Grazie»
Per poco non tirai fuori l'insulina, visto l'improvviso aumento del tasso glicemico della stanza dato dallo sguardo che quei due si scambiarono. Non avevo mai visto una coppia più scoppiata eppure affiatata. Il nerd e la ragazza mondana. Sembrava l'ennesimo film spazzatura americano. Eppure non riuscivo a non tifare per loro.
A quel punto, San si rimise a scrivere il suo programma al pc, mentre Mel mi si avvicinò, sempre con quel sorrisone inquietante a deformarle la bocca.
Si buttò sul letto insieme a me, con la sola differenza che io ero seduta in un angolo, mentre lei ci si sdraiò bellamente sopra, incitandomi a fare altrettanto.
Fu con estrema cautela che mi misi supina ad osservare il soffitto bianco insieme a lei, le mani conserte sulla pancia a mo di cadavere e una paura fottuta di rompere qualcosa accidentalmente.
«Allora? Ti va bene domani?» mi chiese.
Annuii, distrattamente. Non sapevo se essere curiosa o spaventarmi. Magari ero l'una e l'altra cosa. Avevo paura di ritrovarmi davanti alla faccia un mostro mitologico a tre teste e mi ritrovai a pensare che, in tal caso, o Xena sarebbe venuta a salvarci, o saremmo stati fottuti.
«Secondo te perchè vuole conoscerci proprio ora? Di occasioni ne ha avute tante. Perchè ora?» chiesi, lievemente preoccupata. Lorenzo non parlava mai delle sue relazioni con noi ragazze e il segreto professionale fra lui, Marco e Ivan era incredibilmente saldo.
Mel non mi rispose subito. Sembrò pensarci su, magari un po' preoccupata pure lei, magari davvero felice per Lori. Mi sentii una persona orribile, perchè io non ero affatto felice per lui. Giuro che avevo provato ad emozionarmi per la confessione di sabato, ma non riuscivo a trovare nulla di positivo nel suo ritrovato amore per Camilla.
«Forse perchè Lorenzo la sta forzando. Vuole davvero fare le cose per bene stavolta, vuole che lei conosca tutto di lui e viceversa. Siamo una parte importante della vita di Lorenzo, no?»
«È per questo che sei così felice?» domandai. La vidi osservare la schiena di San, che sembrava davvero non far caso ai nostri discorsi. Era la normalità per lui. E se c'era una cosa di cui eravamo sicure, era che niente di ciò che ci eravamo dette sarebbe mai uscito da quella stanza per sua bocca.
Il suo sorrisone si allargò ancora.
«Ieri io e Alessandro abbiamo fatto l'amore su questo letto.» mi rispose, trasognante.
Le reazioni mie e di San furono molto simili. Entrambi arrossimmo, entrambi saltammo in piedi, come spinti da due molle, entrambi strabuzzammo gli occhi per la tranquillità con cui l'aveva detto. Entrambi gridammo qualcosa. Un «Dio, che schifo! E ci ero sdraiata sopra!» io e un «Mel! Ti sembrano cose da dirsi?!» lui.
Lei si limitò a ridere un altro po', mentre io tentavo di escogitare un modo per sterilizzare i miei vestiti senza doverli necessariamente bruciare. Un bagno nell'amuchina sembrava un'ottima soluzione.
San era ancora rosso, mentre guardava Mel, che si era tirata su a sedere a gambe incrociate, con un misto di adorazione, rimprovero e imbarazzo che ai suoi occhi lo rendeva adorabile. A me sembrava semplicemente stupefacente che potesse ancora esserci un ragazzo in grado di arrossire di fronte all'ammissione di una conquista.
Mi venne da sorridere nell'osservarli. Fecero uscire la parte dolce e femminile di me, quella parte che non vomitava davanti alle scene gratuitamente zuccherose di un rapporto.
Forse fu il mio sorriso a richiamare l'attenzione di Mel su di me, forse fu l'assenza di commentini acidi e cinici rivolti ai due, forse fu solo il fatto che me ne stavo in piedi come un ebete a pensare quanto cavolo sarebbe stato bello trovare una persona con la quale avere un rapporto di questo tipo; fatto sta che Mel mi guardò dubbiosa per circa tre nano secondi. Poi il suo cervello da shippomane convinta fece due più due e non so come me la ritrovai addosso, con un sorriso che superava il mio e delle urla talmente tanto alte da non essere udibili a noi poveri esseri umani.
«Cavolo cavolo cavolo! Era ieri! E io me ne sono completamente dimenticata! Sono un'amica orribile! Com'è andata?! Eh? Eh?!»
Cominciò a saltellare mentre io scoppiai a ridere, nel tentativo di liberarmi dal suo abbraccio stritolante e San tentava di capirci qualcosa.
«Che è successo?» mi chiese, abbandonando dal principio ogni tentativo di interagire con la fidanzata, che ormai era completamente uscita di senno.
«Sono uscita con Mattia ieri» dissi, sorridendo. Diamine, perchè non riuscivo a smettere di ridere?!
A questa mia risposta Mel lanciò un altro urletto eccitato, senza rinunciare a saltellarmi intorno.
«Ed è andata bene! Lo so! Altrimenti non avresti risposto così! Raccontami tutto!»
Mi costrinse a sedermi -rigorosamente per terra, non avrei più toccato quel letto nemmeno coi guanti!- faccia a faccia e a raccontarle l'uscita per filo e per segno. Inizialmente avevo tentato di abbozzare un «Niente di che... mi sono vestita come una maratoneta, lui è arrivato tardi, abbiamo visto un film osceno, gli ho tirato un casco, mi ha baciata, mi ha scaricata, stiamo uscendo insieme», ma Mel, dopo lo shock iniziale, aveva chiesto sempre più dettagli, dall'effettivo mio abbigliamento da maratoneta, per arrivare ai commenti acidi che avevo rivolto al film, per finire con la descrizione più dettagliata possibile del nostro bacio. San si era allegramente isolato col suo computer, non essendo minimamente interessato al movimento di lingua di Mattia, mentre per Mel era di fondamentale importanza per capire il carattere della persona. Le lasciai formulare le sue teorie, prima di sganciare la bomba.
«Quindi vi metterete insieme!» esultò, felice come una pasqua. Stava per rimettersi a esultare per tutta la stanza, ma la bloccai appena in tempo.
«Non succederà mai Mel.»
Non so in che diavolo di modo lo dissi. Volevo suonare convinta e soddisfatta, ma mi sa che non ci riuscii.
Il sorriso di Mel si sciolse lentamente, per lasciare il posto ad un'espressione dubbiosa.
«Perchè scusa? È fidanzato?»
Scossi la testa, seria.
«Ti ha chiesto di fare qualcosa che non vuoi fare?»
Scossi la testa, con più convenzione.
Ci mise qualche istante di più a formulare quest'altra domanda.
«Ti piace qualcun altro?»
Aggrottai le sopracciglia, di fronte a quella domanda. Avrebbe dovuto saperlo che non c'era nessun altro, altrimenti le avrei fatto una testa grande quanto la Groenlandia con il suddetto soggetto.
«Non ci sarebbe niente di male se ti piacesse...»
Perchè avevo l'impressione che si fosse trattenuta da dire un nome in particolare? A chi cavolo poteva aver pensato?
«Chi?»
Storse la bocca. Quella conversazione aveva cominciato ad essere scomoda per entrambe. Cosa sapeva Mel che io, la diretta interessata, non sapevo? Davo per caso l'impressione che mi piacesse qualcuno? Impossibile.
Infine sbuffò, esasperata.
«Ma che vuoi che ne sappia! Qualcuno!»
Inarcai un sopracciglio, non del tutto convinta, ma decisi di sorvolare. Se non mi aveva detto niente era perchè la cosa la metteva in difficoltà ed era l'ultima cosa che volevo fare.
«Non voglio un ragazzo e nemmeno lui vuole una ragazza. Vogliamo solo qualcuno che ci permetta di essere noi stessi e conservare la nostra individualità.» spiegai con semplicità e un'alzata di spalle.
Mel conservò la sua espressione cupa, mentre San si mise a ridere di gusto.
«Un trombamico insomma!»
Avvampai, mentre la sua ragazza lo inceneriva con lo sguardo.
«Non incoraggiarla, Alessandro!» borbottò, mentre io mi rimpicciolivo nel mio imbarazzo.
«Non è un trombamico!» dissi a mia discolpa, rimproverandolo con lo sguardo.
«È quello che hai descritto. E meriti di meglio!» sbottò Mel, incrociando le braccia al petto. «Ci sono così tanti ragazzi che vorrebbero stare con te seriamente!»
Alzai gli occhi al cielo.
«Non cominciare Mel. Io non li vedo questi fantomatici ragazzi! E poi non hai sentito? Sono io a volere questa situazione. L'ho scelta io! Non voglio avere meno tempo per stare con voi, non voglio trovare un posto fisso a Sigismondo perchè potrebbe arrivarmi un messaggio da un momento all'altro. Voglio continuare a perderlo per casa, voglio continuare a dipendere unicamente da me stessa, a non dover rendere conto a nessuno se una sera mi girano e decido di non uscire! È così difficile da capire?»
Mi fissò per attimi infiniti. Scrutò la mia determinazione, assaporò il significato delle mie parole.
Infine sospirò, sconfitta.
«Sai che Mattia mi piace... È perfetto per te.» Ammise, ma ebbi l'impressione che mancasse un qualcosa a quella frase per essere conclusa.
«Ma?»
«Rimane comunque il tuo trombamico!» concluse, con una risata.
Incrociai le braccia al petto, indignata.
«Non-è-il-mio-trombamico! Il mio ginecologo può testimoniare la mia verginità!» sbottai, assumendo un colorito più acceso del sole al tramonto.
«Per ora...» disse soltanto San, prima di mettersi a ridere anche lui insieme a Mel.


L'insistenza della vibrazione del telefono mi costrinse ad accostare la vespa e leggere il messaggio. Mancavano appena 200 metri al parcheggio, ma non sopportavo quella sensazione vibrante. Cinque minuti in più o in meno, non avrebbero ucciso nessuno.
Fu con un sorriso che lessi il nome sul display. Me ne pentii immediatamente. Ero ridicola a livelli infiniti.
Ci vediamo oggi?”
Tentai di rispondere il più velocemente possibile, ma finii solo per complicarmi la vita con quell'odiosissimo T9 e impiegare solo più tempo a scrivere un banalissimo.
Mi spiace, ma devo combattere un mostro a tre teste e non so se Xena ci aiuterà!”
La risposta di Mattia arrivò quando ormai avevo parcheggiato e mi ero incamminata verso il luogo dell'appuntamento.
Non conosco il numero di Hercules, ma Iolao è sempre disponibile a dare una mano!”
Avevo ancora il sorriso sulle labbra, fregandomene della mia infinita ridicolezza, quando raggiunsi Mel, San, Iv e Lori.
Soltanto Mel mi sorrise di rimando. Ivan mi squadrò da capo a piedi, come se stesse tentando di capire dove avessi nascosto la bomba.
«Che le succede?» chiese, circospetto, agli altri tre.
Fu San a rispondere, con un'alzata di spalle e un tono noncurante.
«Solo il suo trombamico, credo.»
A quel punto sbuffai. Stavo per ripetere che no, Mattia non era il mio trombamico, ma la coppietta mi anticipò.
«Sì, lo sappiamo!» riprese Alessandro.
«Non è il tuo trombamico!» concluse Mel.
Alzai gli occhi al cielo di fronte ai loro sorrisi allusivi e allo sguardo cupo di disapprovazione di Ivan.
«Possiamo andare? Cam arriva alla stazione fra dieci minuti!» ci incitò Lorenzo.
«Marco è in ritardo?» chiesi, notando l'assenza del biondo.
«Aveva da fare.» mi rispose Iv, in modo totalmente piatto.
«Beh, avremmo potuto fare un altro giorno allora, no?» insistetti, mentre Lori mi spingeva gentilmente ad attraversare la strada e dirigerci verso la stazione.
Questo incrociò il mio sguardo confuso, rivolgendomi un sorriso strano, quasi intenerito, come un genitore che rimpiange l'ingenuità del figlio che ancora non può capire tante cose.
«Aveva da fare tutta la settimana.»
Ridussi gli occhi a due fessure sottili nello scrutare il suo viso.
«Mi stai nascondendo qualcosa» mormorai, così che solo lui potesse sentirmi.
Ivan e gli altri due avevano abbandonato la conversazione per lanciarsi in qualcosa di più appassionante e io speravo davvero di capire perchè, da poco tempo a quella parte, tutti sembravano tenermi nascosto qualcosa: si bloccavano a metà dei discorsi, come Mel aveva fatto il giorno prima, mi rivolgevano sguardi strani. Se all'inizio c'ero passata sopra, adesso cominciavo a trovarlo snervante.
«Se anche fosse, sai perfettamente che non potrei dirtelo.» rispose lui, calmo all'apparenza. In realtà mi stava supplicando con gli occhi di non indagare, di non metterlo in situazioni spiacevoli. Volevo farlo? Ne valeva davvero la pena?
Scrollai le spalle, sbuffando, segno che dichiaravo la resa in quella battaglia silenziosa. Lorenzo mi sorrise, grato e mi passò un braccio intorno alle spalle in uno di quegli pseudo abbracci da passeggio.
Col senno di poi, quel suo gesto di ringraziamento non fu proprio una grande idea. Quando arrivammo alla stazione, Milla-Camilla era già là ad aspettarci e fu così che ci vide.






È solo una mia impressione, o l'intero capitolo è una sfilza di cavolate ENORMI? Mi sento in colpa ad averci messo un mese intero per scrivere queste cinque pagine di -inserisci qui il termine che più ti aggrada-.
Ho deciso di spezzare il capitolo in due, perché altrimenti ci avrei messo un altro mese a finirlo e non potevo lasciarvi così ><
Grazie infinite a tutti quelli che leggono, che recensiscono, che mi ricordano, seguono o preferiscono. Vi adoro immensamente.
Al prossimo chap!

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