Sangue di Fata

di Baby Moonlace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Patto ***
Capitolo 2: *** Furto ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Scacco matto ***
Capitolo 5: *** La corte delle tenebre ***
Capitolo 6: *** Melinoe ***
Capitolo 7: *** La fine del gioco ***



Capitolo 1
*** Il Patto ***


Sangue di Fata

 

L’aria era viziata, la stanza buia. A Daphne mancava il fiato. Era una ladra di strada, i luoghi chiusi non facevano per lei.
Alzò gli occhi sulla finestrella, da cui filtrava la luce fioca della luna. Non poteva fuggire da lì. Era troppo piccola, neanche lei ci sarebbe passata attraverso. Circondò le ginocchia con le braccia, cullandosi appena. Si era fatta prendere come una pivella alle prime armi. Ma di una cosa era certa: appena fosse uscita di lì, il ragazzo che l’aveva fatta arrestare l’avrebbe pagata cara.
Un secondino corpulento aprì la porta della cella. La luce delle lampade a gas si riversò nella stanzetta. Daphne batté le palpebre, accecata.
La guardia la afferrò per un braccio, tirandola in piedi. “Fuori di qui, bambola”
Fu tentata dall’idea di sputargli nell’occhio. “Cosa?”
“Il tuo ragazzo ti ha pagato la cauzione”
“Il mio ragazzo?”
“Non sei molto sveglia, eh? Vattene. Sei libera.”
Daphne sbuffò, raccolse le gonne e uscì rapidamente dalla cella. Un ragazzo la attendeva nel corridoio, avvolto in un lungo cappotto nero. La luce fredda delle lampade gettava ombre scure sul suo viso pallido e affilato.
La ragazza trasalì. Era stato lui a farla arrestare.
Lui sorrise, serrandole i fianchi in un gesto di falso affetto, in una morsa che le strappò un gemito. Daphne alzò la mano per colpirlo, ma lui le afferrò il polso. Lo torse in modo da scoprire il suo marchio. “E’ una gardenia questa?”
“Perché t’importa?”
“Rispondimi e basta.”
“Sì. Contento?”
“Sì”, il ragazzo sorrise, prendendola a braccetto e guidandola fuori dal commissariato. L’aria umida della notte le sferzò il viso, portando con sé il familiare tanfo dei bassifondi. La luce bassa dei lampioni illuminava appena la strada sudicia, negli angoli bui si accalcavano ubriaconi, prostitute e delinquenti.
Blake condusse Daphne verso una carrozza scura, “Una presentazione è d’obbligo, Madame”
La ragazza sorrise. Aveva tutte le intenzioni di filarsela appena possibile. “Certo. Prima tu.”
“Chiamami Blake”
“E’ davvero il tuo nome?”
Lui la ignorò. “Il tuo nome, prego”
Considerò mentire, ma non sapeva quanto Blake avesse già scoperto sul suo conto. Era certa che sapesse più di quanto non volesse ammettere. “Sono Daphne”
Blake sorrise, la fece sedere accanto a sé. “Sono stato fortunato a trovarti. Devo informare la gilda di alcune cose.”
Daphne aggrottò la fronte. “La gilda?”
“Ne fai parte, no?”
Daphne scosse la testa, ridendo appena. “Io non faccio parte proprio di niente!”
“Vuoi dire che ti ho tirata fuori per nulla?”
“A proposito”, Daphne sorrise dolcemente, piegandosi verso di lui. I loro visi quasi si toccavano. Gli sputò in un occhio. “Ora siamo pari”
“Anche tu mi piaci, sai?”
“Vuoi che ti sputi addosso di nuovo?”
Blake rise. “Che caratterino”
Daphne arrossì, e incrociò le braccia sul petto. Blake si chinò verso di lei e le sciolse i capelli. “Ecco. Va molto meglio.”
Daphne gli affondò i denti nel palmo. “Giù quelle mani o te le stacco. Cosa vuoi da me?”
 “Sai del piccolo popolo?”
“Sono leggende per bambini. Non dirmi che ci credi.”
“So che tu puoi vederli. E anche seguirne le tracce.”
Daphne si allungo la mano per scostare la tendina della carrozza. Oltre il finestrino vide un colonnato, e le sagome scure degli alberi. Blake le afferrò il polso e richiuse la tendina.
La ragazza sorrise. Aveva visto abbastanza. Erano ad Hyde Park. Si voltò verso Blake. “Io non posso vederli. E tu dovresti andare in manicomio.”
“Quindi non puoi vedere questo?” Il ragazzo indicò il lume. Una creaturina alata e verde era rannicchiata sulla base. Al suono della voce del ragazzo voltò il capo verso di loro. Sorrise, mettendo in mostra una sfilza di zanne nere. Daphne rabbrividì.
Blake rise. “L’hai visto!” Esclamò.
“Cosa, no! Sei tu che immagini esserini verdi, non io!”
 “Non ho mai detto che era verde. Ti sei tradita, Daphne.”
La ragazza tacque, soppesando la questione. “Quindi li vedi anche tu?”
“No. Solo se loro me lo permettono. Devi essere un bambino scambiato, per poterli vedere. O un suo discendente.”
Daphne sospirò. “D’accordo. Mettiamo che ti credo. Cosa dovrei fare?”
“Un uomo sta tramando per eliminare la regina e tutti gli eredi al trono, e ha fatto un’alleanza con la sovrana della corte delle tenebre. Voglio smascherarlo, ma ho bisogno di prove. E tu me le procurerai.”
Daphne sorrise, inarcò le sopracciglia. “Sembra un piano perfetto. Una sola domanda. Dove le trovo, le prove?”
“Devi rubare un documento. Melinoe, lo ha firmato, lo troverai con facilità.”
“Melinoe?”
“La regina della corte delle tenebre”
Devo essere pazza,si disse Daphne. “E dove lo trovo il documento?”
“A casa dell’uomo. E io posso farti entrare.”
“Scordatelo”
“Allora ti riporto in carcere”, Blake sorrise, carezzandole il viso, “A meno che tu non ci ripensi, ovviamente”
“Levami le mani di dosso. Mi fai schifo. Sarò anche una ladra, ma almeno io non ricatto la gente.”
“Non parlarmi così, mi spezzerai il cuore”
“Tu non ce l’hai un cuore. Dimmi cosa devo fare.”


Innanzitutto vorrei dire a tutti quelli che sono arrivati fin qui che spero che la storia vi sia piaciuta e che continuerete a leggere anche gli altri capitoli.
Vorrei anche pregarvi di recensire, perché a scrivere ci vogliono giorni, a recensire soltanto qualche minuto, e le recensioni sono sempre molto apprezzate.
Se avete qualche critica da muovermi non esitate, so accettare le critiche, e le vedo come opportunità di miglioramento.
Questa storia è un racconto di fantasia, ogni riferimento a persone e situazioni realmente esistenti/esistite è puramente casuale. Trama e personaggi mi appartengono, e non gradisco i plagi, quindi per favore non prendeteli in prestito.
Questa storia si è classificata terza al Contest Scacco Matto! indetto da Fe85.  

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Capitolo 2
*** Furto ***


Era dentro la tenuta. Non credeva che sarebbe arrivata fin lì, anzi, a quel punto sarebbe già dovuta essere appesa per il collo. Eppure la sicurezza di Blake non aveva mai vacillato in quei giorni di pianificazione, e a quanto pareva era stato davvero bravo.
Il palazzo dei Lennox era bellissimo, molto diverso da quello del giovane conte che l’aveva invischiata in quel complotto. Era splendido, grande e curato, di un colore chiaro e dolce che gli donava un aspetto fiabesco. Il prato era di un verde brillante e per il giardino erano diffusi cespugli a forma di animali o statue, incredibilmente grandi. Daphne si chiese come facessero i nobili a trovare di buon gusto un cespuglio a forma di giraffa. Scrollando le spalle ricominciò il piano.
Sapeva perfettamente la disposizione delle guardie e delle porte di quel luogo, la aveva studiata per giorni, aggrappandosi a quell’unica possibilità di salvezza. Lei aveva provato a scappare, in tutti i modi, ma Blake non aveva usato guardie qualsiasi per controllarla, si era servito di quelle terribili creature invisibili e immaginarie che Daphne ripugnava e fingeva di non vedere. Rabbrividì solo al pensiero. Blake sosteneva che la sua non fosse pazzia, ma una vista speciale. Daphne si era convinta che fosse pazzo anche lui; ma quante possibilità c’erano che proprio lei avesse incontrato una persona con la sua stessa patologia? Beh, poteva anche accadere, solo che Blake non era solo pazzo, ma anche ricco, potente e pericoloso. Ma soprattutto pazzo.
Trovò immediatamente sul retro del palazzo la scala che portava al magazzino, inoltrandosi verso il basso. Prima di scendere buttò un’occhiata al muro che circondava il palazzo. Scavalcarlo non era difficile, ma scorse subito creature piccole e colorate volteggiare dinanzi alle mura, con i loro sorrisi angosciosamente perfetti e innaturali.
Scese le scale abbandonando l’idea. Aveva il cuore che tentava di fracassarle il petto, il sudore che stava rovinando il suo travestimento, facendo scendere qualche ciocca bionda dal cappello. Nessuno l’aveva notata fino a quel momento e non trovava nulla di strano in questo. Lei era nata con questo splendido dono. L’anonimato. Aveva la capacità di passare inosservata ovunque, di essere sempre insospettabile ed invisibile fra la gente. Le persone rimuovevano immediatamente il suo volto dalla memoria e ogni vago sospetto veniva prontamente rimosso. Inoltre Blake per farla infiltrare, le aveva fatto indossare abiti maschili da servitore e. dopo essere entrata a palazzo con il giovane conte, era sgattaiolata via senza alcun problema. Nessuno avrebbe notato la sua assenza, come nessuno aveva notato la sua presenza. Era solo un’ombra, una delle tante in quel giardino assolato. Quegli abiti poi le stavano bene, purtroppo non aveva curve pronunciate che potessero tradirla.
Entrò nel magazzino con un leggero cigolio della porta, e se la richiuse alle spalle con dolcezza. Il magazzino era buio e odorava di stantio.  In ogni angolo erano ammassati sacchi di patate, cipolle e farina, grossi cesti di frutta e cereali, e tante botti sigillate.
La porta si aprì di colpo e si richiuse con uno scatto e una ragazza si presentò davanti a lei. Daphne la riconobbe all’istante. Coincideva con la descrizione fattale da Blake. Cappelli mori e pelle scurissima. Aveva indosso un abito nero lungo fino alle caviglie e un grembiule bianco tutto merletti e fronzoli.
“Sei Anne?” Domandò la ladra con un’occhiataccia.
La ragazza annuì senza parlare e le tese il vestito che aveva fra le mani. Era identico al suo, ma aveva in più una cuffia bianca di pizzo. Daphne inorridì guardando quell’abito. Blake non aveva specificato che il travestimento sarebbe stato così umiliante. La servitrice di fronte a lei era una loro alleata a quanto aveva capito, ma non aveva idea di quali rapporti avesse con il conte.
Indossò l’abito togliendo i suoi guanti con riluttanza. I guanti lunghi che le aveva regalato sua madre. Con il travestimento da maggiordomo andavano ancora bene, ma con quell’abito no. Anne le porse anche una benda per coprire il tatuaggio della gardenia e le consegnò uno spolverino. Daphne si stupì e ammise che Blake era stato incredibilmente previdente e accorto. Infine nascose i suoi abiti dietro una botte.
“Lo studio è al terzo piano, se qualcuno ti ferma, dì che sei nuova e che stai sostituendo un’altra cameriera”, sorrise, “tanto qui nessuno si ricorda di tutti i servitori.”
La ragazza annuì, confusa dalla parlantina improvvisa di quella ragazza. Si era quasi convinta che non sapesse parlare, invece notò che aveva uno strano accento, sicuramente non era inglese.
“Devi sbrigarti, il padrone tratterrà il duca solo per mezz’ora.”
La ladra annuì e uscì subito dal magazzino per andare in cucina. Il calore e l’odore di bruciato si appiccicarono al volto con una ventata di vapore. Cuochi e serve sbraitavano chissà cosa, intenti ad accaldarsi presso i forni o le pentole, mentre il fumo si diffondeva per la cucina. Un uomo stava spennando un’anatra sopra un bancone sporco di sangue mentre una donna grassa girava in continuazione il mestolo in una pentola. La ragazza non si fece distrarre e uscì dalla cucina senza farsi minimamente notare. Dovette salire un’altra scala per risalire e si ritrovò su un corridoio.
Da lì l’arredamento diventava più semplice. Il pavimento era di marmo, il soffitto dipinto di un chiaro color salmone e alcune armature vuote decoravano il vestibolo. La ladra non poteva far a meno di pensare a quanto fosse diverso dal palazzo di Blake in cui aveva messo piede per la prima volta circa quattro giorni prima.
Di ripercorrere col ricordo:“Io non ci entro qua”, aveva detto guardando il palazzo decadente e oscuro.
Lui si era girato distratto, come se non l’avesse proprio sentita. “Cosa?”
“Non entro in quel posto orribile finché non mi dici che cosa diavolo vuoi da me.”
“Ma te l’ho già spiegato.”
Aveva alzato un sopracciglio. “Non è vero. Hai detto che cercavi una certa ‘gilda’ poi hai subito deviato il discorso. Cosa volevi in realtà? E cosa c’entra il piccolo popolo?”
Aveva sorriso. “Ogni cosa a sua tempo, Daphne”, le aveva risposto e lei aveva provato uno strano brivido sentendogli pronunciare il suo nome. Un brivido di paura e…? Fascino? Sì, quel ragazzo ne aveva tanto, era carismatico e molto pericoloso. Non doveva farsi abbindolare dal suo bel visino, i nobili erano tutti dei parassiti, quello non era diverso.
Lo aveva seguito oltre il portone principale, restia ad entrare. La villa all’interno era ugualmente in abbandono. Ragnatele dovunque, muri scrostati, tavoli e sedie mangiucchiati dai tarli. A parte qualche valletto era praticamente deserto.
“Ho fatto preparare un bagno per te. Lavati e riposati, ti aspetto in sala da pranzo per la cena.”
“Ma cosa…?”
Un servo la affiancò. Era alto e allampanato, i capelli grigi e uno sguardo austero.
“Ronald ti scorterà nella tua stanza, per qualsiasi cosa chiedi a lui.”
Lei aveva guardato turbata Blake che le sorrideva. Le si era avvicinato e le aveva preso il mento fra le dita, in un gesto prepotente. Aveva provato a colpirlo con una ginocchiata ma lui si era spostato prima che potesse riuscirci.
“Non fare sciocchezze, ladra, o ti do la mia parola che rimpiangerai il carcere”, aveva mormorato, senza abbandonare il suo sorriso.
Spaventata, aveva annuito meccanicamente, senza sapere più che fare.
La ragazza arrivò finalmente nell’atrio principale. Era grande e spazioso, con un grosso tappeto rosso persiano e due scalinate che si aprivano ai lati di un corridoio centrale. Blake aveva avuto ragione a dirle che non ci sarebbe stato quasi nessuno in giro. Il duca Edmund non voleva ficcanaso in giro per il palazzo.
Salì la prima scalinata, svoltò a destra e salì la seconda. Fu incredibilmente facile, incontrò solo due persone e nessuno la degnò di uno sguardo. Arrivata al terzo piano, proseguì per il corridoio, diretta alla penultima porta sulla sinistra. Sulla sua strada si frappose un uomo nobilmente vestito, con un fioretto al fianco. Le passò accanto senza dirle nulla, ma prima che potesse aprire lo studio, le riapparve alle spalle. “Ehi tu!”
Daphne trasalì. “Sì signore?”
“Non ti ho mai visto a palazzo, sei nuova per caso?”
“Sì signore, sostituisco Anne, che sta male”, inventò.
Quello annuì e fece un sorriso galante. “la mia stanza non è stata pulita molto bene, ti spiacerebbe tornarci un’altra volta dopo?” Il suo tono aveva un che di malizioso.
Maledizione! Imprecò la ladra.
“No, mio signore, ma se non pulisco lo studio del padrone, verrò punita.”
L’uomo annuì con gravità. “Non indugiare, ma ricordati anche la mia camera.”
La lasciò andare e la ragazza con un sospiro di sollievo entrò nello studio.
Non si soffermò a guardarsi intorno, scorse i punti essenziali: una scrivania, una libreria e un mappamondo. La sua vista si sfocò appena e i toni presero ad avere un soffuso colore smorto. Ogni oggetto aveva una sfumatura arancione, il colore degli umani. Ma proprio lì, al secondo cassetto della scrivania, c’era una luce bluastra che effondeva pulviscolo. Il colore della corte delle tenebre. Daphne sorrise. Troppo facile. Non sapeva il perché di quella vista sovrannaturale, sua madre le aveva detto che lei era speciale ed era capace di vedere le impronte di ogni creatura. Ma a dire la verità, non si sentiva ‘speciale’, ma solo diversa.
 Il cassetto ovviamente era chiuso, ma i suoi anni di ladra le avevano insegnato qualcosina. La serratura scattò dopo qualche tentativo e dopo un po’ di rovistare, trovò ciò che cercava. Il foglio era essenziale, bianco con quelle linee sottili nere ed eleganti. In fondo una firma compariva precisa, ammaliante e antica. Impregnata di un’oscurità profonda.
Melinoe.


Mi scuso per il ritardo, avrei dovuto aggiornare lunedì, ma causa problemi tecnici (internet non funzionava) ho dovuto rimandare. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e vi invito a recensire.

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


Blake era pensieroso sulla strada di ritorno. La ladra lo guardava con la coda dell’occhio, incuriosita dallo strano silenzio del ragazzo. Guardava fuori dalla carrozza con la fronte corrugata. In mano stringeva ancora il contratto del duca con la regina della corte delle tenebre, Melinoe.  Blake le aveva dato prove inconfutabili per credere all’esistenza di quelle strane ed inquietanti creature chiamate ‘il piccolo popolo’, ma Daphne non voleva ammettere che al mondo esistessero cose inspiegabili e magiche, ora che credeva di aver capito gli uomini, si ritrovava a doversi difendere da un’altra razza?
“Ora sono libera, giusto?” domandò, ridestando il conte dai suoi pensieri.
Lui si voltò lentamente e le sorrise. “Non ancora. Non voglio rischiare di lasciare andare una con il tuo dono.”
La ragazza si risentì. “Siete tutti uguali, non credere di essere il primo che tenta di sfruttarmi. Voi nobili pensate solo a voi stessi, il popolo può anche bruciare e voi rimarreste oziosi a preoccuparvi di come scacciare la noia.”
Blake non sorrise questa volta, abbassò gli occhi e la sua espressione divenne inspiegabilmente mesta. “Hai ragione, la maggior parte di nobili che ho conosciuto sono così. Il duca è un’eccezione, lui è ambizioso e astuto, uno di quelli che conquista subito le persone, che ispira fiducia. Ci cascammo tutti all’inizio.”
“Come all’inizio?” Chiese Daphne.
Blake guardò di nuovo fuori dalla carrozza, poi si voltò verso di lei. “Vuoi davvero sapere questa storia? Non ha un lieto fine”, disse con un sorriso triste.
Daphne considerò il fatto che della vita di quell’uomo non le interessava nulla. Ma il motivo di quell’improvvisa tristezza, sì. Da quando lo aveva incontrato, non aveva mai scorto nei suoi occhi una tale malinconia.
Annuì.
“È successo tre anni fa. Mia sorella, la contessa Juliet Faye Hammington andò in sposa a Edmund, il duca. La nostra famiglia era molto amica del duca, era un bell’uomo, giovane, carismatico, intelligente. Fu lui a chiedere la mano di Juliet. Mia sorella non era vista di buon occhio fra i nobili, diceva di vedere cose, parlava da sola e quando c’era lei accadevano strani eventi. Fu lei a rivelarmi dell’esistenza del piccolo popolo.”
“Li vedeva anche lei?”
Blake annuì. “Aveva la vista, non solo, era anche molto amata dalle fate e dai folletti. Io non le credetti all’inizio, ma poi tutto prese senso. A casa del duca s’indebolì molto, quando la rividi rimasi sconvolto da com’era diventata. M’infuriai con il duca e lei mi trattenne, dicendomi che era pericoloso, che non avevo idea di cosa stesse architettando.”
S’interruppe e i suoi occhi si strinsero. La ladra lo guardò ansiosamente. Se la sorella sapeva di questo perché non lo aveva denunciato? Dov’era questa Juliet? Perché non aveva usato lei invece di Daphne?
“Fu ripudiata. Il duca la rimandò a casa con la scusa che Juliet stesse impazzendo. Mia sorella cadde nello sconforto, mia madre risentì di tutti i pettegolezzi e la nostra famiglia passò in cattiva luce. Mia sorella andava dicendo che il duca si era alleato con le fate, che voleva il trono, e tutti pensavano che vaneggiasse, che fosse impazzita. Io provai a parlarle e lei pianse, dicendomi che tanto non le avrei creduto, che nessuno le avrebbe mai creduto.”
Contrasse i denti e le sopracciglia divennero oblique.
“E poi…?”
“E poi è morta”, rispose laconico, “suicidio, hanno detto. Ma io so che non è stato un suicidio. È stata buttata dal tetto”, ringhiò, senza alzare la voce.
Daphne non voleva essere cattiva, ma questa Juliet Faye Hammington le sembrava davvero fuori di testa, era probabile che si fosse suicidata.
“Come lo sai?”
“Me lo hanno detto le fate”, rispose con un mezzo sorriso, “quelle fedeli a mia sorella, quelle che la amavano. Decisero che ero il più idoneo a sapere la verità, perché iniziavo a credere ai suoi vaneggiamenti. Così si fecero vedere da me, e seppi ogni cosa.”
A Daphne vennero i brividi. Ecco che fine aveva fatto l’unica capace come lei di vedere le fate. Sapeva di stare rischiando, ma alla fine cos’altro le rimaneva da fare? Da quando sua madre le aveva fatto il marchio della gardenia, a dodici anni, la sua vita era peggiorata. Senza contare che dopo che era rimasta sola, non aveva più davvero vissuto. Non aveva nessuno al suo fianco, né uno scopo, né una casa. Era una ladruncola senza futuro, in fondo non aveva nulla da perdere.
Voltò gli occhi verso Blake. Aveva dei tratti del viso molto delicati, era un bellissimo ragazzo, se non fosse stato per quella fronte spesso corrugata. I suoi occhi erano molto ingannevoli e strani. Forse erano state le fate a renderli così chiari, vivaci e profondi. Ma non erano presuntuosi come le gemme, più umili, come semplici boccioli.
“Stai arrossendo”, commentò lui, fissandola.
Daphne sbarrò gli occhi e si portò le mani alle guance. “Non è vero!”
Blake rise. “Oh sì, hai il viso tutto rosso. Ti senti poco bene?”
Lei scosse la testa concitatamente e il ragazzo avvicinò una mano verso di lei. Avrebbe voluto mordergliela ma il gesto fu così delicato che non la spaventò. Le poggiò il palmo sulla fronte.
“In effetti sei un po’ calda. Non vorrei che ti prendessi un malanno. Appena arriviamo a casa, ti faccio preparare un bagno caldo.”
Quando tolse la mano, la ladra quasi la rimpianse. Il contatto le aveva provocato strane pulsazioni e sentiva il corpo acceso di percussioni. Forse qualcuno stava organizzando una festa dentro al suo petto, perché il suo cuore non voleva smettere di battere.
Si riscosse da quei pensieri assolutamente privi di senso e sconvenienti. Da quando in qua arrossiva e le veniva il batticuore? Non era una di certo una ragazzina che prendeva cotte per qualche conte dal bel visino. Doveva tenere i piedi per terra, o avrebbe fatto la fine di sua madre.

* * *

Appena tornati alla residenza degli Hammington, il conte si mostrò incredibilmente premuroso con lei. La aiutò a scendere dalla carrozza e ordinò che fosse preparato il suo bagno. Non c’era quella solita ironia che aveva ostentato i primi giorni.
“Smettila di comportarti così, mi metti a disagio”, gli disse infine.
Lui ridacchiò. “Ah quindi ti piaccio di più quando ti faccio la corte spudorata.”
Daphne arrossì di nuovo. “Smettila e basta di fare l’imbecille.”
Il bagno la rigenerò. Quei giorni a palazzo le avevano fatto capire quando la sua vita fosse squallida, e non solo per le ricchezze, ma anche per la compagnia di Blake. Nonostante lo detestasse, doveva ammettere che era bello avere un socio, qualcuno su cui fare affidamento. Ma questo presto non sarebbe più importato.
Quando uscì dal bagno, trovò un abito nella sua camera e un biglietto. Il vestito era incantevole e sfarzoso. Il corpetto terminante a V era decorato da lacci di raso incrociati fra loro e da perle che contornavano la scollatura ovale. Da esso poi scendeva la lunga gonna che finiva nello strascico elegante.
Il biglietto era di Blake e le diceva che avrebbero cenato insieme.
Lo indossò, arrossendo, si specchiò e stabilì che non era fatta per quei vestiti. Si lasciò sotto l’abito i guanti neri, nonostante facessero a pugni con tutto. Non le importava.
Scese le scale e raggiunse il ragazzo nella sala da pranzo. I servitori però le indicarono la terrazza e si recò lì. Trovò il conte seduto ad un piccolo tavolo che era stato trasportato sulla grande terrazza che affacciava sul giardino. Il cielo era punteggiato di stelle scintillanti e le fate canticchiavano melodie dolcissime, svolazzando nel firmamento.
“Cos’è tutto questo romanticismo?” Domandò, scettica.
Blake sorrise. “Accomodati. Dobbiamo parlare del piano.”
Rimase quasi delusa da quella risposta, ma si sedette e accettò.
“Perché ti sei lasciata i guanti? Sei ridicola”, la schernì.
Lei gli fece una linguaccia. “Credi di essere meglio tu, tutto agghindato da contino? E poi io questi non me li tolgo mai.”
Blake la guardò per un lungo istante. “Posso chiederti come mai?”
“Erano di mia madre”, rispose.
Calò un imbarazzante silenzio. “Parlami di lei”, la invitò Blake.
Daphne valutò la proposta. Voleva confidarsi con il ragazzo, eppure ne era spaventata. Non doveva fidarsi, doveva diffidare sempre e comunque. Ma quel ragazzo le aveva confidato tanto, poteva anche ricambiare.
“Mia madre aveva il mio stesso ‘dono’. Aveva lasciato la sua famiglia per me, perché ero figlia illegittima di un nobile che non intendeva sposarla.”
“La sua famiglia? Forse è per questo che non conosci la Gilda. Tua madre aveva lasciato la Gilda per quest’uomo.”
Daphne annuì, considerandolo irrilevante. “Mi ha insegnato tutto. Come sopravvivere, come ignorare il piccolo popolo e così via. A dodici anni mi fece il tatuaggio. Mi disse che finalmente ero pronta per sapere tutto, ma morì poco dopo”, concluse, abbassando gli occhi. “Non so perché, semplicemente non è tornata per molti giorni e poi ho letto che l’avevano trovata morta. I criminali erano ladruncoli che l’hanno tramortita troppo forte. Una vera sfortuna, eh?”
Rimase zitta, a trattenere le lacrime. Non aveva mai raccontato a nessuno questi fatti. Né li aveva mai espressi a voce alta. Ora capiva quanto quel capitolo della sua vita fosse ancora forte e doloroso, quanto si sentisse sola.
Blake si alzò piano e le si avvicinò. Si chinò al suo livello e la guardò con comprensione.
“Ti sarai sentita molto sola.”
Lei si morse il labbro e alzò lo sguardo per evitare che qualche lacrima intraprendente decidesse di scendere. Lui le sfiorò il viso e lei si ritrasse.
“Mi dispiace.”
La ragazza sorrise. “E di che? Non ci conosciamo nemmeno tanto.”
“Lo so. Ma sei diversa da come appari. Ti ho messa alle strette perché mi sembravi abbastanza forte da resistere. Ma ora vedo che sei fragile, come lo era mia sorella. Non è giusto che io ti esponga più a certi pericoli. Un vero uomo non lo permetterebbe.”
Daphne rise. “Ma quale vero uomo? Non hai nemmeno una barba decente.”
Lui si risentì. “Ma sei proprio… uno cerca di essere gentile…”
La ladra gli toccò una mano. “lo apprezzo molto”, rispose, con un sorriso molto dolce.
Blake intrecciò per un attimo le dita con lei, poi si allontanò e tornò a sedersi.
“Veniamo al piano”, esordì, “Ho intenzione di andare a parlare con Edmund. Lo farò confessare”.

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Capitolo 4
*** Scacco matto ***


Blake sedeva nella vecchia stanza di sua sorella, la schiena poggiata al letto, gli occhi rivolti al soffitto affrescato. Tra le mani stringeva un abito bianco, logoro, quasi uno straccio, tutto quello che rimaneva di Juliet Faye Hammington. Un vecchio abito da sposa polveroso e una data su una lapide. Poteva quasi vederla, oltre i cherubini scrostati sul soffitto: radiosa, di appena diciott’anni, i capelli intrecciati di fiori d’arancio. Doveva essere l’inizio della sua vita. E invece era stata la fine.
“Blake?” Daphne era appoggiata sulla porta. Chissà da quanto era lì. Indossava un abito scuro, che un tempo era appartenuto a Juliet. Gliela ricordò tanto, in quel momento; la figura di sua sorella si sovrappose a quella di Daphne.  
Lei e Daphne non si somigliavano affatto, chioma di corvo e di grano, occhi verdi e blu. Eppure avevano tanto in comune. Lo stesso dono. La stessa maledizione. Ed erano a un passo dall’avere anche la stessa fine.
“Blake?”
“Sto bene”, abbozzò un sorriso, “Devo andare. E’ ora.”
“Dobbiamo andare.”
“Tu resti qui.”
La ladra aggrottò la fronte, incrociando le braccia sottili sul petto. “Io vengo con te. Ci sono dentro fino al collo. Non puoi escludermi adesso.”
Blake scattò in piedi, abbandonando l’abito di Juliet a terra, ai piedi del letto. Prese il mento di Daphne tra le mani. “Daphne, ascoltami. Non puoi venire con me. Se ti scoprono…”
“Mi hai esposto a rischi peggiori.”
“Ma era necessario!” Blake tornò indietro, si lasciò cadere sul letto. Sollevò una nube di polvere, e tossì. Si prese la testa tra le mani, mordendosi il labbro finché non sentì il sapore metallico del sangue. “Ti prego”, mormorò, “Non venire. Non voglio che tu finisca come lei.”
Daphne annuì lentamente. S’inginocchiò di fronte a lui. Lo prese per i polsi, gli fece spostare le mani. “Non verrò. Ma promettimi che non ti caccerai nei guai.”
Blake sorrise amaramente. “Credevo che nulla ti avrebbe fatto gioire più della mia morte, ladra.”
“E’ così, infatti. Ma se ti beccano potrebbero scoprire anche me.”
Il ragazzo sorrise. “Allora starò attento.”
“Aspetta!” Blake si voltò. Inarcò un sopracciglio. Daphne prese un respiro, attraversò la stanza a grandi passi. Si fermò davanti a lui, il viso arrossato e il respiro irregolare. Si alzò sulle punte, la chioma bionda mossa appena dal vento che passava per la finestra aperta. Premette le labbra sulla guancia di Blake, solo per un paio di secondi, non di più. Ma a Blake parve durare in eterno.
“Buona fortuna”
Il giovane si sforzò di sorridere. “La fortuna è per i principianti.”
* * *
La carrozza si arrestò con uno scossone. Blake sospirò, rassettandosi il soprabito scuro. Non lo avrebbe mai ammesso, ma era terrorizzato dall’idea di affrontare Edmund. Suo cognato aveva dimostrato ampiamente la sua mancanza di scrupoli e la sua follia. Di certo non si sarebbe arreso facilmente.
Il cocchiere, uno sbarbatello biondo sui quindici anni, aprì esitante lo sportello. Portava il berretto scuro storto, i capelli scompigliati appiccicati alla fronte. Blake non ricordava neanche il suo nome. Lo aveva impiegato il giorno precedente, perché somigliava abbastanza a Daphne da non attirare l’attenzione di Edmund. Non aveva idea degli intrighi soprannaturali che si tessevano in quel palazzo dalle mura luminose. Blake lo invidiava.
“Cognato!” Edmund stesso era accorso ad accoglierlo, vestito di un azzurro delicato, i capelli d’oro raccolti in una coda ordinata. Sorrise, ma i grandi occhi azzurri rimasero freddi. “Non ti vedo per due anni, e poi due volte in pochi giorni, a cosa devo questo onore?”
 “Ho pensato di approfittare della tua offerta di giocare a scacchi insieme”, Blake strinse gli occhi, ricambiando il sorriso con un ghigno storto, “Inoltre, ho delle informazioni su un furto avvenuto nella tua proprietà ieri l’altro. Credo che le troverai illuminanti.”
Un lampo di rabbia passò sul viso del duca, così rapido che per un attimo Blake credette di averlo solo immaginato. “Vogliamo entrare, allora?”
Un quarto d’ora dopo, Blake sedeva su una sedia drappeggiata di pregiata seta rossa. Prese l’alfiere di ebano, muovendolo con cura attraverso la scacchiera, sino a colpire con delicatezza il cavallo d’avorio. Il tonfo del pezzo che colpiva il piano decorato parve rimbombare nella stanza silenziosa. Edmund alzò un sopracciglio curato. “Sei più bravo di quanto mi sarei aspettato, cognato.”
“Sono un uomo pieno di sorprese.”
“Ma di poche finanze, temo. Ricordo bene la topaia in cui abiti. La tua povera sorella era incredula innanzi al lusso che ci potevamo permettere in questa casa.” Il duca fece un ampio gesto con il braccio, indicando i divani cremisi, le finestre ampie, i tappeti pregiati.
Blake strinse le labbra, ignorando un accesso di rabbia che si era fatta prepotentemente strada nel suo petto. Non avrebbe mai dato la possibilità al suo cognato bastardo e assassino di vederlo perdere la calma. Non gli avrebbe dato questo potere.
“Ho fiducia che tutto ciò cambierà presto”, disse invece, poggiando il mento sulle mani, gli occhi stretti e un sorriso felino sulle labbra.
“Hai intenzione di sposare una ricca borghese alla caccia di un titolo nobiliare? Ho sentito che è molto comune fra i nobilastri in rovina.”
“Sarai tu a rendermi ricco”
“Di cosa stai parlando?”
 “Sai a cosa mi riferisco. Ho il tuo contratto, basta uno schiocco di dita e marcirai nella torre bianca in attesa dell’esecuzione.” Blake rise appena. Edmund non sapeva quanto l’idea gli facesse piacere.
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Del contratto che hai firmato con Melinoe. Lei ucciderà la regina, e in cambio tu assisterai le fate nella loro caccia ai bambini umani.”
“Non ne so niente.” Edmund mangiò l’alfiere con la regina. “Scacco. Fai la tua mossa.”
“Lo racconterò alla regina”
“Fallo pure. Sarà divertente sentirti raccontare la tua storiella sul piccolo popolo a sua maestà. Fai la tua mossa.”
Blake digrignò i denti. Le mani gli fremevano dal desiderio di rovesciare la scacchiera. Afferrò l’alfiere che gli rimaneva. Lo sbatté tra la regina e il re. Il tavolino tremò per la forza del colpo.
Edmund sorrise, trionfante. Mangiò l’alfiere con la torre. “Scacco matto. Ho vinto.”
Blake annuì. “Hai vinto, sì. Una battaglia, non la guerra. Quella non è ancora finita, cognato.” Sputò l’ultima parola come fosse un insulto.
“Invece è proprio finita, Blake. Ora va, prima che ti citi per calunnia o ti mandi in manicomio. Come quella pazza di tua sorella. Anche lei non faceva che blaterare di fate e di magia, e questo l’ha portata alla tomba.”
Blake scattò in piedi, rovesciando la sedia di legno massiccio. Afferrò Edmund per il bavero della camicia. Lo spinse contro la parete. “Non osare parlare di lei in questo modo.” Tenne il duca bloccato contro il muro ancora per qualche attimo, stringendo la presa attorno al collo.
Guardò il suo viso diventare paonazzo, sentì le sue mani sudate cercare di liberare la gola della sua presa ferrea. Aveva la vita e la morte del duca di Lennox in suo potere; bastava un solo gesto, stringere appena la presa, e Edmund si sarebbe accasciato privo di vita al suolo. Il pensiero gli strappò una risata.
Ma lo lasciò andare. E mentre il duca era a terra a recuperare il fiato, lui si voltò e fece per andarsene.
“Aspetta”
Blake non si degnò di voltarsi. “Cosa vuoi?”
“Potevi uccidermi. Perché non l’hai fatto?”
Blake lo guardò da sopra la spalla. “Perché io non sono un assassino. Io non sono te.”
Stavolta fu Edmund a ridere, una risata bassa e spezzata dai colpi di tosse. Per la prima volta, il divertimento raggiunse i suoi occhi. “Su questo hai ragione. Tu non sei me. Sei firmassi un contratto come quello che tu mi accusi di aver firmato, cosa ti fa pensare che onorerei l’accordo? Ormai avrei ottenuto quello che volevo”, c’era qualcosa di folle nella luce che brillava negli occhi del duca, “Pensaci.”   

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Capitolo 5
*** La corte delle tenebre ***


Blake entrò a palazzo a grandi falcate, furioso. Daphne sobbalzò quando fece irruzione nella sua stanza, fuori di sé. Il conte si accasciò su una poltrona, opposta a quella dov’era rannicchiata la ladra, che stava leggendo un libro.
“Insomma è andata bene”, commentò, osservando la furia negli occhi del ragazzo. Non lo aveva mai visto perdere il controllo in quel modo.
Blake strinse i pugni. “Sono stato un ingenuo, è ovvio che non mi crederà nessuno! Edmund farà di tutto per farmi passare per un pazzo, come ha fatto con Juliet”, disse concitatamente, parlando quasi con se stesso.
La ragazza strinse gli occhi. “Ci deve essere un altro modo.”
Blake scosse la testa. “No. È inutile, senza contare che io…” S’interruppe.
“Cosa?”
“Potevo ucciderlo, Daphne, era in mano mia. Potevo ucciderlo e solo Dio sa quanto volevo ucciderlo, eppure non ce l’ho fatta. Come posso pensare di sconfiggerlo con quest’atteggiamento?”
La ladra si alzò e gli si avvicinò. “Ehi, “quest’atteggiamento” si chiama onore, compassione. Chiaro? Il tuo sarebbe stato solo un omicidio, una vendetta. Tu non sei così.”
Blake alzò gli occhi verso di lei, nuovamente tranquillo. “Grazie, anche se non ne sono ancora convinto.”
Lei scrollò le spalle, “Di nulla. E poi… sono contenta che tu sia tornato illeso”, gli confessò, lasciando uscire un sospiro di sollievo che aveva trattenuto per ore e ore.
Lui le sorrise, anche se con rammarico. “Che importa tanto? Ormai Edmund sa di me, e il piano è fallito. Non c’è più nulla da fare.”
Si alzò, e si diresse verso la porta. “Puoi restare qui quanto vorrai”, la informò, e uscì silenzioso.
Daphne rimase a fissare la porta da cui se n’era andato, aspettandosi che da un momento all’altro tornasse con un piano di riserva. Ma non accadde. Si sentì spaesata. Era finito tutto? La loro intesa, la loro collaborazione… era quella la conclusione? Questo voleva dire che fra loro non c’era più nessun patto e che quindi era libera. Poteva finalmente andarsene, lasciare quel palazzo spaventoso e quel ragazzo così affascinante e spudorato. Poteva tornare alla sua vecchia vita.
Si avvicinò alla finestra e guardò il giardino scuro e pieno di erbacce. Si aggiravano molte fate, folletti e quant’altro fra l’erba. Si divertivano a strappare i fiori e alcuni tiravano i baffi delle guardie al cancello.
Daphne non voleva lasciare Blake. Ora capiva che non voleva tornare ad essere sola, a non parlare con nessuno, a non avere né amici né famiglia. A diffidare di chiunque e a nascondersi. Blake le aveva fatto capire che il mondo poteva essere migliore, e lei non avrebbe rinunciato a ciò che aveva ottenuto. Per lo meno, non avrebbe lasciato il giovane conte con quel finale scadente. Avrebbe trovato lei una soluzione, a costo di andare dal duca Lennox di persona.
Sobbalzò quando un folletto iniziò a picchiettare il piccolo pugno contro la vetrata. Indietreggiò spaventata e quello parve irritarsi. Era magrissimo, con le braccia e le gambe che parevano due ramoscelli, una foglia rossastra a fargli da vestito e due scarpe con la punta arrotolata. La testa era sproporzionata rispetto al corpo, le orecchie superavano la lunghezza delle braccia e il naso sporgeva quasi appuntito. Aveva gli occhi neri e sorridenti, una zazzera di capelli verdi scompigliati e un cappello di stoffa rossa con la punta piegata.
Batté nuovamente alla finestra e Daphne si schiacciò contro il muro, sperando che se ne andasse. Quello infine girò e se ne andò dalla finestra, rotolando giù. Non aveva le ali come le fate, perciò Daphne pensò che fosse caduto di sotto.
Sentì qualcosa tirarle il vestito e trovò il folletto che si era attaccato con una manina all’abito. Cacciò un urlo e tentò di scrollarlo via, ma quello si arrampicò lungo il vestito fino a raggiungere il corpetto.
“Ascolta Bwca!” Gridò con una voce sdoppiata. “Bwca vuole solo parlare con te.”
Daphne trattenne un altro urlo e guardò il folletto appollaiato all’altezza del seno.
“Bwca ha sentito il discorso fra il marito e il fratello di Faye”, le rivelò.
La ladra si domandò per quale motivo quel folletto chiamasse la sorella di Blake con il secondo nome. “Chi è Bwca?”
“Io sono Bwca e Bwca è disposto ad aiutarvi.”
Daphne era paralizzata. Pregava solo che sparisse in uno sbuffo. “Perché allora sei venuto da me e non da Blake?” Chiese irritata, con la voce tremante.
Quello gonfiò le piccole guance, afferrò il capellino ed iniziò a strizzarlo con le mani.
“Quell’umano una volta ha mangiato il formaggio che Bwca aveva preparato per la dolce Faye. Bwca non parla con quello”, rispose, infantile. 
Ci mancava solo il folletto permaloso. Prima che Daphne potesse chiedergli altro, Blake spalancò la porta ed entrò, guardando la stanza preoccupato. Subito il folletto si rannicchiò contro Daphne e squadrò il conte.
“Cos’è successo? Ti ho sentita gridare.”
Lei, infastidita, indicò la creaturina appesa al suo corpetto. Blake cercò qualcosa con lo sguardo.
“Cosa?”
“Non lo vedi?”
“Vedere cosa?”
“Questo folletto che sta attaccato al mio vestito. Dice di aver sentito la conversazione fra te ed Edmund e che vuole aiutarci.”
Il conte sorrise. “Fatti vedere piccolo.”
“Non vuole, dice che gli hai rubato il cibo.”
“Il formaggio! Ha mangiato il formaggio per la signorina Faye”, la corresse, arrabbiato.
Daphne lo ignorò.
“Ti chiedo perdono, sono certo che non l’ho fatto con cattive intenzioni.”
Il folletto voltò la testa testardo, ma alla fine si mostrò.
“Quindi hai sentito tutto? E saresti disposto a testimoniare davanti a Melinoe?”
Quello annuì.
Daphne alzò gli occhi, senza capire. “Di cosa state parlando?”
“Ho dimenticato di dirti, che Edmund mi ha fatto intendere che non ha intenzione di rispettare il patto fatto alla regina Melinoe. Se questo folletto ha sentito, potremmo portarlo davanti alla regina e fargli confessare quello che mi ha detto il duca. Il piccolo popolo non può mentire, perciò Melinoe gli dovrà credere per forza. A quel punto sono certo che interverrà, le fate sono molto crudeli con chi si prende gioco di loro.”
Daphne staccò delicatamente Bwca dal corpetto, ed il contatto con quella creaturina la fece rabbrividire. La posò sul letto a baldacchino e guardò Blake negli occhi.
“Sei forse impazzito? Tu vuoi andare da questa terribile, folle regina delle tenebre? Sei completamente ammattito? Solo il nome la dice lunga su di lei.”
Blake annuì lentamente, “Lo so. Ma non ci faranno del male se diremo loro la verità.”
La ladra strinse gli occhi. “Sei pazzo, io non ci vengo.”
Il ragazzo la guardò tristemente. “Non sei obbligata a venire.”
Lei incrociò le braccia. Non sarebbe mai andata a farsi ammazzare da quei mostriciattoli. Blake era davvero uscito di senno se credeva che lei sarebbe venuta.
“Saresti disposto a venire solo con me?” Domandò al folletto.
Quello sporse il labbro in fuori. “Bwca si sforzerà per la regina Melinoe.”
“Puoi portarmi alla corte delle tenebre?”
Annuì.
“Allora mi preparo subito. Ci muoveremo questa sera sul tardi.”
Guardò un’ultima volta Daphne, che si voltò indispettita. “Allora ti saluto adesso.”
Lei non si voltò. “Buona fortuna”, disse solamente.
Blake uscì.

Era giù nell’atrio. Aveva indossato abiti comodi, da borghese. Aveva al fianco un fioretto e al collo un pesante ciondolo di ferro. Bwca lo seguiva da terra, tenendosi lontano dal ferro.
La carrozza lo aspettava. Il folletto gli aveva rivelato che una delle entrate era a Hyde Park.
Uscì dal palazzo e si diresse verso la carrozza.
“Aspetta!” Gridò Daphne.
Blake si voltò, e la guardò correre e inciampare sul vestito, che poi raccolse con le mani. Lo raggiunse subito e riprese fiato. Il ragazzo non le staccava gli occhi di dosso.
“Vengo anch’io.”
“Oh, qualcuna non poteva resistere un attimo senza di me”, commentò malizioso.
Lei gli pestò un piede. “Taci una buona volta, vengo solo perché senza di me combineresti un disastro.”
Si aprì lo scialle e accolse il folletto dentro di esso, celandolo alla vista.
Blake non poté fare a meno di notare che era bellissima con quell’abito, e che era davvero felice che venisse con lui. Le aprì la portiera e la fece entrare per prima nella carrozza.
Così arrivarono a Hyde Park che era notte. Era una sera molto buia, una sera di luna nuova. Il folletto li guidò attraverso i prati e le radure, sopra un ponticello e accanto ad un piccolo lago.
Il parco di notte era spaventoso. Daphne ci era già stata, ma mai con il buio. Gli alberi sembravano minacciosi e contorti, e le ombre si muovevano repentine, facendole venire i brividi. C’era un silenzio irreale, si udivano solo versi di animali spauriti e il frusciare del bosco.
S’inoltrarono lì dove la vegetazione era più folta e avanzarono scostando rami e foglie. Bwca li fece fermare in una radura, coperta da un grande e antico salice piangente verde. Il folletto, ancora nascosto nello scialle, costrinse la ragazza ad avvicinarsi all’albero. Toccò con una manina l’enorme tronco in cui si aprì, con un rumore gutturale, un’entrata oscura. Blake e Daphne si scambiarono uno sguardo inquieto, la ragazza deglutì e il conte la prese per il polso, scostandola dietro di sé.
“Stammi dietro, vado per primo”, disse ed entrò nella piccola apertura. Doveva stare chinato per non sbattere la testa. Daphne lo seguì e iniziarono a scendere lungo quelle che sembravano scale di legno.
“Dove diavolo stiamo andando?”
“Non ne ho idea”, rispose il ragazzo, serio.
Non riuscirono a finire la scala, poiché il pavimento si aprì sotto i loro piedi e precipitarono per qualche metro, finendo contro un mucchio di foglie autunnali.
Daphne si toccò dolorante il fondoschiena e Blake le porse una mano per tirarsi su.
Erano nel buio più totale. La ragazza si strinse al conte, guardandosi in giro freneticamente. Aveva sempre detestato il buio e l’oscurità, soprattutto quando erano totali.
Blake si fece avanti. “Sono il conte Alexander Owen Blake Hammington. Fratello di Juliet Faye Hammington, e sono qui per incontrare Melinoe”, gridò.
Alcune luci rosate si accesero qua e là, accompagnate da bisbigli e sospiri. Daphne capì che Blake aveva detto le cose sbagliate.
Erano circondati.

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Capitolo 6
*** Melinoe ***


Gli occhi del popolo fatato erano puntati su di loro, sguardi sovrumani che trafiggevano carne e anima di Daphne come aghi di ghiaccio.  Rabbrividì, facendosi più vicina a Blake.
Ovunque nella stanza sentiva mormorare, grugnire, sibilare. Vedeva squame, piume e pelle. Troll e folletti si facevano sempre più vicini e lo spazio libero attorno ai due umani si riduceva ogni secondo. Il resto delle creature restava indietro, a distanza di sicurezza dai talismani di ferro che loro portavano al collo, ma si sporgeva per vedere meglio cosa sarebbe accaduto.
Un cupo latrato si levò in lontananza, e la folla inizio a dividersi con lamenti e scossoni. Una ragazza percorse in fretta il cammino creatosi, una bestia nera trotterellava al suo fianco.
Daphne spalancò gli occhi, incapace di dire quale delle due figure fosse la più strana- o la più inquietante.
Il mastino aveva occhi rossi come tizzoni ardenti, il grugno storto e troppo grosso rispetto al corpo, dalle fauci spalancate colava bava. Le zampe tozze terminavano in tre artigli ricurvi, che graffiavano il pavimento di pietra nera.
La ragazza era minuta, i capelli incolori che le danzavano attorno al viso pallido come mossi da una brezza leggera. Le vesti erano di un azzurro luminoso e le arrivavano appena alle ginocchia. Le gambe snelle erano ricoperte di una fitta peluria bianca e terminavano in zoccoli caprini.
“La regina vi aspetta”, annunciò. Vedendola da vicino, Daphne notò i tratti della capra anche nel suo viso oblungo e nei suoi occhi tondi e scuri.
Blake e Daphne non mossero un muscolo.
La ragazza-capra sbuffò. “Cosa avete da fissare? Non avete mai visto una ragazza con gli zoccoli prima d’ora?” Incrociò le braccia sul petto, in attesa di una risposta. I due tacquero. ”No? Be’, ora ne avete vista una. Non è fantastico? Avrete qualcosa da raccontare ai vostri nipoti. Ora muoviamoci.”  Non attese una replica e si girò, ripercorrendo velocemente la via da cui era venuta. Si fermò e voltò il capo. “E rilassatevi. State innervosendo Thelma.”
Blake la rincorse, e dopo un attimo di esitazione Daphne si raccolse le gonne e lo seguì.
“Thelma?” Ansimò Blake, “Chi diavolo è Thelma?”
“Il mio cane. Thelma.” La ragazza-capra indicò la belva nera che si stava strusciando contro le sue ginocchia.
Blake inarcò un sopracciglio. “Il mastino infernale si chiama Thelma?”
La ragazza-capra sbuffò. “Beheeee, che c’è di strano?”
Blake non rispose. Il suo sguardo era nuovamente perso in lontananza, le labbra tirate in un sorriso mesto. Daphne gli sfiorò la mano, intrecciando delicatamente le dita con le sue. Blake sussultò, voltandosi a guardare la ragazza. I suoi occhi verdi ardevano, e per la prima volta, la giovane ladra si rese conto che non c’era soltanto follia in quel fuoco. Determinazione, stizza, orgoglio. Blake era pazzo, questo sì. Ma non era solo quello.
Il conte strinse la mano di Daphne nella sua, e sorrise. La ragazza si sorprese nel non provare più poi tanta paura al pensiero di affrontare Melinoe. Non con Blake al suo fianco.
“Siamo arrivati, piccioncini.”, la ragazza-capra si era fermata innanzi a una porta di legno scuro, ricoperta d’intricati motivi di rose battute, “Spero abbiate informazioni davvero importanti, la regina vi darà in pasto alle sue rose altrimenti.”
Le porte si spalancarono e i due ragazzi entrarono nella sala del trono.
La cosa che colpì Daphne prima di tutto il resto furono le rose. Erano ovunque, nere come un incubo, coperte di schizzi rossi - sangue, si disse con un brivido. Si arrampicavano sul soffitto e sulle pareti, strisciavano sul pavimento. I boccioli schioccavano ritmicamente, le corolle estraevano e rinfoderavano zanne candide.
La regina sedeva su un trono intagliato, due bracieri di pietra stavano ai lati. Lunghi capelli cremisi le incorniciavano il bel viso dai lineamenti affilati, ma la sua bellezza era macchiata da orribili occhi, bui e completamente neri come quelli di un corvo. “Dite di avere delle informazioni”, la voce della regina era suadente e melodiosa, “Parlate.”
Daphne sospirò. Melinoe parlava in maniera così rassicurante. Sarebbe stato così facile spiegarle tutto. Che male poteva farle? Potevano fidarsi di lei.
La ladra scoccò un’occhiata a Blake. Aveva gli occhi socchiusi, lo sguardo perso in lontananza. Daphne gli strinse la mano, ma stavolta lui non si riscosse. La guardò appena. Era come se nei suoi occhi qualcuno avesse spento le fiamme. Daphne strinse i denti. Non potevano permettersi di cadere vittime dell’incanto di Melinoe. “Prometteteci prima che non ci farete del male”
Le labbra della regina si storsero in una smorfia. Fece un gesto secco con la mano, e le dita divennero artigli giallastri. “Non ti fidi di me, piccola umana?"
Daphne sobbalzò, ma non indietreggiò. “Mai fidarsi di una fata”
La regina rise. La sua risata era delicata e argentina come l’acqua sulle rocce. A Daphne gelò il sangue nelle vene. “Cosa c’è da ridere?”
“E’ strano che tu dica che non ci si può fidare di una fata, visto che il nostro sangue scorre nelle tue vene”
La giovane spalancò gli occhi. Sangue di fata, lei? Impossibile! Eppure… “E’ la verità?” Chiese, guardando Blake. Il ragazzo evitò il suo sguardo. Era tutta la conferma di cui Daphne aveva bisogno. Ogni fibra del suo essere le urlava di scappare, correre via senza mai guardarsi indietro. Ma non poteva. Non stavolta. “Promettetemi che non ci farete nulla”
“Se insisti…”
“Insisto” Daphne sostenne lo sguardo di Melinoe senza muoversi, esitare o tentennare. Sangue di fata. Le aveva rovinato la vita, l’aveva perseguitata e terrorizzata. Era sempre fuggita. Non era mai servito a nulla. Non sarebbe più scappata. Poteva affrontare Melinoe, poteva sopportare il peso del suo sangue. A tastoni trovò il bordo del guanto che copriva il tatuaggio a forma di gardenia e lo tolse.
“Avete la mia parola che non vi verrà fatto alcun male”, sibilò Melinoe. Era furibonda, le mani già artigli, le rose schioccavano le fauci attorno a lei. Daphne sorrise. Aveva vinto.
“Voi avete un accordo con Lord Lennox. Lui non starà ai patti. Non vi darà nulla di quanto vi ha promesso.”
“E’ possibile che l’umano mi abbia mentito, ma potreste anche essere voi a mentire.”
Daphne sorrise. “Abbiamo un testimone. Un folletto. E il piccolo popolo non mente.”
“Un testimone! Interessante. Non lo vedo, dove lo nascondi?”
La ladra aprì lo scialle, lasciando uscire Bwca. Il folletto si stiracchiò, sbadigliando appena. “Proprio qui”
Melinoe si rizzò sul suo trono. Un lampo passò nel sguardo da uccello. “E sentiamo, cosa ha udito il folletto?”
Bwca gonfiò il petto. “L’umano, Lennox, ha detto che non vi avrebbe dato niente, mia signora.”
La fata scattò in piedi. Le rose presero a sibilare e snudarono le zanne, muovendosi inquiete attorno alla loro signora. “Ah, è così?”, gridò, “Non mi darà nulla? Non sa cosa lo aspetta. Come ha osato credere di potermi ingannare? Supplicherà di essere tra le fiamme dell’inferno quando avrò finito con lui.” Fece una pausa, lisciandosi le vesti e respirando profondamente. Puntò i suoi occhi neri sui due ragazzi. “E voi cosa volete da me in cambio di questa informazione?”
“Nulla”, rispose Blake, “Solo che lo fermiate.”
“Quando lo avrò raggiunto di lui  non resterà più nulla.”
“Ma voi non potete raggiungerlo. Non potete entrare in una casa umana senza invito, e indossa sempre i guanti al contrario quando è fuori.”
La regina fulminò il conte con lo sguardo. “Immagino che tu abbia una soluzione”
Blake sogghignò. “Domani pomeriggio, noi saremo a casa sua per il tè, e vi faremo entrare. A quel punto sarà tutto vostro.”
Melinoe sorrise. “Potresti quasi piacermi, umano. Seleine!”
La ragazza-capra che li aveva accompagnati dalla regina trotterellò nella stanza con Thelma al suo fianco. “Sì, mia signora?”
“Accompagna gli umani fuori di qui. Sani e salvi.”
Seleine annuì. Blake e Daphne la raggiunsero in fretta, ansiosi di lasciarsi la corte delle Tenebre alle spalle.
“Per le corna di mio zio Herbert! Che cosa le avete detto? Non l’avevo mai vista tanto furiosa.” Chiese la ragazza-capra in un sussurro non appena le porte della sala del trono si furono chiuse dietro di loro, i grandi occhi tondi spalancati.
Blake fece spallucce. “Non ha senso dirtelo. Lo scoprirai presto comunque”
“A maggior ragione, dimmelo ora”
“E’ una lunga storia. Te la spiego mentre andiamo via.”

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Capitolo 7
*** La fine del gioco ***


Daphne respirò profondamente, la schiena poggiata al muro. Scoccò una rapida occhiata al corridoio vuoto. Edmund ancora non si vedeva. Eppure sarebbe già dovuto essere lì. Si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice, mentre l’altra mano serrava il talismano di ferro in una stretta che lasciava il segno.
Due uomini ben vestiti svoltarono l’angolo in fondo al corridoio. Uno era il nobile che aveva tentato di sedurla alcuni giorni prima, l’altro era Edmund. Daphne lo riconobbe da un dipinto che le aveva mostrato Blake quella mattina. Strinse gli occhi, preoccupata dagli effetti che la presenza dell’altro uomo poteva avere sul piano. E se l’avesse riconosciuta?
Non ha importanza, si disse,E’ la mia unica opportunità. Corse, scontrandosi con Edmund a metà corridoio, facendolo rovinare a terra, lei sopra di lui. “Mi dispiace terribilmente, mio signore! Lasciate che vi aiuti!” Afferrò il polso del duca e lo tirò in piedi, rassettandogli gli abiti. Sorrise, facendo del suo meglio per avere un’espressione contrita.
Edmund sembrava troppo sorpreso per ribattere, e Daphne si congedò con un piccolo inchino e di allontanarsi nella direzione da cui erano venuti i due uomini.
“Aspetta”
La ragazza si voltò. Era stato l’altro nobile a parlare. La guardava con espressione confusa. “Io ti ho già vista da qualche parte”
Daphne tacque, tenendo gli occhi bassi. Pregò che l’uomo non ricordasse il giorno preciso del loro incontro. Lui poteva anche non sapere nulla, ma Edmund avrebbe tirato le sue conclusioni. Non poteva permettersi di venire smascherata.
“Alcuni giorni fa ti ho chiesto di venire nella mia stanza. Ma tu non sei venuta. Come mai?”
La ladra sorrise, scoccando al nobile uno sguardo languido da sotto le lunghe ciglia nere. “Non ne ho avuta la possibilità. Ma oggi dovrei farcela, se l’offerta è ancora valida.”
L’uomo sogghignò “E’ ancora valida.”
“Bene” Daphne s’inchinò di nuovo e si allontanò. Contò tre porte nel corridoio affrescato ed entrò nella quarta. Si trovò in una biblioteca enorme, dai soffitti a volta. Si addentrò tra le pareti ricoperte di libri. Due a destra, due a sinistra. Giunse in una saletta senza librerie, gli unici mobili due poltrone di pelle scura. Anne era in piedi in un angolo della stanza, alle spalle di una grande finestra che dava sul giardino. “Ce l’hai?” Chiese la donna appena vide Daphne.
La ragazza aprì il palmo, mostrando la moneta di ferro che aveva sottratto dalla tasca di Edmund quando lo aveva aiutato a rimettersi in piedi. “Ovvio”
“Come hai fatto?”
“L’ho fatto cadere e poi gliel’ho tolta di tasca mentre lo aiutavo a rialzarsi.”
Anne sbatté le palpebre. “Io non sarei mai stata capace di fare una cosa del genere.”
Daphne si strinse nelle spalle. “E’ un trucco che impari in fretta quando vivi per strada.” Raggiunse la cameriera alla finestra. Era una giornata particolarmente soleggiata per essere Londra, ma soffiava un vento impetuoso, che piegava gli alberi. Un brivido le corse lungo la schiena. Quel vento non era naturale, lo sentiva. “Tocca a te, ora.”
Sentì Anne prendere un profondo respiro e la vide aprire la finestra con dita tremanti. Immediatamente il vento raggiunse le due giovani, scompigliando loro i capelli e sollevando loro le gonne. Anne afferrò con stizza l’orlo del suo abito per tenerlo a posto. “Perché devo farlo io?”
“Deve essere qualcuno che abita in questa casa a invitare Melinoe. Altrimenti l’invito non sarà valido.”
Anne annuì. “Le porte di questa casa sono aperte a Melinoe e al suo seguito quest’oggi.”
Il vento parve rafforzarsi, colmò la stanza, portando con sé grida e ululati lontani, che si fecero man mano più forti. Daphne vide le forme spettrali di cavalieri, destrieri e cani da caccia. Rabbrividì. “Corri”
Lei e Anne percorsero la via a ritroso, giunte nel corridoio dove Daphne aveva derubato Edmund si separarono. Anne si affrettò verso le cucine, Daphne proseguì per la sala degli scacchi. Il vento attorno a lei era insopportabile, i latrati e le grida assordanti. Daphne corse più veloce che poté, sino alla stanza dove Blake si trovava con Edmund. Spalancò la porta, e il vento la precedette. I due uomini stavano giocando a scacchi. Edmund aveva i pezzi bianchi.
“Cosa c’è?” Chiese il duca. Poi notò il vento, e sentì le urla. “Ma cosa…”
Blake impallidì e scattò in piedi, raggiunse Daphne in tre passi, la strinse a sé. “La caccia selvaggia”, mormorò, “Non guardare.”
Daphne ubbidì, stringendosi a Blake e nascondendo il viso nel suo petto. Il vento turbinava attorno a loro. Edmund gridò, e la ladra affondò il volto nella giacca del conte, decisa più che mai a seguire il suo consiglio. Non avrebbe guardato. Non voleva vedere nulla. Il vento spazzava la sala, le urla disumane riverberavano sulle pareti.
Poi tutto finì, il vento si placò e le grida si allontanarono lentamente. Blake e Daphne si separarono esitanti. La stanza era a soqquadro, i mobili rovesciati. Di Edmund, nessuna traccia.
“E’ finita”, mormorò Blake, “E’ finita davvero.”
 Daphne rise. “Ce l’abbiamo fatta!” Afferrò Blake per le spalle e lo scosse. “Ce l’abbiamo fatta!”
Il conte la abbracciò brevemente. Poi si separò da lei come se fosse stato scottato. Si guardarono per qualche attimo, entrambi a disagio. “Ora che farai?” Chiese Blake.
Daphne sospirò. Non voleva tornare sulla strada. “Non lo so. Forse andrò a cercare la gilda.”
Gli occhi del conte si illuminarono. “Mi sembra un’ottima idea. La cercheremo assieme.”
“Dici sul serio?”
“Mi hai aiutato con Edmund. Sono in debito con te. E poi…” Fece una pausa, “Ci sono tante cose che vorrei chiedere alla gilda, a proposito di Juliet, del perché lei aveva la vista e io no, perché le fate la amavano tanto…”
La ladra sorrise. “Abbiamo un accordo, allora.”
Blake annuì distrattamente. Stava guardando il tavolino con la scacchiera, l’unico mobile ancora in piedi  nella stanza. Quasi tutti i pezzi erano volati via, ne rimanevano solo due. Il re bianco e la regina nera. Il re era rovesciato su un fianco, e la regina torreggiava su di lui.
Il conte raggiunse il tavolo e prese con delicatezza il pezzo bianco, soppesandolo. “Scacco matto”, sussurrò.     
 
        

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