Who Killed The Queen? di a Game of Shadows (/viewuser.php?uid=56057)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Who Killed the Queen? ***
Capitolo 2: *** II. It's always the same story! ***
Capitolo 3: *** III. Buckingham Palace. ***
Capitolo 4: *** IV. Under Pressure. ***
Capitolo 5: *** V. Ambassadors. ***
Capitolo 6: *** VI. Experiment. ***
Capitolo 7: *** VII. Like nothing happened. ***
Capitolo 8: *** VIII. Case closed. ***
Capitolo 9: *** IX. Another case has been solved. ***
Capitolo 1 *** I. Who Killed the Queen? ***
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Who Killed the Queen?
I. Who killed the Queen?
Il
principe Edoardo, erede al trono d’Inghilterra, era uno dei
figli prediletti
della Regina Vittoria. Per motivi burocratici, ciò che
comportò la morte della
sua povera madre fu insabbiato e sostituito con la ormai celebre
versione della
sua dipartita del 22 gennaio 1901 a Osborne House all’Isola
di Wight. Nessuno,
chissà perché, si è mai chiesto
perché si dicesse che la Regina fosse ancora
sull’isola alla fine di Gennaio quando solitamente passava in
quell’abitazione solo
le vacanze di Natale. In realtà, il suo rientro in
Inghilterra era stato
mantenuto con una certa segretezza, pochi sudditi sapevano del suo
rientro (io
e Holmes eravamo tra questi, anche se non avremmo dovuto. In forma di
grande
fiducia, il fratello Mycroft ci confidava ogni tanto cosa succedesse a
Buckingham Palace ma tutto era ovviamente avvolto nella riservatezza
dei nostri
alloggi di Baker Street.)
Il rientro in gran segreto della Regina era dovuto alla prossima
riunione degli
ambasciatori europei a Londra. Gli esiti della loro riunione, se degni
di nota,
erano rivelati in seguito alla conclusione, prima della quale non si
veniva
neanche a sapere che detta riunione aveva preso luogo nella residenza
reale,
diventata tale proprio sotto il regno di Vittoria.
Questo mio racconto non è destinato alla pubblicazione
immediata, in quanto
potrebbe sconvolgere gli equilibri europei così
faticosamente conquistati, ma sarà
comunque inserito nella mia personale raccolta così se, in
futuro, qualcuno
troverà le mie memorie, potranno non esserci ripercussioni
negative sul
Continente.
Il Principe e il resto della famiglia reale non sono mai stati
biasimati per
aver tenuto segreti gli avvenimenti e aver appoggiato quella montatura
sulla
morte della cara Regina, così come nessuno biasima gli
ambasciatori degli altri
stati che hanno mantenuto il silenzio nelle loro terre madre per
proteggere la
precaria pace creatasi, ma nessuno di loro poteva dire di essere in
grado di
ignorare quanto successe.
Quanto sto per narrare in questa prefazione, non è altro che
quanto ci è stato
riportato in quanto io e il mio collega non eravamo presenti, quindi,
aimè,
potrebbe avere alcune lacune su dei dettagli, fortunatamente non
importanti per
la comprensione delle indagini che ne seguirono.
E’ stato riferito che pressappoco all’ora di cena,
è stata sentita dalle
guardie una richiesta d’aiuto gridata da una voce maschile,
presto riconosciuta
proprio come quella del Principe Edoardo, andato dalla madre per
portarle la
cena, poiché non stava molto bene.
Quando le guardie sono accorse in suo soccorso, hanno capito
perché avesse
gridato in quel modo, lui che era da sempre conosciuto per la sua
compostezza,
ma anche quanto la richiesta di aiuto fosse inutile: l’amata
Regina Vittoria
pendeva dal lampadario della sua stanza da letto, legataci con un
cappio per il
collo.
Sulla sua scrivania era esposta una lettera in cui spiegava i motivi
per cui
avesse compiuto un simile gesto. Si scusava per l’aver
abbandonato i figli, ma
sosteneva che la sua vita senza il marito fosse priva di senso.
All’inizio
questa dichiarazione suonò plausibile alle orecchie di
tutti, dall’ambasciata
alla famiglia. Era noto, infatti, quanto la Regina soffrisse della
perdita del
marito, nonostante fosse avvenuta molti anni prima.
Ogni rappresentante di rilievo del governo britannico venne
immediatamente
messo a parte dell’accaduto e gli ambasciatori stranieri
allertati.
Mycroft Holmes era uno dei rappresentanti convocati
nell’immediato dopo il
ritrovamento. Un avvenimento come la morte della Regina dello stato
attualmente
più potente del mondo, però, non poteva essere
accettato solo tramite una
lettera di disperazione lasciata su una scrivania, per quanto i figli
avessero
riconosciuto la calligrafia come quella della madre, quindi fu deciso
di avviare
un’indagine tenuta segreta alla stampa per avere degli
accertamenti su cosa
fosse successo davvero e se realmente si trattasse di suicidio.
Fu su raccomandazione di Mycroft Holmes che io e il suo fratellino
venimmo a
conoscenza di questi eventi.
[NdA]
Lo so. Avevo detto che avrei ricominciato a scrivere solo dopo la fine
del periodo nero a scuola, ma non sono riuscita a resistere. Questa
potrebbe essere la prima storia su Sherlock che potrebbe risultare un
giallo decente.
Erica ha
detto che come prefazione fa un po' "libro di storia" ma mi sono dovuta
adattare al fatto che Watson non era presente al momento del
ritrovamento, quindi è venuta fuori un po' come un racconto
senza introspezione in terza persona, ma mi rifarò nei
prossimi capitoli. L'intento è quello di seguire una linea
di narrazione in stile canonico mantenendo i personaggi del film.
Un'impresa, vero? Tenterò.
Mi piace anche così però.
Per questa fanfic mi sono documentata sulla vita della Regina, tutto
ciò che ho scritto in questo capitolo è vero,
dalla data e luogo di morte alla presenza di un figlio di nome
Edorardo, erede al trono. L'unica cosa non vera (e molto importante, a
dir la verità xD) è che non c'era una riunione
dell'ambasciata. In questo capitolo è spiegato, comunque,
perchè non si saprebbe niente di questa riunione quindi
tutto segue perfettamente ciò che è scritto nei
libri di storia.
Non darò un giorno d'aggiornamento per questa fanfic, la
scriverò quando sarò libera dallo studio,
così posso vedere di scrivere qualcosa di decente.
La fanfic è complessivamente composta da otto capitoli,
prefazione esclusa. Quindi, a opera conclusa, saranno nove.
L'immagine in cima al capitolo è un cartellone della vetrina
del negozio d'abbigliamento Bershka
di qualche tempo fa. Era una delle prime volte che io e Erica (onnipresente
xD ) uscivamo insieme, mi pare, perchè da quando ci siamo
viste la prima volta (che è stata un'Odissea xD) ci siamo
viste poche volte dopo per un po' di tempo, e questo cartello venne
fuori poco dopo che iniziammo il roleplay. Dicemmo scherzosamente che
questo era il nostro primo caso. Adesso è una fanfic,
ovviamente a lei dedicata.
Credo di aver finito. Spero di aggiornare il prima possibile :)
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Capitolo 2 *** II. It's always the same story! ***
II. It’s always the same story.
Era
il 23 gennaio 1901. Ormai erano passati sette anni dal ritorno del mio
caro e
molto facilmente detestabile amico dalle Reichenbach Falls e della
dipartita
della mia cara Mary.
Come noto a molti tramite i miei resoconti dei casi seguiti, quando
Holmes
ritornò da quella che lui definì ironicamente
“vacanza senza garanzia di
ritorno”, vendetti il mio studio e tornai a vivere a Baker
Street, dove ripresi
a seguire attivamente il suo lavoro.
Tuttavia mi tenni a disposizione per i pazienti cui ero più
affezionato,
fornendogli visite a domicilio quindi, se non ero occupato in una delle
azioni
suicide di Holmes, spesso mi assentavo da Baker Street per fornire dei
favori a
quegli amici.
Era quasi l’ora di pranzo quando rientrai da alcune visite
mattutine la mattina
di quel mercoledì 23 gennaio 1901.
Ogni volta che rientravo a casa, lo spettacolo che mi si prospettava
davanti
non variava; quando ero a casa, riuscivo a distrarre Holmes, anche
parlando di
argomenti futili, ma ogni volta che mi assentavo anche solo per poche
ore, al
mio rientro trovavo l’appartamento come se dentro ci fosse
stato un plotone di
guerra a sfogare le sue ire violente. Il dettaglio inquietante ai miei
occhi
era che il mio adorabile
coinquilino
era in grado di combinare tali disastri completamente da solo e in
tempi che
avrebbero potuto battere i più estremi record.
Quella mattina, al mio ritorno, appena aprii la porta
dell’appartamento, mi
ritrovai, come al solito, immerso nell’oscurità.
La consueta cappa di fumo
provocata dalle sue sigarette e dalla sua pipa, aggiunte alle finestre
rigorosamente chiuse aleggiava nel salotto, minacciando con convinta
malignità
i polmoni di qualunque povero disgraziato avesse avuto il coraggio di
varcare
quella soglia e non fosse stato abituato a respirare un’aria
così viziata. In
pratica solo Holmes sarebbe stato in grado di sopravvivere in quel buco
claustrofobico.
Tra l’odore del tabacco e di aria chiusa, riuscii a
distinguere anche l’odore
della polvere da sparo (cui, aimè, ero stato infelicemente
abituato) e
narcotici.
Avanzai a tentoni, portando il bastone avanti a me come un cieco, per
evitare
di calpestare il mio amico, fino a che raggiunsi una delle finestre,
guidato
solo dalla flebile luce della porta d’ingresso che mi ero
premurato di lasciare
aperta. La spalancai, tende e ante, ignorando completamente le
lamentele, alle
mie spalle, che si sollevavano da un punto imprecisato del pavimento.
Tornai a chiudere la porta dell’appartamento, per togliere il
lusso a Holmes
anche di insultare la nonn- Mrs. Hudson
ogni volta che ci passava davanti con frecciatine ironiche o puro
sarcasmo, per
poi tornare a voltarmi verso l’appartamento e cercare con lo
sguardo quel
disgraziato, che di preoccupazioni me ne procurava fin troppe.
Ancora non mi capacitavo di come una persona intelligente come Sherlock
Holmes
non si rendesse conto che, comportandosi in modo così
evidentemente
masochistico, non era l’unico a stare male.
Lo trovai disteso a terra, con la testa appoggiata sullo stomaco di
Gludstone,
nuovamente morto per chissà quale esperimento si fosse
premurato di dargli a
colazione.
Il laccio emostatico, la siringa vuota e l’astuccio in cuoio
della cocaina solo
per metà pieno erano ancora a terra, vicino a lui, e la
manica della sua
camicia ancora sollevata fino al gomito.
Si copriva gli occhi dalla luce con un braccio, mugugnando
ancora
qualche malmessa lamentela sulla mia ormai ben nota poca gentilezza nei
suoi
riguardi.
Mi avvicinai e m’inginocchiai vicino a lui, nonostante la
ferita alla gamba ne
protestasse, per costatare le condizioni di salute sue e del cane;
fortunatamente erano entrambi abbastanza stabili. Voltandomi appena,
notai
anche la pistola, ancora vicina a lui. Alzando lo sguardo, potei vedere
delle
nuove lettere ancora fumanti incinse nel muro.
“E’ sempre la stessa storia, Holmes! Quando si
deciderà a mettersi in
condizioni tali da poter sopravvivere almeno per un anno in
più?” chiesi, non
poco irritato.
Onestamente parlando, ciò che m’irritava di
più era che non riuscivo a capirlo.
Lui sembrava in grado di capire qualunque cosa di me, seguire ogni mio
pensiero, mentre io, a distanza di tutti quegli anni, ancora non capivo
come
potesse essere possibile, per un uomo come lui, decidere di sottoporsi
a tanta
sofferenza.
Non capendo, non potevo aiutarlo.
“L’ha detto anche dieci anni fa, eppure sono ancora
qui” rispose con un leggero
tono critico, spostando il braccio per guardarmi in tralice.
Sospirai, rassegnato. Non sarei mai riuscito a dire qualcosa che lo
facesse
desistere da quel masochistico percorso che da sempre, ormai,
caratterizzava la
sua pausa tra due casi, neppure dirgli che così rischiava
davvero di
addormentarsi e non svegliarsi più.
Al tempo ero convinto che, in realtà, l’unica cosa
che facesse allontanare
Holmes dall’idea della morte come cosa positiva era la
necessità di tenere
attivo il cervello, la consapevolezza che, senza di lui, il
più delle volte
Scotland Yard avrebbe brancolato nel buio più assoluto,
lasciando pericolosi
criminali a piede libero; nessun affetto per se stesso, nessun affetto
per
nessun altro. Me compreso.
Mi rialzai a fatica e gli tesi la mano per aiutarlo a rialzarsi. In
risposta,
lui ripose nel mio palmo aperto il mio bastone da passeggio.
“Non credo che la sua gamba sosterrebbe anche il mio peso,
Dottore” aggiunse,
rialzandosi da solo.
Ammetto che mi sentii un po’ offeso. Era vero, la gamba
doleva e duole ancora,
ma non ritenevo di essermi indebolito al punto da non essere ritenuto
in grado
di sostenere il peso di una persona sì, più
muscolosa di me, ma comunque di
dimensioni inferiori.
Ci sedemmo entrambi sulle rispettive poltrone, lui con il suo adorato
Stradivari adesso tra le mani ed io con il giornale della mattina che
non ero
ancora riuscito a leggere.
Lessi comunque poche righe prima che la musica iniziasse a invadere
l’aria ed
io mi ritrovai irrimediabilmente distratto da quel suono. Il giornale
ancora
tra le mani era ormai abbandonato, così come la mia testa
contro lo schienale
della poltrona mentre, a occhi chiusi, mi rilassavo, ascoltando.
Non glielo avrei mai detto, forse per orgoglio, forse per non dargli
una
soddisfazione in più, ma adoravo ascoltarlo suonare. Aveva
un talento innato
per l’improvvisazione, sembrava quasi che il violino parlasse.
Senza dubbio, però, se n’era già
accorto da tempo.
Sfortunatamente, però, Holmes smise di suonare quando dei
passi affrettati
iniziarono a salire le scale.
“Lestrade e Mycroft” annunciò Holmes,
prima ancora che la porta si aprisse.
Non feci in tempo ad aprire bocca per chiedere come fosse arrivato a
dire che
fossero l’ispettore e il suo fratellino (come adorava
chiamarlo, nonostante
fosse più grande) che i due menzionati apparvero sulla
nostra soglia senza
bussare.
Holmes si voltò verso di me per un attimo, con un sorriso
vittorioso, per poi
porgere la sua attenzione ai nostri ospiti.
“Mycroft! A cosa devo il piacere di questa visita?”
chiese, ignorando
completamente Lestrade.
Il fatto che lo ritenesse così insignificante se paragonato
al fratello da non
meritarsi neanche un saluto porto per educazione come al solito, mi
fece
sorridere. Ai miei occhi, questo manifestava un profondo senso di
rispetto e
affetto verso il congiunto.
“Ti sto per affidare il caso che decreterà il
picco più alto della tua
carriera, Sherlock”.
Questo sembrò destare la più totale e
incondizionata attenzione del mio amico,
il quale ripose il violino e l’archetto sul tavolinetto
vicino alla sua
poltrona e si sporse in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Il
suo
sguardo rimaneva fisso in quello di Mycroft, così come
quello del fratello
rimaneva nel suo, come in una specie di comunicazione mentale tra i due
geni.
“Che cosa è successo?” chiese infine,
forse non trovando informazioni
necessarie negli occhi di Mycroft.
“Ieri sera la Regina Vittoria è stata trovata
morta nella sua camera”.
Calò quello che ricordo come il più raggelante
silenzio mai piombato sul nostro
appartamento di Baker Street.
Sconvolto, mi voltai verso Holmes, che indirizzava il suo sguardo,
invece, alla
parete, dove le lettere V.R., annerite dalla polvere da sparo,
spiccavano sulla
carta da parati.
[NdA]
Volevo scrivere qualcosa, ma non ricordo cosa fosse ._.
Ah, si. Niente di che, volevo specificare che davvero il 23.01.01 era
Mercoledì, e menzionare come riferimenti canonici alcuni
punti,
Per chi non lo sapesse, le lettere V.R. che Holmes spara sul muro (si
vede anche nel film oltre che nel canone) significano "Vittoria Regina".
Nel 1901 erano davvero sette anni passati dal ritorno di Holmes.
Infatti, all'inizio dell'Avventura
della casa vuota, Watson dice testualmente che si
trovavano nel 1894.
Che altro? L'astuccio in cuoio della droga ormai è noto.
Ah, si. Nel film non si vede mai
Holmes fumare sigarette, ma nel canone fuma indistintamente sigarette,
sigari e pipa.
Mmmmmmmmmmumble... Penso sia tutto xD
Al prossimo capitolo!
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Capitolo 3 *** III. Buckingham Palace. ***
III.
Buckingham Palace.
Lestrade e Mycroft si fermarono da noi per il pranzo, che ci facemmo
portare
nell’appartamento anziché scendere noi in cucina
per evitare di essere
ascoltati su un caso ancora segreto alla stampa, raccontandoci di
quanto era
stato scoperto dal ritrovamento della Regina Vittoria del giorno prima
al loro
arrivo a Baker Street l’indomani. Non molto in effetti. Per
quanto il caso
fosse singolare e notevolmente importante, sempre di Scotland Yard
stavamo
parlando e di certo grandi progressi, da parte loro, non ce li saremmo
aspettati in nessun caso.
“Devo ammettere” confessò Mycroft
Holmes, voltandosi verso di me. “Che alcuni membri
della famiglia Reale sono stati reticenti nell’accettare la
sua presenza quando
ho raccomandato loro Sherlock. Quando ho detto loro che segue le sue
indagini
da tempo, però, e che la sua discrezione è
raccomandabile, hanno accettato.”
“Non ho intenzione di imporre la mia presenza se non
sarà ben accetta” risposi,
risoluto. Si trattava comunque della famiglia Reale e di certo non
avrei mai
voluto far credere loro di non provare un profondo rispetto e stima da
presentarmi se non ben accetto. Non mi sarei mosso da Baker Street,
sennonché
il mio amabile coinquilino non avesse risposto alle mie parole con una
negazione ben poco cordiale di fronte ai nostri ospiti.
“Non sia stupido, Watson! Questo si prospetta essere senza
dubbio il caso più
importante che potrà mai aggiungere ai suoi annali, non
vorrà certo
perderselo!”
Mi piaceva pensare, all’epoca, che non gliene fregasse
proprio un accidenti dei
miei annali e che gradisse soltanto che lo accompagnassi.
“Ovviamente” riprese subito il fratello,
interrompendo sul nascere una mia qualunque
risposta al più giovane, risposta che senza dubbio sarebbe
stata poco cordiale,
data la sua abitudine di trascinarmi in potenziali missioni suicide,
per quanto
questo, in realtà, mi lusingasse. Non glielo avrei mai
detto, comunque. “Questa
indagine deve rimanere segreta fino a che saremo sicuri che davvero si
tratti
di suicidio o altro. Non dovete farne parola con nessuno”
“Ovvio” rispose Sherlock fissando il fratello con
aria offesa. “Spero tu non
abbia scambiato me e Watson per due incompetenti, Mycroft”
rivolse una fugace
occhiata a Lestrade, di cui l’unico a non accorgersi fu molto
probabilmente
solo l’ispettore stesso “Se la stampa da per
scontata la possibilità del
suicidio, sulla casata Reale si creerebbe lo scompiglio,
così come succederebbe
se si venisse a sapere che sono state avviate delle indagini. Se si
supponesse
pubblicamente l’omicidio, l’Inghilterra intera
cadrebbe nel panico”
Furono quelle parole a farmi rendere conto di quanto realmente gravi
fossero i
fatti avvenuti. Inizialmente avevo visto il caso come sì,
riguardante la nostra
Regina, ma solo dal punto di vista romantico, la donna disperata che
vuole
raggiungere il marito. Il punto di vista sociale e politico non mi
aveva
minimamente sfiorato, ragion per cui Holmes sarebbe stato ben felice di
rimproverarmi.
Lestrade e Mycroft se ne andarono da Baker Street prima di noi per
annunciare a
Buckingham Palace il nostro imminente arrivo e concederci il tempo per
renderci
presentabili al fronte della famiglia Reale al completo e tutti gli
ambasciatori europei. Persino Holmes si preoccupò di
rendersi presentabile, il
che è di per se un fatto straordinario.
Lo sentii sbuffare, spazientito, mentre lo aspettavo in salotto.
Incuriosito,
lo raggiunsi nel bagno, dove lo vidi fissare il proprio riflesso nello
specchio
quasi con disprezzo.
Non feci in tempo a dire niente.
“Stavo pensando con estrema serietà di farmi
tagliare completamente i capelli”
commentò, con una certa acidità nella voce che,
tuttavia, sapevo non essere
indirizzata a me.
Mi feci prendere da un leggero panico, anche se il mio temperamento da
soldato
mi aiutò notevolmente a nasconderlo; mi piacevano i suoi
capelli, mai in
ordine, del tutto indomati, che schizzavano da tutte le parti. Mi ero
sempre
chiesto come sarebbe stato toccarli.
“Non dica stupidaggini” commentai solo, con una
leggera risata.
“Sono ingestibili!” esclamò, esasperato.
In fede mia, quella era in assoluto la prima volta in più di
vent’anni che
assistevo a una scena del genere di fronte a Holmes. Mai, mai, in vent’anni lo avevo
visto così disperato per quanto
riguardasse il suo aspetto.
Risi di nuovo e mi avvicinai.
“Mi lasci provare”
Mi avvicinai a lui, che mi guardava con aria stranita, e mi bagnai le
mani nel
lavandino. Stando ben accorto a non incontrare mai il suo sguardo,
iniziai a
passare le dita tra i suoi capelli, cercando di riordinarglieli. Erano
morbidi,
nonostante la tortura cui continuamente li sottoponeva. Mi piaceva
averli tra
le dita.
Dopo lunghissimi minuti di arduo lavoro, in cui dal mio compagno non
provenne
alcun suono, riuscii a dare una parvenza normale a quei capelli
altrimenti
ribelli e riabbassai lo sguardo sui suoi occhi. Mai avrei potuto fare
errore
più grande; avevo calcolato più che male le
distanze e mi ritrovai con i suoi
occhi troppo vicini ai miei e le mie mani erano ancora tra i suoi
capelli. Non
mi avrebbe occupato che un secondo per azzerare ogni distanza tra di
noi e
vederlo immobile, poco davanti da me, a guardarmi negli occhi, non mi
dava un
notevole aiuto.
Riuscii a distogliere lo sguardo, indirizzandolo alla parete opposta, e
mi
sgranchii la voce, ritirando le mani – come, in effetti,
avrei dovuto fare
prima.
“Dobbiamo… andare” borbottai, per poi
uscire.
Presto fummo nella carrozza mandataci a prendere da Mycroft, che ci
portò
direttamente dentro il cancello del palazzo reale.
Ne rimasi del tutto affascinato. Noi, cittadini comuni, potevamo vedere
solo la
facciata di Buckingham Palace da oltre il cancello, attraverso
l’immenso
cortile, ma vedere il palazzo avvicinarsi, dall’altra parte
del cancello rispetto
al solito, era tutta un’altra cosa, nonostante le tragiche
circostanze in cui
ci trovavamo.
“Non sono mai stato dentro Buckingham” dissi,
più a me che a lui.
“Io sì, quando mi hanno insignito della Legion
d’Onore” si pavoneggiò Holmes
con un sorriso compiaciuto, senza guardarmi.
Sbuffai, tuttavia lievemente divertito, e tornai a guardare fuori, fino
a che
la carrozza si fermo sul retro del palazzo.
Scendemmo dalla carrozza, dove Mycroft, Lestrade e alcune guardie reali
ci
aspettavano.
Ci condussero attraverso un immenso corridoio le cui pareti erano
ricoperte di
quadri di immenso valore che, per la passione artistica del mio amico,
dovevano
valere molto più di quanto fosse il loro valore reale,
mentre Lestrade spiegava
che l’indagine non aveva avuto progressi durante la sua
assenza e che sembrava
proprio suicidio.
Era affascinante vedere come, estasiato, Holmes passava velocemente lo
sguardo
da un quadro all’altro, analizzandoli tutti comunque con
estrema attenzione e
un lieve sorriso a increspargli le labbra. Sono convinto che, se non
avessimo
avuto altro cui pensare, sarebbe stato in grado di raccontarmi la
storia di
ognuno degli artisti che li avevano dipinti e dei quadri singolarmente.
La nostra attenzione fu comunque distratta dall’arte quando
dei singhiozzi,
vicini a quella che ci venne indicata come la stanza della
Regina, ci portarono a distogliere lo sguardo dalle pareti. La
sorpassammo di qualche passo, muovendoci silenziosamente, fino a
sporgerci dal
corridoio. Poco più in là, quella che
riconoscemmo come la Principessa Alice,
pupilla tra le figlie della Regina Vittoria, piangeva tra le braccia di
un
giovanotto, vestito elegantemente di un blu acceso.
“A lei penseremo dopo, lasciamola sfogare un
po’” mi sussurrò Holmes,
afferrandomi per un braccio e riportandomi alla porta della camera
Reale.
Entrammo nella camera, ancora popolata da Yarders che si aggiravano
senza
effettivamente fare niente, facendo ben notare quanto, in
realtà, non avessero
idea di cosa fare.
In altri momenti avrei prestato tutta la mia attenzione alla bellezza
della
stanza reale, ma in quel frangente era come se la camera mi stesse
opprimendo
con il macabro segreto che custodiva agli occhi del resto del mondo.
Seguii lo sguardo di Holmes verso il prezioso lampadario da cui,
ancora,
penzolava un pezzo della corda utilizzata per il presunto suicidio. Era
il
cordone per tirare la tenda. La restante parte era stata tagliata,
probabilmente allo scopo di rimuovere il corpo e portarlo
all’obitorio. Come avesse
fatto proprio Scotland Yard ha
portarlo
via senza che nessuno se ne accorgesse, è un mistero che
né io né Holmes siamo
mai stati in grado di risolvere.
“Il resto della corda?” chiese Holmes, spostando lo
sguardo su uno dei
poliziotti.
“E’ stata portata alla nostra centrale.
E’ al nostro obitorio con il cadavere”
“Perché avete accettato di chiamarmi se mi
sottraete prove, di grazia?” chiese
ancora, fissandolo con un cipiglio vagamente irritato. “E la
lettera?” chiese
ancora, prima che l’imbarazzato Yarder potesse rispondere.
Quando voleva riusciva a intimorire i poveri poliziotti del distretto
con la
sua glaciale freddezza. Non capivo come potesse succedere. Forse era
solo che
io c’ero abituato.
Fatto sta che suddetto poliziotto fuggì verso la scrivania e
tornò in meno di
un secondo con la lettera tra le mani.
Non ci fu concesso di tenerla se non per analizzarla sul luogo e
scribacchiai
velocemente le parole sul mio taccuino perché non andassero
perdute, quindi è
possibile che alcune parole siano diverse dall’originale,
poiché mi allontanai
prima per concedere a Holmes il tempo di analizzarla.
Mia adorata Inghilterra,
Sono ormai sessantatré anni che regno su questo paese e
trentasette che siedo
al trono senza mio marito.
La sua morte ancora oggi non da pace al mio povero animo.
Amo i miei figli e dunque, adesso è giusto che io lasci loro
la Corona e
raggiunga il mio caro Alberto.
Il lutto non mi abbandona da anni e il dolore potrebbe impedirmi di
regnare
ancora in modo giusto.
Vi prego di ricordarmi, figli miei, non come la donna straziata dal
dolore, né come
la Regina, ma come vostra madre.
Alexandrina Victoria, Gennaio 02 1901.
Feci appena in tempo a riscrivere velocemente la firma sul mio taccuino
quando
vidi Holmes estrarre dalla tasca interna del cappotto la lente
d’ingrandimento
e sottrarre la lettera dalle mani dello Yarder.
In quel momento mi feci da parte e lo lasciai lavorare secondo i suoi
metodi.
Analizzò la lettera, parola per parola per buoni dieci
minuti.
“La calligrafia è stata riconosciuta come quella
della Regina?” chiese,
riponendo la lente d’ingrandimento nella tasca ma, tuttavia,
senza staccare gli
occhi dalla lettera.
“Si signore. Il Principe Edoardo in persona l’ha
riconosciuta”
Annuendo distrattamente, estrasse da una delle tasche esterne del
cappotto un
fazzoletto bianco e lo passo sopra la carta, facendo lieve pressione,
per poi
analizzare anche quello.
Lo ripose in tasca senza dire niente e si voltò di nuovo
verso di noi.
“Vedo che il pavimento ha una superficie lucida”
osservò, tornando a guardare
lo Yarder.
“La Reg-”
“Dovete riempire ogni concavità, ogni buco di
questa stanza e del bagno di
fianco con acqua bollente e chiudete tutte le porte e finestre che
danno sull’esterno”
lo interruppe subito.
“Perché?”
“Lo vedrete”
Uscimmo tutti dalla stanza mentre gli uomini di Scotland Yard e la
servitù
passavano davanti a noi per eseguire l’ordine seppur
né loro né io ne capimmo
il senso.
“Watson” mi chiamò.
Mi afferrò per un braccio e mi fece allontanare da Lestrade
e Mycroft, che
erano rimasti fuori dalla porta ad aspettarci per tutto il tempo.
Considerai quell’allontanamento
non una mancanza di fiducia in suo fratello, di qualunque cosa volesse
parlarmi, quanto in Lestrade che, senza dubbio avrebbe usufruito di
quella
prova in modo estremamente sbagliato.
Mi avvicinai a lui, in modo che potesse sussurrare e nessuno sentisse
quello
che stava per dirmi.
“La calligrafia era
quella della
Regina ma era irregolare, come se la sua mano tremasse mentre scriveva.
Per di
più” estrasse il fazzoletto prima bianco dalla
tasca, mostrandomi lievi
striature nere “questa è polvere da sparo. Deve
essere caduta dalla canna della
pistola mentre la tenevano sotto tiro. La regina è stata
forzata a suicidarsi,
non l’ha fatto di sua spontanea volontà.
E’ stata uccisa”
Rimasi raggelato da quella rivelazione. Dietro l’omicidio del
regnante di uno
degli stati più potenti del mondo potevno esserci mille
moventi. Poteva benissimo
anche esserci una guerra alle porte.
“Signor Holmes” lo chiamarono.
Si voltò di nuovo verso la camera, dove il solito Yarder di
poco prima lo aveva
richiamato. Mi lanciò una fugace occhiata prima di dirigersi
di nuovo alla
camera. Lo seguii, come il solito.
Appena entrammo, la prima cosa a cui mi rimandò
l’ambiente
fu la nebbia. Il
vapore dell’acqua calda aveva invaso tutta la camera,
annebbiandola.
“Accendete tutte le luci, chiudete la porta e muovetevi meno
che potete” ordinò
Holmes.
Alla luce la nebbia sembrava meno fitta e si resero ben evidenti, sul
pavimento
lucido le impronte delle scarpe. Holmes si chinò sul
pavimento, osservando
tutte le impronte, soprattutto quelle vicine alla porta.
“Queste sono le impronte delle scarpe degli
Yarders…” mormorò. “Queste le
mie…
quelle di Watson… Il Principe aveva degli scarponcini a
punta quadrata quando
ha trovato la madre?”
“No, aveva le pantofole. Ha detto che sarebbe andato a
dormire da lì a breve”
“Bene. Allora sappiamo che l’assassino è
un uomo”
[Nda]
Sto già furteggiano dal roleplay per le fic xD
La scena in cui Watson sistema i capelli a Holmes, infatti,
è stata derubata da lì xD
|
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Capitolo 4 *** IV. Under Pressure. ***
IV.
Under Pressure.
Tornammo a casa poco dopo.
Durante tutto il tragitto in carrozza, Holmes era rimasto in silenzio
con lo
sguardo fisso fuori dal finestrino, la testa appoggiata pigramente
sulla pugno.
Avevo provato a più riprese a dare il via a una
conversazione su qualunque
argomento credevo potesse interessargli, dalla stupidità di
Scotland Yard alla
partita di rugby della sera prima, ma m’ignorava o rispondeva
a monosillabi.
Suppongo fosse normale, vista la portata del caso che aveva per le
mani, ma
devo ammettere che ci rimasi un po’ male quando mi vidi
ignorato in quel modo.
In realtà ero preoccupato anche per il suo pallore; da
quando lo avevo trovato
a Baker Street dopo le mie solite visite non si era totalmente ripreso,
la sua
salute sembrava sul punto di crollare e lo stress causato da un caso
così
importate rischiava di contribuire in modo negativo. Le sue difese
immunitarie
erano già indebolite dalle droghe che era solito assumere e
la pressione che
questo caso poteva procurargli avrebbe potuto facilmente portarlo a un
crollo
fisico.
Non dubito affatto che si sentisse profondamente onorato per
l’incarico avuto,
senza dubbio il più importante della sua carriera e la
lusinga che poteva
portare essere considerato all’altezza di quella particolare
situazione era tanta,
ma Holmes, che lo accettasse o continuasse a rifiutarsi di farlo, era
umano. E
gli uomini cadono ogni tanto.
Appena arrivammo a Baker Street, Holmes salì fino ai nostri
appartamenti senza
dire una parola, ignorando ancora una volta il saluto di Mrs. Hudson,
la quale
non vi dette molto peso, come al solito, ma lei mi fermò
prima che potessi
seguirlo di sopra.
“Cosa è successo?” mi chiese.
Sapevo che non le piaceva il modo in cui Holmes conduceva la sua vita,
ma alla
fine si era affezionata ed anche lei doveva aver notato quanto fosse
pallido.
“Non lo so” mentii, ricordandomi che avevamo
promesso di non parlare a nessuno
di questo caso. “Ci venga a chiamare per la cena”
chiesi.
Mi lasciò andare e raggiunsi Holmes di sopra.
Abbandonò il cappello e il cappotto sullo schienale della
poltrona, sulla quale
poi si sedette, cercando di nascondere il suo lieve barcollare.
Accavallò elegantemente le gambe, per poi appoggiare i
gomiti sui braccioli, le
punte delle dita giunte e lo sguardo perso nel vuoto,
l’espressione
concentrata.
Anch’io mi tolsi il cappello e il cappotto, riponendoli poi
nel legittimo posto
e sedermi nella poltrona vicino alla sua, aspettando che dicesse
qualcosa. Non
mi azzardai neanche a prendere il giornale o un libro, sapevo benissimo
che,
appena lo avessi fatto, avrebbe immediatamente interrotto la mia
lettura per il
semplice gusto di farlo.
Rimase a lungo in quella posizione, a mala pena sbatteva le palpebre,
probabilmente cercando di sfruttare ogni singola goccia della sua non
trascurabile esperienza (tra i casi da me documentati, fino a quel
momento ne
avevamo seguiti insieme più di trenta) per riuscire a
risolvere questo mistero
in fretta, in modo da sbarazzarsi velocemente di questo peso
inevitabile.
Ma, aimè, è difetto dell’uomo che le
cose gli vengano fatte male se fatte di
fretta e questo sembrò far crollare a picco le sue
condizioni psichiche da lì a
poco.
“Devo ammettere, Watson” interruppe poi il silenzio
“che non so come reagire
davanti a questo caso. E’ una questione importate e un
eventuale fallimento
potrebbe comportare disastrose conseguenze a livello
mondiale” confessò.
Parlando, si era tolto anche il gilet, lanciandolo poi malamente sulla
pelle di
tigre sul pavimento e aveva arrotolato le maniche della camicia fino ai
gomiti
come se, in quella temperatura glaciale, sentisse invece caldo.
Come medico e come amico, mi preoccupai bene di osservarlo per capire
quali
fossero le sue vere condizioni, perché era certo come il
sole che sorge al
mattino che se si fosse sentito male, soprattutto se durante
un’indagine, non
me l’avrebbe detto.
“Non ha mai fallito prima, Holmes. Senza dubbio il suo
immenso ego le impedirà
di fallire in un caso così importante” risposi, in
un vago tentativo di
rassicurarlo.
In realtà, trovarmi in quella situazione comportava, per me,
molte difficoltà;
Sherlock Holmes non era il genere di persona che aveva mai avuto
bisogno di
conforto o rassicurazioni. Sarei stato in grado di confortare chiunque,
ero pur
sempre un medico, ma con lui non sapevo come comportarmi.
La mia attenzione, comunque, era dedicata molto più ai suoi
movimenti che alle
sue parole; il suo continuo agitarsi sulla poltrona, gli occhi che
sembravano
volessero chiudersi da soli, la pelle imperlata di sudore nonostante
fossimo a
fine gennaio.
“C’è sempre una prima volta. E se fosse
questa, non oso immaginare quali
sarebbero le conseguenze… Watson, che sta
facendo?” aggiunse poi, quando mi
sporsi verso la sua poltrona e, afferratogli un braccio, avevo posto
due dita
sul suo polso per sentirne il battito.
“Stia in silenzio”
Il battito del suo cuore era accelerato, poteva essere uno dei sintomi
dell’influenza,
ma poteva essere causato da molti motivi, come anche
l’agitazione per via dello
stress.
Gli lasciai il polso e mi avvicinai alla sua poltrona. Per quanto
sembrasse
reticente alla mia vicinanza, non si scostò, né
mosse un solo muscolo. Il suo
sguardo era fisso nel mio anche quando mi inginocchiai a terra per
raggiungere
la sua altezza e posai una mano sulla sua fronte ed una sulla mia per
comparare
le temperature.
“Lei ha la febbre, Holmes” costatai.
“Sto benissimo”
“Non si comporti come un bambino! Negare di avere la febbre
di certo non gliela
farà passare!”
“Non credo passerebbe neanche se lo ammettessi”
“Quindi lo ammette”
“Non ho fatto un bel niente!”
Sbuffai e mi rialzai, ritirando la mia mano. Cercare di discutere con
lui si
dimostrava ogni giorno sempre più inutile, gli spettava
sempre e comunque l’ultima
parola, a prescindere da quale fosse l’argomento di
discussione.
“Holmes, si riposi” tentai ancora.
“Certo, ho il tempo di riposarmi. Ci pensa lei alle indagini
sulla morte della Regina?”
chiese, sarcastico.
Lo detestavo quando si comportava così anche se, in fondo,
mi piaceva prendermi
cura di lui; mi dava un certo senso di esclusività, sapevo
che non avrebbe
permesso a nessun altro di vederlo febbricitante e pieno di dubbi come
in quel
momento, mi faceva credere che s fidasse davvero solo di me. Forse era
davvero
così.
“Holmes-“
“Il ragazzo!” scattò in piedi.
Preso da un momentaneo spavento dovuto al suo scatto, mi alzai
velocemente e
feci un passo indietro, costringendo la mia gamba a lamentarsene.
Lo guardai, confuso, chiedendomi di cosa stesse parlando.
Dovette interpretare la mia espressione come quella stessa domanda,
perché rispose.
“Il ragazzo che era con la principessa Alice! Non abbiamo
chiesto di lui, non
abbiamo parlato con lei-“
“Holmes!”
Mi avvicinai di nuovo e gli coprii la bocca con una mano. Normalmente
non mi
sarei mai permesso né di avvicinarmi tanto a lui
né avrei azzardato un contatto
fisico così improvvisamente essendo io bene a conoscenza
delle sue capacità
fisiche, dunque non so cosa mi spinse, in quel momento, a comportarmi
in tale
modo.
Lui non reagì come mi aspettavo, però. Se
aggredito improvvisamente – perché sì,
da certi punti di vista la mia poteva essere considerata
un’aggressione –
solitamente Holmes reagiva d’istinto, attaccando la parte del
corpo dell’avversario
entrata in contatto con lui, mentre in quel momento sembrava del tutto
paralizzato.
Mi fissava con gli occhi spalancati fissi nei miei, senza ribellarsi in
nessun
modo, al contrario di qualunque mia previsione, quasi come se fosse
stato
spaventato dalla mia azione.
“Stia calmo. Lei è umano, è normale che
sbagli ogni tanto. E questo non è
neanche un errore, può informarsi su chi fosse quel ragazzo
anche domai quando
torneremo” cercai di tranquillizzarlo, sfruttando anche il
tono di voce.
Quando mi sembrò che si fosse appena un po’
rilassato, spostai la mano dalla
sua bocca e la posai sulla sua spalla.
“Non avrei dovuto avere una dimenticanza simile, soprattutto
non con un caso
del genere… sto perdendo colpi, forse dovrei
ritirarmi-“ abbassò lo sguardo in
quello che quasi mi sembrò imbarazzo.
“Non dica stupidaggini. Non ha idea di quanto sarebbe
più difficile vivere a
Londra se non ci fosse lei come detective. Il corpo invecchia, la mente
no”
Rialzò lo sguardo sul mio, gli occhi illuminati di qualcosa
che sembrava molto
simile a gratitudine. Se non si
fosse
trattato di Sherlock Holmes ne sarei stato certo. Mi sembrò
addirittura di
vederlo sillabare un grazie,
perché della
voce non so cosa ne avesse fatto.
Senza rendermene neanche conto, ritrovai il mio sguardo fisso sulle sue
labbra
socchiuse e il mio corpo che, istintivamente, si avvicinava al suo.
Non avevo mai voluto baciare qualcuno come in quel momento e il mio
buon senso
che avrebbe dovuto impedirmi di farlo sembrava essere scomparso.
Deglutì rumorosamente ma non si allontanò; il suo
respiro si azzerò del tutto,
così come successe con il mio quando lo vidi chiudere gli
occhi, in attesa.
Riuscivo a sentire il suo lieve respiro sulle labbra quando dei passi
su per le
scale ci spinsero ai lati opposti del salotto.
“Signori! E’ pronta la cena!”
[Nda]
Lo so, ho fatto aspettare un'immensità di tempo per nulla,
praticamente. In realtà non posso neanche giustificarmi ._.
Quindi, boh, me ne vado
così xD
|
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Capitolo 5 *** V. Ambassadors. ***
V.
Ambassadors.
Provai un immenso e immotivato odio verso Mrs. Hudson.
D’altra parte, avevo
detto io a quella povera donna di venirci a chiamare per la cena, non
meritava
che la detestassi così.
L’argomento, comunque, fu chiuso così.
Più tardi la ringraziai mentalmente per averci interrotti.
Non sapevo quali
sarebbero state le conseguenze se avessi baciato Holmes e forse sarebbe
stato
meglio non scoprirlo. Per di più, non era nel pieno della
salute e quasi mi
sarebbe sembrato di abusare di lui. L’imbarazzo subito dopo,
poi, sarebbe stato
troppo.
Non ne parlammo più, quel momento sembrò
dimenticato da entrambi.
Dopo cena, quindi, parlammo solo del caso, come se niente fosse, anche
se mi
sembrava che Holmes fosse notevolmente più rigido del
solito. Cercava di
mantenere una parvenza di normalità, ma sentivo che qualcosa
non andava.
Decisi, più per togliermi il peso che per una reale
certezza, che avrei
attribuito quel suo strano comportamento alla febbre.
La mattina dopo, Holmes si alzò di buon’ora, come
suo solito quando aveva un
caso particolarmente interessante tra le mani.
Erano appena le sette quando uscii dalla mia camera, ancora in pigiama
e
vestaglia, e lo trovai seduto sulla poltrona, di nuovo lo sguardo fisso
nel
vuoto, durante la riflessione, le mani giunte sotto il mento.
Non aveva suonato, quella notte. Mi ero svegliato alle tre, come il
solito, per
via dell’abitudine, ma non avevo sentito nulla. Probabilmente
era troppo stanco
e non era riuscito a rimanere sveglio.
Non si accorse neanche della mia presenza finché non mi
sgranchii la voce.
“Buongiorno” salutai, quando lo vidi voltarsi verso
di me.
“’giorno” mugugnò, tornando a
guardare il muro.
Non ricevendo altra considerazione, tornai in camera mia per cambiarmi.
Quando rientrai in salotto, trovai il vassoio con la colazione
appoggiato sulla
mia poltrona e Holmes che leggeva il giornale.
Rimasi allibito.
“Mi dica che quello che leggo in prima pagina è
dovuto a dei problemi ottici
molto prossimi” chiesi.
Richiuse il giornale e lo posò sul vassoio sulla mia
poltrona insieme alla
colazione.
In prima pagina faceva bella mostra di sé il titolo che
annunciava la morte
della Regina di due giorni prima.
“Come hanno fatto a scoprirlo?”
“Non mi stupirei se qualcuno a Scotland Yard si fosse fatto
scappare qualcosa…
fatto sta che adesso ci ritroveremo immersi in una folla nel panico.
C’è anche
il mio nome nell’articolo”
Nessuno dei due aggiunse altro. Una volta che fossimo arrivati a
Buckingham,
sarebbe stato un inferno. Se tutti sapevano della morte della Regina,
sotto il
palazzo ci sarebbe stata una folla che a mala pena ci avrebbe permesso
di
passare con la carrozza.
“Holmes, può gentilmente togliere la sua colazione
dalla mia poltrona?” chiesi,
tanto per cambiare argomento.
“Ho già fatto colazione, più di
un’ora fa. Quella è la sua”
Ammetto che forse non era una cosa che rientrava nei limiti di
normalità della
mente di un uomo comune, ma rimasi molto più stupito del
fatto che Holmes mi
avesse preparato la colazione che del fatto che la stampa avesse saputo
tutto.
Ovviamente dopo tanti anni di amicizia e convivenza, si penserebbe
normale un
gesto simile ogni tanto, ma non è da dimenticare che il mio
coinquilino era pur
sempre Sherlock Holmes.
“Oh. Grazie”
Non rispose. Non rispondeva mai ai ringraziamenti e ancora non ho
capito perché.
“Faccia in fretta, dobbiamo andare” disse solo.
Normalmente avrei combattuto per farlo rimanere a casa, nelle
condizioni in cui
era, ma se non me l’avrebbe data vinta con un caso qualunque,
ero certo che per
continuare le indagini di questo caso avrebbe lottato fino allo stremo
delle
forze. Non glielo chiesi neanche. Una volta pronto per uscire, mi
limitai
semplicemente ad assicurarmi che avesse con sé almeno una
sciarpa. Mi rivolse
un sorriso divertito quando gliela passai, ma non disse niente. La
afferrò
soltanto e se la legò intorno al collo.
La carrozza che venne a prenderci veniva direttamente da Buckingham
Palace,
mandaci dal fratellino Mycroft.
La prospettiva che ci si presentò davanti era esattamente
quella che ci
aspettavamo. Una folla in delirio, composta di civili e sudditi,
invadeva la
piazza di fronte al palazzo, armata di macchine fotografiche, taccuini
con
penne o semplicemente domande cui nessuno poteva permettersi di
rispondere.
Non entrammo dal cancello principale; quando il cocchiere vide la
folla, cambiò
strada e ci fece entrare dal cancello sul retro.
Non c’era nessuno ad aspettarci fuori, tutti si erano
barricati dentro, lontani
dai giornalisti e le loro fotocamere.
Ormai tutti sapevano che Sherlock Holmes stava seguendo il caso, quindi
non ci
preoccupammo di evitare di essere fotografati ed entrammo dalla porta
principale.
Mycroft e Lestrade ci vennero subito incontro ma Sherlock non permise
loro di
parlare.
“Mi domando, Lestrade” iniziò subito
“chi venga ammesso tra i suoi uomini, se
per i giornalisti è stato così semplice avere
tutte le informazioni. Mycroft-“
aggiunse, voltandosi verso il fratello.
“Come stai?” lo interruppe subito, con aria
preoccupata “In quarantasette anni
raramente ti ho visto con una sciarpa. Stai bene?”
“Sto benissimo” rispose, con un lieve sorriso di
rassicurazione.
“Ha la febbre” lo corressi.
A quel punto Mycroft si voltò verso di me, ormai cosciente
che Sherlock non
avrebbe mai ammesso di stare male neanche se avessimo testimoniato
misurandogli
la febbre lì, davanti a tutti.
“Alta?”
“Non troppo, ma sarebbe meglio se riposasse”
“Lo riporti a casa, allora”
“Dubito che collaborerebbe”
“Stordiamolo”
“Signori” ci interruppe Sherlock, prima che potessi
chiedermi come Mycroft
intendesse stordire il fratello. Forse parlò in quel momento
perché lui non
voleva saperlo. “Vi ricordo che sono qui, accanto a
voi”
Dopo di che ci superò e tornò verso la camera
della Regina.
Passai lo sguardo tra lui che se ne andava e il fratello che ancora lo
guardava, preoccupato.
Mi sembrava incredibile riuscire a scorgere quella traccia di
umanità in
entrambi gli Holmes in una sola volta. Lo sguardo preoccupato di
Mycroft e il
sorriso rassicurate di Sherlock mi avevano colpito, in qualche modo.
Lo raggiungemmo mentre parlava con uno Yarder e lo aspettammo sulla
porta.
“Ci porteranno il cappio” comunicò,
raggiungendoci “Intanto, Mycroft”
abbassò
la voce “dovresti portarmi i fascicoli contenenti le
informazioni sugli
ambasciatori”
“Niente donne” confutò l’altro.
“Niente donne” fu la conferma.
Quando Mycroft se ne andò, Sherlock si accomodò
su una poltrona nella camera. Teoricamente
non avrebbe dovuto, trattandosi di una scena del crimine e futura
camera dell’erede
al trono, ma nessuno gli disse niente, quindi mi avvicinai a lui, in
attesa.
“Non possiamo fare niente finché non ci portano il
cappio. Tanto vale
riposarsi. Watson, dovrebbe sedersi, non credo che la sua gamba sia
felice di
tutto questo sforzo”
Prima che il mio orgoglio mi permettesse di protestare, Holmes era in
piedi ed
io seduto. Quasi non mi accorsi di quello che successe. Si era alzato,
aveva
premuto sulle mie spalle e mi aveva fatto sedere.
Una gentilezza simile da parte sua era del tutto innaturale ed era la
seconda
quella mattina. C’era qualcosa di strano nel suo
atteggiamento, e non era
niente che fosse riconducibile al caso o alla febbre, a meno che non
fosse il
suo modo di ringraziarmi per prendermi cura di lui.
Scartai subito questa ipotesi, in quanto non era certo la prima volta
in cui mi
ritrovavo con lui malato tra le braccia. Non riuscivo proprio a capire
che cosa
gli fosse preso.
Non so quanto tempo passò da quando mi ero misteriosamente
scoperto seduto
sulla poltrona a quando arrivo Clarkie con il cappio con cui era stata
trovata
impiccata la Regina, ma so che lo avevo trascorso tutto osservando
Holmes,
cercando di scovare qualcosa di anomalo nel suo atteggiamento. Niente.
Quando l’oggetto del delitto arrivò, Holmes non mi
rivolse più uno sguardo e
prese immediatamente la busta dalle mani dello Yarder. Estrasse
velocemente il
cappio, ma non spese più di un secondo per esaminarlo.
Sorrise immediatamente,
vittorioso.
“Watson” mi chiamò, così mi
alzai e lo raggiunsi vicino alla porta “lei è un
soldato, ha combattuto in guerra, quindi certamente avrà
conosciuto ogni grado
dell’esercito. Che cosa le dice questo cappio?”
chiese, mostrandomi suddetto
oggetto.
Capii immediatamente perché aveva sorriso. Una cosa simile
era stata
immediatamente evidente anche a me. Quello non era un cappio come tutti
gli
altri.
“E’ un nodo marinaio” osservai.
“Esatto, vecchio mio” si congratulò,
sorridendo. Quel sorriso mi fece un effetto
diverso dal solito, forse per via degli occhi che brillavano,
febbricitanti, o
per la sua pelle pallida imporporata lievemente sulle guance.
“Dubito che la
Regina sapesse fare un comune nodo a cappio, figuriamoci qualcosa del
genere. Questo
restringe la nostra lista degli indiziati”
Come se si fosse sentito chiamare, Mycroft rientrò nella
stanza con una borsa
che poco prima non aveva a tracolla.
Tutti gli Yarders lasciarono immediatamente la stanza e si chiusero la
porta
alle spalle.
“Tutti gli ambasciatori europei uomini”
comunicò, posando la borsa sul letto. Entrambi
ci si sedettero mentre io, non so perché, evitai. Forse, e
dico forse perché era
pur sempre il letto
della nostra defunta Regina. Mi chiesi come si permettessero di
comportarsi
così.
Vidi Sherlock aprire la borsa e subito scartare un numero consistente
di
fascicoli senza neanche aprirli, solo leggendone i nomi
nell’intestazione. Avvicinandomi,
notai che erano gli ambasciatori degli stati che non avevano sbocchi
sul mare o
fiumi navigabili.
“Restano Spagna, Francia, il novello stato Italiano e la
Grecia…” osservò a
bassa voce, più parlando tra sé e sé
che con noi.
Aprì tutti i quattro fascicoli sul letto, cercando
un’informazione precisa che
non si preoccupò di svelarci.
“Fammi indovinare” richiamò la sua
attenzione Mycroft con un sorriso quando
lui, sbuffando con aria seccata, li aveva richiusi tutti.
“Nessuno di loro ha la
misura del piede adeguabile all’impronta che hai
trovato”
Quella era una delle situazioni in cui mi sentivo certamente di troppo
tra di
loro. Si capivano con un solo sguardo, ragionavano di pari passo ed io
mi
sentivo quasi come se venissi da un altro mondo e mi fossi intrufolato
clandestinamente nel loro.
“Già…” Si rialzò,
restituendo i fascicoli al fratello e riavviandosi alla
porta. “Non credo che a Buckingham Palace ci sia altro da
fare. Andiamo a casa,
Watson”
Mi avviai con lui verso l’uscita, quando improvvisamente mi
bloccò per un
braccio.
“Aspetti un attimo”
Tornò indietro di corsa per raggiungere Mycroft. Si
scambiarono poche parole,
ma da dove ero, non riuscii a sentire niente. Quando mi raggiunse di
nuovo,
però, era ancora più pensieroso.
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Capitolo 6 *** VI. Experiment. ***
VI.
Experiment.
“Non
ha senso!” sbottò, camminando su e giù
per il salotto.
Holmes ancora parlava del caso, ma io avevo smesso di seguirlo almeno
un’ora e
quindici minuti prima. Almeno, avevo smesso di seguirlo nelle sue
spiegazioni
perché fisicamente, invece, lo seguivo davvero. Per tutta la
stanza, cercando
di fermarlo e portarlo a letto ma credo non avesse sentito una parola
di tutte
le preoccupazioni che avevo espresso per la sua salute.
“Holmes, vada a dormire, è malato-”
“Allora” iniziò, fermandosi
improvvisamente in mezzo alla stanza, causando uno
scontro tra me e la sua schiena, di cui lui comunque non
sembrò accorgersi,
rimanendo immobile com’era prima della collisione. Era come
andare contro un
muro ad alta velocità; l’unico che si fa male sei
tu, mentre il muro ti
sbeffeggia con la sua impassibilità. Mi stava totalmente
ignorando. Parlava ad
alta voce solo per ragionare meglio, lo avrebbe fatto, anche se non ci
fossi
stato. “Un uomo, marinaio con le scarpe a punta quadrata
irrompe nella stanza
da letto della Regina dopo cena, in modo da non rischiare di avere
incontri
spiacevoli. Appena entra la minaccia con la pistola, fermandosi sulla
porta –
le impronte con il vapore erano più definite sulla porta e
vicino allo
scrittoio, per evitare un qualunque richiamo d’aiuto. La
minaccia con la
pistola da una distanza tanto ravvicinata da far cadere della polvere
da sparo
dalla canna al foglio, imponendole di scrivere una lettera
d’addio in modo che
sembri che si tratti di suicidio. Si procura la corda dalla stanza per
non far
credere che sia arrivato un oggetto dall’esterno, ma la
Regina non è capace di
fare un nodo scorsoio, non essendosi mai spostata se non per il
tragitto
Buckingham Palace – Wight, quindi annoda il cordone e la
spinge a impiccarsi.
Adesso” disse, andando a sedersi sulla poltrona.
“Cosa c’entra il ragazzo? O,
meglio: il rapporto di... intima
amicizia che sembra avere con la Principessa Alice c’entra
qualcosa con la
morte della Regina? Non può mirare al trono, non
è Alice l’erede ma Edoardo, e
se avesse voluto uccidere anche lui, l’avrebbe fatto prima
che scoppiasse lo
scandalo, una persona che s’ingegna tanto per far passare un
omicidio per
suicidio non sarebbe tanto stupida da commettere un secondo delitto
quando
l’intero corpo di polizia ha messo le tende a Palazzo e senza
dubbio non le
toglierà fino all’elezione dell’erede.
Però… però, anche se non ha intrapreso
la carriera in marina, suo padre sì e senza dubbio un padre
d’indole militare,
qualunque sia il campo specifico, tende sempre a crescere i propri
figli nello
stesso modo in cui lui stesso è cresciuto. Potrebbe
inconsciamente aver
insegnato al figlio qualcosa che avrebbe potuto aiutarlo
nell’omicidio, ma non
capisco il nesso…”
Per un attimo fui tentato di chiedergli chi fosse il ragazzo, ma
cancellai
immediatamente questa idea dalla mia testa. Chiunque fosse, le
spiegazioni a
riguardo avrebbero potuto benissimo attendere la carrozza del giorno
dopo
quando saremmo tornati a Buckingham. Ciò che mi premeva di
più, al momento, era
assicurarmi che Holmes andasse a riposare e, ovviamente, tenerlo
lontano dall’astuccio
in marocchino.
“Qualche teoria, Watson?” mi chiese, rialzando per
la prima volta lo sguardo su
di me in tutta la serata.
“Le mie teorie sarebbero talmente ridicole e
sbagliate-”
“Come il solito” m’interruppe.
Presi un profondo respiro, stringendo i pugni, e ripresi.
“-sarebbero talmente
ridicole e sbagliate che sarebbe meglio che riposasse prima di subire
un tale
shock per la sua intelligenza. Per l’amor di Dio, Holmes, lei
è umano! Se nelle
sue già pessime condizioni di salute aggiunge tutto lo
stress che si sta
caricando sulle spalle, collasserà prima di domani! Vada a
dormire, si riposi
un po’!” esclamai, esasperato.
“Se fossi stato in grado di riposarmi in un momento simile lo
avrei già fatto,
non crede?” chiese di rimando.
“Lei è perfettamente in grado di riposarsi come
qualunque altro essere umano
malato e sotto stress, solo che se lo impedisce!”
“Non so se l’ha notato, Watson, ma in questo
momento il destino del regno
britannico dipende da me. Lei ha combattuto per
l’Inghilterra, sa quanto sia importante”
“Lo so, ma mi dispiace informarla che tengo più
alla salute del mio migliore
amico che al futuro di un gruppo di funzionari soprappagati che restano
seduti
tutto il giorno all’interno di una stanza!”
Lo zittii. Per la prima volta, da quando lo conoscevo.
Molto probabilmente non si aspettava di sentirmi dire che lo ritenevo
più
importante della nostra Inghilterra, per cui avevo rischiato la vita.
Dunque, quando mi avvicinai alla sua poltrona, lui si alzò
senza una parola.
Gli posai una mano sulla spalla e lo condussi verso la sua camera.
Fu davvero un’impresa epica riuscire ad arrivare al suo letto
senza calpestare
niente sul pavimento. Ancora mi chiedo come faccia a vivere bene in
quelle
condizioni. In guerra, nei nostri accampamenti di fortuna, eravamo
più
ordinati.
Appena si sdraiò sul letto ancora disfatto dalla mattina,
presi la sedia alla
sua scrivania e la avvicinai.
“Sappia che non ho alcuna intenzione di andarmene fino a che
non si sarà
addormentato” annunciai.
Non disse niente ancora una volta, nonostante dovessi essere io a
coprirlo,
altrimenti lui non lo avrebbe fatto.
Contraddicendosi da solo, si addormentò nel giro di pochi
minuti.
Non me ne andai, comunque. Rimasi seduto accanto al suo letto ad
osservare le
sue guance leggermente imporporate e il suo respiro regolare. Almeno
finché lì,
su quella sedia, il sonno vinse anche me.
Quando mi svegliai, non ero sulla sedia, ma avvolto dal calore delle
coperte.
Non capii subito, quando mi misi seduto, perché fossi
immerso nel caos della
camera di Holmes, ma poi ricordai di averlo obbligato ad andare a
dormire,
seppur non sapessi come fossi arrivato nel letto.
Mi voltai dall’altro lato del letto, trovandolo vuoto. Mi
resi conto, allora,
che, come il solito, a svegliarmi erano state le note del violino che
venivano
dal salotto. Guardai l’orologio: le tre in punto.
Si era svegliato, mi aveva messo a letto, e si era alzato. Non riusciva
proprio
a dormire.
Caddi di nuovo con la testa nel cuscino prima di riuscire ad alzarmi.
Il fatto
era che quella stanza era lui; il caos, la stranezza degli oggetti,
persino il
suo profumo, impregnato nelle coperte in cui mi stavo crogiolando come
un
cucciolo in cerca di coccole.
Prima di rendermi conto di cosa stavo facendo, mi ritrovai ad
abbracciare il
suo cuscino. Quando me ne accorsi, me ne allontanai come se mi fossi
scottato,
guardandomi circospetto intorno sperando che non mi avesse visto.
Ma lui era ancora in soggiorno, sentivo ancora le note
nell’aria.
Mi alzai, cercando di uscire dalla fase di stordimento immediata dopo
un sonno
profondo, e mi diressi verso il soggiorno.
Quando lo vidi, mi strappò un sorriso. Era a testa in
giù sulla poltrona, gli
occhi chiusi e, seppure in una posizione molto scomoda, continuava
imperterrito
a suonare quella melodia che lo avevo sentito suonare spesso anche
quando non
avrei dovuto essere a Baker Street, durante il matrimonio, che
interrompeva
ogni volta che si rendeva conto della mia presenza. Una delle mie
preferite.
La musica si fermò quando aprì gli occhi,
fermandosi a guardarmi, ancora
sottosopra.
“Dovrebbe essere a riposare” asserii.
Sbuffò, distogliendo lo sguardo, ma non disse niente come
risposta. Iniziai a
pensare che soffrisse d’insonnia e non me lo avesse mai
detto, perché per
quanto stanco potesse essere, ogni notte, alle tre, si svegliava ed
andava a
suonare.
Ripose il violino a terra, rimanendo comunque in quella scomoda
posizione.
“Watson, ho bisogno del suo aiuto per un esperimento molto
importante” disse
invece, con la voce arrochita dalle molte ore di muto.
“Non le sembra un po’ tardi per dedicarsi alla
chimica?”
“Non ha a che vedere con la chimica, né con il
caso. Può avvicinarsi per
favore?”
Incuriosito – e, ammettiamolo, anche un po’
intimorito: quando mai, durante un
caso importante, Sherlock Holmes si perdeva in esperimenti che non
erano utili
alla soluzione? – mi avvicinai, inginocchiandomi, nonostante
le proteste della
ferita, sul pavimento davanti alla sua poltrona.
Non aveva distolto lo sguardo da me neanche un attimo e adesso i suoi
occhi
ancora lucidi per la febbre sembravano brillare ancora di
più. Forse per la
vicinanza o forse perché, in un modo o nell’altro,
brillavano di più davvero. Era
quella particolare scintilla che aveva quando era vicino alla
conclusione di un
caso particolarmente complicato e mi guardava così, in quel
momento, come se il
caso su cui stava lavorando fossi stato io.
Forse anch’io lo stavo osservando allo stesso modo
perché non riuscivo a capire
quali fossero le sue intenzioni. Poi, oltre agli occhi luminosi, le sue
guance
erano ancora colorate di un lieve rossore e le labbra umide dischiuse.
Era davvero
bellissimo.
Ebbi la tentazione di sollevare una mano almeno fino a toccargli i
capelli.
Volevo sentirli scorrere tra le dita, ma non lo feci. Sarebbe stato
troppo
sconveniente.
“Che cosa devo fare?” chiesi.
Sembrò riflettere molto sulla risposta da darmi, nonostante
mi avesse chiesto
lui di partecipare. Lo vidi deglutire a vuoto, mentre lo sguardo
rimaneva fisso
nel mio.
“Deve baciarmi”
Mi sembrò che il tempo si fermasse.
Forse stavo ancora dormendo, forse avevo bevuto troppo a cena, ma non
riuscivo
a credere che quelle parole fossero uscite davvero dalle sue labbra.
Alla fine, uno di quei banalissimi luoghi comuni è vero.
Aspetti qualcosa per
tutta la vita e quando arriva, non sei mai abbastanza preparato.
“Cosa-?” mormorai, sconvolto.
Considerai di essere, sì, sveglio, ma ancora stordito dal
sonno, quindi avergli
sentito dire quello che io volevo sentire. Avevo bisogno di
sentirglielo
ripetere prima di rischiare di rovinare per sempre la nostra amicizia
che, fino
a quel momento, era quanto di più prezioso avessi.
“Mi ha sentito benissimo, non mi costringa a
ripetermi”
Non ci pensai più.
Mi chinai su di lui e lo baciai.
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Capitolo 7 *** VII. Like nothing happened. ***
VII.
Like nothing happened.
La mattina dopo, quando mi svegliai, sorridevo.
Adesso so che per i lettori questo potrebbe sembrare ambiguo, ma non
l’è.
Dormii in camera mia, da solo. Non successe niente oltre quel bacio ma
solo il
fatto che ci fosse stato mi aveva permesso di dormire bene.
L’avevo rivisto nella mia testa, una volta andato a letto,
l’avevo sognato.
“Deve baciarmi.”
“Cosa-?”
“Mi ha sentito benissimo, non mi costringa a
ripetermi”
Non ci pensai più.
Mi chinai su di lui e lo baciai.
Mi sembrò incredibilmente naturale, la cosa più
giusta che avessi mai potuto
fare in tutta la vita.
Come se un vuoto, dentro di me, di cui non conoscevo
l’esistenza, si fosse
riempito appena avevo sentito il calore delle sue labbra propagarmisi
in tutto
il corpo.
Sentivo distintamente il cuore fuori battito nel petto, rimbombare
nelle
orecchie e pulsare il sangue furiosamente in tutto il corpo.
Avrei pianto se non avessi avuto una dignità.
Mi tenevo in equilibrio in quella posizione purtroppo scomoda per le
mie ferite
poggiando le mani sulle ginocchia, ma appena le mie labbra si posarono
sulle
sue, sentii una delle sue, di mani, finire sulla mia nuca, tra i
capelli, e
spingermi leggermente verso di se.
Non sapevo che genere di esperimento potesse essere quello che
richiedeva un
bacio dal proprio migliore amico, ma da quel momento iniziai a
ringraziare
l’attitudine di Holmes a sperimentare cose nuove.
Quel bacio, per me, rappresentava la vita.
Le sue labbra avevano un sapore che era un misto di tabacco e
cioccolata, strano
ma delizioso.
Sarei potuto andare avanti così tutta la notte, continuare a
muovere le labbra
sulle sue, anche senza approfondire il bacio. Mi andava bene comunque.
Era pur
sempre Sherlock Holmes.
Allontanai la mano destra dal mio ginocchio, abbandonando uno dei miei
preziosi
sostegni in un gesto automatico, per andare a sfiorargli il viso.
Sentii un lieve mugolio di apprezzamento uscirgli dalle labbra e
spegnersi
sulle mie così, compiaciuto di fargli
quell’effetto, pensai di poter rischiare;
gli sfiorai le labbra con la lingua, labbra che subito ma lentamente,
aprì,
lasciandomi libero accesso.
Fui percorso dai brividi appena la mia lingua incontrò la
sua, si sfioravano,
si accarezzavano.
Pochi istanti dopo l’inizio di questo contatto, la mano che
aveva tra i miei
capelli scivolò fino alla mia spalla per allontanarmi
gentilmente. Non opposi
resistenza e lo lasciai fare.
Seppur avesse riaperto gli occhi, non mi guardava. Mi sfuggì
un lieve sorriso,
che mi preoccupai subito di far sparire; non volevo che pensasse che mi
prendessi gioco di lui perché era imbarazzato.
Allontanai la mano dal suo viso, riprendendo la mia posizione
originaria. Dopo
aver passato qualche istante continuando a guardarlo, mi decisi ad
alzarmi,
tendendogli la mano perché facesse lo stesso.
Si ribaltò sulla poltrona, sedendosi compostamente e, non
senza una certa
titubanza, la afferrò, per poi alzarsi e lasciare che lo
conducessi fino alla
sua camera. Mi assicurai che si mettesse a letto, coperto per bene fino
a sotto
gli occhi.
“Buonanotte, Holmes”
Uscii dalla sua stanza e andai a dormire.
Quando uscii dalla mia stanza, dopo essermi dato un aspetto
presentabile,
trovai Holmes già seduto sulla sua poltrona, con le mani
giunte sotto il mento
e la pipa che pendeva dalle sue labbra.
Non sapendo quale fosse l’atteggiamento giusto da adottare
dopo quello che era
successo, decisi che avrei fatto bene a comportarmi come al solito. Se
fosse
stato necessario qualche cambiamento, lui certamente non avrebbe
mancato di
farmelo notare.
Avvicinandomi, notai che anche quella mattina, la mia colazione era su
un
vassoio sulla mia poltrona.
“Oggi non andremo a Buckingham Palace”
annunciò all’improvviso. “Non prima di
sera, almeno”
“E come mai?” chiesi, facendo del mio meglio per
mantenere un tono di voce
neutrale.
“Passerà Mycroft prima dell’ora di cena
per informarmi riguardo a una cosa che
gli ho chiesto. Gli ho mandato un telegramma questa mattina presto, mi
è appena
arrivata la risposta”
Non si era voltato verso di me neanche un secondo, ma
sventolò nella mia
direzione il suddetto telegramma con la risposta del fratello.
Sollevai il vassoio e, una volta seduto, iniziai a fare colazione.
“Credo di aver risolto il caso”
Ero felice per lui ma quell’indifferenza rispetto a cosa era
successo, in
verità, mi feriva.
Lo assecondai, fingendo, come lui, che niente fuori
dall’ordinario fosse
successo quella notte.
Dedicai l’intera giornata cercando ancora una volta di
convincere Holmes a
riposarsi, visto che non avremmo avuto niente da fare fino a sera.
Ovviamente,
fui del tutto ignorato.
Borbottava tra sé e sé, strimpellava del tutto
casualmente il violino, lavorava
a degli esperimenti lasciati a metà da mesi, pur di non
mettersi a letto.
Mi aveva tenuto impegnato tutto il giorno, per questo non mi accorsi
che la
giornata era passata fino a quando Mycroft entrò
nell’appartamento.
“Te lo posso assicurare, Sherlock” disse, sedendosi
sul divano “Se mi fai
muovere ancora una volta da casa mia ti uccido”
“Ed io che pensavo fosse qualcosa di relativo al
caso!” lo prese in giro
l’altro.
Con uno sbuffo seccato, l’altro comincio. “Non ho
mai visto un ragazzo così
innamorato in tutta la mia vita, posso giurartelo. Potrei farti un
elenco dei
motivi per cui lo è, ma ti annoieresti”
“Infatti. In conclusione, è un vero
idiota”
“Sì, se ti riferisci al campo sentimentale. Non
è un genio, ma neanche un vero
idiota. Per alcune cose, il ragazzo è molto intelligente,
per altre un totale
inetto”
“Certamente l’Ambasciatore non si sarebbe portato
in un viaggio d’affari nello
Stato più potente del mondo un completo idiota”
“Esatto”
“Hai visto le sue scarpe?”
“Punta quadrata”
“Ottimo. Ci manca il movente”
“Signori” li interruppi, confuso “Di chi
state parlando?”
“Si ricorda, Watson, il ragazzo che consolava Alice? Il primo
giorno d’indagini
mi sono imperdonabilmente dimenticato di informarmi su chi fosse e
stavo per
commettere lo stesso errore anche ieri, ma prima di andarcene mi sono
ricordato
e sono tornato indietro per chiedere a Mycroft. Era Pierre Rostand,
figlio
dell’Ambasciatore francese”
“Sembra” riprese Mycroft “che abbia
iniziato una relazione con Alice poco dopo
che lui e suo padre si stabilirono all’ambasciata, ma
riuscendo a nasconderla
alla Regina”
Mycroft rimase a cena da noi poi, con la sua carrozza, ci avviammo
tutti
insieme a Buckingham Palace, dove Lestrade ci attendeva.
“L’Ambasciatore Rostand?” gli chiese
subito Holmes, senza neanche salutarlo.
“E’ nel salone principale, ma-”
Senza permettergli di proseguire, lo sorpassò e noi lo
seguimmo.
“Monsieur Rostand?”
lo chiamò.
L’uomo, seduto sul divano, si voltò verso di lui.
Aveva i capelli ben ordinati,
dei leggeri baffetti e lo sguardo imperioso.
Nonostante le circostanze, l’uomo sedeva perfettamente rigido
e composto nel
suo abito turchese, mostrando quanto l’educazione militare
avesse influito
sulla sua caratterizzazione.
“Oui? Nous le savons, monsieur?”
“No, pas encore. Je suis Sherlock
Holmes,
détective privé. J'ai été invité
à enquêter sur les circonstances
suspectes concernant la mort de la reine Victoria”
Capii per puro istinto che cosa avesse detto, ma vidi il figlio di
Rostand
irrigidirsi.
“Et alors? Qu'est-ce que cela a à
voir avec moi? Il est accusé par hasard?!”
“Bien sûr que non. Mais j'ai besoin de
parler en privé vois
elle et son fils”
Rostand
si voltò lentamente verso il figlio, il quale
sembrò rimpicciolirsi sul divano
ogni secondo di più.
Alice, rimasta in disparte fino a quel momento, si avvicinò
al divano.
“Pierre, che cosa hai fatto?” chiese, sospettosa,
in procinto di scoppiare a
piangere. La principessa, evidentemente, conosceva il francese.
“Principessa Alice, mi spiace dirglielo, ma temo che non
potremo dirle niente
finché non saranno dichiarate chiuse le indagini. Monsieur? Vous pouvez me suivre, s'il vous
plaît ?”
concluse, tornando a rivolgersi ai
signori.
Il padre si alzò, afferrando con forza il braccio del figlio
per indurlo a fare
lo stesso.
“Tu me fais mal, papa!”
si lamentò il
ragazzo, cercando di divincolarsi dalla stretta.
“Tais-toi! Il nous semble que vous
avez besoin d'une explication!”
Holmes si diresse verso una porta chiusa poco avanti seguito da Rostand
e il
figlio e poi, pochi attimi dopo, raggiunto dall’Ispettore.
“No, Lestrade” lo fermò, per poi entrare
con i due uomini dentro la stanza.
[NdA]
Strano vero? xD Un NdA!
In realtà sono qui solo per comunicarvi che il nome
“Pierre” mi è stato
suggerito da Erica perché non mi veniva in mente uno
straccio di nome, mentre
il cognome “Rostand” è stato preso in
prestito dal poeta francese Edmond
Rostand, vissuto proprio nell’epoca vittoriana, morto nel
1918.
Adesso, per la gioia di PepperP
vi annuncio che non scriverò una parola di nessun altra
fanfic finchè non avrò postato il
prossimo capitolo di Logic for the Hero.
Che altro? Si, il mio profilo EfP su Facebook.
http://www.facebook.com/profile.php?id=100002411997967
Vi segalo anche il mio
profilo vero, ma non parlatemi di fanfic lì, ho creato
l'altro apposta. Ve lo segnalo in caso vi interessasse sapere che razza
di persona è la mente contorta che scrive certe cose:
http://www.facebook.com/profile.php?id=10000241199796
Credo sia tutto.
Alla prossima <3,
|
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Capitolo 8 *** VIII. Case closed. ***
VIII.
Case Closed.
Non so dire con precisione quanto tempo Sherlock Holmes con
l’Ambasciatore
Rostand e il figlio rimasero chiusi in quella stanza.
Spesso, però, capitò di sentire Rostand alzare
pericolosamente la voce,
probabilmente inveendo contro il figlio, e il mio amico alzarla a sua
volta,
cercando di riportare l’ordine.
Decisi, nell’attesa, che avrei iniziato ad appuntare i
passaggi fondamentali di
questo caso sul mio taccuino per una futura trascrizione ma, frugando
nelle
tasche del mio cappotto, non trovai né quello, né
la mia penna.
Quando uscirono dalla stanza, il ragazzo piangeva,
l’Ambasciatore Rostand sembrava
rischiare di scoppiare per l’ira da un momento
all’altro, facendosi rosso in
viso, mentre il mio amico a mala pena tratteneva un sorriso per il caso
appena
brillantemente risolto. Spesso trovavo strana la sua
capacità di sorridere per
delle disgrazie, se queste lo avevano stimolato mentalmente o
particolarmente
divertito.
Lo vidi estrarre dalla tasca del cappotto il mi taccuino, strapparne
qualche
pagina e porgerla a Lestrade. Non mi chiesi neanche come o quando mi
avesse
preso quello e la penna. Non capii neanche perché me li
avesse sottratti, di
certo se me li avesse chiesti, non glieli avrei negati. Non gli avevo
negato
neanche un bacio.
Era inquietante, in effetti, costatare che sorridesse per degli
omicidi, ma era
comunque una delle stranezze che lo rendevano così
intrigante.
“Je ne peux pas
y
croire! Vous avez tué la reine d'Angleterre! Pourquoi?!
Pourquoi, vous damnés idiot,
pourquoi?!”
sbraitò l’Ambasciatore, dando le spalle
al figlio.
Dopo quelle parole, di cui capii per puro istinto un possibile vago
significato, la principessa Alice scoppiò in un pianto
disperato.
“NO! Non puoi essere stato tu! NO!”
Sfortunatamente, la ragazza non venne ascoltata da nessuno dei due.
“Papa,
s'il vous plaît, écoutez-moi!”
pianse il ragazzo, cercando di afferrare il braccio del padre.
“NON! Je ne
m'inquiète
pas! Etes-vous une meurtrière, une poussière
meurtrière! Pour une fille vous
mettre la France dans un mauvais jour, après que nous ayons
laborieusement retrouvé
conformité après Napoléon!”
“Papa, je vais
prier!”
“Ne m'appelez pas «papa»! Je
n'ai pas plus d'enfants, à
partir de maintenant!”
“Perché… ?”
pianse ancora la
ragazza.
Mosse
qualche passo verso di loro, stringendo i pugni,
ma non resistette oltre e cadde in ginocchio con il viso bagnato dalle
lacrime
nascosto tra le mani, cercando di occultare i singhiozzi, lasciando il
giovane
Rostand alla dovuta ira del padre.
Mycroft le si avvicinò e le afferrò dolcemente il
braccio per farla rialzare,
mormorandole qualche parola di conforto.
Appena fu in piedi, gli gettò le braccia al collo e
continuò a piangere. Fino a
quel momento, non mi ero mai accorto di quanto fosse stretto il legame
tra il
fratello maggiore del mio amico e la famiglia reale.
“Mycroft ha cercato di fare un po’ da padre ai
più giovani negli ultimi anni. È
parecchio tempo, ormai, che ha messo le tende a Buckingham e non le
schioda più.
I ragazzi si sono affezionati a lui, per qualche oscuro
motivo” mi disse
Sherlock, avvicinandomisi e rispondendo ai miei pensieri.
Mi porse il mio taccuino e la penna, che riposi di nuovo nella tasca,
fulminandolo con lo sguardo per l’ennesimo furto.
“Lestrade” aggiunse poi, rivolgendosi
all’ispettore “Il ragazzo deve tornare in
Francia ed avere un processo. Non può essere tenuto qui, la
stampa farebbe
troppe domande. Dobbiamo sostenere la teoria del suicidio o, almeno,
farla
passare per morte naturale. Deve essere presente un Ambasciatore
inglese al
processo del ragazzo, però”
“Vado io” si propose subito Mycroft.
A quel punto, Sherlock gli si avvicinò. “Deve
passare per un normalissimo
processo, nessuno ne dovrà sapere niente o
l’equilibrio Europeo andrà in pezzi.
Non è passato molto da l’ultima guerra scatenata
dalla Francia. Dobbiamo evitare
lo scandalo”
“Ovvio. Potresti venire anche tu, sai? Credo che
approfitterò della mia
presenza nel Continente per fare un saluto alla famiglia”
Sherlock sbuffò, distogliendo lo sguardo dal fratello con
fare annoiato.
“C’è un motivo per cui non sono
più andato in Francia, non credi?”
“E’ un no?”
“Esatto. Watson” si voltò verso di me.
“Abbiamo finito qui. Possiamo andare”
Strinsi velocemente la mano al fratello e lo seguii verso la porta,
vedendo con
la coda dell’occhio uno Yarder che ammanettava Pierre Rostand.
“Saluti questo posto, dottore, non credo che ci torneremo
più”
Non feci neanche in tempo ad aprire bocca per rispondere o chiedere
cosa si
fossero detti in quella stanza che fummo fermati.
“Mister Holmes!”
Quado ci voltammo, con nostra grande sorpresa vedemmo il Principe
Edoardo
raggiungerci a passo svelto, ma sempre con la stessa postura elegante
che
contraddistingueva la casata Reale.
“Devo ringraziarla, Mister Holmes” gli strinse
vigorosamente la mano.
Reagii piuttosto male. Sapevo che quel gesto non aveva secondi fini,
era pura
gratitudine, ma non potei impedire al mio corpo di irrigidirsi e
distolsi lo
sguardo.
“Lei ha reso giustizia alla mia povera madre. Le saremo
eternamente grati.
Riceverà al suo indirizzo il nostro assegno”
“Non l’ho fatto per denaro, Maestà”
lo salutò, inchinandosi. “Sappia solo che
è stato molto fortunato. Lei sarebbe
stato il prossimo”
Prima che questi potesse ribattere con un’esclamazione di
stupore che dalla sua
espressione sembrava voler esprimere, afferrandomi per un braccio per
portarmi
con se, Holmes gli dette di nuovo le spalle, conducendoci entrambi
fuori dal
palazzo.
Non salimmo sulla carrozza che ci attendeva, proseguendo a piedi. La
distanza
tra Buckingham Palace e Baker Street non era poca, ma camminavamo
lentamente,
in modo che la mia gamba non potesse risentirne troppo.
“Spesso l’amore si manifesta come una colpa
terribile, mio caro Watson” interruppe
poi improvvisamente il silenzio. “Nel nostro caso, la sua
colpa è aver ucciso
la nostra Regina”
“Si può sapere cosa è successo?! Ha
parlato per tutta la sera in francese, se
sono stato fortunato ho capito tre parole! Perché ha portato
l’Ambasciatore e
il ragazzo in un’altra stanza?”
“Perché sapevo che era stato lui ma non ero a
conoscenza del movente e si è
sempre più predisposti a parlare se non ci sono troppe
persone intorno. Il
movente, per l’appunto, è l’amore. Il
ragazzo ha ricevuto un’istruzione
militare e in questo campo si è manifestato molto
intelligente, ma è un po’
tardo riguardo a tutto ciò che non riguarda la nautica.
Senza dubbio ricorderà
di quando io e Mycroft parlavamo della possibilità che
l’assassino fosse un
idiota.
Pierre Rostand e la principessa Alice avevano una relazione a quanto
pare molto
seria. Lei ha commesso il grave errore di dire che le sarebbe piaciuto
essere
Regina. Il ragazzo, come ho già detto, tardo di mente, ha
deciso che avrebbe
fatto il possibile per far sì che Alice diventasse Regina,
quindi ha costretto
Vittoria a suicidarsi, sfruttando il suo perenne lutto nei confronti
del
marito.
L’errore del ragazzo è stato quello di credere che
il suicidio della Regina
sarebbe stato accettato senza ulteriori accertamenti se una lettera
testimoniava che lo aveva fatto volontariamente.
Per fortuna Mycroft ha convinto la famiglia Reale a ingaggiarmi,
perché non
aveva portato a conclusione il suo piano: la seconda parte consisteva
nel far
mantenere la corona qualche mese a Edoardo, per poi ucciderlo e far
passare
anche questo come suicidio, obbligandolo a scrivere una lettera in cui
dichiarava di non essere in grado di sopportare la pressione. In
più, l’avrebbe
costretto a scrivere che lasciava la Corona a Alice, pupilla di
Vittoria da
sempre.
Il ragazzo non conosce molto l’inglese, ma abbastanza da
capire se quello che
viene scritto è quello che lui vuole che venga letto.
Far passare quest’omicidio come suicidio non era
un’azione fatta nel proprio
interesse. Per qualche ragione, credeva che tutti sapessero che a Alice
sarebbe
piaciuto essere Regina e che sarebbe stata sospettata in caso si fosse
sospettato proprio un omicidio. Non voleva proteggere se stesso, ma Lei.
E’ per questo che ho detto che l’amore spesso si
manifesta come una grave
colpa.
Ho trascritto tutta la confessione di Pierre preoccupandomi di tradurla
in
inglese e gliel’ho fatta firmare. Ho già
consegnato tutto a Lestrade. Il caso è
ufficialmente chiuso”
Cercai di ignorare le sue dichiarazioni sulla meschinità
dell’amore che per me,
da grande sentimentale quale sono sempre stato, erano una grande
offesa. Soprattutto
come persona profondamente innamorata in quello stesso momento.
“Quindi se lei non avesse accettato il caso, tra poco avremmo
avuto un altro
omicidio a Buckingham?”
“No. Mycroft ha fatto chiamare me perché sapeva
che non mi sarei tirato
indietro. Ma, nella remota ed improbabile possibilità che io
non avessi
accettato, credo che Mycroft stesso si sarebbe occupato delle indagini
in modo
più attivo di quanto non abbia fatto in realtà in
questa vicenda. Forse non se
n’è reso conto, Dottore, ma senza muoversi da
dov’è, lui ha risolto il caso
prima di me. Questo, a provarle quanto avessi ragione quando le dissi
che è più
bravo di me”
“Perché non va con lui in Francia a trovare i
parenti?”
“Perché non ho bisogno di loro”
“Se venissero loro a Baker Street?”
“Dubito che aprirei la porta”
“Se lo facessi io?”
“La ucciderei”
Per quanto possa sembrare assurdo, quel “botta e
risposta” mi stava
incredibilmente divertendo.
“Non veniva neanche a trovare me a Cavendish Place”
“Ci pensava lei a venire”
“Quindi ha bisogno di me”
Pausa.
“Questa conversazione sta diventando un po’
scomoda”
Risi di gusto, guardandolo distogliere lo sguardo mentre apriva la
porta di
casa.
|
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Capitolo 9 *** IX. Another case has been solved. ***
IX. Another
case has been closed.
Per
quanto possa sembrare sadico ai miei lettori, sarò
onesto e lo dirò comunque: vedere il grande Sherlock Holmes
in imbarazzo, per
me era una soddisfazione immensa. Quasi si apparava al ritorno vivo
dalla
Seconda Guerra.
Dopo quel veloce scambio di battute, sembrava quasi che mi avesse messo
il
broncio, colpevolizzandomi di averlo fatto rischiare troppo di dire
qualcosa di
molto compromettente per la sua mente strettamente logica.
Quella, per me, fu una grande vittoria.
Mi sarei ritenuto soddisfatto solo sentirlo ammettere che, almeno un
po’, a me
ci teneva. Ne avevo avuta ampia dimostrazione durane tutti quegli anni
di
sofferta convivenza (perché sì, convivere con lui
e le sue eccentriche
abitudini era davvero una sofferenza, molto spesso), ma le parole
rendono
concreto un fatto già dimostrato, ma cui si stenta a credere.
Nonostante sapessi che provava un profondo affetto verso di me, pensare
a
Sherlock Holmes come una persona in grado di legarsi a qualcuno mi
sembrava
comunque strano.
Sfortunatamente il primo impatto che si ha a proposito di una persona
è ciò che
condiziona il modo in cui si vede anche nel tempo a venire, per quanto
profondamente poi si possa arrivare a conoscere, e la prima impressione
che lui
aveva dato a me era quella di una persona fredda, cinica,
irritabilmente
ironica e insensibile a qualunque cosa che non fosse una sfida.
Quale fosse stata la prima impressione che lui aveva avuto di me e che
ancora
lo condizionava, non so dirlo.
Forse, nella sua unicità, Holmes era l’unico
essere umano a essere riuscito a
superare quel velo di superficialità cui chiunque altro
è sventuratamente sottoposto,
e riusciva a vedermi completamente solo per quello che ero, e non per
quello
che gli ero sembrato. Sapevo per certo che chiunque mi avesse
incontrato, a
primo impatto mi aveva visto come una persona composta, ligia alla
legge, cosa
che con lui non ero stato. Mi chiese di baciarlo solo perché
sapeva che lo
avrei fatto, che avrei infranto la legge contro la sodomia, quindi ha
cambiato
del tutto la sua visione di me.
O, forse, mi aveva visto sin dalla prima volta, in modo perfettamente
coerente
alla mia persona.
Purtroppo sono solito divagare in monologhi interiori quando trovo un
argomento
che si presta facilmente a quest’azione quindi ho disperso
l’argomento iniziale
di questo dibattito.
Volevo vedere quanto Holmes potesse uscire dagli argini in cui lo avevo
inconsciamente costretto nel giorno in cui c’eravamo
conosciuti.
Mi superò velocemente appena entrammo in casa, cercando di
sparire in camera
sua senza neanche lasciare il cappotto sull’appendiabiti o
togliersi il
cappello dalla testa.
Istintivamente, mossi qualche passo più veloce e lo fermai a
un soffio dalla
sua porta, afferrandolo per un braccio. Incredibilmente, non
obbiettò a questo
mio gesto. Forse si aspettava che lo avrei fermato, anche se avrebbe
senza
dubbio preferito il contrario. Comunque non si voltò verso
di me, né proferì
parola.
“Holmes, ho bisogno di saperlo… lei ci tiene a
me?”
La sua reazione fu esattamente quella che mi aspettavo: il silenzio.
Non so
quanto tempo rimasi in attesa, tenendo ben stretto il suo braccio tra
le dita
per impedirgli di andarsene, mentre lui, immobile, fissava il
pavimento, il
cappello calato sugli occhi.
“La risposta è scontata” disse
finalmente, interrompendo il silenzio.
“Voglio sentirla comunque”
“Ha idea di quanto mi sta chiedendo, Watson?!”
M’immobilizzai a pensare un attimo; era questo che lo
tratteneva, il suo
orgoglio. Sapeva che sapevo (vi prego, perdonatemi il gioco di parole)
che ci
teneva a me, ma non riusciva a dirmelo per paura di sembrare debole.
Sarebbe
stato così per chiunque, forse, ma non per me. Certo, la
freddezza che lo
contraddistingueva gli regalava una gran dose di fascino, ma in tutti
quegli
anni di convivenza avevo avuto più di un’occasione
per scoprire che non era
l’unico elemento affascinante in lui. Semplicemente Lui lo era, ogni cosa che facesse parte
della sua persona gli dava
quel misterioso fascino. In conclusione, del suo orgoglio
m’importava ben poco.
“Sì. E mi dispiace chiederle tanto, ma voglio
sentirglielo dire. Per favore,
Holmes”
Si liberò della mia mano con uno strattone e si
voltò verso di me, seppur non
guardandomi negli occhi. Quella fu la prima volta che vidi Holmes non
del tutto
sotto il proprio controllo.
“Si! Sì, ci tengo a lei, tengo a lei
più di quanto non abbia mai tenuto a
nessun altro! Contento adesso?”
Ebbi appena il tempo di vederlo arrossire che si voltò di
nuovo per cercare
ancora una volta di barricarsi in camera sua ma, preso da un improvviso
slancio
d’affetto e una buona dose di speranza, lo fermai ancora una
volta,
abbracciandolo da dietro. Lo sentii congelare tra le mie braccia, di
nuovo
immobile.
Rimasi in silenzio in quella posizione per qualche minuto, muovendo
lentamente
le mani in una carezza per cercare di farlo rilassare. Poco a poco, ci
riuscii.
Avrei potuto accontentarmi del fatto che non si fosse ribellato
perché era
sicuro come il sole che sorge al mattino che sarebbe stato in grado di
stendermi anche nelle sue precarie condizioni di salute, ma ormai non
mi
bastava più.
“Holmes” lo chiamai, cercando di mantenere un tono
di voce dolce.
“Mh?”
“Sa cosa sto per chiederle, vero?”
“Qualunque sia la sua domanda, la mia risposta è
‘delirio da febbre’” rispose
subito.
Sì, aveva capito, ma quella non era la risposta che volevo.
Non era neanche la
verità, ne ero sicuro.
Questo era il mio caso, quello che
avevo seguito da solo in quasi quindici anni. Era lui il mio caso, e
intendevo
concluderlo quella notte.
“Non è vero”
Lo sentii irrigidirsi di nuovo e di nuovo ripresi la carezza per farlo
rilassare, ma questa volta con scarso successo. Appoggiai la testa
sulla sua
spalla e chiusi gli occhi, credendo quasi che forse sarebbe stato
meglio
gettare la spugna. Potersi dichiarare vincitore contro Holmes era
più unico che
raro, non sapevo quanto mi sarebbe stato utile sperare ancora.
Lo sentii barcollare leggermente nella mia stretta così
ricordai che,
stupidamente, mi ero dimenticato che aveva la febbre.
Allungai una mano oltre il suo corpo fino a girare la maniglia ed
aprire la
porta di camera sua. Non rinunciai al contatto con il suo corpo neanche
un
istante per paura che potesse scappare via da me, quindi quando gli
girai
intorno per raggiungere la porta, lasciai che il mio braccio seguisse
il mio
movimento intorno alla sua vita, per poi scivolare lungo il suo braccio
ed
afferrargli la mano.
Non ricambiò la stretta. Non si mosse ancora in nessun modo.
Cercai anche l’altra sua mano, per poi cominciare a camminare
a ritroso nella
sua stanza, trascinandomelo dietro.
La tesa del cappello mi impediva di vedere i suoi occhi, ma riuscivo a
intravedere le sue guance ancora arrossate.
Mi fermai quando affiancammo il letto, avvicinandomi a lui del passo
che aveva
mantenuto di distanza tra di noi. Gli tolsi il cappello e lo posai ai
piedi del
letto, così come feci con il suo cappotto.
Affondai una mano tra i suoi capelli e lo portai verso di me per un
nuovo
abbraccio.
“Posso sapere almeno quale è stato
l’esito dell’esperimento?” chiesi,
affondando il viso tra i suoi capelli.
Lo sentii stringersi leggermente a me, seppur senza ricambiare
l’abbraccio –
non che mi aspettassi che lo facesse, strappandomi un sorriso.
Non rispose neanche questa volta.
Allontanai la mano dai suoi capelli e la portai sulla sua fronte:
scottava
ancora. Aveva bisogno di riposo, molto, e questa volta non avrei
permesso che
si alzasse solo per suonare alle tre della mattina, avessi dovuto bere
caffè
tutta la notte per rimanere sveglio.
Lo lasciai andare, allontanandomi lentamente, sempre con la paura di
vederlo
scappare da me, ma non si mosse. Scostai le coperte velocemente e
tornai a
fronteggiarlo. Gli afferrai delicatamente le spalle e lo obbligai a
stendersi per
poi coprirlo fino a sotto gli occhi.
Riuscii a mala pena a muovere qualche passo verso la porta, con la
semplice
intenzione di andare a prendere una pezza umida da mettergli sulla
fronte che
la sua voce mi fermò.
“J’ai découvert
que je t’aime”
Sorrisi, appoggiando una mano sullo stipite della porta. Non avevo
capito, ma
almeno aveva detto qualcosa.
“Credo che ormai lo sappia, Holmes. Io non conosco il
francese”
Sapevo perfettamente che non mi avrebbe ripetuto quanto mi aveva detto
in
quella lingua che per me rappresentava l’ignoto, quindi uscii
e presi quanto
sopra citato, per poi tornare da lui.
Adesso era letteralmente seppellito sotto alle coperte, solo qualche
ciuffo di
capelli spuntava fuori.
“Holmes?” lo chiamai.
La sua risposta fu un borbottio indistinto, probabilmente non fatto per
essere
capito quanto a segnalarmi che era ancora sveglio.
Mi sedetti sul bordo del letto e gli scoprii il viso. Un attimo dopo,
non era
più steso su un fianco, ma sulla schiena, con la pezza umida
sulla fronte e gli
occhi socchiusi fissi nei miei.
Non riuscivo a non sorridere. Credo che quello sia stato il contatto
visivo che
ho mai avuto con Sherlock Holmes. Nessuna parola, nessuno movimento.
Mi sembrava quasi di sentirlo parlare, solo guardandolo negli occhi.
Quasi sentivo
la musica che suonava parlare al posto delle parole.
“Perché mi ha baciato, Holmes?” ripetei
infine la domanda, ancora speranzoso.
“Io non l’ho baciata” scosse leggermente
la testa con un lieve sorriso.
Quel sorriso davvero
rinnovò la mia
speranza, nonostante la sua risposta.
“Perché mi ha chiesto di farlo?”
“In realtà gliel’ho già
detto” distolse lo sguardo. Il nostro prezioso contatto
visivo s’era interrotto. “Mentre tornavamo
qui”
“Parlavamo del caso”
“Era affine al caso, infatti”
“In quale modo?”
“Può arrivarci da solo, dottore. Non mi
deluda”
Ripercorsi mentalmente tutto quello che ci eravamo detti durante il
tragitto,
quando lui aveva interrotto il silenzio.
Mi aveva spiegato ciò che ancora non sapevo del caso e
l’importanza dell’amore
in esso.
Oh. fu l’unico pensiero
che riuscii
ad elaborare.
“Ha- ha a che fare con il movente del ragazzo?”
balbettai, preda dell’emozione,
ma lui continuava imperterrito a non rispondere.
Stava testando gli effetti
dell’amore
su di me.
Mi stesi accanto a lui, sopra alle coperte, cercando un contatto visivo
che non
riuscivo più a trovare. Continuava a rimanere voltato verso
il muro, come se
questo potesse dirgli qualcosa di più interessante di quanto
potessi dirgli io.
Cercai di non essere troppo invadente quando portai due dita al suo
mento e lo
costrinsi a voltare il viso verso di me. La pezza umida gli cadde dalla
fronte
ed io, ormai disturbato dalla sua presenza, la tolsi dal cuscino a la
lasciai
cadere a terra.
Holmes continuava a non guardarmi, seppur adesso costretto a rimanere
voltato
verso di me.
“Lei… lei è innamorato di me,
Holmes?” chiesi, esitante.
La sua risposta fu sostituita da un sospiro subito dopo il quale chiuse
gli
occhi con rassegnazione.
Portai una mano sul petto, sentendo il cuore pericolosamente fuori
battito.
Un altro grave problema dell’essere umano è quello
di essere costantemente
colto impreparato a qualunque cosa.
Aspettati l’inaspettato e niente
potrà
sorprenderti. Non ricordo chi me lo disse. Forse mio padre,
forse Harry ma
mai come in quel momento avrei voluto essere stato in grado di seguire
un
consiglio apparentemente così elementare.
Il problema in sé dell’uomo è che dopo
che aspetta un determinato momento da
tutta la vita, quando quello arriva non è mai abbastanza
preparato per reagire.
Dio solo sa quanto avevo sperato, un giorno, di sapere che Sherlock
Holmes era
innamorato di me, mi ero immaginato mille volte come avrebbe potuto
essere,
come avrei potuto reagire ad un’eventuale dichiarazione, ma
non riuscivo a
mantener fede a nessuna delle mie fantasie.
Riuscivo solo a rimanere immobile a fissare le sue palpebre chiuse, con
il
cuore che rimbombava nelle orecchie e senza la piena coscienza che il
mio sogno
da eterno romantico si era avverato come nella più bella
delle favole in cui io
mi rivedevo stupidamente nella principessa.
Il mio principe azzurro era finalmente arrivato.
Dopo qualche attimo (in realtà, non so quanto tempo
passò. Potevano essere
attimi, minuti o ore), lo vidi sedersi e cercare di scavalcarmi per
alzarsi dal
letto.
Mai fino a quel giorno avevo creduto che agire di puro istinto fosse un
bene.
Il suo movimento mi aveva svegliato dallo stato di trance in cui ero
caduto e,
appena avevo visto che stava davvero cercando di allontanarsi da me,
avevo
strinto il colletto della sua camicia tra le mani e me lo ero spinto
contro per
un bacio.
Se all’inizio cercò di respingermi, cercando di
portare anche l’altra gamba
fuori dal letto per potersene andare, borbottando lamentele indistinte
tra le
mie labbra, dopo non molto la sua resistenza crollò e si
lasciò andare.
Riuscii a ricordare distintamente tutto quanto successe solo quando, la
mattina
dopo, riaprii gli occhi.
Non voglio che ai miei lettori vengano strane idee, non successe nulla
al di
fuori dell’ordinario, quella notte, se non quel bacio.
Quando mi svegliai, però, lui era voltato su un fianco,
l’opposto al mio,
ancora profondamente addormentato, mentre la sua mano stringeva la mia,
sul
cuscino.
Fine.
[NdA]
Mumble mumble...
E' finita davvero.
Quanto tempo è passato dall'ultima long che ho concluso? Mi
sembra un secolo, perchè davvero, non ricordavo che facesse
così male staccarsi da una fanfic a cui ci si è
affezionati così tanto.
Se Taking Care Of You è la mia bambina nel fandom RDJude,
credo che questa rimarrà per sempre la mia piccola in questo.
Nove capitoli, solo 26 pagine di word, ed eccomi qui, a salutare con
malinconia questa fanfic, nonostante sia passato solo un mese e 3
settimane esatte da quando è iniziata.
Che dire? Non voglio cliccare la casella "conclusa". Non voglio mai
farlo quando mi affeziono ad una fanfic. Odio quando succede solo per
questo. La fine si prospetta terribile.
Una precisazione: la frase in corsivo affidata ad uno degli Watson Sn.
a vostra scelta, è stata pronunciata da Michael J Fox in uno
degli episodi in cui è comparso nella sitcom "Scrubs", nel
ruolo del dottore/chirurgo Kevin Casey.
I ringraziamenti. Saranno banali, come al solito, perchè non
so mai come ringraziare chi segue quello che scrivo.
Sembra sempre di essere ingrati, di ringraziare solo per non perdere
lettori, quando è proprio il fatto che qualcuno legga che da
l'impulso a scrivere ancora e lo si farebbe anche se ci fosse una sola
persona a dare sostegno.
Detto questo, si ringraziano calorosamente tutte le persone che hanno
preferito, seguito, ricordato, recensito e anche solo letto e chiunque
lo farà in futuro.
Il ringraziamento speciale nonché dedica va a Haibara
Stark (ovviamente la dedica va a lei, non al negozio O.o) e
il negozio d'abbigliamento Bershka
(il suo sito --> http://www.bershka.com/) che hanno reso questa
fanfic possibile.
Il nostro primo caso può essere inserito in archivio, Erica
u.u
Adesso vi saluto, promettendo che con la conclusione di questa fanfic
dedicherò più tempo a Logic for the Hero.
Conto di rivederci, stanotte, almeno altre due volte prima che io vada
a dormire. :)
Grazie ancora a tutti.
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