I cinque samurai

di ponlovegood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sveglia pt. 1 [Reita] ***
Capitolo 2: *** Sveglia pt. 2 ***
Capitolo 3: *** Sveglia pt. 3 ***
Capitolo 4: *** Sveglia pt. 4 ***
Capitolo 5: *** Sveglia pt. 5 ***
Capitolo 6: *** Sveglia pt. 6 ***
Capitolo 7: *** La porta di casa pt. 1 [Uruha] ***
Capitolo 8: *** La porta di casa pt. 2 ***
Capitolo 9: *** La porta di casa pt. 3 ***
Capitolo 10: *** La porta di casa pt. 4 ***
Capitolo 11: *** La porta di casa pt. 5 ***
Capitolo 12: *** Green Hair pt. 1 [Ruki] ***
Capitolo 13: *** Green Hair pt. 2 ***
Capitolo 14: *** Pioggia [Aoi] ***
Capitolo 15: *** Sticks [Kai] ***



Capitolo 1
*** Sveglia pt. 1 [Reita] ***


NB: Questa mia fic è composta da 5 capitoli. Il primo (Sveglia), essendo piuttosto lunghetto, l’ho diviso in parti che posterò separatamente. Inoltre avrei alcune precisazioni da fare su questo capitolo: non è, diciamo, un racconto ‘normale’ di vita scolastica. Ho deciso di mettere a confronto due situazioni (che saranno separate da * * *), nella prima ho semplicemente descritta la storia (come l’ho inventata io) di come Reita incontra Uruha e  inizia a formarsi la band, la seconda invece è una specie di What if?, cosa sarebbe successo se Reita non avesse conosciuto Uruha?

Spero di essere stata chiara e se così non fosse mi scuso immensamente ç_ç Se doveste avere ancora dei dubbi chiedete pure.

Enjoy~

 

Sveglia

 

[pt. 1]

Il suono della sveglia lacerò improvvisamente la calma del mattino con quel suo suono metallico e continuo. Se fosse andata avanti in quel modo, avrebbe finito con lo spaccare i vetri.

O almeno questa era la visione della situazione che aveva Suzuki Ryo, verso i sedici e in procinto di iniziare un nuovo anno scolastico, che -lasciatemelo dire- era solito portare a livello di tragedia anche delle piccolezze.

Si girò svogliatamente e lanciò un’occhiata di fuoco alla sveglia, nella speranza di vederla magicamente tornare indietro di un’ora. Eppure era lì che continuava a suonare e non sembrava voler dar retta ai desideri di uno studente disperato.

Imprecando a bassa voce si alzò e tastò il pavimento in cerca delle pantofole, ma non riuscendo a trovarle (aimè, questo è un problema che affligge gran parte della popolazione mondiale) si trascinò verso l’armadio, dove vi trovò la sua divisa lavata e stirata di fresco, direttamente dalla lavanderia del quartiere.

Con tutta la svogliatezza che potesse avere, se la infilò e finì con lo stropicciare ben bene la camicia bianca. Afferrò poi la borsa con i libri, il fido lettore mp3 e il pacchetto di sigarette, che aveva precedentemente nascosto nei meandri di un cassetto.  Scendendo le scale si arruffò ancora un po’ i capelli e si sentì orgoglioso del suo aspetto trasandato con tanto di cravatta storta e camicia fuori dai pantaloni. Una divisa ben stirata non aveva il ‘diritto’ di rovinare la sua reputazione da teppistello!

Si preoccupò di infilare con precisioni gli auricolari nelle orecchie e arrivò in cucina. La madre gli lanciò uno sguardo di rimprovero, ma non disse nulla; aveva rinunciato da anni a capire come avesse potuto dare alla luce un figlio così trasgressivo. Dopo quella breve occhiata tornò ai suoi fornelli. Ryo si sedette a tavola con la musica che gli intasava la testa e mandò giù in fretta la colazione. Si era appena alzato quando un qualcosa di non ben identificato gli si attaccò alle gambe. Il gatto? Un attacco alieno?

No, era solo Kotonechan, la sorellina eccessivamente iperattiva di Ryo. Aveva nove anni e venerava il fratello, cosa che ai genitori –specialmente alla madre- non piaceva un gran che.

«Oniisan! Oniisan!» gridò lei senza mollare la presa sul fratello. Lui la guardò perplesso e lei gli sorrise di rimando. «Oniisan, oggi si ritorna a scuola, non sei contento?» disse e finalmente si staccò da lui, ma si mise a saltare sul posto. Ryo non ricordava di essere mai stato così felice di andare a scuola come la sorella. Anzi, sin dal primo giorno di asilo si era fatto conoscere nel quartiere per via delle urla isteriche che aveva piantato quando la madre aveva cercato di portarcelo. «..rivedrò Kumikochan e Maichan e..» continuò lei imperterrita.

«Sì certo, è molto interessante, Kotonechan, ma ora il tuo fratellone deve andare» disse frettolosamente e si avviò verso la porta.

«Oniisan, non mi saluti?» esclamò la piccola quando Ryo aveva già la mano sulla maniglia. Lui si voltò un po’ perplesso poi cercò di abbozzare un sorriso. «Oh sì, certo. Beh.. buona giornata, Kotonechan»

Lei ridacchiò e fece ‘ciao ciao’ con la manina. Non è che non sopportasse la sorellina, anzi, gli era quasi simpatica, ma non amava dimostrarsi troppo espansivo con gli altri e poi doveva mantenere un po’ della sua aria da fratello rude.

Si era quasi chiuso la porta alle spalle quando un altro dei gridolini della sorella arrivò dalla finestra aperta di camera sua. «Ho preso alcuni dei tuoi CD, va bene, no?» rise.

Ecco, che tutta la simpatia che aveva per la sorella svanì in un istante, ma non aveva tempo di rincorrerla e poi avrebbe finito con l’attirare l’ira funesta della madre su di sé. Kotone era solita fargli quello scherzetto e Ryo ogni volta s’infuriava, cosa che la faceva divertire ancora di più. Lui era convinto che lo facesse solo per fargli un piccolo dispetto –il che in parte era vero- ma non poteva sapere che la sorellina li ascoltava davvero quei CD.

Si lasciò il cancello di casa alle spalle e si avviò lungo la via principale del quartiere con la musica al massimo nelle orecchie, naturalmente. Anche a tavola teneva sempre le cuffie e i suoi genitori, come per l’abbigliamento, avevano imparato a sorvolare quella ‘particolarità’ del figlio. Agli inizi avevano anche provato a crescerlo come si deve, ma niente. Il padre era stato il primo a rinunciare e ora passava tutto il suo tempo –quando era a casa- rintanato dietro il giornale. Ormai Ryo non si preoccupava neanche di salutarlo, era abituato a vedere seduto di fronte a lui il corpo di un uomo con un quotidiano al posto della testa. La madre invece concentrava tutte le sue forze e le sue attenzioni su Kotone, nella speranza che lei crescesse bene. La piccola comunque sembrava voler seguire la strada del fratello. La cosa dava soddisfazione a Ryo che vedeva i suoi genitori preoccupati per il rischio di avere un altro teppista in casa.

Senza neanche accorgersene i suoi piedi l’avevano guidato lungo tutta la strada verso la scuola e quando alzò lo sguardo, si ritrovò davanti ai grandi cancelli aperti dell’istituto. Il cortile era affollato da studenti del primo anno ammucchiati in gruppetti e intenti a confabulare. Alcuni alla vista dei suoi capelli lunghi, ossigenati e spettinati indietreggiarono, altri invece si scambiarono occhiatine divertire. Ryo li ignorò beatamente e tornò a concentrarsi sull’assolo di basso della canzone.

Lanciò un’occhiata all’orologio che troneggiava sull’entrata della scuola e scoprì di essere arrivato con ben cinque minuti di anticipo. Era una cosa mai successa prima.

Si diresse verso i tabelloni appesi sulla bacheca per controllare in quale classe fosse stato collocato e chi fossero i suoi nuovi compagni. Purtroppo i suoi amici avevano terminato gli studi pochi mesi prima e ora si ritrovava a dover cercare nuova gente per la sua banda.

Cercò il suo nome tra tutti gli altri e finalmente lo trovò: Suzuki Makoto Ryo, seconda classe, sezione A. Velocemente fece scorrere lo sguardo sugli altri nomi alla ricerca di qualcuno minimamente familiare.

Aoki Hinata. Mai sentita.

Ageda Emi. Idem come sopra.

Ikeda Hiroto. Forse era stato un suo compagno l’anno scorso, ma non ne era sicuro..

Nakashima Hitomi. Una ragazza davvero stupida che era stata sua compagna alle elementari.

Ogawa, Sakamoto, Takaki…

Niente, tutta gente sconosciuta o con la quale non aveva quasi mai parlato.

Poi improvvisamente notò un nome che gli era sfuggito.

Takashima Kouyou.

Chi è che non lo conosceva?

Era lui, il super genio. Quello con la media più alta della scuola.

Fantastico, oltre a essere in una classe piena di sconosciuti avrebbe dovuto sopportare un anno intero insieme a un secchione so-tutto-io e già si immaginava quanto i sensei si sarebbero divertiti a paragonarli.

S’infilò distrattamente le mani intasca ed entrò sbuffando. Che bell’anno di merda, pensò.

 

Trovò la classe e constatò con piacere che era mezza vuota. Si collocò un posto in ultima fila e vi si accasciò sopra con poca grazia facendo stridere la sedia sul pavimento. Alcune ragazze si girarono a guardarlo, ma lui tenno lo sguardo basso intento a fissarsi i piedi che si muovevano a ritmo di musica.

Ben presto la classe iniziò ad affollarsi e si ritrovò come vicino di banco un ragazzo che lo fissava scettico. Poveretto, mi dispiace che gli sia capitato il posto vicino a me, pensò ironico. Fosse per me, staccherei subito i banchi.

Tutti gli studenti erano finalmente ai loro posti e quando il sensei entrò, Ryo si costrinse a togliersi gli auricolare e ad inchinarsi come gli altri. Non aveva proprio voglio di camminare fino all’ufficio del preside, non quel giorno.

L’uomo li scrutò tutti uno a uno e quando il suo sguardo si posò sulla chioma bionda del ragazzo, sorrise in modo poco rassicurante.

«Signor Suzuki» sentenziò e Ryo alzò la testa, ma evitò accuratamente di fissarlo negli occhi. «Moritasan, la tua precedente insegnante, mi ha molto parlato di te. Che ne dici di venire qua davanti» fece un leggero cenno con la mano verso il primo banco «al posto della signorina Kaneko?» il suo tono cordiale era ancora più fastidioso del suo falso sorriso.

Ryo lo guardò sbigottito e non si mosse. «Ma, sensei..» protestò debolmente, ma dal volto dell’uomo era sparita qualsiasi traccia del sorriso di poco prima e il ragazzo si vide costretto ad alzarsi. «Bene, vedo che ci siamo capiti» sorrise nuovamente con tutta la falsità di questo mondo e andò a posizionarsi dietro la cattedra. Ryo si scambiò velocemente di posto con la ragazza e si sedette sconfortato al suo nuovo banco. Aveva la spiacevole sensazione che quello sarebbe stato il suo posto per lungo, lungo tempo.

Il silenzio regnava sovrano, ma improvvisamente fu rotto di nuovo dalla voce autoritaria del sensei. «Ah, signor Takashima.» tutti si voltarono verso il ragazzo seduto in terza fila «Che piacere averla tra noi» sorrise anche a lui. «Che ne dice ora di smetterla di… tentare di flirtare con la sua vicina di banco e venire a far compagnia al signor Suzuki?». Qualcuno ridacchiò e in sottofondo si sentì un debole ‘Sfigato’.

La stessa espressione che aveva avuto Ryo poco prima dilagò sul volto del moro che però, a sua volta, fu costretto a seguire le ‘gentili indicazioni’ del sensei. Ci fu nuovamente uno scambio di banchi e così il biondo scapestrato si ritrovò nella suddetta situazione: in prima fila, seduto accanto al famoso secchione so-tutto-io, con un professore decisamente sadico dall’altra parte della cattedra, in una classe di perfetti sconosciuti. Era anche peggio di ciò che aveva immaginato all’inizio.

 

* * *

 

Lentamente aprì un occhio poi l’altro e si stiracchiò ben bene, godendosi il tepore della coperta. Dalla finestra filtrava la luce calda di maggio e tutto pareva l’inizio di una piacevole giornata.

Poi improvvisamente realizzò.

Era mattina.

Erano a maggio.

La scuola!

In completa agitazione lanciò uno sguardo alla sveglia; giaceva inerte sul pavimento, l’ora era ferma alle 3:00 a.m.

Con una tale fretta da rischiare di strappare una manica della camicia s’infilò la divisa e fu capace di sbagliare per ben due volte a chiudere i bottoni. La borsa di scuola si trovava abbandonata sulla sedia della scrivania in attesa di essere ripresa in mano e scrollarsi di dosso lo strato di polvere che vi si era accumulato sopra.

Nella corsa contro il tempo rischiò di inciampare sul gatto beatamente spanzato sulle scale. Atterrò con un balzo in cucina, dove trovò l’intera famiglia riunita attorno al tavolo. Fu assalito dalla sorellina urlante, ma la scansò per un pelo.

Doveva darsi una mossa.

Cibo. Afferrò due fette di pane tostato e se le ficcò in bocca.

Bento. Prese quello che la madre gli aveva lasciato pronto sul tavolo.

Scarpe. Infilò le Converse senza neanche legarle.

Correre. Gridò un saluto generale ai membri della famiglia e si fiondò fuori casa.

Non ebbe neanche il tempo di sentire le critiche della madre su come fosse conciato quella mattina –più sciatto del solito-, su come fosse arrivato in cucina e su come si fosse fiondato in malo modo fuori casa. Ma non gli importava. In quel momento la sua testa era impostata su ‘Corri e vedi di non farti spedire dal preside il primo giorno’

Si tastò le tasche alla ricerca del lettore mp3, ma non lo trovò. Si ricordò allora di averlo scordato sulla scrivania insieme.. al pacchetto di sigarette. Si maledisse ad alta voce e non poté fare a meno di rammaricarsi al pensiero di tutte quelle canzoni, che lo avrebbero aiutato a superare la giornata, abbandonate sulla scrivania di camera sua.

Gli sembrava di correre da ore, come se la strada che stava percorrendo fosse infinita. Gli sembrava anche tutto estraneo. Che avesse sbagliato strada?

Cercò di scacciare quei dubbi dalla mente e finalmente i cancelli di ferro erano davanti a lui. Quando li trovò socchiusi, ringraziò in grande Kamisama ed entrò. Il cortile era deserto e gli unici rumori venivano dalla strada e dal ticchettio dell’orologio sopra la porta d’ingresso. Era un po’ come un enorme occhio che osservava gli studenti e in quel momento a Ryo parve che lo stesse guardando accusatorio e quasi poté sentire la sua voce metallica, ‘Ritardo. Sei in ritardo’.

La campanella era suonata da cinque minuti buoni e si costrinse a compiere l’ultimo sforzo. Corse dentro, ma mentre stava per salire, si ricordò di non aver guardato i tabelloni dello smistamento classi. Non senza qualche imprecazione tornò indietro e cercò con foga il suo nome. Dopo la terza lettura dei figli, eccolo: Suzuki Makoto Ryo, seconda classe, sezione A.

Avrebbe voluto fermarsi a leggere i nomi dei suoi nuovi compagni, ma non voleva di certo accumulare altri minuti di ritardo.

Individuò finalmente la classe, la porta naturalmente chiusa e il suono di qualcuno che parlava, con tutta probabilità il sensei. Prima di entrare bussò, ma non aspettò risposta. S’infilò dentro e sentì tutti gli occhi puntati su di lui.

«Oh, signor Suzuki, ha deciso di onorarci della sua presenza?» disse con tono malevolo l’uomo sulla cinquantina che se ne stava dietro la cattedra. Ryo abbozzò un mezzo inchino e delle scuse per poi rifugiarsi a testa bassa in un banco in seconda fila.

Solo dopo diversi minuti osò alzare lo sguardo alla ricerca di visi conosciuti. Gli parve di riconoscere qualche vecchio compagno, ma non era molto sicuro. Da quando era entrato in quella scuola (l’anno precedente) aveva sempre girato con la solita compagnia, un gruppo di senpai due anni più grandi lui. Tuttavia questi avevano terminato i loro studi pochi mesi prima.

Si guardò un’ultima volta attorno e scorse davanti a sé un ragazzo dai lunghi capelli neri con gli occhiali intento a prendere appunti.

Certo! Lui lo conosceva, anche se non direttamente. Era Takashima Kouyou, il grande genio.

Almeno di una cosa fu felice quel giorno: non essere finito vicino al so-tutto-io.

 

 

~

Hola hola popolo della Terra ùwù

Che noia, non so mai cosa dire.

Innanzitutto vi ringrazio se siete arrivati fino in fondo e spero possa esservi piaciuto questo primo capitoletto. Io, vi confesso, mi sono divertita un mondo a scriverlo XD

Vorrei precisare due cosine: Uruha versione sacchionesan forse vi lascia perplessi, ma l’ho descritto in questo modo dopo aver letto un’intervista dove veniva dichiarato che lui e Kai (credo °-°) sono stati gli unici a terminare gli studi, inoltre lo stesso Urupon ha ammesso che avrebbe continuato gli studi se non fosse diventato famoso. Non so voi, ma io amo il mio secchionesan ♥

Mh, sono davvero a corto di parole, ma scommetto che appena questo capitolo sarà postato mi verranno altre mille mila cose da dire, un classico u_ù

Voglio ringraziare la mia migliore amica che come sempre mi fa da critica letteraria e anche se non può leggere questo commento perché non ha un account EFP, la ringrazio lo stesso.

E ancora arigatou gozaimasu a voi tutti che siete ancora qui. Spero di ricevere almeno un commento così saprò se fa davvero così schifo e magari mi metto l’anima in pace.

Un abbraccio,

pon.

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Capitolo 2
*** Sveglia pt. 2 ***


Sveglia

 

[pt. 2]

« Although I joy in thee,

I have no joy in this contract tonight:

It is too rash, too unadvised, too sudden,

Too like the lightning, which doth cease to be

Ere one can say 'it lightens' (...)»

Gli risultava difficile capire da dove giungesse quella voce e poi.. in che diamine di lingua stava blaterando?

Poi improvvisamente la voce si spense e approfittò di quella calma per ritornare nelle braccia del sonno. Dovevano essere le sei del mattino e qualche idiota aveva accesso la radio. Sicuramente è così, si disse.

Ryo sentì improvvisamente qualcuno scuoterlo leggermente e di scatto aprì gli occhi guardandosi in giro confuso. Era in classe. La sensei teneva un libro stretto in mano, ma lo sguardo severo era puntato su di lui.

«Se Shakespeare ti annoia così tanto credo non ti dispiacerà fare una ricerca supplementare su qualche altro autore» si soffermò un attimo a pensare «Direi che Stevenson sarebbe perfetto»

Non ci fu modo di obbiettare. Lei riprese a leggere e Ryo si guardò attorno completamente spiazzato.

«Ti eri addormentato» disse una voce al suo fianco e in quel momento ricordò di avere un vicino di banco. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Takashima Kouyou che lo fissava un po’ allarmato.

«Grazie per l’informazione. Sai, non me ne ero accorto?» rispose bruscamente incrociando le braccia al petto e sprofondando nella sedia. Accanto a lui il moro trattenere una risatina e questo lo fece imbronciare ancora di più. Takashima però rimaneva lì a fissarlo e Ryo aveva la sgradevole sensazione che stesse sorridendo. «Che c’è?» sbuffò un po’ troppo ad alta voce attirando su di sé un’occhiata di fuoco della sensei. «Niente» rispose con innocenza. «Semplicemente, sei divertente quando corrughi le sopracciglia in quel modo» si toccò un punto in mezzo alle sue sopracciglia.

Ryo si voltò e lo fissò ancora più sconvolto di prima. Erano sicuri che quello fossa davvero il grande genio? A lui pareva un po’ andato.

«Scusa?» chiese sorpreso.

«Sei un tipo interessante, Ryokun» sorrise e tornò a concentrarsi sul pezzo che la sensei stava leggendo. Il biondo invece rimase fermo a guardarlo stupefatto.

Ryokun? Si conoscevano da due ore e lui già lo chiamava per nome?

Ormai per lui non c’erano più dubbi: quel ragazzo era totalmente fuori, partito per la tangente e già a un buon punto del percorso.

Decise di provare a comprendere la lezione, ma riusciva a tradurre solo parole sparse qua e là e dopo cinque minuti aveva già rinunciato. Continuava a chiedersi cosa gli sarebbe servito conoscere l’inglese quando sapeva che non si sarebbe mai mosso dal Giappone.

«Stiamo leggendo ‘Romeo and Juliet’» commentò improvvisamente Takashima distogliendolo dai suoi pensieri. Ma chi te l’ha chiesto?!, pensò scocciato.

Visto che Ryo si ostinava a non voler aprire bocca allora l’altro continuò a parlare. «Sai, parla di un amore impossibile e robe varie. Se lo segui, non è poi così male»

Magari non è male per lui che capisce. Dopo poco tempo era già arcistufo marcio di quella disposizione dei posti.

«Ah, allora capisco perché mi sono addormentato» si lasciò sfuggire il biondo in risposta a ciò che Takashima aveva appena detto. Quest’ultimo scoppiò a ridere, ma Yamamoto sensei non lo rimproverò. Finché lui si fosse comportato da bravo genietto e avesse portato prestigio alla scuola probabilmente nessun insegnante l’avrebbe mai ripreso per i suoi comportamenti in classe.

Bella merda.

«Mi piaci Ryokun, sei un tipo a posto» sorrise mostrando due file di denti dritti che indicavano la precedente presenza di un apparecchio. Senza dar modo al biondo di dir nulla fece scivolare sul banco un foglio identico al suo pieno di frasi scritte con una calligrafia piccola e piuttosto ordinata. «Sono gli appunti della lezione. Dietro c’è la traduzione in giapponese» gli lanciò un breve sguardo, ma non riuscì a incontrare gli occhi di Ryo che lui teneva perennemente fissi sui suoi piedi.

Rimase un po’ a fissare stupito quel foglio, ma non disse nulla; né lo ringraziò né disdegnò il suo aiuto. Normalmente lo avrebbe mandato a farsi gentilmente fottere, ma quella prima lezione d’inglese era andata talmente male che un piccolo aiuto sarebbe stato ben accetto. Tuttavia non riusciva a non sentirsi un gran coglione. Accettare l’aiuto di un secchione? Quando mai Ryo Suzuki si era abbassato a tanto?

Per giustificarsi si disse che doveva essere la stanchezza a farlo agire in quel modo. Naturalmente anche lui sapeva che quella era una stronzata bella e buona.

 

Al suono della campanella la massa di studenti si alzò all’unisono e molti uscirono dall’aula per consumare il bento all’aria aperta. Purtroppo Ryo si era accorto da almeno mezzora di aver dimenticato il suo e in quel momento gli sembrò che la sua fame si elevasse al quadrato.

Se ne stava lì a rimuginare su quanto fosse stato un idiota a scondarselo a casa e ad auto commiserarsi quando una voce fin troppo famigliare lo destò –nuovamente- dal suo rimuginare.

«Ti va se mangiamo insieme?»

Come non riconoscere il tono di voce profondo di Takashimasan?

«Come vedi» Ryo fece un largo gesto con la mano in modo da indicare l’intero banco «non ho il mio bento». Sperava che con quello il moro se ne sarebbe andato e l’avrebbe lasciato in pace, ma quest’ultimo non sembrò aver prestato la minima attenzione a ciò il compagno aveva appena detto. Rimase seduto dov’era e slegò il fazzoletto verde attorno al suo bento. Quando lo aprì, Ryo si sentì quasi mancare per la fame. Una montagna di riso al curry accompagnava del sushi, tre piccoli onigiri, degli yakitori e alcune verdure miste. Il suo stomaco protestò rumorosamente per l’essenza di cibo.

«Vuoi metà del mio?» chiese secchionesan. L’affamato biondo ossigenato scosse la testa e concentrò l’attenzione su una mosca che cercava di uscire continuando a sbattere contro il vetro della finestra. «Come vuoi» si limitò a dire l’altro alzando le spalle. «Itadakimasu!» disse infine non rivolto a qualcuno di preciso e prese a mangiare.

Un brontolio più insistente si propagò nel silenzio della classe, dove erano rimasti solo i due vicini di banco. Ryo si premette le braccia sulla pancia nella speranza di farlo smettere, ma alla vista di tutto quel cibo sembrava un’impresa impossibile.

«Oh al diavolo!» esclamò rivolto a se stesso. «Secch- ehm Takashimasan, posso avere un po’ del tuo bento?»

In un giorno solo era riuscito a farsi fare due favori da uno stupido so-tutto-io e non riusciva proprio a capacitarsene. Il mondo doveva essersi messo a girare a rovescio, sicuramente.

«Certamente!» fu la risposta dell’altro che gli allungò metà del suo pranzo. «Sapevo che alla fine me lo avresti chiesto, così ho subito fatto la metà di tutto» rise e gli porse le bacchette.

«Ah ah, molto divertente» rispose sarcastico. Ryo non lo trovava affatto divertente.

Tuttavia dopo che ebbe la pancia piena di quel buon cibo, si sentì un po’ meno di cattivo umore. S’impose comunque il divieto di chiedere altri favori a quel Takashima. Lui aveva una reputazione.

«Mi chiedevo una cosa..» disse improvvisamente il moro e le sue parole spezzarono il silenzio che si era creato. Non aspettò che Ryo dicesse qualcosa e continuò: «Com’è che fai a sapere il mio nome?»

Ok che Ryo aveva già capito che quel tipo non ci stava tanto con la testa, ma non pensava fino a quel punto.

«Sarai anche tanto bravo a scuola, ma su certe cose sei proprio lento, eh? Non sai di essere piuttosto famoso qui? Sai per la storia del piccolo genio e tutto il resto..»

«Ah già» rispose con aria disinteressata, come se essere il più bravo della scuola fosse una cosa della quale ci si dimentica facilmente.

Ah già? Era tutto quello che aveva da dire?

«Uhm..beh» Ryo si trovava spiazzato, non aveva la più pallida idea di che cosa dire. «Già, sei piuttosto conosciuto» ripeté un po’ a disagio e tornò a concentrarsi sulla mosca che ora volteggiava vicino alla lavagna.

«Fantastico» commentò. «Beh anche tu hai la tua fama». Allo sguardo sorpreso che gli rivolse il biondo lui rise. «Sai, tutti i professori sembrano conoscerti molto bene»

«Oh, per quello». Ormai la mosca aveva rinunciato a uscire e si era fermata sopra un banco. «Non mi vedono di buon occhio. Non sono un cosiddetto studente modello»

Non aveva problemi ad ammetterlo, se c’era una cosa della quale non gli importava nulla era proprio la scuola. Ancora un anno e poi sarebbe stato libero. Doveva solo cercare di studiare il minimo necessario per gli esami di ammissione e poi bye bye.

«Me ne sono accorto» ridacchiò l’altro in riferimento a ciò che Ryo aveva appena detto.

«Ehi!» si lamentò stizzito il diretto interessato di quell’affermazione.

«Ok, ok scusa» disse Takashima, ma risultò assai poco convincente visto che scoppiò a ridere di gusto.

«Ti diverte prendere per il culo quelli meno bravi di te, eh secchionesan?» sbuffò capelli-ossigenati decisamente imbronciato.

«Com’è che mi hai chiamato?» domandò, ma nel suo tono non c’erano né rabbia né indignazione, sembrava solo divertito.

«Secchionesan!» sbraitò Ryo offeso per essere stato preso poco sul serio.

Takashimasan lo fissò per alcuni istanti poi sorrise. «Mi piace, è divertente. Io lo sapevo che eri un tipo a posto, Ryokun»

Il biondo si chiese come facesse a pensare una cosa del genere. Era stato il primo a dirgli una cosa simile e sarebbe stato anche l’ultimo, anche perché lui non era affatto un ‘tipo a posto’. Lui era solo un teppistello trasandato e finora gli era sempre andato bene così. Non c’era verso che arrivasse un secchione a caso e lo facesse diventare un ‘tipo a posto’.

«Credo che tu ti stia sbagliando» rispose secco e si alzò con l’intenzione di uscire in cortile per fumare qualche sigaretta a sgamo.

 

* * *

 

Il sensei che lo aveva così ‘calorosamente’ accolto quel suo primo giorno di scuola, si presentò come Yamaguchi[1] sensei. Poco dopo Ryo si ritrovò a fantasticare. Che facesse parte di un clan Yakuza? Quel suo cognome era sospetto e sicuramente ce lo vedeva , quel suo sensei, a impartire ordine ai suoi scagnozzi. Per cinque minuti buoni ridacchiò senza sosta ogni volta che lo guardava, ma ben presto terminò le idee e non trovò più così divertente immaginarlo a complottare un omicidio. Alla fine si convinse che dovesse essere solo una coincidenza quella del cognome e si diede dello stupido per aver creduto che fosse divertente.

La noia tornò a impossessarsi di lui e si ritrovò a pensare con desiderio al cibo dentro il bento che non avrebbe potuto assaporare fino all’ora di pranzo. L’unica cosa che gli rimaneva da fare era aspettare che suonasse la campanella dell’intervallo e spendere gli ultimi 200 yen che gli rimanevano per comprarsi una merendina e una Cola al distributore. Se solo avesse avuto le sue sigarette.. ripensò con amarezza al pacchetto dimenticato in camera. L’unica speranza che aveva di fumarsi una sigaretta tranquillizzante era quella di cercare qualcuno del terzo anno a cui chiedere.

Finalmente il suono della campanella irruppe per i corridoi e le esclamazioni di gioia si levarono dalle classi.

«Continueremo domani» annunciò Yamaguchi sensei e Ryo si rese conto di non aver neanche prestato attenzione al fatto che ci fosse stata lezione. Era certamente più distratto del solito.

Non ci preoccupò comunque più di tanto e schizzò al piano dove sapeva che avrebbe trovato i distributori. Stringeva già i soldi in mano, avido di mettere qualcosa sotto i denti, ma quando giunse nel luogo dove li aveva sempre trovati, questi non c’erano più. Spariti. L’unica traccia che indicava la loro presenza erano gli aloni lasciati sul muro dai piccoli frigo incorporati.

Furioso si allontanò a passo svelto e mancò poco che investisse una povera e ignara ragazza del primo anno. Non si voltò neanche e continuò in linea retta verso il cortile.

Era una piacevole giornata di primavera, ma di certo quello non era un fattore che avrebbe migliorato il suo umore. Si guardò intorno alla ricerca di un possibile possessore di sigarette e riuscì ad adocchiare un gruppetto formato da diversi ragazzi di terza, forse un paio della sua età e due Ganguro girl che ridacchiavano alle battutine di uno di loro.

Con circospezione si avvicinò e facendo finta di nulla si appoggiò al cancello che recintava la scuola. Li osservò per qualche minuto poi notò un veloce e furtivo movimento di mani e poco dopo tutti quanti facevano girare a turno quattro sigarette. Fece per muoversi verso di loro, ma un tizio coi capelli a spazzola lo notò e lanciò un’occhiata a uno dietro di lui. Improvvisamente il gruppo si mosse nella sua direzione, a guidarli c’era un ragazzo del terzo anno dai lunghi capelli rossi e  numerosi piercing. Era stato bocciato almeno tre volte, ma non avevano il coraggio di buttarlo fuori. Lui sì che era veramente imparentato con la Yakuza. Ryo ricordava di averlo visto qualche volta, ma spesso se ne stava sul tetto con la sua banda. Il suo gruppo sembrava comunque cresciuto decisamente rispetto all’anno precedente. Sicuramente si trattava di altri figli di mafiosi appena trasferiti.

«Suzuki Ryokun, no?» sentenziò il rosso.

«Sumiyoshi Takehiko senpai, no?» gli fece il verso.

«Ahah, mi piace il ragazzo» rise. «Shichirou, dai una sigaretta al mio nuovo amico»

Un piccoletto dai capelli per metà neri e per metà rossi prese dal suo pacchetto una sigaretta e gliela porse. Ryo la afferrò di buon grado e pochi istanti dopo lo stesso ragazzo gli diede anche da accendere.

Notò solo in quel momento che l’intera banda al completo indossava qualcosa di rosso, sicuramente un tributo alla chioma tinta del leader.

«Ottime sigarette, non ti pare? Le ha portate mio padre dagli Stati Uniti» disse con tono altezzoso Sumiyoshi senpai. «Mh..» il biondo si limitò  a rispondere mentre assaporava il gusto amarognolo del tabacco.

«Com’è che avete deciso di scendere dal tetto, senpai?» chiese con sguardo divertito, scrutando attentamente tutti i ragazzi di fronte a lui.

Il rosso lo guardò per un attimo poi rispose. «Siamo diventati un po’ troppi per non dare nell’occhio, qui sotto gli alberi è meglio. Non vengono mai a controllare» rispose con tranquillità.

«Avete deciso di sfoggiare un po’ il vostro aspetto ribelle, eh?» Ryo ridacchiò e aspirò l’ultima boccata dalla sigaretta che poi gettò a terra con noncuranza. «Così mi rubate la scena»

«Io l’avevo detto che questo ragazzo mi piaceva. E’ un tipo a posto» esclamò il rosso.

 

 

[1] Il Sesto Yamaguchi-gumi (六代目山口組 Rokudaime Yamaguchi-gumi) è una delle più grandi e potenti organizzazioni criminali della Yakuza giapponese.

 

~

 

Konbawa!

Eh già, sono qui con un nuovo capitolo u.u La verità è che non so quando avrò nuovamente tempo di postare questa settimana, così invece di farvi aspettare fino alla settimana prossima ho deciso di pubblicare adesso. Purtroppo domenica trasloco e sono nel casino più totale LOL Poi devo ammettere che avere ben cinque capitoli pronti e non poterli postare immediatamente mi mette i nervi *si auto-patta*

Mh, che altro dire?

La prima parte mi piace abbastanza, la seconda di meno. Io però difficilmente sono soddisfatta di quello che scrivo xD

Non so davvero che dire e quindi è meglio che chiudo qui u_ù

Ah~ oggi mi sono resa conto che questa storia sta durando molto più del previsto *si auto-bastona*

A presto gente ♥ *sparge cuoricini*

Pon.

 

 

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Capitolo 3
*** Sveglia pt. 3 ***


Sveglia

 

[pt. 3]

Dopo quel primo e totalmente folle giorno di scuola Ryo cercava di tenersi ben alla larga da secchionesan. Non sapeva bene il motivo o forse sì, ma ammetterlo era imbarazzante. Insomma, si vergognava di aver ricevuto quei favori (così suona un po’ come ‘favori fatti da un capo mafia’). Una persona normale non ci avrebbe fatto caso, forse sarebbe stata grata a quel ragazzo e di certo non si sarebbe vergognata di essere stata aiutata in due situazioni ‘difficili’. Ma qui stiamo parlando di Ryo Suzuki. Da che poteva ricordarsi non aveva mai chiesto nulla a nessuno, preferiva fare da sé e comunque nessuno gli aveva mai dato nulla. Anche con gli amici era sempre stato così. Potrete pensare che lui patisca questa vita sola e triste, invece non è mai stato così. Infondo lui crebbe circondato da questa disattenzione nei suoi confronti e col tempo, si sa, ci si fa l’abitudine. Per lui era la routine, ma non se ne dispiaceva. L’unico vero momento triste nella sua vita era stato quando il gatto aveva scambiato la sua cocorita per il pranzo.

Quindi per continuare quella vita che non gli dispiaceva così tanto cercava di evitare il più possibile chiunque si avvicinasse troppo. Takashimasan in questo era imbattibile, era sempre lì che parlava anche se Ryo non gli rispondeva. Dopo una settimana ancora non si era stufato delle risposte monosillabiche del biondo. Cosa credeva? Di essersi trovato un amichetto?

Ed ora eccolo lì il nostro ‘eroe’ dalla testa ossigenata e dagli abiti trasandati mentre fumava la sua solita sigaretta dopo pranzo, attento bene a nascondersi da sguardi indiscreti. Tuttavia non si era mai accorto che dalla sua classe Takashimasan lo vedeva benissimo finché un giorno lo intravide dall’altra parte del vetro.

«Farai la spia, non è vero?» sentenziò dopo essersi precipitato in classe come una furia.

«Non credo proprio» rispose prontamente il moro per poi tornare a concentrarsi sui suoi fogli.

«Ah.. beh..allora..» ma non sapeva nemmeno lui cosa dire.

«Allora cosa, Roykun?» chiese in modo secco spostando velocemente il suo sguardo sul biondo e riuscendo finalmente a incrociare i suoi occhi, ma presto Ryo li puntò nuovamente a terra.

Non sapeva come ribattere e si aggrappò a una sciocchezza tanto per litigare un po’. Takashimasan lo aveva chiuso e ciò gli dava un fastidio tremendo. «Perché continui a chiamarmi per nome? Praticamente non ci conosciamo! Anzi, anche senza ‘praticamente’» sbottò.

Come già precisato, era solito fare grandi scenate per cose da nulla.

«Ti crea problemi?» domandò l’altro distogliendo definitivamente l’attenzione dai suoi fogli e inarcando leggermente il sopracciglio.

«Sì, mi crea molti problemi!». In classe non c’era nessuno ed era meglio così, ma se qualcuno fosse passato per il corridoio avrebbe di certo sentito il biondino sbraitare.

«E’ solo uno stupido nome. Una dannata convenzione sociale!» urlò il moro alzandosi in piedi di scatto, facendo spaventare Ryo. «E guardami in faccia quando ti parlo!»

Ryo però non osò alzare lo sguardo.

Non l’aveva mai visto arrabbiato e non credeva che ne fosse capace. Quella scenata aveva mandato in frantumi tutta la voglia che aveva di litigarci. Si sentiva uno schifo.

«Se per te è un così grande problema avere a che fare con me allora vai a lamentarti dal sensei, magari ti farà la grazie di cambiarti banco e meglio: spostarti dirittamente in un’altra classe» detto questo raccolse con foga i fogli sul banco e si precipitò in direzione della porta.

«No, aspetta!» disse debolmente Ryo, ma l’altro non si voltò. «K-kouyou…san, aspetta»

Questa volta il moro si girò con aria seria. «Non credere che basti questi per farti perdonare. Sono ancora arrabbiato» e lo sembrava davvero, ma tuttavia, alla vista della faccia sconcertata e dispiaciuta di Ryo, quel volto imbronciato si distese e le sue labbra si aprirono in un grande sorriso che poi si trasformò in una risata fragorosa.

«Che ho fatto ora?!» domandò ancora più sconcertato da quella risata improvvisa. L’altro in risposta rise ancora più forte fino a raggiungere le lacrime.

«Ora me ne vado io se non la pianti immediatamente!» decretò il biondo offeso o almeno cercava di sembrarlo. «Va bene, va bene. La smetto» disse asciugandosi le lacrime e tornado al suo posto. «Comunque mi hai fatto davvero arrabbiare prima» disse pacatamente. «Me ne ero accorto» rispose il biondo con un sorriso mentre entrambi si sedevano ai loro posti.

Rimasero un po’ in silenzio e l’unico suono era quello della penna di Takashi… no, Kouyousan che scribacchiava sui fogli sparsi sul banco.

«Senti, ma si può sapere cosa traffichi sempre con ‘sti fogli?» chiese con un pizzico di curiosità Ryo allungando il collo verso il vicino di banco.

«Mah, niente di che. Compongo qualcosa qua e là, tanto per passare il tempo» così dicendo passò all’latro alcuni fogli che si rivelarono spartiti musicali.

 

«Kouyou!» urlò il biondo ormai spazientito. «Deficiente di un Kouyou, quanto ti ci vuole?»

Niente, nessuna risposta. Se ne stava ad aspettarlo in soggiorno da almeno dieci minuti e niente, quello non si degnava neanche di rispondere . «Secchionesan, ti sei chiuso in soffitta?!»

Chiamarlo in quel modo per un attimo lo sorprese; da quant’era che non lo faceva?, si chiese.

Erano praticamente quasi quattro mesi che non lo chiamava così. Era passato davvero così tanto tempo?

Ripensandoci non si capacitava ancora di quanto gli eventi di quell’anno scolastico si fossero susseguiti con una velocità sorprendente.

«Erano esattamente tre mesi e sedici giorni che non mi chiamavi in quel modo» disse pacatamente un’entità appena giunta insoggiorno. Ryo sobbalzò dalla sorpresa e se quella fosse stata casa sua, gli avrebbe tirato addosso una moltitudine di oggetti possibilmente pericolosi per fargliela pagare di averlo spaventato. «Sei un vero idiota» bofonchiò il biondo corrucciando le sopracciglia e incrociando le braccia al petto.

«Sei sempre buffo quando assumi quella posizione imbronciata» commentò il moro che ormai, da un mese a quella parte, aveva deciso di farsi biondo. I suoi lunghi capelli dorati ora ricadevano con ordine sulle sue spalle e qualche ciuffo era accuratamente sparato in aria dal gel. Portava ancora gli occhiali che gli conferivano quell’inconfondibile aria da bravo studente e cozzavano alla perfezione con i capelli decisamente più alla ‘Ryo style’.

«Comunque~» disse Kouyou schiarendosi la voce. «Qui ho qualcosa che vorrei darti, anche se con tre mesi e quattro giorni di ritardo»

Ryo cercò di fare un calcolo a mente, ma si perse tra la moltitudine di numeri e rinunciò senza troppi rimpianti. Si limitò quindi a guardare l’amico senza proferire parola.

«Ho qui per il nostro grande capo Testa-Gialla..» iniziò con tono solenne «..il suo regalo di compleanno!» Un pacco con l’evidente forma di un basso sbucò da dietro la schiena del biondo numero 2.

Qui tuttavia occorre specificare cosa accadde durante quei quattro mesi (o meglio: quei tre mesi e ventinove giorni) che intercorsero tra il loro primo incontro e tutto ciò che venne dopo.

Scoprire che Kouyou componeva musica cambiò tutto, anche se all’inizio nessuno dei due ebbe questa impressione, in particolar modo Ryo. Certo, lo colpì sapere di avere un interesse in comune con secchionesan, ma quello non cambiava molto le cose. Cercava sempre di tenersene alla larga, evitando di parlarci troppo. Eppure quando lo vedeva tirar fuori i suoi spartiti dalla borsa non riusciva a fare a meno di allungare il collo per dare una sbirciata.

Con il passare del tempo neanche si accorse di avvicinare sempre più la sedia verso quella del vicino di banco, finché un giorno si ritrovò a commentare il suo spartito quasi senza esserne conscio. «Credo che qui dovresti inserire una pausa, ci starebbe decisamente bene»

Si spaventò delle sue stesse parole e indietreggiò bruscamente tornando a puntare lo sguardo verso il pavimento.

Kouyou non si arrabbiò né lo ignorò né criticò il suo suggerimento, semplicemente gli sorrise come aveva sempre fatto e posò con delicatezza la matita sul banco. «T’intendi di musica, Ryokun?» domandò curioso.

«S-suono il basso» bofonchiò il biondo.

Era giugno, il caldo dell’estate si faceva sentire e proprio in quella mattina soleggiata le strade di due giovani si unirono inesorabilmente. Era nato qualcosa che li avrebbe condotti in un futuro che nessuno dei due era in grado di immaginare in quel momento; un’amicizia che li avrebbe seguiti per i lunghi anni a venire.

Ormai cose come la ‘reputazione’ o stronzate varie erano completamente passate di mente a Ryo Suzuki che sempre più legava col vicino di banco impostogli a forza il primo giorno di seconda superiore. Due persone più diverse non potevano esserci, ma nei loro frequenti litigi che seguirono quella ‘famosa mattina soleggiata di giugno’, non ci fu mai un vero punto di rottura.

Giorno dopo giorno si ritrovavano sempre più uniti l’uno all’latro e li si poteva vedere sempre insieme. Oh, avevano grandi progetti, loro. Un band.

Purtroppo mancava la materia prima, ovvero: altri musicisti. Per settimane avevano affisso avvisi per la scuola, ma dopo pochi giorni erano spariti. Le possibilità di trovare dei musicisti si facevano sempre più vane, ma, come si suol dire, la speranza è l’ultima a morire.

Tutta quella storia della loro amicizia era arrivata talmente in fretta che Ryo aveva rinunciato a capire come fosse successo e neanche gli importava. Semplicemente voleva vivere quei mesi così com’erano senza preoccuparsi di ciò che sarebbe venuto dopo. Non sapeva se sarebbe durato  a lungo o meno. Per ora andava bene così.

Ed infine eccoli lì, nel salotto di casa Takashima. Loro e i loro strumenti. Andava tutto bene. Il resto sarebbe venuto poi.

 

* * *

 

«Beh, grazie per la sigaretta» disse Ryo staccando la schiena dal cancello e mettendosi in marcia verso l’entrata dell’edificio scolastico. Le mani erano puntualmente infossate nelle tasche.

«Ci si vede in giro, Suzukikun» disse con voce pacata il rosso.

Ryo stancamente tirò fuori una mano dalla tasca e accennò un breve saluto.

 

Quel pomeriggio la casa pareva vuota e il biondo avrebbe creduto che fosse così se la madre non fosse improvvisamente spuntata dalla porta del soggiorno.

«Che c’è?» chiese Ryo un po’ stizzito vedendo che la donna lo fissava con insistenza. Aveva già percorso tre gradini e mezzo della scala e desiderava solo raggiungere la propria camera.

«Tesoro..» iniziò lei in netto disagio.

Tesoro? Da quanto non chiamava il figlio così? O forse meglio: quando mai lo aveva chiamato così?

Ryo la guardò perplesso, ma lei poco dopo scosse lentamente la testa e tornò sui suoi passi. Il ragazzo rimase qualche istante a fissare il punto dove poco prima c’era stata la madre poi scrollò il capo e riprese a salire le scale.

Nella camera regnava un irreale ordine e fu subito chiaro chi l’avesse messa a posto. Il pacchetto di sigarette era posato vicino ad alcuni vestiti; non era più nel cassetto.

Nella testa di Ryo fu subito chiaro di cosa la madre avrebbe voluto parlargli, ma non ne aveva avuto il coraggio. Il ragazzo sapeva benissimo che non avrebbe più menzionato l’argomento. Infondo a casa sua non era raro quel tipo di situazione; le cose non dette era forse fin troppe, ormai.

Voltò lentamente la testa e il suo sguardo si posò su un oggetto a lui molto familiare; il suo vecchio basso lo guardava dall’angolo dove lui lo aveva posato l’ultima volta. Erano mesi che non lo toccava e poteva chiaramente vedere la polvere che andava accumularsi sulla sua superficie liscia e nera.

Con passo incerto si diresse verso lo strumento e allungò la mano verso di esso. Sfiorò appena le corde, ma subito ritrasse le dite come se si fosse scottato. Lanciò un’ultima occhiata a quello che era sempre stato il suo fedele compagno e si gettò con noncuranza sul letto.

Si chiese perché mai avesse smesso di suonare, ma non lo sapeva nemmeno lui il perché. Semplicemente un giorno lo aveva posato nel suo solito posto e non l’aveva più toccato. Sarebbe stato bello, pensò lui, trovare di nuovo la voglia di suonare.

 

I mesi passavano inesorabilmente e così come le vacanze estive erano arrivate, così se ne stavano andando.

Era fine agosto, ma quel giorno soffiava un vento particolarmente freddo e il cielo era oscurato da grossi nuvoloni che non promettevano nulla di buono.

Senza farsi notare dalla madre, Ryo sgattaiolò fuori casa stringendosi in un giubbotto di pelle per non congelare. Non che l’idea di starsene tutto il giorno fuori con quel freddo lo allettasse, ma era sempre meglio che passare una domenica con gli zii.

Il quartiere era praticamente deserto; non tutti erano così stupidi da uscire con un tempo del genere. Gli alberi ondeggiavano sotto la spinta del vento e qualche sacchetto di plastica volteggiava nell’aria.

Giunto alla stazione dei treni[1] si frugò nelle tasche per poi scoprire con ‘grande piacere’ di non avere il becco di un quattrino. Sbuffando di rabbia, ma anche di freddo uscì dalla stazione e rinunciò all’idea di raggiungere il centro.

Durante il suo vagabondare senza meta si imbatté in un’imponente costruzione di colore blu, per gran parte ricoperta da grandi insegne luminose e non. Si soffermò a guardarla e si rese conto di non aver mai fatto caso a quel centro commerciale. Non che fosse uno che si era mai interessato a luoghi del genere.

Come una mosca è attirata dal miele, Ryo venne attirato dalla possibilità di stare al caldo. Effettivamente dentro si stava decisamente meglio, ma la calca di gente era pressoché insopportabile. Cercando di farsi largo tra gruppi di studentesse a caccia di vestiti, Ryo salì fino al piano superiore sperando di trovare una panchina libera.

Sicuramente quel giorno la fortuna non era dalla sua; i posti erano tutti occupati da felici coppiette che si scambiavano effusioni in pubblico. Irritato e decisamene nauseato, il biondo optò per andarsene e trovare un altro posto, ma in quel momento una voce acuta e squillante sovrastò tutte le altre. Tra la moltitudine di gente scorse una piccola ragazza dai capelli blu, quasi lo stesso colore che aveva l’esterno del centro commerciale. Teneva in mano dei volantini e cercava di propinarli a chiunque le passasse vicino.

«Ehi tu, scimmietta urlatrice» la apostrofò Ryo avvicinandosi. Lei si voltò e lo guardò sorpresa.«Parli con me?» chiese lei con innocenza. «Vedi qualcun altro che sta urlando come un matto nel bel mezzo di un centro commerciale?»

«Ho le mie buone ragioni» ribatté lei con fare stizzito.

«Ah sì? Allora fa vedere quei fogli. Vediamo quant’è buono il tuo motivo» esclamò Ryo e senza tanti complimenti glieli prese di mano.

«Ehi, tu..»  ma si bloccò a metà della frase quando vide il ragazzo intento a leggere con molta attenzione i caratteri del volantino.

«Ehm.. per caso ti interessa far parte della nostra band?» domandò lei cercando di mantenere un tono gentile.

«E chi ha mai detto questo?» rispose minaccioso ridandole i volantini con poco garbo.

«Ah… peccato»  

«Già» disse per nulla dispiaciuto e si voltò per andarsene. «Comunque qui stai perdendo il tuo tempo, non troverai nessuno che voglia far parte della tua band.»

«Non è vero! Ho trovato te»

«Io non ho mai detto di essere interessato, ti ripeto» e così dicendo si allontanò e sparì tra la folla.

«Vedremo» rispose la ragazza dai capelli blu sovrastando il vociare della folla con il suo tono acuto. Ryo senza accorgersene si ritrovò a sorridere divertito, ma appena si fu reso conto della sua reazione si affrettò a tornare serio.

Uscì dal centro commerciale e si ritrovò nuovamente in mezzo al vento freddo che gli sferzava il viso. Infilò le mani in tasca e la sua destra venne in contatto con una liscia superficie di carta. Non capendo cosa fosse lo tirò fuori e si ritrovò tra le dita un volantino un po’ spiegazzato.

«Quella stupida scimmietta. Me ne ha infilato uno in tasca» ringhiò a bassa voce.

Per un attimo pensò di buttarlo nel cestino che si trovava giusto a due passi da lui, ma poi lo rimise dove lo aveva trovato, cercando però di stropicciarlo ben bene.

 

[1] In Giappone la metropolitana viene spesso chiamata in questo modo ( immagino che lo sappiate, ma ho preferito precisare xD)

 

 

~

 

Eccomi di ritorno *A*

Vi chiedo innanzitutto scusa per il ritardo, ma sono riuscita a montare il computer solo oggi; qui sono ancora sommersa di scatoloni ;O;

Allora~ siamo giunti a metà della prima storia, ma devo ammettere che questo terzo capitolo mi convince davvero poco nonostante lo abbia riscritto un’infinità da volte.

La prima parte non mi fa impazzire, mentre la seconda già mi piace di più (sì, io non sono mai contenta u__ù). L’idea per la seconda parte mi è venuta dopo aver già concluso il terzo capitolo, così l’ho completamente cambiata LOL  La storia sarebbe dovuta andare in modo diverso, ma così mi piace molto di più. Per quest’idea credo di dover ringraziare la moltitudine di drama che sto guardando in questo periodo xD

Ma ora la smetto di ciarlare uwù

Spero che questo capitolo possa piacervi e fatemelo sapere con un commentino, che fa sempre tanto piacere. Ma anche se non vi fosse piaciuto vi sarei sempre molto grata se me lo diceste *^*

Boh, ho la sensazione di dimenticare qualcosa di importante nel commento, ma pazienza LOL

A prestoo~

Pon.

 

Ps: ecco lo sapevo, stavo dimenticando qualcosa è.è grazie a tutti per essere ancora qui a leggere la mia fic ♥

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Capitolo 4
*** Sveglia pt. 4 ***


Sveglia

 

[pt. 4]

Era un ozioso primo pomeriggio di inizio settembre. Quei giorni si trascinavano dietro ancora un po’ del calore dell’estate e il sole brillava pallido in cielo. Tutto faceva pensare a una perfetta giornata di puro e spensierato relax.

Qui, però, si parlava sempre del punto di vista di Ryo Suzuki.

«Deduco dalla tua aria rilassata che tu abbia finito la relazione» sentenziò il ragazzo seduto accanto a lui, senza però staccare gli occhi dal libro che teneva sulle ginocchia. Quel giorno portava i lunghi e folti capelli dorati legati in una coda, ma qualche ciuffo ribelle gli ricadeva sul volto. Girò appena il capo per controllare la reazione dell’amico –che solo ora si stava decidendo ad aprire un occhio- poi si risistemò gli occhiali sul naso e tornò a scribacchiare qualcosa sulle pagine del libro.

«Relazione?» domandò pacato il biondo ossigenato, completamente ignaro.

«Mh, già..» rispose brevemente senza prestargli troppa attenzione. Si chiedeva quanto ci avrebbe messo a ricordarsene; di solito impiegava una media di 10 secondi e 3 decimi.

«Io non… No! La relazione. Sono morto» guaì mettendosi le mani nei capelli.

Gli ci erano voluto 6 secondi e 4 decimi, un record.

«Credo proprio di sì» commentò l’amico con tono distratto e poco interessato.

«No… no… no» continuava a lagnarsi incessantemente.

Poi improvvisamente a un sottile filo di speranza sembrava essersi teso davanti ai suoi occhi. «Ehi Kouyou… vedo che stai scrivendo… allora neanche tu l’hai finita, vero? Vero che non l’hai finita?» ridacchiò isterico e l’altro ragazzo pensò bene di allontanarsi un po’, guardandolo preoccupato.

«Tu non stai bene» sentenziò. «E comunque anche se sto scrivendo non vuol dire che si tratti della relazione. E tanto per la cronaca la mia l’ho finita una settimana e mezzo fa»

Il mondo sembrò cascare addosso a Ryo. In effetti, pensandoci, la sua affermazione era risultata davvero stupida e preoccupante.

«Tu sei inquietante a volte» disse Kouyou tornado a sedersi più vicino.

«Oh no, io credo che la cosa più preoccupante sia il fatto che mi sto cominciando ad interessare della scuola. Tutto ciò è grave. Io l’ho sempre detto che hai una cattiva influenza su di me»

«Va bene, come preferisci. Comunque ecco qua la tua relazione, l’ho finita ieri e oggi stavo controllando le ultime cose» disse con tutta calma porgendo a un esterrefatto Ryo un piccolo plico di fogli.

«Io…»

«Non dire nulla o potrei avere l’improvviso desiderio di riprendere indietro tutti quei fogli» intimò il ragazzo dalla chioma dorata.

Ryo fece un segno con la mano lungo la bocca come se la stesse chiudendo con una cerniera.

«Bravo, scimmiakun» ridacchiò.

Il biondo ossigenato si dimenticò di ribattere su quel nuovo ‘grazioso’ soprannome datogli da secchionesan perché qualcos’altro attirò la sua attenzione.

Da dove erano seduti, vedevano perfettamente l’entrata della scuola e attorno al cancello si era radunato un capannello di ragazze. Per quanto si sforzassero non riuscivano né a vedere né ad intuire chi si celasse in mezzo a tutta quella gente.

Ad un certo punto un ragazzo del terzo anno si districò dalla folla –con un’enorme fatica- e si diresse verso alcuni amici del club di calcio che erano usciti dal campo per vedere cosa stesse succedendo.

«C’è Shiroyama, quello della sezione G» annunciò il ragazzo e tutti annuirono come a dire che aveva perfettamente capito quale fosse la situazione.

«Shiroyama? Sezione G? Qui non ci sono sezioni G» esclamò Ryo guardando verso l’amico e aspettando che confermasse ciò che aveva appena detto.

«Certo che quando i professori hanno parlato il primo giorno di scuola tu dovevi essere in coma profondo»

«Devo sentirmi offeso?» sbottò Ryo.

«Ah non so, fa come preferisci. Comunque, l’edificio che vedi dall’altra parte della strada fa sempre parte di questa scuola, è una specie di succursale» annunciò con tono saccente.

«Ah. Ma allora quel Shiroyama…?»

«E’ un senpai del terzo anno che, appunto, sta in quell’edificio»

«Ciò comunque non spiega quell’afflusso di ragazze lì davanti al cancello» fece un gesto distratto verso il nugolo di persone febbricitanti.

«Immagino che sia molto popolare» rispose Kouyou con non curanza.

«Mh, capisco» disse l’altro lanciando uno sguardo scettico nella medesima direzione di prima.

«Ehi, un momento! Tu come fai a conoscerlo?!» domandò con un tono di voce eccessivamente alto.

«Era seduto vicino a me durante la cerimonia di apertura» disse pacatamente. «Niente, ci siamo presentiti e poi lui se n’è stato zitto» aggiunse vedendo l’espressione esterrefatta dell’amico che sembrava dire ‘e ci hai parlato? Sei serio?!’.

Improvvisamente dal gruppo di studentesse si staccò una figura alta e slanciata che si mosse verso la porta con passo leggero. Aveva lunghi capelli neri all’altezza delle spalle molto ben curati e anche da quella distanza si capiva il perché ci fosse quella folla di ammiratrici ad attenderlo.

«Credo che per uno come lui potrei anche diventare gay» commentò improvvisamente Kouyou con il suo solito tono calmo, ma fece sobbalzare Ryo che era concentratissimo a fissare il nuovo venuto.

«Ma non lo eri già?» chiese l’altro sorridendo sornione, subito ripresosi dallo spavento.

«Ah ah ah, sei esilarante» rispose ironico.

«Comunque mi sembra solo uno sbruffone» disse secco Ryo mentre osservava il moro sparire oltre la porta della scuola.

«Oh, ma lo è. Però è bello, è stato bocciato –caratteristica che lo rende particolarmente figo-, è misterioso e suona la chitarra. In pratica, un gran bel cazzone. Davvero bello.»

«Io riconfermo la mia teoria sulla tua omosessualità» concluse con convinzione testa-ossigenata.

Kouyou ignorò beatamente il commento dell’amico e si mise a fissare un punto indistinto all’orizzonte. «Certo che ci farebbe davvero comodo un altro musicista per la band» sospirò e lentamente iniziò a raccogliere le sue cose per poi rimetterle nella borsa.

«Ehi, solo perché sbavi dietro a quel tipo io non acconsentirò a fargli far parte della band. Poi un chitarrista c’è già» esclamò Ryo con convinzione.

«Uno, io non gli sbavo dietro e due, era solo un commento generale. So perfettamente che un altro chitarrista non serve» replicò l’altro un po’ stizzito.

«Ah ok, mi stavo già preoccupando»

La campanella suonò. Era ora di ritornare alla triste realtà scolastica.

 

«Punizione signor Suzuki!» la voce risuonò chiara e spietata per classe. Nessuno fiatava.

Ryo era ancora fermo sulla porta aperta con il fiatone per via della corsa e senza cravatta, dimenticata sul bordo del letto.

«Credo anche…» continuò in modo fastidiosamente lento «…che il preside gradirà vederti. E ricorda: non accetterò altri ritardi durante la mia ora»

Ryo lanciò uno sguardo sconsolato dal sensei alla classe, poi di nuovo verso il sensei in infine verso Kouyou. Lo guardò supplichevole, ma lui rimase seduto composto e si limitò a fissarlo con disappunto. Ecco, perfetto! Era stato abbandonato anche dal suo amico.

Sapeva che non c’erano obbiezioni da fare e borbottando come una pentola a pressione –per la maggior parte si trattavano di ingiurie rivolte al sensei e agli dei che sembravano avercela con lui- si voltò pronto a dirigersi verso l’ufficio del preside.

Tutto quello non era assolutamente giusto a suo avviso. Non si meritava di essere mandato dal signor preside in persona. In ogni caso non era completamente colpa sua se era arrivato tardi. Non aveva di certo programmato che le pile della sveglia di scaricassero nel bel mezzo della notte.

Con le mani ficcate nelle profondità delle tasche salì fino al terzo piano, ma prima di raggiungere l’ala dove si trovava l’ufficio del preside, perse cinque minuti buoni a guardarsi intorno con la scusa di volersi godere ancora un po’ di libertà. Si sentiva come un condannato all’ergastolo.

Andava ricordato, che era un tipo al quale piaceva trasformare la sua vita in un’opera tragica.

Con passi lenti si diresse verso la sala d’aspetto che si trovava davanti all’ufficio. L’anno prima aveva già avuto l’onore di farci qualche capatina di tanto in tanto. Sapeva la strada a memoria e altrettanto perfettamente sapeva cosa lo aspettava una volta svoltato l’angolo: quattro sedie imbottite ma tremendamente scomode, di un verdino sbiadito, un tavolino basso sormontato da riviste di almeno tre o quattro anni prima, una vecchia pianta moribonda (dato che nessuno le prestava molte attenzioni) e le pareti di un giallo estremamente pallido. La prima volta che si trovò in quel luogo, gli ricordò spiacevolmente la sala d’attesa di uno studio dentistico.

Appena superato l’angolo, tuttavia non fu sorpreso né dalle pareti tinteggiate da poco dello stesso verde delle sedie, né dalla nuova pianta grassa che aveva preso il posto dell’altra. Un ragazzo sedeva al posto che era stato solito occupare lui. Un ragazzo che avrebbe riconosciuto tra mille, con lunghi e curati capelli neri e un portamento altezzoso.

«Che ci fai tu qui?» chiese con una voce più acuta di quanto si aspettasse.

Il moro alzò il volto con una lentezza esasperante e prima di rispondere esaminò Ryo come una macchina a raggi X. «Immagino la stessa cosa che ci fai tu» disse e tornò a sfogliare una rivista dalle pagine ingiallite.

Ryo si rimproverò per essere stato così avventato nel fare quella domande e si mise a dondolare da un piede all’altro, in notevole imbarazzo, ma cercando comunque di mantenere un’aria indifferente.

«Senti, è inutile che te ne stai lì in piedi a…» lo osservò per un attimo con l’aria di chi cerca di comprendere ciò che fa un bambino piccolo, «…far finta di fare l’indifferente. Siediti. Mi dai sui nervi» sbottò infine.

Ryo non si sarebbe seduto solo per dargli ancora più fastidio, ma sapeva che l’altro si aspettava esattamente quel comportamento, così alla fine si sedette. Il più distante possibile.

«Siete tu e quel Takashima che qualche tempo fa avete tappezzato la scuola con quegli avvisi ‘Cercasi membri per una band’, non è così?» domandò improvvisamente sempre con un certo tono di fastidiosa superiorità.

Ryo alzò lo sguardo verso di lui e inarcò leggermente le sopracciglia. «Mh, potrebbe anche essere» disse evasivo, ma sapeva perfettamente che la risposta gliela si leggeva in faccia. «Ma tu come fai a saperlo? Non stai nell’altro edificio?» mosse leggermente il capo in direzione della finestra, come a sottolineare che il moro faceva quasi parte di un’altra scuola.

«Spesso sono costretto a venire qui. Convocazioni dal preside e cose varie». Disse tutto quello come se stesse parlando del tempo atmosferico. «Un giorno mi è caduto l’occhio su uno dei volantini, tutto qui»

Ryo per un attimo rimase in silenzio poi puntò lo sguardo verso la porta dell’ufficio del preside, nella speranza di vederla aprirsi in quel momento.

«Mh, bene. Comunque non credo che tu saresti il candidato ideale per la nostra band, vedi..»

«E perché mai?» lo interruppe il moro «Ci sei tu, poi c’è quel tuo amico secchione e poi ci sarei io, quello bello, per intenderci» disse con naturalezza.

Ma quel tizio si ascoltava quando parlava?

«Poi basterebbe qualcun altro che faccia un po’ di scena e sarebbe tutto perfetto»

Ryo ormai era certo di una cosa: quel tizio non era solo un arrogante, spocchioso bambino troppo cresciuto, ma anche un vero e proprio coglione.

Era senza parole. Cosa avrebbe dovuto dire in una situazione del genere? ‘Sì, molto volentieri, ne sarei felicissimo!’?

Neanche per sogno.

In quel momento la segretaria fece la sua comparsa nella saletta con addosso un completo rosso acceso in netto contrasto con il verdino pallido delle pareti, delle sedie e della nuova pianta grassa.

«Shiroyamakun, il preside ti sta aspettando» annunciò per poi sparire nuovamente nel suo piccolo ufficio. Il moro si alzò e rimise al suo posto la rivista. Quando ormai aveva già la mano poggiata sulla maniglia si voltò verso Ryo. «Pensaci, mi raccomando» gli disse ammiccando ed infine entrò.

«Se se, come no…» borbottò Ryo a bassa voce.

Quel tizio era l’ultima persona che avrebbe fatto entrare nella loro band. Non gli avrebbe chiesto di unirsi a loro neanche se fosse stato l’ultimo musicista rimasto sulla faccia della Terra. Assolutamente non se ne parlava.

 

* * *

 

Mentre sistemava la custodia del basso sulla spalla si chiese quanto doveva essere alta la febbre quando aveva deciso di prendere sul serio quel volantino.

Era l’inizio di settembre e le vacanze erano tristemente finite.

Ryo cercò di tergiversare ancora un po’ facendo finta di legarsi una scarpa che non aveva bisogno di essere legata. Infondo era ancora in tempo, si disse. Poteva cambiare idea. Poi sarebbe stato rischioso; l’unico modo per raggiungere il luogo dell’audizione comprendeva il passare proprio davanti alla sua scuola.

Ma i suoi piedi andavano avanti e senza che se ne accorgesse aveva già superato l’angolo e casa sua non era più visibile.

Si rannicchiò nel suo giubbotto con la vana speranza di nascondersi almeno un po’. Tuttavia la sua testa ossigenata era davvero difficile da occultare. Avrebbe dovuto prendere un cappello, pensò con amarezza.

Da quando aveva messo un piede fuori casa si chiedeva incessantemente che cosa lo avesse spinto a fare una tale cretinata. Tanto non lo avrebbero mai preso. Si sarebbe solo messo nei guai.

I suoi piedi però andavano avanti.

Passo dopo passo i contorni imponenti della scuola si facevano più chiari. Ecco i grandi cancelli aperti, il cortile e il grande orologio-occhio.

Quando finalmente si lasciò il grande edificio scolastico alle spalle si sentì come sollevato e un senso di potenza lo pervase.

Chi era lui?

Suzuki Ryo.

E aveva paura di una possibile punizione?

Certo che no.

In ogni caso cercò di allontanarsi il più in fretta possibile.

 

Era certamente mezzogiorno passato quando si ritrovò nuovamente nei pressi della scuola.

L’ audizione, beh… era andata. Non sapeva se bene o male; non che avesse fatto schifo, ma non era riuscito a capire cos’avessero pensato i ragazzi che lo giudicavano. Tra di loro c’era anche la tizia dai capelli blu; come si era aspettato. Non gli aveva rivolto la parola, ma, appena aveva messo piede nel locale, lo aveva guardato come a dire ‘Te l’avevo detto che saresti venuto’. In quel momento le avrebbe volentieri lanciato in basso in testa. Ora non rimaneva che aspettare, ma cercava di non illudere se stesso.

Se ne stavano dall’altra parte della strada a guardare il cortile, aspettando il momento propizio per passare. Molti  studenti si godevano gli ultimi giorni di caldo. Il club di calcio era intento a giocare mentre molti altri ragazzi e ragazze semplicemente se ne stavano seduti sotto l’ombra degli alberi. Ryo scorse Takashima, il suo compagno di classe, intento a leggere un libro. Era solo sotto l’albero.

Improvvisamente qualcos’altro catturò la su attenzione: diverse ragazze si erano radunate attorno al cancello e Ryo scorse una figura alta dai capelli corvini varcarlo e sparire tra la folla. Quell’agitazione aveva richiamato l’attenzione di alcuni sensei che uscirono in cortile per controllare cosa stesse succedendo. Fu in quel momento che uno di loro lo notò.

Ryo non ricordava l’ultima volta che aveva corso in quel modo, sapeva solo che doveva allontanarsi di lì il più in fretta possibile. Tuttavia qualcuno doveva averlo riconosciuto.

Quando tornò a casa trovò la madre ancora con la cornetta del telefono in mano. Ha chiamato la scuola, disse lei, Non sono affatto contenta del tuo comportamento, Vedi di darti una regolata, continuò lei, ma per Ryo quello era solo un flusso di parole senza senso.

 

Il giorno dopo lui e la madre raggiunsero l’ufficio del preside. Lei camminava a testa bassa per la vergogna, ma Ryo non riusciva comunque a sentirsi dispiaciuto per lei.

Arrivati nella piccola saletta adiacente all’ufficio, il biondo neanche si accorse dei cambiamenti adottati, non fece caso alle pareti verdi e alla nuova pianta. Teneva gli occhi fissi a terra. Infuriato con se stesso per essere stato colto in flagrante. Avrebbe dovuto stare più attento, continuava a ripetersi.

In quel momento un ragazzo alto dai lunghi capelli neri con indosso la divisa della scuola uscì dall’ufficio del preside e si diresse verso il corridoio lanciando una breve occhiata a Ryo. Lui ricambiò lo sguardo con una smorfia poco amichevole.

Era il loro turno. Pochi istanti dopo erano spariti dietro la porta con sopra la targhetta con su scritto ‘Presidenza’.

 

~

 

Eccomi nuovamente  tra voi con un nuovo capitolo uwù

Non credo ci sia molto da dire, se non che… finalmente è comparso il vecchio *A* *grabba nonno-Aoi*

Ehm ehm, è meglio che la pianti.

Mi sento stupida a non sapere cosa scrivere .-.

Questo capitolo direi che mi soddisfa, mi piace soprattutto la prima parte. Il prossimo che posterò sarà il penultimo e, personalmente, lo adoro *A* Appariranno un sacco di personaggi; avranno un ruolo marginale, ma io li ho adorati u_ù Ok, la smetto di spoilerare <___<

Grazie a tutti quanti  ♥

Lasciate un commentino e vi regalerò dei cioccolatini :D

Chu~

Pon.

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Capitolo 5
*** Sveglia pt. 5 ***


Sveglia

 

[pt. 5]

Il festival scolastico era alle porte.

I club si sarebbero dati da fare per far bella mostra di sé. C’era quello di teatro, che provava il proprio spettacolo da giugno; poi c’erano i club sportivi che avrebbero organizzato della gare a premi e già la squadra di calcio si lamentava che i giochi con la palla erano troppo pochi.

Tutto faceva pensare ad un’aria di festa. Anche le lezioni sembravano meno noiose più ci si avvicinava alla data del festival.

Ryo però non sembrava condividere quest’allegria comune che dilagava per la scuola. Per lui il festival significava solo dover scontare la sua punizione per il ritardo.

«Invece di farti passare un’ora in aula punizioni, ritarderò il tuo castigo di un po’. Ti farò fare qualcosa di utile, Suzukikun: aiuterai il club di calligrafia [1] con i preparativi per il festival» aveva annunciato il preside durante quella soleggiata giornata di settembre.

A Ryo pareva comunque una punizione esagerata. Ma –diciamocelo- per lui tutte le punizioni erano esagerate o comunque non propriamente meritate.

Inoltre… club di calligrafia? Questo lo lasciava davvero perplesso. Gli risultava difficile credere all’esistenza di un club simile. Eppure se uno andava a controllare lo trovava nell’elenco con tutti gli altri, quello di musica e canto, quello di teatro, quello di karate, di calcio etc. etc.

 

La fine di settembre si faceva sempre più vicina e già i primi striscioni venivano appesi alle pareti e alle porte. Da un paio di giorni erano arrivate dentro grandi scatole le varie attrezzature e la presidentessa del club di teatro stava per avere una crisi di nervi perché i costumi non c’erano ancora. A  parte –appunto-  i poveri presidenti dei club che si ritrovavano a dover gestire ogni cosa, tutti sembravano vivere in una sorta di allegra spensieratezza.

Il nostro Ryokun non riusciva proprio a sopportarlo; non era da lui mostrare molto spirito scolastico e non ci teneva particolarmente a farlo.

 

«Dov’è?!» tuonò una potente voce femminile tanto forte da far voltare coloro che passavano per il corridoio. «Dov’è quel Suzuki?!» continuò mentre camminava per la classe come una furia.

«Inoue senpai…» biascicò un ragazzo cercando di attirare l’attenzione della ragazza. Lei si voltò di scatto e lo fulminò con lo sguardo. Lui si ritrasse intimorito.

La stanza dove la ragazza-furia, il suo kohai e altre cinque persone si ritrovavano era collocata al secondo piano e sopra la porta era affisso un cartello scritto a mano in bella scrittura: ‘Club di calligrafia’. Era una classe piuttosto piccola e dall’aria un po’ vecchiotta, ma il club non era numeroso perciò era perfetta. Se il preside della scuola non fosse stato un patito della bella calligrafia, quel gruppo sarebbe già stato cancellato da parecchio.

La presidentessa, Inoue senpai del terzo anno, era stata colei che aveva reclutato tutti membri. Su questo c’è da dire che diversi di loro aderirono al club per paura della senpai.

Chi si trovò davanti Ryo, appena messo piede nell’aula, fu proprio la presidentessa in persona. Era un ragazza molto piccola di statura con un paio di enormi occhiali sproporzionati per lei, ma da dietro le lenti erano visibilissimi due grandi occhi fiammeggianti.

«Sei-in-ritardo» sbottò lei scandendo bene le parole.

«Lo so. E’ perché sono arrivato tardi a lezione che ora mi trovo qui» rispose Ryo con non curanza. Inoue senpai lo squadrò furiosa, ma il rapido intervento di un’altra ragazza evitò che la presidentessa saltasse addosso a Ryo e lo strangolasse con le proprie mani.

«Bene» ridacchiò la ragazza –mentre ancora teneva ferma la presidentessa- con una nota di isterismo nella voce. «Suzukikun, tu potrai aiutare Yamashitakun e Ishiisan a tagliare gli striscioni. Per oggi serve solo che prepariate il materiale» e così dicendo portò  il più lontano possibile Inouesan da Ryo.

Mancavano tre giorni al festival.

 

«Perché non provi a scrivere… vediamo… verde [2]! Sì, mi sembra perfetto.» disse Haradasan, la ragazza che aveva ‘salvato’ Ryo dalla furia di Inoue senpai tre giorni prima. «Comunque non ti preoccupare, è solo per vedere se puoi darci una mano a scrivere i cartelloni. Sai, c’è sempre un sacco da fare» e così dicendo mollò in mano al biondo pennello e inchiostro. Lui se lo rigirò per un po’ tra le mani, poi finalmente si decise a prendere un foglio.

Ci mise almeno dieci minuti e alla fine era convinto di non aver mai fatto nulla di così difficile in tutta la sua vita. Nel momento in cui sollevò il foglio per guardarlo meglio arrivò Haradasan che glielo tolse di mano. Nel giro di pochi istanti vide il sorriso sul volto della ragazza sparire e lasciare posto a uno smorfia confusa.

«Ehm, dimmi Suzukikun, avevi mai utilizzato il pennello prima d’ora?»

Lui scosse la testa con vigore.

Improvvisamente giunse Inoue senpai che a sua volta prese il foglio di Ryo per esaminarlo. Dopo una breve occhiata lo strappò in due senza tanti complimenti.

«Fuori» sibilò lei a denti stretti. Il biondo la fissava esterrefatto.

«Ho detto FUORI, buono a nulla!» gridò e la sua voce parve in totale disaccordo con il corpicino piccolo e quasi fragile. «Ayachan, ti prego sii ragionevole...» cercò di convincerla Haradasan, ma la presidentessa sembrava non volerle dar retta.

«Io quell’idiota non lo voglio più vedere qui e ora FUORI!» abbaiò la ragazza indicando con il dito verso la porta. Ryo lanciò un’occhiata confusa a Haradasan. «E’ meglio se vai» disse lei cercando di farsi sentire solo da Ryo. Lui non se lo fece ripetere due volte e sgattaiolò fuori dalla classe.

Stava per scendere le scala quando la voce di Haradasan lo richiamò indietro. Ripercorse i pochi gradini che aveva fatto e si ritrovò di fronte alla ragazza. «Ti prego di scusare Ayachan, non è cattiva, ma va facilmente in collera. Poi in questo periodo è molto stressata per via della preparazione del festival» disse lei chiaramente dispiaciuta per il comportamento dell’amica. «Fa nulla» si limitò a rispondere Ryo e fece per tornare sui suoi passi. «Senti, c’è il club di musica che cerca qualcuno che li aiuti con gli amplificatori. Magari puoi andare lì. Se i sensei avranno qualcosa da ridire mandali pure da me»

«Oh.. beh, grazie» abbozzò un sorriso e si diresse verso la classe di musica.

 

Dal corridoio era perfettamente possibile sentire la moltitudine di strumenti che suonavano in totale disaccordo l’uno dall’altro. Ryo aprì la porta e il rumore si fece più forte. C’erano chitarre, un basso, una batteria e un paio di trombe all’opera. Altri strumenti erano appoggiati contro una parete dentro le loro custodie.

«Ryokun, che ci fai qui?» domandò una voce sorpresa. Il biondo si voltò un po’ stranito; la voce apparteneva a Kouyou. «Ehi, potrei chiederti la stessa cosa!» ribatté. «Non credo. E’ dalla settimana scorsa che ti dico che avrei dato una mano al club di musica, ma tu eri troppo preso a lamentarti» concluse con voce seria che non ammetteva repliche. «Ora forse qualcosa ricordo» disse evasivo testa-ossigenata.

«Comunque perché non sei al club di calligrafia?»

«Buttato fuori. Inoue senpai stava per sbranarmi vivo» spiegò velocemente.

«La capisco perfettamente» disse ridendo.

Tuttavia Ryo non ebbe modo di ribattere; in quel momento entrò dalla porta un alto ragazzo moro con in spalla una chitarra laccata di nero.

«Ohayou, senpai» esclamarono alcuni ragazzi del primo anno con una nota di ammirazione nella voce. Lui rivolse loro un sorriso e posò la chitarra su una sedia vuota. Si guardò un attimo attorno e quando il suo sguardo si posò su Kouyou, gli sorrise e si avvicinò. Non degnò Ryo nemmeno di uno sguardo, ma il biondo invece lo aveva riconosciuto perfettamente.

«Ehi, Shiroyama senpai» disse con un tono voce poco cordiale. Il moro si voltò a guardarlo. «Non ti…» continuò il biondo.

«Aah, già… sei il tipo della saletta d’attesa» disse con la sua solita calma snervante interrompendo Ryo. Poi tornò a guardare Kouyou e i due si scambiarono alcune parole che Ryo non sentì.

«Kouyou perché stai parlando con quello?» esclamò indignato sottolineando il più possibile il ‘quello’.

«Con chi? Con il senpai?» disse e per un attimo anche la voce calma del biondo n. 2 innervosì Ryo. Vedendo che l’amico non rispondeva, ma si limitava a guardare torvo il moro, Kouyou parlò nuovamente: «E’ lui che mi ha chiesto se potevo venire a dare una mano. E’ il presidente»

Presidente?! Ryo era sconvolto, non riusciva a credere che quell’idiota potesse gestire un club scolastico.

«Ah, fantastico» commentò sarcastico.

«Ha saputo che suonavo così mi ha proposto di venire a fare un po’ da supervisore. Sai, non è poi così… Ryo, smettila di guardarlo come se sperassi che un vaso gli cada in testa da un momento all’altro!»

Testa-ossigenata sbuffò rumorosamente.

«Ryokun, per favore, stai calmo e non attaccar briga con Shiroyama»

«Solo se mi prometti che, qualsiasi cosa accada, non gli offrirai mai un posto nella nostra band»

«Ma che..? Oh ok, va bene. Come vuoi tu» si rassegnò e tornò a concentrarsi sulla chitarra che stava accordando.

«Allora, Suzukikun. Sei tu quello che ci aiuterà molto gentilmente a portare di sotto gli amplificatori?»

Ryo annuì con aria torva.

Cinque minuti dopo si ritrovò a trasportare un pesante amplificatore giù dalle scale con l’aiuto di due ragazzi della sezione C. Furono a costretti ripetere quell’operazione per altre cinque volte e quando ritornarono di sopra Ryo non si sentiva più le braccia. Quasi quasi avrebbe preferito farsi urlare contro da Inoue senpai.

Si sedette sconsolato e stanco su una sedia e desiderò come non mai un letto o anche solo un cuscino. Chiuse un attimo gli occhi e si concentrò sulla musica che aleggiava per la stanza. La sua attenzione fu attirata dal suono di un basso; il ragazzo che lo stava suonando ci metteva troppa forza nel tirare le corde. Avrebbe finito col rovinarlo.

Quasi automaticamente si alzò dalla sedia e si avvicinò al ragazzo. «Permetti un attimo?» chiese dando una breve occhiata al basso. Lui lo guardò un po’ sorpreso poi gli porse lo strumento. Ryo lo afferrò saldamente e si fece passare la tracolla sulla spalla. Si sentiva a casa.

«Tiravi con troppa forza le corde. Vedi, il basso è uno strumento dal suono grave e profondo, ma non per questo lo devi trattare come se stessi suonando una schiaccia sassi» sorrise appena e posizionò le dita sulle corde. Prima le muoveva lentamente poi sempre più veloci, facendo acquistare ritmo alla canzone che aveva in testa. Avrebbe voluto continuare a suonare, ma si costrinse a restituire il basso al proprietario. «Capito?» chiese gentilmente e questi annuì.

Alzò lo sguardo e vide Kouyou sorridergli gentilmente, ma in quel momento notò Shiroyama avvicinarsi e parlargli. Kouyou arrossì appena.

 

«Devi stargli alla larga» sentenziò mentre scendevano le scale trasportando gli strumenti.

«Da chi devo stare alla larga, di grazia?»

«Lo sai bene, non fare il finto tonto. Sto parlando di Shiroyama»

«Oh Ryokun, ancora con questa storia? Te l’ho detto, non è poi una persona così insopportabile. Poi io sono qui solo per dare una mano, niente di più» disse sbuffando.

«A me continua a non piacere. Non capisco davvero cosa voglia da te» ribatté corrucciando le sopracciglia.

«Io penso che tu ti stai inventando le cose»

Ryo non rispose e non parlò più finché non ebbero raggiunto il cortile.

«Non farti abbindolare, Kouyou» disse e ritornò in fretta dentro a prendere gli strumenti rimasti. In seguito evitò accuratamente sia l’amico sia Shiroyama.

 

Si erano ormai fatte le due del pomeriggio e dopo i preparativi mattutini tutti erano esausti, ma raggianti. Quel giorno iniziava il lungo festival scolastico per festeggiare il cinquantenario della scuola.

Ryo aveva mangiato da solo e se ne stava seduto sotto un albero, ma ben presto fu raggiunto da una ragazza che riconobbe come quella che nel club di musica suonava la batteria.

«Suzukikun!» lo chiamò mentre si avvicinava correndo. «Shiroyama senpai ha chiesto di te»

Il biondo la guardò di sottecchi con aria scocciata, ma si vide costretto a seguirla.

Il palco per lo spettacolo era stato allestito vicino al campo di calcio ed era pieno di ragazzi intenti a sistemare le ultime cose. I primi ad usufruire dal palco sarebbero stati gli studenti del club di teatro e subito dopo, per concludere quella prima giornata, si sarebbero esibiti quelli del club di musica e canto.

Si sentiva l’agitazione nell’aria anche se mancava diverse ora all’inizio dello spettacolo.

Ryo individuò il senpai; stava discutendo con altri due ragazzi del terzo anno su dove fosse stato meglio posizionare il quinto amplificatore.

«Ah ehm» tossicchiò il biondo interrompendo la conversazione. «Mi hai fatto chiamare?»

«Già»

«Ebbene?» domandò stizzito inarcando un sopracciglio.

«Dovresti aiutarmi con il sound check. Il mio bassista fa parte di una squadra di judo e questo pomeriggio aveva un incontro. Sarà qui solo stasera. Pensi di poterlo fare?»

«Certo che posso!» rispose prontamente, offeso perché erano state messe in dubbio le sue qualità di musicista.

«Perfetto» disse, ma mostrò poco entusiasmo. «Bene, se siamo tutti pronti si può iniziare con il sound check!» annunciò e tutti si affrettarono a recuperare i loro strumenti.

Ryo guardò lo spartito che aveva davanti e cercò di memorizzare più note possibili, poi partì un dolce assolo di chitarra classica e il ritmo della canzone andò crescendo man mano che si aggiungevano strumenti. Arrivò il suo turno e si inserì a sua volta sentendosi completamente parte della musica e tutto il resto venne spazzato via. C’erano solo lui, le corde del basso e lo spartito davanti ai suoi occhi.

Neanche si accorse che la canzone era cambiata e si chiese quando avesse voltato pagina. Aveva iniziato subito, lui insieme a una chitarra elettrica e la batteria. Poi il suo pezzo di fermava per un po’, lasciando posto alla chitarra. Alzò appena il capo e scorse le corde di una chitarra laccata di nero vibrare sotto il tocco leggero del musicista che la suonava. Il suddetto musicista aveva lunghi capelli neri che ricadevano lungo il volto. Quella fu la prima volta che non vide su di lui la solita aria da sbruffone.

 

«Ryokun, sei stato fenomenale!» esclamò Kouyou mentre il biondo ossigenato stava scendendo dal palco. Ryo sorrise e fece per dirigersi all’ombra di un albero insieme all’amico; ormai aveva dimenticato che quella mattina avevano quasi litigato.

«La prossima volta però cerca di non sbagliarmi quel do, ok Ryokun?» esclamò la voce calma di Shiroyama, come a prendersi gioco del biondo.

Ryo cercò di ignorarlo, ma i suoi occhi dardeggiavano furiosi.

«E pensare che mi ero quasi ricreduto su di lui. E’ davvero un ottimo chitarrista. Ora però ritiro tutto» sbottò.

«Dai, Ryokun. Sta solo scherzando, presumo» disse Kouyou cercando di calmare il furioso biondo. «E comunque è davvero un bravo chitarrista, questo non puoi negarlo neanche se lo vuoi» insistette l’amico.

«Mh, non so. Potrebbe anche esserlo» asserì con tono vago. «Tuttavia ciò non cambia il fatto che non lo sopporto»

 

 

[1] Esiste davvero, lo giuro LOL

[2] Kanji: 緑 Midori

 

* * *

 

«Rispondere ai messaggio è troppo difficile per te, stupido tonno?!» esclamò una voce acuta dall’altra parte del telefono.

Ryo aveva ripreso possesso del cellulare –sequestratogli per punizione- da meno di mezz’ora e lo aveva acceso trovando dodici chiamate perse e quindici messaggi sempre dallo stesso numero, che in rubrica aveva segnato come ‘Scimmietta blu’.

«Stavamo quasi per cambiare idea!» sbottò la ragazza senza dare il tempo a Ryo di dire anche solo ‘bah’. «Se questa volta non avessi risposto, avremmo davvero scelto qualcun altro!»

«Scelto? Chi o cosa dovevate scegliere?» il biondo non si curò di difendersi dalle accuse della ragazza perché, prima di tutto, voleva capire su cosa stesse blaterando.

«Ok che il tuo quoziente intellettivo è pari a quello di un ananas, ma non credevo…»

«Ehi, non puoi paragonarmi ad un ananas!» la interruppe Ryo stizzito. «Poi di che diavolo stai parlando? Mi spieghi il perché di tutti questi messaggi e chiamate?»

La ragazza sospirò rumorosamente. «Sei dentro. Sei nella band» esclamò esasperata.

«Non mi parlare in quel mo… Eeh?! Nella band? Mi stai prendendo in giro?» domandò Ryo e si vergognò da morire per quanto fosse diventata acuta la sua voce.

«Secondo te sprecherei dei soldi e del tempo per farti uno scherzo del genere?»
«No, beh.. in effetti» bofonchiò lui.

«Bene, vedo che hai afferrato il concetto» disse assumendo un tono improvvisamente serio. «Sabato ci sono le prove al locale dell’altra volta. Sei fai tardi sei morto» così dicendo chiuse la telefonata.

Ryo rimase alcuni istanti immobile con il telefono ancora incollato all’orecchio. Quella telefonata poteva essere durata al massimo qualche minuto, ma l’aveva completamente frastornato.

Si lasciò cadere sul letto cercando di realizzare ciò che era appena successo. La scimmietta urlatrice con i capelli blu lo aveva chiamato, era nella band, sabato c’erano le prove e… era stato minacciato di morte?

 

Quella mattina era stato molto in pratica buttato fuori casa. Era il primo giorno del festival scolastico e la madre lo aveva obbligato ad andarci. I suoi progetti di restare in camera a oziare tutto il giorno, erano stati distrutti nel giro di pochi minuti ed ora si ritrovava a trascinarsi stancamente lungo la strada. Non era saggio fare finta di andarci; sentiva che la madre in qualche modo lo avrebbe saputo. Infondo non era quello il lavoro delle madri: sgamare i figli?

Rassegnato svoltò all’angolo e prese la strada che portava a scuola.

Erano le quattro passate quando raggiunse il grande cortile stipato di piccole bancarelle e studenti. C’erano ragazzi e ragazze provenienti da scuola diverse, venuti lì per dare un’occhiata o per salutare qualche vecchio amico. Con tutta quella gente sarebbe stato difficile trovare un posto tranquillo; questa era l’unica cosa di cui Ryo si preoccupava.

Poi ecco che improvvisamente, durante il suo vagare senza meta da pellegrino, scorse un angolino nascosto in parte dal tronco di un albero. Vi si installò e ringraziò il grande Kami sama, che quel giorno pareva non avercela con lui.

Da quell’angolo vedeva perfettamente il palco, ma in quel momento era vuoto. Improvvisamente sentì un rumore di passi farsi sempre più vicino e ben presto due ragazzi con la chitarra in spalla gli furono perfettamente visibili. Si fermarono sotto il palco. Uno lo riconobbe immediatamente; aveva folti capelli dorati, un paio di occhiali e delle gambe infinitamente lunghe. Era Takashima. L’altro fu più difficile da identificare, ma, osservandolo bene, capì di chi trattava: era lo stesso ragazzo che aveva visto al cancello e poi fuori dall’ufficio del preside. Che ci facevano lì, insieme?

Si sentiva una specie di stalker nello starsene lì a fissarli, ma non aveva niente di meglio da fare. Li osservava mentre parlavano fitto tra loro, poi improvvisamente Takashima scoppiò a ridere e il moro gli sorrise di rimando.

Ryo non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase lì a sentirli ridacchiare tra loro, ma era giunto ad una conclusione: non gli piaceva come quel tizio dai capelli neri fissasse il suo compagno di classe. Non che avesse a che fare con Takashima, lui, ma il moro gli ispirava poca fiducia.

Improvvisamente sentì il cellulare vibrargli in tasca e lo tirò stancamente fuori dalla tasta.

«Moshi moshi?» rispose con scarso entusiasmo.

«Ehi tonno!» disse una voce acuta e allegra.

«Che vuoi? Le prove sono dopo domani, no?» chiese brusco.

«Non ti ho chiamato per quello!» sbuffò.

«Che vuoi?» ripeté lui.

«Dove sei?»

«Che ti importa?»

«Ti va se ci vediamo?»

«No». Riattaccò il telefono.

Ecco di nuovo che il telefono vibrava con insistenza. Avrebbe potuto non rispondere e spegnerlo, ma non lo fece.

«Che vuoi ancora?»

«Perché hai riattaccato?»

«Perché non mi andava di ascoltare la tua brutta voce»

«Dove sei? Ripeto». Lo aveva completamente ignorato.

«A scuola» sbuffò lui.

«Perfetto, so dov’è. Ci vediamo davanti al cancello tra un quarto d’ora». Riagganciò.

Per la seconda volta Ryo rimase impalato con la bocca aperta e il cellulare ancora incollato all’orecchio. Quella ragazza avrebbero dovuto sopprimerla.

Un quarto d’ora dopo era ancora nel suo angolo, di certo non si sarebbe mosso per andarle incontro. Nel frattempo Takashima e il moro se n’erano andati e la sua attenzione era stata attirata dai ragazzi del club di teatro che si dirigevano verso il palco con una moltitudine di scatoloni pieni di costumi di scena.

Venti minuti. Mezz’ora. A quel punto doveva già essersene tornata a casa, pensò Ryo con un sorrisetto sornione sulle labbra.

«Ah ah! I got you» sbraitò una voce con un pessimo accento inglese. «Sapevo che prima o poi ti avrei scovato e ora fuori di lì»

Ryo si sentì tirare su di peso e quando le sue gambe furono saldamente piantate a terra, guardò la ragazza che gli stava davanti. «Ancora tu…» sbuffò, ma in quel momento i suoi occhi si posarono sugli indumenti di lei. «La tua divisa è..» mormorò a bocca spalancata.

«Non la guardare, idiota!» sbottò. «Non ho scelto io in che scuola andare. Ora viene, muoviti» così dicendo se lo trascinò dietro, nel pieno caos del festival. Ryo comunque non riusciva a staccare gli occhi dalla divisa della ragazza, era quella della ‘St. Mary’, il mega istituto femminile. Una scuola per ricconi, tanto per intenderci.

«So che la stai guardando» sbuffò lei voltandosi. «No, è che..» biascicò il biondo evitando il suo sguardo. «Senti, questo non cambia minimamente le cose. Non le deve cambiare, ok? Io non faccio parte di quel..» cercò la parola giusta «..mondo. Io non sono come loro» concluse con una nota di disgusto nella voce. «Ehi man, guarda i miei capelli. Ti pare che io possa davvero essere come quelle snob delle mie compagne?» disse tornando alla sua solita voce squillante.

Ryo sorrise divertito e quella volta si lasciò trascinare in mezzo alla folla senza troppe storie.

 

~

 

Ma buonsalve *A*

Innanzitutto grazie di cuore a tutti coloro che stanno ancora leggendo la mia fic *manda cuoricini*

Davvero, grazie a tutti ♥

Beh, siamo arrivato al penultimo capitolo e a me è venuta una depressione insensata u__ù L’altro giorno, mentre scrivevo l’ultimo capitolo, ero davvero dispiaciuta. Mi mancherà molto scrivere su quel tonno i suoi amici. Ma non devo buttarmi giù d’animo, perché mancano ancora quattro storie alla fine di questa fanfic~!

Allora, oggi vorrei –anche sa sicuramente non ve ne frega niente- parlare un po’ di alcuni personaggi. Sono solo delle comparse, ma dietro si cela tutta una storia u.u *solo lei è capace di pensare certe cose*

Aya Inoue senpai. La adoro e a tratti mi ricorda Taiga Isaka di Toradora; forse questo personaggio è nato un po’ sotto l’influenza di Tora xDD Comunque mi piace davvero molto (sicuramente è così solo per me perché nella storia non ho avuto tempo per delineare bene il suo carattere) e mi piacerebbe molto approfondire il suo personaggio *^*

Ora arriva la scimmietta dai capelli blu u_u Eh sì, non ha un nome *muor* O almeno non gliel’ho dato perché nella storia non era necessario metterlo quindi non ci ho mai pensato. Ecco, lei la odio… profondamente u__ù Ora mi spiego meglio: in sé il suo carattere mi piace, ma nella storia non la sopporto proprio. Questo personaggio è nato proprio per essere così; dovevo trovare qualcuno che sostituisse Uruha e Aoi, così ho craeto lei. Forse è per questo che non la sopporto: è solo la loro sostituta.

L’ispirazione per crearla l’ho presa da un drama coreano che ho finito da poco (Boys Over Flowers) dove c’era una ragazza del genere; aveva davvero un bel carattere e una grande personalità se presa fuori dalla vicenda, ma tutti la detestavano perché aveva fregato il ragazzo alla protagonista.

Ecco, credo che sia più o meno al stessa situazione della mia storia (mah <__< nd: tutti).

Ora la smetto di propinarvi tutti miei trip mentali che nessuno avrà capito. Perciò se vi ho confusi, cancellate dalla mente tutto quello che ho scritto qui xDD

*si inabissa*

Tanto, come sempre, ho dimenticato delle cose da dire, ma ramen u__ù

 

Alla prossima ♥

pon.

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Capitolo 6
*** Sveglia pt. 6 ***


Sveglia

 

[pt. 6]

Two years after

 

«Ageda Emi» chiamò una voce dal tono grave rimbombando come il suono di un gong.

Una ragazza si alzò e si diresse verso il palco con passo tremolante. Indossava una divisa ben stirata e continuava a tormentarsi i bottoni della giacca a causa dell’emozione.

Tap tap

I suoi passi risuonavano nel silenzio della sala.

Tap tap

Lentamente salì la piccola scaletta e dopo poche e brevi falcate, era a cospetto dell’uomo. Lui le stava porgendo un foglio di carta rigida e patinata. La ragazza si inchinò con fare rispettoso e prese tra le mani il suo diploma.

Tap tap

Era scesa dal palco ed era tornata al suo posto.

«Aoki Hoshi … Fujihara Hiroto… Harada Itsuki… Harada Mai Kazue…». I nomi si susseguivano uno dopo l’altro e uno dopo l’altro gli studenti si alzavano, tutti emozionati e tutti col passo tremante.

Gli addobbi con i colori della scuola adornavano la sala convegni, le sedie occupate dai neo (o quasi) diplomati erano sistemate con una perfezione millimetrica.

«… Sato Kenta… Suzuki Makoto Ryo!»

Ryo deglutì nervosamente e si allentò un po’ la cravatta che gli sembrava diventare sempre più stretta. Con una ‘gentile’ spintarella da parte di Kouyou (amico non che vicino di banco da quasi due anni) decise di alzarsi e lasciare la sedia, che improvvisamente era diventata estremamente confortevole.

Era davvero reale tutto quello?

Ryo Suzuki si stava davvero diplomando?

Eppure tutti gli indizi sembravano confermare il fatto che quella fosse proprio la realtà.

Eccolo che mentre saliva sul palco si allentava ancora un po’ il nodo della cravatta e stringeva i pugni tanto da farsi sbiancare le nocche. Era a disagio nel sentire la sua pelle a contatto con la stoffa stirata di fresco della camicia e sapeva perfettamente che tutti lo stavano guardando, gli occhi di tutti gli studenti fissavano lui ed i suoi capelli ossigenati.

Il signor Preside gli consegnò il diploma in carta patinata e sorrise lievemente come a volergli dire ‘Ce l’abbiamo fatta non è vero, signor Suzuki?’.

Ryo abbozzò una specie di inchino tutto storto e si affrettò a levare le tende. Per un breve istante alzò lo sguardo ed incrociò gli occhi dell’amico che lo aspettava al suo posto. Il suo sorriso caldo e sincero lo fece sentire un po’ meno in imbarazzo davanti a tutta quella gente.

«Takashima Kouyou»

Ryo osservò l’amico alzarsi e compiere gli stessi gesti degli altri, forse un po’ più impacciato. Lì, davanti al preside, gli vennero riconosciuti diversi onori speciali. Lui restava fermo immobile ad ascoltare le lodi che gli venivano fatte, mentre si sistemava con nervosismo gli occhiali sul naso rosso, come tutta la sua faccia.

Ryo in quel momento non riuscì a non sentirsi in colpa. Stavano facendo ciò che era meglio portando avanti il progetto della band? Era davvero giusto che portasse via all’amico un probabile futuro brillante? Per cosa poi? Per un semplice sogno adolescenziale.

«Ehi, Ryokun» mormorò una voce facendo sobbalzare il biondo.

«Ah, sei tu!» sbuffò irritato per essersi spaventato.

«E chi poteva essere, se no?» disse con tono saccente per prendere in giro l’amico. «Appena è tutto finito facciamo festa. Comunque non credere che ti lascerò passare delle vacanze tranquille. La nostra band non è al completo; la caccia ai musicisti è sempre aperta» ridacchiò sommessamente e guardò verso il biondo ossigenato con fare speranzoso.

Forse quello di Ryo fu un comportamento da vero egoista, ma quando vide il sorriso stampato sul volto di Kouyou, tutti i suoi dubbi e i sensi di colpa sparirono come se non ci fossero mai stati. In quel momento vedeva davanti a sé solo l’immagine di loro intenti ad affiggere volantini qua e là. Quel pensiero lo fece sorridere.

 

Una figura in nero venne loro incontro; aveva capelli anche quelli neri ed abiti altrettanto scuri, portava una collana d’argento che a tratti tintinnava. «Scimmiakun! Kou!~» esclamò mentre un largo sorriso si apriva sul suo volto. Con la mano sinistra reggeva un grande mazzo di fiori e agitava l’altra in segno di saluto. Arrivato davanti ai due ragazzi piantò bene i pieni a terra e rimase alcuni istanti a fissarli con quel suo sguardo da ‘principe che concede il suo prezioso tempo alla folla’. Poi improvvisamente abbracciò il più alto e gli fece le sue congratulazioni, per poi porgergli i fiori.

«Ehi!» sbraitò testa-ossigenata che era stato ignorato per tutto il tempo.

«Che vuoi?» chiese il moro con aria truce.

«Anche io mi sono diplomato» rispose con aria offesa.

«Cosa c’è, volevi i fiori? O parli dell’abbraccio?» domandò con fare altezzoso.

«Nessuno dei due!» sbottò diventando color pomodoro. «Però non ignorarmi sarebbe carino da parte vostra»

«Povero tonno, ti ho forse ferito con il mio comportamento?» disse con tono melenso e assai poco credibile.

Ryo non rispose, o almeno non lo fece direttamente. Si mise a borbottare frasi che suonavano tanto come delle ingiurie ed era chiaro a chi fossero riferite.

«Ragazzi» intervenne Kouyou con tono esasperato. «Avevamo già parlato di questo: niente punzecchiamenti…» il suo sguardo andò a posarsi sul moro e Ryo sghignazzò con aria di vittoria. «… o insulti sottovoce». Questa volta i suoi occhi si spostarono su Ryo che smise di ridere e tornò a guardare con aria torva i suoi piedi.

«Senpai, congratulati con Ryo» disse Kouyou e nel suo tono di voce c’era un qualcosa che non ammetteva repliche.

«Se devo proprio…» si lamentò il moro alzando gli occhi al cielo. «Congratulazioni, scimmia» disse con poca convinzione dando una pacca troppo forte –naturalmente intenzionale- sul braccio del biondo ossigenato. Ryo fu sul punto di ribattere, ma l’amico gli lanciò un’occhiata di fuoco, così si limitò a starsene in silenzio a massaggiarsi il braccio.

«Perché domani non andiamo a Ueno per l’Hanami [1]?» chiese Kouyou con entusiasmo. «I bento posso prepararli io»

«Ci sto» rispose il moro.

«E’ proprio necessario che venga anche lui?» si lagnò Ryo guardando l’amico.

«Certo che è necessario!» sbottò Kouyou con aria severa. «Sarà una cosa tra membri della band e fino a prova contraria, Yuu senpai ne fa parte» spiegò rivolgendo al biondo brevi sguardi di rimprovero.

«Non è che io sia mai stato molto d’accordo sulla faccenda del fargli far parte della band» borbottò testa-ossigenata.

«Ryo, questo non è per niente carino da parte tua!» sbottò Kouyou.

«Su, su non fate così. Scimmiakun scherza, infondo lui mi vuole bene» si intromise Yuu facendo finta di abbracciare amichevolmente il biondo.

«Levati!» sbraitò Ryo scansandosi dall’abbraccio. «Comunque…» iniziò dopo una breve pausa. «… se fai i bento allora ci sono» bofonchiò mangiandosi quasi tutte le parole. «Ma ricorda: lo faccio solo in nome della nostra amicizia»

«Lo sapevo! Grazie Ryokun» disse Kouyou con un sorriso.

«Visto? Lo sapevo che mi volevi bene» ridacchiò il moro.

«Ma che c’entra questo?! Me lo spieghi?!» sbraitò il biondo ossigenato tornando a guardarlo torvo.

«Ehi, Ryokun» lo chiamò Yuu senpai con un tono stranamente pacifico. «Te l’hanno mai detto che sei buffo quando corrughi le sopracciglia in quel modo?»

Senza un motivo apparente Ryo si ritrovò a ridere, ridere come non gli succedeva da tanto.

In lui si era schiusa –come si schiudevano i boccioli dei ciliegi da fiori- la consapevolezza di trovarsi all’imbocco di un futuro incerto, ma di non essere solo.

Altre due risate immotivate si unirono alla sua.

Il suono delle loro risa riempì l’aria con quel suo ritmo assai poco melodioso. Se fossero andati avanti in quel modo, avrebbe finito con l’attirare l’attenzione di tutti; li avrebbero presi per pazzi.

O almeno questa era la visione della situazione che aveva Suzuki Ryo (verso i diciotto e in procinto di buttarsi a capofitto in un futuro decisamente incerto) che –è obbligo ammettere- non poteva essere più spensierato di così.

 

[1] L' Hanami (花見 lett. "ammirare i fiori") è la tradizionale usanza giapponese di godere della bellezza della fioritura primaverile degli alberi, in particolare di quella dei ciliegi da fiore giapponesi.

 

 

* * *

 

Mentre stringeva tra la mani quel foglio di carta rigida e patinata gli sembrava quasi impossibile di avercela fatta.

Lui, Suzuki Ryo, si era diplomato.

Non riusciva a credere che il suo nome e quella parola che iniziava per D si sarebbero mai potuti trovare nella stessa frase. O almeno la aveva pensato, ma a dividere le due parole c’era sempre stato un ‘non si è’.

La sala congressi si era quasi totalmente svuotata e le sedie posizionate con tanta cura, erano in disordine. Tutti gli studenti erano usciti per vedere amici e parenti, tutti pronti a congratularsi con loro.

Ryo uscì nel cortile senza aspettarsi di essere accolto da qualcuno. Di certo non avrebbe visto la madre al cancello che reggeva un mazzo di rose e cercava di trattenere lacrime d’orgoglio.

Il suo programma era semplice: casa, camera e playstation. L’indomani, poi, ci sarebbero state le prove generali prima della loro esibizione. Per quanto la loro leader potesse essere una piccola pazza isterica, era riuscita ad ottenere diversi ingaggi per farli suonare in qualche piccolo locale.

Strano, in quel momento gli parve quasi di sentire la sua voce.

«Ryokun~»

No, di certo non era lei.

«Ehi, tonno!»

Ora anche la sua immaginazione lo prendeva per il culo?

Improvvisamente un dolore lancinante gli attraversò il cranio e quando voltò la testa per capire cosa fosse successo, si ritrovò di fronte ad una ragazza dalla chioma blu con la mano ancora alzata a mezz’aria.

«Mi disturbo a venire fin qui e tu mi ignori?» sbottò con tono furioso.

«E chi te l’ha chiesto di venire?!» replicò il biondo.

«Ma era ovvio che doveva venire. Poi sennò chi avrebbe accompagnato tua sorella?» disse facendo un gesto verso la bambina al suo fianco, che fino a quel momento Ryo non aveva visto perché nascosta da un enorme mazzo di fiori.

«Oniisan!» strillò lei gettandosi sul fratello e strizzando lui e i fiori in un abbraccio.

«Kotonechan.. il tuo fratellone ti sarà ancora più.. rico..noscente quando.. la smet..terai.. di.. strozzar..lo..» disse con foce flebile mentre cercava di respirare.

La bambina si allontanò immediatamente, ma sul suo volto era ancora stampato un grande sorriso. «Kotone è molto orgogliosa del suo niisan» e così dicendo gli porse il mazzo di fiori o ciò che ne era rimasto.

«Grazie» disse lui accarezzandole la testolina nera.

«Ah ehm» tossicchiò la ragazza. «Non dimentichi qualcosa?»

«Mh…» il biondo fece finta di pensarci su assumendo un’aria interrogativa. «No, non credo di dimenticare niente» concluse infine.

Un sonoro ceffone gli colpì la nuca e sentì le lacrime pizzicargli gli occhi. «Ai!» si lagnò lui massaggiandosi il collo.

Lei lo guardava torvo.

«Ok, ok. Va bene, scusa e grazie per essere venuta e tutto il resto» disse alzando gli occhi al cielo.

«Comunque domani andiamo a Ueno» disse cambiando improvvisamente argomento. «I bento li prepari tu, io non li so fare» concluse con un tono che non ammetteva alcuna replica.

Ryo la fissò con uno sguardo misto tra lo sconvolto e il furente, ma lei si era già voltata e si stava dirigendo verso il cancello, seguita da Kotone che canticchiava allegramente In my dream [2].

Il biondo voltò per un attimo la testa e si guardò indietro osservando per l’ultima volta i muri gialli della scuola, gli alberi del cortile e il grande orologio-occhio. In quel momento il suo sguardo si posò su due figure, una accanto all’altra. Uno aveva lunghi capelli corvini, l’altro era biondo come il grano maturo.  Erano Takashimasan e Shiroyama senpai.

Entrambi ridevano e sembrava che niente al mondo avrebbe potuto guastare quell’armonia.

Improvvisamente il contatto visivo venne interrotto da un gruppo di studenti che passava e Ryo finalmente distolse lo sguardo dai due. Senza più voltarsi si diresse a grandi passi verso il cancello dove lo aspettavano la  sorella e l’amica, nonché crudele Rida della banda.

Si accorse in quel momento di stare ancora stringendo il mazzo di fiori tutto sfatto e si lasciò sfuggire un piccolo sorrisetto.

Ormai era più che certo che il suo piano di starsene tranquillo e giocare alla play era andato. Quella sera gli sarebbe toccato preparare dei bento; eppure –nonostante tutto- non gli sembrava poi una prospettiva tanto terribile.

 

 [2] Canzone dei Luna Sea 

 

 

* * *

 

 

The end;

end of the story.

But the start of their lives.

 

 

~

 

Eccoci giunti al termine della prima storia *A*

Ho talmente tante cose da dire, ma non so davvero da dove iniziare.

Innanzitutto grazie mille a tutti per essere rimasti con me e quei tre polli fino alla fine. Anche se non li vedrete più in veste ti scolari, non disperate u__ù Li ritroverete nelle prossime storie :3

Posso dire di essere davvero orgogliosa di questa storia che per me ha assunto un significato speciale. Era da moltissimo che la volevo scrivere e sono felice di averlo potuto fare *^*

Damn it, non so cosa scrivere ;A; *da craniate al muro*

Mi sono davvero divertita nel creare questa storia e sono quasi tentata di fare uno spin-off u_u Se Santa Ispirazione sarà buona con me, allora lo farò~

La colonna sonora che mi ha accompagnata durante questi sei capitoli è questa: Maggots, Discharge, Headache Man, The $ocial Riot Machine$, Anti Pop, Hyena, Miseinen, Zetsu, Kugutsue all by the GazettE; Closer To The Edge by 30 Seconds To Mars e altre che non trovo LOL

Sì, ci sono un mucchio di canzoni u_ù xDD

Beh, credo sia tutto. Scusate per il commento schifido.

Ci vediamo alla prossima storia. Vi lascio un piccolo anticipo: il titolo sarà ‘La porta di casa’. Come avrete capito –o forse no XD- i nomi dei miei titoli vengono sempre un oggetto che ha un qualche significato nella storia *passa le notti a pensarsi certe cose*. Lascio a voi immaginare su cose sarà la prossima storia. A colui che indovinerà regalerò un tonno ossigenato 8D


 Alla prossima e ancora grazie,

pon ♥

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Capitolo 7
*** La porta di casa pt. 1 [Uruha] ***


La porta di casa

 

[pt. 1]

La pioggia batteva con insistenza sul parabrezza della macchina e i tergicristalli sembravano sul punto di lasciare per sempre questo mondo.

Dannazione a lui, è solo colpa sua. Lo ammazzo.

Stavo guidando da ore, ma fuori era talmente buio per via delle nuvole che avrei potuto girare in tondo all’infinito senza accorgermene. L’unica cosa che mi dava qualche vago indizio su dove fossi e quale direzione stessi percorrendo, era il navigatore satellitare. Tuttavia, mentre attraversavo la campagna poco fuori Toyokawa, quello aveva perso il segnale ed ero stato costretto a uscire dall’autostrada. Avevo dovuto chiedere indicazioni ad un contadino! Sconcertante, no?

Conclusione: quell’aggeggio era totalmente inutile e mi chiedevo cosa fosse passato per la testa di Yuu quando lo aveva comprato. Quel ragazzo si faceva condizionare eccessivamente dalla pubblicità; dovevo provvedere a far sparire il televisore o mi sarei ritrovato la casa invasa  da accessori per casalinghe e altri affari elettronici.

Inoltre, a causa di quella dannatissima pioggia, non avevo potuto prendere la moto. Avevo abbandonato la mia piccolina a prendere polvere nel garage, mi sentivo in colpa.

Oh~ era davvero frustrante dover stare rinchiuso nel minuscolo abitacolo della macchina con lo speaker del navigatore come unica compagnia.

Era necessario che mi sbarazzassi anche di quel coso come del televisore.

Pigiai nervosamente il piede sull’acceleratore e sentii le gomme stridere sull’asfalto bagnato mentre mi preparavo a superare il solito cretino con la Nissan San che andava a velocità di crociera.

Fuori non sembrava voler smettere di piovere e cominciavo a perdere la speranza di arrivare. Quando ero partito da Tokyo il tempo indicato era di cinque ore e mezza. Peccato che fossi in viaggio da sei ore e restavano ancora ben 176 km da percorrere. Poter vedere il cartello che indicava l’uscita per Tsu [1] pareva un miraggio.

 

-Vieni domani. Ti aspetto-

 

Un messaggio. Neanche si era degnato di chiamarmi. Tipico di lui.

Sbuffai e accelerai ancora gettando occhiate nervose all’orologio sul cruscotto.

Eravamo in piena Golden Week [2], come avrei potuto trovare un biglietto aereo o anche solo uno del treno in meno di ventiquattr’ore?

Infatti la mia ricerca era stata inutile, ecco perché ero stato costretto a prendere la macchina.

Era vero che da mesi programmavamo (o meglio: programmava) tutto, ma dirmelo solo un giorno prima  era stato un colpo davvero basso.

Stava forse cercando di farmela pagare per aver urtato la sua chitarra?

Molto probabile.

Ora c’era solo da sperare che ogni cosa andasse per il verso giusto, ma non riuscivo ad essere del tutto fiducioso. Quell’idea non mi convinceva molto, mi sembrava di prendere parte a un O-mai [3].

 

«Il mese prossimo vado a trovare i miei. Voglio presentarti a loro»

Al suono di quelle parole mi andò di traverso il the che stavo bevendo; lui invece continuò a guardarmi con tutta tranquillità.

«C-che… che cosa?»

 

Era iniziato tutto così e alla fine avevo acconsentito; non che avessi avuto altre alternative, comunque. Infondo dopo cinque anni dall’inizio della nostra relazione era anche giusto che…

No, no. Tutto quello non aveva alcun senso logico.

Sospirai e finalmente mi decisi a rallentare almeno un po’.

Come sarebbe potuto andare tutto a buon fine?

Non c’era alcuna speranza, no davvero.

A volte mi chiedevo che fine avesse fatto il me ragionevole, calmo e composto. Ah~ sarei tornato volentieri ai tempi del liceo, lì era tutto più semplice; non c’erano poi così tante preoccupazioni e nemmeno così tante responsabilità.

Però, dovevo ammettere, che era proprio lì, nella nostra scuola superiore, che avevo iniziato ad incasinarmi la vita. Alla fine, anche quella situazione era un po’ colpa mia. Infondo ero stato io quello che si era innamorato del suo senpai.

 

Presi posto nella fila di sedie dove vidi meno gente e tenni il capo chino. Perché i miei genitori non avevano acconsentito a farmi frequentare una scuola per corrispondenza?

Sarebbe stata la soluzione migliore. Non volevo stare lì, non volevo essere notato da nessuno.

Strinsi i pugni che tenevo appoggiati sulle ginocchia e desiderai scomparire in quell’istante. Se il mio cervello era tanto geniale perché non riusciva a trovare una soluzione per tutta quella situazione?

«Bel tentativo, ma non credo che tu possa realmente far finta di essere parte dell’arredamento. Si vede che respiri e le sedie non lo fanno. Poi io ti vedo perfettamente»

Fu una voce calma a parlare, ma per poco non cascai per terra dallo spavento. Pochi istanti dopo sentii il rumore di una sedia che strisciava di poco sul pavimento e di qualcuno che ci si sedeva sopra.

Tenere lo sguardo basso per un po’ funzionò, ma poi la curiosità iniziò a tormentarmi le viscere. Mossi appena un po’ la testa di lato, quel tanto che bastava per spiare il ragazzo che si era appena seduto al mio fianco. Cercavo di non farmi notare nascondendomi il volto con i capelli, ma non sapevo se stesse davvero funzionando.

Quando ebbi la certezza che non avrebbe più voltato il suo sguardo verso di me, cercai di osservarlo con attenzione. I suo capelli erano neri, nerissimi e ricadevano con ordine poco oltre le spalle. Sedeva con naturalezza sulla sedia scomoda e i suoi occhi erano concentrati sul palco vuoto. Ogni tanto si mordicchiava il labbro per noia o tamburellava con le dita sulla coscia.

La divisa era impeccabile e dava l’impressione di essere un bravo studente, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che mi diceva il contrario.

In ogni caso era apparentemente perfetto, dai capelli ai vestiti. Provai un pizzico di invidia misto a un sentimento sconosciuto, qualcosa del quale non avevo mai letto in alcun libro.

Rimasi semplicemente a fissarlo per un po’, non curandomi della sala che si andava via via riempiendo. Spostai di poco lo sguardo, ma quel lieve movimento fu abbastanza per farmi incontrare i suoi occhi che avevano spesso di fissare il palco e ora guardavano me.

Boccheggia come un pesce, mentre la mia mente viaggiava alla velocità della luce alla ricerca di una soluzione minimamente accettabile.

Dire qualcosa. Sì, dovevo parlare; una frase qualsiasi sarebbe andata bene.

«Sono Takashima Kouyou, primo anno, molto piacere di conoscerti» parlai mangiandomi tutte le parole e mi inchinai nervosamente. Quando rialzai la testa lo vidi fissarmi un po’ sconcertato, ma poco a poco sul suo viso di dipinse un sorriso divertito.

«Shiroyama Yuu, terzo anno» disse lui puntando un dito verso di sé e tornando a sedersi con lo sguardo rivolto al palco, dove, nel frattempo, si erano radunati alcuni sensei.

Poi più nessuno parlò, ma mi sentivo molto meno nervoso. Forse quella scuola per corrispondenza non volevo più seguirla.

Immagino sia stato proprio quello il giorno durante il quale iniziai ad amarlo, anche se mi ci volle un po’ per farlo capire a me stesso.

 

Mi venne da sorridere ripensando a quel giorno. Possibile che fossi un tale imbranato?

O forse era solo colpa sua. Non era mai successo che perdessi la testa in quel modo per qualcuno; un qualcuno, poi, che sapeva essere un perfetto sbruffone, ma che, da bravo adulatore, si faceva sempre perdonare. Come il giorno del mio diploma; vuoi che non si presentò con un mazzo di fiori per chiedere scusa del litigio della sera prima?

Ecco, non sarebbe stato male essere accolto da altri fiori dopo il viaggio, ma dubitavo che Yuu avrebbe messo il suo bel sedere fuori casa con quella pioggia.

Sbuffai e lanciai un’occhiata al telefono poggiato sul cruscotto. Ero in ritardo e lui non si preoccupava per me? Che razza di ragazzo degenere mi ero trovato?

Ok, avrei potuto chiamare io, ma non lo facevo per una questione di principio. Era stato lui a venirsene fuori  con quella storia dell’incontro con i suoi genitori.

Tornai a puntare gli occhi sulla strada, ma questi venivano inesorabilmente attirati nuovamente verso il mio cellulare.

Possibile che non gliene importasse nulla?

Perfetto! Allora anche io me ne sarei infischiato.

 

Dopo  neanche cinque minuti, l’abitacolo della vettura si riempì della melodia di Rosier [4] e quasi sobbalzai dalla sorpresa.

Per afferrare il cellulare macò poco che sbandassi (questo non lo diremo a Yuu; la macchina era sua), ma, alla fine, quell’aggeggio squillante era tra le mia mani. Pigiai il tastino verde e sorrisi sornione al pensiero della voce preoccupata del moro che mi chiedeva dov’ero.

«Kou~!» esclamò la voce di Ryo che proveniva dalla cassa del telefono.

Che cosa?

«Ah, Ryokun… sei tu» sbuffai irritato.

Brutto cretino, menefreghista, allora è vero che non t’importa di me? Potrei essere morto, o peggio: essermi giocato tutti i nostri risparmi al Pachinko [5] e tu non te ne preoccupi?!

«Ehi, Kouyou, grazie per l’entusiamo»

«Scusa, Ryokun. Di cosa volevi parlarmi?»

Idiota, signore al-mondo-ci-sono-solo-io, insensibile…

«Ah sì… ecco, ci sarebbe una cosa che devi sapere… Ma niente di grave, eh!»

«Forza, spara»

Insensibile e anche cretino, ripeto.

 

[1] Capoluogo della prefettura di Mie, nel Kansai.

[2] E’ il più lungo periodo di vacanza dell'anno per molti lavoratori giapponesi, la Golden Week è un periodo molto indicato per i viaggi. Voli, treni e hotel sono spesso al completo, nonostante i prezzi rialzati per l'occasione.

[3] Incontro per un matrimonio organizzato.

[4] Canzone dei Luna Sea nonché suoneria di Uruha (o almeno così ha detto in un’intervista u_u)

[5] Il pachinko è praticato in sale simili a casinò, dove c'è un numero ristretto di macchine, che possono sembrare, a primo impatto, una fusione tra una slot machine e un flipper.

 

~

 

Buonaseraa~ *A*

E’ l’1.11 del mattino e finalmente ho finito il capitolo çOç *scende luce celeste e parte coro di angeli*

Allora, premetto che questa seconda storia doveva essere una oneshot, ma dopo i sei capitoli dell’altra, mi spiaceva farla così corta xD Perciò anche questa sarà divisa in parti u_ù

Nel caso non lo aveste capito –cosa assai probabile- il protagonista è il caro (mio adorato ♥) Uruha che deve raggiungere Aoi a casa dei genitori di quest’ultimo. Nella mia mente, come shot funzionava, ma in pratica faceva assai  schifuss così l’ho allungata.

Alla vicenda di Pon se ne intreccerà un’altra che verrà raccontata da tre punti di vista diversi, sperando che non diventi una palla cosmica LOL Però non voglio anticipare nulla, scoprirete tutto nel prossimo capitolo 8D

Non avrete capito nulla, immagino  u_u

Aloraaa~ in questa prima parte vediamo un Kouyou cresciuto e molto meno ‘dolce e tranquillo’ di come era al liceo, però non disperate èwé La sua dolcezza riemergerà *A*

Ok, sono più che convinta che questo sia il peggior commento di sempre LOLOL  *fugge*

*fa ritorno*

In questo capitolo mi sono scialata con le note xDD *tutto preso rigorosamente da Wikipedia*

Mi fanno sentire intelligente, concedetemele *^* *si autopatta*

 

Purtroppo nessuno ha indovinato che sarebbe stato il protagonista dei questa storia D:

Però avete indovinato quale sarà il tema per quella di Ruki u__ù Perciò, vi regalerò delle scatolette di tonno rio mare *A* *si sente generosa*

Tonno Rio mare… Rio… Ryo… Reita…

LOOOOL

E’ destino che quel ragazzo sia un tonno LOL

Ok, dopo questa battutaccia me ne vado davvero u_ù””

 

Vi ringrazio immensamente per essere ancora qui ♥

E scusate per questo commento terribile sconclusionato. Se avete dei dubbi chiedete xD

Spero che questa prima parte vi sia piaciuta, anche se così non fosse fatemelo sapere, per favore *^*

 

Grazie ancora ♥

 

Alla prossima,

pon.

 

PS (avviso: informazione totalmente inutile): dimenticavo di dirvi che la Nissan San (per intenderci è l’auto che Uruha supera) è una macchina terribile che va lentissima, u_ù *ha chiesto al fratello*

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Capitolo 8
*** La porta di casa pt. 2 ***


Note: Con questo capitolo verrete a conoscenza della vicenda che andrà ad intrecciarsi con quella di Kouyou. A narrarla sarà una nostra vecchia conoscenza!

Enjoy :3

 

La porta di casa

 

[pt. 2]

* * *

Reita’s sight

«Taka, levati dalle palle!» mugugnai e mollai un calcio nella direzione dove sapevo avrei trovato la pancia del nano. Aveva la brutta abitudine di appoliparsi a me durante il sonno e, come si sa, le brutte abitudini vanno corrette. Una bella botta di prima mattina non poteva che fargli bene.

Ma quel giorno, l’unica cosa che il mio piede colpì fu l’aria. Con circospezione diedi ancora due calci, ma niente. Il nano non c’era davvero.

Mi voltai verso il suo lato del letto e mi sporsi sul bordo; magari era caduto.

No, niente. Sul pavimento non c’era nessun vocalist.

Dove diamine si era cacciato?

Erano le dieci del mattino e lui di norma a quell’ora se la dormiva ancora della grossa. Che cosa aveva mai spinto Takanori Matsumoto a svegliarsi così di ‘ buon ora’?

Mi ributtai di peso sul letto e affondai la testa nel suo cuscino. Se non c’era lui con il quale prendersela al mattino, con chi avrei potuto farlo?

Yutaka era malato e passava le giornate a dormire; si alzava giusto un po’ la sera per controllare che la casa fosse ancora intatta. Taka, stupido com’era, aveva subito ipotizzato che il Rida si fosse trasformato in un vampiro.

Yuu era partito domenica per andare a passare alcuni giorni dai suoi e quella mattina presto, Kou aveva preso la macchina per raggiungerlo. Perciò era escluso che potessi andare a casa loro per dare un po’ fastidio al vecchio.

In conclusione c’eravamo solo io e Taka (Yutaka mezzo moribondo nella stanza accanto non contava), ma anche lui sembrava essersela svignata. Ero un fidanzato così terribile da farlo fuggire improvvisamente nel bel mezzo della notte?

Ok che lo prendevo a calci per farlo scollare da me, lo chiamavo ‘nano’ (magari la cosa non era molto gentile, ma era la verità), chiudevo Koron nello sgabuzzino quando abbaiava troppo, ma…

… mh, forse non ero proprio un modello da imitare, ma come aveva potuto abbandonarmi per così poco?

No Ryo, aspetta! E se si fosse infiltrato in cucina per fregarsi…

«… i pancakes alla banana!»

Tesi l’orecchio nella speranza di udire qualche rumore sospetto, ma la casa rimase perfettamente silenziosa.

Lentamente mi lasciai scivolare giù dal letto e con passo felpato mi diressi verso la porta socchiusa, vi appoggiai sopra l’orecchio, ma ancora nessun suono. Che avesse già finito di mangiarseli e si fosse addormentato sul divano?

Cercando di far meno rumore possibile, sgattaiolai nel corridoio. La cucina era a pochi metri da me e lì avrei trovato le prove del reato. Mi sentivo come un incrocio da Conan e Naruto. Figo, no?

Ma quando sbucai in cucina urlando: «Ah ah! Ti ho beccato!», non vi trovai nessuno. Era tutto come lo avevano lasciato la sera prima; non c’era una singola briciola di pancakes alla banana.

Mi guardai intorno dubbioso, ma Taka non era lì. Sul divano non c’era, nemmeno sul tappeto o sotto il tavolo. Anche il bagno era vuoto e bianco come al solito, nessun nano nella lavatrice.

Sbirciai in terrazzo, ma dubitavo si trovasse lì; diceva che l’aria aperta gli dava il mal di testa (da notare: il nostro alloggio era in piena città).

L’unico posto rimasto era la camera del Rida, ma ero abbastanza furbo da non entrarci. Yutaka poteva essere una persona molto pericolosa ed era meglio non disturbarlo quando era malato.

Perfetto, quindi il nano se n’era davvero andato.

«Stupido Taka» borbottai e me ne tornai in camera. Per quello che avrei potuto fare quel giorno, tanto valeva tornarsene a dormire.

E poi, chi aveva bisogno di quel piccolo piantagrane?

Io no di certo.

Finalmente mi sarei potuto godere un po’ di pace senza nessuno che mi fregava i giochi della play, metteva in disordine i MIEI CD, usava la MIA lacca, scaricava il credito del MIO cellulare e via discorrendo.

Sì, sarei stato decisamente meglio senza di lui.

Io ero stato un fidanzato fantastico, se lui non aveva apprezzato, cavoli suoi!

Al termine di quella settimana, si sarebbe comunque dovuto far vivo per andare in studio. Aah~ mi sarebbe proprio piaciuto ascoltare le motivazioni di quella fuga.

Non che mi importasse, eh.

 

A svegliarmi, qualche ora dopo, fu un fastidioso rumore che pareva provenire dalla cucina. Aprii lentamente gli occhi e lanciai un breve sguardo all’orologio da parete.

12.17

Era davvero così tardi?

Che scocciatura, bisognava già pensare al pranzo. Se avessi ordinato un’altra volta la pizza, Yutaka mi avrebbe maledetto per l’eternità. Dovevo pensare a qualcos’latro..

Il rumore di prima mi riportò alla realtà. Che diamine stava succedendo?

Mi rigirai nel letto sbuffando; non avevo nessuna voglia di alzarmi.

Chi o che cosa stava facendo quel fracasso infernale?

Nascosi la testa sotto il cuscino, ma non fece alcuna differenza. Parecchio scocciato mi decisi finalmente a scendere dal letto e mi diressi con passo pesante verso la cucina. Avrebbero potuto essere i ladri o lo spirito di Sabuchan tornato per tormentarmi e non me ne sarebbe importato nulla.

Ero già abbastanza incazzato di mio senza che ci si metteva pure qualcuno a far casino.

Inoltre Yutaka mi avrebbe fatto fuori se avesse trovato la cucina in disordine. Non potevo permettere che degli estranei la distruggessero facendo finire me nei guai. Credetemi, il nostro batterista era davvero spaventosi quando si arrabbiava. Mi sentii rabbrividire al pensiero della fine che aveva fatto il DS di Taka, quando quest’ultimo aveva mandato il tilt la nuova macchina per il riso appena comprata. Non volevo di certo che la mia play potesse incappare nello stesso destino.

Presi il coraggio a due mani ed entrai in cucina.

Niente ladri e niente spiriti.

A dire il vero, non c’era proprio nessuno tranne una montagna di piatti e arnesi da cucina sporchi sparpagliati in giro e un sacco della spazzatura stracolmo di cartoni di latte, gusci d’uovo, sacchetti di farina vuoti e altre cose non ben identificate.

«Yutaka… sei tu? Vieni fuori per favore» balbettai guardandomi intorno sospettoso.

«Ryo?» mormorò una voce strozzata che sembrava provenire da sotto il tavolo. Una piccola testolina scura tutta infarinata sbucò improvvisamente davanti ai miei occhi.

Taka?

«Cosa ci fai qui?!» strillò lui fiondandosi verso di me. «Non dovresti essere qui» disse mugugnando e lanciando brevi occhiate ansiose da me alla cucina e viceversa.

Ma che cavolo…?

Non ci capivo più nulla.

Cos’era quel macello e perché il nano ne era coinvolto?

«Via! Va via!» insieme a quelle parole mi sentii spintonare bruscamente e mancò poco che cascassi a terra.

«Sei impazzito?!» sbottai piuttosto irritato e cercai di liberarmi dalla stretta del nano. «Insomma Taka, ti decidi o no a lasciarmi andare?!»

«No, mai! Esci da qui Ryo, ti prego..». Che cosa mi stava nascondendo quella volta?

«Mi spieghi che dia…» ma non riuscii a terminare la domanda. «Taka, il forno!»

 

Era andata più o meno così. In neanche cinque minuti ci eravamo ritrovati con un forno esploso e un pezzo di muro mancante.

Ce ne stavamo tutti e tre fermi a guardare i vigili del fuoco che si allontanavano, incapaci di pronunciare una sola parola. Yutaka sembrava essere caduto in una sorta di trans. Non sapevo se fosse più scioccato dal fatto di essere stato svegliato bruscamente o perché la sua cucina era semi-distrutta. Il nano era seduto sul marciapiede e fissava le pantofole che aveva nei piedi, senza emettere un suono.

Probabilmente ero l’unico rimasto sano.

Era giunto il momento per me di prendere in mano la situazione.

 

«Le dinamiche dell’incidente sono ancora da verificarsi, ma per ora l’appartamento resta inagibile. Dovete trovarvi una sistemazione temporanea»

 

Facile a dirsi.

 

«Ma non preoccupatevi. Potrete tornare a viverci tra non molto»

 

La cosa non era poi di così grande consolazione.

Basta! Ryo, devi fare qualcosa. Qui ormai tutto dipende da te.

Giusto, me stesso aveva ragione.

Per prima cosa dovevo andare a recuperare qualche cambio di vestiti e il mangiare per Koron, dato che non avevo idea di quando avrei avuto tempo per comprarlo.

Ah già, dimenticavo di dire che –purtroppo- quella bestiaccia l’adorabile cagnolino di Taka era sano e salvo.

 

«Prendi!» dissi bruscamente lanciando al nano un borsone stracolmo di vestiti. ‘Casualmente’ lo colpii in pieno.

«Ci devi delle spiegazioni, Takanori» dissi con tono serio e guardai Yutaka in cerca di conferma, ma lui sembrò ignorarmi. Iniziai a temere che il nostra batterista fosse finito in uno stato terminale di depressione.

«Io…» disse Taka senza però alzare lo sguardo.

«Insomma, parla!» insistetti, forse con un tono decisamente troppo severo.

Finalmente il nostro vocalist si decise ad alzare il capo. Scorsi i suoi occhi luccicare, poi lui riabbassò di colpo la testa.

Forse avevo esagerato..

«Taka, senti…» iniziai un po’ a disagio chinandomi verso di lui. «Dai, non fa niente, ok? Yukun voleva anche comprarne una nuova di cucina» dissi cercando di sdrammatizzare, ma non sembrò funzionare molto.

«Eddai, Taka. Ho detto che non fa niente, mi hai sentito?» continuai posando una mano sulla sua spalla.

Probabilmente avevo davvero esagerato. Mi sentivo in colpa nei suoi confronti.

«Mi dispiace Ryokun» mugolò lui e improvvisamente lo sentii gettarsi tra le mie braccia e stringermi. Un po’ goffamente cercai di ricambiare quell’abbraccio e gli accarezzai lievemente la testolina scura.

«Ryokun…» iniziò lui. «Mh, che c’è?» domandai. «Mi dispiace, ho combinato un casino…» mormorò tirando su col naso. «Te l’ho già detto, Taka: non fa niente, davvero» dissi cercando di rassicurarlo. Lui scosse la testa e lo sentii aggrapparsi più forte alla mia maglia, «Vedi, io… stavo cercando di fare una… cosa per te»

«Eh? Per me?» chiesi sorpreso.

Lui annuì e tirò di nuovo sul col naso. «Dopo questa settimana saremo occupati tutto il resto del mese e io… io ci tenevo tanto a preparare un dolce per il tuo compleanno, sai, come quelli di Yutaka. Anche se un po’ in anticipo, volevo farti una sorpresa, ma non sembra che sia andata a buon fine…» mugugnò mangiandosi la metà delle parole e lo sentii affondare il viso nell’incavo del mio collo, come se stesse cercando di nascondersi.

«Ooh, Taka… sei un vero idiota! Perché hai dovuto distruggere la cucina di Yutaka per me?!» sbottai dandogli una sberla in testa, ma non riuscivo proprio a smettere di sorridere.

Quindi tutto quel casino che c’era lo aveva fatto per me?

Sentii il mio sorriso allagarsi e non riuscii a fare niente per fermarlo, o meglio: non volli far niente per fermarlo.

«Grazie Taka» mormorai e lo strinsi più forte.

«Eh? Ma non eri arrabbiato?» chiese lui confuso.

«Grazie, davvero» ripetei e questa volta lo allontanai di poco da me. Lo guardai per un istante poi fui io ad avvicinarmi facendo incontrare le mie labbra con le sue.

 

Il fatto che poi andammo ad installarci a casa di Yuu e Kouyou fu tutto una conseguenza di quel tentativo di Taka di prepararmi una torta. Non avevo forse un fidanzato adorabile?

Dato che avvisarli della nostra presenza lì non sarebbe stata una cattiva idea, chiamai Kou sperando di non stare interrompendo niente di ‘importante’.

Mh no, probabilmente non avrei interrotto niente visto che a casa dei genitori del vecchio non potevano di certo mettersi a fare le loro solite porcate.

«Kou~!» esclamai quando rispose alla mia chiamata.

«Ah, Ryokun… sei tu» sbuffò lui con tono decisamente irritato.

Stava forse aspettando la chiamata di qualcun altro? Di Yuu?

Questo voleva dire che non era ancora arrivato.

Avrei per caso dovuto dirgli che il vecchio aveva lasciato il cellulare nel loro alloggio?

«Ehi, Kouyou, grazie per l’entusiasmo» dissi io dimenticandomi completamente della faccenda del cellulare.

«Scusa, Ryokun. Di cosa volevi parlarmi?»

Ora arrivava la parte difficile.

«Ah sì… ecco, ci sarebbe una cosa che devi sapere… Ma niente di grave, eh!»

Come era meglio iniziare il discorso?

«Forza, spara»

Eravamo sicuri che non avrebbe fatto dietrofront con la macchina per venirci a prendere e sbatterci tutti tre per la strada?

* * *

 

~

 

Salvee *A*

Eccoci qui con la seconda parte vista completamente attraverso la visione di niente popò di meno che Reita, il caro tonno ossigenato *scroscio di applausi*

Allora, devo essere sincera: amo questo capitolo, con tutta me stessa. Mi sono divertita un mondo a scriverlo perché adoro impersonarmi in Reita u_u

C’è da dire che lui non è cambiato molto dai tempi del liceo, ma io lo amo lo stesso ♥ TonnoH, we loveH you *fa cuoricini con le dita*

Ok, la smetto e_e

Qui appaiono anche Ruki e Kai, che ancora non si erano visti nella mia fic e sono felice di averli potuti finalmente inserire. Però povero Kai, non ha né detto né fatto nulla LOL

Mentre scrivevo mi sentivo dispiaciuta per il nano *patta Ruki* Però alla fine Reita è stato anche carino, no? u_u

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto *^^* Anche se così non fosse, fatemelo sapere con un commentino~ Sono agli inizi e ci terrei davvero a sentire il parere altrui.

Non mi viene più in mente niente da dire ed è meglio che chiuda qui u__ù

 

Grazie mille a tutti quanti ♥

 

Un abbraccio,

pon :3

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Capitolo 9
*** La porta di casa pt. 3 ***


La porta di casa

 

[pt. 3]

Era senza senso.

Senza senso il fatto che, nel giro di pochi minuti –sì, proprio minuti- mi fossi ritrovato a provare seri istinti omicidi sia verso il mio ragazzo sia verso il mio migliore amico. Magari i miei genitori volevano chiamarmi e dirmi che mi diseredavano?

Sinceramente, in quel momento, non mi interessava che non fosse stato Ryo a far saltare il forno; solo per il fatto di essersi installato abusivamente in casa mia, lo inseriva automaticamente nella mia lista nera. Lista creata in quell’istante, tra l’altro, e contenente due soli nomi.

Inoltre iniziò a sorgere in me il dubbio su come fosse riuscito ad entrare. Si era dato alla carriera di scassinatore?

 

«Ryokun, non mi sembra una buona idea» mormorai preoccupato mentre mi guardavo intorno.

Era notte ed eravamo chiusi fuori casa.

I nostri piani, miei e del biondo ossigenato, erano di passare una serata in giro a non fare niente di particolare e poi tutti a casa sua a dormire.

Piccolo dettaglio: Ryo aveva dimenticato le chiavi chissà dove.

Bisognava quindi trovare un modo per entrare, perché, di svegliare i suoi, non se ne parlava, casa mia era troppo lontana e non c’erano neanche più treni da prendere.

Però non avevo mai proposto di scassinare la porta; quella era stata una sua idea.

«Ti dico che funzionerà»

Avevo i miei dubbi. Seri, seri dubbi.

Serrai gli occhi quando udii il suono metallico della graffetta –opportunamente deformata- che entrava in contatto con la serratura.

Non avevo il coraggio di pensare a ciò che sarebbe successo di lì a pochi istanti, però lo sapevo perfettamente.

Il grido stridulo e artificiale dell’allarme risuonò per il quartiere buio e deserto.

La luce della camera da letto dei genitori di Ryo si accese.

Ecco, era fatta.

 

Era impossibile che avesse riprovato a usare quel trucco, non era così stupido infondo. O almeno lo speravo per lui.

Iniziai a sospettare che si fosse fatto un duplicato delle chiavi oppure che avesse corrotto in qualche maniera –della quale non volevo assolutamente venire a conoscenza- la padrona di casa e si fosse fatto aprire la porta.

Avevo aspettato con ansia l’inizio di quella settimana di vacanza, ma in quel momento avrei preferito trovarmi in studio ad ascoltare Takanori che si lamentava dell’acustica che non valorizzava al pieno la sua voce.

Volevo una birra e il mio bel divano dai cuscini verdi, non un sedile in finta pelle e una bevanda energetica comprata all’area di sosta.

Volevo ascoltarmi un benedetto CD, non il navigatore che mi avvisava di un probabile rallentamento del traffico a causa delle condizioni atmosferiche.

Inoltre quel viaggio cominciava a ricordarmi spiacevolmente le lunghe trasferte con la mia famiglia per andare a trovare i nonni; io pigiato sui sedili posteriori in mezzo alle mie oneesan che litigavano. Poi c’era mio padre, lui che se ne veniva fuori con i suoi commenti totalmente fuori luogo. Pover’uomo, cercava anche di calmare le acque, ma era proprio un disastro. Ed infine si aggiungeva mia madre che iniziava a strillare parole a caso su che razza di figlie degeneri avesse.

Così si passava il resto del viaggio in completo silenzio e gli unici momenti di sfogo erano quando ci si fermava alle stazioni di rifornimento. A quei tempi mi chiedevo se un qualche automobilista sarebbe stato così gentile da darmi un passaggio e portarmi il più lontano possibile dai miei familiari.

 

«Aah, Kouyou. Mi sei rimasto solo tu. Come farei a vivere con tre donne se non ci fossi tu?»

 

Ecco ciò che mio padre mi ripeteva fin troppo spesso ostentando il suo orgoglio di avere un figlio maschio.

Tuttavia ero sempre stato convinto che non lo pensasse veramente. Insomma, come poteva essere orgoglioso di avere un figlio che da solo era molto più femminile delle sue due sorelle messe insieme?

Mi faceva un po’ pena; non aveva mai avuto il maschietto che desiderava tanto, per portarlo a vedere il baseball e a fare tutte quelle cose tra padri e figli.

Non che io non avessi provato ad essere un bravo figlio, ma quella parte non faceva proprio per me. Poi con due sorelle che si erano sempre divertite a infilarmi i loro vecchi vestiti, cosa si aspettava che diventassi?

 

«Kouchan, vieni qui che ti aggiusto il fiocco»

«No, Kouchan. Vieni da me; voglio provarti la gonna verde»

 

Cercate di capirmi; potevo avere sì e no due, tre anni e a quel tempo mi sembrava più che logico dover fare quello che le mie oneesan mi dicevano di fare. Anche se, bisogna ammettere, le gonne non erano affatto scomode.

In poche parole ero cresciuto sotto l’ombra di quelle due stangone delle mie sorelle, mentre mio padre progettava il mio futuro da uomo medio giapponese e mia madre che cercava, almeno lei, di trattarmi per il bambino di due anni che ero. Forse era un tantino incline all’isterismo, soprattutto con le mie sorelle, ma per il resto era una mamma a posto. Ricordavo perfettamente tutte le volte che mi prendeva in braccio e, con un panno imbevuto, mi toglieva delicatamente l’ombretto azzurro che Naoko mi aveva applicato seguendo il suo gusto da bambina di nove anni. Poi mi portava in camera e mi rivestiva facendomi indossare una delle mie tante magliette con sopra un qualche personaggio degli anime che mandavano in onda il sabato mattina. E puntualmente, dopo avermi ficcato in mano una manciata molto generosa di caramelle, chiamava a rapporto le figlie per dare inizio all’ennesima ramanzina di dimensioni bibliche. Ormai i vicini non si spaventavano più delle urla, né chiamavano più la polizia.

Quanto potenza della voce le mie oneesan avevano preso dalla mamma e se lei da sola era spaventosa, loro due messe insieme facevano concorrenza al frastuono negli aeroporti.

Naoko e Sayuri erano state l’incubo di ogni sensei e di mia madre.

Al termine delle scuole medie, il loro curriculum scolastico conteneva voci come ‘aggressione’, ‘linguaggio scurrile’, ‘incendio a danno di proprietà scolastiche’, ‘minacce agli insegnanti’.

Come si fossero poi trovare dei mariti rimaneva un mistero.

Probabilmente, dire che la mia famiglia pareva uscita da un drama era poco e a volte mi chiedevo come fossi potuto crescere così bene in un tale ambiente. Perché io ero cresciuto bene, no?

Che poi fossi diventato amico di un mezzo teppista era tutta un’altra storia.

 

In quel preciso istante, il cellulare squillò brevemente annunciandomi l’arrivo di una nuova mail.

Era lui, me lo sentivo. Dai, non poteva non esserlo, no?

Con cautela lo presi in mano ormai certo di quale nome avrei visto comparire sullo schermo.

Ruki.

Eh? Eeh?!

Era una presa per il culo?

No, probabilmente non lo era e ormai dovevo rassegnarmi all’idea che quel cretino non mi avrebbe chiamato, né contattato in qualche altro modo.

Per rispetto nei confronti nel nostro vocalist aprii la mail, ma potevo ben immaginare quale sarebbe stato il suo contenuto.

-Kou… c’è un qualcosa che dovrei dirti… però è un qualcosina ina, non spaventarti. Forse Ryo te l’ha già detto, ma magari le nostre versioni sono un po’ diverse…-

Oh, eccome se Ryo me lo aveva già detto e avrei quasi preferito non saperne nulla.

Le mie possibilità erano due: o non rispondere o rispondere, c’era poco da fare. La prima era facile, facile e i miei poveri neuroni non sarebbero stati stressati più di quanto già non fossero. La seconda invece implicava il sorbirsi scuse e piagnistei di Taka, cosa decisamente negativa per la salute dei miei neuroni.

Alla fine mi trovai a scegliere la seconda, un po’ perché mi dispiaceva per Taka; doveva essere sommerso dai sensi di colpa in quel momento. Effettivamente, però, era a causa sua se mezza cucina era saltata in aria. Tuttavia ero più in collera con Ryo, che neanche si era degnato di chiedermi il permesso per installarsi abusivamente in casa mia.

-So già tutto, ma ascolterò la tua versione. Ah Taka, fai attenzione agli errori di ortografia-

Inviai la mia risposta e mi lasciai scivolare sconfortato sul sedile, un po’ perché quell’idiota non sembrava preoccuparsi di me e un po’ perché mi aspettava il lungo sproloquio di Takanori.

L’unica cosa positiva era che sarei riuscito a passare un po’ il tempo.

 

~

 

Ce l’ho fatta çOç *si accascia a terra*

Scrivere questo capitolo mi ha impiegato un tempo lunghissimo, un po’ per la poca voglia dovuta al caldo infernale, un po’ per la mancanza di ispirazione.

Alla fine è venuta fuori questa mezza schifezza. Vi chiedo perdono çOOç

Non so, non c’è molto da dire xDD

Non sono per niente soddisfatta. Se anche per voi è così, vi prego di farmelo sapere così che io possa aggiustarlo un po’ e far venir fuori qualcosa di decente. Mi farebbe davvero, davvero piacere poter leggere le vostre impressioni, positive, negative o neutre che siano *^^*

Vi ringrazio di essere arrivati al fondo di questa cosa –non voglio chiamarlo capitolo- ♥

 

Un abbraccio,

pon ♥

 

*va a fare i bagagli per uno di quei paesi asiatici dai nomi assurdi*

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Capitolo 10
*** La porta di casa pt. 4 ***


La porta di casa

 

[pt. 4]

* * *

Ruki’s sight

Era presto, dannatamente presto.

E Takanori Mastumoto –ovvero io me stesso medesimo- non era affatto abituato ad alzarsi a un’ora del genere. Insomma, le otto nel mattino erano più vicine all’alba rispetto alle le altre. Perciò, in pratica, era l’alba, no?

Dalle tapparelle filtravano dei sottili raggi di luce grigiastra che illuminavano tristemente la stanza e quell’atmosfera non mi invogliava di certo ad alzarmi; me ne sarei stato molto più volentieri a crogiolarmi nel tepore del piumone. Sì, eravamo a maggio e avevamo ancora il piumone, problemi?

Mi rigirai pigramente nel letto e mi soffermai a guardare la figura che dormiva con molta poca grazia al mio fianco. I capelli biondi erano tutti arruffati e la bocca era semi aperta, mentre un braccio penzolava a mezza’aria. Cercai di trattenere una risata, ma allo stesso tempo mi chiedevo se anche io avessi un’espressione così imbarazzante mentre dormivo.

Gli lanciai un’ultima occhiata poi finalmente mi decisi a scendere e a recuperare qualche vestito pulito; da quando Yutaka si era ammalato, la lavatrice la facevamo sempre meno spesso e a fine settimana avevamo ben poco da mettere. Forse era il caso che mi decidessi a cercare l’indirizzo di una lavanderia o forse era meglio compare dei vestiti nuovi?

Avere quella nuova maglia leopardata blu non sarebbe stato male, in effetti. Anche quei pantaloni con gli inserti in oro erano belli. Avrei anche potuto comprare due T-shirt uguali, una per me e una per Ryo. Lui sicuramente ne sarebbe stato felice, me lo sentivo!

Mi infilai in una felpa nera pescata dal fondo dell’armadio e un paio di pantaloni di uno strano verde mela; non sapevo neanche di avere una cosa simile. Afferrai occhiali da sole, cellulare, chiavi di casa e portafoglio per poi uscire silenziosamente dalla nostra camera da letto.

Nostra.

Era ancora strano anche solo pensarlo, nonostante tutto quello stesse durando da ben due anni. A volte ero sorpreso che la nostra relazione fosse ancora in piedi; che lui non si fosse ancora stufato di me. Avevo paura di perderlo e per questo cercavo sempre di sorprenderlo, anche se il più delle volte sembrava che facessi solo casino.

Non volevo che si allontanasse da me; non avrei potuto sopportarlo.

Certo che però era ironico sentir dire una cosa dal genere da colui che lo aveva rifiutato per primo facendogli passare un anno assai poco piacevole.

Non andavo fiero di quello, no di certo.

 

«Takanori, io…» mormorò Ryo che in quel momento sedeva al mio fianco. Teneva lo sguardo puntato al suolo e stringeva i pugni sulle ginocchia, tanto che le sue nocche erano diventate bianchissime.

Un po’ perplesso rimasi in silenzio aspettando che continuasse quella frase lasciata a metà.

«Io credo seriamente di amarti» mi confidò tutto d’un fiato, mangiandosi la metà delle parole, ma la restante metà fu più che sufficiente per capire perfettamente cosa stesse dicendo.

«Ryo, spero per te che tu stia scherzando» così dicendo mi alzai e mi allontanai da quel divano e da lui.

 

Inizialmente non fu poi così difficile ignorare completamente i suoi sentimenti; facevo semplicemente finta che non esistessero.

Solo tre anni fa ero davvero una persona così odiosa?

Evidentemente sì.

Non avevo idea di cosa passò per la testa di Ryo facendogli decidere di non arrendersi con me, ma ringraziai per sempre quella sua decisione. Avrebbe potuto ingoiare la pillola, per quanto fosse amara, e andare avanti cercando di dimenticarsi di me e di quanto fossi stato meschino.

Ma non lofece. Decise di stringere i denti, provare e riprovare.

Ora ero io quello che faceva di tutto per lui o almeno ci provavo; non avrei rischiato di perderlo una seconda volta.

Quel giorno avrei fatto qualcosa di davvero speciale; sarebbe stato indimenticabile.

Accostai la porta alle mie spalle e procedetti dritto verso il soggiorno dove mi accolse, dall’alto del divano, uno scodinzolante Koron.

«Vieni con me» dissi prendendo il suo guinzaglio e lui subito scese dalla sua postazione per mettersi al mio fianco. «So che tu e Ryo non andate molto d’accordo, ma oggi gli faremo una sorpresa, ok?»

Koron non sembrò aver capito una sola parola di quello che avevo detto, dato che tutta la sua attenzione era stata catturata dal guinzaglio che tenevo in mano.

«Cane ingrato, perché non ascolti quando ti parlo?» borbottai e lui in tutta risposta abbaiò fragorosamente. Gli lanciai un’occhiataccia, ma ignorò anche quella. L’unica cosa che rimaneva da fare era uscire o avrei svegliato gli altri due; non mi sembrava il caso né di farmi scoprire da Ryo, né di attirare su di me l’ira di Yutaka.

Sgattaiolai fuori dall’appartamento in quella mattina piuttosto fredda e assai triste di maggio.

 

«Buongiorno cliente» mi accolse cordialmente una piccola ragazza con indosso la divisa del konbini. «Bei capelli» sorrisi facendo un lieve gesto con la mano in direzione delle ciocche blu che a tratti interrompevano il nero totale della testa. Lei mi sorrise di rimando un po’ imbarazzata.

Il proprietario di quel negozio doveva essere un tipo a posto; quando avevo tinti i miei di capelli, ero stato cacciato dal mio posto di lavoro in malo modo. Non che i miei genitori mi avessero concesso un trattamento migliore, comunque.

Con la massima concentrazione ispezionai i vari scaffali alla ricerca degli ingredienti per torte.

Farina. Eccola lì, vicino ai vari tipi di pasta e noodles. Ma quale tipo avrei dovuto scegliere?

Uno..due..tre.. afferrai due pacchi caso; andavano più che bene.

Il cacao doveva essere dolce per forza, amaro faceva schifo.

Rimanevano: lievito –del quale scelsi di nuovo una marca a casaccio-, uova, latte, burro…

 

Non sapendo bene le dosi avevo abbondato con le quantità, fatto sta che in quel konbini ci lasciai una fortuna e i commessi mi salutarono radiosi quando me ne andai seguito da Koron. Vista l’ingente quantità di pacchi e il loro peso non da poco, la mia idea di andare a comprare qualche vestito nuovo era sfumata ben presto. Peccato, avrei davvero voluto quella maglia.

Con passo un po’ malfermo mi avviai verso la strada di casa chiedendomi dove avrei trovato la forza per raggiungere il nostro appartamento al terzo piano, dato che l’ascensore era temporaneamente fuori uso; da notare che il cartello ‘Fuori servizio’ era stato affisso più di un mese prima.

Dieci minuti e parecchie rampe di scale dopo, ero finalmente arrivato tutto intero. Solo una scatola di uova mancava all’appello: era caduta e si era spiaccicata al suolo a soli cinquanta metri dal nostro palazzo.

Infilandomi le pantofole notai piacevolmente che nessuno era ancora sveglio. Avevo campo libero.

Koron tornò ad appostarsi sul divano e si mise a guardarmi con occhio critico; sempre che i cani possano avere quel tipo di sguardo.

Svuotai le buste sul tavolo e mi preoccupai di nascondere per bene il preparato per dolci che avevo preso insieme a tutto il resto. L’avevo comprato per uno sfortunato caso di emergenza, che sia chiaro.

Ora non mi restava che darmi da fare per riuscire a cucinare qualcosa di mangiabile. L’avevo visto fare a Yutaka un sacco di volte.

La differenza tra la teoria e la pratica non era poi tanta, no?

 

«Li hai fatti tu? Veramente?!» domandai sgranando gli occhi dalla sorpresa.

Il ragazzo seduto davanti a me annuì notevolmente imbarazzato; non la smetteva di tormentarsi le maniche della maglia.

Mi rigirai tra le dita un piccolo cioccolatino al latte, osservandolo con attenzione quasi minuziosa.

Sembrava un semplice cioccolatino, come tutti gli altri.

Né particolarmente bello o elaborato, né un ammasso di cioccolato fuso e poi raffreddato.

Sentii il biondo deglutire con forza.

Il mio parere lo spaventava sino a quel punto?

Senza esitare mi ficcai in bocca il cioccolatino e masticai per bene.

Quello fu il cioccolatino peggiore che mangiai in tutta la mia vita; era amaro, anzi di più. Ma lo mandai giù lo stesso e ne presi un altro dalla scatola rivestita di vellutino rosso.

«E’ buonissimo, Ryo» dissi mostrando un sorriso sporco di cioccolato.

Il viso del ragazzo che mi sedeva di fronte si illuminò improvvisamente.

Senza esitare feci sparire il secondo cioccolatino, poi il terzo e il quarto.

 

Probabilmente fu quello il momento durante il quale iniziai ad accettare i suoi sentimenti.

 

Mi sbagliavo e pure di grosso. Tra la teoria e la pratica c’era un’enorme, abissale differenza.

E fare una torta era un’impresa non alla mia portata, poco ma sicuro. Tutte quelle combinazioni di latte, farina, uova e varie erano degne di un chimico esperto; non stavo scherzando!

Sfogliai nervosamente il libro di cucina, ma non diceva niente su cosa fare quando l’impasto diventava peggio della colla.

Forse un po’ di latte avrebbe risolto le cose: afferrai uno dei cartoni e lo versai per metà dentro la ciotola contenente quello strano impasto colloso che profumava di cacao. Mescolai con la spatola ed effettivamente il tutto sembrò diventare più morbido.

Ce l’avevo forse…fatta?

Quello era davvero un impasto per dolci preparato proprio da me?

Con sguardo soddisfatto e orgoglioso immersi un dito in quella poltiglia marroncina e lo portai alla bocca: forse era un po’ dolce, ma poteva andare. Infondo le torte erano fatto apposta per essere dolci.

Versai tutto dentro una teglia e, sempre orgoglioso di me stesso, la infornai.

Infondo non c’era niente che non potessi fare, no davvero.

Ma quando mi voltai e i miei occhi si posarono sull’immane disordine che regnava in cucina, il mio orgoglio, la mia sicurezza e la mia felicità andarono a farsi friggere.

Il tavolo era un unico ammasso di farina, gusci d’uovo, cartocci del latte, bustine di lievito, spatole, cucchiai e un’infinità di altri oggetti che non ricordavo a quale scopo avessi utilizzato.

Recuperai un sacco della spazzatura e ci gettai dentro tutti i rifiuti; al diavolo la differenziata!

Il resto cercai di ammucchiarlo nel lavello e prima o poi avrei lavato tutto, promesso.

 

Stavo cercando di spostare dal tavolo due ciotole di metallo contenenti varie posate, quando queste pensarono bene di scivolarmi di mano e andare a cadere sul pavimento producendo un fracasso infernale.

Tirai giù qualche Kami e finalmente mi decisi a chinarmi per raccogliere gli oggetti sparpagliati per il pavimento. Mentre cercavo di raggiungere una forchetta che era andata a finire sotto il tavolo, sentii una voce che mi parve familiare.

Per la sorpresa mi alzai di colpo sbattendo una colossale craniata contro il piano del tavolo. Ecco altri Kami che venivano giù.

Lentamente riemersi da sotto il tavolo per vedere chi avesse fatto il suo ingresso in quell’inferno di cucina, ma sapevo bene quale sarebbe stata la risposta.

«Ryo?» mormorai con una voce terribilmente acuta e strozzata. Ormai la mia testa era completamente affiorata e avevo una visione perfetta del ragazzo biondo che mi fissava sconvolto.

Dovevo agire in fretta e farlo uscire da lì; non doveva venire a sapere niente.

«Cosa ci fai qui?!» gridai rialzandomi e portandomi subito davanti a lui. Dal suo sguardo allarmato capii che dovevo sembrare un pazzo, tutto ricoperto di farina e roba varia. «Non dovresti essere qui» mi lamentai sperando di persuaderlo ad andarsene, ma lui sembrava non volersi muovere.

Dovevo passare alle maniere forti?

«Via! Va via!» intimai cercando di spingerlo fuori dalla cucina, ma, vista la notevole differenza di altezza tra di noi, non era di certo un’impresa facile.

«Sei impazzito?!» mi gridò contro lui cercando di liberarsi di me e facendomi quasi perdere l’equilibrio. «Insomma Taka, ti decidi o no a lasciarmi andare?!»

No, non avrei ceduto. Lui non DOVEVA venire a sapere niente o tutti i miei sforzi sarebbero risultati vani.

«No, mai! Esci da qui Ryo, ti prego..» gridai in risposta mentre sentivo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Sperai che lui non se fosse accorto. Per una volta avrei voluto essere in grado di fare qualcosa per lui, ma sembrava che fossi destinato a fallire sempre.

«Mi spieghi che dia…» iniziò con tono esasperato, ma si interruppe a metà della frase, mentre il suo sguardo si spostava con orrore in direzione del forno. «Taka, il forno!» gridò lui. «Eh?!» esclamai confuso e in quel momento mi sentii stringere forte dalle sue braccia senza riuscire a capire che diavolo stesse succedendo. Poi improvvisamente mi sentii spingere a terra; avevo le palpebre serrate, sapevo solo che le braccia di Ryo mi tenevano stretto a lui.

 

«Prendi!» mi sentii dire e dopo pochi istanti un borsone di mole piuttosto consistente mi colpì in pieno. Le lacrime tornarono a inumidirmi gli occhi e mi sentii ancora peggio di quanto già non stessi.

«Ci devi delle spiegazioni, Takanori»

Altra mazzata dritta al cuore. Una delle tante conseguenze della mia incapacità era stata farlo arrabbiare e non riuscivo a perdonare me stesso.

Lui aveva perfettamente ragione: dovevo loro delle spiegazioni decenti perché mica tutti i giorni uno manda a puttane la cucina e l’appartamento.

Il guaio era che le parole si rifiutavano di uscire dalla mia bocca perché esse stesse si rendevano conto di essere ridicole. Non potevo dire ‘Ho fatto saltare in aria tutto mentre preparavo una torta per te, Ryokun’.

«Insomma, parla!» sbraitò lui facendomi sobbalzare appena. Racimolando tutto il coraggio che avevo alzai la testa, ma non riuscii a guardarlo negli occhi se non per qualche breve istante.

 

«Ryo perché ti ostini a fare così? Dammi un dannatissima ragione!» sbottai irritato.

Lui mi guardava fisso negli occhi; facevo fatica a sostenere quello sguardo.

«Perché voglio farti capire che i miei sentimenti per te sono seri!»

 

Non aveva esitato. Mai.

Aveva messo in gioco tutto per me e non una sola volta aveva vacillato davanti alla possibilità di fallire.

Io invece non riuscivo neanche a prendermi la responsabilità per una tale cazzata.

Lui disse qualcosa, ma non prestai attenzione alle sue parole: ero troppo concentrato ad auto commiserare me stesso. Altre parole che non riuscii ad afferrare poi improvvisamente la sua mano si posò sulla mia spalla.

«Mi dispiace Ryokun» fu l’unica cosa che riuscii a dire anche se sapevo che avrei dovuto dare la priorità alle spiegazioni. Mi strinsi forte a lui, ma, anche in quel caso, sarebbe stato meglio comportami in modo diverso.

Ero una stupida donnicciola terrorizzata.

«Ryokun…»

Eppure non riuscivo a interrompere quell’abbraccio o a smettere di dire frasi per farmi compatire.

«Mh, che c’è?» domandò lui.

«Mi dispiace, ho combinato un casino…» dissi con tono sommesso mentre cercavo di ricacciare le lacrime indietro. Mi facevo pena da solo.

«Te l’ho già detto, Taka: non fa niente, davvero» insistette lui con tono rassicurante.

Ero un vero egoista, ma le sue braccia attorno al mio corpo e le sue parole gentili mi facevano sentire incredibilmente bene. Alla fin fine era sempre lui quello che dava qualcosa a me.

«Vedi, io… stavo cercando di fare una… cosa per te»

Non sarebbe stato necessario dirlo, no affatto. Ma volevo essere egoista ancora un po’ e sentirmi protetto da lui.

«Eh? Per me?» esclamò. Sembrava realmente sorpreso.

In notevole imbarazzo gli spiegai la faccenda della torta e tutto il resto senza riuscire a immaginare quale sarebbe stata la sua reazione. Tuttavia quando mi colpì in testa sgridandomi, ci rimasi un po’ di sasso. Lo guardai dubbioso, ma dopo pochi istanti lo sentii stringermi forte a sé e ringraziarmi.

Eh?!

«Eh? Ma non eri arrabbiato?» gli domandai, seriamente confuso.

«Grazie, davvero» ripeté lui.

 

«Non mi stancherò mai di ripeterti quanto io ti ami, lo sai Takanori?»

 

«Lo sai, Taka?» mi chiese improvvisamente mentre camminavamo lungo il marciapiede. Per un po’ saremo stati senza casa e di comune accordo avevamo deciso di alloggiare nell’appartamento di Yuu e Kouyou che, ora come ora, era vuoto.

Avevamo lasciato la macchina nel parcheggio e ora ci dirigevamo, carichi di borsoni, verso la palazzina dove abitavano i nostri due bandmates. Koron pareva entusiasta del cambiamento; Yutaka un po’ meno. Appena ci avessero pagati, gli avrei comprato una cucina nuova, promesso.

«No, cosa?» domandai di rimando.

«Non mi stancherò mai di ripeterti quanto ti amo, anche se fai saltare in aria la cucina perché non sai fare le torte» rispose lui ridendo.

 

-Kou… c’è un qualcosa che dovrei dirti… però è un qualcosina ina, non spaventarti. Forse Ryo te l’ha già detto, ma magari le nostre versioni sono un po’ diverse…-

Inviai quella mail dopo un paio d’ore da quando eravamo arrivati: il tempo necessario per mettere in salvo tutti gli oggetti che avrebbero rischiato di essere sbranati da Koron.

 

~

 

Mi sono fatta perdonare per l’obbrobrio pubblicato l’altro giorno? *^^*

Vi prego, ditemi di sì xDDD

Per scrivere questo nuovo capitolo mi sono impegnata molto, anche se non so se si vede. Personalmente mi piace, ma dovrò aspettare il verdetto di voi lettori u_u”

Che dire?

Mi è piaciuto molto impersonarmi in Ruki; ho cercato di rendere quest’episodio –visto dal suo punto di vista- un po’ più ‘serio’ rispetto a come lo avevo raccontato dal punto di vista di Reita.

Volevo mostrare a tutti un Ruki un po’ meno stupido del solito, ma un po’ infantile e insicuro. Spero che si sia capito che alla fine i suoi dubbi sono infondati, perché il tonno lo adora °A°

Inoltre mi auguro di non essere incappata di qualcosa di banale çOç

Due cose sui personaggi secondari:

- Ho dato un po’ di spazio anche a Koron u__ù Tra l’altro, oggi Ruki ha messo su twitter una suo foto, però a me non piace quel cane LOLOLOL *va a nascondersi*

- C’è una comparsa che potrebbe essere una nostra vecchia conoscenza. L’avete mica riconosciuta?

 

Credo di aver terminato qui.

Per eventuali dubbi/domande/insulti non esitate a contattarmi u__ù

Vi ringrazio tutti, dal profondo del cuore *^^^*

Se vi capita lasciate un commentino, per me è davvero davvero importante.

 

Un abbraccio,

pon ♥

 

PS: Mi scuso con tutti per vari errori di battitura, ma ho dei problemi alla vista e mi è molto difficile riuscire ad individuarli tutti. Scusate ç____ç

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Capitolo 11
*** La porta di casa pt. 5 ***


pon’s notes

Innanzitutto voglio ringraziare quella santa donna, nota anche come J Gates, per avermi aiutata con quel passaggio che mi aveva mandata in crisi. Che poi alla fine era una cosa stupida, ma non sapevo da che parte girarmi e mi sei stata di grandissimo aiuto.

Grazie mille ♥

 

 

La porta di casa

 

[pt. 5]

«Uscita per Tsu. Girate a destra» annunciò il navigatore satellitare.

Anche se quell’aggeggio mi aveva fatto venir matto per tutta la durata del viaggio, alla fin fine, ero arrivato più o meno sano e salvo. Io e la tecnologia, purtroppo, avevamo divorziato ormai da tempo.

C’era da dire, però, che il navigatore dava indicazioni stradali un po’ più decenti di quelle di Yuu.

 

«Kou, da che parte dobbiamo andare?» domandò con tutta naturalezza, mentre osservava il bel paesaggio che si estendeva proprio fuori dal finestrino.

Pareva proprio una bella giornata: eravamo in vacanza, c’era il sole, una coperta da picnic e due bento ben sistemati nel bagagliaio. Questi ultimi de li aveva preparati Yutaka e sicuramente dovevano essere deliziosi.

«Come faccio a sapere dove dobbiamo andare se la cartina ce l’hai tu?!» sbraitai svoltando bruscamente in una curva.

A pensarci bene,  non era una giornata così perfetta come si poteva pensare.

«…»

Mi voltai verso la mia sinistra per osservare il ragazzo moro che sedeva al mio fianco e che sembrava lottare contro la cartina che teneva in mano.

«Per la miseria Yuu, mettila dritta!»

Lui la raddrizzò alla bene e meglio e si mise a scrutarla con estrema attenzione.

«Kou…» mugugnò lui.

«Che c’è?» sbuffai esasperato.

«Dovevi svoltare a sinistra sei chilometri fa»

 

Certo, potevamo non essere –ed infatti, non lo eravamo per niente- una perfetta coppia, ma, tutto sommato, funzionavamo bene insieme. Litigi furiosi a parte, s’intende.

Io dicevo bianco e lui nero.

Era sempre stato così, ma per qualche strana ragione ancora sconosciuta al genere umano –o meglio: a me era perfettamente sconosciuta e qualcuno la conosceva, era gentilmente pregato di illustrarmela-, non ci aveva mai creato troppi problemi. Una persona può convivere la propria malattia; beh, non convivevamo col fatto che, su certi argomenti, la pensavamo in modo esattamente opposto ed era impossibile giungere ad un accordo.

Al massimo smettevamo di parlarci per alcuni giorni, ma finivamo sempre col dimenticarci la ragione del  nostro litigio.

 

«Kou, domani sera andiamo a cena fuori, ti va?» mi domandò mentre finiva di rimettere i piatti della credenza.

«Ma noi non ci stavamo tenendo il broncio?» puntualizzai senza staccare gli occhi dal libro che stavo leggendo.

«Ah, già..» mormorò e sentii l’antina della credenza chiudersi e i suoi passi sul pavimento.

Non disse più nulla e tornai a concentrarmi sulla mia lettura; era stato lui quello che aveva iniziato con quella sceneggiata, cosa voleva ora?

«Kou…» mi chiamò con voce flebile. Mi voltai e lo vidi stare in piedi proprio dietro il divano dov’ero seduto.

«Mh, che c’è?» domandai posando il libro e spostandomi appena per poterlo guardare in faccia.

«Perché avevamo litigato? Io non me lo ricordo più»

 

Yuu era un mago nell’arte del farsi perdonare e non ero ancora riuscito a scoprire come facesse esattamente. Io, da bravo babbeo, ci cascavo sempre e gliela davo vinta.

Questa volta però non sapevo se avrei potuto lasciar correre: come poteva essersi fregato così beatamente del suo povero fidanzato che si spupazzava un lungo e faticoso viaggio per raggiungerlo?

Era stato facile per lui dato che aveva preso il treno e non aveva dovuto guidare sotto la pioggia e nel traffico. Come minimo, per farsi perdonare, mi avrebbe dovuto accogliere con un bottiglione di sakè da tre litri.

«Disgraziato» mugugnai mentre svoltavo in una stradina poco prima delle porte della città. Già, perché la casa dei genitori di quel caro ragazzo non si trovava esattamente a Tsu, ma in un piccolo paesino abbarbicato su per la montagna. Era uno di quei posti che sembravano uscire da un’illustrazione del periodo Meiji; a volte mi era venuto il dubbio che neanche avessero l’acqua corrente.

C’ ero stato una sola volta: poco dopo che i genitori di Yuu avevano comprato la casa e non pensavo ci sarei mai tornato, almeno non in un’occasione del genere. Non osavo immaginare quanto sarebbe stato imbarazzante dovermi sedere di fronte ai signori Shiroyama, che conoscevo da molti anni, ed essere presentato come il ragazzo del figlio.

Mi sentii arrossire e sprofondai sconfortato nel sedile. Come avrei dovuto comportarmi? Cos’avrei dovuto dire?!

 

«Salve signori Shiroyama. Sono Takashima Kouyou, suono con vostro figlio nella band. Vi ricordate di me, vero? Io e Yuu ci conosciamo dal liceo. Beh, ora stiamo insieme»

 

Questa era da escludere. Neanche racimolando tutto il coraggio che avevo, sarei stato il grado di dire una frase del genere.

 

« Salve signori Shiroyama. Sono Takashima Kouyou, suono con vostro figlio nella band. Vi ricordate di me, vero? Io e Yuu ci conosciamo dal liceo. Ora noi… cioè, io e lui, s’intende… ci conosciamo da molto e… l’ho forse già detto questo? Beh, vedete… nel corso degli anni è andato formarsi un… ehm, rapporto… ‘speciale’…»

 

Questo sarebbe stato decisamente da me, ma non era una buona idea; avrei finito per incappare in un discorso senza capo né coda.

Era forse il caso di lasciar parlare solo Yuu?

 

«Mamma, papà. Lui è il mio ragazzo. Sapete, mi ha fatto il filo per anni. Quanti sono, Kou? Beh, non importa. Adesso conviviamo anche; non potete immaginarvi cosa…»

 

Scacciai alla svelta quell’immagine dalla testa e tornai a concentrarmi sulla strada che si faceva sempre più ripida.

No, non potevo permettere che fosse solo lui a parlare o avrebbe combinato un disastro. Non volevo neanche immaginare che razza di immagine di me avrebbe dato ai suoi genitori.

Avrei dovuto preparare un discorso in anticipo, impararlo a memoria e, magari, cercare di farlo studiare anche a Yuu, anche se le sue doti di recitazione non erano un granché.

Dal canto mio mi reputavo un bravo attore dopo esser riuscito, per anni, a nascondere i miei sentimenti.

Dieci anni erano davvero un sacco di tempo.

A dire il vero, per tutto quel periodo, non avevo mai veramente cercato di essere ricambiato; il mio subconscio doveva aver calcolato le probabilità di riuscita e constatato che quasi non ce n’erano.

Eppure alla mia fine lui aveva scelto me, quando, ormai, la parola ‘speranza’ l’avevo cancellata dal mio dizionario.

 

«Questa è la volta buona che gli spacco il naso» sbottò  serrando i pugni.

«Ryo, per favore, abbassa la voce» mormorai guardandomi intorno irrequieto.

Per ora c’eravamo solo noi due nella saletta adiacente allo studio di registrazione, ma presto sarebbero arrivati anche gli altri.

«Inoltre lui non ha nessuna colpa e non lo sto dicendo solo perché mi piace. E’ così, punto e basta»

«Essere così stupido da non riuscire a vedere quanto tu lo ami - Sì, perché lo ami, Kou e c’è poco da fare. Ti si legge in faccia a un miglio di distanza- è una colpa»

Non risposi, perché, effettivamente, non c’era nulla di dire.

«Davvero, prima o poi glielo spacco il naso, con questo pugno» ripeté mostrandomi  la mano destra. «Magari servirà a raddrizzarglielo» continuò, ma questa volta con tono meno serio.

Ryo vedendomi sorridere, sembrò un po’ sollevato.

In quel momento la porta venne aperta e Yuu entrò senza proferire parola. Teneva la testa alta, ma il suo sguardo non sembrava essere concentrato su qualcosa di preciso. Sempre in silenzio assoluto andò a sedersi sul vecchio divanetto di pelle rossa.

Con il tempo avevo iniziato ad allontanarlo da me; era successo tutto molto lentamente, così che quasi non se n’era reso conto. Volevo tenerlo lontano da dei sentimenti dei quali mi vergognavo.

Fin da subito lui era sempre stato molto gentile con me e tutte quelle sue attenzioni avevano avuto un effetto negativo su di me,  avevano finito col  farmi innamorare.

«Vuoi ancora spaccarmelo il naso, Reichan?». Improvvisamente la voce profonda e calma di Yuu ruppe il silenzio; la reazione di Ryo fu immediata e, se non lo avessi bloccato, quella sarebbe stata la volta buona che avrebbe dovuto intervenire la Security.

«Dopo tutti questi anni che ci conosciamo ancora non mi sopporti? Pensavo che fossi un po’ cresciuto dai tempi del liceo..» continuò Yuu imperterrito.

«Bastardo! Davvero non ti sei mai accorto di nulla?!» tuonò Ryo con voce colma di disprezzo.

«Di che cosa mi sarei dovuto accorgere?»

«Di quanto..»

«No, Ryo! Sta zitto; è solo un problema mio, capito?!» lo interruppi bruscamente.

Prima o poi sarei riuscito ad archiviare i miei sentimenti; che bisogno c’era di confessarglieli quando non mi avrebbe mai ricambiato?

«Quale problema? Che cos’hai, Kou?!» esclamò Yuu con voce terribilmente strozzata.

Il suo tono e la sua espressione cambiarono talmente in fretta da farmi quasi spaventare; spostava irrequieto gli occhi da me a Ryo aspettando che qualcuno gli desse delle risposte.

«Yuu per favore, smettila di scherzare. Non sei affatto divertente» sbuffò Ryo roteando gli occhi. «Kou, va bene se vado un attimo di là a prendere un caffè?» mi domandò infine.

Annuii e lui si allontanò verso la caffetteria.

Yuu mi stava ancora fissando con sguardo accigliato, ma sembrava aver riacquistato un po’ della sua solita serietà.

Mi stava davvero prendendo in giro?

«Che cos’hai, Kouyou?» mi domandò nuovamente facendomi sobbalzare per la sorpresa.

«Eh?»

«Mi hai sentito bene: che- cos’-hai?» scandì bene le parole come se stesse parlando con uno un po’ duro d’orecchi.

Certo che lo avevo sentito, ma non riuscivo a capire perché si stesse comportando in quel modo.

Ryo doveva avere ragione: sicuramente mi stava prendendo per il culo.

«Sto benissimo, Yuukun. Davvero» risposi cercando di sembrare il più naturale possibile.

Lui in tutta risposta si alzò e si mosse nella mia direzione, per poi posare le mani sulle mie spalle puntando i suoi occhi verso i miei. Lo guardai interrogativo, ma non sembrò curarsene.

Se quello era uno scherzo, non mi pareva affatto divertente.

«Non c’è niente che non vada. Ryo è sempre il solito esagerato» ripetei. «E’ tutto a posto» cercai di sorridere in modo convincente e lentamente scivolai via dalla sua presa.

Mi voltai con tutta l’intenzione di raggiungere Ryo alla caffetteria, ma mi fermai quando sentii Yuu chiamarmi: «Kouyou…»

«Mh, che c’è?» domandai voltandomi appena.

Lui mi guardò per un attimo poi scosse la testa; tornai sui miei passi ed uscii dalla stanza.

 

La porta dietro le mie spalle si spalancò all’improvviso; pochi istanti dopo sentii qualcuno abbracciarmi da dietro, talmente forte da farmi mancare il respiro.

Con difficoltà cercai di voltarmi e mi scoprii tra le braccia del nostro secondo chitarrista.

 

Da dieci minuti a quella parte, il navigatore aveva deciso di perdere il segnale e lo schermo era diventato nero, ma non mi preoccupai più di tanto visto che la strada da percorrere era solo una. Sempre se quell’ammasso di terra e sassi si poteva chiamare strada.

Improvvisamente il terreno sembrò farsi più pianeggiante e mi parve di scorgere una debole luce poco più avanti. O avevo le allucinazioni o ero veramente arrivato.

Lanciai una breve occhiata al navigatore, ma quello non sembrava dare segni di vita. Accelerai –per quanto fosse possibile farlo su quella strada impervia- e già mi pregustavo l’arrivo; magari mi avrebbero offerto un bagno caldo.

Pioveva ancora e temevo non sarei riuscito a trovare la casa a causa della scarsa visibilità, ma riconobbi immediatamente il segnavento –di cattivissimo gusto, tra l’altro- appostato sul tetto dei signori Shiroyama.

Rallentai ed in quel momento scorsi una figura in nero che si riparava  sotto un vecchio ombrello che un tempo doveva essere stato giallo.

Yuu.

Inchiodai facendo slittare appena la macchina sul fango della strada e scesi sbattendo la portiera. Ora mi sente.

«Yuu Shiroyama, tu…!» sbottai dirigendomi verso di lui, incurante della pioggia.

Si pentirà di essere stato un tale menefreghista nei miei confronti.

Stavo per dirgli quanto fossi incazzato con lui, quando mosse qualche passo verso di me andando a posizionarsi proprio sotto la luce dell’unico lampione della via; aveva il viso pallido e affaticato, mentre i suoi occhi mi scrutavano irrequieti.

«Kou..» disse con voce rotta. Mi bloccai a metà strada tra le lui e la macchina. Avevo già dimenticato tutto quello che avrei voluto dirgli.

«Stai bene?» chiese cercando di osservarmi, nonostante la luce flebile del lampione illuminava a stento lui che vi stava sotto. «Certo che sto bene. Tu piuttosto, da quanto tempo sei qui fuori? Sei per caso impazzito?!» sbottai muovendo gli ultimi passi verso di lui. «Neanche una chiamata o un messaggio. Niente. E ora mi chiedi se sto bene?!» continuai mentre mi sfilavo la giacca e la poggiavo sulle sue spalle intirizzite. «Guarda qua: sei freddo peggio di un ghiacciolo. Ma che razza di sconsiderato sei?!»

«Ho scordato il cellulare a casa e qui la linea del telefono è stata interrotta a causa del temporale»

«E i tuoi genitori non ti hanno detto niente? Cosa pensavi di… eh?! Eravate senza telefono?!»  

«Sei sordo o cosa?» mugugnò lui stringendosi di più nella mia giacca.

«Ehi, non ti permetto di parlarmi così! Per tutto il viaggio ho continuato a credere che non ti importasse niente di me. Ero preoccupato..» replicai.

«E credi che io non fossi in ansia?! Potevi anche aver avuto un incidente e io non avrei avuto modo di saperlo!» esplose facendomi rimanere di stucco. «Anche io ero davvero preoccupato, Kou!»

Mi grattai la testa, abbassando brevemente lo sguardo. Forse aveva ragione, in effetti se non mi aveva chiamato doveva esserci sicuramente una ragione, quindi forse non si meritava la scenata che gli avevo fatto giusto poco fa.

«Hai ragione, scusa. Diciamo che eravamo preoccupati cinquanta e cinquanta, così siamo pari» dissi abbozzando un sorriso. Yuu mi squadrò per alcuni istanti con aria incredibilmente seria, ma lentamente la sua espressione si addolcì. Tuttavia non fui risparmiato da un «Baka» e da un piccolo pugno sulla spalla.

«Pronto?» domandò lui sorridendomi divertito.

«Assolutamente no»

Lo sentii farsi più vicino a me e, mentre le sue dita sfioravano le mie, varcammo la porta.

 

In tutta la mia vita non mi ero mai seduto su uno zabuton [1] e le mie gambe cominciavano a diventare insensibili; continuavo a muovermi nella speranza di trovare una posizione comoda, ma senza successo. Yuu invece sembrava perfettamente a suo agio.

Sentivo gli occhi dei suoi genitori puntati su di me e cercavo di mantenere un sorriso di cortesia, ma, tra l’imbarazzo e il male alle gambe, non stavo riuscendo un granché nell’intento.

«Allora…» iniziò lentamente il signor Shiroyama, mentre la moglie versava a tutti una tazza di the fumante. Fu in quel momento che il mio cellulare prese a squillare facendo sobbalzare la donna che fece cadere un po’ della bevanda sul tavolino.

Lentamente sfilai il cellulare dalla tasca, senza saper bene cosa fare; intanto quello continuava a squillare. Feci per premere sul tasto rosso per rifiutare la chiamata, ma vidi il signor Shiroyama scuotere la testa e farmi segno di rispondere. Un po’ esitante spostai il dito sul tasto verde.

«Yutaka, dimmi tutto»

 

The end of this short story.

But not –obviously- the end of their love story.

 

[1] Cuscino giapponese utilizzato per sedersi attorno al tavolo.

 

pon’s chat

Questo non sarebbe dovuto essere l’ultimo capitolo, ma per cause di forza maggiore –leggasi: l’ispirazione scarseggia- ho deciso di promuoverlo a capitolo finale.

A dire il vero, le idee le avevo, ma temevo di dilungarmi fin troppo.

Allora, alla fin fine sono soddisfatta di come è venuta fuori questa seconda storia. E’ molto probabile che a molti non sia piaciuta per via del fatto che ho voluto utilizzare un tipo di narrazione ‘lenta’. Sicuramente avrebbe reso di più come una oneshot molto lunga, ma ho preferito dividere anche questa in parti o sarebbe stato troppo problematico scriverla XD

A me piace molto anche perché qui c’è la mia amata AoiUruha, ma a parte questo sono felice di come sia venuta fuori *^^*

Inizialmente doveva essere una shot non molto lunga, ma ho finito col farla diventare davvero lunga. Spero solo di non avervi annoiati troppo.

Forse non è venuta fuori proprio come ce l’avevo in mente, ma non mi lamento troppo.

Ah, dimenticavo di chiedervi scusa per l’immane ritardo, ma sono stata via quattro giorno e per il restante tempo mi sono dovuta dedicare ai compiti oppure avevo poca ispirazione.

Cercò di fare in modo che non succeda più.

 

Parliamo della prossima storia!

Non ho assolutamente idea quanto sarà lunga, ma ho fiducia nella mia idea.

Il titolo sarà ‘Green Hair’.

Qualcuno riesce ad indovinare chi sarà il protagonista~?

 

Ringrazio tutti voi lettori e recensori per il sostegno. Grazie a tutti!

Un abbraccio,

pon ♥

 

PS:

Rileggendo il capitolo mi sono venute in mente un altro paio di cose da dire.

Quando nel flashback, Ryo litiga con Yuu pare che i due si odino, ma non è così tranquilli. Semplicemente era un periodaccio per tutti loro. Quei due si voglio tanto bene (♥), ma non ho avuto modo di specificarlo all’interno del capitolo.

Sempre alla fine del flashback spero si sia capito che Yuu corre ad abbracciare Kouyou perché si è finalmente deciso ad accettare i sentimenti che anche lui teneva nascosti.

Ma mi sa che non si è capito u_u””

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Capitolo 12
*** Green Hair pt. 1 [Ruki] ***


pon’s notes
No, non sono morta, tranquilli.

Scusateee çOOç
Davvero, vi chiedo umilmente perdono per il ritardo immane. Al fatto che ho dovuto finire una marea di compiti in pochissimo tempo, si sono aggiunti anche la poca ispirazione e una bella febbre di fine estate. Risultato? Non ho potuto scrivere per giorni e giorni.
Vi chiedo ancora scusa e spero non vi siate dimenticati di me lol
Ma ora passiamo al capitolo, che sicuramente vi interessa di più delle mie faccende personali e__e”
 
Vorrei precisare che l’ho scritto prendendo spunto (per alcune cose) da un’intervista di Ruki su REAL READ. A fine capitolo ci saranno maggiore dettagli.
Questa storia è la più corta che ho scritto fin’ora: avrà due soli capitoli. Ma spero possano essere di vostro gradimenti!
Questa prima parte è divisa in tre titoli e per ognuno di essi ci sono due citazioni di alcune canzoni; scoprirete al fondo a chi appartengono le lyrics!
Inoltre ci terrei a dire che, nonostante mi sia ispirata all’intervista per scrivere la storia, la mia intenzione NON è assolutamente quella di voler rappresentare la realtà.
 
Ah, vorrei puntualizzare una cosa riguardo l’ultimo capitolo di ‘La porta di casa’: quel «Yutaka, dimmi tutto» voleva essere un riferimento al fatto che Uruha era già stato contattato precedentemente da Reita e Ruki e Kai era l’unico che ancora non l’aveva chiamato; perciò Uruha si doveva sorbire una terza versione dei fatti. Era un modo un po’… ‘divertente’ per concludere la storia, ma non so se si è capito ò__ò
 
Bom è tutto (credo).
Puntualizzando che questo capitolo non mi convince affatto, iniziamo!
Ci si legge al fondo :3
 
Green Hair
 
[pt. 1]
 

Home

Don't give me any orders
For people like me
There is no order

 
Il marmocchio sgattaiolò furtivamente fuori dalla sua stanza immettendosi nel corridoio buio e silenzioso. A quell’ora i suoi coetanei se la dormivano già della grossa, immersi nei loro sogni fatti di gatti parlanti come Doraemon e caramelle gratis.
Sì, certo: i bonbon piacevano anche a lui, ma in quel momento non era ciò che lo interessava maggiormente.
Il suo corpicino traboccava di adrenalina mentre si dirigeva verso il salotto dove sapeva avrebbe trovato il loro vecchio televisore Sony e le cuffie, che usava ogni notte per evitare che l’audio svegliasse gli altri abitanti di casa Mastumoto.
Era perfettamente conscio di stare andando contro le regole imposte dai genitori.
Sapeva che se lo avessero beccato lo avrebbero picchiato.
Ma non gli interessava.
Avrebbe fatto di tutto pur di violare quei divieti che gli stavano fin troppo stretti.
Fin da subito gli erano state vietate una marea di cose perché ‘avrebbero potuto traviare la mente di un bambino’.
Ecco perché lui ci metteva anima e corpo nel fare ciò che era proibito.
Ecco perché ogni notte sgusciava fuori dal letto per andare a guardare gli Horror che venivano trasmessi da mezzanotte in poi.
Ovviamente quel genere di film occupava una posizione piuttosto alta nell’elenco di ciò che Takanori non poteva fare/vedere/leggere/ascoltare.
Accese il televisore mentre già si pregustava l’inizio di ‘Child’s play’ [1].
Purtroppo si accorse troppo tardi che il cavo delle cuffie era scollegato, mentre una lucina verde brillava proprio ad altezza delle casse.
 

* * *

 
Quella sera il fratello non ci sarebbe stato.
Per i genitori lui era andato a passare la notte a casa di un compagno di università per preparare un esame.
Poi, in verità, quell’amico non era altro che una bella ragazza dai capelli biondi al terzo anno e lui non era di certo andato a casa sua con l’intenzione di studiare.
A Takanori però non interessava per niente delle tresche amorose del fratello, gli bastava che stesse fuori casa il tempo necessario per potersi comodamente infiltrare in camera sua.
Quella volta, però, non c’entravano i film Horror; oh no, nulla del genere.
Era qualcosa –per la mente di un dodicenne- molto più eccitante e proibito.
Amava sentire l’adrenalina scorrere nelle vene con ritmo frenetico e ogni volta voleva di più, sempre di più.
A quell’epoca, certe piccole bravate gli sembravano una gran cosa, una ragione per cui vantarsi a scuola e venire guardato con ammirazione da altri marmocchi come lui.
Oh sì, quel lunedì ne avrebbe avute di cose di raccontare.
Lentamente tolse una vecchia scatola da scarpe da sotto il letto e ne estrasse il prezioso contenuto cartaceo: le riviste dovevano essere meno di una decina, lui presa la prima. La sfogliava con cautela, come se le pagine avessero potuto disintegrarsi a contatto con la pelle.
Il suo cuore martellava con insistenza pompando adrenalina con un ritmo sempre più frenetico.
La casa era ancora perfettamente silenziosa, tranne che per il lieve frusciare delle pagine della rivista.
 

* * *

 
Stringendo tra le mani quel flacone di tinta per capelli, si era sentito superiore a tutto e a tutti.
Ciò che stava per fare era diverso dalla bravate di quando era ragazzino, diverso dal fumare una o due sigarette sul tetto della scuola, saltare le lezioni o cazzate varie.
Insomma, qui si parlava di prendere una di quelle decisioni veramente importanti, che avrebbero anche potuto cambiare la sua vita, non so se mi spiego.
Molti potrebbero pensare ‘Ehi, sono solo capelli!’.
Sì e allora?
Nella vita di un sedicenne anche i capelli possono essere importanti.
Ci aveva riflettuto un sacco di tempo, aveva valutato i rischi e le varie possibilità. Circa trentasei ore sono davvero un sacco di tempo, no?
Aveva riletto così tante volte le indicazioni stampate sulla scatola, da saper a memoria persino l’indirizzo dell’azienda di produzione. E qui si parlava di uno che per tutta la vita aveva letto solo manga.
Insomma, quella volta era davvero determinato a fare qualcosa.
Ideare il tutto non era stato neanche poi così difficile: la madre di Satoshi  faceva la parrucchiera ed era riuscito a farsi passare dall’amico la tinta e anche il decolorante.
Finalmente aprì la scatola e ne estrasse il tubetto trasparente; al suo interno brillava un liquido vischioso e verde. Lo osservò per alcuni istanti, mettendolo in controluce e facendo scivolare il suo contenuto da un estremo all’altro.
Sì, il verde era decisamente un ottimo colore, pensò.
 
Fuck this and fuck that
Fuck it all and fuck the fucking brat
 

Jail

 

It took the best years of my life
And made it so I couldn’t decide

 
Quel giorno, durante la pausa mensa, gli studenti avevano visto  il loro preside raccogliere alla rinfusa le sue cose in un vecchio scatolone e darsela a gambe in tutta fretta.
Quel giorno il tetto dell’aula teatro era venuto giù; fortuna che il club che avrebbe dovuto occuparlo, aveva chiuso i battenti da parecchi anni.
Anche quel giorno un bel gruppetto di ragazzi venne mandato in presidenza (ognuno con svariate motivazioni), anche se quell’ufficio non era più occupato da nessuno.
E proprio quel giorno Takanori aveva deciso di sfoggiare la sua nuova chioma verde.
 
Osservando quella scuola –sempre se così poteva essere chiamata- ci si sarebbe accorti che con un po’ di sbarre alle finestre e un paio di guardie armate fuori dal cancello, sarebbe stato impossibile distinguerla da una vera prigione.
C’era da dire, però, che una buona parte degli studenti sarebbero stati i candidati ideali per diventare, in futuro, degli ottimi carcerati. In effetti, lì non era poi una così grande novità vedere volanti della polizia o ambulanze posteggiate davanti ai cancelli.
Ciò che avrebbe potuto davvero sorprendere, era che qualcosa andasse come si doveva.
Eppure quello era l’unico posto dove era riuscito a superare il test d’ingresso; o se stava lì, o niente (certamente avrebbe preferito il ‘niente’, ma i genitori, ovviamente, voleva che terminasse gli studi, anche a costo di mandarlo in una scuola di serie z –serie b sarebbe stato un complimento-).
‘Chi si accontenta, gode’ diceva il proverbio, ma lui se la stava spassando ben poco, detto tra noi.
In quella scuola, o impersonavi la parte del piccolo fuorilegge, o non eri nessuno.
Takanori, dal canto suo, si era sempre fatto gli affaracci suoi e non era mai incappato in guai particolari, come invece succedeva a un una buona parte dei suoi compagni di classe. Tutto ciò che faceva era stare seduto a leggere manga. I sensei, pur di avere un alunno in meno che disturbava, lo lasciavano fare.
In poche parole non lo avevano mai visto un elemento potenzialmente pericoloso.
Evidentemente, quel giorno, i suoi stupendi –perché ovviamente lui li trovava stupendi- capelli lo avevano immediatamente etichettato come ragazzo-sulla-buona-strada-per-diventare-problematico.
 
Punto sei del regolamento scolastico: E’ vietato recarsi a scuola con capigliature che potrebbero offendere il pubblico pudore.
 
E ovviamente, in quel covo di delinquenti, gli unici ad adottare pettinature… bizzarre erano, appunto, la peggio gente.
Ecco spiegato il motivo della punizione.
Strano a dirsi, ma quella era la prima volta che veniva sgridato per qualcosa. Fin ad allora era sempre stato bravo a nascondersi. Infondo che cosa c’era di furbo nel farsi punire per aver fatto il coglione in pubblico?
Chissà se i sensei sapevano che il loro grande capo se l’era filata.
Ma viste le circostanze, quell’ennesima giornata di reclusione forzata, avrebbe potuto prendere una piega interessante.
 
There's one thing they can't teach you is how to feel free
 

Breath

 

People said we couldn't play


«Ehi man!» lo salutò Takuma con una poderosa pacca sulla schiena. Il piccoletto barcollò sotto la potenza di quel colpo e per poco non cadde su Kyou e la sua chitarra.
«Ehi, cretinokun, perché hai cercato di lanciarmi un nano contro?!» sbraitò il ragazzo che per poco non era stato schiacciato –per quanto un ragazzo alto un metro e un fagiolo potesse nuocere ad un altro di un metro e settantasei-. «Naomi avrebbe potuto rovinarsi. R O V I N A R S I, capito?» scandì bene le parole mettendo in bella mostra la chitarra e illustrando anche i vari punti che si sarebbero potuti danneggiare.
«Che razza di nome è Naomi?!» sbottò Takuma.
«E’ un nome S T U P E N D O  -era un brutto (e fastidioso) vizio del chitarrista mettersi sempre a scandire le parole, neanche stesse parlando con un gruppo di cerebrolesi- , ma non è questo il punto. Tu mi hai tirato…»
«Io non ho tirato un bel niente!» si difese l’altro serrando i pugni.
«Ehi!» sbraitò Takanori, parecchio infastidito. «Ma dico io, vi sembro forse un oggetto? Una di quelle cose che si lanciano? Un pallone? Una lattina? O chessò io!» esplose iniziando a camminare avanti indietro nervosamente.
Che diritto avevano di trattare in quel modo il loro talentuoso batterista?
Ma proprio nessuno!
«Ehi, Taka…» lo chiamò Kyou, che pareva essersi calmato almeno un po’; anche Takuma non sembrava più sul punto di voler spaccare la faccia al chitarrista. Takanori non rispose, continuò a camminare avanti e indietro borbottando. Gli altri due lo fissava sconcertati con le sopracciglia aggrottate. Ormai potevano solo sperare che Yoshiro arrivasse presto; con le sue doti da mediatore avrebbe risolto la faccenda nella metà del tempo che loro due avrebbero impiegato per cercare di… vabbè, insomma, ci siamo capiti: avrebbe risolto tutto molto velocemente.
Infondo anche questo era uno dei tanti compiti di un leader, no?
Magari era un tizio un po’ inquietante, ma ci sapeva fare.
Nel frattempo, Takanori non accennava a volersi fermare; se fosse andato avanti così, avrebbe finito col consumare il pavimento.
«Cosa volete ora?!»
A spaventare i due ragazzi -rispettivamente:  bassista e chitarrista- non fu tanto il tono di voce del batterista, ma bensì la risposta arrivata a scoppio (molto) ritardato. Lo fissarono, più sbigottiti di prima.
Si era forse ammattito del tutto?
«Takanori, bei capelli» asserì una voce che non apparteneva a nessuno dei tre.
«Che ca… oh, Yoshiro!» il viso del piccoletto si illuminò improvvisamente alla vista del leader, che se ne stava beatamente appoggiato allo stipite di una porta. «Hai notato? Belli, non è vero?»; dove fosse finita la sua ira di poco fa, nessuno lo sapeva.
Il cantante annuì agitando la chioma di neri, lunghi e cotonati capelli.
I restanti due membri della band parevano un po’ turbati dall’accaduto, nonostante fossero anni che sopportavano il pessimo carattere di Takanori e la presenza piuttosto inquietante di Yoshiro.
Però a volte c’erano anche quei giorni dove filava tutto liscio e sembrava persino che quella band fosse composta da persona normali.
«Forza ragazzi. STARTO!» esclamò Kyou rompendo il silenzio che si era creato.
«Per favore, risparmiaci il tuo inglese» si lamentò Takuma mentre si sistemava la fascia del basso sulla spalla.
«Farò finta di non aver sentito»
La giornata era cominciata nel peggiore dei modi e di certo non poteva che migliorare, o no?
Takanori prese posto dietro la batteria, respirando lentamente e riempiendosi i polmoni di aria nuova e pulita. Così come l’ossigeno, la band gli era indispensabile per vivere; ogni giorno gli sembrava di affogare in un mare di inutili obblighi e divieti, ma quando era con quei tre tornava a respirare veramente.
Yoshiro già stringeva in mano il microfono.
I suoi piedi battevano un tempo immaginario fremendo d’impazienza.
Un altro respiro profondo.
Starto!
 
We like noise it's our choice
It's what we wanna do
We don't care about long hairs
I don't wear flares
 
[1] Film che Ruki ha citato nell’intervista del REAL READ
 
pon’s chat
 
Se siete arrivati fin qui, vi meritate un applauso!
Cavoli, non credo di essere mai stata così poco soddisfatta di una mia idea, davvero.
Ma anche se non mi convince, vorrei spiegarvi alcuni punti, spero di non annoiarvi *^*
Le lyrics che trovate all’inizio e al fondo di ogni titolo, sono dei Sex Pistols.
Perché? Vi chiederete voi.
Perché Ruki (sempre nella famosa intervista) dichiarò di aver ricevuto una forte influenza da loro e così ho deciso di inserire parti delle loro canzoni. E’ stato un lavoraccio aver dovuto leggere TUTTI i testi per trovare le parole giuste XD
 
Home
Qui ho voluto parlare un po’ dell’infanzia di Ruki e di come sono nati i suoi ‘famosi’ capelli verdi. Ovviamente mi sono inventata quasi tutto lol
Questa prima parte, in particolar modo, nella mia testa funzionava molto bene, ma scritta… ecco, non mi piace e__e
Ma amen.
In questo periodo sono così: non mi piace niente di ciò che scrivo.
 
Le lyrics all’inizio sono di Problems e quelle di fondo di Bodies.
 
Jail
Questo pezzo mi è venuto in mente quando Ruki parlava di quanto facesse schifo la sua scuola; io ho solo elaborato in modo personale ciò che ha detto. Dai, è stato divertente descrivere una scuola di delinquenti XDD
Questa parte già mi convince di più.
 
Le lyrics all’inizio e di fondo sono di Schools are prisons (titolo AZZECCATISSIMO lol Comunque giuro che prima ho scritto il pezzo, poi dopo ho trovato la canzone. Ero tutta esaltata quando ho visto che anche il titolo del brano combaciava con la storia XD)
 
Breath
Ho scelto Breath come titolo perché la band è il ‘respiro’ di Takanori; quei tre ragazzi sono la sua aria, la sua vita, il suo unico modo per sfogarsi.
Spero che si sia capito ò__ò
 
Le lyrics all’inizio sono di Great Rock 'N' Roll Swindle e quelle di fondo di Seventeen.
 
 
Avrei voluto scrivere un commento più decente, ma è davvero un periodaccio e non sono molto in vena di scrivere.
Comunque non mollerò di certo la fic, prometto!
 
Grazie mille a tutti ♥
Ci leggiamo al prossimo capitolo.
 
Un abbraccio,
pon ♥

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Capitolo 13
*** Green Hair pt. 2 ***


pon’s notes
Piccola premessa prima di iniziare: il fatto che questo secondo capitolo sia narrato in prima persone ( a differenza del primo che era in terza), non è un errore, ma una mia scelta: in questo capitolo volevo far comprendere meglio le emozioni di Ruki e non c’era modo migliore se non ‘impersonarmi’ in lui stesso.
Ci leggiamo al fondo!
 
Green Hair
 
[pt. 2]
 

Life… less or ful?

Even how I lived, the gods don't approve, I think
Raised allowing all of me to be coiled around by shadow
 
Non ero mai stato un figlio modello, né uno studente modello, né un cittadino modello. Questo lo sapevo bene.
Probabilmente l’unica cosa in cui riuscivo bene, era non ascoltare mai ciò che mi dicevano i miei genitori o, più in generale, tutti gli altri eccetto me.
Facevo ciò che mi andava di fare guidato dal mio umore lunatico e lo facevo con leggerezza, senza dar peso alle possibili conseguenze. Perché uno, a sedici anni, al futuro non ci pensa ed è facile giocare a fare i padroni del mondo, quando per ‘mondo’ si intende il proprio spazio vitale.
Eppure non avrei mai potuto immaginare che le mie azioni avrebbero davvero avuto delle conseguenze. No, non si trattava di una punizione di una, due, tre, quattro settimane o simili, ormai quello faceva quasi parte della mia quotidianità.
 
«Tu non sei più nostro figlio, Takanari. Non ti consideriamo più come tale, sappilo»
 
Penso che quando le figure autoritarie, contro le quali si ha combattuto per tutta la vita, smettono improvvisamente di imporci obblighi e divieti, ci si ritrova spiazzati. Persi e allibiti, oserei dire.
E ora?
In quel momento non seppi come reagire e, a dire il vero, non feci nulla. Annuii (un gesto che poche volte avevo compiuto davanti ai miei genitori) e percorsi i pochi metri che mi separavano da camera mia. Avrei potuto dire molte cose, protestare, provocarli, ma non feci niente di tutto questo. Il motivo non lo sapevo bene nemmeno io.
E ora? Pensai.
Non che ci fosse molto da fare, anche perché non sapevo -per una volta- cosa i miei genitori volevano che facessi. Dovevo forse fare le valige ed andarmene? No, sarebbe stato impossibile dato che ero ancora minorenne. Dovevo anche io disconoscerli come genitori?
Per un breve istante vacillai, non sapevo cosa fare.
Adesso cos’ero per loro?
Ancora Takanori? Un corpo senza nome e senza volto? Aria? Un oggetto, come il vaso che c’era nell’ingresso?
Chi ero io?
Ero vivo o morto per loro?
 

Was a mass of nothing 
I wasn't feeling the fever 
I was feeling nothing...

The end

In this dream that I'm tired of dreaming. Is there no tomorrow?
 
Come tutto era iniziato, così era finito.
Se anche solo per un secondo avevo sperato in qualcosa di diverso, ero stato un deficiente.
Infondo si sa: niente va come vorremmo che andasse. Non sarà una regola scritta, ma è così che gira il mondo, fidatevi.
In quel periodo cominciai a credere che ci fosse un Dio che –questo potrebbe risultare ironico- stava facendo di tutto per rendere la mia vita un inferno. Ma se almeno si fosse degnato di farmi vivere in un inferno caldo; invece mi ritrovavo circondato dal gelo e dal buio, senza potermi allontanare da quella situazione.
Credo che quell’inferno si potesse chiamare ‘presente’.
Avevo sempre vissuto con la mente proiettata al futuro, vivendo ogni giorno in attesa di quello dopo e sperando che fosse almeno un po’ migliore.
Quando avevo visto tutte le mie speranza future crollare davanti ai miei occhi, ero rimasto inesorabilmente intrappolato nel ‘presente’ dal quale avevo sempre cercato di fuggire e avevano iniziato ad avere paura di cosa sarebbe potuto accadere il giorno successivo.
L’avevo capito quando tutti e tre ci eravamo seduti in cerchio e ci eravamo guardati, senza sapere assolutamente cosa fare o cosa dire in una situazione del genere. Non che ci fosse poi molto da dire, infondo.
Yoshiro se n’era andato, aveva impacchettato le sue cose e aveva preso il primo volo per Kyoto. Non per scelta sua, ma era comunque andata così. E noi tre sfigati come avremmo potuto tirare avanti una band senza di lui, senza il leadersama?
In nessun modo, infatti.
«E’ finita, mi sa» esalò Kyou con un tono serio che nessuno gli aveva mai sentito usare in tutti quegli anni; e se Kyou era serio, allora la situazione era problematica.
Takuma annuiva silenziosamente con l’aria di uno che ormai si era rassegnato all’idea già da tempo. Io facevo picchiettare le bacchette sul pavimento, nella speranza di scacciare la voglia che avevo di spaccare ogni cosa, anche se ormai la sala prove era completamente vuota, sgombra dagli strumenti e dalle attrezzature che l’avevano occupata fino alla settimana prima. Sul muro erano ancora visibili i segni lasciati dalle puntine usate per attaccare poster dei Sex Pistols, dei Luna Sea e degli X-Japan. Forse sperare di raggiungere la loro fama era stato troppo per noi. Ci eravamo avvicinati troppo al sole e le nostre ali di cera si erano sciolte; eravamo stati un po’ come degli Icaro moderni.
E ora? Fu, probabilmente, il nostro pensiero comune.
Era la fine, certo.
I miei occhi vagavano per la stanza quando incontrarono una vecchia scritta fatta sul muro con un pennarello: era parte di una canzone, forse una delle prime che avevamo composto. Per tutto quel tempo era rimasta lì e quasi avevo finito col dimenticarmene, eppure c’era ancora e ci sarebbe rimasta anche quando, quel giorno, saremmo usciti dalla sala prove per l’ultima volta.
Infondo, come quella scritta, anche tutti i nostri ricordi sarebbero rimasti impressi nella nostra mente, anche se, col tempo, avremmo potuto dimenticarcene.

Now you can close your eyes
Leave all the world behind until tomorrow
The dream is like a song
It leads you on and on
Not knowing how or why
You realize the feeling is forever
May steal your dreams away
You and the song will always stay together

Hana

Shaking, shaking, my heart is left not believing in anything.
The one that blossomed: My Rosy Heart.
Shaking, shaking, in this world, left also unable to love.
Like petals so colorful that they bring on sadness.

Era da parecchio che non mi soffermavo ad osservare la fioritura dei ciliegi; erano sempre stati così rosa? E c’era sempre stata così tanta gente?
Alzai lo sguardo mentre sopra la mia testa svolazzava qualche petalo solitario; presto o tardi anche tutti gli altri fiori, che ancora si trovavano sugli alberi, sarebbero volati via e in quel luogo non ci sarebbe più stato nulla di speciale da vedere. Infondo quelli erano solo alberi, dentro i quali faceva finta di scorrere la vita. La linfa era un po’ come il sangue: scorreva, su è giù per le venature dell’albero, ma con ciò non significava che fosse veramente vivo, che in lui scorresse qualcos’altro oltre ad un liquido appiccicoso.
Lo stesso valeva per me.
Non che nelle mie vene avessi la linfa, ma il principio era lo stesso: chi ero io? Ero vivo o morto?
Avrei potuto tirare le cuoia lì, in quel preciso istante, ma probabilmente nessuno ne sarebbe rimasto impressionato più di tanto; forse mi avrebbero dedicato un piccolo memorial o qualcosa del genere, ma la gente si sarebbe dimenticata presto di me, infondo i suicidi giovanili, nel nostro Paese, non erano una poi così grande novità. Comunque ero abbastanza intelligente per non voler porre fine alla mia vita; infondo chi erano coloro che decidevano di impiccarsi, buttarsi giù da un ponte, spararsi e robe varie? I depressi, chi altri sennò?
E io di certo non lo ero, avevo semplicemente un problema col mondo e il mondo pareva avercelo con me. No, in conclusione non mi sarei suicidato, ma cos’avrei dovuto fare?
Non lo sapevo assolutamente e non c’era nessun indizio che potesse indicarmelo.
«Ehi, Midorichan!»
Non avevo alcuna ragione per la quale avrei dovuto alzare lo sguardo in direzione di quella voce, o più che ‘voce’ avrei dovuto dire ‘schiamazzo irritante’.
«Midorichan!»
Alzai il capo e davanti ai miei occhi si presentò un ragazzo la cui testa sembrava quasi sparire sotto la chioma ossigenata e disordinata. Stava chiamando me?
Puntai l’indice nella mia direzione, ponendogli una domanda silenziosa. Subito non sembrò capire e mi squadrò per un breve istante.
«Sarei io Midorichan? Ti sembro forse una ragazza? [1]» continuavo a tenere il dito puntato verso di me e lui continuava a guardarmi da sotto il ciuffo biondo.
«Non vedo altre persone coi capelli verdi» disse facendo un cenno in direzione della mia testa. «Il vostro ultimo live a Shinjuku è stato sensazionale» disse cambiando completamente argomento e lasciandomi decisamente un po’ spiazzato tanta era l’euforia che aveva nella voce.
Fissai quei suoi occhi scuri che non avevano smesso, neanche per un secondo, di guardarmi.
«Sono così interessante?» domandai inarcando il sopracciglio e ignorando i vari commenti sul nostro ultimo live.
«Eh?» sembrò sorpreso.
«Mi stai fissando..» precisai sospirando.
«Ah.. scusa!» si affrettò a dire, ma il suo sguardo si spostò appena. «Posso farti una domanda?» chiese cambiando nuovamente discorso.
«Fa come ti pare» feci spallucce, ma quella mia reazione, tutt’altro che entusiasta, sembrò renderlo felice.
Chi cavolo era quel tipo?
E che diavolo voleva da me?
Per ora di lui conoscevo solo i suoi capelli assurdi, i suoi occhi neri e quel sorriso talmente solare da mettermi a disagio, se confrontato con la mia espressione lugubre.
 
 
In quel momento non potevo –ovviamente- saperlo, ma quel ragazzo sarebbe stato l’indizio che cercavo, quell’indizio che mi avrebbe guidato, attraverso il presente, in direzione di un futuro che non credevo di avere più.
 
But still I search for light
I am the trigger, I choose my final way
Whether I bloom or fall, is up to me
I am the trigger
 
 

Something has to end,
somenthing has to start.

 
[1] Midori è un nome femminile e significa ‘verde’.
 
pon’s chat
Bah.
Non so che dire e vorrei andarmi a sotterrare per svariati motivi; in primo luogo perché questo capitolo NON mi piace quasi per niente, ma non saprei assolutamente dove modificarlo e come. Vabbè, lasciamo perdere.
Questo è davvero un periodo davvero di merda per colpa di cose varie tra le quali la scuola che, per due dannatissime settimane, mi ha tenuta impegnata con verifiche ogni giorno <<” Ergo non ho avuto quasi tempo per scrivere..
Perciò vi chiedo immensamente scusa per il mio enorme ritardo. Purtroppo non posso garantirvi che non succederà più perché non prevedo il futuro. Quindi, per favore, perdonatemi in anticipo ç_____ç
Ma ora passiamo al capitolo che, tra l’altro, è l’ultimo di questa terza storia (eh, lo so: è corta).
Nella mia testa funzionava, ma in pratica fa schifo. Amen.
Questa volta le lyrics che ho usato sono dei Luna Sea ed è stato un lavoraccio leggersi tutte le loro canzoni, ma ne è valsa la pena perché sono splendide ♥E, tra l’altro, sembravano adattarsi perfettamente alla storia!
Bien, ora dedicherò una piccola parte ai vari titoli.
 
Life… less or ful?
Questo titolo, grammaticalmente parlando, non ha molto senso, ma piace un sacco. Si riferisce al fatto che Takanori non sa più chi è se è ‘vivo’ o ‘morto’. Spero si sia capitolo *gratt*
Questa parte è quella di cui sono un po’ più soddisfatta, credo.
 
Le lyrics all’inizio sono di Slave e quelle di fondo di Feel.
 
The End
Beh, il nome del titolo vuole essere anche un riferimento alla canzone dei Gazette, ma questa è una cosa irrilevante lol In effetti, non che sia poi molto da dire o forse c’è, ma sono io che non cosa dire.
Boh.
 
Le lyrics all’inizio sono di In My Dream e quelle di fondo di Forever and Ever.
 
Hana
Hana significa fiore ed è diventato il titolo un po’ per caso lol
Comunque spero si sia capito che quel giorno è lo stesso di quando anche Reita, Uruha e Aoi sono andati a vedere l’Hanami *A*””” Spero di sì perché altrimenti vuol dire che sarei proprio una pessima scrittrice se non riuscissi neanche a far capire anche una così semplice.
Ma sto divagando <<”
 
Le lyrics sono entrambe di Rosier.
 
Bene.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto almeno un po’ *^* Fatemelo sapere con un commentino che ho tanto bisogno di aumentare un po’ la mia autostima *depress*
Purtroppo non posso darvi indizi sulla prossima storia perché sto lavorando a due versioni e non so ancora quale sceglierò delle due lol
 
A presto (spero).
 
Grazie mille a tutti!
 
Un abbraccio,
pon ♥

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Capitolo 14
*** Pioggia [Aoi] ***


Pioggia
 
Io sono Yuu.
Io sono Aoi.
E ne sono perfettamente cosciente… o forse no?
Beh, per certo posso dire di sapere di essere un essere umano, sono vivo, ho cuore, un cervello, respiro, dormo, parlo e –per la gioia di pochi- canto anche. Ho dei sentimenti, dei sogni, dei desideri, delle paure. Sì, di questo sono certo.
Ma allora perché, allo stesso tempo, non sono nessuno?
 
In famiglia, prima di me, ci sono sempre stati il mio oniisan e la mia oneesan e io, da bravo ultimo arrivato, mi ero preso ciò che restava, cercando di ritagliarmi un mio spazio vitale. Tuttavia questo si rivelò sin da subito un compito davvero arduo; per chi non lo sarebbe stato, ritrovandosi a confronto con una sorella e un fratello pieni di doti –se paragonate alle miei- eccezionali? Sembrava proprio che tutto il gene del talento ( sempre se esiste) se lo fossero spartiti tra di loro, senza pensare ci sarei stato anche io.
Non ricordo che nella nostra casa ci siano mai state pressioni da parte dei miei genitori per spronarmi a battere i miei fratelli, né mai ci paragonarono l’uno all’altro, ma io non potevo far altro che patire l’abisso che c’era tra di noi, nonostante quella mia sofferenza non avesse alcun fondamento logico. O meglio: gli altri ritenevano che la mia frustrazione fosse insensata, io no.
Ma loro non capivano, loro non si trovavano nella mia stessa situazione. Non potevano comprendermi.
Per anni fu questa la situazione in cui mi ritrovai a vivere e, col tempo, essa finì col condizionare la mia stessa vita . Nonostante non ci fosse mai stata una dichiarazione ufficiale, era guerra aperta tra me e i miei fratelli. Eppure io sembravo l’unico determinato a combatterla.
Il mio desiderio di fare sempre di più e farlo sempre meglio mi portò a non ottenere nulla, solo una frustrazione ulteriore. Ogni volta che credevo di aver raggiunto il mio obbiettivo, me lo vedevo portar via da sotto gli occhi. E sembrava anche che nessuno dei due lo facesse, come dire, apposta, che  provasse gioia nel vedermi sconfitto nuovamente. O forse neanche se ne rendevano conto; dall’alto del loro podio d’onore non si accorgevano del fratellino che continuavano ad umiliare con tutti i loro innumerevoli successi.
Quella in cui vivevo non fu mai veramente casa mia e quella non fu mai veramente la mia famiglia.
Perché in una famiglia normale ed ordinaria –cosa che noi non eravamo- non ci sarebbero dovuti essere tali sentimenti di competizione, rabbia e gelosia. Una famiglia normale sarebbe andata ad assistere all’Hanami, portando con sé i bento preparati con cura e amore, festeggiato il capodanno mangiando l’ozoni [1] e partecipato ai festival estivi  per poi assistere allo spettacolo di fuochi d’artificio.
Ho vaghi ricordi di quando –ancora molto piccolo- prendevo parte a queste uscite familiari, ma ben presto i miei fratelli smisero di venire per via dello studio o per via di uno o l’altro impegno. Così si smise di dare importanza a questo genere di cose.
Dopo il trasloco le cose, se possibile,   andarono ancora peggio; avevamo cambiato casa per dare la possibilità ai miei fratelli –ovviamente si parlava sempre di loro- di ‘espandere i loro orizzonti scolastici’.
E quando tutti e due ebbero preso il loro diploma del liceo e furono poi entrati all’università, si può dire che i miei genitori ritennero di aver portato a termine il loro scopo nella vita. Questa sensazione di essere l’ultima ruota del carro e di non essere preso in considerazione da nessuno, mi seguì come un’ombra per anni, per tutta la durata della mia –sfortunata- carriera scolastica.
Quando entrai al liceo, sapevo bene che nessuno si sarebbe aspettato niente da me, ma, d'altronde, era mai stato il contrario?
E così, a quel punto della mia vita, mi ritrovai a pensare: ma allora perché andare avanti? Per chi lo sto facendo? Perché continuare ad impegnarsi per poi dimostrare solamente di essere inferiore?
Passai ore e ore a cercare delle motivazioni che mi spronassero ad andare avanti, ma, a dire il vero, non ce n’erano. Ciò su cui avevo basato al mia vita fino a quel momento non era altro che una stupida gelosia infantile.
Rinunciai a tutto.
E così smisi di cercare di essere qualcuno che non ero.
Ma allora, chi ero io veramente?
Non ho idea di quanto quella mia decisione giovò alla mia vita, ma, conoscendomi, anche se potessi tornare indietro nel tempo, rifarei la stessa scelta. Fatto sta che però le cose non cambiarono o, comunque, cambiarono molto poco: ancora non riuscivo a trovare chi davvero potessi apprezzarmi per come ero, forse perché, effettivamente, io non ero ancora io.
Potrà essere terribile ed ingiusto quanto volete, ma quando si è un liceale –per sopravvivere- bisogna sapersi adattare in qualche modo e con qualsiasi mezzo e sperare che quei tre anni si sbrighino a giungere al termine.
Io, effettivamente, ci ero riuscito e la cosa sembrava anche funzionare piuttosto bene. Avevo, tuttavia, abbandonato temporaneamente la ricerca del ‘vero me’ –a dirla così sembra io stia parlando della caccia al Sacro Graal-, chiudendola in uno dei cassetti dove ero solito collezionare i miei (numerosi) insuccessi. Se, anche solo per un istante, mi fossi fermato a pensare avrei di certo capito di essere, come adolescente, un fallimento su tutti i fronti. Eppure –e di questo sono certo- nessuno notò mai quanto fosse falsa la vita che conducevo lì a scuola; ero stato davvero bravo a trovare un modo per sopravvivere in quell’inferno.
A scuola ero il re, ero popolare e ribelle, ero rispettato da tutti e non mi importava di niente e di nessuno. Insomma, ero passato da un eccesso all’altro.
Anche se ero consapevole di stare solo facendo finta, col tempo mi ci abituai, o meglio: mi ci dovetti abituare per forza di cose e alla fine arrivai quasi a credere di essere sempre stato quel tipo di persona.
Finito il liceo potei finalmente sbarazzarmi di quell’identità che non mi apparteneva, ma fu più difficile di quanto mi sarei potuto aspettare: mi ritrovai come nudo e senza alcuna protezione, alla mercé del mondo esterno, molto più grande e pericoloso della realtà scolastica a cui ero abituato.
L’unica certezza alla quale potevo aggrapparmi era il progetto che avevo deciso di portare avanti, ma, la mia, era una certezza davvero debole. Non ero solo, ma forse era proprio quello a farmi vacillare e dubitare; infondo vivevo in una situazione altamente precaria: i ragazzi avrebbero potuto sbarazzarsi di me senza fin troppi problemi, immaginavo. Effettivamente non mi era mai sembrato di essere poi così bene accetto: con grande insistenza del primo chitarrista mi era stato offerto un posto nel gruppo, ma il bassista sin da subito non mi era parso entusiasta della mia presenza. Ed io, in un certo senso, non potevo che dargli ragione: le mia abilità di chitarrista non erano poi così eccezionali se paragonate a quelle del nostro primo chitarrista. No, non ero geloso di lui, ma infuriato con me stesso per quanto fossi inutile ed incapace. Ammiravo davvero quel ragazzo di due anni più piccolo di me (anche se questo non ebbi mai l’occasione, o il coraggio –vedetela un po’ come vi pare- di dirglielo) e mi disprezzavo con altrettanto fervore.
Alla fine, l’unica cosa che mi rimase da fare, fu essere nuovamente uno Yuu che non ero.
 

«Yuu»
«Yucchan!»
La voce di una ragazza, che a tratti ancora presentava una tonalità infantile, mi chiamava dolcemente. Feci una corsa rapidissima sotto la pioggia per raggiungere la mia oneesan che mi aspettava poco fuori del cancello sotto un grande ombrello. Mi rifugiai all’asciutto, al suo fianco. Lei mi sorrise e ci incamminammo verso casa saltando nelle pozzanghere con gli stivali da pioggia.

 

«Shiroyamakun!» esclamò una voce al mio fianco sovrastando il rumore della pioggia che batteva con insistenza sulle finestre.
«Eh?!» sobbalzai.
«Smettila di distrarti o non riuscirò mai a capire come diamine fare questo passaggio» mi rimproverò puntando il dito sugli spartiti.
«Ancora non riesco a capire come tu, proprio tu, non riesca a suonare questo pezzo» sospirai guardandolo; lui era sempre così bravo, com’era possibile che mi stesso chiedendo aiuto?
«Non ci riesco, ok? Tu invece sì e quindi mi sembra più che ovvio che tu debba spiegarmelo» esclamò con una voce e con una faccia talmente serie da risultare esilaranti. Vedendo un sorriso farsi largo sul mio volto, la sua espressione mutò trasformandosi in una strana smorfia che, almeno secondo lui, doveva essere offesa.
«Forza, forza! Continuiamo» dissi sorridendo ancora più divertito dalla situazione. Gli lanciai una breve occhiata e la sua espressione sembrò essersi raddolcita almeno un pochino; posai una mano sul suo ginocchio e gli sorrisi. Lui si voltò e mi lanciò un’occhiata ancora un po’ risentita, ma poi finalmente si risistemò la chitarra sulle ginocchia e raddrizzò gli spartiti. «Ne, Shiroyamakun, ti scoccia dovermi spiegare questa cosa?» mi domandò con voce seria, ma decisamente diversa da quella di prima. «Eh?! Ma che ti salta in mente? Sono davvero felice di poter essere utile, almeno ogni tanto»
«Sei un cretino» sentenziò.
«Come prego?» mormorai sbigottito.
«La tua sola presenza è importante, ricordatelo. E non provare mai più a sminuire il lavoro che fai»
Intanto la pioggia aveva smesso di cadere.
 
«Aoi»
«Aoiii~»
«AOI, cazzo!»
«Aoikun?»
Quattro distinte voci si insinuarono nella mia testa, fastidiose come il ronzio di una mosca.
Lentamente aprii gli occhi e mi ritrovai circondato da quattro jrocker in nero.
«Eh?» mormorai fissandoli un po’ stranito.
«Dimmi, ti capita spesso di deconcentrarti in questo modo? Non è che hai qualche problema? Intendo: qualcosa di serio?» domandò Reita fissandomi ancora da più vicino.
«Eeh?!» fu l’unica cosa che riuscii a dire.
«Era parecchio che non succedeva, vero Yuu?» Kouyou mi sorrise divertito.
Li fissai tutti uno ad uno, cercando di ricordare come avessi fatto a perdere la concentrazione in quel modo e soprattutto per quanto tempo fossi rimasto imbambolato a far nulla.
«Immagino mi debba scusare» mormorai giocherellando distrattamente con le corde della chitarra che tenevo in mano.
«Certo che devi!» ed ecco che anche Ruki –ovviamente- aveva qualcosa da dire, «se ti addormenti in studio questo album lo finiremo l’anno prossimo e magari sarà la volta buona che il mondo finisce davvero»
«Non stavo dormendo e smettila di dire cazzate, per piacere» bofonchiai.
«Guarda che Ruki ha ragione» disse Kouyou con voce calma. Lo fissai sbigottito: stava dando ragione a lui invece che a me?! «Cosa?!» esclamai con un tono di voce esageratamente acuto.
In quell’istante il mio sguardo, prima ben fisso su Kouyou, si spostò –come attratto da chissà quale strana forza- verso la finestra e scorsi due bambini che si divertivano a saltellare nelle pozzanghere lasciate dal temporale appena passato. Sorrisi debolmente vedendomi rispecchiato in essi e nel ricordare la mia infanzia. Forse un osservatore esterno avrebbe potuto benissimo dire che quel periodo della mia vita non era stato così terribile come io invece lo avevo vissuto in prima persona.
Poi tornai a guardare verso il moro, ancora, però, un po’ risentito nei suoi confronti.
«Certo, ha ragione nel dire che non ci sei tu, qui noi non possiamo andare avanti» sorrise e improvvisamente fu come se alla sua immagine si sovrapponesse quella di dieci anni prima, quella del ragazzo che mi aveva rimproverato per essermi sottovalutato e che infuse in me più coraggio di quanto si possa pensare.
E per un attimo anche i miei altri bandmates sembrano essersi ringiovaniti ed essere tornati ad avere quelle facce da ragazzini scapestrati con le quali li avevo conosciuti. E fu come essere di nuovo tutti insieme nel nostro vecchio studio di registrazione, timorosi che mai nessuno ci avrebbe presi in considerazione. Ma, a dire la verità, anche se così fosse stato, forse non me ne sarei dispiaciuto poi così tanto perché alla fine, anche senza il successo e tutto il resto, mi sarebbero sempre riamasti loro, quei ragazzi che erano diventati una seconda famiglia. E un punto di riferimento ben saldo nella mia vita.
Così come erano apparse, quelle ombre del passato svanirono e davanti a me rividi i miei compagni di adesso nello studio di registrazione illuminato dalla debole luce del sole che sbucava dalle nuvole.
Alla fine ce l’avevamo fatta: eravamo diventati chi volevamo essere. E l’avevamo fatto insieme; tante erano state le difficoltà e altrettante sarebbero venute in seguito, ma le avremo superate.

 
E ancora oggi mi accompagna questa certezza, ma insieme a tante altre: la certezza di avere una famiglia (di sangue e non) sempre pronta a sostenermi, la certezza di amare immensamente e profondamente ed essere ricambiato allo stesso modo, la certezza di avere dei sogni, dei pregi e anche tanti difetti, la certezza di stare facendo ciò che amo, ma soprattutto la certezza di essere Yuu, di essere Aoi e di essere ciò che sono.
 

I am who I am, no matter what.

 
 
[1] Tradizionale zuppa di capodanno.
 
pons chat
No no no. Non sono morta né ho deciso di abbandonare questa fic, questo non potrei ami farlo, assolutamente! State tranquilli che non succederà perché sono troppo legata e questa storia per lasciarla incompleta.
Ma ora basta coi sentimentalismi!
Sì, la scuola ha avuto un ruolo chiave nel mio ritardi immane, ma ad essa si sono sommati tanti altri fattori, tra cui  la poca o quasi assenti ispirazione, ma anche la poca voglia di scrivere che, aimè, si fa sentire spesso. Ora come ora spero questo non ricapiti più, ma ho i miei seri seri dubbi.
Scusate, davvero.
Ma passando alla storia~
Purtroppo è corta, lo so. Ma, sin da subito, era stata pensata come oneshot e allungarla non avrebbe avuto poi molto senso. Devo ammettere che l’idea mi piace molto, ma è la realizzazione che mi lascia sempre a desiderare. Nella mia testa risultava chiarissima, quasi come se stessi guardando un film, ma nello scritto… mi sembra pesante e forzata.
Bah.
Spero che vi sia piaciuta, almeno un pochino. Mi auguro soprattutto che la cara Blue Swallow (ecchecavolo, mi ero da poco abituata al tuo nuovo nick e tu lo cambi ;O;), grande fan del vecchio Aoisan ♥, l’abbia apprezzata.
Poi i miei più sentiti ringraziamenti vanno a Denki Garl che si è fatta un mazzo tanto a recensire tutti gli altri capitoli. Grazie, grazie mille. Anche per avermi fatto notare i miei errori!
E poi grazie a Undertaker che è, ormai da un po’, una fan fedele.
E grazie mille a tutti quelli che mi seguono e basta, anche senza commentare.
 
Vi aspetto nelle recensioni, spero.

Un abbraccio,
pon ♥

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Capitolo 15
*** Sticks [Kai] ***


Sticks
 
Tu tum
 
Il cuore batteva a ritmo della batteria.
O era la batteria a battere a ritmo del cuore?
 
Tu tum
 
Le bacchette si muovevano come dotate di vita propria e  da esse scaturiva un ritmo travolgente, quasi alienante. Senza mai fermarsi, senza mai perdere un colpo, percuotevano la pelle dei tamburi e facevano tintinnare i piatti.
Tutto era musica, in quel momento.
Anche il batterista sembrava essere parte dello strumento stesso.
O  era forse lo strumento a fare parte di lui?
Tutto era ritmo, in quell’istante.
Instancabile, il musicista continuava a suonare, una canzone dopo l’altra.
La folla era trascinata dalla musica.
O era la musica ad essere trascinata dalla folla?
Anche l’aria palpitava come i cuori di tutti i presenti, compresi quelli dei musicisti che erano sul palco a suonare.
Per l’ultima volta.
 
«Voglio lui» mormorò un piccolo ragazzo dai capelli neri. «Voglio che sia lui il nostro batterista»
Il ragazzo biondo platino al suo fianco sorrise e annuì.
 
Dalla posizione del pubblico quel concerto, se possibile, era ancora più sensazionale.
 
Eppure non tutto era come appariva: non c’era gioia, non c’era passione sui volti dei musicisti. D’altra parte, come ci si può sentire totalmente coinvolti quando si sa che quello sarà l’ ultimo giorno come band?
E dopo tutti a casa, a far finta di essere persone normali. D’altra parte le alternative non erano poi molte e, in ogni caso, quella situazione era inevitabile e non sarebbe cambiata. Sarà scontato da ricordare, ma fa sempre bene ripetere le ‘lezioni di vita’: per quanto uno possa dispiacersi, disperarsi, pentirsi delle proprie azioni, di certo il mondo non tornerà indietro per noi. Non metterà la retromarcia per darci la possibilità di non commettere quella determinata azione. Ma scommetto che, anche se così fosse, tutti sarebbero capaci di ripetere lo stesso errore.
 
E mentre i musicisti lasciavano il palco, quel senso di vuoto ancora li pervadeva e, si potrebbe dire, era diventato ancora più grande, divorandoli dall’interno e rendendoli poco più che una scatola vuota. Ma per quanto ne fossero tutti dispiaciuti, non uno si fece avanti per dire che quella non era la giusto soluzione, dopo tutto, e che non sarebbe dovuta finire così.
Ma così era finita, dopo tutto.
 
Era tutto buio e calmo, come se la sua mente si trovasse in un deserto di notte: non c’erano particolari pensieri, solo qualche piccola parte di essi che si spostava qua e là come una piccola palla di spine. In quel momento non era né calmo, né agitato.
Improvvisamente quello strano stallo mentale venne interrotto dal suono secco delle dita che picchiettano contro il legno della porta e una tenue luce si insinuò nella sua mente, come un pallido sole che sorge. Tuttavia rimase ancora qualche istante con gli occhi chiusi, cercando di recuperare gli ultimi lembi di quella sensazione che via via scemava. Una parte di sé maledì chiunque fosse entrato. Inoltre l’essere entrato implicava di certo il voler parlare con lui, cosa della quale avrebbe fatto decisamente a meno. Anzi, effettivamente non aveva voglia di parlare proprio con nessuno.
Lentamente, come se nulla fosse, si alzò dalla sedia su cui era seduto e uscì, senza curarsi minimamente di colui che era entrato.
 
Per essere ancora gennaio non faceva particolarmente freddo, ma l’inverno si faceva sentire in altri modi: il sole spariva dietro l’orizzonte sempre fin troppo presto e tardava sempre a riapparire. Anche ora mancavano ancora diverse ore all’alba e, di conseguenza, alla partenza del primo treno.
Meditò qualche istante su quanto fosse in vena di attraversare Tokyo a piedi o in alternativa andare alla stazione e aspettare.
Tuttavia aspettare implicava varie altre cose, come pensare.
E pensare era la cosa peggiore che potesse fare in un momento del genere.
Guardò in direzione della strada e sospirò, ma non si mosse. Alle sue spalle aveva sentito dei passi avvicinarsi; subito aveva pensato ad un passante solitario, ma poi quei passi si erano fatti sempre più vicini, sempre più vicini. Qualcuno tossicchiò debolmente, ma Yutaka non si voltò e, senza esitare un istante di più, si incamminò. «Aspetta!» osò finalmente dire il suo osservatore misterioso. Yutaka rallentò, ma non diede l’impressione di volersi fermare o di aver anche solo sentito ciò che l’altro aveva detto. Ma fu costretto a fare entrambe le cose quando il suo osservatore lo trattenne per un braccio. Questa volta di girò e si staccò dall’altro, che lo fissò con occhi sgranati per la sorpresa di come e di quanto in fretta avesse reagito. Yutaka di ritrovò davanti a un ragazzo dai capelli neri che lo guardava dal basso della sua scarsa statura.
Poteva avere sì e no sedici anni, pensò [1].
Preferì non dire nulla, ma sembrava che quel silenzio mettesse un po’ in difficoltà il ragazzino che giocherellava con un foglietto che stringeva tra le mani. Tuttavia il nervosismo che il suo corpo dimostrava non si rifletteva nei suoi occhi, che fissavano Yutaka con grande risolutezza tanto da portarlo a chiedersi se i sedicenni di allora avessero tutti uno sguardo così maturo.
«Mi chiamo Matsumoto Takanori» disse e mise tra le mani dell’altro il foglietto che aveva tenuto stretto fin’ora e che Yutaka constatò essere un biglietto da visita. Non era di certo uno di quelli belli, professionali e plastificati, ma sembrava essere proprio un biglietto da visita. Su di esso erano riportati il nome, un numero di telefono e un secondo nome scritto in katakana.
«Gazetto?» domandò Yutaka leggendo quella parola senza capirne il significato. «Sono un vocalist. Quello è il nome della mia band» rispose semplicemente l’altro. Entrambi si guardarono  per qualche istante senza dire nulla poi Matsumoto fece per parlare, ma Yutaka lo bloccò con un gesto della mano. Aveva perfettamente capito dove sarebbe andato a parare e la risposta risuonava già chiara e nitida nella sua testa: no. «So già cosa stai per dire. Non mi interessa» disse con un tono di voce che pareva quasi sprezzante.  E con l’intenzione di chiudere lì il discorso si voltò nuovamente e si allontanò come se non ci fosse mai stato nessuno lì con lui.
Maledì quel ragazzino. Ma soprattutto maledì quella sua voglia di vivere che lui sembrava aver perso. Sapeva bene che non avrebbe mai trovato il coraggio di formare una nuova band nonostante sapesse altrettanto bene che lui, senza la musica, non era nulla. Ficcò maldestramente il biglietto da visita in tasca cercando di dimenticarsene.
 
Due ore dopo il buio regnava ancora sovrano e il sole non sembrava voler dare alcun segno di farsi vedere. Per le strade si vedevano solo più poche persone reduci di una bevuta al bar o di una notte di lavoro. Yutaka li osservava e li invidiava, tutti; era certo che tutti avessero un qualche scopo nella vita, non come lui. Non aveva nemmeno idea di cosa sarebbe successo quando il sole sarebbe sorto. E avrebbe preferito non saperlo, perché ormai ogni cambiato gli pareva in peggio.
 
L’appartamento era scuro e non gli era mai parso così vuoto in tutta la sua vita nonostante ci vivesse ormai da anni. Tutti gli oggetti che vi avevano accumulato sembravano aver improvvisamente perso di significato e non gli sarebbe importato più nulla se qualcuno li avesse buttati. Si guardò un’ultima volta attorno senza trovare nulla che lo legasse ancora a quel posto o qualcosa per cui valesse la pena rimanervi. Poi uscì.
 
Febbraio ormai era iniziato e con esso era arrivato un pessimo tempo, quel genere di tempo che faceva venire voglia di rintanarsi in casa e non fare assolutamente nulla se non bere litri e litri di tè bollente. Eppure Yutaka si trovava fuori, avvolto dal gelo di Tokyo. Fosse stato per lui non avrebbe messo neanche un guanto fuori di casa, ma le circostanze lo obbligavano.
Aveva trascorso un mese a casa della madre, tornando nella sua città di origine ed ora era di nuovo a Tokyo per occuparsi dell’appartamento che aveva così improvvisamente abbandonato. Se avesse potuto, l’avrebbe lasciato così com’era, ma obbiettivamente non era possibile e prima avesse parlato col padrone di casa prima se ne sarebbe potuto andare via per sempre, tagliando anche l’ultimo legame con quel luogo.
 
L’appartamento era esattamente come l’aveva lasciato, solo leggermente più polveroso. Giusto una cosa non ricordava di averla lasciata lì: il suo bel giubbotto nero che aveva ormai dato per disperso. Evidentemente non l’aveva preso quando era uscito quella sera. Dopo essersi sfilato quello che già indossava e averlo gettato sul divano con poca cura –non è che gli piacesse particolarmente- indossò l’altro, come a controllare che fosse proprio quello giusto e che non fosse cambiato.
 
Se ne stava seduto in un bar, tenendo il tempo di una canzone che passava in radio col piede. Il padrone di casa era rimasto bloccato in ufficio e lo aveva avvisato che sarebbe arrivato in ritardo e Yutaka aveva decisamente preferito uscire e trovare qualcosa che occupasse il tempo, che sembrava non passare mai. Intanto la canzone era terminata e ora veniva trasmessa la pubblicità che non gli interessava proprio per nulla. Infilò la mano nella tasca per prendere il lettore mp3, ma realizzò di averlo lasciato nell’altra giacca, tuttavia al suo posto trovò qualcos’altro: sembrava essere un foglietto piuttosto stropicciato  dalla provenienza misteriosa. Lo tirò fuori e lo dispiegò con attenzione; gli era estremamente familiare, ma non riusciva a ricordare in che circostanze lo avesse avuto; neanche quel nome –Matsumoto Takanori- sembrava dirgli qualcosa. In quel momento giunse la cameriera portandogli il conto e per poter pagare posò il foglietto sul tavolino e come ci potrebbe aspettare uscì dal bar lasciandolo lì.
 
Passeggiava tranquillo in quel freddo pomeriggio dirigendosi verso il suo vecchio appartamento, aveva optato per un percorso un po’ più lungo per rivedere questo o quel luogo al quale era stato un tempo affezionato e che, da in quel momento in poi, avrebbe conservato i suoi ricordi per sempre, anche se lui se li fosse dimenticati. Si chiese quando fosse stata l’ultima volta che si era ritrovato a passeggiare per Tokyo.
Fu in quel momento che ricordò.
Ricordò la sua passeggiata notturna. Il concerto. Il ragazzino dai capelli neri. Il biglietto da visita.
Quel biglietto da visita che aveva lasciato sul tavolino del bar.
Senza neanche pensarci due volte vece dietro front e ripercorse tutti i suoi passi fino a ritrovare quel bar e quel foglietto spiegazzato, che apparentemente non aveva alcun significato, ma che, da solo, avrebbe cambiato la sua vita. In lui era scattato qualcosa, come una riserva nascosta di voglia di vivere, di ricominciare. Avrebbe potuto iniziare una nuova vita in mille modi diversi, ma scelse di ritornare a prendere quel foglietto, che in quel momento sembrava essere diventato il pass per il futuro. In quel momento, quel foglietto di carta, sembrò dargli tutte le certezze che, per diverso tempo, gli erano mancate.
 
Venti minuti dopo si trovava in una cabina telefonica con la cornetta stretta in una mano e il foglietto nell’altra, mentre il telefono dall’altra parte squillava.
«Pronto?»
 
Nella su testa risuonava ancora quel nome scritto in katakana e qualcosa gli diceva che avrebbe avuto a che fare con quel nome per un lungo, lungo tempo.
 

I am the GazettE

 
[1] So perfettamente che tra Ruki e Kai c’è soltanto un anno di differenza, ma era tanto per sottolineare il fatto che Ruki sembri decisamente più piccolo.
 
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FINITO.
E così siamo giunti alla fine. Di tutto.
Wow, non ci posso davvero credere che sia finita. Questa fanfic è stata una vera e propria impresa per me dato che non mi ero mai cimentata in un progetto tanto importante, se così si può dire. A dire il vero non ho ancora ben realizzato che sia finita anche perché scrivere questi due ultimi capitoli mi ha preso un lungo, lunghissimo tempo e mi sembra impossibile che io li abbia seriamente conclusi. Probabilmente ci sarebbero molte cose da dire, ma –ovviamente- non me ne vengono in mente molte… Forse, innanzitutto, dovrei scusarmi con voi per la lunga attesa, ma la mia ispirazione è scarsissima ed è un miracolo che sia riuscita a scrivere quest’ultimo capitolo. In ogni caso mi impegnerò al massimo per portare a  termine la mia altra fic!
Questo è una periodo strano e diverso perché stanno succedendo varie cose e lo scrivere è passato decisamente in secondo piano, come diverse altre cose. Ma di certo non abbandonerò questa mia passione, forse la coltiverò un po’ più lentamente perché è una parte molto molto importante di me. Ma riassumendo: scusate davvero il mio ritardo.
Ma passiamo a parlare del capitolo!
Il protagonista è Kai, quell’uomo che io venero, ma che mi crea sempre immani problemi nelle fic, non so neanche perché. Inizialmente doveva essere un po’ diversa, ma scrivendo è cambiata senza che me ne accorgessi. L’idea che volevo dare era quella dell’unità di gruppo, ma dato che è cambiata si percepisce decisamente meno. Si tratta, alla fin fine, della semplice storia di Kai che decide di unirsi alla band. Bah, il finale non mi piace poi così tanto, lo trovo un po’ affrettato, ma in quel momento sentivo davvero la necessità di finire così ho messo un punto e tutto è davvero finito. E poi questa shot sembra un misto tra la storia di Ruki e quella di Aoi, bah. Originalità portami via.
Spero possa piacervi almeno quanto le altre perché tengo molto a questa shot.
Grazie mille  a tutti voi che siete rimasti fino alla fine.
Grazie mille ♥
 
Ci si legge alla prossima!
 
Un abbraccio,
pon.

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