Broken Bones

di xNewYorker__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Doveva accadere ***
Capitolo 2: *** Per sempre con te ***
Capitolo 3: *** Farsi giustizia ***
Capitolo 4: *** Non mi fermo. ***
Capitolo 5: *** Determinazione. ***
Capitolo 6: *** Qualcuno morirà ***
Capitolo 7: *** Segreto ***
Capitolo 8: *** I hear them calling ***
Capitolo 9: *** Last - Tutto ha una fine ***



Capitolo 1
*** Doveva accadere ***


Pensava davvero che lui potesse essere l’unico a cui una cosa del genere non sarebbe mai capitata. Aveva da sempre ritenuto di conoscere i rischi del proprio lavoro persino all’interno della sua stessa famiglia, ma pensava che fosse tutto, o meglio, che fossero tutti, al sicuro. E adesso stava lì, in una dannatissima sala d’aspetto d’un ospedale, seduto, abbandonato, su una vecchia sedia di plastica bianca che per poco non cadeva a pezzi. New York. Chi diamine l’ha convinto ad andare a New York? Vacanze, aveva detto ai colleghi. Testuali parole? “Parker ci tiene, vuole andare a New York da sempre, me l’ha sempre chiesto”. Mannaggia a lui, se avesse detto no. Non voleva deludere il bambino, il suo bambino, quello che stava sotto i ferri di un’altrettanto dannata sala operatoria d’un ospedale a caso di New York, il più vicino. Lui, l’uomo più duro, l’ex cecchino, quello che sapeva mantenere il sangue freddo in qualunque occasione. Seeley Joseph Booth. Fermo in una sala d’aspetto con la testa tra le mani e tante, tante lacrime che cadevano dagli occhi, arrivando a bagnare il pavimento. Si sentì toccare la spalla lievemente, provò un brivido all’inizio, era sicuro d’esser solo, in quell’istante. Sollevò appena il capo, e il volto appariva decisamente provato da tutto quel piangere, un silenzioso pianto d’un uomo duro.
«Hey.» Fu quello che l’uomo udì alzando lo sguardo. Aveva così tante lacrime in quegli occhi castani che non distinse la figura che stava quasi sopra di lui, in piedi. Concentrandosi di più e passandosi l’indice destro sotto entrambi gli occhi, distinse le iridi azzurre di Bones. Non disse nulla, ma la donna si inginocchiò e l’abbracciò. L’abbracciò stretto, con tanto di quell’amore mai dimostrato nei suoi confronti. Fu un abbraccio fraterno, il loro. «Mi dispiace.» Sussurrò al suo orecchio. Lui non rispose, la strinse solo di più. «Se…se non…» Non riusciva a dire quelle parole. La sola ipotesi che suo figlio potesse non riprendersi gli attanagliava lo stomaco in una morsa talmente stretta da impedirgli persino di respirare, o di deglutire, per scacciare via quel pianto.
Bones, o Temperance Brennan, nome quasi non più utilizzato per denominarla, lo lasciò e gli si sedette accanto. «Cosa ti fa credere che potrebbe non farcela?» Domandò, guardandolo negli occhi. Aveva pianto tanto, davvero tanto, probabilmente non aveva mai pianto così in tutta la sua vita. Gli si erano arrossati e gonfiati, gli occhi castani che qualcuno guardava di nascosto durante gli interrogatori, quelli così comprensivi e severi allo stesso tempo.
Ci fu una pausa di silenzio che ad entrambi parve lunga come una vita rinchiusi in uno stanzino al buio. Si aprì una porta, proprio di fronte a Booth.
Un uomo con gli occhiali appesi al collo e una cartella clinica in mano, in camice, completo di mascherina, s’avvicinò. «Signor…signor Booth…» Dannazione, si vedeva, portava brutte notizie.
L’espressione di Bones era così seria e impassibile: Booth la guardò per un istante, trattenendo le lacrime. «Mi dica.» L’invitò a parlare. Il dottore si passò una mano sulla fronte e sospirò rumorosamente. «Non ce l’ha fatta.» L’equilibrio si spezzò. A Seeley cadde il mondo addosso. Quel mondo così protetto e sicuro che aveva progettato era appena crollato a quelle parole: non ce l’ha fatta. Come ha potuto non farcela? Lui? Il suo Parker? Perché? Quante domande gli frullavano per la testa. Bones lo abbracciò ancor più forte di prima. Le lacrime iniziarono a scorrere anche sulla giacca nera della dottoressa. Non disse niente, lui. Provò a rimanere in silenzio, mentre mentalmente stava urlando, sbraitando contro chi non ha saputo fare in modo che il suo campione sopravvivesse. «COME DIAVOLO E’ SUCCESSO!?» Urlò. Non ce la faceva più.
«Booth…» Provò a calmarlo Brennan. «NO! Come è successo!?» Il dottore sospirò per l’ennesima volta. «Le ferite erano troppo profonde.» Fu la risposta. «COME E’ STATO POSSIBILE CHE NON SIA SOPRAVVISSUTO!?» Continuò ad urlare. Bones scattò in piedi. Il dottore s’allontanò, capiva come potesse sentirsi.
«Tra tutte le persone di questo mondo, perché lui?» Chiese Booth, dando un peso assurdo a tutte quelle lacrime versate sulla camicia. «Conosco i rischi del mio lavoro, ma non pensavo arrivassero a tanto.» Brennan lo guardò. «Pensi che l’abbiano guardato in faccia? Svegliati, Booth!» Tacque un istante, prima d’aggiungere: «Ce l’avevano con te, si, ma non avresti potuto impedirlo.» Booth si alzò a sua volta. «Si che potevo. Dovevo buttarmi su di lui come ho fatto con te milioni di volte.» - «Non hai avuto il tempo.» In quel momento l’agente si odiò.

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Capitolo 2
*** Per sempre con te ***


Il giorno seguente Booth si svegliò sentendo una stretta al cuore che gli impediva di dormire. Si buttò dal letto, andando a picchiare di poco la testa sul pavimento. Se la massaggiò con palmo della mano destra e scattò in piedi, in pantaloncini e t-shirt casuali che aveva preso la sera prima tra il lungo pianto. Alzatosi, si lanciò nella stanza del figlio, sperando che fosse stato tutto un incubo. Sapeva d’essersi svegliato, e quello che sarebbe presto stato almeno un livido dietro il capo glielo testimoniava, ne era sicuro. «PARKER!» Urlò, spalancando la porta e vedendo il letto vuoto. Le prime lacrime iniziarono a spuntare dagli occhi, scivolando lentamente sulle guance, in una specie di danza muta, silenziosa e terribile. Tacque, fissando quel letto vuoto. Era perfettamente in ordine, come il resto della stanza: suo figlio è sempre stato un bambino così tranquillo e ordinato. Quanto avrebbe voluto in quel momento almeno un minimo di confusione in quella stanza. Avrebbe testimoniato la presenza del bambino, o almeno nella sua mente sarebbe stato così. Non riusciva a credere a quello che era successo. Soprattutto, perché non si è lanciato su di lui, perché non l’ha protetto? Continuava a incolparsene, e ancora, e ancora. Si colpì piano la fronte con la mano destra e si buttò sul letto del figlio.
Rimase così per un po’, o quantomeno finché non sentì suonare il campanello. Si alzò lentamente. «Chi è?» Chiese, con un filo di voce. Si avvicinò alla porta, aprendo, e si trovò Brennan davanti.
«Buongiorno.» Disse lei, sorridendogli appena, e posandogli lievemente una mano sulla spalla, in modo confortante, per quanto una super scienziata, come usava dirle Booth, possa essere confortante. «Ciao, Bones.» Disse. «Come…come mai qui?» Si appoggiò al muro vicino alla porta, osservando la collega mettere piede in casa e sedersi sul divano. Le era stato detto fin troppe volte “fa come se fossi a casa tua”, e così aveva fatto. L’uomo andò a sedersi accanto a lei, distrattamente, mantenendo lo sguardo sul corridoio che conduceva alla camera di Parker, in cui era appena stato.
«Oggi…tra due ore…c’è…» Cercò d’avvertire la collega del funerale, ma non riuscì a dire la parola, che le lacrime ricominciarono a uscire a fiumi. Bones l’abbracciò. «Andiamo…ti sarò vicina, Booth, sempre.» Disse. Lui non aprì bocca. Dopo qualche istante si alzò e andò nell’altra stanza, a indossare una camicia, una giacca e dei pantaloni più eleganti.
 
Brennan e Booth erano fermi di fronte alla piccola bara, che sarebbe stata seppellita di lì a poco. La lapide portava già l’incisione “nella memoria di Parker Booth”. Seeley si contenne, stavolta. I suoi colleghi non l’avrebbero visto piangere. Era tornato a Washington: il suo campione sarebbe dovuto essere  seppellito nella sua città natale.
C’era il sole, ma tutto appariva così buio da gettare chiunque in un baratro d’infinita angoscia.
Quando la cerimonia ebbe fine, le lacrime di Booth erano terminate. Probabilmente avevano scelto di scorrere dall’interno: avrebbero raggiunto il cuore, anziché la terra. La collega gli stava accanto: non l’avrebbe mai abbandonato durante un momento del genere.
Tornarono a casa solo dopo aver aspettato un’altra mezzora di fronte a quella fredda e silenziosa lapide. L’uomo pregava per il suo piccolo. Credeva nel Paradiso, e sapeva che, nonostante tutto, sarebbe stato al sicuro lì. Brennan poteva semplicemente provare a risollevargli l’umore, ma non le veniva facile. Non avrebbe mai rinnegato le sue stesse idee, probabilmente neppure per aiutare quello che per lei era come un fratello, o un amore impossibile, a seconda dei punti di vista.
Niente sarebbe più stato semplice per l’agente, e lei ne era consapevole. Doveva aiutarlo, in qualche modo, seppur non sapendo in quell’istante quale fosse la via migliore. La cosa che sapeva era una: Booth era forte.
 
La porta si aprì facendo eco nell’appartamento, in modo strano. Pur essendo così pieno appariva vuoto, ed entrambi sapevano che quel vuoto non si sarebbe riempito facilmente.
«Ehm…Hannah…che fine ha fatto?» Chiese Bones, più per cambiare discorso che per un vero e proprio interessamento nei confronti della sorte della donna. «A Londra.» Fu la risposta che ricevette. A Londra. E cosa ci faceva, Hannah, a Londra, invece di stare vicina a Booth? Certo, la dottoressa era venuta da Washington, e la distanza era senz’altro stata minore, ma in quel momento sapeva che sarebbe venuta da qualsiasi altra parte del mondo, nello stesso, identico, modo.

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Capitolo 3
*** Farsi giustizia ***


Era passata una settimana, e ogni giorno che passava sembrava odiarsi sempre di più. Lui, che era così sicuro di sé, così sicuro di poter salvare tutti. Avrebbe cambiato il mondo, quello, quand’era piccolo, era il suo sogno.
Del valoroso agente senza macchia e senza paura era rimasto un uomo martoriato e oppresso dal suo stesso dolore, che stava sul divano a fissare un televisore spento col telecomando tra le mani, un telecomando senza batteria. Televisore spento e telecomando senza batteria. Cavolo, quale analogia. Booth si sentiva così senza Parker. Paragone stupido, forse, ma quello che gli venne in mente all’istante fu “sono come questo telecomando”. Aveva perso una parte di sé.
E così stava solo in una stanza vuota come la sua vita senza il figlio. Tutto gli pareva essere una metafora della sua vita e dei suoi sentimenti. Odiava questa cosa, la odiava profondamente, avrebbe voluto svegliarsi, abbracciare il bambino e dirgli che non avrebbe permesso che gli accadesse qualcosa di male. Rivedeva sempre la stessa scena scorrergli davanti agli occhi, e lui, impotente come un fantasma ritornato alla vita terrena, invisibile, non poteva far altro che assistere in silenzio. Scosse la testa e si alzò pesantemente, facendo un verso simile a quello d’un anziano sofferente quando si alza.
Si dava al pessimismo, quel giorno, e poi come biasimarlo? Pensava che Bones non sarebbe arrivata quel giorno. Magari s’era stancata di lui come aveva fatto Hannah: la verità è che aveva voluto scappare, non aveva nessun convegno. Beh, non disse proprio questo: fu solo l’impressione che Seeley ebbe quando lei disse “ci vediamo tra tre mesi”.
Anche Bones avrebbe fatto così? Chissà. L’unica cosa che sapeva è che era da solo, e che sarebbe rimasto solo anche in compagnia di altra gente, di tanta gente.
Decise che andare al lavoro sarebbe stata la cosa migliore. Doveva trovare “quei bastardi che hanno ucciso il suo piccolo”. Li avrebbe trovati. Anche in una vita, ma li avrebbe trovati, e li avrebbe uccisi. Oh, non ne avrebbe risparmiato nemmeno uno. Sapeva che erano in tre. Uno ha sparato, si, ma gli altri gli coprivano le spalle. Li avrebbe scovati e uccisi come si fa con i topi di fogna, perché questo erano. Miravano a lui, e questo lo sapeva, ma non avrebbe mai dimenticato quello che avevano fatto. Avrebbe preferito morire lui al posto del suo bambino.
Andò a cambiarsi velocemente, per non dare l’impressione di uno che s’è lasciato andare, che s’è lasciato trascinare. Solo Bones avrebbe dovuto sapere che aveva pianto, e che s’era abbandonato a tal punto da non fare esercizio fisico e non guardare neanche la TV per distrarsi.
 
Arrivato al Jeffersonian lo fissavano tutti in modo diverso. Se ne rese conto, provando ad evitare gli sguardi indiscreti. Quelli che chiamava sguardi indiscreti erano proprio quelli dei suoi amici, di quelli che per lui c’erano sempre stati, quelli che gli volevano bene davvero, ma in quel minuto non gli importava, e questo lo sapevano anche loro stessi, e lo comprendevano nel migliore dei modi. La loro non era un’amicizia futile e occasionale.
Si diresse al laboratorio, dove esaminavano le ossa dell’ultima vittima individuata. Avrebbe voluto trovare la sua collega, ma all’interno della stanza c’erano solo Clark e Colin, intenti ad esaminare qualcosa. Fisher tossicchiò, con la solita espressione malinconica e depressa. Iniziò a gesticolare, con le mani nei guanti, alternando uno sguardo spento tra Booth e il pavimento del laboratorio. «Ehm…agente Booth.» Disse. «Condoglianze. Che l’anima di suo figlio possa riposare in pace tra le accoglienti nuvole malinconiche ma pacifiche del Paradiso.» Come al solito il discorso non aveva poi così tanto senso, o almeno non lo aveva il tono adoperato per farlo. Booth annuì. «Mi dispiace.» Aggiunse Edison, con il suo tono comunque freddo, ultimamente sempre più simile a quello della Brennan. Booth annuì per la seconda volta, e si diresse fuori. Si imbatté in Angela, che come al solito andava in giro quasi correndo, col camice blu indosso, diretta probabilmente verso la postazione di lavoro di Hodgins. Si fermò e guardò l’agente. Lo sguardo era il suo solito: comprensivo e anche un po’ umido. Iniziarono a scendere delle lacrime, piano piano, quasi invisibili, e gli si lanciò tra le braccia. «Mi dispiace, Booth. Non sarebbe dovuto succedere.» Lui sospirò. «Lo so.» Ricambiò l’abbraccio per un istante, e quando si staccarono la donna fece un malinconico e velato sorriso, e gli diede una pacca sulla spalla sinistra, annuendo, per poi dirigersi, come da manuale, alla meta.
Qualche passo avanti fece capolino anche Sweets, che aveva parlato con Brennan circa cinque secondi prima. Lo guardò per un istante. «Condoglianze.» Si limitò a dire. In quelle occasioni neanche uno psicologo sapeva come fare per migliorare lo stato d’animo di una persona. Booth annuì ancora, come aveva fatto prima con Fisher ed Edison, e proseguì. Superato Sweets di qualche passo si fermò, senza voltarsi, al centro del corridoio. «Hai visto Bones?» - «Cinque minuti fa, ora non so più dove sia.» E lui ripartì. Affrettò il passo: doveva trovare la dottoressa, aveva qualcosa da dirle. Fantastico: non era da nessuna parte.
Passò mezz’ora buona a cercarla, e aveva incontrato tutti gli amici, tranne lei. Anche Cam gli era appena passata davanti, gli aveva fatto le condoglianze, l’aveva abbracciato appena e s’era anche commossa, ma Bones non si trovava. La cosa che gli importava in quell’attimo era quella.
Decise di andare da Caroline. Se non trovava Bones doveva almeno assicurarsi di aver affidato il caso del figlio, in qualche modo. Un giudice gli avrebbe fatto comodo.
 
Aprì la porta ed entrò, senza fare complimenti e senza chiedere il permesso. «Devi affidarmi il caso.» Disse, appoggiando nervosamente i palmi delle mani sulla scrivania. «Di cosa stai parlando, Booth?» Chiese lei, fingendo di non sapere, o forse non sapeva. «Mio figlio.» Spiegò, secco. «Che…?» - «E’ morto una settimana fa.» Diamine, non voleva dirlo. Soprattutto…non così, non a lei. Avrebbe dovuto scoprirlo come hanno fatto gli altri. Caroline si alzò. «Mi dispiace.» Per un attimo aveva abbandonato il tono da cane da guardia, e gli occhi erano più comprensivi di come avevano mai osato essere nei confronti di qualcuno. Lui guardò a terra. «Anche a me.» Disse. «Affidami il caso, ti supplico.» Abbandonò la presa di posizione. «Non posso, sei coinvolto. E’ come la Brennan con il caso di suo padre, te lo ricordi? O quello di suo fratello. Va contro il codice.» - «Fregatene del codice!» Corrugò la fronte. «Non posso, lo sai.» - «Affidami il caso!» Esclamò, sbottando. «Non posso! Ho detto che non posso! Credi che non lo farei per te? Eh? Credi che non lo farei se potessi? Farei di tutto, ma non ne ho la facoltà, mi dispiace!» - «Le cose sono due: o mi affidate il caso, o mi dimetto.» Caroline sospirò. «Ti toccherà dimetterti, caro.» No, non poteva accettare anche questo. Gli avrebbero dato il caso, o si sarebbe fatto giustizia da solo. Batté entrambi i pugni sulla scrivania. «Bene! Come vuoi!» Uscì, sbattendo la porta. Gli assassini non l’avrebbero passata liscia: Seeley Joseph Booth ci sarebbe andato pesante.

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Capitolo 4
*** Non mi fermo. ***


Le giornate a seguire furono tutte un via vai di gente dal laboratorio a fuori. Non era una cosa normale, dato che i casi iniziavano a diventare sempre di minor numero, o sempre più semplici da risolvere: almeno per loro sembrava così.
Naturalmente Booth non aveva perso le speranze di ritrovare la collega, che non vedeva ormai da almeno una settimana, e di aver affidato il caso del figlio. Avrebbe avuto quel caso, a qualsiasi costo. Si alzò dalla sedia in pelle del suo ufficio, scostandola con un movimento veloce dalla scrivania, e uscì, non curandosi della porta aperta e delle scartoffie sul tavolo. Uscì anche dall’edificio stesso. Sarebbe tornato al Jeffersonian. Se c’era un posto in cui poteva essere Bones, era quello.
Chiese a tutti i colleghi: nessuno l’aveva vista, sembrava scomparsa, così, sparita nel nulla, senza dire niente. L’ultima speranza era Sweets, che fu infatti l’ultimo da cui si recò a chiedere. Gli venne data una risposta chiara: non l’ho vista. Adesso era ritornato in alto mare, la sua zattera si era appena infranta contro un duro, duro scoglio.
Le sue speranze però non si sarebbero infrante così presto. Le sue speranze non s’infrangevano mai, e nonostante le occhiaie, chiaro segno di notti insonni, e la stanchezza dei muscoli, lui andava avanti.
Si fermò a guardare di fronte alla tavola calda dove andavano sempre a mangiare a cena dopo aver risolto un caso. Decise di entrare: magari il proprietario l’aveva vista.
No, niente. Non era stata neanche lì. Dove poteva essere, allora? Non aveva più idee, ma aveva deciso che l’avrebbe trovata, e così sarebbe stato, anche a distanza di mesi, o di anni. Beh, era sparita da troppo pochi giorni per poter affrettare così tanto le cose.
Salì in macchina e appoggiò le mani sul volante, tenendolo stretto. Sentì un brivido percorrergli il corpo. Per lui quello era un segno. Doveva partire. Doveva lasciare tutto e concentrarsi su un solo obbiettivo. Quale sarebbe stato l’obbiettivo? Farsi affidare il caso o trovare Bones? Beh, per il caso ci sarebbe stato tempo, per Bones no. Scelse la seconda opzione.
Mise in moto e iniziò a correre. Veloce, molto veloce. Non sapeva neppure dove stesse andando a finire, pur di riuscire a trovarla.
 
L’aula era talmente grande che le voci dei presenti rimbombavano. Il rumore non impediva alla dottoressa Brennan di pensare, però. Si chiedeva se la stessero cercando, ma si rispose di no, perché non avrebbe avuto senso. Chiunque poteva immaginare che cosa stesse facendo: stava provando a far affidare il caso di Parker a Booth. Ci sarebbe riuscita. Era stata una settimana a New York a provare a sistemare le cose, e in una settimana non c’era riuscita. C’era molto vicina, c’era andata vicino il giorno precedente, e questo ce l’avrebbe fatta, o non sarebbe tornata “alla base”. Rimase in silenzio, immersa nei suoi pensieri, finché il procuratore non la richiamò. «Dottoressa Brennan?» Lei si scosse, dando un colpo indietro quasi invisibile agli altri con la testa. «Si.» Rispose, ferma e decisa, per non fare capire che si era distratta un attimo. «Abbiamo riflettuto a sufficienza.» «Gradirei sapere quali sono state dunque le vostre conclusioni.» «L’agente Booth potrebbe aver affidato il caso del figlio, ma solo ad una condizione. Deve dimostrare di saper essere distaccato come lo sa essere lei. Il suo coinvolgimento non deve in alcun modo ostacolare le indagini.» La dottoressa si alzò in piedi con il suo solito modo sicuro. «Naturalmente. E’ garantito.» Fece per andarsene, avendo ottenuto quel che voleva. Si fidava di Booth: ce l’avrebbe fatta anche lui. «E…grazie.» Aggiunse, a voce bassissima, uscendo.
 
Tutti al Jeffersonian erano preoccupati, ma a nessuno era venuta in mente l’idea di chiamarla al cellulare. Beh, anche quando non sarebbe stata una buona idea: era staccato.
Tra i colleghi di Brennan, la più preoccupata era senz’altro miss Montenegro, che non riusciva a darsi pace. Dov’era potuta andare a finire la sua migliore amica? Oh, quella donna era fin troppo impulsiva. Certo, si sapeva difendere, ma poteva finire in un guaio più grande di lei.
Mentre l’antropologa camminava per le strade di New York, diretta all’aeroporto, il suo partner la cercava disperatamente a Washington. Non poteva avere idea di dove si trovasse, a suo malgrado. «Bones…» disse, in un sussurro. «sei la mia rovina.» Sorrise, e questo faceva sicuramente intuire che non dicesse sul serio. Fermò la macchina accostandola a un marciapiede. Non gli importava sapere dove si trovasse lui, non quanto gli importava sapere dove si trovasse la sua collega. Tolse le chiavi dal quadrante e, facendole tentennare un po’ roteando il portachiavi al dito, aprì lo sportello ed uscì. Camminò su quel marciapiede freddo sentendo quel vuoto che non accennava a scomparire proprio alla bocca dello stomaco. Sospirò, tenendo lo sguardo basso. Sentiva il gelo della pietra salirgli su per le gambe, senza sosta. Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò così velocemente da farsi girare la testa. Nessuno. Scrollò le spalle e proseguì per la sua strada, con la mente pervasa da pensieri che non smettevano di vorticare, come in un frullatore senza coperchio. Alla fine succedeva sempre un disastro. Udì un altro rumore e si voltò anche più velocemente di prima. Stava per voltarsi nuovamente per poi proseguire, ma non lo fece, perché vide una figura conosciuta cadere rovinosamente sul marciapiede. Prese un respiro profondo: il cuore si era quasi fermato, prima. «Porca miseria, Hodgins!» Esclamò, vedendo l’entomologo massaggiarsi il fianco con la mano. Gli si avvicinò, porgendogli una mano. «Mi hai fatto prendere un colpo.» «Io ne ho preso uno peggiore.» Gliela strinse e si alzò, lanciando un’occhiataccia al punto su cui era caduto. «Perché mi seguivi?» «Volevo assicurarmi che non facessi disastri, poi ho visto la tua macchina all’angolo» un momento di pausa per permettergli di indicare con un cenno del capo l’auto dietro di sé, a qualche passo di distanza  «e mi sono preoccupato. Hai lasciato lo sportello chiuso male, quindi ho pensato che ti…» «Avessero rapito? No, volevo andare a cercare Bones, ma non la trovo, allora ho deciso di fare una passeggiata, avrò chiuso male per sbaglio, tranquillo.»  «Mhm…d’accordo. Sicuro di stare bene?» Booth gli lanciò un’occhiata eloquente. «Vuoi davvero la risposta?» Annuì. «Non sto bene per niente. Prima…e poi non riesco a trovare Bones. Giuro che se le succede qualcosa io…i-o…» «Brennan è una grande donna. Sa come difendersi. Non sarà andata lontano.» «Si, Brennan è grande, ma vuoi metterla contro una banda di criminali armati a piede libero? Non ce la farebbe neanche lei, per quanto mi dolga ammetterlo.» Dovevano solo arrendersi all’evidenza, a quel punto. «Ma…Hodgins, quando hai iniziato a seguirmi? Eri già qui quando hai visto la macchina?» «Oh, si. Io e Angela siamo in pausa, o meglio, io ho preso una pausa per fare in modo che si distraesse dalla situazione. E’ distrutta, sia per te che per Brennan.» «Angela ha un cuore d’oro…ad ogni modo, ho bisogno di stare un po’ da solo, mi comprendi…» Lui tacque. Quel silenzio valeva a dire qualcosa come “ti comprendo benissimo e ti lascio in pace. Però ti prego, non deprimerti, troveremo i colpevoli, costi quel che costi.” Booth sorrise, perché lo capì.
L’entomologo camminò, allontanandosi, ma prima di staccarsi completamente dalla strada sulla quale stava l’agente, gli diede una pacca sulla spalla, e attraversò sulle strisce pedonali. Da allora non si voltò più indietro: proseguì e basta. Sapeva di essere osservato dallo stesso a cui aveva appena detto che lo avrebbe lasciato in pace. Si sarebbe sentito inopportuno e indiscreto. Insomma, come diceva Booth: “ad ogni sparo moriamo tutti un po’”. Beh, a quegli spari, quelli che avevano ucciso Parker, erano morti un po’ tutti al Jeffersonian, ma Booth era morto quasi del tutto. Non voleva neppure vedere gli occhi pieni di odio della madre di suo figlio: gli avrebbe dato la colpa per il resto dei suoi giorni, e lui non l’avrebbe biasimata, dato che si colpevolizzava da quando aveva sentito il rumore assordante, prima di comprendere la situazione vera e propria. Il tempo sembrò fermarsi al tonfo sordo di un proiettile che squarciava l’aria. Con una capriola all’indietro lui fu fuori dal raggio, per un pelo. Sentì per un istante il calore del metallo passargli sulla fronte, lasciando un’invisibile striscia che rimase impressa solamente nella sua testa. Non avrebbe dimenticato neppure questo, probabilmente, fatto sta che corse via per evitare che un altro pezzetto di metallo lo raggiungesse, toccandolo. Si sentì talmente stupido e codardo da pensare per una sola frazione di secondo di licenziarsi dall’FBI. Ma poi gli tornò in mente Bones, e allora la mente tornò a ragionare, il cuore a battere, tutto come pochi istanti prima. Lei era l’unica cosa che contava. 

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Capitolo 5
*** Determinazione. ***


Codardo, codardo, codardo. Questa parola risuonava nella mente di Booth come gli spari precedenti alla voglia di lasciare l’FBI. Bones. Gli occhi verdi azzurri dell’antropologa gli apparvero improvvisamente sotto gli occhi. Si sentì immergere in una pozza di qualcosa che inizialmente non comprese. Lì per lì, dal calore emesso dal liquido, gli parve sangue. Eccolo che sperò vivamente che fosse il suo. Un’ombra di terrore apparve nei suoi occhi sbarrati di fronte alla scena della donna a terra. La consapevolezza che avrebbe visto quegli occhi pieni di luce per quella sola, ultima volta gli fece spezzare qualcosa dentro. Urlò. Urlò più forte che poteva. Non poteva, non doveva finire così. Realizzò solo in quel momento che, dopo Parker, Bones era tutto per lui. Tutto ciò che aveva mai desiderato, e tutto ciò che aveva mai ottenuto, pur non essendosene reso conto prima. La scena gli rimase in mente e sotto gli occhi, mentre cadde pesantemente in ginocchio, e quella parte dei jeans s’inzuppò di sangue. Il rumore delle ossa che facevano peso sull’asfalto bollente lo fece raggelare dentro, ma non più della visione precedente. Le sue urla raggiunsero qualcosa. In lontananza una figura che non riconobbe sembrava avvicinarsi, ma si accorse ben presto che prendeva la direzione opposta. Imprecò qualcosa, mormorandola, e portò le mani sulle spalle della donna, provando a strattonarla per farla riprendere. L’ultima luce comparve nei riflessi azzurrini degli occhi, vicino alle pupille. «T-ti prego B-Booth…» un sospiro, prima che l’ultimo soffio d’aria della vita le entrasse nei polmoni. «G-guardami…» L’uomo iniziò a fissare i suoi occhi che stavano per spegnersi, ma non riusciva a riconoscerli o a scorgerli tra la tendina di lacrime che percorrevano ormai il suo viso fino al collo della t-shirt marrone. Un rivoletto finì sulla manica. «Promettimi…che…non…mi dimenticherai mai…» Lui fece cenno di “no” con il capo, reggendo il suo con la mano sinistra, le dita tra i capelli ondulati, e le nocche che sfregavano violentemente sul crespo asfalto scuro. Allora il respiro venne a mancare, e la testa divenne pesante da reggere. La mano si distese, pur stando ancora a toccare i capelli. «Bones…» Un sospiro muto. «Bones…» nessuna risposta. «BONES! DIAMINE, SVEGLIATI! NON PUO’ FINIRE IN QUESTO MODO, NON POSSO PERDERE ANCHE TE!» e con questa frase, urlata al vento, che si perdeva nella chiara assenza di un’anima vivente, il busto venne gettato all’indietro, provocando un lancinante dolore alla schiena, ignorato per via di quello più grande provato sul lato sinistro del petto. Ecco che il tempo si bloccò totalmente, e un soffio di vento freddo gli raggiunse i capelli. Fu gelido, nonostante il giorno fosse estivo. Si sentì gelare per via dei rivoli di sudore che iniziavano a scorrere lungo tutta la fronte, raggiungendo le sopracciglia e fermandosi.
BOOM. Un’esplosione, e scomparve tutto. Tutto nero.
Codardo, infame, incapace, incosciente. Le ultime parole prima del nulla più totale. Nulla, completamente.
 
In una pozza di sudore bollente, l’agente Booth si svegliò di soprassalto, mettendosi a sedere e portando le gambe verso il petto. Il respiro era affannoso, e l’incubo non voleva proprio sparire dalla sua testa. Il nome di Bones continuava ad echeggiare senza sosta, non dandogli un attimo di tregua. «BONES!» Esclamò, in preda al panico, scattando in piedi e correndo per metà dell’appartamento con i soli pantaloncini neri addosso. Si bloccò di fronte ad un tavolinetto, dove stava un bigliettino lasciato dalla collega l’ultima volta che si erano visti. “Calmo, sono sempre con te. – Bones”. Fu un po’ incredulo al leggere il soprannome dato da lui stesso alla donna. Inizialmente sembrava detestarlo, ma poi si era abituata al fatto che fosse in realtà un segno d’affetto. Era così terrorizzato dall’immagine di quella donna forte a cui teneva così tanto, a terra, che non riusciva neppure a sorridere all’enigmatica frase impressa con la calligrafia elegante in stampatello minuscolo, lievemente pendente a destra, su quel foglietto rimediato alla bell’e meglio. Provò a riprendere fiato, come ricordava avesse fatto Bones prima di esalare l’ultimo respiro, ma a sua differenza lui ci riuscì senza troppi problemi. Le spalle non si fermavano, facendo sempre su e giù per i movimenti all’interno della cassa toracica. Doveva assolutamente trovarla.
 
La mattinata era fredda. Erano solo le sei, e l’umidità si faceva sentire in modo non poco fastidioso. Pattugliava la zona dove ricordava di essere stato il giorno precedente, prima di quello sparo che l’aveva reso così irrimediabilmente insicuro. Tacque. Non c’era completamente nessuno. Era pur sempre a Washington, qualcuno doveva pur esserci. Si guardò intorno, ma non c’era nessuno per davvero. Pochi passi dopo si rese conto di essere sul luogo della scena che aveva sognato. Si scosse, per evitare che quel pensiero gli impedisse di respirare e di proseguire. La macchina era accanto a sé. Vi salì e inserì le chiavi, partendo praticamente a passo d’uomo. Qualche chilometro oltre quella strada orribile, riconobbe una figura. Aprì il finestrino e la preoccupazione sparì in un istante. Bones! Ma certo, era lei, nella sua elegante giacca che stava a coprire la sua camicetta bianca preferita. Le si sarebbe gettato addosso, in altre occasioni. Ma doveva mantenere un certo distacco professionale, in ogni caso. La donna si rese conto di averlo davanti, ma solo pochi istanti dopo capì chi realmente fosse quell’autista sorridente col finestrino abbassato. Affrettò il passo in sua direzione, e aprì lo sportello, sedendosi al lato del passeggero. Lo richiuse e, senza emettere un suono, abbracciò Booth, tenendolo stretto per i seguenti due minuti. «Bones» fu la parola che spezzò quel silenzio così pacifico e piacevole. Lei si staccò e gli sorrise. «Stavo per impazzire.» questa frase seguì il nome della donna, ma fu pronunciata quasi a denti stretti. L’emozione lo pervadeva, e non riusciva a trattenersi. Avrebbe voluto abbracciarla senza la possibilità di lasciarla più un attimo per tutta la vita. Stava per fare un movimento verso di lei, quando sentì il suo respiro farsi pesante, e si rese conto che stava per proferire qualcosa, probabilmente qualcosa di rilevante. «Hai il caso.» Tre parole che riassumevano tutto, e che aumentarono in lui la voglia di abbracciarla e di non lasciarla più per nessuna ragione. Si trattenne anche stavolta. «Bones, io…grazie.» a questo punto non riuscì a frenarsi, e si lanciò verso di lei, stringendola forte. Lei ricambiò l’abbraccio, senza dapprima comprendere il motivo di tanta enfasi. «Hey, sono Temperance Brennan, sapevi che te lo avrei fatto ottenere.» Per quanto triste, la battuta improvvisata dall’antropologa sembrò spazzare via quel ricordo orribile dalla mente di Booth. Fece cenno di “no”. «Non immaginavo saresti stata via una settimana e mezza per farmi ottenere un caso.» «Non è un caso, Booth. Dovevo farlo.» L’espressione era seria, ma era davvero felice di averlo potuto aiutare. Le labbra di lui si sollevarono appena in un tacito sorriso stracolmo di gratitudine. «Non so cosa farei senza di te. Ho avuto così tanta paura di…» si bloccò, ma venne incoraggiato da lei a continuare. «di perderti, Bones. Ho avuto un incubo terribile…e realistico. Per un istante ho davvero pensato che tu potessi…lasciarmi.» Tacquero entrambi per tre minuti buoni. «Sono ancora viva, Booth. Non potrei mai, dico mai lasciarti. Non lo farei comunque. Neanche se mi costringessero. Non lo farei e basta, perché io ti…» questa volta fu lui ad incoraggiarla a continuare. «voglio bene, fin troppo.» Quelle parole, dette così d’improvviso, non sembrarono credibili alle orecchie di nessuno dei due. Un sospiro. «Ti amo, Bones.» Questa frase fu detta, però. Fu detta per davvero. Inizialmente voleva fingere di non averlo fatto, di non aver esternato tutto così, in quel modo assurdo. Ma poi si rese conto di aver fatto la scelta migliore. O adesso o mai più, si era detto. E aveva fatto bene. Lei non sembrava averla presa male. Pian piano si avvicinarono, prima poco, poi sempre di più, fino ad arrivare a baciarsi. Fu diverso, però. Non come le altre volte. Le altre due volte, mica così tante. A loro però non importava, e questo era fondamentale. A loro non importava di niente.
 
Passarono abbondanti dosi di minuti prima che Caroline Julian mettesse piede all’interno dell’area laboratorio del Jeffersonian Institute. Erano tutti riuniti dietro il tavolo “da lavoro” della dottoressa Brennan. Sui loro volti c’erano dei sorrisi pieni di gioia, gratitudine e sollievo. Angela stava decisamente meglio, ora che la migliore amica era in salvo proprio accanto a lei, ed Hodgins condivideva la sua gioia nel modo migliore possibile. Il resto dei colleghi erano semplicemente felici che al loro “master” non fosse successo nulla di male. Tenevano troppo a lei, più di quanto avrebbero mai ammesso. Booth stava accanto alla collega in silenzio, felice come prima, quasi senza pensieri. Anche se quel vuoto all’angolo del cuore non se ne sarebbe andato neppure al momento della risoluzione del caso. Sarebbe andato rimarginandosi, ma non sarebbe mai del tutto scomparso, mai. E ne era consapevole. Lui come Bones.
I passi del giudice si avvicinarono, facendosi più pesanti. Lo sguardo severo era ancora più marcato dalle rughe attorno agli occhi, che la rendevano sempre aggressiva e perennemente accigliata. «Sono qui per parlare con la dottoressa Temperance Brennan.» Annunciò. Brennan fece un passo avanti, sicura. «Mi dica.» «Venga con me.» Dal tono e dalla proposta sembrava quasi come se volesse portarla in qualche posto importante, per dirle qualcosa di fondamentale evitando di umiliarla di fronte agli altri. Booth non era sicuro, quando le vide allontanarsi per sparire nel lungo corridoio, dirette alle scale del piano di sotto. Anche Angela era preoccupata, e teneva le braccia conserte, in un momento di riflessione, e gli occhi socchiusi.
 
Al piano di sotto, Caroline Julian era sempre più severa nel suo sguardo diretto alla dottoressa. E lei sembrava consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato. Consapevole fino a un certo punto: non comprendeva quale fosse il cosiddetto “corpo del reato”.
«Lei ha fatto affidare all’agente Booth un caso non di sua competenza.» «Usciva dai limiti dello stato, era di sua competenza.» «Sa cosa intendo. Parker era suo figlio.» «Booth saprà lavorare con tutta l’obbiettività necessaria.» «No. Non saprà farlo. Io lo conosco da molto prima. Dottoressa, doveva evitarlo. Gli ha dato una speranza, e il colpo di non poter risolvere una volta per tutte questo caso per lui fondamentale lo ucciderà. Questo lo sa anche lei.» Brennan esitò. «Ce la farà. Lei non crede in Booth quanto ci credo io.» «Vuole scommettere? Io lo conosco davvero bene. Voglio evitare che soffra.» «Signora Julian, non sembra neppure lei. So che avrà pace solo dopo averlo risolto. Deve trovare gli assassini di suo figlio. Deve. Ne va della sua vita. Psicologicamente parlando.» «Adesso è lei a non sembrarmi in sé, dottoressa. E’ coinvolta anche lei. Non è più distaccata come i primi tempi.» «Senta, lo lasci lavorare. Lo metta alla prova: la stupirà.» In quell’istante, perfino la Julian aveva capito quanto sia Brennan che, a quanto le era stato detto, Booth, tenessero a risolvere quel caso. Non si sarebbero mai arresi, non senza lottare. Erano ostinati, ce l’avrebbero fatta anche a costo di farsi licenziare…o uccidere.

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Capitolo 6
*** Qualcuno morirà ***


Le parole di Brennan avevano messo a tacere la Julian, e le rimaneva un amaro in bocca che la faceva sentire calpestata. E Caroline Julian odiava essere calpestata. Rimase comunque lì, vedendosi le spalle voltate dall’antropologa ed osservandola andare via in silenzio, con quella che a lei sembrava proprio aria di sfida. Non aveva il diritto di sfidarla in questo modo. Booth se la sarebbe cavata male, secondo lei. Ci avrebbe guadagnato soltanto porte chiuse in faccia ad occuparsi del caso del proprio figlio. Ammesso e non concesso che fosse riuscito a risolverlo, non avrebbe più vissuto allo stesso modo, e la tentazione di uccidere sarebbe stata irrefrenabile.
Temperance risalì le scale con passo deciso, guardando verso il piano di sopra alla ricerca dello sguardo di qualche collega. Arrivata lì li trovò tutti dove stavano prima. «Beh…?» Chiese, inarcando un sopracciglio. «Vi aspettavate che non sarei tornata?» Hodgins fece un gesto con la mano, il quale indicava “beh, più o meno”. Angela gli diede una gomitata.
«Uhm…è andata bene.» Disse la dottoressa, sempre seria e impassibile. Booth le fece cenno di avvicinarsi a lui, seguendolo, e si allontanò di qualche metro dagli altri, lei lo seguì a ruota, incerta. «Cosa c’è?» Chiese. «Sono pronto a mettermi al lavoro. Ti va di aiutarmi?» La risposta sarebbe stata senz’altro positiva. Figurarsi se Brennan avrebbe rifiutato di aiutare il suo partner. «Naturalmente» venne detto quasi come un sussurro nel silenzio, che prendeva più volume verso la fine. Lui rispose con un sorriso, mentre ritornava da Hodgins e Angela.  «Cosa ci nascondete?» Chiese quest’ultima, con uno dei suoi sorrisetti maliziosi che, nonostante l’amicizia, facevano venire voglia a Temperance di darle un pugno. «Assolutamente nulla, parlavamo del caso» e come sempre si mise sulla difensiva in modo del tutto irritante.
 
 Nell’abitacolo del SUV di Booth regnava il silenzio più totale, e così rimase la situazione per i dieci minuti seguenti, mentre lui e Brennan si dirigevano verso il distretto dell’FBI per fare un identikit dei probabili assassini di Parker, intravisti un secondo tra il terrore dall’uomo. Sapeva che rivivere quel momento non l’avrebbe aiutato a superarlo, ma doveva fare giustizia per suo figlio come l’aveva fatta per tutti gli altri. Sudava freddo, mentre svoltava a sinistra, e le parole che voleva rivolgere alla collega gli morirono in gola, e rimasero bloccate lì. Provò a scuoterle con un colpo di tosse che la fece voltare.
Rimase in silenzio anche lei, quasi a contemplarlo in un momento in cui non era osservata. Era successo anche altre volte, da quando si conoscevano, ma non molte, a lei non piaceva “spiare”, e per lei guardarlo in quel modo era come spiarlo in un momento d’intimità tra sé e sé. Nessuno avrebbe mai capito quel che c’era all’interno del mondo della dottoressa Brennan.
L’assenza di parole tra loro era sempre stato un sinonimo di “qualcosa non quadra”, ma questa volta sembrava diverso. Erano sì, soli coi loro pensieri, ma profondamente uniti da qualcosa di impercettibile e solo loro.
Booth accostò e si fermò, ancora senza guardarla. Scese, sbattendo lo sportello, come in uno sfogo del nervosismo represso che aveva in corpo. Venne seguito dall’antropologa, ed entrarono nel grande edificio, che al momento appariva così tetro da far paura persino a Seeley. Non era tanto il distretto a procurargli quel nodo in gola, quanto più il ruolo assunto da esso in quel preciso istante della sua vita. Per la prima volta si ritrovava ad essere l’interrogatore e l’interrogato al contempo, ed era una cosa che lo preoccupava parecchio. Temperance se n’era accorta. Lo accompagnò fino alla stanza in cui venivano effettuati gli identikit. All’uscita di essa, di fronte ai due passava gente totalmente terrorizzata. Gente che aveva visto la morte coi propri occhi, gente che v’era scampata, gente che aveva perso una parte di sé. Gente, solo gente. Il lato umano della donna uscì allo scoperto al momento in cui dovette accompagnare il suo partner all’interno.
Non riusciva neppure a muoversi, paralizzato dal dolore proveniente dalla parte del cuore recante il segno della recente recisione.
Gli prese la mano e gliela strinse, come per dargli coraggio. «Puoi farcela…» sussurrò, e queste due parole si dissolsero nel rumore della gente che usciva sbattendo le porte o che urlava dalle altre sale presenti al piano.
Entrarono.
Booth si sedette in silenzio di fronte a quello che chiamava ironicamente “il tizio dei disegni”, con lo sguardo basso di chi soffriva così tanto da non poter respirare. Era bloccato, come una statua marmorea posizionata su uno sgabello in precario equilibrio.
Il tizio dei disegni non si aspettava di vederselo presentare davanti. Non lui, non l’agente Seeley Joseph Booth. Non disse nulla, all’inizio. C’era un motivo se si trovava lì, e sicuramente farglielo pesare non era il suo compito. «Agente Booth…» disse, come a salutare. Poi il suo sguardo arrivò alla Brennan. «dottoressa Brennan.» aggiunse, sempre per salutarla. Lei rispose con un muto cenno del capo. In un certo senso il suo silenzio era una sorta di rispetto nei confronti di Booth, che nel frattempo rimaneva immobile con lo sguardo fisso sulla parte dei pantaloni neri che gli copriva le ginocchia. Il tizio non accennò a parlare, per dargli modo di riuscire a riprendersi. «Agente…ora…possiamo procedere?» chiese, dopo qualche istante. «Oh, certo» sollevò il capo e lo guardò dritto in faccia. La sua espressione diceva “sono pronto”, ma la sua mente non era d’accordo. Era per questo che attese le domande, non voleva farsi scappare nulla di scomodo.
«Iniziamo, allora. Quanti erano?» la sua serietà dimostrava anche un infinito rispetto verso di lui. Lo trattava come una qualsiasi persona venuta lì per fare un identikit. Lo conosceva, più o meno, e sapeva che non era il tipo da desiderare privilegi nei suoi confronti per via del suo ruolo.
«Tre, uomini. Due alti intorno al metro e ottanta, uno leggermente più alto. Niente passamontagna. Possibilmente fratelli, data la somiglianza. Occhi castani, mascella squadrata e capelli castani.» Lì si fermò. «Non ha notato più nulla?» Beh, effettivamente alla descrizione fornita dall’agente corrispondevano fin troppi volti e fin troppi nomi. Non li avrebbero mai trovati in quel modo.
 
Rimasero grossomodo un’ora dentro quella stanza, così conosciuta e così ignota a lui allo stesso tempo. Appena conclusa la più dettagliata descrizione di una persona della sua vita, lui e la Brennan strinsero la mano al “tizio dei disegni” ed uscirono, senza scambiarsi sguardi o parole, neppure sussurri o respiri comuni. Alla fine sapevano soltanto di essere in macchina, insieme. Nient’altro. Quel silenzio, che prima li aveva uniti, iniziava a distruggerli pian piano dall’interno.
«Bones…» disse, spezzandolo, in un sussurro. «Si?» . «…niente» e da lì ricominciò la discesa verso quel baratro oscuro di silenzio. Era come se non riuscissero più a parlarsi, e non era piacevole.
 
Seduti sul divano dell’appartamento di Booth, non parlavano certo di più. Due parole, al massimo, per chiedersi “cosa ti va di mangiare?” o “vuoi della birra?”, poi nulla più. Stavano seduti vicini, ma entrambi guardavano fisso un punto sul muro di fronte, come se l’altro non esistesse, o non ci fosse.
A suo malgrado, quell’assenza di parole servì alla dottoressa per riflettere sull’irrazionalità di tutto quello che stava accadendo. Si sentiva colpevole di quel troppo prolungato silenzio tra loro due, pur non c’entrando nulla. «Booth…» questa volta fu lei a richiamare la sua attenzione. Per un secondo le parve di essere ignorata, ma poi lo vide voltarsi in sua direzione con uno sguardo assente e privo di qualsiasi interesse. Sicuramente non era una cosa che le faceva piacere, niente affatto. «che ti succede?» domandò, appoggiandosi alla spalliera. «Niente, rifletto…» rispose, con la noncuranza di prima che faceva sentire Brennan una presenza assolutamente inutile. «Io ho riflettuto…» già, aveva riflettuto fin troppo, quella sera. Il silenzio gliene aveva dato modo. «non posso continuare così.» e diceva questo solo dopo neanche un giorno. Tecnicamente non stavano ancora neanche insieme. «Così come?» . «Così. Guarda…non c’è qualcosa di strano?» . «Cosa?» . «Il silenzio. Dove sono finite le nostre chiacchierate?» . «Adesso stiamo parlando…» . «Non fare lo stupido, sai cosa intendo.» . «Non darmi dello stupido.»
Inarcò un sopracciglio nel guardarlo. «Mi dispiace, ma non posso andare avanti così, non sono la persona giusta.» . «Giusta per cosa? Per sopportarmi in questi momenti difficili? Beh, grazie, Bones!» . «Io non…non volevo dire questo» . «So che volevi dire questo, smettila. Sappiamo entrambi che non sei “umana” e che non puoi capire come io mi senta in questo momento. Capisco che tu ti senta ignorata, ma ho altro a cui pensare, e non puoi farmelo pesare come tutte le altre cose!» Le ultime parole fecero spezzare qualcosa all’interno del “meccanismo” della Brennan. Il cuore, quell’insieme di pulsazioni e battiti, era come spezzato dall’interno. Tacque, non essendo in condizione di dire nulla, in quel momento.
Booth rifletté e smise di respirare per un istante. «Bones, io…io n – non…» provava a rimediare, in qualche modo. Infondo la Brennan era sempre stata lì per lui nei momenti più difficili, non gli aveva mai fatto pesare nulla, aveva sempre cercato al meglio di sollevarlo e di farlo andare avanti. Perché aveva detto quelle parole? Non se ne capacitava neppure lui stesso. Era fuori di sé. Beh, era anche comprensibile, la sua reazione. Aveva appena perso un figlio, mica una partita a scacchi.
«Non mi interessano le tue scuse» disse, quasi facendogli cadere le braccia a terra. E il suo lato umano era ritornato dentro la corazza, molto infondo, in modo che nessuno potesse dire che ne aveva uno. «Bones…non penso davvero quello che ho detto…mi dispiace. Non ho riflettuto, ho detto cose che non pensavo e ho sfogato la mia rabbia su di te come non avrei mai dovuto fare…ti prego, perdonami…» il suo sguardo cercava conforto più di come avesse mai fatto in precedenza. Non sarebbe riuscito ad andare avanti senza di lei.
«Non sono davvero la persona giusta, è a me che dispiace. Ho provato a comprenderti, ma sono dell’opinione che dovresti rimanere un po’ da solo a riflettere sulle tue parole e sulle tue azioni, prima di venire ad urlarmi contro» . «Non ho mai urlato contro di te!» . «Per caso hai misurato i decibel?» . «Booones!» . «Stai ancora urlando! Senti, ne riparliamo domani, va bene? Io vado a casa» stavolta non aveva avuto il coraggio di lasciarlo andare, e in quel momento realizzò che non lo avrebbe mai fatto. Lui se ne accorse, nonostante il tono di voce e la piega presa dalla discussione.
«Va bene…buonanotte, Bones…» rimase lì, fermo sul divano, mentre adocchiò qualcosa sul tavolo a poca distanza che non gli piacque affatto. «Aspetta, prima di andare…puoi controllare cosa c’è lì sopra?» Inarcò un sopracciglio. «Ti sembra il caso di chiedermi certe sciocchezze in un momento così?» . «Bones, ti prego!» . «Va bene, va bene!» si diresse al tavolo e prese in mano un bigliettino giallo. Sopra c’erano scritte, quasi incise, due parole in corsivo, inchiostro nero. “Qualcuno morirà”.
Istintivamente mollò la presa e il biglietto svolazzò a terra, mentre lei rimaneva bloccata e fissava Booth con aria decisamente spaventata.
«Cosa c’è?» immaginava qualcosa, nonostante non avesse letto. Un biglietto in casa sua senza che lui ce l’avesse messo era già una cosa strana di suo.
Brennan indicò il biglietto a terra, e lui si piegò a prenderlo e lo lesse. Nel leggerlo si alzò in piedi e andò verso la collega, abbracciandola. «Sta’ tranquilla, non accadrà nulla» . «Magari non a me, ma a te? Sicuro di voler rischiare?» . «Non iniziare con le tue supposizioni e le tue prediche, non adesso» . «Okay, non inizio, ma tu stanotte vieni da me. Sarai più al sicuro» . «D’accordo, se lo dici tu…» in certi casi era meglio non contraddirla, quello che aveva dato era un ordine.
 
Appena usciti dall’appartamento e poi dal palazzo, ad un chilometro di distanza, udirono un rumore che avrebbero preferito non udire più in vita loro. Di colpo, Booth si voltò e vide il fuoco divampare al di fuori delle finestre. Se non avesse ascoltato la collega…qualcuno sarebbe morto. Si voltò anche lei, in seguito, vedendolo non reagire più. «Porc…per fortuna siamo usciti in tempo» riuscì a dire, palesemente allarmata. «Bones…lì…ogni cosa mi ricordava P – Parker… e adesso…»  gli occhi divennero lucidi in pochi secondi. Aveva perso tutto.
Fu lei ad abbracciarlo questa volta, provando a conferirgli quella sicurezza che non poteva più avere all’istante. La storia non sarebbe di certo finita così. Avrebbero trovato i responsabili: non l’avrebbero passata liscia. 

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Capitolo 7
*** Segreto ***


Quando sembrava che tutto si fosse messo a posto, quell’esplosione non fu solo una metafora. Spazzò via qualsiasi cosa, ma in compenso sembrava aver fatto superare a Booth e Brennan la lite precedentemente avuta. Adesso rimanevano lì, immobili sul marciapiede a vedere i ricordi di una vita andare a fuoco. Erano stretti, tanto da formare una sola persona, le loro anime si erano unite, come i loro cuori. Sembrava quella l’unica ancora a cui l’agente poteva ancora appoggiarsi, lei: Temperance Brennan. Ma se anche lei l’avesse abbandonato? Se avesse deciso di lasciarlo lì? Sarebbe stato disposto a lasciarla uscire dalla sua vita a passo di danza? Sarebbe stato disposto ad andare avanti, avendo perso le due persone più importanti della sua vita? No.
Era così…indifeso. Lui, proprio lui, era indifeso. Era una tortura, non poter fare niente ed essere sull’orlo di una crisi di nervi estrema. Eppure decise di rimanere lì ad osservare le vampate rosse e gialle uscire dalle finestre del suo appartamento, impotente. Sembrava paralizzato, non aveva neppure il coraggio di chiamare i vigili del fuoco. Bloccato, semplicemente bloccato. I suoi ricordi gli passarono per la mente come le scene di un vecchio film ricordate a tratti. Sospirò impercettibilmente e cercò sostegno nella dottoressa Brennan, stringendola più forte, facendole capire che era ancora lì, cosciente e presente.
Il silenzio si riempì di respiri e di battiti in un minuto. Erano avvolti dall’atmosfera che li circondava, e per un attimo sembrava che si fossero dimenticati che il fuoco non proveniva da un falò in spiaggia. Erano solo loro, loro contro il mondo intero, niente di più e niente di meno, solo loro.
Sciolsero l’abbraccio per avere maggiore visibilità del fuoco che stava per espandersi. Le sirene ruppero lo stato di equilibrato silenzio tra i due, che sussultarono e rimasero lì a fissare la scena. Sembrava però che il loro sguardo non fosse direttamente rivolto alle fiamme, quanto a qualcosa di più profondo: i ricordi che stavano portando via, tutta la vita di Booth.
«Perché non siete stati voi a chiamarci? Dicono che fissate la scena da un sacco!» Esclamò una voce sicuramente sconosciuta. Loro sembravano in uno stato di trans, e l’uomo non ricevette risposta. Passò loro una mano di fronte agli occhi. «Heylà!» Ancora nessuna risposta, indi si fiondò dentro casa per assicurarsi che non ci fosse nessuno prima di stroncare l’incendio dalle viscere. In poco tempo, della facciata bianco/giallastra di quel piano del condominio rimase solo un po’ d’intonaco malamente gettato in strada, tutto il resto era…buio. I vetri delle finestre erano esplosi, e qualche pezzetto annerito era finito di fronte alle scarpe di Booth, che impassibile li fissava senza la possibilità di voltarsi.
Poté ruotare di poco il capo appena notata l’assenza di qualcosa al suo fianco. I suoi occhi castani non si persero, come previsto, in quelli azzurri della dottoressa, che stava a qualche passo di distanza, a parlare con un vigile rimasto fuori a controllare per assicurarsi che i suoi uomini fossero al sicuro.
«Bones…» mormorò, provando a muovere i piedi per avvicinarsi a lei e non riuscendoci. Iniziò a sentire un dolore lancinante percorrergli il torace, e provò ad aumentare il tono e a muoversi, per scacciarlo, sempre con tentativi vani. «Booones…» non riusciva ad urlare. Temperance si voltò appena in tempo per vederlo cadere agonizzante sull’asfalto.
 
La sala d’aspetto appariva più tetra di quanto la ricordasse. L’ultimo evento che l’aveva legata a quella sala era stata l’esplosione all’interno del suo frigo, quella che aveva fatto finire per la prima volta in sua presenza Booth su un lettino d’ospedale. Era seduta su una sedia blu a fissare il nulla a mente totalmente vuota. Non stava pensando a niente, non voleva ipotizzare. Per una volta non voleva elaborare tesi, sarebbe stata male, più di quanto non lo era già stata fino a quel momento.
Intravide tra le proprie dita un camice bianco. Tolse le mani di fronte agli occhi e sollevò il capo, appena per riuscire a vedere un rivoletto di sudore percorrergli la parte alta della fronte. L’uomo si fermò di fronte a lei sospirando. «E’ fuori pericolo» disse. Lei si lasciò andare all’indietro, pensando che probabilmente il peggio fosse passato, pur non essendone sicura più di tanto.
«E’ stato un infarto, suppongo» eccola, stava ipotizzando. Strinse gli occhi, che vennero riaperti e videro l’uomo in camice che annuiva, con un’espressione ironicamente malinconica.
«Potrà andarlo a trovare tra un paio d’ore, fa meglio a riposare adesso» e detto questo sparì all’interno del corridoio.
Angela le posò una mano sulla spalla. Fu praticamente solo in quell’istante che si accorse della sua presenza, prima era stretta tra due muri di preoccupazione che era persino possibile tagliare a fettine con un coltello. «Tesoro…sta bene» . «Ha avuto un infarto, mica un colpo di tosse» . «Lo so, ma il dottore ha detto che…» . «Non mi interessa cos’ha detto! Ha subito troppi traumi in così poco tempo…e pensare che io stavo per…» l’ultima parte della frase venne inghiottita insieme a quel po’ di saliva che bastava per non lasciarle la bocca asciutta. «Continua…» la invitò l’amica. «per lasciarlo. Non…non avrebbe retto anche a questo» Angela provò a rimanere impassibile, per quanto fosse in realtà palesemente stupita e imbarazzata dalla situazione che si era venuta a creare.
 
Tre ore dopo, Brennan era nella stanza del collega, che dopotutto riposava come un angelo che si era appena salvato per miracolo da un’esplosione. A volte farfugliava qualcosa, e sembrava agitato, lo si vedeva dalle sporadiche gocce di sudore, e dal fatto che si girava di continuo. Quando lui parlava, lei era lì. Quando si rigirava a destra e a sinistra, lei era ancora lì. Quando la ignorava, o la nominava durante un incubo, lei era ancora una volta lì. E sarebbe sempre stato così, sempre. Lo sapeva, e voleva dirglielo in qualsiasi modo. Trovò un quaderno ed una penna sul comodino, e quei due oggetti furono come la sua ancora di salvezza in un mare di sentimenti inespressi. Si sedette sulla sedia, usando il comodino stesso come supporto. Lo aprì e iniziò a scrivere.
“Iniziare una lettera con un freddo e convenzionale “caro” non mi sembra adeguato in questo caso, ammesso che l’abbia già fatto. Preferisco scrivere questa lettera in modo informale, in uno stile che sicuramente non m’appartiene ma che spero ti faccia arrivare quello che provo scrivendola. Immagina che ti stia parlando, perché sono proprio qui, accanto a te, mentre probabilmente sei in una situazione critica post-infarto. Sono state le due ore peggiori della mia vita, sommate a quella in cui sono rimasta lì ad aspettare i risultati dell’operazione a New York. Questa però è un’altra storia che non voglio riportarti alla mente. Voglio che tu legga questa lettera con un sorriso dei tuoi sulle labbra. Promettimelo, Booth, non accetto obbiezioni, questa volta davvero. La situazione sembra essersi stabilizzata, e anch’io in un certo senso sto meglio. In un certo senso questo tuo malore ha fatto in modo che non facessi la scelta peggiore della mia vita. Non per questo lo ringrazio, naturalmente, no. Tu mi hai insegnato a mettere il cervello da parte e a fare lavorare quell’organo involontario che è il cuore. “Fatti guidare, Bones, e farai la scelta giusta” sono le parole che hai usato per provare a convincermi. Ti avevo detto che non avrei mai potuto seguire questo consiglio, che il cuore andava messo in una scatola durante determinate situazioni, e che i sentimenti erano una cosa che non mi apparteneva. Ho dovuto ricredermi. Beh si, mi sono ricreduta e non te l’ho detto, spero mi perdonerai. Questa volta il mio cuore ha lavorato piuttosto bene, direi. Il tuo un po’ meno. Battuta triste, si, ma sai, non sono brava con queste cose. Anzi, perdonami in partenza, perché probabilmente questa lettera finirà nel cestino della stanza e non la leggerai mai, e me lo auguro. Più che altro è indirizzata a me stessa, è una riflessione personale su quello che vorrei dirti, ma non sono capace di scrivere altro, perdonami ancora. Troverò le parole, lo sento, e quando le troverò promettimi che mi ascolterai come hai sempre fatto da quando mi conosci. Inutile, so che lo farai. Grazie di tutto.”
Appena finito richiuse il quaderno e ci posò la penna in mezzo, allontanandosi bruscamente dal comodino per non destare sospetti ad un Booth che aveva appena aperto l’occhio destro e sembrava sorriderle dalla sua postazione a qualche centimetro di distanza.
«Ti sei svegliato…» . «Già. Ho avuto paura, Bones» Il suo sguardo era più serio che mai, così come il tono, appariva davvero intimorito da qualcosa, qualcosa che non se n’era andato. Il sogno che aveva fatto qualche notte/mattina prima continuava a tormentarlo, e l’aveva tormentato durante l’operazione, continuando fino a cinque minuti prima.
«Cosa è successo?» Chiese lei, con un filo di voce, quasi senza far sentire la sua domanda all’altro, che invece sospirò e sollevò di poco il capo per poterla guardare meglio, quasi ad accertarsi che fosse davvero lei, e che non la stesse solo immaginando.
«Un…niente, Bones, niente. Sta’ tranquilla» Sorrise, provando a toglierle la preoccupazione di dosso, invano. Lei però finse di essere rassicurata da quelle parole, ricambiando il suo sorriso com’era solita fare in questi momenti. Non voleva allarmarlo, né tantomeno metterlo sottopressione. «D’accordo. Senti…adesso faccio entrare Hodgins, ci tiene. Ci vediamo dopo» sorrise nuovamente, alzandosi dalla sedia e voltandosi direttamente, camminando verso l’uscita della stanza. Appena fuori, richiuse la porta ed indicò la via all’entomologo, che si apprestò a seguirla, bloccandosi appena davanti al legno bianco, e voltandosi di scatto verso il corridoio, dal quale proveniva un continuo urlo isterico e acuto. Angela, intanto, non era più accanto agli altri, e Cam correva a gambe levate in direzione del rumore.
«ANGELA!» urlò Jack, precipitandosi al seguito della donna, per controllare.
 
 
Spazio autrice:
Mi spiace averlo sospeso per tanto tempo…beh, relativamente tanto.
Ringrazio chi finora ha recensito, chi ha messo la storia tra le seguite e chi tra le preferite. Grazie di cuore, spero continuiate a seguirmi.

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Capitolo 8
*** I hear them calling ***


I passi di Jack si facevano sempre più veloci, sembrava quasi lasciare una scia di fumo dietro di sé, mentre attraversava quel corridoio e si fermava bruscamente all’incrocio tra altri due corridoi, i quali l’avrebbero condotto a due reparti completamente diversi. Cercò di ricordare da dove era arrivato l’urlo, ma si voltò disperato verso Cam, che come lui s’era fermata lì per riprendere fiato, affannata. «Hai visto qualcosa?» La donna, nonostante non riuscisse quasi più a muoversi, fece cenno di no con la testa, mentre a lui si raggelò il sangue nelle vene. Vide dei piedi al terminare di un altro incrocio di corridoi poco distanti dal punto in cui s’erano fermati a riprendere fiato. Riprese la corsa disperata, sbattendo talvolta al muro senza accorgersi degli spigoli vari, troppo concentrato. A scoppio ritardato, Cam lo seguì, provocando coi tacchi un rumore che mise ancora di più in allarme il probabile rapitore, o quel che era, di Angela, i cui passi si sentirono riecheggiare verso l’ascensore. Jack si lanciò in avanti, andando a sbattere rovinosamente il petto a terra, ma riuscì ad afferrare per le gambe l’uomo, che riconobbe come un tizio biondo alto grossomodo un metro e ottanta, per quanto le sue analisi, dal punto in cui si trovava, potevano essere precise. Prima che potesse dire qualcosa, l’uomo e Angela erano già nell’ascensore. Le sue mani rimasero chiuse dentro in un vano tentativo di tenere le porte aperte e accedervi. Tremò di dolore, mentre le lacrime iniziarono a scendere, a causa di un dolore più grande. Non osava immaginare cosa sarebbe successo alla sua amata, non voleva neppure provare ad immaginarlo, voleva solo salvarla. Il suo capo gli stava dietro, ma non se n’era accorto. Si voltò, lasciandosi scivolare lungo la porta principale dell’ascensore, di un verde macchiato da anni di ruggine. Finì a sedersi a terra, con il viso tra le gambe, aderenti al petto. Non aveva la forza di parlare, né di muoversi. Avrebbe semplicemente aspettato che qualcuno venisse in suo soccorso. E no, non si stava preoccupando per le mani, non si stava abbandonando al dolore alle dita, semplicemente decise di lasciare che tutto gli scivolasse addosso per una frazione d’attimo breve quanto un battito del cuore che stava per uscirgli dal petto con un frastuono incredibile, prima di scoppiare come petardi a Capodanno. Intorno a lui solo silenzio e un alone di solitudine grande quanto una capsula in grado d’avvolgerlo per il resto della vita. Sentì dei passi in quella che più o meno era lontananza, qualche corridoio indietro. Non se ne curò affatto, non gli importava, si era persino dimenticato della presenza dei suoi colleghi lì.
Solo quando sentì il respiro di Brennan avvicinarsi decise di sollevare il capo, mostrando il resto delle silenziose lacrime che gli avevano percorso le guance mentre era chinato. Sentì la sua mano sulla spalla, e rimase comunque in silenzio. «Faremo il possibile» furono le uniche tre parole che poté sentire mentre fuoriuscivano dalle labbra dell’antropologa, che aveva condiviso le sofferenze dell’agente e del resto delle persone che conosceva. Considerava Hodgins come uno della famiglia che non aveva mai davvero avuto, avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarlo. Infondo, Angela era la sorella che non aveva. Evitò di mostrarsi in lacrime anche lei, l’aria di sofferenza che si respirava si poteva tagliare a fettine, tanto era consistente. Iniziò a bloccare il respiro d’entrambi, mentre la dottoressa Saroyan rimaneva in piedi di fronte a loro, naturalmente non lamentandosi di non essere minimente calcolata. Avrebbe senz’altro aiutato anche lei nelle ricerche di Angela. «LE SCALE!» Brennan urlò queste parole sollevandosi con la spinta dei palmi delle mani sul freddo pavimento del corridoio. Scosse Hodgins per la spalla, aiutandolo ad alzarsi, quasi sollevandogli di peso il braccio. In un primo momento l’entomologo non capì a cosa stesse puntando. Si limitò a guardarla perplesso, mentre lei s’avviava in una piccola corsetta verso le scale antincendio proprio dietro all’entrata dell’ascensore. La seguì, sostenuto moralmente dalla Saroyan che camminava accanto a lui come se stesse seguendo una marcia funebre.
La dottoressa si fermò a metà scala, agitando le braccia e facendo segnali piuttosto strani che i due non compresero. «Muovetevi!» Esclamò quindi, avendo deciso che le parole sarebbero state molto più efficaci. Forse, se avessero corso abbastanza velocemente, sarebbero riusciti a fare qualcosa, o magari a controllare che ci fossero delle videocamere che avessero ripreso la scena. Il pensiero di Brennan andava comunque ad Angela, ed era determinata ad acciuffare quell’uomo prima che uscisse dall’ospedale. Rifletté, e solo un minuto dopo, mentre la corsa si faceva più accelerata e pesante per lei, si ricordò di trovarsi in un ospedale. Il personale avrebbe dovuto fermare chiunque potesse sembrare strano o sospetto. Beh, ad ogni modo preferì continuare la sua corsa, molto più sicura di poter contare su sé stessa che su gente con cui non aveva fortunatamente ancora mai avuto a che fare. Non avrebbe voluto iniziare al momento a conoscere del personale che giudicava a priori del tutto incompetente. Si fermò appena fu sul retro dell’ospedale, dove le scale antincendio terminavano.
Mentalmente calcolò una decina di secondi per prevedere l’arrivo alle sue spalle della Saroyan e di Hodgins. Allo scadere dei dieci secondi la sua corsa riprese verso lo spiazzale, pieno di erbacce d’ogni genere corrispondenti ai punti in cui i muri s’intersecavano con il terreno d’un colore sul bruno. S’arrestò solamente quando vide l’uomo insieme ad Angela che tentava con scarsi risultati di superare una barriera all’altezza di un paio di chilometri dal capo della dottoressa. Alla sua sinistra una rampa di scale senza alcuna ringhiera che disegnava una perfetta curva verso il lato opposto appariva come una parte d’un edificio decisamente decadente. Non le importò, l’unica cosa da lei calcolata al momento fu nuovamente un arco temporale, l’arco temporale durante il quale avrebbe dovuto riuscire a risalire quegli scalini per poi fiondarsi sull’uomo, bloccandolo alle spalle prima che potesse fuggire scavalcando la barriera di fronte a sé.
Non avrebbe urlato nulla e sarebbe stata il più silenziosa possibile, il tutto sarebbe dovuto avvenire nell’arco di cinque secondi scarsi, o non avrebbe mai acciuffato il fuggiasco. Questi pensieri non durarono più di un decimo di secondo, perché fu già al terminare delle scale esattamente tre secondi cronometrati dall’aggeggio posizionato all’interno della tasca sinistra dei suoi pantaloni, che era stato impostato proprio all’inizio del piano per una maggiore precisione, nonostante non fosse solita fidarsi degli oggetti elettronici, bensì molto più del suo stesso cervello. Camminò diagonalmente dirigendosi verso il centro di un nuovo spiazzale, il quale si trovava al “piano” iniziato alla fine delle scale. Si lanciò esattamente come aveva fatto Jack prima di rompersi le dita delle mani all’interno dell’ascensore. Ecco che il rumore dei passi dei colleghi andò pian piano scemando, fino a smettere d’esistere. Non sentì più nulla se non il rumore del battere di piedi sopra la barriera lignea di fronte all’uomo che si trovava davanti, il quale fortunatamente non l’aveva notata. Era stata silenziosa e cauta, il più possibile, e in quel momento credette che sarebbe riuscita a compiere qualunque impresa. S’accorse però di star traendo conclusioni affrettate. “Smetti di pensare e agisci” era quello che Booth le ripeteva più spesso. Eccola quindi mentre le sue gambe furono in un duro attrito con la sabbia che riempiva la piattaforma, ma fortunatamente con le braccia riuscì a circondare le ginocchia del fuggitivo, stringendo le dita per evitare di mollare la presa, prima di finire a terra anche col busto con i movimenti leggermente più difficili da compiere. Passò non più di un istante tra quando si ritrovò in terra e quando si rialzò con un movimento rapido e un balzo in avanti. Angela era legata ad un palo all’estrema sinistra della piattaforma, un rettangolo orizzontale dalla fine della scala antincendio che la Brennan aveva usato come passaggio rapido e sicuro, per assicurarsi di non essere bloccata da nessuno durante la sua missione. Notò l’amica lanciarle un’occhiata colma di gratitudine immensa, mentre le labbra coperte da un bavaglio le tremavano d’impazienza e di preoccupazione, ed era visibile persino dalla distanza alla quale la donna si trovava, anche se naturalmente il suo sguardo non aveva il tempo di posarsi sul volto dell’amica, particolarmente impegnato a controllare ogni e qualsiasi movimento brusco dell’uomo, che nel frattempo cadde a terra provocando un tonfo perfettamente udibile anche dal piano inferiore. La Brennan lo blocca, portandogli le braccia dietro la schiena e costringendolo a piegarle facendo una certa pressione senz’altro dolorosa per lui. Tira fuori le manette che ha preso a Booth qualche giorno prima e l’ammanetta, mostrando un sorrisetto davvero fiero di quel che ha fatto. Adesso, in perfetto stile Temperance Brennan, le verrebbe davvero, davvero voglia di prenderlo a calci, ma proprio grazie al partner riconosce che non sarebbe la cosa migliore da fare, anche se la prima cosa che viene fuori al termine d’un arresto come quello è sicuramente la rabbia. La trattiene facendo respiri profondi e posando il piede destro sulla schiena dell’arrestato, incrociando poi le braccia al petto e sollevando lo sguardo al cielo con un sospiro stanco come si vede nei film americani degli anni cinquanta, quando il supereroe mette al tappeto il cattivo e lancia un malinconico ma fiero sguardo al cielo rivolto verso il luogo da cui in realtà proviene. E adesso si sente davvero la Wonder Woman di cui ha vestito i panni, una volta, per Halloween, nonostante riconosca di non aver fatto niente di che.
Prima che si ricordi della presenza di Angela passa qualche altro minuto, e se ne rende conto solo per un gemito della stessa, ancora maledettamente legata al palo senza la possibilità di muovere un muscolo. Ma essendo sola non può correre a slegarla, o l’arrestato rischierebbe di riuscire a scappare. Un attimo di silenzio. Un urlo. L’inconfondibile voce di Hodgins fa eco andando ad infrangersi contro il muro per tornare indietro verso lo stesso emissario, il quale sale le scale con una velocità incredibile, fiondandosi a slegare Angela con altrettanta velocità, in modo da poterla subito dopo abbracciare.
Un enorme frastuono proveniente dall’ospedale interruppe i convenevoli, mentre la Brennan continuava a tenere il piede fisso sulla schiena dell’uomo, rischiando di spezzargli la spina dorsale. Smise di guardare al cielo con aria trionfante e si fece aiutare da Hodgins a portare l’uomo all’interno della struttura, dove alcuni uomini della polizia erano pronti a portarlo in centrale. Quando i tre videro il buio al termine del corridoio di fronte a loro, appena sulle scale, a destra dell’ascensore si resero conto che qualcosa davvero non quadrava. «Cam?» Chiese titubante la dottoressa, mentre a passo lento, ma deciso, si avviava verso il buio assottigliando di poco le pupille per vedere il più lontano possibile. «Cam? Sei qui?» Era scomparsa da un po’, in effetti. Una porta si aprì, facendola scattare sull’attenti alla sinistra. L’ennesimo urlo, stavolta decisamente agghiacciante, provenne dal corridoio sul quale la camera di Booth s’affacciava. Corse a perdifiato per raggiungerlo, infischiandosene di quello che poteva esserle successo di fianco. «BOOTH!» Urlò, fiondandosi a spalancare la porta e lanciandosi all’interno della stanza rischiando all’ultimo di perdere l’equilibrio. Fortunatamente non lo perse e fu perfettamente in piedi di fronte al letto. Unico inconveniente? Il letto era…vuoto.

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Capitolo 9
*** Last - Tutto ha una fine ***


S’immerse in quel mare d’incertezze che mai, mai più avrebbe voluto attraversare. I suoi sentimenti mutarono come il mare in tempesta, il suo cuore si ribaltò tra mille giravolte, sentì la sua testa non reggere e si vide in terra, seppur fosse ancora perfettamente in piedi, ad osservare quel letto vuoto, le cui coperte si trovavano malamente gettate sul marmoreo pavimento bianco. Uno strano presentimento le avvolse la bocca dello stomaco, annodandosi intorno ad essa e bloccandole il respiro del tutto. Crollò, infine, in avanti. Trovando il supporto del letto. A braccia incrociate, rimase lì chissà per quanto tempo, mentre uno strano calore proveniente dall’esterno avvolse l’intera stanza, ponendo fine al ciclo di pensieri che le invadeva il cervello. Si voltò di scatto, perplessa, coi riflessi pronti più di quelli d’una tigre in attacco. Sull’attenti.
Si alzò sulle ginocchia per poi rimettersi in piedi come meglio poté all’istante. Una canzone conosciuta le arrivò alle orecchie dall’interno, quando si rese conto di starci riflettendo, di starci costruendo una storia intorno. Booth fu il volto che vide all’interno delle parole descritte dal brano, così melodioso e struggente da togliere il fiato per poi lanciare in un baratro d’angoscia chiunque l’ascolti con una certa attenzione. Fu fuori immediatamente, mentre non venne accesa nessuna luce all’interno dell’intero edificio. Il buio regnava sovrano, mentre cercava a tentoni di trovare un punto comune, possibilmente un punto d’incontro con i suoi colleghi. I suoi piedi toccarono qualcosa, un foglietto probabilmente, dal rumore che produsse nello strisciare tra la suola dello stivale e il pavimento.
Lo raccolse e lo infilò in tasca senza farci troppa attenzione, aveva ben altro a cui pensare.
Avvertì un tocco alla spalla sinistra, e voltandosi diede una gomitata in pancia a Camille, che gemette facendosi sentire chiaramente dalla collega che, imbarazzata e preoccupata allo stesso tempo, si scusò senza però dire una parola, trascinandosela per un braccio lungo il labirinto infinito di corridoi presenti solo in quell’ala del piano. All’angolo le voci di Hodgins ed Angela si distinsero, e grazie a queste anche i due le seguirono, addentrandosi di più nell’ospedale. Il personale sembrava esser andato a farsi benedire, non si sentivano più dottori, né allarmi, né inservienti, né pazienti, e non c’erano neppure telecamere o luci di sicurezza. Sembrava di essere in chissà quale sperduto luogo della profondità del Bronx, nonostante si trovassero in uno dei migliori (a quanto si diceva) ospedali del centro di Washington.
Il caldo iniziò a farsi sempre più insopportabile man mano che s’avvicinavano, scendendo le scale, al piano sottostante.
Così otto piedi calpestavano il marmo, verso quella che probabilmente era nient’altro che la stanza adibita a magazzino, che si trovava sotto il seminterrato. Una specie di cantina, insomma. Vi si trovavano le più svariate medicine, macchinari non più funzionanti e non ancora stati smaltiti, e talvolta anche qualche galeotto intento a scappare dal proprio lavoro. Però al momento era stata svuotata. Niente più medicine, e nessun galeotto. Solo qualche macchinario a cui mancavano tubi, ventole e meccanismi interni. Camille fece per parlare, ma fu Angela a zittirla con un semplice «Shh» e un eloquente gesto della mano.
Tesero l’orecchio, attaccandosi al muro. Sembrò a tutti una nuova esplosione, ma avevano sbagliato piano: si trovava pressappoco in cima alle scale. A capo della fila, sempre la Brennan, la quale riprese a correre con una foga che non aveva avuto prima, ripensando a Booth e a dove potesse essere andato a finire. Ci voleva sangue freddo, in queste situazioni. Lui le aveva salvato la vita così tante volte che si sentiva decisamente in dovere di ricambiare.
Hodgins stava per inciampare, ma fortunatamente Angela riuscì a sorreggerlo appena in tempo per proseguire. Temperance non avrebbe tollerato un errore in un momento simile, mentre il calore avvolgeva tutti quanti, e l’ossigeno sembrava stare per terminare, probabilmente si sarebbero potuti ritrovare a terra da un momento all’altro, l’ambiente non le piaceva affatto, e avrebbe messo in atto qualunque piano “alla Bones” (come era solito dirle Booth) per uscirne.
Salite le scale e superato un primo momento di terrore nel non vedere nessuno, ma nel vedersi solamente circondata da fiamme in circolo,  sospirò, guardandosi intorno e scrutando la zona fin troppo accuratamente, per poi fare segno agli amici di muoversi a seguirla.
«Di là!» Esclamò Angela, una volta trovato un passaggio dalla porta del quale venivano rumori sospetti. La Brennan non esitò a sfondare la porta con un calcio, vedendosi di fronte un uomo intento a trafficare con la caldaia, il quale la urtò, scaraventandola a terra, nella fuga.
Riuscì appena ad uscire e a seguirlo, per lanciarsi dietro di lui e afferrargli le caviglie, facendolo inevitabilmente cadere a terra, in avanti, mentre Camille gli metteva le manette ai polsi e provava a costringerlo a confessare. «Dov’è Booth?» Chiese la dottoressa, provando a mantenere la calma.
«Chi?» Chiese l’uomo, con un sorriso beffardo in viso.
Gli premette la guancia sinistra contro il pavimento, sul quale ben presto sarebbero arrivate delle fiamme. «DOV’E’ BOOTH?» Si sentì un gemito. «Al piano di sopra!»
Prima di recarsi al piano superiore gli diede un calcio nelle costole, senza risparmiare quel po’ di forza in più per via della rabbia.
«BOOTH!?» Urlò, mentre si aggirava per i corridoi. Niente, non c’era nessuno, neppure i possibili complici di quell’uomo, probabilmente tenuto fermo dai tre colleghi, ma di questo non le importava granché, sul momento.
Si sedette, quindi, dove le capitò. Infilò una mano in tasca, ripescando il foglietto che aveva trovato, inevitabilmente stropicciato e mediamente leggibile, che inizialmente aveva giudicato futile, di marginale ruolo. Senza prestare cura, lo aprì, prima di accorgersi di quello che in realtà fosse.
 
Ferma di fronte alla porta di una stanza d’ospedale che va fuoco attorno a lei, la dottoressa strinse forte quel foglio disegnato di pallini in trasparenza, segno d’un pianto, l’intreccio di due occhi che non sarebbe mai più avvenuto. Quell’intreccio di cielo e terra che non si sarebbe ripetuto, quell’intreccio d’elementi così sbagliato e così giusto allo stesso tempo, le sarebbe mancato. Rivide il suo sguardo, perfettamente incastonato in quegl’occhi pieni di speranza e allo stesso tempo velati di malinconia.
Rivide il suo sorriso, ancora vivido nella mente di chi gliel’aveva donato più volte, e riuscì a sentire nuovamente il suono delle sue parole leggere come una piuma che fa il suo ingresso da una finestra. Da dietro quel cielo appannato d’acqua riuscì a leggere quelle poche frasi che sarebbero rimaste incise nel suo cuore, per sempre.
“Al momento in cui leggerai queste parole, Bones, potrei non essere qui. Chiudo gli occhi e ti rivedo sempre vicino a me, pronta ad aiutarmi nei momenti più duri della mia vita. Ho affrontato la morte di mio figlio, grazie a te. Promettimi che non resterai al buio, promettimi che non ti richiuderai dentro la scatola che hai aperto quando ci siamo incontrati. Promettimi che amerai di nuovo e soprattutto promettimi che ti farai una famiglia e che troverai degli amici, magari migliori di come, facendo del mio meglio, sono riuscito ad essere io. Grazie, Bones, per avermi fatto tornare a vivere.”

Angolo autrice:

Anche questa storia è finita, mi dispiace avervi fatto aspettare tanto, ma mi ci è
voluto per decidere come concluderla, e come avrete notato non si è esattamente
conclusa nel migliore dei modi. Mi auguro che vi sia piaciuta.
Un grazie a tutti quelli che mi hanno seguita, chi dall'inizio e chi non, chi ha
inserito la mia storia tra "preferite", "ricordate", "seguite", chi ha recensito, chi ha
speso un po' di tempo a leggere ma ha deciso di non esprimersi, chi non ha trovato
le parole adatte, chi mi ha fatto ridere o commuovere con le sue recensioni, chi
ha pianto o riso insieme ai "miei" personaggi, e chi mi ha detto di continuare a scrivere, 
ma soprattutto chi ha passato un po' del suo tempo a leggere quello che io ho scritto,
chi ha speso qualche minuto per me. Grazie di cuore.
-xNewYorker__

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