Eadem Mutato Resurgo.
{00: Uovo}
Sono uguale a me stesso da secoli.
Io veglio sulla soglia dello scibile umano, nell’ombra senza
fine.
Seppur mutato, risorgo.
La paura è parte integrante del mio potere, perché non c’è
nascita senza orrore, e non c’è decadimento senza bellezza.
Seppur mutato, risorgo.
Io rinasco come guida silenziosa e come diafano presagio,
come salvezza e come castigo. Qualcuno mi invoca, ma i
più chiedono pietà.
Seppur mutato, risorgo.
Le mie ali sono squame colorate, scintillanti e velenose.
Chi le vede è ammaliato, chi le vede ne ha paura.
Seppur mutato, risorgo.
Le mie squame sono una corazza, che mi protegge nella
crescita. A un passo dalla vita, ma sconosciuto alla
morte, io giaccio.
Seppur mutato, risorgo.
La mia corazza è nata dal filo sottile del bruco, che
scivola silenzioso nella terra incantata. Sono colui
che racconta segreti impenetrabili, nell’arco di una rapida vita.
Seppur mutato, risorgo.
{01: Bruco}
La mia vita è iniziata in un luogo caldo e umido, circondato
da una foresta verde bottiglia.
Il mio primo ricordo cosciente è quello di due volti
spaventati, e di un nome.
Meinwald.
Presumo fosse il mio, di nome.
I volti spaventati erano dei miei genitori. Gli facevano
paura i miei occhi, forse: splendevano troppo.
O forse era il fatto che piegassi i
cucchiai, rompessi le sedie e le maniglie senza toccarle.
Non avevo una grande considerazione delle persone che avevo
intorno: d’altronde, il meccanismo di vita-morte è qualcosa di troppo complesso
perché possa essere compreso da un bambino, anche da uno come me. Rompere e
uccidere erano per me cose naturali e indiscernibili, come è
naturale che un bambino normale si diverti a smontare i suoi giocattoli.
Terrorizzati, i miei genitori a tre anni mi rinchiusero in
cantina, dove non potessi nuocere. Avevano troppa paura per uccidermi a loro
volta, e non potevano d’altro canto mostrarmi al mondo.
Mi legarono alla catena, costringendomi all’oscurità. A
strisciare, come un bruco.
La mia prima esperienza di vita fu il riconoscere le imperfezioni
del pavimento e gli scricchiolii del legno. Il suono della
musica, dall’altra parte della massiccia porta della cantina, in cima alle
scale.
Rumori, odori, colori, tutto mischiato nel grigio. Eppure io
li discernevo.
Eppure io comprendevo.
Venivo nutrito regolarmente,
cosicché ho continuato a vivere, nel buio dove ormai i miei occhi si erano
abituati. Distinguevo i colori, ormai: ma tutto continuava a sembrarmi grigio,
a discapito dei miei sensi.
Vivevo in una cantina piena di oggetti, a me perlopiù
incomprensibili, e di libri e riviste: ho imparato a leggere grazie a loro. E
grazie a una strana abilità, che mi permetteva di sentire quello che dicevano quelle persone, anche a distanza;
assorbivo le loro conoscenze in maniera istintiva, per me naturale.
Scoprii che il luogo dove vivevamo si chiama Australia, e
scoprii anche che non era la terra d’origine della mia famiglia: erano emigrati
da un paese freddo, circondato da montagne, a migliaia di chilometri di
distanza. Il nome era simile: Austria.
La parola “emigrare” mi piacque molto fin da subito, non
saprei dire perché.
Li sentivo camminare sopra la mia testa; li sentivo far
finta di ridere, in presenza di ospiti, e piangere e
trattenere il respiro, una volta da soli.
Dovevano temermi molto, e non capisco ancora perché: ero
solo un bambino incatenato.
Non sentivo la necessità di creargli problemi, così consumavo i miei pasti tranquillamente: i piatti venivano
appoggiati in cima alle scale, io li portavo giù con quella strana forza, fatta
di mille braccia che mi sgorgavano come dagli occhi, mi nutrivo, e lo riportavo
su.
Oltre a quella distanza non arrivavo ancora, d’altronde.
Rimasi lì per almeno cinque anni. Forse di più. In attesa.
Piano piano, la mia forza
cresceva, la sentivo bene. Cresceva, cresceva,
cresceva, fino a che non riuscii a rompere le catene. Le vidi accartocciate ai
miei piedi nudi, e per un attimo mi mancarono.
Ma fu solo un momento.
Mi diressi su per le scale, non senza difficoltà: le mie
gambe non erano abituate al moto. La mia forza interiore sì, però, e con quella
non mi ci volle molto per aprire la porta. Si accartocciò come carta, e si
schiantò contro la parete.
Era la prima volta da tanto tempo che vedevo quella che
dovrebbe essere considerata la mia casa: la trovai molto aliena. Come ho
trovato alieno l’urlo di mio padre, che vedendomi uscire aveva afferrato un
attizzatoio, come per difendersi.
La cosa mi fece ridere. Glielo annodai intorno al braccio,
prima di farlo schiantare contro il muro, come avevo appena fatto con la porta.
Come la porta, si accartocciò, e non si mosse più,
colorandosi di rosso. Mi piace, il colore rosso.
Curioso: non riesco a ricordarmi la sua faccia.
Poi fu il turno di mia madre; anche lei urlò, arretrando
lungo il muro.
Diceva tante cose, ma non me le ricordo bene, adesso. Credo
che la parola ricorrente fosse “mostro”.
Si fermò un attimo a guardarmi, schiacciata contro l’angolo.
Anche di lei non ho molta memoria, ma quello sguardo sì, lo rammento bene: per
un secondo mi guardò come se si fosse resa conto che
quello che aveva davanti era solo un bambino, un bambino che lei stessa aveva
generato.
Che pensiero sciocco,
pensai, mentre la sua testa rotolava sul pavimento.
Mi sentii sollevato, credo.
Non avevo più niente da fare in quel posto, non aveva per me
senso restare lì.
Così, uscii dalla casa, e mi diressi verso la foresta, che
vedevo all’orizzonte: era scura, densa e profumata, lo sentivo anche a
distanza.
Mi nascosi lì, pensando che fosse la mia casa.
Non sapevo ancora di sbagliarmi.
Nothing stays the same.
Someday,
I hope you will make more lasting connections.
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T h e B u t t e r f l y E f f e c t:
Ciao a tutti! Sono secoli che non scrivo, chiedo venia, me ne rendo
conto.
… nessuno mi parli del Canto. Lo
so. LO SO! çOOOOOOOOOOç Sono
bloccato. Ma riuscirò a finirlo, lo prometto. Ci riuscirò.
Intanto vi propongo questa cosina su Myu di Papillon, uno
dei miei Spectre preferiti di sempre; saranno pochi capitoli, mi toglierò dalle
scatole alla svelta. Soprattutto, i capitoli sono già tutti scritti, non temete. *C*
Passiamo alle note vere e proprie!
“Eadem mutato resurgo”: il titolo, traducibile con “seppur
mutato, risorgo”, o anche “risorgo
uguale eppure diverso” è uno specifico riferimento alla Spira mirabilis,
la cosiddetta “spirale meravigliosa” teorizzata dal matematico Jakob Bernoulli: in sostanza si tratta della spirale logaritmica,
che compare in natura in più forme (la curva della conchiglia del Nautilus, le ragnatele, i bracci dei cicloni tropicali, le
galassie a spirale). Vi risparmierò noiose spiegazioni matematiche: ho
fatto l’accostamento tra questo motto (“Eadem mutata resurgo” compare sulla tomba di Bernoulli
a Basilea) e la spirale con Myu in quanto, come Spectre, risorge sempre uguale
a sé stesso. Inoltre, la spirale è simbolo dei cicli
infiniti della natura, oltre che delle reincarnazioni. L’ho trovata molto
adatta.
La questione della nazionalità di
Myu è un mio piccolo divertissement: nella edizione Granata Press, per un errore di traduzione,
era segnata l’Austria come Paese d’origine. Nelle successive edizioni hanno
corretto con Australia. Ho fatto una piccola fusione così. XD
La canzone citata alla fine del
capitolo è Monochrome,
di Ilaria Graziano. Verrà citata lungo tutta la
storia. Aw, la amo.
Al prossimo capitolo!
Shinji
a.k.a. Il Nemico Indomo