Breaking the World di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I › St. Charles, Settembre 2002 ] Il preludio della fine ***
Capitolo 2: *** [ Atto II › Luogo sconosciuto, anno e mese ignoti ] Sbalzi imprevisti dal presente al passato ***
Capitolo 3: *** [ Atto III › Ipotetica Londra, anno e mese ignoti ] Ombre di mistero ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV › Londra, anno approsimativo 1985 ] La fine del sogno ***
Capitolo 5: *** [ Atto V › St. Charles, Agosto 2001 ] Epilogo o prologo? ***
Capitolo 1 *** [ Atto I › St. Charles, Settembre 2002 ] Il preludio della fine ***
Breaking_1
[
Prima classificata al contest «Scacco
matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata
allo «Slash e Femslash contest!»
indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance
in pain» indetto da LoveSomebody ]
[ Terza classificata
al «Reverse
contest» indetto da hiromi_chan ]
Titolo: Breaking
the World
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale
Pezzo Scelto: Torre
- Parola:
Malinconia
- Canzone:
Le persone inutili
- Fenomeno
atmosferico: Neve
Tipologia: Racconto
breve suddiviso in cinque capitoli
Genere: Drammatico,
Sentimentale, A tratti
vagamente introspettivo, Malinconico, Vagamente - o forse anche troppo
- nonsense
Avvertimenti: Vagamente
Slash
Rating:
Giallo / Arancione
Beta Reader:
No
Introduzione: Non si è mai certi di
ciò che la vita ti riserva
finché non ti accadono le cose più impensabili.
Il mondo è come un antro oscuro
che nasconde nel suo ventre l’orribile verità
dell’essere.
«Si volti lentamente e tenga
le mani ben in vista», mi intimò una voce
familiare, e nonostante lo
scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto:
quella era
senza alcun dubbio la voce di Stephen.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
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Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
I
understand that there’s probably a link
between our worlds.
Even
if it may be twisted in ways that are
cruel at times and kind at others.
The
world is inside of you.
Avete
mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli
che non
aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era
capitato
proprio a me.
È
alquanto bizzarra la velocità
con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto
strambo
è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti
precipitino
addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non
si è mai certi di ciò che la
vita ti riserva finché non ti accadono le cose
più impensabili. Il mondo è come
un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile
verità dell’essere.
ATTO I: ST. CHARLES
› SETTEMBRE 2002
IL
PRELUDIO DELLA FINE
Una
delle poche cose che mi mancavano della stagione estiva era il canto
delle
cicale. Ero stato un giocatore di baseball professionista per quattro
anni, e
adesso io, Jonathan Wilson, volevo soltanto godermi la pensione
anticipata come
si conveniva ad un uomo che aveva lavorato duramente per raggiungere il
proprio
obiettivo. L’estate, però, mi ricordava anche il
sogno che ero stato
costretto ad abbandonare così prematuramente.
Era
a ciò che pensavo mentre,
sorseggiando un caffè freddatosi ormai da svariati minuti,
me ne stavo seduto
su una sdraio malmessa che tenevo in giardino. Con lo sguardo puntato
verso il
cielo ancora azzurro e la mente persa nei ricordi, osservavo le foglie
rosse e
gialle che si staccavano dai rami degli alberi, mulinando docilmente
nel lieve
venticello autunnale prima di cadere a colorare il cortile.
Mi
scostai qualche ciuffo di
capelli che mi era ricaduto a nascondermi gli occhi, massaggiandomi il
braccio
sinistro in un gesto così naturale che ormai sembravo non
farci più nemmeno
caso quando lo compivo. Da quando era accaduto quel brutto incidente
era
passato più di un anno, e da quel momento non avevo
più avuto il coraggio di
prendere in mano una palla. La cosa peggiore era che il baseball mi
mancava. Il
mio miglior amico, Stephen O’Neal, mi ripeteva di continuo di
non pensarci,
poiché così non facevo altro che farmi
più male di quanto avessi bisogno. E
Stephen sapeva il fatto suo. Lo conoscevo da quando era un tappo di
sughero di
soli sette anni, e già allora sembrava avere
un’aria da uomo vissuto difficile
da trovare sul viso di un bambino così piccolo. Sua madre
era morta quando lui
aveva solo sei anni, e suo padre, un ubriacone violento che aveva
sempre
sperperato i loro fondi in whisky scadente, aveva fatto la sola cosa
buona in
tutta la sua vita affidandolo a sua sorella. Stephen aveva
così vissuto con sua
zia fino ai diciott’anni, ma non aveva mai rimpianto il suo
passato. Come venticinquenne,
adesso, era fiero della sua vita: una bella casa, una buona educazione,
una zia
che l’aveva cresciuto come un figlio e l’impiego
che aveva sempre sognato.
Quanto a me, invece, in confronto a lui mi sentivo un emerito fallito
nonostante tutto.
Scossi la
testa, alzandomi una volta per tutte; ripensare a Stephen mi
aveva
fatto ricordare che per quella sera ci erano tutti organizzati per
vedere la
partita a casa sua, nessun amico escluso. Avevo dunque poche ore per
prepararmi
e partire alla volta di Sun Valley Lake, distante un’ora e
mezza circa da
Charwood Street, ovvero dove abitavo io.
Avrei anche dovuto preparare una
piccola valigia, giacché Stephen mi aveva invitato a restare
a dormire come
quando eravamo dei ragazzini. La cosa mi faceva sorridere e mi
imbarazzava al
tempo stesso, forse perché da un po’ di tempo a
quella parte avevo cominciato a
vedere in Steve qualcosa di più di un semplice amico.
Scacciai anche
quei pensieri ed aprii
la porta a vetri per entrare, passando accanto al telefono riposto sul
piccolo tavolinetto
in legno di noce che avevo avuto in regalo da uno dei miei amici lo
scorso
compleanno. Matthew, l’artefice di quel piccolo scherzo, se
così lo si voleva
chiamare, aveva commentato con un divertito «Tra tutte queste
cianfrusaglie,
manca qualcosa che può servirti davvero» e aveva
così deciso di regalarmi quel
tavolino intagliato. Regalo eccentrico, proprio come chi
l’aveva comprato. Mi
fermai davanti all’apparecchio,
squadrandolo con attenzione mentre mi domandavo se non fosse il caso di
disdire
l’appuntamento con il quartetto novantanove [2].
Quello
strambo nome era nato così, una sera di quasi tre anni
addietro: un po’ troppo
ubriachi avevamo stupidamente sommato le nostre età ed era
nato quell’assurdo
gioco di numeri.
Scossi
ancora una volta la testa,
che frattanto aveva cominciato a dolermi come ormai capitava da quando
avevo
avuto quell’incidente, allungando una mano per prendere la
cornetta e comporre
il numero di Stephen, ma proprio in quello stesso momento il telefono
squillò,
facendomi trasalire. Nervoso, io? Alzai
titubante il ricevitore,
accostandolo all’orecchio. «Pronto?»
pigolai, con il tono basso di un bambino
che chiede al padre di controllare se ci sono mostri
nell’armadio.
La voce squillante di Stephen
fu
come un trapano elettrico contro le pareti del mio cervello.
«Ehi, tutto okay? Hai
una voce...» di sottofondo si udivano altre voci maschili,
schiamazzi, risate e
quello che sembrava essere un film di guerra di serie B.
Mi
portai una mano alla fronte e
scossi la testa, rendendomi conto solo in un secondo momento che
Stephen non
poteva vedermi. Così aggiunsi: «Ero fuori,
avrò preso freddo», mezza bugia, ma
cosa importava? Se avessi detto la verità ne avrei ricavato
solo una ramanzina
in stile paterno.
Un
piccolo sbuffo si insinuò nel
crepitio della cornetta. «Vedi di non ammalarti. Tu sei
l’anima della festa,
Juggernaut [3]».
A
quel dire sospirai. «Lo sai che
i giorni in cui venivo chiamato così sono finiti,
Steve», ribattei,
picchiettando distratto sul legno del ripiano. «Piuttosto,
come mai hai
telefonato?»
«Io
e i ragazzi ci chiedevamo che
fine avessi fatto».
Sollevai un sopracciglio. «E
perché mai?»
«Come
sarebbe a dire perché?» mi
domandò, e dal suo tono fui quasi certo che, se avessi
potuto guardarlo in
viso, in quel momento, l’avrei visto con gli occhi sgranati.
«Ti aspettavamo
un’ora fa!»
Stava
forse scherzando? A quel mio
muto quesito, mi ritrovai a gettare una rapida occhiata
all’orologio appeso al
muro, esattamente accanto alla libreria ormai stracolma di libri e
tante di
quelle cianfrusaglie da risultare inguardabile. Le lancette segnavano
orribilmente le sei e mezzo del pomeriggio. Possibile che fossero
passate le
cinque e io non me ne fossi minimamente accorto? Mi ritrovai a
sospirare
ancora. «Scusa, Steve», mormorai poi.
«Là fuori avrò perso il conto dei
minuti
che passavano».
Si
susseguirono poi attimi di
silenzio, come se dall’altro capo del telefono Stephen stesse
pensando
intensamente a qualcosa. Io trattenni stupidamente il fiato mentre
attendevo
una sua qualsiasi parola, sentendolo infine imprecare a denti stretti
con il
suo forte accento canadese, che veniva fuori solo quando stava perdendo
la
pazienza. «È
successo di nuovo, vero?»
Ci
misi un po’ a capire che cosa
intendesse, forse ancora convinto che avesse capito che avevo
ricominciato a
pensare al baseball. Sarei persino scoppiato in una risata isterica se
non mi
fossi trovato al telefono proprio con lui. «Nay, Steve, non
è successo», attesi
una qualsiasi replica, ma, non giungendo, dissi: «Parola di
boy scout. Sai
bene che te lo direi».
Steve borbottò
fra sé e sé qualcosa che
non riuscii a capire, però subito dopo domandò:
«Nessuna attività paranormale,
quindi?»
«Nessuna
attività paranormale»,
confermai, facendogli il verso e rassicurandolo al tempo stesso, dato
il
sospiro di sollievo che si lasciò sfuggire.
«Né brevi visioni sul futuro né
tanto meno qualche strambo viaggio nel tempo».
In
realtà non predicevo il futuro,
anzi, tutt’altro; ciò che io ero in grado di fare
era captare ogni singola
percezione o molecola nell’aria e trasformarla poi,
attraverso ad un
processo molto simile a quello che operava sulle particelle
subatomiche, in una
sorta di visione che mi permetteva di conoscere anticipatamente gli
eventi
prima che essi si manifestassero. Forse era per quel motivo
che la capacità
di vedere quel filo
conduttore veniva spesso
scambiata per
chiaroveggenza dalle poche persone che ne erano a conoscenza.
Ciò
che davvero mi spaventava - e
che avevo confidato soltanto a Steve - erano i flashback sul passato
che avevo.
Ero capace di rivivere interi attimi senza che nella realtà
fosse passato un
solo secondo, a meno che non mi capitasse all’improvviso. A
quel punto potevano
scorrere ore quanto qualche minuto, ed erano quelli i momenti che mi
terrorizzavano di più. Mi si aprivano dinanzi agli occhi
piccole finestrelle su
epoche antiche, o momenti nell’età moderna che non
ero stato però io a vivere.
L’ultima volta che era accaduto mi ero ritrovato sulla East
Coast, davanti alla
porta di una certa Tiffany.
Fortunatamente
erano passati due
mesi da quelle mie ultime visioni. Tutto ciò era cominciato
il giorno
dell’incidente: mi trovavo in auto, quel tardo pomeriggio di
un anno addietro, e
stavo percorrendo
la statale che portava a St. Louis per l’ultima partita di
campionato.
Ricordavo ancora che stavo ascoltando una canzone di Ben E. King prima
che quel
camion sbucasse letteralmente dal nulla e mi venisse addosso,
travolgendo la
mia vecchia mustang. Era stato soltanto per miracolo che non ero morto
sul
colpo, secondo i medici, ma da quel momento il mio cervello aveva
cominciato a
funzionare nel modo sbagliato. All’inizio avevo pensato che
si trattassero di
semplici visioni provocate dallo stato confusionale in cui mi ero
ritrovato;
poi avevano cominciato a farsi sempre più frequenti ed
ossessive, e, parlandone, Steve mi aveva consigliato di andare da un
bravo psichiatra per
affrontare
il trauma. Non era però servito a niente e quelle visioni
erano continuate, e
ad esse si erano aggiunti quegli strani viaggi tra epoche passate e
presenti
che avevano fatto sì che iniziassi a preoccuparmi davvero
della mia salute
mentale, specialmente dopo essermi ritrovato nella Francia
rinascimentale. Ci
avevo passato solo poche ore lì, certo, ma erano state le
più lunghe di tutta
la mia vita.
Sebbene
avessi tentato in tutti i
modi di disfarmi di quel potere che mai avevo voluto ottenere, mano a
mano che
tali fenomeni si presentavano avevo però imparato a
controllarli in minima
parte; ormai era da molto che convivevo con quel peso sulle spalle, e
avevo
capito che potevo soltanto accettarlo. Spesso
e volentieri avevo pensato
di sfruttare quel dono per tornare indietro e poter giocare nuovamente
a
baseball, ma non sarebbe cambiato assolutamente niente: il braccio che
avevo
sempre utilizzato per lanciare le mie palle ad effetto era ormai
andato, e
ripiombare in quei tempi non avrebbe fatto altro che farmi vivere
un’utopia. I
giorni del baseball erano finiti, dovevo mettermelo bene in testa.
«Johnny?» La voce di
Stephen mi
giunse lontana e ovattata, e mi ritrovai a sbattere le palpebre come se
mi
fossi appena destato da un lungo sonno. Ero
decisamente fuori fase, quel
giorno.
«Ci sono, Steve, ci
sono».
«In teoria, forse»,
ironizzò. «Ti
avevo chiesto se sei ancora dei nostri o se preferivi restare a casa, a
titolo
informativo. Lo capirei, se così fosse».
Dalla sua voce traspariva premura,
e sorrisi proprio perché non poteva vedermi. «Fate
finta che sia già lì,
ragazzi», scherzai anch’io, strappandogli uno
sbuffo divertito.
Dopo
vari convenevoli ed ultimi saluti riagganciammo, e io mi diressi in
camera per
recuperare la prima valigia che riuscii a trovare. Misi al suo interno
il
cambio per un paio di giorni, arraffando poi anche una giacca a vento
prima di
imboccare il corridoio che dava sull’ingresso.
Dovetti scostare dal
mobile parecchie riviste
sportive per
riuscire a trovare le chiavi sepolte sotto di esse, ma una volta
afferrate
uscii di casa e bloccai la serratura, avanzando verso la mia auto.
Giacché la
mia Mustang del ’73 - una bella bambina rosso fiammante di
5800 cc di
cilindrata alla quale parecchie persone avevano messo gli occhi
addosso, facendo sì che mi guadagnassi le loro antipatie -
era
stata ridotta ad un catorcio, ero stato
costretto a
sostituirla con una Cadillac Eldorado usata di un bel nero brillante.
Non era
come la mia piccolina, certo, ma ci avrei ben presto fatto
l’abitudine.
Non
appena sfiorai la maniglia
lucente della portiera, però, fui colto da un orribile
presentimento e
allontanai la mano di scatto, quasi mi fossi appena ustionato. Avevo il
respiro
velocizzato e persino gli occhi spalancati. Cosa poteva mai significare
quella
sensazione? Da cosa stava cercando di mettermi in guardia? La paura
ritornò ad
insinuarsi prepotentemente nel mio animo, e mi ritrovai a stringermi le
braccia
al petto in un gesto di protezione, avvertendo brividi di freddo
corrermi lungo
la spina dorsale.
Riuscii
ad entrare in macchina
solo quando mi calmai. Era stato piuttosto difficile, in
verità, ma farmi
fermare da una delle mie sensazioni era da escludere. Forse il fatto
che si
fossero ripresentate dopo due mesi avrebbe dovuto farmi pensare, ma
purtroppo
non fu così; misi in moto e partii alla volta di Sun Valley
Lake, guidando
ininterrottamente per quarantacinque minuti mentre il sole cominciava a
calare
all’orizzonte. Fu
proprio nel prendere la svolta a destra che accadde
l’irreparabile: non vidi in
tempo l’auto che sfrecciava verso di me, ma tentai di ruotare
il volante e
sterzare per evitare che mi finisse addosso. Prima che andassi a
sbattere
contro l’albero che mi si parò dinanzi, ebbi
appena il tempo di proteggermi il
viso con le braccia, vedendo il mondo intorno a me divenire nero come
la pece.
Il presentimento che avevo avuto si era concretizzato.
[1] Titolo
di una doujinshi
del circolo Rock’n’dolles rilasciata nel dicembre
del 2006, e fa parte per
l’appunto della “Breaking the World
series” composta da tre volumi.
Anche le frasi in
corsivo sotto al titolo sono tratte da quella stessa doujinshi.
[2] È
un richiamo a Final Fantasy X che non ho
resistito ad inserire, ed indica un cocktail che può venir
creato grazie al
Turbo di uno dei personaggi del gioco, ovvero Rikku.
Il nome è nato davvero
perché sommando le età dei protagonisti della
storia il totale dava
novantanove.
[3] Termine inglese usato
per indicare una forza inarrestabile, reale o metaforica. Deriva
dal Sanscrito Jagannātha, ovvero “Signore
dell’Universo”, ed è uno
dei molti nomi della divinità Krishna, dalle
antiche
scritture Veda indiane.
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alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** [ Atto II › Luogo sconosciuto, anno e mese ignoti ] Sbalzi imprevisti dal presente al passato ***
Breaking_2
ATTO II: LUOGO SCONOSCIUTO
› ANNO E MESE IGNOTI
SBALZI
IMPREVISTI DAL PRESENTE AL PASSATO
Nell’avvertire
il gelo che mi aveva avvolto, in un primo momento pensai di essere
morto
davvero. Era così che doveva sentirsi chi era da poco
passato a miglior vita,
probabilmente: investito da un freddo pungente per il resto
dell’eternità.
Mi abbandonai in quel falso
calore che aveva cominciato ad arrossarmi la pelle del dorso di una
mano, ma fu
proprio nel costatare ciò che capii di essere ancora vivo.
Come poteva essere
possibile che il mio corpo provasse ancora qualcosa, se ero morto? Mi
costrinsi
ad alzare maggiormente gli occhi, riuscendo a vedere appena lo scorcio
di una
villetta a due piani con uno di essi, poiché
l’altro era praticamente sommerso
insieme a metà viso nella neve. Un momento... neve?
Mi
drizzai a sedere di scatto,
sentendo tutti i muscoli indolenziti dolere da impazzire e le ossa
scricchiolare
sinistramente prima di provare a riscaldarmi come potevo e mettere a
fuoco il luogo in cui mi ero ritrovato. Era senza alcun dubbio un
giardino - e si
vedeva anche che era ben tenuto, nonostante lo strato di neve ivi
presente
-, uno dei più grandi che avessi mai visto in vita mia: i
cespugli di rose, ormai secchi per il freddo, erano sistemati ai lati
di una pergola ricoperta da un sottile strato di brina e un fitto
reticolato di rampicanti, sui quali facevano bella mostra di
sé
bozzoli di un qualche tipo d'insetto; accanto ad un alto muro ricoperto
di muschio marroncino, inoltre, pareva esserci quello che aveva tutta
l'aria di essere un ruscelletto congelato, e non potei evitarmi di
sollevare un sopracciglio prima di concentrarmi sulla villetta. Era di
un bianco immacolato come la neve circostante, con le imposte delle
finestre di un azzurro freddo come il cielo d’autunno e il
tetto
spiovente sul quale si intravedevano foglie secche, palle da basket e
un pezzo di grondaia. Sembrava quasi in stile
britannico, ma cosa ci faceva una villa del genere a St. Charles?
La
consapevolezza di ciò che era accaduto mi colpì
come uno schiaffo: l’incidente
aveva automaticamente innescato uno di quei miei strambi viaggi nel
tempo, e
forse non avrei nemmeno dovuto meravigliarmi. Viaggiavo fra
quegl’universi
paralleli come se prendessi un aereo, volando da un capo
all’altro del mondo
senza una meta precisa. Secondo il mio analista, dal quale avevo smesso
di
andare da ben cinque mesi, quelle esperienze erano tutte causate
puramente
dallo shock: avevo rischiato di morire, dunque adesso la mia mente
tentava di
convincermi che tali visioni fossero realtà
anziché semplice immaginazione.
Però io sapevo che non era affatto così. Sapevo
ciò che avevo visto e
provato sulla mia pelle, ed una fantasia non sarebbe mai stata in grado
di
provocare sensazioni e paure simili, di farmi assaporare la fragranza
dell’uva
appena trasformata in vino o l’acre odore della cenere nel
vento. E anche il
freddo provocato dalla neve e dalla bassa temperatura era reale, in
quel
momento.
Poggiai
le mani in quel soffice
manto bianco per darmi una spinta e rimettermi in piedi sulle gambe
malferme,
muovendo incerto qualche passo per vedere se riuscivano a reggermi. Non
dovevo
essere rimasto svenuto là fuori da molto, giacché
avevo
ancora abbastanza
sensibilità nella maggior parte del mio corpo. La
neve che
si era insinuata nella
mia giacca a vento aveva già cominciato a sciogliersi a
contatto
con il calore
della mia pelle, e fu con una certa difficoltà che percorsi
il
perimetro del
giardino alla ricerca di una via d’uscita. Altrove, magari,
avrei
potuto
concentrarmi abbastanza per riuscire a tornare a casa prima ancora di
capire
dove fossi capitato e in che periodo, anche se non sempre mi riusciva.
E pure
tentare di chiamare Steve era da escludere: ero ben conscio del
fatto che non avrebbe preso campo, anche se infilai comunque la mano
nella tasca dei pantaloni per afferrare il cellulare e sperare in un
miracolo. Il no signal
lampeggiante, però, mi fece sospirare pesantemente.
Continuai a camminare mentre mi
passavo le mani sulle braccia, volgendo lo sguardo nei dintorni.
C’erano
cespugli innevati ovunque, e se non fossi stato ancora sconvolto per
quel nuovo
incidente avrei persino perso tempo a rimirare la bellezza di quel
giardino. Quando sentii lo scatto d’un’arma da
fuoco,
però, mi immobilizzai all’istante e
alzai le mani sopra la testa, esattamente come avevo visto fare in uno
di quei
film polizieschi che spesso e volentieri ci propinava Dean, il
più giovane del
quartetto.
«Si volti lentamente e tenga
le
mani ben in vista», mi intimò una voce familiare,
e nonostante lo
scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto:
quella era
senza alcun dubbio la voce di Stephen. Così mi voltai di
scatto,
ritrovandomi faccia a faccia con il mio miglior amico e un fucile a
canne mozze
a separarci nel mezzo.
«Steve, sono io,
Johnny», dissi immediatamente, troppo
confuso e infreddolito per formulare qualche altro pensiero coerente.
La bocca del fucile, però,
non si
mosse di un millimetro. «Non conosco nessun
Johnny», replicò Steve, con una
voce pacata e glaciale che non gli avevo mai sentito tirar fuori.
«Lei è nella
mia proprietà, signore, e le consiglio di andarsene prima
che le pianti una
pallottola in corpo».
«È uno
scherzo, Steve?»
«Sulla difesa dei miei beni
non scherzo
mai,
signore», sibilò lui, assottigliando lo sguardo.
«Non so chi le abbia
detto il mio nome, ma se è stata mia cognata a farlo e a
mandarla qui, può
anche dire a quella puttana succhiasangue che da me non avrà
un soldo».
Feci per aprir nuovamente bocca e
replicare, ma mi zittii ancor prima di farlo. Come avevo fatto a non
rendermene
conto immediatamente? Eppure la soluzione era sempre stata
così semplice!
Quello che avevo dinanzi non era Steve, ma probabilmente un suo qualche
lontano
bisnonno. Ricordavo che c’erano stati ben tre Stephen, nella
famiglia O’Neal,
ma non avrei mai pensato che prima o poi il mio subconscio mi avrebbe
portato
proprio da uno di essi. Più guardavo quel volto,
però, più non potevo fare a
meno di credere che quello fosse proprio il mio miglior amico: era
identico a
lui in tutto e per tutto, dal taglio corto e ordinato dei capelli
castani agli
occhi quasi a mandorla d’un verde intenso; persino il fisico
asciutto era il
suo. Che fossi finito in un qualche universo parallelo,
anziché nel passato?
Avevo bisogno di saperlo.
Abbassai le braccia lungo i
fianchi molto lentamente, vedendo Stephen - o almeno quello che
supponevo fosse
Stephen - seguire con lo sguardo ogni mio minimo movimento mentre mi
teneva
ancora sotto tiro. Cercai di assumere l’aria più
innocua che possedevo, il che
non era per nulla facile visto il mio metro e ottanta scarso.
«Non mi manda
nessuno. Sono qui solo per caso, lo giuro».
«Och, e sentiamo, allora, anche
scavalcare il muro e il filo spinato è stato un
caso?»
Boccheggiai come un pesce fuor
d’acqua. Dannazione! Avrei dovuto pensare anche a quel
piccolissimo particolare prima di aprir bocca. Mi presi tutto il tempo
di cui
potevo usufruire - dunque appena qualche secondo, giacché
vedevo quello Stephen
cominciare a perdere la pazienza - scendendo a patti con me stesso e
optando
per una mezza verità. «So che potrà
sembrarle assurdo, signor O’Neal, ma io
sono una sorta di chiaroveggente», cambiai approccio, e mi
parve persino
piuttosto strano dare del lei a Steve. «Ho avuto una visione
su di lei e...»
Non ebbi il tempo di continuare,
poiché vidi lo scetticismo sul viso di Steve tramutarsi
nell’ombra del
sospetto. Si avvicinò rapidamente lasciando profondi solchi
nella neve,
piantandomi la canna del fucile fra le costole e strappandomi un
lamento. «Lo
ripeterò ancora una volta», sibilò.
«Chi ti manda e perché?»
Le formalità erano scomparse, e a
quanto pareva non mi aveva creduto. Ma chi avrebbe potuto dargli torto?
Non
sapevo come cavarmela, adesso, e quel tipo sembrava sempre
più intenzionato a
spappolarmi il cervello e a togliermi di mezzo. Cosa c’era
sotto? E, per l’amor
del cielo, in che razza di guaio mi ero cacciato? A salvarmi fu il
suono del
campanello dall’altro lato della casa, ma
l’occhiata che Steve mi lanciò mi
raggelò ancor più della neve che mi arrivava alle
caviglie. «Vieni dentro con
me senza fare scherzi, ciarlatano», mi intimò.
«Con te non ho ancora finito».
Avrei voluto dirgli che non ero
affatto una minaccia, ma sapevo che non mi avrebbe creduto; mi limitai
dunque a
star zitto e, prima di entrare in casa, quello che avevo ormai
cominciato a
considerare il gemello cattivo di Steve mi perquisì. E
dovetti
purtroppo
ammettere a me stesso che mi imbarazzai ad ogni suo tocco o palpata che
fece per
controllare che non avessi armi nascoste. Perché, tra tutte
le
persone che avrei potuto incontrare in quella maledettissima epoca, mi
era capitato proprio un parente di Steve con la sua stessa faccia?
C'era qualcuno, lassù, che doveva avere un perverso senso
del
divertimento. Entrammo infine in casa, e il calore
all’interno fu talmente piacevole che sospirai
involontariamente
di sollievo
mentre mi toglievo la giacca a vento ormai fradicia.
«Non metterti
comodo», mi
apostrofò sprezzante. «Appena mi sarò
occupato di quegli scocciatori,
dovrai chiarirmi un paio di cosette».
Annuii automaticamente, non avendo
ancora il coraggio di aprir bocca. Seguii con gli occhi la figura
di Stephen mentre spariva oltre la soglia, e me ne restai immobile a
torcermi
le mani. Perché mai quell’incidente aveva fatto in
modo che capitassi lì e
sembrava non essermi ancora dato tornare indietro? Doveva per forza
esserci un motivo, ne ero sicuro. O forse volevo convincermi che fosse
così. Approfittai
di quei minuti in cui fui lasciato solo per guardarmi intorno, forse
stupendomi
persino un po’ per il gusto di quello Stephen, bisnonno o
meno che fosse. Mi
trovavo in un salotto ampio e confortevole, dove facevano bella mostra
di sé una
poltrona e due divani beige dai cuscini variopinti; tra di essi si
trovava un
tavolo di legno finemente intarsiato, e le uniche cose che lo
ingombravano erano solo la statua di un drago di piombo e
un vaso di fiori; sul muro di destra, esattamente accanto a una
libreria
colma di libri, era stato costruito un caminetto di mattoni in cui il
fuoco che
riscaldava l’ambiente scoppiettava allegro e caldo, e al di
sopra di esso era
stato appeso un quadro piuttosto grande
che
rappresentava un paesaggio
notturno
con strane forme a spirale in cielo [1].
Non
essendo mai stato molto
interessato all’arte, non avevo la minima idea di cosa fosse
o chi l’avesse
dipinto, però dovevo ammettere che era abbastanza bello e
catturava l'attenzione. Il resto del salotto
era arredato con piccoli lumi e diverse statue, nonché
piante sempre verdi che
abbellivano l’ambiente.
Era così diverso dal caos che
regnava quasi sempre nella piccola casetta di Steve, quello. Quasi mi
mancavano
le lattine di birra e coca-cola all’angolo del televisore di
32'' poste a formare
una piramide che si ingrandiva sempre di più, la miriade di
riviste di Play-Boy
accatastate sotto la finestra della sua stanza per sorreggere il
davanzale
ormai quasi a pezzi che non aveva intenzione di far aggiustare, e la
grande
videoteca dove custodiva gelosamente la saga di Star Wars insieme ai
restanti film che amava.
Scossi
immediatamente il capo. Non era il caso di pensare a cose ridicole come
quelle,
in quel momento. Seguii di
soppiatto quello
Steve
per dare un’occhiata e vedere che fine avesse fatto,
inoltrandomi nel
disimpegno; mi ritrovai ben presto in un vasto ingresso corredato con
altre
piante e fiori di ogni genere, e Stephen era fermo sulla soglia della
porta
d’entrata, quasi volesse bloccarla per non far entrare quei
nuovi arrivati.
«Mi sembrava di avervi
già detto
che non mi interessa», stava dicendo a braccia conserte.
Aveva
abbandonato il
fucile con il quale mi aveva minacciato accanto ad un mobiletto poco
distante,
abbastanza nascosto perché non si vedesse, ma fin troppo
vicino
in caso di necessità.
Quella era forse gente pericolosa? Oppure era semplicemente un pazzo
che avrebbe potuto alzare un'arma da fuoco e puntarla contro chiunque?
«Verrebbe gestito tutto con la
massima cura, signor O’Neal», ribatté
una voce femminile, fredda e autoritaria.
Avrei scommesso che fosse una segretaria, e il mio non era stato un
commento
dalle mire sessiste, giuro. «Lei stesso ha detto di non avere
il tempo
materiale per occuparsene come si dovrebbe».
«Quella miniera appartiene
alla
mia famiglia da generazioni, e legalmente il contratto porta il mio
nome»,
replicò Steve in tono schietto. «Il fatto che Sean
sia morto non autorizza
Margaret a costringermi a venderla a lei. Tornatevene a casa e dite a
quella
stronza che avrà quella miniera solo dopo aver strappato il
contratto dalle mie
fredde dita», ciò detto sbatté senza
tanti convenevoli la porta in faccia a
quei due nuovi venuti, mettendo il catenaccio e dando quattro mandate
alla
serratura. Quando si accorse che lo fissavo da poco distante, fece
scroccare le
nocche di entrambe le mani. «Adesso direi che tocca a lei,
signore», soggiunse
con falsa formalità.
Indietreggiai rapidamente, alzando
le mani in segno di resa. «Non ci sarà bisogno di
ricorrere alla violenza,
signor O’Neal», tentai di convincerlo,
giacché non sembrava intenzionato ad
ascoltarmi. Chiunque fossero quelle persone che aveva appena cacciato,
avevano
solo fatto in modo che si infuriasse ancora di più.
«Hai predetto anche questo o
l’hai
solo supposto?» mi sbeffeggiò, mettendo
praticamente per iscritto che non aveva
mai creduto alle mie parole. E fino ad un anno addietro non gli avrei
assolutamente
dato torto.
Giacché le
formalità non erano
tornate, pensai che stessi per ritrovarmi seriamente nei guai. E non
avevo
bisogno del mio particolare dono per rendermene conto. Era fin troppo
palese, anche senza guardare in viso il buon vecchio Stephen.
«So bene che lei
è una brava persona che non farebbe mai del male a qualcuno,
signor O’Neal, e
non ho bisogno di nessun potere paranormale per esserne a
conoscenza».
Lui si accigliò un
po’, e forse fu
per quel motivo che il suo volto sembrò quasi addolcirsi.
«E dopo questo complimento»,
mimò le virgolette con due dita per enfatizzare la parola,
«dovrei per caso
crederti?»
In quello era uguale allo Steve
originale: cocciuto e testardo fino all’ultimo.
«Senti», cominciai, lasciando a
mia volta da parte ogni tipo di formalità, «so per
certo che se fossi stato
sicuro delle mie cattive intenzioni mi avresti sparato
all’istante, invece
siamo ancora qui tutti e due a chiacchierare»,
soggiunsi.
«Sarò lieto di
raccontarti tutto, se me ne darai la possibilità».
Stephen sembrò valutare
quella
proposta, sollevando di poco il sopracciglio come se farlo potesse
aiutarlo a
pensar meglio mentre mi sondava da capo a piedi con lo sguardo. Non fu
per
niente piacevole, dovetti ammetterlo: sembrava un serpente che aveva
appena
messo i suoi occhi vitrei su un topolino spaventato. E anche se non ero
piccolo
quanto il topo, mi sentivo altrettanto insignificante sotto lo sguardo
di
quelle iridi verdi. «Ti do dieci minuti»,
asserì infine, e quasi mi lasciai
sfuggire un sospiro per lo scampato pericolo. «Ti
converrà essere convincente
nel raccontare la tua storia».
Convincente... bella roba. Fino a
otto mesi prima mi sarei preso per pazzo anch’io! E scambiare
se stessi per dei
folli visionari non era una così gran cosa, sul serio.
Cercai comunque di
raccontare a Stephen la nuda e cruda verità, sentendomi
quasi in dovere di
farlo poiché il volto che stavo osservando era pur sempre
quello del mio
miglior amico. Accennai all’incidente, al mio ritrovarmi nel
suo giardino per
puro caso, dissi persino qualcosa di vago sui miei viaggi nel tempo ,
concentrandomi per la maggior parte su quel mio essere in grado di
captare i
segnali del mondo circostante. Più parlavo, però,
più sembrava che Stephen
diventasse sempre più sospettoso, come se si stesse
chiedendo da quale
manicomio ero scappato. Ma di certo non potevo biasimarlo: mi sarei
rinchiuso
in una casa per matti anch’io. Mentre continuavo a
raccontare,
arricchendo pian piano tutto con gran dovizia di particolari, vedevo
Stephen
fissarmi a braccia conserte, lasciando che la curiosità
prendesse il
sopravvento di quell’aria guardinga che aveva acquisito al
principio. Fu quasi
doloroso constatare quanto quella nuova espressione fosse simile a
quella che
avevo visto sul volto del mio amico Steve quando gli avevo raccontato
per la
prima volta di cosa fossi capace dopo l’incidente.
Quando finalmente terminai, quel
tipo mi fece cenno di seguirlo ancora una volta, guidandomi lungo il
disimpegno
per svoltare poi a sinistra. Ci ritrovammo in quella che sembrava
essere una
stanza dal soffitto a volta, corredata con tanto di piccole finestre ad
arco
che di giorno avrebbero di sicuro avuto un aspetto meno tetro di
quello,
specialmente con il sole che le illuminava piacevolmente. Non potei non
lasciarmi sfuggire un piccolo fischio nel vedere
com’era stata arredata:
sulla sinistra, esattamente accanto ad un vecchio scrittoio colmo di
pergamene
che sembrava in legno di noce, c’era una teca su un
piedistallo che sorreggeva
quella che, diamine, sembrava avere tutta l’aria di essere
una copia della
punta della lancia di Longinus [2];
facendo più attenzione, si poteva benissimo notare che
quella teca non era
sola, anzi. Sette teche contenenti altrettanti manufatti - cinque dei
quali non
avevo mai visto - erano disposte sul lato destro della stanza, divise
da lunghi
arazzi dai colori cupi. Come nel soggiorno e nell’ingresso
erano presenti
piante e fiori, che riuscivano almeno a dare un tocco più
morbido e meno
spartano all’arredamento.
«Cavolo, questa stanza sembra
uscita direttamente da quelle di Lara Croft [3]»,
mi
ritrovai a dire fra me e me, non riuscendo a nascondere lo stupore. Al
che Stephen mi guardò,
sollevando un sopracciglio.
«Da cosa?»
domandò, e avrei dovuto aspettarmelo. Se
ero tornato indietro nel tempo come credevo, Tomb Raider non poteva di
certo essere uno dei film o dei
videogiochi preferiti di quel sosia.
«Niente, pensavo solo fra me e
me», liquidai la questione, giacché non era
importante ai fini di quella nostra
conversazione, se così potevamo chiamarla. Avevo intenzione
di sfiorare tutto
ciò che potevo e sperare che avessi una delle mie visioni,
cercando così di
capire il motivo per cui d’un tratto ero stato spedito fin
lì. Che c’entrasse
forse quella miniera a cui aveva accennato quello Stephen?
L’unico modo per
saperlo era per l’appunto sperare che il mio potere non mi
deludesse.
Cominciai a vagare per quella
stanza sotto gli occhi attenti di Stephen, che sembrava controllarmi
come per
timore che potessi rubare qualcosa e scappare. Toccai di tutto, dalle
semplici
cataste di fogli bianchi ai libri stipati sui piccoli ripiani,
sfiorando ogni
cosa con la punta dei polpastrelli. Niente mi dava però la
sensazione che
dovesse accadere qualcosa, ma ero certo che ciò che cercavo,
sebbene non
sapessi ancora cosa, si trovava senza alcun dubbio in quella stanza.
Avanzai cauto, quasi fossi cieco,
aggrappandomi a tutto ciò che mi capitava a tiro senza
più badare a Stephen,
poiché fissarmi sulla sua presenza avrebbe soltanto infranto
la mia già scarsa
concentrazione. Fu quando giunsi accanto alla scrivania che sentii come
una
scossa elettrica corrermi lungo la schiena, e volsi lo sguardo in
direzione di
Steve per osservarlo in viso. «Hai qualcosa di importante,
nei cassetti dello
scrittorio?»
Lui sollevò un po’
un sopracciglio
e sembrò rifletterci, dando vita ad una di quelle scrollate
di spalle che
potevano significare tutto o niente. «Tagliacarte, fogli,
qualche documento...
cose pressappoco inutili». La sua voce aveva assunto un tono
svogliato, quasi
si fosse stancato di fare il cattivo ragazzo. D’altronde
l’ora era quel che
era, da quanto potevo constatare guardando il quadrante del pendolo.
«Il
contratto non è lì, se è
ciò che mi stai chiedendo».
Annuii fra me e me prima di
riprendere quel mio giro di ronda, avvicinandomi ad una delle teche per
sfiorarne appena la superficie. Mi soffermai ad osservare
ciò che vi era
conservato all’interno, percorrendo con lo sguardo ogni
particolare di quello
splendore: era il più bel diamante su cui fossi mai riuscito
a mettere gli
occhi, e mi ricordava tanto quello del vecchio film “La
pantera rosa [4]”
a
causa del colore che lo caratterizzava e dell’incisione al
suo interno. Ma fu
proprio nel continuare a fissare quella pietra che cominciai ad
avvertire
quella familiare sensazione di formicolio alla testa, come se mille
insetti mi
stessero strisciando lungo il corpo e sottopelle. C’era
decisamente qualcosa
che non quadrava, in quella storia. «Credo che
dovrà spiegarmi per filo e per
segno quella faccenda della miniera, signor O’Neal».
[1] Il
quadro
al quale si fa riferimento è la “Notte
stellata” di Van Gogh, realizzata nel
1889 su una tela di 78 x 92 e conservata a New York. Su tale dipinto
viene
rappresentata per l’appunto una notte stellata sulla
città di Saint Rémy, in
Francia. La tela nella storia,
essendo più grande rispetto all’originale,
è ovviamente solo una riproduzione.
[2] Detta
anche
Lancia del Destino, è la lancia con cui sembrerebbe sia
stato trafitto Gesù
dopo la crocifissione.
Il manufatto in questione è solo una riproduzione,
naturalmente, ed è stato
preso in considerazione a causa di una frase che il protagonista
principale
della storia pronuncerà in seguito. Essa viene anche citata
in film come Constantine, Hellboy, Il
Conquistatore di
Shambala e in videogiochi come Tomb Raider e Final Fantasy X.
[3] Eroina
del
videogioco Tomb Raider, uscito per la prima volta nel 1996, sviluppato
da Core
Design rilasciato dalla Eidos Interactive.
È
stato tratto anche un
film uscito nel 2001 - di cui è stato fatto anche un seguito
nel 2003 -, in cui
Lara è interpretata da Angelina Jolie. La frase a cui si
accennava precedentemente era questa.
[4] Diretto
da Blake Edwards, “La pantera rosa”
è un
film del 1963 dove vengono raccontate le vicende
dell’ispettore Clouseau
all’inseguimento del ladro gentiluomo Charles Lytton e di suo
nipote George,
che ambiscono ad impossessarsi del grande diamante denominato pantera
rosa
poiché al suo interno sembra esserci incisa una pantera. Il
film ha avuto anche
un remake uscito nel 2006, del quale è stato fatto un
seguito nel 2009.
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Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 3 *** [ Atto III › Ipotetica Londra, anno e mese ignoti ] Ombre di mistero ***
Breaking_3
ATTO III:
IPOTETICA LONDRA › ANNO E MESE IGNOTI
OMBRE DI
MISTERO
La
placida atmosfera che regnava nel salotto e il buon odore del the caldo
- il
più buon Jackson Earl Grey [1]
che
avessi mai bevuto - mi donavano un senso di
quiete
così profondo che quasi me ne meravigliavo, dato il mio
ritrovarmi in un luogo
e in un tempo sconosciuti.
Avevo rimandato quel
mio cercare di darmi almeno un punto di riferimento o una data,
ascoltando
invece la storia che aveva da raccontarmi Stephen su quella miniera di
cui
aveva parlato. Suo padre, un ricco mercante inglese che aveva fatto
fortuna in
poco tempo grazie alle sue particolari doti linguistiche, da giovane
era riuscito ad
impossessarsi di una miniera con i soldi ricavati dalla vendita delle
sue
merci. L’aveva fatto più per un capriccio che per
vera utilità, aveva detto, ma
le cose si erano ben presto svolte in suo favore: nei meandri della
miniera
aveva trovato più del semplice carbone - il diamante che
avevo visto nello
studio di Steve ne era la prova inconfutabile - e i suoi averi erano
aumentati
a dismisura, permettendogli di vivere nel lusso sia prima che dopo il
matrimonio. Aveva in seguito lasciato la proprietà al figlio
più giovane,
Stephen, incaricando il maggiore di occuparsi dei restanti beni. La
cosa che
Steve non era riuscito a capire era stata l’inspiegabile
morte di suo fratello,
Sean, e anche il referto medico non aveva riscontrato niente. Stephen
sospettava difatti che a toglierlo di mezzo fosse stata sua moglie
Margaret, ma
non aveva prove per incastrarla.
«Dunque adesso questa Margaret
vorrebbe mettere le mani anche sulla miniera», commentai fra
me e me, soffiando
sulla tazza di the prima di sorseggiarne un po’. «E
poi dicono che le donne non
sono avare», soggiunsi sarcastico, sebbene ci fosse ben poco
da scherzare. Se
era stata realmente lei ad uccidere il marito e a farla franca,
c’era davvero
da aver paura nel ritrovarsela sulla propria strada. E quel tipo
identico a
Stephen sembrava pensarla esattamente allo stesso modo, anche se quelle
costatazioni le avevo tenute per me senza pronunciarle ad alta voce.
«Margaret ha sempre voluto
più di
quanto non avesse già», disse, guardando
distrattamente il drago sul tavolino
anziché me, come se quel pezzo di bronzo significasse per
lui più di quanto
credessi. «È
nata in una ricca famiglia che non le ha fatto mai mancare niente
fin da quando era bambina, almeno finché la sua casata non
è caduta in rovina.
Per lei è stata una manna dal cielo conoscere e sposare
Sean». Parlare del
fratello sembrò portare la malinconia sul suo volto, ma
cercò di scacciarla con
un sentimento che per lui parve ancor più forte:
l’odio. «Gli ha tolto pian
piano tutto, persino la ragione e la vita. Sono più che
certo che sia stata
lei, ma la mia sola parola non basta ad accusarla, senza contare poi lo
stuolo
di avvocati che paga profumatamente per difenderla. Quelli che ho
cacciato
prima erano Paul, uno dei migliori che può permettersi, e
Samantha, la sua
fidata segretaria. Cercano ancora di convincermi a cederle la miniera,
ripetendomi che se lo facessi mi pagherebbero una cifra
esorbitante».
Ascoltai attento, certo, ma quando
Stephen smise di parlare aggrottai le sopracciglia. «Non
credi che eviteresti
eventuali guai, se lo facessi per davvero?» buttai
lì, venendo fulminato
all’istante dai suoi profondi occhi verdi.
«Non le darò
più niente di ciò che
appartiene alla mia famiglia».
«Ti interessa più
quella stupida
miniera e quei diamanti che le conseguenze?»
Qualcosa nelle mie parole
irritò
quello Stephen, che si alzò in piedi così di
scatto che le cosce sbatterono
contro il tavolino, ribaltandolo. Il drago restò
pressoché illeso, ma la tazza
e la teiera si ridussero in mille pezzi, impregnando di the la costosa
tappezzeria. Un vero peccato. «Pensi davvero che mi stiano a
cuore quelle
pietre, ciarlatano?» rimbeccò, con gli occhi
ardenti di sacro furore. «Quella
dannata miniera è l’unica cosa che mi è
rimasta di mio padre, e non mi importa
se per te è così difficile da capire».
La furia con cui pronunciò
quelle
parole fu violenta come uno schiaffo in pieno viso. Sembrava che il
simbolo
rappresentato da quella miniera - ovvero l’ultimo legame con
suo padre - per
lui contasse mille volte più di tutti i diamanti presenti
nelle profondità di
essa. E la cosa mi fece sorridere. Dentro di lui, nei recessi del suo
cuore,
albergava davvero qualcosa di Steve. «Come posso
aiutarti?» gli domandai
dunque, ritrovandomi a chinarmi io stesso per rimettere il tavolino in
piedi e
poggiare la mia tazza su di esso. Mentre ero intento a raccogliere
anche i cocci, sentii quegli occhi verdi puntati su di me, poi un lungo
sospiro
che suonò afflitto.
«Non puoi»,
mormorò sottovoce Stephen, chinandosi a sua
volta per aiutarmi. «Semplicemente, non puoi».
Avrei voluto ribattere dicendo
qualcosa, ma lasciai perdere non appena vidi l’espressione
mesta che era
apparsa sul suo viso, quasi le avesse provate tutte e si fosse ormai
arreso.
Io, però, mi rifiutavo di credere che fosse così.
Se ero capitato lì un motivo
doveva esserci, dunque avrei trovato un modo per aiutare Stephen. O
almeno lo
speravo.
Nel radunare gli ultimi pezzi, non
mi resi conto che avevo cominciato ad osservare ogni minimo movimento
di quel
sosia, come se ogni suo gesto andasse ben oltre alla
semplicità che dimostrava
di possedere. Potei persino affermare di esserne rimasto quasi rapito,
e la
cosa riuscì a spaventarmi più di tutta
quell’assurda situazione. Era da troppo
tempo che avevo cominciato a guardare Steve con quegl’occhi,
e non mi sembrava
per niente giusto. Quando quello Stephen ricambiò il mio
sguardo mi affrettai a
distoglierlo, concentrandomi solo nel recuperare qualche ultimo coccio
prima di
alzarmi in piedi. Mi sentivo accaldato, quasi fossi arrossito, ma non
era
possibile, no? Forse avevo semplicemente preso freddo, essendo rimasto
disteso
sulla neve, e i sintomi si stavano manifestando proprio in quel
momento. Già,
non c’era altra spiegazione.
«Al tappeto ci
penserò domani», mi
riscosse la voce di Stephen. «Per il momento ci conviene
riposarci in vista
della giornata che ci aspetta».
Alzai immediatamente lo sguardo su
di lui, forse un po’ stupito. «Mi permetti di
restare?» gli chiesi, sentendo il
sorriso fiorire pian piano sulle mie labbra. In fin dei conti non era
un
cattivo ragazzo.
Stephen fece appena un rapido
cenno con il capo a mo’ di affermazione, sebbene non ne
sembrasse
particolarmente contento. «Pur non credendo alla tua
storiella,
mi hai
raccontato particolari su di me che solo Sean, pace all’anima
sua, conosceva»,
disse, e nei suoi occhi scorsi un luccichio che, per un lungo momento,
lo fece apparire un bambino. «E poi ha cominciato a nevicare,
per
quanto vorrei liberarmi di te non
posso spedirti là fuori a quest’ora
tarda»,
soggiunse sarcastico, «per di più
con quei vestiti leggeri».
Mi venne naturale fargli un mezzo
inchino. «Sono onorato di questa tua offerta, in fondo per te
sono un perfetto sconosciuto», ribattei. «Vorrei
poter fare
qualcosa
per sdebitarmi e aiutarti con...»
«Aye, aye, tutto quello che
vuoi»,
tagliò corto senza lasciarmi continuare, poggiando i cocci
sul tavolino. «Se
avrai voglia di chiacchierare, lo faremo domattina a colazione; adesso
lascia
sul tavolo quel che resta del mio servizio da the e seguimi, ti mostro
la
stanza degli ospiti».
Senza replicare feci quanto mi era
stato detto, seguendolo per l’ennesima volta in quella
serata. Ci inoltrammo
nello stesso corridoio che avevamo già percorso due o tre
volte, andando poi
verso le scale che portavano al piano di sopra. Al muro potei vedere
appese un
paio di fotografie che ritraevano probabilmente la sua famiglia, ma non
ce
n’era nemmeno una in cui compariva la figura di sua madre. Ce
n’era una che
raffigurava lui e quello che supposi suo fratello da bambini, in piedi
accanto
al tronco di quella che sembrava una grande quercia secolare;
c’era poi una
foto di un uomo dalla folta e curata barba, forse suo padre, seduto
dietro ad
una scrivania con un’espressione austera dipinta in volto;
l’ultima li ritraeva
tutti e tre insieme in uno spazio chiuso, probabilmente un ufficio,
tutti e tre
sorridenti e con i segni del tempo ben visibili sui lineamenti dei loro
visi.
Ma in nessuna compariva la grazia di una figura femminile.
«Mia madre è morta
mettendomi al
mondo, e mio padre non ha voluto lasciare per casa foto che gliela
ricordassero». La voce pacata e bassa di Stephen,
così vicina al mio orecchio,
mi fece trasalire. Volsi lo sguardo verso di lui, umettandomi le labbra
e
provando a chiedergli come avesse fatto ad intuire cosa stavo per
domandargli,
ma lui mi precedette. «Ho pensato che ti stessi chiedendo
perché non ci fosse
nessuna fotografia di lei, data l’attenzione con cui fissavi
quelle cornici».
Mi sentii arrossire ancora una
volta. Portandomi una mano dietro alla testa, mi grattai appena il
collo.
«Scusa, non volevo impicciarmi», farfugliai a
disagio.
Stephen mi superò, afferrando
il
corrimano e adocchiando a sua volta le foto, tornando poi a guardare
dinanzi a
sé come se volesse lasciarsi alle spalle quei momenti
passati. «È
storia
vecchia, continua a salire».
Sospirai, ma obbedii, continuando
però a guardarmi intorno come se volessi ricordare ogni
singola cosa lì
presente. Quella casa, per quanto fosse diversa da quella che ero
solito
vedere, mi piaceva. Oltre alle svariate cianfrusaglie - bambole di
porcellana,
cavalli intagliati nel legno e quelle che sembravano piccole statuette
da
collezione - riposte sugli scaffali o sui ripiani più alti
dei mobili, facevano
bella mostra di sé gli oggetti più costosi e
disparati che avessi mai visto,
dalle semplici lampade d’antiquariato - che mi ricordarono
tra l’altro di
domandare dove mi trovassi e che anno fosse - a rappresentazioni di
mezzi busti
dallo stile vagamente romano.
Fu il picchiettare di nocche contro
legno che mi
richiamò, e alzando lo sguardo vidi Stephen indicarmi una
stanza
sulla destra. «Qui è dove dormirai», mi
informò. «Più avanti
c’è la mia
camera.
Se mi segui ti do un cambio, così potrai farti anche una
doccia
e levarti quei
vestiti fradici da dosso».
Quella premura mi fece sorridere,
forse perché mi ricordò davvero il mio amico
Steve, o forse perché da un tipo
come lui - mi aveva puntato contro un fucile solo poche ore prima,
perdio! -
non me lo sarei mai aspettato. «Grazie ancora, sul
serio», mi sentii in dovere
di dirgli, vedendolo annuire distratto prima di continuare ad
attraversare
tranquillo il disimpegno, afferrando ben presto la maniglia della porta
di
un’altra stanza. La sua, supposi.
Quando lo vidi sul punto di
spalancarla, però, la calma che mi aveva animato fino a quel
momento sfumò come
se non fosse mai esistita, e un brivido mi corse lungo la schiena,
mettendomi
subito in agitazione. Ebbi appena il tempo di aprire la bocca per
metterlo in
guardia, prima che il fragore dello sparo di un’arma di
grosso calibro e di una
finestra che andava in mille pezzi rompessero il silenzio che regnava
in casa,
assordandoci entrambi. Stephen si gettò di lato per evitare
di essere colpito
da un secondo proiettile, accostandosi contro il muro prima di
lasciarsi
scivolare lungo di esso. Incredulo, raggelato e spaventato, dovetti
ricorrere a
tutta la mia forza di volontà per convincere le gambe a
muoversi anche solo di
poco, facendo incerto qualche passo in quella direzione, senza riuscire
ad
aprir bocca. Gli occhi verdi e dilatati di Stephen si puntarono su di
me, ma
anche lui restò in silenzio, arrischiandosi a sporgersi un
po’ oltre lo stipite
della porta per valutare la situazione. Però
dall’interno non provenne nessun
altro suono, dunque si alzò; mentre lui controllava la
camera e cercava di
capire il punto esatto da cui avevano sparato, io mi soffermai sui fori
di
proiettile sul muro, esattamente dove poco prima c’era
Stephen. Aveva rischiato
maledettamente grosso.
«Quella stronza è
passata alle maniere
forti», lo sentii dire dall’interno della stanza, e
fu con fare guardingo che
entrai a mia volta, quasi mi aspettassi di vedere un sicario sbucare
fuori
dall’armadio. Però quella spiacevole sensazione
che mi aveva colto poco prima
era scomparsa, e oltre alla finestra rotta e quelli che sembravano due
mattoni
non c’era nient’altro.
Con il cuore che ancora batteva
furente nel petto, domandai: «Che vuoi dire?»
Stephen non rispose subito, ma
sventolò un biglietto. «Era legato a quella
pietra», mi disse, indicando quella
poco distante dalla finestra. «“Questo era solo un avvertimento.
La regina nera
ha fatto la sua mossa, sta al re bianco giocare, adesso”»,
si lasciò sfuggire
uno sbuffo palesemente disgustato, appallottolando il foglio prima di
comprimerlo nel palmo di una mano. «Devo ammettere che mi
aspettavo un metodo
più elegante da una signora come lei», soggiunse
sarcastico, forse per
sdrammatizzare.
Deglutii senza nemmeno rendermene
conto. «Sei certo che sia stata lei?» gli chiesi,
dandomi dello stupido da solo
per quel quesito, e lui difatti si lasciò sfuggire una falsa
risata.
«E chi altri potrebbe mai
essere
stato? Anche il biglietto parla chiaro».
Feci qualche altro passo verso di
lui, togliendogli quella palla di carta da mano prima di guardarlo in
viso con
fare deciso. «Allora devi chiamare la polizia».
«E a cosa
servirebbe?» mi domandò
in risposta. «Questa non è nemmeno la
calligrafia di Margaret, anche se è esattamente
ciò che avrebbe scritto
lei. La accuserei nuovamente senza prove e la polizia non prenderebbe
neanche
in considerazione il caso. Ha troppi poliziotti corrotti dalla sua
parte,
quella puttana».
Rifiutando di credere che si
stesse arrendendo a quel modo, senza nemmeno provare a continuare a
combattere,
mi infervorai. «Ma non puoi nemmeno aspettare che quella
donna faccia qualcosa
di peggio, dannazione!» esclamai, lasciandomi sopraffare
dalle mie emozioni e
dal sentimento che da un po’ di tempo a quella parte avevo
cominciato a provare
per il mio miglior amico. Nonostante sapessi che quello non era lo
Steve che
conoscevo, il mio cuore si rifiutava di lasciare che gli eventi si
rincorressero.
Quel mio comportamento, però,
fece
solo accigliare Stephen. Mi afferrò la mano con cui
stringevo il foglietto
appallottolato che gli avevo tolto e mi costrinse a guardarlo
attentamente in
viso, aggrottando le folte sopracciglia scure.
«Perché ti interessa così tanto
la mia incolumità?» mi domandò, e dal
tono che utilizzò apparve piuttosto
sospettoso. In altri momenti non gli avrei dato torto - in fin dei
conti per
lui ero un tipo che non aveva mai visto e che gli era piombato in casa
d’improvviso -, ma la mia mente continuava a comparare la sua
figura a quella
del vero Steve, aggiungendo persino l’avvenimento a cui era
scampato solo pochi
minuti prima.
Mi umettai le labbra senza
rispondere, quasi stessi cercando inutilmente le parole giuste per
farlo. Cosa
mai avrei potuto dirgli? Sebbene gli avessi raccontato dei miei viaggi,
non
avevo affatto accennato che lui fosse identico al mio miglior amico, e
mi ero
tenuto ben alla larga dal dirgli che provavo più di quel
semplice tipo di
affetto nei suoi riguardi. Mi avrebbe sbattuto fuori a calci o mi
avrebbe
sparato sul serio, se lo avessi fatto. Optai dunque per una mezza
verità. «Se
ti succedesse qualcosa... non potresti più difendere la
miniera dalle grinfie di
Margaret, giusto?» gliela misi su quel piano, vedendolo
accigliarsi. «Concedimi
dunque di preoccuparmi per la tua vita».
Stephen rimase senza parole, ma mi
lasciò
andare, facendo giusto un passo indietro come se volesse ristabilire le
distanze. Sembrava quasi scombussolato e non riuscii a capirne il
perché, ma
lui non si degnò di darmi nessuna spiegazione. Si diresse
solo verso un
mobiletto in noce per aprire uno dei cassetti, tirando fuori un pigiama
a righe che
persino da lontano sembrava pesante, caldo e
confortevole. Quando agguantò anche
l’intimo, ripose tutto
uno sopra l’altro prima di portarmelo e porgermelo senza
garbo. «Prendi»,
bofonchiò, e io allungai una mano senza farmelo ripetere due
volte. Non volevo
farlo incazzare più di quanto non sembrasse già.
«Il bagno è in fondo al
corridoio, seconda porta sulla destra. La colazione è alle
otto. Alle nove
andremo ad incontrare una persona, quindi vedi di farti trovare pronto.
Non
ammetto ritardi. Oh, un’ultima
cosa».
Mi gettò uno sguardo più che eloquente, talmente
serio
che, ne ero certo, sarebbe stato capace di trapassarmi l’anima,
se avesse potuto. «Sappi
che non ho intenzione di lasciarle fare ciò che vuole
né
di scappare. Non sono il tipo di persona che fugge dinanzi alle
cose». Con quell’ultima nota
diplomatica, Stephen indicò che, almeno per lui, quella
nostra
conversazione si poteva definire chiusa.
Si prospettava davvero una lunga
nottata, sempre se non fossi riuscito a tornare a casa prima
dell’alba. E io,
purtroppo, avevo cominciato a non esserne più tanto sicuro.
[1] Uno
dei the più famosi in Inghilterra.
Il suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie
all’aggiunta di un olio estratto dalla scorza di
bergamotto. Il nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne
rivendicarono la paternità.
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Capitolo 4 *** [ Atto IV › Londra, anno approsimativo 1985 ] La fine del sogno ***
Breaking_4
ATTO IV: LONDRA
› ANNO APPROSSIMATIVO 1985
LA FINE
DEL SOGNO
Erano
trascorsi quasi dieci giorni dal mio arrivo in quella città
così simile a
Londra, e ancora non ero stato in grado di ritornare alla mia epoca in
nessun
modo.
Nel tempo passato con quello
Stephen, avevo parzialmente imparato a conoscerlo per quello che era e
non per
quello che credevo che fosse, e, sebbene tra noi ci fossero ancora
delle
incomprensioni e dei momenti in cui pensava che io straparlassi,
sembrava stesse cominciando a rendersi conto che, seppur in
un’altra
vita, in un altro tempo o in un’altra dimensione, ci
conoscevamo più di quanto
lui volesse ammettere a se stesso. Era ancora scettico,
però, esattamente come
la prima mattina in cui ci eravamo ritrovati a fare colazione insieme;
eravamo
usciti come aveva annunciato lui, poi, incontrandoci con un certo
Dawson
Morrison, un vecchio avvocato che un tempo aveva lavorato per la
famiglia O’Neal.
Aveva blaterato per ore ed ore con Stephen senza che io capissi un
accidenti di
niente.
Io ero stato costretto a seguirlo solo
perché non si
fidava a lasciarmi
solo in casa - e a ragione, avrei detto -, e di spostare la data per
incontrare
quel tipo neanche a parlarne. Così ero rimasto seduto su una
poltrona ad
ascoltarli ciarlare senza potermi però muovere, quasi fossi
stato un bambino di
tre anni o un detenuto agli arresti domiciliari. Quando tutto era
finito, avevo
ringraziato l’Onnipotente per l’aver fatto
terminare quello strazio,
guadagnandoci un’occhiataccia da Stephen prima che mi
guidasse al Cafè in cui
andava sempre a pranzare. E a distanza di dieci giorni,
durante i quali non erano mancate nuove minacce, ci trovavamo ancora
una volta
lì per far colazione. La bella insegna che recitava
Illusions, dreams and
farplane [1]
era spenta, ma riusciva comunque ad attirare
talmente tanti clienti
grazie ai
suoi colori sgargianti che quasi me ne meravigliavo.
Seduti a quello che avevo scoperto
essere il solito tavolo di Stephen, scrutavamo entrambi il
menù in silenzio,
non volendo impelagarci momentaneamente in nessun tipo di discussione.
Fuori
aveva ricominciato a nevicare, e candidi fiocchi cadevano ad imbiancare
le
strade e i marciapiedi, cogliendo impreparate le persone che non
avevano ancora
trovato riparo. In quel Cafè dal gusto un po’
retrò si stava decisamente bene,
invece, e l’atmosfera creata dal chiacchiericcio degli altri
clienti e il
calore che si diffondeva nel locale erano confortanti.
«Cosa vi porto oggi,
Steve?»
Janet, la giovane cameriera che lavorava all’Illusion fino
alle cinque del pomeriggio, si era accostata al
nostro tavolo e sorrideva raggiante, stringendo a sé penna e
blocchetto mentre
fissava Stephen con occhi sognanti. Avevo capito sin dal primo sguardo
che
stravedeva per lui, ma il diretto interessato sembrava non averci fatto
caso o
non curarsene affatto. Con dispiacere della ragazza, c’era da
aggiungere.
Stephen alzò piano gli occhi
dal
menù e guardò me prima di spostarsi verso di lei,
sorridendo appena in risposta
per pura e semplice cortesia. «Per me il solito»,
disse, guardando nuovamente
me subito dopo. «Tu cosa prendi?» mi chiese, e mi
affrettai ad abbassare ancora
una volta gli occhi sul menù per dare una scorsa alle
cibarie.
«Credo che prenderò
la specialità
della casa», annunciai, al che Janet si abbassò un
po’ verso di me, ma solo
dopo aver controllato attentamente che il capo non guardasse.
«Detto fra noi, quella roba fa
schifo», bisbigliò, nascondendosi la bocca
con una mano per far sì che
non la notassero. «Ti consiglio il bacon o le uova
strapazzate. Sono
decisamente più commestibili».
Mi accigliai, ma mi sforzai di
abbozzare un sorriso. «Vada per le uova, allora»,
rettificai, e lei si strinse
contro i piccoli seni il blocco per gli appunti, accennando con il capo
ad un
saluto e facendo a Stephen quello che mi sembrò un
occhiolino.
Sebbene una minuscola parte di me
si stesse rodendo il fegato di gelosia ingiustificata, mi lasciai
sfuggire uno
sbuffo ilare. «Tra voi non è successo niente o fai
solo finta per non farla
finire nei guai?» domandai con il tono più
distratto che riuscii a trovare, ma
ne uscì solo una pessima imitazione. Sembrava più
il rimprovero di una moglie
al marito che aveva appena guardato il sedere
d’un’altra donna.
Sollevando un sopracciglio e
sistemando come se nulla fosse il colletto del giaccone che indossava -
si era
rifiutato di toglierlo anche se l’interno del Cafè
era piuttosto caldo -,
Stephen mi rivolse il primo sorriso malizioso e sarcastico che gli
avessi visto
da quando avevo messo piede in quell’universo parallelo.
«Perché non provi a
indovinarlo con i tuoi poteri, ciarlatano?»
rimbeccò, tornando a studiarsi
tranquillo il menù sebbene non ce ne fosse per niente
bisogno. Un modo come un
altro per dirmi di tenere la bocca chiusa, supposi. Forse - anzi,
sicuramente,
mi corressi - quelle mie scenate che puzzavano un po’ di
gelosia erano fuori
luogo.
Janet tornò una quindicina di
minuti dopo con tutto ciò che avevamo ordinato, compresi due
bei caffè amari
che offrivano come omaggio ad ogni cliente. Posò dinanzi a
noi le rispettive
pietanze, salutandoci ammiccante prima di scattare verso due tavoli
più in là,
dove una coppietta la stava richiamando con una mano. Nuovamente soli,
o almeno
per così dire, io e Stephen ci concentrammo solo sul nostro
cibo, evitando
ancora una volta qualsiasi tipo di conversazione.
Fu una colazione noiosa e
silenziosa, quella. Non parlammo nemmeno di come avremmo potuto agire
riguardo
a Margaret, come se quella, per il momento, dovesse restare una
questione
arginata. Eppure il tempo passava e noi non facevamo nessun progresso,
mentre
lei continuava a mandare i suoi messaggi enigmatici e le sue
convocazioni per
Stephen, alle quali lui non presenziava mai. Io ero ancora
dell’idea di
raccontare tutto alla polizia, specialmente da quando avevano tentato
di
sparargli e in seguito di investirlo - era successo quasi sei giorni
addietro -,
ma quello stupido era convinto che così facendo avremmo solo
peggiorato la
situazione. Non ero naturalmente d’accordo e cercavo di
fargli cambiare idea da
ormai dieci giorni, senza però ottenere nessun risultato
considerevole. E più
aspettavamo, più quelle sensazioni negative che
imperversavano nel mio animo
continuavano. Davanti ai miei occhi, ormai sempre più
spesso, scorrevano
frammenti di visioni che mi mostravano solo scene confuse e sfocate,
come se si
trattasse di una vecchia pellicola che non sarebbe mai più
tornata nitida come
un tempo. E più quelle visioni si presentavano,
più la mia ossessione di porre
fine a quella storia aumentava, spingendomi a divenire sempre
più pressante nei
confronti di Stephen.
Dopo aver finito di mangiare,
sorseggiai il caffè con una certa ansia, facendo saettare
gli occhi a destra e
a manca con fare guardingo, quasi mi aspettassi di veder piombare in
quel Cafè
un qualche pericolo per l’incolumità di quello che
era ormai diventato il mio
protetto. In altri momenti sarebbe stato divertente passare del tempo
con Steve
- il mio
Steve, rettificai -, ma la situazione in cui io e quel sosia
ci
eravamo ritrovati non era di certo una delle migliori.
«Se hai finito, possiamo
andare», disse
Stephen di punto in bianco, controllando il proprio orologio.
«Oggi faccio
volontariato in ospedale e non posso arrivare in ritardo».
Ingollai un altro sorso di
caffè,
sollevando al tempo stesso un sopracciglio per rendere palese il mio
scetticismo. «Fai volontariato?» gli domandai,
lasciando trasparire dalla mia
voce anche un pizzico di ammirazione. «Pensavo che, con tutti
i soldi che avessi,
te ne stessi tutto il giorno seduto su una poltrona in ufficio a
dirigere
chissà quale grande azienda».
Steve sbuffò ilare,
alzandosi in piedi mentre afferrava al tempo stesso il portafoglio
dalla tasca
interna del giaccone. «Diamine, mi sembra di sentir parlare
mio padre, pace
all’anima sua», constatò sarcastico.
«Lavorare in ospedale, anche se
occasionalmente, mi fa sentire... bene.
In un ufficio appassirei senza
aver mai
fatto qualcosa per chi ne ha davvero bisogno».
Per quanto morissi dalla voglia di
farlo, lui non mi permise di aprir bocca, quando terminò;
lasciò sul tavolo i
soldi per pagare il conto, allontanandosi dal tavolino che avevamo
occupato
fino a quel momento per avviarsi verso l’uscita, senza farmi
cenno di seguirlo
né tanto meno richiamandomi per impormi di darmi una mossa.
Non seppi perché lo
fece, ma quello di cui fui certo fu ben altro: l’ospedale,
per Stephen, era
tutta la sua vita. E lo costatai anche quando ci ritrovammo dinanzi
all’edificio stesso - di una maestosità tale da
renderlo impressionante, con
quel grande giardino e gli alberi sempre verdi innevati -, dove lui
sembrò così
diverso dallo Stephen che avevo visto fino a quel momento. Assegnato al
reparto
di pediatria, quando si ritrovava in compagnia dei bambini sembrava
diventare
una persona completamente diversa: rideva con loro, scherzava, cercava
di tener
alto il morale giocando o mostrando semplici trucchi di prestigio,
incantando
loro e anche me. Sally, una bambina sordomuta di quasi otto anni,
sembrava essere
quella che più si era legata a lui. Stephen aveva imparato
il linguaggio dei
segni per parlarle e capirla, instaurando con lei un rapporto speciale
e
profondo che andava avanti da due anni, ormai. La considerava come una
sorellina da proteggere, e più lo vedevo muovere le mani e
parlare a gesti, in
quel momento, più non riuscivo a capacitarmi di quel suo
lato che pareva dolce
e sensibile. Forse con il mio Steve crederlo sarebbe stato
più facile.
Come gli altri volontari, passai le
restanti ore ad occuparmi a mia volta dei bambini,
raccontando
loro storie fantastiche o grandi classici della letteratura. Mi
inoltrai con
loro nel tetro castello della Bestia, e seguendo i passi di Belle
riuscimmo a
spezzare l’incantesimo che gravava sul principe; ci
immergemmo negli oceani più
profondi, vivendo la tragica storia di una giovane sirenetta innamorata
di un
umano; cademmo insieme ad Alice nella tana del Bianconiglio, bevendo il
the dal
Cappellaio Matto e fuggendo dalle guardie di carta della regina di
cuori,
spaventati dalla consapevolezza che lei volesse tagliarci la testa;
solcammo i
mari alla ricerca del misterioso tesoro, intonando canzoni piratesche
insieme
al giovane Jim; volammo oltre i cieli di Londra, librandoci nelle
correnti in
compagnia di Peter Pan, che ci scortò all’Isola
che non c’è dove conoscemmo
pirati, indiani e bimbi sperduti [2]
; e più
raccontavo, più le espressioni allegre, stupite, spaventate
e divertite dei
bambini mi facevano sentire un piacevole calore all’altezza
del cuore. Stephen
si era persino preso volontariamente l’incarico di farmi da
interprete per la
piccola Sally, i cui occhi luminosi ed estasiati mentre narravo tramite
Steve
erano valsi più di mille parole.
Mi dispiacque quando arrivò
il momento di lasciare l’ospedale. Non mi ero più
sentito così utile da quando
avevo smesso di giocare a baseball, e la cosa mi rendeva felice come
non lo ero
più stato da tanto. E forse fu proprio quel sorrisetto
inebetito che era
spuntato sulle mie labbra a richiamare l’attenzione di
Stephen, che mi
picchiettò distratto una spalla come se volesse riportarmi
alla realtà.
Ci eravamo allontanati
dall’ospedale solo di una ventina di metri, e intorno a noi
si vedeva il vasto
giardino che lo circondava, con i suoi alberi spogli e i cespugli ormai
innevati che a primavera sarebbero stati un sicuro spettacolo.
«Te la sei
cavata bene», mi disse Stephen quando tornai con i piedi per
terra. «Ci sapevi
davvero fare, con i bambini. Hai moglie e figli, a casa?»
Avrei risposto alla leggera se il
mio cervello non avesse riattivato gli ingranaggi, facendomi capire per
bene il
senso di quella frase. Mi affrettai dunque ad agitare entrambe le mani
in
risposta, guardandolo stralunato. «Assolutamente
no!» esclamai, nemmeno avesse
appena detto un’eresia. E fu vedendo la sua espressione
accigliata che cercai
di fare pace con la mia boccaccia, provando a riformulare correttamente
la
risposta. «Nay, non ho famiglia», dissi in tono
più calmo. «Però mi sono sempre
piaciuti i bambini».
«Quindi non
c’è nessuno che aspetta
il tuo ritorno?» mi chiese ancora, e nell’osservare
quei suoi occhi verdi -
così profondi, scintillanti e immoti - fui quasi tentato di
rispondere
semplicemente «Ci sei tu». Fortunatamente per me,
però, mi trattenni, sebbene
la voglia di farlo scorresse come fuoco vivo nelle mie vene.
«Non è
importante», tagliai
lì il
discorso, affrettando il passo per uscire il prima possibile da quel
giardino.
Attraversai il cancello senza attendere che Stephen mi seguisse,
cosicché fu
costretto a correre per raggiungermi, scalpicciando sulla ghiaia del
vialetto.
Mi si accostò quando ci
ritrovammo
entrambi fra le strade di quella bizzarra città
così simile a Londra. «Perché
parli in questo modo?»
Perché? Semplice: pur
preoccupandosi per me, probabilmente Steve non avrebbe provato la
stessa ansia
che avrei provato io se fosse sparito per giorni interi. Forse era
stupido, ma
continuavo ad aspettarmi che Steve si comportasse come un amante
premuroso
anziché come un amico fidato. Dio, mi facevo
pietà da solo per quel lato del
mio carattere. «Se te lo dicessi, non mi guarderesti
più con gli stessi occhi
di adesso».
«Potresti provarci comunque,
Juggernaut».
Gli attimi di silenzio che
passarono dal momento in cui lui pronunciò quella semplice
frase parvero
interminabili. Fermo e spaesato in mezzo al marciapiede, a ridosso di
un paio
di villette dai giardini coperti da un manto di neve, non ebbi il
coraggio di
voltarmi verso Stephen per guardarlo negli occhi, ma incredulo gli
chiesi: «Come
mi hai chiamato?»
Percepii distintamente la tensione
impadronirsi dei muscoli del suo corpo, come se ognuno di essi,
tendendosi fino
allo spasimo, fosse divenuto teso come una corda di violino e avesse
provocato
un suono stridulo che mi permise di sentirli. «Jonathan. Come
altro avrei
dovuto chiamarti?»
ribatté, ma il suo tono sembrava incerto, come se nemmeno
lui si fosse reso
conto delle sue stesse parole. Era mai possibile che in
realtà la mia mente
avesse fantasticato, e che quel tono fosse dovuto allo stupore del mio
quesito?
Avevo forse immaginato tutto, dunque? La testa mi doleva ad ogni
congettura, e
continuare a pensarci non giovava come avevo creduto. Forse la
soluzione più
semplice era che stavo pian piano impazzendo.
Abbassai le palpebre e mi portai
entrambe le mani al capo per massaggiarmi le tempie con due dita,
traendo un
lungo sospiro. «Niente, niente. Lascia stare», gli
dissi semplicemente,
troncando così quella conversazione senza che Stephen
replicasse o cercasse di
far pressione per costringermi a parlare.
Arrivammo dinanzi al cancello della
sua villetta alle otto passate, con il sole che era ormai tramontato da
un bel
pezzo. Le uniche luci provenivano dalla lampadina sotto il portico di
Stephen e
dai lampioni disposti strategicamente su entrambi i marciapiedi che
portavano
alle case, ma non bastavano ad illuminare perfettamente la zona
circostante,
rendendola fredda e tetra più di quanto non lo sembrasse
già. Era come se ogni
ombra, suono o fruscio venisse irrimediabilmente stravolto, facendomi
sentire
come un bambino che ha paura di vedere se ci sono mostri sotto il
letto. Avrei
voluto cercare in quello Stephen la rassicurazione che mi occorreva,
però
sapevo che non avrei potuto farlo proprio perché lui non era
il mio Steve.
L’aveva ampiamente dimostrato appena poche ore addietro.
Una volta aperto il cancello,
attraversammo il vialetto lasciando profondi solchi nella neve che lo
ricopriva
come una sottile lastra di ghiaccio, e io ringraziai di aver indossato
le
scarpe adatte. Le mie solite nike sarebbero servite veramente a poco,
lì. Stephen
spalancò la porta di casa e premette
l’interruttore, ed entrambi venimmo subito
investiti dalla morbida e confortante luce arancione
dell’ingresso, per quanto
ci avesse accecati a causa di tutto quel tempo passato nella
semioscurità. Mi
liberai del cappotto rabbrividendo, sfregando fra loro le mani mentre
con la
coda dell’occhio seguivo i movimenti di Stephen, diretto
verso il soggiorno
come suo solito; affrettai il passo per raggiungerlo, ma lo
trovai impalato a pochi metri da una delle poltrone e mi accigliai.
Facendo qualche passo avanti, mi
apprestai a chiedergli che cosa avesse, ma venni preceduto da una calda
voce
femminile che esordì con un: «Ce ne hai messo di
tempo per tornare a casa,
Steve».
Non compresi subito da dove
provenisse quella voce dalla cadenza così sensuale e
smielata, vedendo poi una
fluente chioma fulva fare capolino dallo schienale della poltrona
rivolta verso
il caminetto. Il viso che mi ritrovai ad osservare apparteneva alla
donna più
bella che avessi mai visto: non aveva quella bellezza tipica delle top
model o delle ragazze di
Play-Boy che ero abituato ad osservare, bensì quella delle
donne d’altri tempi
giovani e colte, di quelle che per apparire splendide non avevano
bisogno di
trucchi pesanti, ma solo di un velo di rossetto sulle labbra morbide e
piene; i
capelli, legati in un’alta crocchia composta, erano di un
rosso acceso, simile
a quello delle foglie d’autunno o degl’ultimi
bagliori d’un sole morente. Ma
erano gli occhi ad attirare maggiormente l’attenzione:
d’un marrone così scuro
d’apparire quasi nero, quegl’occhi nascondevano nei
loro recessi un qualcosa
d’indefinito e spaventoso, ma al tempo stesso così
profondo ed ammaliante da
lasciare sconcertati.
Stephen, che non sembrava esserne
rimasto abbagliato quanto me e se ne stava in disparte,
serrò le labbra in una
linea sottile al dir di quella donna. «Margaret»,
cominciò pacato, mettendomi
così al corrente di chi ella fosse. «Chi ti ha
dato il permesso di entrare in
casa mia? Ma, soprattutto, come
sei entrata e cosa
ti ha spinto a
presentarti di persona?»
La risata di quella donna fu come
acqua cristallina precipitata a valle dalla più alta
sorgente rocciosa, uno
scampanellio piacevole e terrificante. «Non credi sia ovvio,
mio piccolo Steve?»
lo schernì. «Le lancette corrono, tic
tac».
«Esci immediatamente da
qui», le
ordinò Stephen, e, mentre li ascoltavo, non potevo fare a
meno di darmi dello
stupido per non aver previsto quell’incursione. I miei
pensieri sui sentimenti
che provavo per Steve mi avevano offuscato la mente, e non mi avevano
permesso
di rendermi conto in tempo del pericolo imminente. Ero stato un
perfetto
idiota.
Fu proprio in quel mentre che
quella donna parve accorgersi anche della mia presenza, perdendo di
poco
d’occhio Stephen per voltarsi verso di me e sbattere le
lunghe e graziose
ciglia scure, rivelando la sua palese perplessità.
«E tu chi saresti, di
grazia?» mi domandò con cortese stupore, sebbene
non avesse mancato di far
trasparire dalla sua voce una nota educata. Beh, su quel punto era una
vera
signora.
La guardai incerto, facendo
scorrere lo sguardo dai suoi occhi di pece a quelli verdi di Stephen,
quasi
stessi chiedendo il suo permesso per risponderle. Quella donna mi
trasmetteva
una strana sensazione, la stessa che avevo provato nello sfiorare la
maniglia
della mia macchina. Era come se Margaret fosse avvolta da
un’aura oscura che
offuscava tutto il resto, facendo sì che mi sentissi
inquieto come se avessi a
che fare con uno psicopatico pronto ad accoltellarmi. Decisi
però di togliermi
il dente e risponderle per le rime, ma Stephen alzò un
braccio e fece un cenno
nella mia direzione, zittendomi. «Non occorre che tu sappia
chi è», le sbottò
contro, e io stornai bruscamente lo sguardo verso di lui.
«Non ho bisogno che sia tu a
parlare
per me, Steve»,
replicai secco, enfatizzando il suo nome e
venendo così
fulminato da una sua occhiataccia.
«Sta’ zitto e vedi
di tirarti
fuori da questa storia».
«Ci sono dentro fino al collo,
invece».
«Tu non c’entri
niente, adesso fa’
silenzio».
«Discordia fra le file,
Steve?»
esordì sarcasticamente Margaret, intromettendosi senza
remore nella nostra
discussione. «Se tu e il tuo amichetto avete
finito di
chiacchierare,
direi che potremo passare alle cose serie... non credi anche
tu?»
La rapidità con cui Stephen
distolse lo sguardo da me per puntarlo verso di lei fu impressionante.
Fece poi
due passi nella sua direzione, incombendo sulla sua esile figura come
un
titano. «Io e te non abbiamo nulla di cui parlare,
Margaret».
«Ah, no?» fece lei,
portandosi due
dita alle labbra per accarezzarsi distratta quello inferiore, il viso
rivolto
in alto per far sì che i suoi occhi incrociassero quelli del
suo interlocutore.
Non potevo vederla con precisione, ma mi sembrava che quelle polle
scure
scintillassero di un qualcosa che sfociava quasi nella follia.
«Mi risulta che
tu abbia ricevuto la cortese visita dei miei legali, non è
così?»
«Non so di cosa tu stia
parlando»,
ribatté fermamente lui.
«Certo che lo sai, caro
Stephen».
Il tono pacato con cui aveva parlato fino a quel momento stava
scomparendo pian
piano, lasciando spazio ad una cadenza piuttosto irritata.
«Ma hai deciso di
ignorare deliberatamente la cosa, chiudendoti nella piccola utopia che
ti sei
creato. Adesso però è tempo di saldare il
conto... la partita sta per
concludersi».
Non seppi perché, ma il modo
in
cui proferì quelle ultime parole fu capace di farmi
rabbrividire da capo a
piedi più del freddo pungente proveniente da fuori,
rizzandomi i peli sulla
pelle. Provai quindi a richiamare Stephen per farlo indietreggiare, ma
né lui
né Margaret sembrarono prestarmi attenzione. Era come se si
trovassero entrambi
in un mondo costruito appositamente per loro, un mondo fatto di
inganni,
intrighi e pianificazioni di mosse, quasi stessero entrambi giocando
una pericolosa
partita a scacchi. Però non mi arresi, avvicinandomi io
stesso per strattonare
Stephen, incassando le colorite imprecazioni che rivolse al mio
indirizzo
mentre tenevo lo sguardo fisso su Margaret. «Le converrebbe
fare quanto detto
poco fa e lasciare questa casa, signorina», cercai di
persuaderla, tentando di
essere il più cortese possibile e di evitare al tempo stesso
di fare in modo
che il senso di inquietudine dentro di me scemasse.
Il sorriso che Margaret mi
rivolse, però, fu solo capace di far divampare ancora una
volta quella
sensazione, come se fosse un fuoco addormentato sotto le ceneri. La
vidi
scostarsi dal viso qualche ciuffo ribelle di capelli rossi che era
sfuggito
alla crocchia, sistemandosi la borsetta sottobraccio e lisciandosi il
bel
vestito nero che indossava. «Dunque è
così, caro Stephen?» chiese, scostando lo
sguardo verso di lui così lentamente da risultare snervante.
«Tu e il tuo
amichetto volete che me ne vada a mani vuote, senza nemmeno che mi sia
presa
una piccola fetta di ciò che mi spetta?»
Quella sua costatazione
strappò a
Stephen un’amara risata. «Qui non
c’è niente per te, Margaret. Quel pezzo di
carta a cui aneli così disperatamente resterà
qui. Per quel che mi riguarda,
puoi anche andare a fare in culo».
Nel sentirlo, un mesto sospiro
sfuggì dalle labbra di Margaret, e, dopo aver stretto a
sé la piccola pouchette
e abbassato le palpebre dalle lunghe ciglia, guardò
nuovamente Stephen
con quei suoi profondi occhi neri. «Sappi che mi ci hai
costretta tu», asserì,
infilando una mano nella borsetta per tirar fuori una pistola con una
destrezza
unica, con la stessa abilità con cui un prestigiatore tirava
fuori un coniglio
dal cilindro. Una calibro 22, una vera arma per signore, apparve quasi
per
magia nelle mani di Margaret, che divaricò le gambe
come se si stesse
preparando a far fuoco.
Io e Stephen indietreggiamo e
trattenemmo esclamazioni di stupore e terrore,
tenendola
d’occhio con una sincronia che quasi mi parve impossibile.
«Metta giù la pistola,»
la esortai, alzando lentamente le mani per rivolgere i palmi verso di
lei, come
se volessi spingerla ad abbassare la canna, pericolosamente puntata su
di me. «Non
è necessario, mi creda».
«Che intenzioni hai,
Margaret?»
domandò invece Stephen, con un’ombra di
preoccupazione nella voce sommessa. E
come dargli torto? Ero terrorizzato anch’io.
Lei, però, non parve dare
ascolto
a nessuno dei due, facendo saettare lo sguardo dall’uno
all’altro con fare
stralunato. «Mi ci hai costretta tu»,
ripeté, e nonostante la sua espressione
la sua voce suonò piatta e incolore. «Sei stato tu
a dire che avrei dovuto
strappare il contratto dalle tue fredde dita, ed è
esattamente ciò che ho
intenzione di fare», puntò la pistola contro di
lui. «Scacco matto, Stephen.
Fine della partita».
Nel silenzio in cui la casa era
immersa, la detonazione risultò assordante. Il susseguirsi
degli eventi sembrò
quasi come vedere un film a rallentatore: vidi il proiettile sputato
fuori
dalla canna fumante della pistola; il sorriso sardonico e folle dipinto
sulle
labbra di Margaret; Stephen che tentava di scartare di lato per evitare
il
colpo, gettandomi a terra con uno spintone mentre mi urlava qualcosa di
disarticolato. Tutto parve finito, ma cantai vittoria troppo presto: un
altro
sparo risuonò cupo alle nostre orecchie, seguito dalla voce
suadente di
Margaret.
Nella momentanea sordità,
riuscii a
sentirla a malapena, ma non furono le sue parole ad attirare la mia
attenzione,
bensì il modo in cui Stephen si premeva una mano sul petto,
senza fiato.
Quella stessa mano se la portò poi dinanzi al viso,
osservando il sangue che la
macchiava come se non se ne capacitasse. E anch’io mi
rifiutai
di credere a ciò che stavo osservando con completo orrore,
terrorizzato.
«Steve!»
urlai con tutto il fiato
che avevo in gola, così tanto da infiammarmi le corde
vocali, vedendo gli occhi
sbarrati di Stephen fissarmi per un’ultima volta prima che
lui cadesse riverso
al suolo. Boccheggiante e stravolto dal dolore, ebbi appena il tempo di
voltarmi di scatto in direzione di Margaret prima che il mio mondo si
riducesse
unicamente alla bocca della sua pistola.
[1] Anche
se il nome sembra del tutto casuale -
farplane è ad esempio il modo in cui viene chiamato
l’Oltremondo in Final
Fantasy X -, sarà possibile capirlo solo dopo aver finito di
leggere l’intera
storia, o almeno quella è l’intenzione.
[2] Le
opere
prese in considerazione, in ordine come sono state citate, sono le
seguenti:
“La Bella e la Bestia” di Jeanne-Marie Leprince
(1757) ; “La sirenetta” di Hans
Christian Andersen (1836) ; Alice in Wonderland” di Lewis
Carrol (1865) ;
“L’isola del tesoro” di Robert Louis
Stevenson (1883) e “Peter Pan” di James
Matthew Barrie (1902).
Ognuna delle storie
citate ha la trama originale non riveduta dalla Walt Disney.
Messaggio No
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Farai felici milioni di
scrittori.
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Capitolo 5 *** [ Atto V › St. Charles, Agosto 2001 ] Epilogo o prologo? ***
Breaking_5
ATTO V: ST. CHARLES ›
AGOSTO 2001
EPILOGO O
PROLOGO?
Ricordavo
che avevo cominciato a piangere. E non per paura che
quella
donna mi sparasse, nay, non era stato affatto per quello. Piangevo per
Stephen,
quello Stephen che aveva lo stesso volto del mio miglior amico.
Era
morto dinanzi ai miei occhi senza che io potessi far nulla per
impedirlo,
nemmeno grazie a quel mio
dono di poter vedere gli avvenimenti futuri,
che non era servito a niente nel momento del bisogno. Stephen adesso
non c’era
più, e la colpa era mia. Solo mia.
Ad occhi chiusi, con le lacrime
che sgorgavano copiose e mi rigavano le guance, mi accasciai su me
stesso e cominciai
a dondolarmi avanti e indietro a braccia conserte, sussurrando
più e più volte
il suo nome come se potesse servire a riportarlo in vita. Troppo
immerso nella mia
sofferenza, non mi ero nemmeno accorto che i miei mormorii erano
cresciuti di
intensità e che qualcuno aveva cominciato a scuotermi, quasi
volesse cercare di
risvegliarmi da un lungo sonno. Se era quella donna, Margaret, a
scuotermi, che
ragione aveva di farlo? Avrebbe potuto benissimo togliermi di mezzo in
quel
momento, approfittando del mio attimo di debolezza. Conoscevo troppe
cose per
essere lasciato in vita, lo sapevo io come lo sapeva anche lei. Quegli
scossoni, però, sembrarono continuare, e ad essi si erano
aggiunte due o più
voci che credevo di conoscere, sebbene provenissero da molto lontano e
giungessero
alle mie orecchie basse e ovattate.
Fu con una certa difficoltà
che
riuscii ad alzare le palpebre, come se avessi tenuto gli occhi chiusi
per lungo
tempo. La mia visuale si ridusse pian piano da un unico punto bianco ad
una
distesa candida, intervallata da due sagome scure di cui non riconobbi
i
lineamenti. Sentii però intorno a me dei mormorii concitati
e quelli che
parvero sospiri di sollievo, poi dei passi che si allontanavano sempre
più
prima di sparire del tutto. La sola figura che rimase
cominciò a farsi più
nitida a poco a poco e, nonostante non riuscissi ancora a figurarmi il
volto,
fui più che certo che quella che mi aveva appena sfiorato
fosse una mano.
«Jonathan... oddio,
Johnny»,
sussurrò ancora quella voce strozzata, quasi si stesse
trattenendo dal
piangere. «Grazie al cielo hai aperto gli occhi».
Mi sentivo la testa pesante e mi
sembrava di respirare a fatica; avevo un forte dolore al costato, come
se
qualcuno mi avesse da poco sferrato un pugno, e anche il braccio
sinistro
sembrava un ricettacolo di sofferenza. Ci misi una manciata di minuti
buoni a
capire che quello che mi osservava con tanta apprensione era Steve, e
che
quello in cui mi trovavo era un letto d’ospedale dalle coltri
bianche.
Ricordava così maledettamente quel giardino innevato...
Nel rammentare ciò provai a
scattare a sedere, dandomi dell’idiota non appena sentii una
fitta lancinante
alle costole mentre Steve mi rimetteva giù, inveendomi
contro e dandomi del
cretino. Beh, non me la sentivo proprio di dargli torto.
«Dove... dove sono?»
chiesi con un fil di voce, sentendomi la gola secca. Che cosa diavolo
era
successo? Quel che ricordavo era Margaret che ci attendeva in salotto,
il
momento in cui lei tirava fuori la pistola, Steve a terra colpito al
petto... «Tu»,
sussurrai nel momento stesso in cui il mio cervello riuscì a
mettere insieme
quei pensieri, «tu sei appena morto».
«Che stronzate vai
dicendo?»
rimbeccò lui con una nota lievemente isterica.
«Sei tu che hai rischiato di
morire, idiota! Io e i ragazzi ti abbiamo aspettato allo stadio per
ore, anche
dopo la partita».
Allo stadio? La partita? Cercai di
pensare con più lucidità, ma mi risultava
piuttosto difficile, specialmente non
riuscendo a capire come fossi finito lì. «Tu sei
morto», ripetei insistente,
conscio di ciò che avevo visto. A meno che non fossi tornato
al mio tempo,
quello doveva essere soltanto un sogno. «Stavo... stavo
venendo a casa tua
quando è successo», bisbigliai lamentoso fra me e
me, affondando la testa fra i
cuscini. «È
successo di nuovo, io sono sparito e sono stato sbalzato nel
giardino dell’altro te stesso, poi tu sei... tu sei morto
e...» non riuscii a
continuare, sia a causa delle lacrime che minacciavano di farmi morire
la voce
in gola, sia per la mano di Steve - così calda, viva, rassicurante
- che
mi carezzava dolcemente i capelli.
«Va tutto bene, Johnny, va
tutto
bene», mormorò comprensivo, come una madre che
rassicurava il figlio. «Hai
subito un grande shock e sei rimasto privo di conoscenza per ore,
è normale che
tu adesso sia confuso. Vado a prenderti un po’
d’acqua e vedo di chiamare un
dottore, okay?» soggiunse poi, scostandomi qualche ciuffo
dalla fronte. «Tu, però, cerca di calmarti e di
fare un bel respiro. È
stato soltanto un brutto
sogno», mi carezzò ancora una volta la testa come
se fossi un bambino,
regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso una porta che
sulle
prime non avevo visto, sparendo oltre la soglia.
Rimasto solo, cercai di rimettere
insieme i pezzi mancanti dei miei pensieri. Ero partito alla volta
della casa
di Steve e avevo avuto un incidente prima di compiere quel mio viaggio
che mi
aveva sbalzato fuori dal continuum spazio-temporale, dunque poteva
anche essere
plausibile che, tornando indietro, mi avessero trovato in auto privo di
sensi e
avessero pensato che fossi svenuto a causa dello shock; il particolare
che non
quadrava, però, era ciò che mi aveva detto Steve:
come poteva essere possibile
che, secondo lui, dovevamo vederci allo stadio? Quello era successo
più di un
anno addietro, e... frenai di botto il flusso di quei miei pensieri,
sgranando
di poco gli occhi. Ero tornato a quel momento oppure era stato tutto un
sogno?
Qual era la verità, perdio? E se davvero era stato tutto un
sogno, perché
sembrava ancora così nitido e reale? Più ci
pensavo, più mi scoppiava la testa.
Passai il resto del tempo a
riflettere su tutto, cercando di capire quante cose avessi
già vissuto e
visto, forse nel vano tentativo di convincere me stesso che non era
stato tutto
un sogno: volgendo lo sguardo alla finestra, potevo vedere le stesse
tende
azzurre con quella macchiolina gialla che si muovevano pigramente al
vento; il
letto vuoto accanto a me, sfatto e dalle lenzuola bianche, con il
cuscino riverso un po’
verso il basso; persino i
fiori sul
comodino li conoscevo, e non avevo bisogno di contare le rose per
essere certo
che fossero precisamente dodici. Però c’era
qualcosa che mancava, e non ci misi
molto a capire cosa: non vedevo più quei sottili fili che di
tanto
in tanto dardeggiavano dinanzi ai miei occhi, dunque qual era la
verità? Dirlo
sarebbe stato difficile, e ancor più quando
rientrò Steve, seguito da Dean. Stan, il più
grande del gruppo,
reggeva in una mano il filo di quattro palloncini azzurri con
decorazioni rosse
e gialle, ed anche quella fu un’immagine che ricordai
d’aver già visto.
All’appello mancava solo Matthew, il fratello di Stan.
«La prossima volta veniamo a
prenderti noi per portarti in campo, Juggernaut»,
provò a sdrammatizzare Dean
mentre Steve posava accanto ai fiori il bicchiere d’acqua che
aveva portato. «Non
si può però dire che tu non faccia onore al tuo
soprannome».
«Lascialo in pace per cinque
minuti, Dean», lo apostrofò Stan. «Si
è appena svegliato, non ha bisogno del
tuo sarcasmo».
«Lodati siano gli
airbag!»
esclamò
Dean in risposta, e lo vidi alzare le mani per rivolgere i palmi aperti
al
soffitto. Mi venne da ridere, ma mi trattenni solo perché
quando ci provai
sentii nuovamente dolore al costato.
Dunque mi limitai a sorridere, ma,
prima ancora che riuscissi a dire qualcosa, fui preceduto da Steve, che
zittì
gli altri due con tono falsamente arrabbiato, come se volesse
più spronarli a
darmi pace che a richiamarli. Stan e Dean scrollarono appena le spalle
e, dopo
aver legato i palloncini al letto, Stan mi salutò
trascinandosi dietro Dean,
che oppose finta resistenza mentre agitava una mano verso di me.
Quando restammo soli, Stephen
volse lo sguardo verso di me, abbozzando un sorrisino.
«Matthew è andato a
chiamare un medico», mi disse semplicemente.
«Intanto ci ho pensato io ad
informare Tony dell’accaduto».
Tony era stato il mio allenatore
quando giocavo a baseball, ma mi rifiutavo di credere che fossi tornato
indietro o che fosse stato tutto un semplice sogno. «Tony sa
già quel che è
successo», mi convinsi cocciuto, facendo arcuare a Steve le
sopracciglia. «I legamenti
del mio braccio sono ormai fuori uso e non potrò
più giocare».
«Cosa stai dicendo,
Johnny?»
rimbeccò lui, accigliato.
«Tutto questo è
già
accaduto»,
insistetti, cominciando a guardarmi freneticamente intorno mentre
cercavo di
ricordare cosa fosse successo in quell’esatto momento la
prima volta che avevo
vissuto quella scena. Quando ci riuscii, aggiunsi, «Tra non
molto entrerà il
dottore, mi comunicherà che il mio braccio è
andato e che non potrò più giocare
a baseball», e detto ciò attendemmo in silenzio,
come se nessuno dei due
volesse rompere quella bizzarra quiete con parole inutili e domande
superflue.
Nulla di ciò che avevo detto,
però, accadde, e io ne restai sorpreso. Com’era
possibile che mi fossi
sbagliato? Il medico era sì venuto, pochi minuti dopo, ma mi
aveva solo detto
che avrei potuto lasciare l’ospedale il giorno seguente, non
avendo subito
gravi lesioni a parte qualche graffio al viso e dei lividi su petto e
schiena.
L’incidente non era stato violento ed avevo perso i sensi
solo a causa dello
spavento, a suo dire. E non potei fare a meno di pensare che
ci fosse
qualcosa di sbagliato, in tutto ciò. Ricordavo un incidente
mortale, un
incidente in cui la mia mustang si era quasi accartocciata e io avevo
rischiato
di morire poiché il mio cuore aveva smesso di battere per
quasi un minuto. Non
potevo aver immaginato anche quelle cose.
«Sentito il gran capo,
Juggernaut?» mi richiamò la voce di Steve, e
quando mi voltai verso di lui lo
vidi sorridere. «Domani potrai tornartene a casa. Per il
momento cerca di
riposare e di non pensare più a quel brutto sogno. Adesso
è tutto finito».
Adesso
è tutto finito.
Ripetei più e più volte nella mia mente quelle
parole come se cercassi di
convincere me stesso che fossero vere, non riuscendo però a
capacitarmi di
quanto fosse accaduto fino a quel momento. Era stato davvero tutto un
sogno?
Avevo forse visto il futuro? Se così era stato, non avrei
permesso che niente
di ciò che avevo veduto si avverasse, né tanto
meno che Stephen morisse senza
che io potessi far nulla per impedirlo.
Eravamo padroni del nostro destino
e non ci saremmo fatti piegare da esso, affrontandolo invece con
spavalderia e
coraggio. E se ciò che avevo da poco vissuto era destinato
ad accadere
realmente, un giorno, avrei fatto in modo che le cose si svolgessero
diversamente. Parola di Jonathan Wilson.
Non
si è mai certi di ciò che la vita ti riserva
finché non ti accadono le cose più
impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde
nel suo ventre
l’orribile verità dell’essere, e, quando
alla fine scopri questa verità, concentrarsi
sullo scorrere del tempo diventa snervante. Vedi le stagioni che
passano, gli
anni che corrono via veloci come un treno sulle rotaie, lo sfiorire
della
giovinezza che pian piano lascia spazio all’età
della saggezza. Lo sai, lo
percepisci, te ne rendi persino conto, ma quasi ti rifiuti di
accettarlo. A me
era successo proprio questo.
Di tanto in tanto faccio persino dei
sogni in cui rivivo il mio primo incidente, quello in cui avrei dovuto
essermi
rotto un braccio. Sono alla guida della mia mustang, la radio trasmette
Stand by me
di King e
accanto a me c’è anche Steve, che la canticchia
tranquillamente sottovoce.
Ridiamo e scherziamo come due liceali, ma quel momento viene interrotto
dalle
luci accecanti di un’altra autovettura dinanzi a noi, che ci
viene addosso ad
una velocità disarmante; Steve ha appena il tempo di urlarmi
qualcosa e
sterzare lui stesso, poi quello che mi circonda è solo il
buio totale. La parte
peggiore del sogno è lo scenario di morte e desolazione che
mi si presenta
davanti subito dopo: fiamme sull’asfalto,
sangue sul cruscotto e sui sedili, qualcuno che grida in modo
disarticolato e le sirene delle ambulanze che squarciano il silenzio
della notte.
Quando mi sveglio, ho sempre le
lacrime agli occhi e la frase «I
won’t be afraid just as long as you stand by me»,
l’ultima strofa che
Steve ha cantato prima che il mondo ci crollasse addosso, mi vortica
insistentemente nella testa, peggiorando soltanto la situazione e
mostrandomi
ancora una volta gli occhi sbarrati e vuoti di Steve. Però
la verità è che la parte più
profonda di me lo sa fin troppo bene cos’è
successo. Il mio miglior amico era morto un paio d’anni prima
ed io avevo inconsciamente
insabbiato l’accaduto,
rifugiandomi in quel mondo fatto di nebbie e di ricordi per non
rammentare ciò
che avevo veduto e vissuto, mescolando il reale
all’immaginario, fondendo la verità alla bugia.
Ed
è portando questi fiori su quella tomba bianca e senza nome
che ancora me lo
domando: può essere davvero possibile distinguere un sogno
dalla realtà? Perché
io forse sto ancora sognando, e se così fosse... per favore,
non svegliatemi.
Lasciatemi continuare a sognare.
BREAKING THE WORLD
FINE
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia è stata scritta per il contest
“Scacco
matto!” indetto
da Fe85, e si
è
classificata Prima.
Ammetto che è
stata piuttosto travagliata. Nata senza una
vera e propria trama di
base, capisco
poi benissimo che essa possa presentarsi piuttosto strana agli occhi
del lettore. Lo era anche per me mentre la stendevo, sul serio. L'unica
cosa che c'è da spiegare è la divisione
comportata da questi simboli ❦※❧ giacchè
la trama risulterebbe ancor più incasinata se non buttassi
giù due righe in queste note ora che la storia è
conclusa.
Quelle due parti sono unite e
rappresentano la chiave centrale di tutto il racconto, in
realtà. Diciamo che
si possono considerare come il vero e proprio prologo/epilogo sul quale
la
storia si basa, e che esso metta qualche dubbio in più al
lettore: è stato sul
serio solo un sogno fatto da Jonathan, quello iniziale, o lui
è rimasto così
scioccato dall’accaduto che ha immaginato tutto, incluso il
suo amico Stephen
ancora in vita e tutto ciò che ne concerne? Il suo
subconscio, anche tramite i riferimenti che
spargeva ovunque - il nome del Cafè, tanto per dirne uno -, ha
forse cercato
di fargli capire che qualunque cosa cerchi di fare il suo amico
è destinato a
morire, o forse anche quella era una prova? Spetta soltanto a chi legge
capirlo
e deciderlo.
Chiusa questa piccola
parentesi, vi lascio al commento della giudice e spero vivamente che
sia piaciuta e che seguirete anche lo spin off di questa storia su cui
sto lavorando.
GIUDIZIO
Grammatica
e Sintassi: 9/ 10
Ti ho penalizzato leggermente perché non mi sono imbattuta
in errori gravi, bensì di distrazione.
-“Là fuori avrò perso il tempo dei
minuti che passavano.”→ “il conto dei
minuti”;
-“Sarei persino scoppiato in una risata isterica se non mi
fossi
trovato a telefono proprio con lui.”→ “al
telefono”;
-“quegl’universi”→ trovo che
l’apostrofo stoni, usa tranquillamente la forma per esteso;
-“un ricco mercante inglese che aveva fatto fortuna in poco
grazie alle sue particolari doti linguistiche”→
“in
poco tempo”;
-“Fu il picchiettare di nocche contro legno che mi
richiamò”→ “contro il
legno”;
-“si lasciò sfuggire uno sbuffò
palesemente”→ “uno sbuffo”;
-“ Fu una colazione noioso”→
“noiosa”;
-“specialmente da quando avevano tentato di
spararlo”→ “sparargli”;
-“ Come gli altri volontari, decidi di passare le restanti
ore ad
occuparmi a mia volta dei bambini”→
“decisi”;
-“E anch’io mi rifiuta di credere a ciò
che i miei
occhi mi stavano mostrando.”→
“rifiutai”;
Per il resto tutto perfetto, comprese la punteggiatura e la sintassi.
Stile e Lessico: 10/10
Attenzione ai gerundi che a volte appesantiscono la struttura della
frase come in questi due casi:
-“Mi drizzai a sedere di scatto sentendo tutti i muscoli
indolenziti
dolere da impazzire e le ossa scricchiolare sinistramente, tentando al
tempo stesso di riscaldarmi come potevo e mettere a fuoco il luogo in
cui mi ero ritrovato.”;
-“ regalandomi un sorriso raggiante prima di dirigersi verso
una porta che sulle prime non avevo visto, sparendo oltre la
soglia”.
Stile fluido, scorrevole ma ricercato allo stesso tempo,
unito ad un lessico eterogeneo e particolareggiato rappresentano una
delle carte vincenti di questa storia. Una menzione speciale alla tua
capacità descrittiva per quanto concerne gli ambienti e le
sensazioni
dei protagonisti, nonché alla cura che hai dimostrato nel
destreggiarti
tra varie epoche e nazioni: tra le tue righe, infatti, ho ritrovato
molti elementi della cultura americana, nonché di quella
inglese.
Evocativo anche il riferimento al quadro di Van Gogh.
Trama/
Originalità: 20/20
Onestamente, non so da dove cominciare ad elencarti ciò che
mi è
piaciuto di più di questa storia. Tutto può
bastare? Ho amato ogni
singola parola, ogni singola frase, introduzione compresa ed
è proprio
su di essa che si è calamitata la mia attenzione.
Ho deciso di premiarti assegnandoti il massimo punteggio
perché hai saputo metterti in gioco, sperimentando qualcosa
di
innovativo e originale, ed era proprio
l’originalità che mi aspettavo
emergesse dai vostri racconti.
A mio parere, il punto di forza di questa storia, oltre
l’ottima padronanza lessicale, è proprio il velo
di mistero che la
permea, lasciando libera interpretazione al lettore, che da semplice
spettatore si trasforma in un vero e proprio
“critico” che avanza le
sue ipotesi riguardo l’evolversi della vicenda. Inoltre, non
manca quel
sottile velo di ironia che vivacizza il tutto, mantenendo vivo
l’interesse. In alcuni passaggi, ho avuto quasi
l’impressione che i
personaggi fossero delle marionette, vittime ignare di un gioco crudele
e guidate da una mano invisibile; non so spiegartelo, ma mi sembrano
parte di un progetto più grande di loro. Da amante dei
dettagli quale
sono, mi è piaciuta anche l’impostazione grafica e
la tua spiegazione
riguardo al simbolo usato che si ricollega alla storia.
Tuttavia, devo farti i complimenti anche per il modo in cui
hai trattato la neve, richiamandola spesso nella storia, persino nel
“presente”. La malinconia è provata sia
da Steve nel momento in cui
racconta del fratello deceduto, sia da Johnny quando ripensa alla sua
carriera ormai finita. Effettivamente, per la questione dei mondi
paralleli ho pensato ad un probabile collegamento con Final Fantasy, ma
tu hai saputo rendere tuo questo concetto, personalizzandolo.
E’ buffo,
inoltre, notare che le parti si siano invertite: nel
“presente” è Steve
ad essere protettivo nei confronti dell’amico, mentre nel
“passato” è
esattamente il contrario. Il sosia di Steve (oddio, che casino XD) hai
i modi di fare di un orso: è burbero, scostante e, non
essendo bravo a
parole, preferisce agire coi fatti. Johnny, invece, è
inizialmente
intimorito da ciò che gli accade intorno, e ne acquista la
consapevolezza col progredire della vicenda, così come
capisce che i
suoi sentimenti nei confronti dell’amico sono mutati.
Passiamo
brevemente a parlare di Margaret: intrigante la tua scelta di far
pronunciare a lei, un personaggio secondario, la frase
“Scacco matto!”,
anche se in quel frangente è proprio lei ad avere il
coltello (o
meglio, la pistola) dalla parte del manico. Con pochi ma essenziali
passaggi sei riuscita a rappresentarla sapientemente, mostrando la sua
sagace crudeltà.
Giudizio Personale:
5/5
Come
si evince dalla valutazione, ho amato la tua storia, tanto che non sono
riuscita a staccare gli occhi dallo schermo durante la lettura, curiosa
di scoprire il modo in cui si dipanasse la trama e la conclusione.
Ciò
che è successo a Johnny è stato un sogno?
E’ la realtà? Chi può dirlo…
La confusione che tanto disorienta il lettore è
ciò che ti
spinge a proseguire nella lettura e ad affezionarti ai tuoi personaggi,
a parteggiare per loro. Nulla è scontato, nulla è
banale, questa storia
sprizza originalità da tutte le righe.
Punteggio: 44/45
Alla prossima ♥
_My Pride_
Messaggio
No
Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
|
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