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di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orbite vuote - Remus/Severus ***
Capitolo 2: *** Cappuccetto Rosso - Remus/Tonks ***
Capitolo 3: *** Rimani la mia fame - Bellatrix/Tonks ***
Capitolo 4: *** Era la mia migliore amica - George/Katie ***
Capitolo 5: *** Quelle troppo belle - Severus/Tonks ***
Capitolo 6: *** Come si ama una farfalla - Moody/Tonks ***
Capitolo 7: *** Quello che voglio dire - James/Sirius ***
Capitolo 8: *** La nave è salpata - Sirius/Mary MacDonald ***
Capitolo 9: *** Sapore sulle labbra - Regulus/Remus ***
Capitolo 10: *** La prima ad impazzire - Sirius/Bellatrix ***
Capitolo 11: *** Remus/Tonks, Ron/Bellatrix, James/Dorcas, Luna/Lucius ***
Capitolo 12: *** Severus, Fleur, Tonks e Malocchio ***
Capitolo 13: *** Filius/Pomona, Remus/Tonks, Arthur/Molly ***
Capitolo 14: *** Molly, Scrimgeour/Tonks, Augusta e due crossover folli ***
Capitolo 15: *** Ted Tonks, Alastor, Tonks, Percy/Fleur, Alice/Rodolphus, Remus ***
Capitolo 16: *** Frank, Bill/Fleur, Percy, Tonks, Scrimgeour ***
Capitolo 17: *** Remus/Lily, MacNair, Oliver, Madama Bumb, Neville, James, Remus ***
Capitolo 18: *** Luna, Lucius, Remus/Sirius ***
Capitolo 19: *** Apri gli occhi - Percy ***
Capitolo 20: *** Arthur/Molly, Hannah, Percy, Lucius/Narcissa ***
Capitolo 21: *** Me lo devi - Remus Lupin, John Dawlish ***
Capitolo 22: *** Piove sempre sull'estate - Albus/Gellert ***
Capitolo 23: *** I want much more - Tonks ***
Capitolo 24: *** Remus, Andromeda, Hagrid, Neville, Remus/Tonks ***
Capitolo 25: *** Remus, Sirius, Hagrid, Andromeda, Remus/Tonks ***
Capitolo 26: *** Minerva, Ernie MacMillan, Kingsley ***
Capitolo 27: *** Tonks, Alastor, Regulus, Frank/Alice, Remus/Tonks, AU ***
Capitolo 28: *** Arthur, Fred, Alastor, Remus, Sirius, Remus/Tonks ***
Capitolo 29: *** Regulus, Tonks, Minerva, Amos Diggory ***
Capitolo 30: *** Qualche splendida speranza - Remus/Tonks ***
Capitolo 31: *** L'inverno del '76 - Remus, Sirius ***
Capitolo 32: *** La verità - Remus/Sirius ***



Capitolo 1
*** Orbite vuote - Remus/Severus ***


Partecipo all'iniziativa Woodstock: maratona dell'amore libero di Collection of Starlight. Drabble random, niente di più.

*

Orbite vuote
RemusxSeverus
114 parole


Remus ha l'impressione che le orbite vuote di quel teschio lo fissino in continuazione. Sa perfettamente che è una sciocchezza, la sua, e Severus non lo riterrebbe nient'altro che uno sciocco se sapesse l'effetto che il Marchio Nero ha su di lui.

Ma il serpente continua a guardarlo, a studiarlo, a sibilare avvertimenti che nessun altro può sentire – nemmeno il padrone dell'avambraccio che sta divorando da una vita, in effetti.
Morirete.
«Credi che qualcuno lo sappia?».
Severus si volta con immane lentezza sul cuscino, mentre una smorfia irrisoria gli storce le labbra.
«Se così fosse, dovremmo essere già morti».
Remus abbassa inavvertitamente lo sguardo sull'avambraccio di Severus: il sorriso scarnato del teschio pare ridere di lui.
Morirete entrambi.





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Capitolo 2
*** Cappuccetto Rosso - Remus/Tonks ***


Partecipo all'iniziativa Woodstock: maratona dell'amore libero di Collection of Starlight. Drabble random, niente di più.

*

Cappuccetto Rosso
RemusxTonks
105 parole



«Stai diventando come lui».
Remus alza gli occhi e a Tonks non sfugge l'ombra feroce che li attraversa. Ne ha timore, ma lui rappresenta un'attrazione troppo inebriante – più inebriante della paura.
«Tu non sei Cappuccetto Rosso, Ninfadora: non scamperesti mai alle mie zanne».
Lei si muove con passo lento e si accosta al suo volto con un impudente sorriso divertito.
«Chi ti dice che io sia proprio Cappuccetto Rosso?».
Remus si avvicina alle sue labbra – è più forte di lui, non può resisterle.
Il cacciatore aprì il petto del lupo e gli strappò il cuore.
«Chi ti dice che non sia io, il cacciatore?».






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Capitolo 3
*** Rimani la mia fame - Bellatrix/Tonks ***


Partecipo all'iniziativa Femslash Day di Collection of Starlight. Drabble random, niente di più.

*

Rimani la mia fame
TonksxBellatrix
104 parole



Ucciderla significava tanto: lei rappresentava quanto di più indecente avesse mai compromesso il suo nome. Era la dimostrazione che anche i Black, i nobili Black, potevano sbagliare, e questo Bellatrix non poteva sopportarlo.
Al solo pensiero di poter serrare le dita attorno alla sua gola delicata – vedere il terrore in quei suoi dannati occhi neri – una forte ondata di piacere le ribolliva nelle vene.
Aspettava di straziarla e la spiava baciare quell'animale immondo, con i sensi irretiti dal desiderio e le unghie conficcate nei palmi.

Quando fissò finalmente il suo cadavere, ebbe l'impressione di avere ancora fin troppa fame.  






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Capitolo 4
*** Era la mia migliore amica - George/Katie ***


In risposta alla sfida di _Aras_ che aveva richiesto una GeorgexKatie in cui prompt doveva essere: «Un semplice grazie sarebbe bastato». Non credo di aver assolutamente centrato quello _Aras_ voleva, ma spero che l'apprezzerà lo stesso. (:
Il pairing GeorgexKatie è one-sided.

*

Era la mia migliore amica
GeorgexKatie
926 parole


Katie scrutò nuovamente l'amica: quei dieci anni non parevano essere trascorsi per Angelina con la stessa ferocia con cui erano trascorsi per lei. La pelle scura era ancora liscia e lucente, il collo lungo e affusolato, gli occhi vivi e spigliati senza nemmeno l'ombra di una piccola ruga. Nonostante indossasse un comunissimo cardigan azzurro piuttosto largo, Katie aveva notato immediatamente l'insolito gonfiore del suo ventre.
«Vai ancora a caccia di rovine magiche in Irlanda?» domandò d'un tratto Angelina, giocherellando pigramente con l'ombrellino infilato nel suo Idromele.  
«È il mio lavoro» rispose brevemente.
«Te la passi bene?».
«Direi di sì».
«Bene».
«Sì».
Rimasero in silenzio diversi minuti. Angelina continuò a sorseggiare dal proprio bicchiere, guardandosi attorno come se non avesse molta importanza che lei fosse lì, seduta ad un tavolo del Paiolo Magico con quella che era stata probabilmente una delle sue più care amiche. Nemmeno Katie era certa che quello fosse il posto doveva voleva essere, né che fosse proprio Angelina, in effetti, la persona con cui desiderasse parlare.
«Il servizio è parecchio migliorato negli ultimi anni» disse Katie con tono leggero. «E anche il Paiolo Magico sembra più allegro».
«Merito di Hannah» spiegò Angelina, indicando con un breve cenno del capo la giovane strega dai ricciolini biondi che si stava affaccendando dietro al bancone. «Ha rimodernato tutto, qui dentro».
«Hannah Abbott?» domandò, sporgendosi oltre la spalla di Angelina per poter osservare maglio la nuova titolare del Paiolo Magico. «Accidenti. Se non me lo avessi detto, non l'avrei mai riconosciuta».
«È Hannah Paciock, in realtà».
Katie dischiuse le labbra in un'espressione di muto stupore.
«Davvero Neville è--?».
«Quasi da quattro anni, ormai».
«E quella bambina seduta vicino alle cucine è--».
«Sì. L'hanno chiamata Alice».
Angelina sollevò gli occhi scuri dal legno del tavolo e la fissò con espressione imperscrutabile. Katie cercò di restituire un immagine di sé che fosse altrettanto decisa, ma sapeva che ogni suo tentativo si sarebbe rivelato vano. Il ruolo da eroina imbattibile era sempre toccato ad Angelina – la migliore sul campo di Quidditch, la più bella al Ballo del Ceppo, la più coraggiosa alla Battaglia di Hogwarts. Ed ora, quasi dieci anni dopo, signora Weasley.
«Lo sapresti, se solo avessi avuto la creanza di tornare a Londra, ogni tanto».
«Sai perché non sono tornata».
«No, Katie, non lo so» negò con durezza Angelina, scuotendo il capo. «Non so perché non sei più tornata. Sinceramente, non so nemmeno perché tu sia tornata adesso. Che cosa vuoi?».
«Non lo so. Secondo te, io come dovrei comportarmi, ora? Nei miei panni, Angelina, che avresti fatto?».
Angelina assottigliò gli occhi come un felino.
«Di cosa stai parlando?».
«Di te che te ne fotti completamente di me e sposi George».
Angelina si ritrasse come se Katie avesse appena tentato di scagliarle contro una maledizione. I suoi occhi neri dardeggiavano verso di lei carichi di furia e le mani che stringevano il bicchiere tremavano. Katie assottigliò le labbra, cercando di mantenersi quanto più controllata e rigida possibile.
«Tu che avresti fatto, Angelina?» ripeté.
«È per questo che accettasti quella proposta di lavoro in Irlanda?».
Katie tentò di accusare il colpo al meglio delle sue possibilità.
«No. Era indiscutibilmente un'offerta vantaggiosa».
Angelina annuì appena.
«Io amo George, Katie».
«No» sibilò fra i denti. «Tu amavi Fred».
L'effetto delle sue parole fu micidiale: Angelina si alzò di scatto e sbatté entrambe le mani sul tavolo. Il bicchiere di Idromele si infranse a terra con uno schianto e parecchi clienti si voltarono preoccupati verso di loro.
«Non osare...» la interruppe con voce glaciale. «Tu eri la mia migliore amica, ma io avevo bisogno di qualcuno che mi capisse. C'era solo George. C'eravamo solo noi. Solo noi, capisci? È successo e basta, poi tu sei sparita completamente senza darci una sola spiegazione».
«Sapevi che ero innamorata di George. Che diavolo volevi che facessi? La tua damigella d'onore, forse?».
Angelina rimase a fissarla senza muovere un muscolo, con le labbra strette fra loro e gli occhi socchiusi.
«Credevo che fosse soltanto una cotta adolescenziale».
«Hai creduto male» disse Katie, alzandosi a sua volta in piedi. «E ora, se non ti dispiace, non credo ci sia più niente da dire. Non so nemmeno per quale motivo io ti abbia chiamato, oggi. È evidente che non c'è più niente che io e te possiamo dire o non dire».
Afferrò il mantello e aprì di scatto la borsetta alla ricerca del portamonete: aveva una voglia matta di lasciarsi Angelina alle spalle quanto più in fretta possibile.
«Lascia stare, Katie» le disse. «Pago io».
«No» ribatté duramente, lasciando cadere un paio di monete sul tavolo. «Sono io ad averti invitato».
Si avviò di gran lena verso la porta senza aggiungere nient'altro. Non c'era niente da aggiungere.
«Un semplice grazie sarebbe bastato!» le urlò sprezzante Angelina.
Katie si bloccò e le rivolse uno sguardo carico di accusa.
«No. Non sarebbe bastato proprio niente».




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Capitolo 5
*** Quelle troppo belle - Severus/Tonks ***


In risposta alla sfida di Lily_Snape che aveva richiesto una SeverusxTonks ambientata nel quinto o nel sesto libro. Il prompt era: «Sei troppo bella per morire» e so, chiedo venia, di averlo raggirato come una narcotrafficante, ma tant'è. Lily, so che mi avevi chiesto che perlomeno ci scappasse un bacio o qualcosa di simili, ma Severus è Severus, e per quanto Severus/Tonks sia uno dei miei pairing preferiti, se non sono in modalità OOC proprio non ce la faccio a non shipparlo con Lily Evans. Che dramma è la vita, eh?
Spero ti possa ugualmente piacere.

*

Quelle troppo belle
SeverusxTonks



Luglio 1996

«La professoressa McGranitt mi ha detto che Remus sarà di ritorno a Londra, questa notte».
Severus tenne il capo chino sulle pergamene che stava correggendo; pareva non essersi nemmeno accorto della rumorosa giovane che aveva fatto irruzione nei propri sotterranei. Segnò con una grossa cancellatura di inchiostro nero un altro clamoroso errore di Terry Steeval sulle proprietà dell'aconito e fece una smorfia scocciata al pensiero di quanto fossero incompetenti gli studenti del sesto anno.
«Lei lo ha saputo da te» riprese con veemenza Tonks, avvicinandosi a grandi falcate verso la sua scrivania e poggiando entrambe le mani sul legno di ebano. «Perché diavolo non me l'hai detto?».
Le labbra di Severus si storsero in un sogghigno perfido.
«Non ho tempo da dedicare alle tue sciocche infatuazioni da adolescente».
«Stronzo» soffiò lei, mentre si avvicinava ad una poltrona lì accanto. Si lasciò cadere malamente sui cuscini e incrociò fra loro le gambe come un ragazzina.
Lui sollevò gli occhi: sebbene indossasse l'abito di foggia maschile del Quartier Generale degli Auror, era impossibile non scorgere l'orlo della sgargiante T-shirt spuntarle dal bavero o non notare il paio di sneakers verdi al posto degli stivali d'ordinanza. Sforare dagli schemi era così tipico di lei, d'altronde, che Severus si era quasi abituato alla sua mancanza di disciplina. Era una caratteristica che le calzava a pennello ben più di quella divisa da giovane soldato di cui tanto era orgogliosa; non sembrava pronta a quella guerra più di quanto non lo potesse essere una tredicenne.
«Avevo il diritto di saperlo, professore» incalzò nuovamente Tonks.
«A quanto mi è stato riferito, la tua attuale occupazione dovrebbe essere preoccuparti per la sicurezza di Hogsmeade e della scuola. Lupin se ne tiene ben alla larga ed è qui, Ninfadora, che finiscono i tuoi diritti».
Gli occhi scuri di Tonks si assottigliarono minacciosi, ma Severus aveva già riabbassato il capo sulle proprie pergamene.
«Sei un bastardo» lo insultò con voce alterata. «E sicuramente morirai bastardo. Sei uno di quei bastardi talmente bastardi che rimangono bastardi perfino da morti. Un bastardo in qualunque cosa, che sia da vivo, da morto o da redivivo».
«È appagante scoprire che dopo sette anni di istruzione hai imparato la distinzioni fra un morto e un redivivo; peccato tu non sia riuscita a cogliere la sottile sfumatura che separa un umano da un Vampiro» si fermò per rivolgerle un'occhiata disgustata. «Ah... dimenticavo: tu non cogli le sfumature che separano gli umani da... beh, tutto il resto».
Tonks si levò di scatto, lo fulminò con un'occhiata furente e si lanciò a grandi passi verso la porta, assicurandosi che lui potesse vedere con chiarezza il dito medio che aveva alzato. Prima che la sua voce svanisse del tutto, Severus la sentì imprecare lungo le scale per almeno una decina di secondi.
La fragranza fruttata del suo profumo aleggiò nei suoi sotterranei fin quando Severus non si decise a mettere le mani fra i propri alambicchi.

Dicembre 1996

Remus Lupin era una di quelle tante persone che Severus sperava sempre di incontrare il meno possibile. Era stato scioccante imbattersi in lui, quando invece cercava Albus Silente – e la poltrona del Preside, purtroppo, era vuota.
A differenza di tutta quella gente che continuava a farsi irretire da quel maledetto licantropo come un cucciolo di Kneazle, Severus era allergico a quella sua studiata affabilità; era falsa, calcolata, nauseante. Remus Lupin era fra quegli adulatori d'alta classe che dicono esattamente quello che ci si aspetta di sentirsi dire. Fin dai tempi della scuola si era rivelato un incorreggibile debole, sempre pronto a difendere Black e Potter per paura di inimicarseli, a qualunque costo. Severus non poteva dimenticare le centinaia di umiliazioni che aveva dovuto pagare, né di quella notte di luna piena in cui lo scherzo di quegli idioti gli costò quasi la vita.
Non poteva dimenticare troppe cose – l'immagine di Lupin che studiava per i M.A.G.O. con Lily, Lily che si confida con Lupin di ciò che un tempo avrebbe preferito raccontare a lui, Lily che sfiora il braccio di Lupin nel cortile di Hogwarts, Lily che accetta Lupin, un dannato lupo mannaro, quando non era stata capace di perdonare lui.
Escono di nascosto, di notte. Ha qualcosa di strano, quel Lupin. Dov'è che va sempre?.
Mentre fissava il volto magro e segnato di Lupin, sentì il mostro dell'acredine agitarsi ancora una volta dentro di lui. Sebbene sembrasse essersi fatto più pallido e lacero dall'ultima volta in cui era stato costretto ad incontrarlo, i suoi occhi erano brillanti e attenti.
«Buonasera, Severus» lo salutò con voce roca, chinando appena il capo. «Cercavo il professor Silente. Sai dove posso trovarlo?».
«Se lo avessi saputo, non sarei venuto fin qui» lo liquidò brevemente lui, voltandosi per tornare ai propri passi.
«Severus».
Severus si fermò di colpo e chiuse gli occhi in un moto di stizza. Sentiva il disgusto e il desiderio di far sparire quel lupo mannaro accentuarsi rapidamente dentro di sé. Girò il collo quel tanto che bastava a rivolgere a Lupin un'occhiataccia particolarmente sdegnosa.
«So quello che hai fatto».
Le sopracciglia di Severus schizzarono in alto; le sue labbra sottili si storsero in un mezzo sogghigno.
«Temo di non capirti».
Lo sguardo di Lupin fu attraversato d'un tratto da una luce minacciosa – quasi ferina. Si umettò con lentezza le labbra, come se stesse valutando con attenzione le parole da usare.
«Hai detto a Fenrir Greyback che nel suo gruppo c'è un infiltrato».
«Davvero l'ho fatto?» chiese con innocente stupore.
Lupin si mosse con una velocità tale che Severus ebbe a malapena il tempo di accorgersene; un istante dopo, aveva già le spalle schiacciate contro la parete dell'ufficio e il braccio sinistro di Lupin premuto con barbara forza contro la sua gola. Invano Severus tentò di liberarsene: il tempo trascorso insieme a quelli come lui sembravano aver avuto su Lupin un'influenza bestiale. I suoi occhi sembravano ardere di violenza e fu solo in quel momento che Severus si accorse che erano gialli.
Buon Dio” si ritrovò a pensare.
«Come hai potuto?» riprese Lupin, serrando rudemente la propria stretta. «Come cazzo hai potuto farlo?».
«Ho mentito, forse?» sputò Severus fra i denti, cercando di ritrovare il fiato e piantando le unghie nell'avambraccio dell'altro. «Non mi sembri meno animale di quanto possa esserlo Greyback. Guardati».
A quelle parole, la ferocia di Lupin parve scemare con la stessa inaspettata rapidità con la quale era esplosa. Sbatté un paio di volte le palpebre e si allontanò da lui come se ne fosse appena stato scottato. Severus lo fissò con circospezione mentre si massaggiava con cura la gola: quella missione lo avrebbe fatto sicuramente impazzire.
«Sei un maledetto stronzo» ringhiò Lupin, mentre stringeva fra loro i pugni con movimenti nervoso. «Un fottuto, maledettissimo stronzo che morirà stronzo».
Severus si lasciò sfuggire uno sbuffo sarcastico.
«Me l'hanno detto, sì. Me l'ha detto anche Ninfadora».
Lupin ruotò la testa con uno scatto e quell'irruenza svanita poco prima sembrò riaffiorare nei suoi occhi.
«Cosa le hai fatto?».
«Decisamente meno di quanto tu non abbia fatto a lei, credo».
Il colore rimasto sul viso di Lupin parve svanire in un secondo. Distolse in fretta lo sguardo dall'altro mago e si diresse verso la grande finestra che si affacciava sui cortili interni. Si appoggiò al vetro con il braccio e rimase immobile e silenzioso. Severus ebbe l'impressione che Lupin stesse cercando di soffocare un altro scoppio di nervi.
«Sai, Lupin, in una circostanza diversa saresti l'ultimo a cui offrirei spontaneamente un consiglio, ma... ti suggerisco di stare alla larga da Ninfadora Tonks. La distruggeresti».
Fra tutte le reazioni che Severus avrebbe potuto ipotizzare, di certo che Lupin scoppiasse a ridere non sarebbe stata fra quelle. Invece, eccolo lì, ancora appoggiato alla finestra e scosso da una bassa e roca risata priva di allegria.
«Sai, Severus... saresti l'ultimo a cui rivolgerei un complimento, se solo tu non fossi anche l'unico abbastanza bastardo da dirmi la verità. Perché è la verità, per Godric...» aggiunse in un flebile sussurro, appoggiando la fronte al vetro. «Non le causerei che dolore».
Tu non vedi l'ora di unirti a Tu-Sai-Chi, vero?.
Severus fece una smorfia sprezzante.
«È troppo giovane» riprese a parlare Lupin, sebbene Severus avesse la sensazione che si stesse rivolgendo a se stesso. «Troppo innocente. Non posso trascinarla insieme a me».
«No» rispose Severus con voce bassa. «Non puoi».

Giugno 1997

«Va' avanti, Draco» ordinò repentinamente al ragazzo che lo seguiva. «Raggiungi i cancelli passando per le serre. La strada sarà libera».
Draco Malfoy aveva il volto pallido e sudato in una maschera di puro terrore. A Severus non era mai sembrato tanto vulnerabile come in quel momento: non era che un ragazzino, dopotutto, e non poté evitare di pensare a lui con un'ondata di indicibile pena.
«Vai» gli ripeté seccato.
Con le labbra tremanti e gli occhi che si guardavano febbrilmente a destra e a sinistra, Draco annuì con un gesto meccanico della testa e iniziò a correre come un forsennato in direzione dei cortili. Severus sapeva che avrebbe dovuto seguirlo per accertarsi che non gli accadesse nulla di male – sapeva cosa rischiava – ma aveva intravisto un Auror duellare con Rowle dall'altro capo del lungo corridoio e in tutta la Gran Bretagna c'era solo un Auror che quella notte avrebbe potuto essere a Hogwarts.
Tonks era una duellante ben più micidiale di quanto non si potesse immaginare. Sebbene fosse nota per la propria goffaggine, sferrava ogni colpo con una precisione e una grinta tali da far pensare che non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita. Era evidente che Rowle si trovava in posizione di netto svantaggio, ma Severus sollevò comunque la bacchetta e gli scagliò contro un potente Schiantesimo.
Vide Tonks trasalire mentre la scia rossa le sfrecciava accanto e voltarsi con uno scatto. Quando ebbe riconosciuto la figura alta e scura di Severus, le sue spalle parvero rilassarsi.
S'affrettò a correre verso di lui. Aveva il viso sporco di polvere e un grosso taglio che le correva lungo la tempia sinistra, ma il suo sguardo brillava di feroce determinazione.
«È proprio tipico di voi bastardi Serpeverde attaccare a tradimento» gli disse lei con voce dura, sebbene gli angoli della sua bocca fossero lievemente piegati verso l'alto.
Severus la guardò per un lungo istante e alzò cautamente la mano per sfiorarle la sanguinante ferita che le stava rigando il viso. Tonks sobbalzò e rimase impietrita, con gli occhi sgranati dallo stupore.
«P-professor Piton?».
Lui fece una smorfia infastidita, come se avesse appena ascoltato qualcosa di particolarmente offensivo.
«Se solo tu fossi un poco più elegante e un poco meno scurrile, assomiglieresti a Lily Evans in una maniera nauseante».
Tonks si allontanò di un passo da lui e rimase a fissarlo con la fronte aggrottata, scuotendo appena il capo.
«E Lupin non ti merita» riprese sprezzante lui, facendo un movimento seccato con la mano con cui l'aveva accarezzata pochi secondi prima. «Non ti meriterà mai. Quelli come noi non meritano mai quelle come voi».
«Professore, non--».
«E dovresti prestare attenzione, Ninfadora, perché sembra che anche la morte abbia un debole per quelle come te».
Quelle troppo belle anche per lei.








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Capitolo 6
*** Come si ama una farfalla - Moody/Tonks ***


In risposta alla sfida di e m m e che aveva richiesto una AlastorxTonks, rating arancione o rosso. Il prompt era Pozione Ringiovanente e non è stato rispettato per un cavolo ed è stato magistralmente incastrato nella fan fiction. Non sono granché per quanto riguarda i rating alti, lo ammetto, quindi direi che facciamo finta che questa sia tipo rating amaranto e non se ne parli più. Oh, sì, sono schifosamente in ritardo, ma tanto lo sei pure tu, quindi se il mal è comune, il cracker si spezza a metà.


*

Come si ama una farfalla
AlastorxTonks




Diversi anni più tardi, fronteggiando per l'ultima volta il volto serpentino di Lord Voldemort, Alastor Moody avrebbe maledetto ogni singola ora del giorno in cui aveva incontrato la giovane signorina Tonks.
All'epoca lei non aveva che diciotto anni ed era una studentessa troppo fresca di scuola, con la pelle che ancora odorava di ciliegia e le labbra rosa e lucenti come quelle di una tredicenne sulla soglia dell'adolescenza.
Mentre la fissava con entrambi gli occhi (quello magico, santo cielo, aveva già notato che la giovane indossava una paio di mutandine con decine di coniglietti stampati sopra), si chiedeva come diavolo avessero potuto gli standard del Quartier Generale degli Auror abbassarsi fino a quel ridicolo livello e come diavolo avesse potuto lui, il più vigile fra tutti, non rendersi conto di quel vergognoso declino.
Si consolò nella certezza che quella sciocca ragazzina non avrebbe mai superato l'addestramento e non sarebbe mai diventata un'Auror. E quello, a conti fatti, fu il suo primo errore.

*

Moody non le aveva insegnato tutto quello che sapeva. Aveva fatto in modo che apprendesse tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno, quello sì, ma non tutto quello che lui sapeva.
Quello che lui sapeva, in effetti, era una matassa di sapere troppo ingarbugliata e malsana per una mente ancora tanto giovane e frizzante come lo era quella di Tonks. Moody aveva conosciuto il sapore ferroso della guerra e il rombo primitivo di ogni sua battaglia; conosceva il significato dell'orologio, delle monotonia con qui scorrono le lancette e del lento brusio di una mente che attende qualcuno che, chissà, probabilmente non sarebbe più ritornato.
Di tutte queste cose lei non sapeva proprio nulla.
Tonks stava raccogliendo freneticamente una pila di inutili carte che le erano scivolate a terra e il modo in cui sbuffava sembrava proprio quello di una ragazzina capricciosa costretta a riordinare la propria cameretta.
Moody emise un verso sprezzante e lei alzò di colpo la testa verso di lui. Si scosto un ciuffo di capelli vermigli dalla fronte e inclinò il capo con espressione scocciata.
«Oh, finiscila di brontolare. Adesso metto a posto».
«Fra un secondo sarà tutto di nuovo sul pavimento».
Lei socchiuse gli occhi e rimase immobile qualche istante, fissandolo con aria smarrita. Poi si alzò e tornò a sedere al proprio posto, con tutti i fogli e gli appunti ancora sparsi ai suoi piedi come ragnatele.
«E allora le lascio lì» sentenziò con una linguaccia.
Dovette accorgersi che Moody non aveva la minima intenzione di rispondere alla sua provocazione, perché il suo viso si fece d'un tratto più guardingo.
«Che cavolo hai, Malocchio? L'ultima volta mi hai colpito con il bastone».
Moody annuì, distante.
«Mi è stato chiesto di andare in pensione».
Le sopracciglia di Tonks schizzarono verso l'alto: se c'era qualcosa che non si aspettava – qualcosa per cui non sarebbe mai stata preparata – ecco, era quella. Strabuzzò gli occhi diverse volte, scosse la testa e boccheggiò un poco, ma la notizia era arrivata con un impeto tale da spazzare via qualunque cosa ci fosse nel suo cervello.
«Che... chi... che dici?».
«Pensionamento, Ninfadora».
«Quando?».
«La prossima settimana».
«La prossima...? E quando accidenti avevi intenzione di dirmelo, bastardo!?» urlò d'impeto lei, scattando di colpo e rovesciando la sedia a terra con un rumore secco. «No, fa' tranquillo. A chi importa, no? A me? Dovrebbe? Ah, fottiti, Malocchio, non--».
Il bastone di Moody la colpì prima che lei avesse il tempo di accorgersi del colpo che arrivava.
«Cazzo!» imprecò, portando una mano sulla testa.
Moody la colpì una seconda volta.
«Non essere volgare e chiudi la bocca, Ninfadora».
«Non chiamarmi Ninfadora!».
Rimasero in silenzio per parecchio tempo. Tonks tendeva a prendere ogni cosa di petto fin da quando lui l'aveva conosciuta; iniziava a strepitare e imprecare, senza che si riuscisse bene a intendere cosa volesse dire. Talvolta, dava proprio l'impressione di essere una leonessa inferocita rinchiusa in una gabbia. Con il passare del tempo, Moody aveva imparato a stroncare quelle rabbie frenetiche alla loro nascita e le loro discussioni più feroci, ora, avvenivano con una routine straordinariamente regolare. Prima Tonks strillava, poi Moody la interrompeva bruscamente e se ne restavano chiusi in un orgoglioso silenzio per diversi minuti. Moody riprendeva il discorso, Tonks lo mandava al diavolo, Moody la colpiva con il bastone, Tonks imprecava, Moody grugniva e, alla fine, la questione si sbrogliava da sé.
Erano troppo simili per poter sperare di discutere senza generarne un autentico massacro.
«Sul serio, allora?» riprese Tonks con un voce flebile, evitando stoicamente di incrociare gli occhi dell'altro Auror. «Hai davvero intenzione di andare in pensione?».
«Non mi pare di aver detto di voler andar in pensione» ribatté con franchezza lui. «Ho detto che mi ci mandano. Amen».
«È stata la Umbridge, vero?».
Moody fece un gesto eloquente con l'unico sopracciglio rimastogli. Il suo sorriso sghembo parve storcersi in una maschera beffarda.
«Quella puttana» sputò con rabbia Tonks.
«Sei un'Auror, ragazza, non uno strillone della Gazzetta del Profeta».
«Non possono mandarti via. Sei il più grande Auror del Ministero e non--».
«Ho già firmato, Tonks» la interruppe con estrema serietà lui.
Per un attimo, sembrò che Tonks non avesse altro da aggiungere, ma Moody aveva imparato fin troppo bene che il giorno in cui quella ragazza sarebbe stata zitta era ancora lontano. Quando lei parlò di nuovo, c'era un tono di mitigato dolore nella sua voce che gli arrivò del tutto sconosciuto.
«Perché? Avresti potuto rifiutarti».
Moody zoppicò attraverso il proprio ufficio fino alla finestra incantata: quella sera gli addetti della Manutenzione Magica dovevano essere di cattivo umore, perché oltre il vetro non si intraveda oltre una spessa coltre di nebbia bluastra. Si appoggiò con entrambe le mani all'impugnatura del proprio bastone e fece un respiro profondo.
Avrebbe davvero potuto rifiutare? Oh, sì. Sì, avrebbe potuto eccome, ma non lo aveva fatto. E sapeva – e questa sarebbe stata probabilmente la parte più difficile – che Tonks non avrebbe capito. Anche lui era stato un giovane Auror nel pieno delle forze, un tempo; se avesse avuto in quel momento l'età che aveva lei, difficilmente avrebbe capito il perché di quella scelta così umiliante.
«Albus Silente mi ha chiesto di prendere il posto come insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure a Hogwarts».
Tonks fece una smorfia sconcertata.
«Tu che insegni a qualche centinaio di ragazzini? Per le verruche di Tosca Tassorosso, è la cosa più ridicola che abbia mai sentito. Tu detesti i bambini, Malocchio!».
«Ma non vado mica per insegnare, Ninfadora!» latrò di rimando lui. «Albus ha un brutto presentimento. E con il Torneo Tremaghi alle porte, la delegazione di quel Mangiamorte figlio di una cagna di Karkaroff e quel Piton che--».
«Piton è a posto».
«Sì, lo era pure la mia gamba, un tempo» continuò imperterrito Moody. «Sta di fatto, ragazza, che Harry Potter sarà a Hogwarts, e puoi scommetterci le chiappe che qualcuno cercherà di fargli la festa».
Completamente rovesciato all'interno della sua stessa scatola cranica, l'occhio magico di Moody la scorse sorridere con quell'espressione un po' dolce e un po' arrendevole che si concede ai bambini. Non disse nulla, ma si allontanò dalla scrivania e appoggiò i gomiti al davanzale della finestra e il volto ai palmi della mani.
«Stronzate» disse con un sorriso storto. «So benissimo che non vai in pensione per quello. E so pure che ci volevi andare, in un modo o nell'altro, sennò col cavolo di Merlino che ti mandavano a casa, quegli idioti. Non fare il vecchio bastardo con me, Malocchio. So che non sono coincidenze. Harry Potter, il Torneo Tremaghi, Silente che ti vuole come insegnante... e Sirius Black è evaso da Azkaban solo l'anno scorso» si interruppe un secondo e scosse la testa come se volesse scacciare una mosca fastidiosa, ma a Moody non era sfuggito il tono rabbioso con il quale aveva pronunciato il nome del cugino. «Non sono una cretina. So cosa sta succedendo...».
Moody la invitò a continuare con uno sguardo e lei, mordicchiandosi appena il labbro inferiore, annuì con folle risolutezza un paio di volte.
«Lui sta tornando».
Negli occhi scuri di Tonks si era accesa una luce pericolosamente decisa. Moody aveva visto decine di sguardi come quello nel corso della sua vita: i Potter, i Paciock, i Prewett... in ognuno di loro sembrava ardere una fiamma di inumana determinazione. E alla fine, uno dopo l'altro, ognuno di loro se ne era andato. La consapevolezza di non poterle evitare qualunque cosa sarebbe accaduta lo rendeva infinitamente triste; lei era giovane, esattamente come lo erano stati i Potter quindici anni prima ed esattamente come lo era stato lui nella guerra contro Grindelwald. Lord Voldemort e i suoi Mangiamorte le avevano già trasformato l'infanzia in un incubo fatto di filastrocche con mantelli neri e lampi verdi ed ora tutto faceva presagire il peggio.
«Combatterò con te, Malocchio».
Moody trattenne a stento una smorfia addolorata: sapeva che lei avrebbe detto qualcosa del genere. Non si aspetta niente meno che una risposta da stupida ed eroica Tassorosso. Niente di meno di una risposta da Auror, a conti fatti, perché era stato lui ad addestrarla e nessuno – nessuno – addestrato da lui aveva mai smesso di parlare da Auror.
Eppure, sentiva qualcosa di stonato in quella sua decisione: Moody temette fosse a causa della sua età, del suo sorriso scanzonato e del suo fare sboccato. Tonks era fuori posto in una guerra, ma quello, col senno di poi, non si rivelò nient'altro che un altro dannato errore.

*

«Sei giovane per entrare nell'Ordine della Fenice, Ninfadora».
«Non chiamarmi Ninfadora!» gridò irritata lei, sbattendo con foga un pugno sul pavimento del salotto di Moody. «E va' al diavolo».
Moody bevve un altro sorso di Whisky Incendiario dalla sua fiaschetta personale. Tonks parve fremere di rabbia qualche istante ancora, prima di decidere di sedere sulla poltrona davanti al lui. Incrociò le braccia al petto con la risolutezza cocciuta di una bambina e lo scrutò duramente.
«Io combatterò, Malocchio. Tu-Sai-Chi è tornato e io combatterò. Non me ne frega un accidenti che a te vada bene o meno. Io combatterò. Amen».
«Hai idea di che diavolo significhi combattere Voldemort?».
«No, non ne ho idea» confessò semplicemente lei e Moody rimase un po' spiazzato dalla sua risposta. Si aspettava qualunque genere di scusa, qualunque tentativo di raggirare la domanda, ma non una risposta così ingenuamente candida. «Ma mi hai addestrato nella possibilità che avrei dovuto combattere, un giorno, no? È per questo che sono qui. Voglio la mia possibilità, Malocchio. L'hai data a tutti».
Moody socchiuse gli occhi, pensieroso, e fu solo dopo diversi minuti di profondo silenzio che alzò una mano in segno di resa. Sembrava proprio che lei fosse destinata a rappresentare ogni suo errore.

*

«Cosa c'è di sbagliato in quello che facciamo?» chiese con innocente casualità Tonks, abbottonandosi frettolosamente la camicia d'ordinanza del Quartier Generale degli Auror. «Non è mica niente di cattivo. O sì?».
Alastor continuava a tenere gli occhi inchiodati alle macchie di umidità del soffitto di Grimmauld Place. Si domandava incessantemente come diavolo avesse potuto farsi scappare la situazione. Come diavolo aveva potuto permetterle di arrivare fin dove lei l'aveva trascinato? E tutte le volte, Tonks gli domandava dove stessero sbagliando, come se l'errore non fosse evidente: si stava innamorando di lei, maledizione, e Moody non avrebbe mai potuto cadere in un errore tanto grande.
«C'è tutto di sbagliato».
«Beh, mica tutto» ribatté lei con un sorriso birichino.
Si stendette di nuovo accanto a lui, con la camicia abbottonata solo a metà che gli scivolava lungo un braccio magro e la spallina verde del reggiseno che le delineava la clavicola. Era bella, non si poteva negare, ed era giovane, e per quello ci si sarebbe dovuti maledire.
Moody non ne era più in grado. Si ritrovò ad accarezzarle il fianco liscio senza nemmeno rendersene conto.
«Non andrà avanti» le disse in tono burbero. «Non crederci troppo. Io non posso cambiare il tempo. Men che meno potrei cambiare questa guerra».
«E chi se ne fotte» lo liquidò lei, sedendosi a cavalcioni sopra di lui e appoggiandosi con espressione irriverente al suo petto segnato. «Se ti avessi voluto giovane, ti avrei intossicato di Pozione Ringiovanente fin quando non ti saresti beccato l'acne. Ma ti voglio così, vecchio e bastardo».
Moody aveva sempre l'impressione che le labbra di Tonks avessero il sapore di ciliegia, di fragola o di qualunque altra diavoleria da ragazzina. Eppure, sapeva perfettamente che tutto ciò che lei aveva conservato di innocente non era ormai che una reminiscenza ormai lontana nel tempo. L'aveva trascinata con sé in ogni battaglia; l'aveva vista abbattere i propri nemici senza che la più delicata luce della pietà le attraversasse gli occhi; l'aveva trasformata da una diciottenne fremente e irrequieta in un soldato dall'aroma di frutta. E per quanto baciarla gli desse lo stesso effetto di un sedativo, per quanto la sua pelle nuda gli ardesse nei polpastrelli, per quanto i suoi seni e i suoi fianchi lo facessero sentire dannatamente vivo, Moody avvertiva la sensazione di stringere fra le mani qualcosa di troppo fuggevole. Era come amare una farfalla – e le farfalle muoiono sempre troppo presto.

*

Fronteggiando per l'ultima volta il volto serpentino di Lord Voldemort, Alastor Moody maledì ogni singola ora del giorno in cui aveva incontrato la giovane signorina Tonks, e di ogni giorno successivo trascorso in sua compagnia. Ne maledì l'irruenza, ne maledì la sfacciataggine, ne maledì ogni momento fra le sue labbra e i suoi lombi. Maledì la stoltezza che lo aveva trascinato in quell'abisso di idee sbagliate, maledettamente sbagliate, costruite su altre idee ancora più sbagliate.
Non maledisse mai lei, poiché sarebbe stato ben peggiore che maledire se stesso, ma maledisse a lungo la sua irraggiungibile giovinezza – o la propria inarrestabile vecchiaia, magari. Se solo lui avesse avuto un mezzo secolo di meno o lei un mezzo secolo di più, ecco, allora forse ad entrambi sarebbe rimasto qualcosa di meno malaugurato di quell'amore in declino.
Maledì il tempo fino a quando ne conservò per maledirlo, e quando alla fine raggiunse terra, non gli rimase altro da pensare se non che non avrebbe mai potuto diventare giovane per lei; sperava soltanto che lei, con più fortuna di quanta lui non avesse dimostrato in vita, potesse diventare anziana per lui.
Ma lei era come una farfalla e fu proprio questo che Moody, per triste ironia, alla fine dimenticò di maledire.








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Capitolo 7
*** Quello che voglio dire - James/Sirius ***


In risposta alla sfida di somochu che aveva richiesto una James/Sirius dal prompt stessa doccia. Non ho mai scritto così tante slash come in questi giorni, ma tanto lo sappiamo tutti che le mie non sono vere slash, ma cosine che ci girano sempre e soltanto attorno.

*

Quello che voglio dire
JamesxSirius
1041 parole


Se mi avessero predetto che questo sarebbe stato il mio volto – il mio presente – non gli avrei mai creduto. Non avrei potuto credere a nulla del genere. Eppure, eccolo qui, il mio riflesso. Ho la faccia pallida e tirata di un idiota dai capelli troppo lunghi e gli occhi stanchi; e queste occhiaie... per Godric, questa guerra mi sta mangiando vivo.
Scuoto la testa con un mezzo sorriso rassegnato. A volte ho la sensazione che ogni giorno trascorso mi abbia strappato un pezzo di ciò che sono stato un tempo. Quando la guerra era ancora uno spettro lontano e indefinito, a miglia e miglia di distanza dalle mura di Hogwarts: ecco, ciò che era stata la mia vita. Le nottate insonni passate a mangiare Cioccorane e Api Frizzole sgraffignate a Mielanda; i pleniluni con il vento sul muso e il selvaggio brivido della libertà nelle vene; la convinzione di poter essere per sempre invincibile.
Per sempre Sirius Black.
Eravamo più giovani, si potrebbe dire, eravamo più coglioni. E invece no, oggi non lo siamo meno di allora – né l'una né l'altra cosa – e c'è questa cosa dannata fuori dalla porta che non aspetta che mangiarci tutti – mangiarci proprio vivi, giuro.
È un casino. È tutto un grande casino più grosso di tutti noi. È più grosso del povero Peter, sempre chiuso in casa, troppo buono per combattere la guerra, troppo intimidito per vincerla, e per vincerla ci dovremmo mettere un po' meno buone intenzioni e un po' più fatti. È più grossa di Remus, che ormai si è dimenticato di essere stato quello calmo, quello paziente, quello gentile: Remus è il più smarrito, fra di noi, è quello che ha iniziato a farsi mangiare per primo e adesso cammina davvero dentro il corpo del suo stesso cadavere. La cazzata da rimpiangere per tutta la vita prima o poi scappa a tutti – solo che lui non era pronto e se l'è beccata in pieno stomaco.
E poi c'è l'altro, c'è James. E lui, davvero, è proprio il più coglione in assoluto.

*

«Ti stavi facendo una doccia?».
«No, mi piace gironzolare per casa nudo e con la testa piena di sapone» ribatto con piglio esasperato. «Idiota di un Potter».
James si raddrizza gli occhiali rotondi con la solita aria beffarda, afferra una sedia della mia cucina, ci si siede al contrario e mi rivolge un sorriso sghembo. C'è qualcosa di sinistro nei suoi occhi nocciola, c'è qualche cazzo di problema, stavolta. Conosco James come conosco la mia pelle, e so quando c'è un problema. Adesso c'è un problema.
«Che succede?».
«Lily aspetta un bambino».
Mi sembra dispiaciuto, ma sono convinto che la mia faccia sia ancora più schifosa della sua. Non credo che i brividi che sto avvertendo lungo la schiena siano dovuti alle gocce d'acqua che scivolano dai miei capelli. James trova il coraggio di alzare gli occhi verso di me e io mi volto in fretta e mi dirigo a lunghe falcate verso il bagno.
Non ho proprio voglia di vederlo. Non mi va che riesca a capire quello che mi passa per la testa – non adesso che sto pensando che è un coglione più di quanto non lo abbia mai pensato in tutta la mia vita.

*

Sento James intrufolarsi nel bagno nonostante lo scrosciare dell'acqua sulla mia testa. Magari me lo sono solo immaginato, magari sapevo semplicemente che sarebbe arrivato. Fingo di non averlo aspettato da quando l'ho piantato da solo in cucina e continuo a sciacquarmi le braccia.
«Senti, Padfoot, io e Lily siamo sposati...».
Se solo la sua voce non fosse tanto addolorata, mi verrebbe da ridere, e pure tanto.
«E qualunque cosa... sai, questo. Ecco, c'è qualcosa che... non...».
Che idiota, adesso mi verrà sul serio da ridere e lui si incazzerà pensando che non lo prendo abbastanza sul serio. Io lo prendo molto sul serio, l'ho sempre preso sul serio, perfino quando non avrei dovuto, ma lui è un tale cretino che non puoi prenderlo sul serio senza ridere. E lo sto prendendo parecchio sul serio, adesso, talmente tanto che vorrei spaccargli la faccia a pugni.
«Padfoot, quello che voglio dire è... ecco...».
Sbotta in un'imprecazione scurrile e lo sento scattare in piedi da qualunque posto si fosse seduto. Per un attimo vengo attraversato dal pensiero che se ne stia andando, e non so se valga davvero la pena esserne soddisfatti, ma poi spalanca di colpo la tenda del mia doccia e mi strappa un mezzo strillo davvero poco virile. Poi caccia un piede dentro la vasca, caccia dentro quell'altro e se ne resta lì, impalato sotto il getto d'acqua tiepida e con gli occhiali storti sul naso. Strabuzzò un po' gli occhi, incredulo.
«Coglione, sei appena entrato nella mia doccia con i vestiti».
Storce le labbra come una ragazzina capricciosa, si raddrizza gli occhiali e poi appoggia la testa ormai fradicia al mio petto nudo. D'un tratto non so più cosa fare – non so mai cosa fare.
«Prongs...».
«Sta' zitto, Padfoot» borbotta scocciato. «Ci ho già provato io, a parlare, e fidati, non ci si riesce».
«Perché sei un idiota. E non me ne frega proprio niente, il che è un cazzo di problema, se ci pensi bene» replicò schietto. Poi mi viene l'impulso di passargli una mano fra i capelli e nel vedere che non si mettono in ordine nemmeno da fradici mi viene fuori un sorriso davvero ebete. «Io resto comunque qui, Prongs» aggiungo in un mormorio basso.
James non dice niente, ma ho come l'impressione che stia pensando a tutt'altro. Sta pensando al contrario, sta pensando che non è giusto, sta pensando che è sbagliato, e sta pensando di non dirmelo perché è un cretino sentimentale e chissà che scenata si immagina io possa fare. Però c'è qualcosa che stride in tutta questa situazione, c'è davvero qualcosa che non è al posto suo. Lily che aspetta un bambino, il bambino di Prongs, lo stesso scemo che si è gettato vestito sotto la doccia insieme a me e adesso non sembra più voler dire nient'altro. C'è qualcosa che non dovrebbe esserci, forse c'è persino qualcosa che non ho capito.
O forse quello che vuole dire l'ho capito e non mi piace per niente.


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Capitolo 8
*** La nave è salpata - Sirius/Mary MacDonald ***


In risposta alla sfida di June che aveva richiesto una Smiling Star, Sirius/Mary MacDonald, con prompt «Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando». «Che sia troppo tardi», (Baricco – Oceano Mare) e come obblighi che fossero coetanei e niente one-sided. Non ho citato alla lettera Baricco, spero faccia lo stesso.

*

La nave è salpata
Sirius BlackxMary MacDonald
2175 parole


Settembre 1970

Era una ragazzina piena di ricciolini chiari, tutti corti e arruffati attorno al viso rotondo, e la Sala Grande le prestò la stessa placida attenzione che avrebbe riservato a qualunque altra nuova studentessa di Hogwarts. Quella sera, poi, durante lo Smistamento, c'era già chi aveva provveduto ad attirare su di sé gli sguardi di tutti: Sirius Black sedeva al tavolo di Grifondoro già da dieci minuti e aveva l'impressione di essere terribilmente annoiato.
Non lo era per niente, in realtà, ma quella era la faccia che gli era stata insegnata a mostrare, e quella avrebbe mostrato. Sotto sotto, se la stava facendo sotto. Aveva scherzato a lungo sul treno con quel ragazzino smilzo e con gli occhiali buffi, quel Potter, sulla possibilità di poter essere il primo a evadere dalla noiosa abitudine dei Black di essere Smistati a Serpeverde, ma non ci aveva creduto nemmeno un pochino. Poi il Cappello aveva iniziato a ciarlargli le cose più assurde nella testa, robe di lealtà, onestà e mancanza di buon senso che in parte lo avevano perfino offeso, e lo aveva fatto, lo aveva fatto davvero.
E adesso era un Grifondoro, il primo Grifondoro che fosse mai appartenuto alla casata dei Black, e francamente Sirius aveva il presentimento che non ne avrebbe fatto parte ancora per molto tempo. I suoi genitori lo avrebbero ammazzato? Non se ne sarebbe affatto stupito.
Mentre Sirius Black continuava a fingere che la situazione non gli apparisse per nulla problematica, la ricciolina Mary MacDonald prendeva posto per la prima volta fra le panche della tavola dei Grifondoro, accompagnata da un effervescente ma ordinario applauso da parte dei nuovi compagni di Casa.

Maggio 1976

L'ossessione che James continuava ad alimentare per il Prefetto Evans iniziava a dare sui nervi tanto a Sirius quanto a Remus e Peter. Il primo, di carattere notoriamente paziente, sopportava di buona lena i continui sproloqui dell'amico con un sorriso rassegnato sulla faccia, mentre il secondo non avrebbe avuto il coraggio di dire a James di darci un taglio nemmeno se ne fosse dipesa la sua lingua.
A Sirius non fregava proprio niente, e gli aveva ripetuto così tante volte quanto Lily Evans fosse un'arrogante pallone gonfiato da averne perso il conto. E per ognuna di quelle occasioni James si era gonfiato come una Manticora e aveva dato di matto, incapace di credere che esistessero esseri umani in grado di scorgere difetti in quell'incredibile e meravigliosa creatura che era Lily Evans.
Poi arrivava quell'altro genio di Remus, quello che spegneva sempre il cervello nei momenti meno opportuni e spezzava cento lance a favore di quella cretina con i capelli rossi.
«È una ragazza in gamba, Padfoot» gli faceva notare con calma snervante. «A volte è un po' prepotente e testarda, ma è in gamba, in fin dei conti». Ed ecco che James, cretino quanto e più di tutti loro, si slanciava ancora in epici elogi al Prefetto Evans, e Sirius era costretto a restarsene zitto e muto in un angolo del dormitorio, fissando con aria truce Remus e addossandogli la colpa di aver risvegliato l'animo da imperituro Romeo di James.
A Sirius le ragazze piacevano, per carità, ma non gliene era mai fregato abbastanza per preferire qualcuna di loro ai suoi amici; Peter sembrava interessarsene meno di lui (probabilmente perché erano proprio loro, le ragazze, le prime a non interessarsi a lui) e poi c'era Remus, tutto timido e impacciato, che di tanto in tanto si arrischiava a invitare qualche ragazza a Hogsmeade e per qualche assurdo motivo ogni gita con quella o quell'altra era sempre tanto la prima quanto l'ultima.
«Non hai motivo di essere geloso di lei, Padfoot» lo ripescò improvvisamente la voce di Remus, mentre si dirigevano tutti e tre verso il villaggio.
«Geloso di chi?».
«Di Lily».
«Io non sono affatto geloso di quella lì!» lo liquidò seccato Sirius, cacciando entrambe le mani nelle tasche e accelerando il passo d'istinto. «Non me ne frega proprio niente, guarda. Può farsi mangiare dalla Piovra Gigante, per quello che me ne frega».
Remus fece un sospiro e scambiò un'occhiata penetrante con Peter, che per tutta risposta sollevò le mani in un cenno che sembrava volersi tirare fuori da qualsiasi questione.
«Fa' come vuoi» concluse con tranquillità Remus. «Ma ti consiglio di accettare il fatto che questa non sarà né la prima né l'ultima gita a Hogsmeade alla quale Prongs non prenderà parte insieme a noi. Ora che Lily ha accettato di uscire con lui, non--».
«Da quando la Evans è diventata Lily?» sibilò arrabbiato Sirius, assottigliando minaccioso i begli occhi grigi. «Che razza di malocchio vi ha lanciato addosso? Lily di qua, Lily di là, guarda com'è bella Lily... no, non lo è, non lo è per niente. Svegliatevi, ragazzi, quella è una palla al piede per tutti noi».
Remus alzò lo sguardo al cielo e fece un sospiro esasperato.
«Naturalmente, Padfoot. E anche questo comparirà nel libro Cento motivi per i quali il mondo ce l'ha con Sirius Black».
Sirius si fermò di colpo per fronteggiare l'amico con l'indice alzato. Remus inarcò un sopracciglio, per nulla intimorito dal suo atteggiamento da prima donna. Alle sue spalle, Peter iniziò a mordicchiarsi nervoso il labbro inferiore.
«Tieni a bada il tuo dannato sarcasmo, Moony, oggi sono particolarmente incazzato».
Voltò a entrambi le spalle e s'affrettò talmente tanto ad allontanarsi da loro che Remus non fece nemmeno il gesto di volerlo seguire. Emise uno sbuffo stizzito e guardò Peter.
«Andiamo, Wormtail. Ho voglia di Api Frizzole».
«Ma... Padfoot?».
«Conoscendo la sua straordinaria sopportazione alla solitudine, credo che rivedremo la sua brutta faccia fra meno di quindici minuti».

*

Sirius non riusciva ancora a capire come diavolo fosse finito sulla staccionata che circondava i Tre Manici di Scopa a bere una Burrobirra insieme a Mary MacDonald. Lei non era particolarmente bella – sarebbe potuta diventare carina, al massimo, se si fosse riuscito a passe oltre l'acne e il colorito pallido – ma non era certo una compagnia paragonabile a quella dei Malandrini. Sapeva solo che mentre attraversata a testa bassa Hogsmeade, ripetendosi quanto cretino fosse Remus e quanto ancora più cretino fosse James, gli era finito addosso e le aveva fatto rovesciare la Burrobirra. A Sirius le ragazze non interessavano davvero per niente, ma era comunque dispiaciuto e si era rapidamente offerto di pagargliene un'altra. Tuttavia, non era in grado di spiegarsi perché ne avesse ordinata una anche per sé, né per quale motivo ora fosse seduto accanto a lei a cianciare di James e quell'altra cretina del Prefetto Evans.
«Sono contenta che tu mi sia finito addosso, Sirius. Ero da sola, oggi, e Hogsmeade è sempre triste quando si è da soli».
«Perché eri da sola?».
Lei fece le spallucce e bevve un altro sorso di Burrobirra.
«Per lo stesso motivo per il quale lo sei tu, credo».
Avevano iniziato a lamentarsi rispettivamente di James e Lily e mano a mano che si sfogavano l'uno con l'altra, le loro risate si facevano più intense e genuine.

*

Febbraio 1979

Non la vedeva dacché avevano preso i M.A.G.O. e se lei non avesse avuto la creanza di avvicinarsi al tavolo del Paiolo Magico al quale stava aspettando Peter da almeno venti minuti non l'avrebbe riconosciuta.
Mary si era fatto sul serio graziosa, alla fine. Aveva trovato il modo di curare l'acne, le sue gote erano più rosee e i movimenti un po' goffi della ragazzina che era stata ora avevano tutta la sicurezza di una giovane donna. Non era ancora bella e probabilmente non lo sarebbe mai diventata, ma i suoi ricciolini corti e i suoi vivaci occhi nocciola avevano qualcosa di sbarazzino che avrebbe rubato un sorriso a qualunque uomo.
«Sai, credo di essere in debito di una Burrobirra» gli aveva detto.
Lui aveva ridacchiato per la prima volta da giorni e l'aveva invitata a sedersi al tavolo.

*


Agosto 1979

«A volte penso che basterebbe scappare via da qua, in qualche posto remoto dove niente potrebbe inseguirci».
Sirius si girò sul fianco, appoggiò la testa al braccio e la scrutò rivestirsi con un sorriso divertito sulle labbra. Era bella, Mary, era bella come non lo era mai stata nessun'altra ragazza che Sirius avesse mai conosciuto. Era bello il suo viso rotondo, il suo naso a punta, gli occhi grandi e sinceri e i ricciolini corti; quando rideva le si formavano due buffe fossette ai lati della bocca e in quel momento Sirius si ritrovava sempre a pensare che non gli sarebbe affatto dispiaciuto poter trascorrere il resto della vita accanto a lei.
«Solo che tu sei troppo Grifondoro per andartene adesso, no?» continuò, allacciando i gancetti del reggiseno bianco. «E io non sono abbastanza convincente per trovare anche un solo motivo per il quale dovresti seguirmi».
«Ti seguirei un po' dappertutto, invece» ribatte d'istinto lui, osservando la linea curva delle sue spalle. «Solo che adesso non è proprio il momento ideale. Lo sai».
Mary si volta per rivolgergli un'occhiata affettuosa, ma a Sirius non sfugge l'ombra angosciata che le oscura lo sguardo.
«Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando».


Novembre 1979

«So che non verrai. Non saresti mai venuto, ma non importa. È stato comunque bello».
Sirius alzò il bavero del mantello per ripararsi dal vento pungente di Portsmouth. L'odore aspro del mare aperto che gli penetrava nelle narici era fastidioso – forse era proprio il mare a dargli fastidio, in quel momento. Mary si rigirò fra le mani la sciarpa rossa che le aveva regalato un paio di settimane prima e si umettò nervosa le labbra.
«Sirius, io devo andarmene. La situazione in Inghilterra ormai è fuori controllo... e io non sono che una Nata Babbana, non posso--».
«Ti proteggerò io».
Mary ebbe come l'impressione che a parlare con tutta quella sincera franchezza fosse stato il ragazzino che un tempo era stato Sirius. Quello spavaldo, quello pieno di parole dure, quello che avrebbe tanto voluto essere ascoltato, essere d'aiuto a qualcuno. Quello a cui non aveva mai confessato di avere avuto una cotta per lui se non dopo sette anni, quello con cui alla fine era stata bene sul serio e ancora stentava a credere che fosse accaduto, quello che ora stava impalato di fronte a lei, con la luce disperata dei bambini negli occhi. Mary sentiva la propria determinazione accartocciarsi secondo dopo secondo e il pensiero che non avrebbe mai, mai dovuto abbandonarlo lì, nel bel mezzo di una guerra che probabilmente lo avrebbe ammazzato – che già lo stava ammazzando poco poco – la stava facendo a pezzi.
«Hai appena il tempo di proteggere te stesso».
Attorcigliò un'ultima volta la sciarpa attorno alle dita e poi la tese verso di lui un sorriso mite.
«No, tienila» la fermò rapido. «Io sono troppo bello per lei».
In un altro momento avrebbe riso a quella battuta idiota. Avrebbe riso come aveva sempre riso in sua compagnia, ma quello era quel momento, quel posto, e ridere non avrebbe avuto più senso che tornare a casa di Sirius e fare l'amore con lui per dimenticare il desiderio di fuggire.
Non era così che funzionava.
«Magari tornerò presto» si arrischiò a balbettare lei, torcendosi entrambe le mani. «Sono una tipa piuttosto nostalgica, io...».
«Lascia perdere, Mary. Con le scuse hai sempre fatto schifo».
Mary chiuse gli occhi e trattenne appena uno sbuffo a metà fra il divertito e l'esasperato.
«Si è fatto tardi, forse dovresti salire a bordo. Sei certa che sia il modo più sicuro per abbandonare l'Inghilterra?».
A lei non era affatto sfuggito quel tono strascicato con cui aveva calcato la parola abbandonare e si domandò se più che all'intera nazione non si stesse riferendo a lui – a lei che abbandonava lui.
«Non mi fido dei mezzi del Ministero».
«D'accordo» tagliò corto Sirius. «Allora devi salire. È davvero tardi».
«Sì, non dovrei aspettare oltre...».
C'erano troppe cose non dette, fra loro. C'era la sensazione sfuggente di una storia non ancora terminata, ancora colma di seconde possibilità da sfruttare. Sirius si sentiva soffocare dall'incapacità di capire che lei stava davvero per andarsene per sempre dalla sua vita, che non si sarebbe svegliato l'indomani con i suoi ricciolini sul cuscino e lei non avrebbe canticchiato preparandogli la colazione. Era troppo presto, non era pronto. Sarebbe potuto andare con lei oltremare, ovunque l'avesse voluto trascinare, e nient'altro sarebbe mai stato più importante di lei.
«È tardi, Sirius».
Non rimase a guardarla svanire nel vano passeggeri. Non aveva nemmeno voluto sapere dov'era diretta e una parte di lui già rimpiangeva quel capriccio da ragazzino. Si allontanò velocemente dalla nave, incapace di non pensare a quanto fosse tardi.
Era dannatamente tardi, era tardi per qualunque cosa – e la nave di Mary era già salpata senza aspettarlo.


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Capitolo 9
*** Sapore sulle labbra - Regulus/Remus ***


In risposta alla sfida di Shnusschen che aveva richiesto una Lupin/Regulus, oneside, massimo 2000 parole, angst. Forse non è abbastanza angst, anzi, credo che non lo sia affatto, ma tant'è...

*

Sapore sulle labbra
Regulus BlackxRemus Lupin
1267 parole



I fumi delle fabbriche nel centro della East London erano talmente acri e insopportabili che Remus dovette alzare la sciarpa logora per ripararsi dal tanfo. Il maltempo non aveva mollato la città dallo scorso lunedì e in quella zona un po' dismessa le pozzanghere ai lati della strada erano davvero grandi. La luce dei lampioni si scorgeva come attraverso una fitta nebbia, ma a Remus questo non importava: lui vedeva perfettamente e tanto bastava.
Era talmente impegnato a spingere il Mangiamorte lontano dal punto in cui Moody e gli altri dell'Ordine avevano teso un'imboscata per tutti gli altri che stavano con lui, che Remus cacciava i piedi nell'acqua putrida senza curarsene, sporcando i jeans stracciati fino alle ginocchia. Voltò la testa indietro, sperando di essere ancora seguito e trattenne un sorriso flebile nel riconoscere la sua figura incappucciata accovacciarsi dietro a un grosso bidone dell'immondizia.
Idiota, pensò Remus, mentre un sorriso soddisfatto gli increspava le labbra sottili. Ha davvero abbandonato la sua posizione di guardia per inseguire me.
*

Sfrecciava lungo il Tamigi ad una velocità impressionante e non riusciva a non pensare a nient'altro che non fosse il motivo per il quale si erano di nuovo incagliati in quella dannata situazione. Eppure erano così sicuri questa volta, sembravano aver perfezionato ogni dettaglio, ogni possibilità e niente – niente – sarebbe dovuto andare storto, nessuno di loro avrebbe dovuto rimetterci la pelle. E invece no, Caradoc Dearborn era rimasto indietro e ora l'unica fuga di Remus era quella corsa folle lungo il fiume, sotto la pioggia che non gli dava tregua.
Si fermò di colpo e si guardò intorno, ignorando il bisogno del suo corpo di piegarsi in due per boccheggiare dallo sforzo e si strinse affannato una mano sulla milza. Era troppo buio, c'era troppa pioggia e non avrebbe riconosciuto un Troll nemmeno se glielo avessero piantato davanti al naso. Eppure la situazione sembrava calma e Remus iniziò a prendere dei profondi respiri. Concentrato, chiuse gli occhi e tentò di fare un girò su sé stesso, ma la fattura Anti-Smaterializzazione copriva anche quella zona. Si chiese per quanto tempo ancora sarebbe durata.
Alle sue spalle si ergeva un grande prefabbricato con un largo deposito di autotreni attorno. Controllò ancora una volta che non ci fosse nessuno nelle vicinanze e scartò immediatamente l'ipotesi di trovare riparo all'interno: aveva già commesso quell'errore una volta e ne portava ancora ogni traccia sulla pelle. Si accucciò accanto alle grosse ruote di un camion e appoggiò la fronte alle ginocchia, stremato.
Regulus Black continuò a fissarlo con un bagliore sinistro negli occhi grigi per diversi minuti. Poi il desiderio di agire si fece più forte ed estrasse la bacchetta dal mantello scuro.
«Incarceramus!».
Remus non se ne accorse nemmeno.
*

Era abituato al sapore amaro del sangue in bocca e all'odore metallico che gli intorpidiva l'olfatto; eppure, dopo tanti anni, non era ancora stato in grado di abituarsi all'idea che gli piacesse così tanto, che lo rendesse tanto agitato. Come se parte della bestia che lo travolgeva una volta al mese non potesse mai svanire del tutto, come se fosse sempre lì, pronta a sbranarlo ad ogni suo accenno di debolezza; come se non potesse essere libero in nessun momento della sua vita, sempre succube, sempre più vulnerabile.
Cercò di sputare un grumo di sangue per terra, ma le funi che gli stavano segando i polsi e le caviglie erano troppo strette e finì per sporcarsi ancora di più la camicia logora. Quando Regulus Black si chinò di nuovo su di lui – e quegli occhiacci grigi erano così simili a quelli del fratello, dannazione – e gli pulì il rivolo che scendeva dal suo mento, si domandò ancora per quale dannato motivo fosse lì, per quale dannato motivo lui fosse ancora vivo.
Regulus aveva un aspetto spettrale, con quella faccia pallida, lo sguardo brillante di soddisfazione e brama e le sue mani erano così piccole e curate che Remus non riusciva a credere che le usasse davvero per pulire il suo sangue. Non capiva: lo aveva preso a calci, gli aveva rotto almeno un paio di costole, gli aveva inflitto la maledizione Cruciatus fin quando a Remus non era rimasto più fiato per gridare – non pietà, quella non l'avrebbe mai gridata – e ora era lì, inginocchiato davanti a lui, sotto la pioggia che scivolava sulle loro facce e si infrangeva rumorosa sulle acque nere del Tamigi a pochi metri da loro. Remus era lì ed era certo di aver conservato abbastanza senno per rendersi conto di quello che stava accadendo, se solo ci fosse stato qualcosa da comprendere in tutta quella situazione priva di logica alcuna.
«Che stai facendo?» trovò la forza di ringhiargli addosso.
Gli angoli della bocca di Regulus si piegarono in un sogghigno perverso. Remus cercò di richiamare alla memoria l'immagine di un ragazzino con la divisa da Cercatore di Serpeverde, piccolo e mingherlino, con l'aria sempre un po' malaticcia e l'espressione triste e cupa. Uno di quelli che avrebbe anche potuto capire, si era detto un sacco di volte, e poco importavano i continui sproloqui di Sirius sulla stupidità del fratello minore, perché una parte di Remus era certa che ci fosse qualcosa di fragile nell'animo di Regulus, qualcosa di buono nascosto da qualche parte, sottomessa a tutto il resto della sua vita e della sua famiglia di psicopatici.
E invece adesso Regulus lo guardava come un alienato e più tentava di scrutare dentro i suoi occhi più Remus si ritrovava a cercare quel ragazzino a vuoto. Era pazzo, più pazzo di lui e di tutti quelli come lui.
Lo guardò fissarsi il polpastrello come se non riuscisse a rendersi conto che quello fosse il sangue di Remus, quello legato davanti a lui, con un male allucinante allo sterno e un ronzio tremendo nella testa. Poi fu questione di un attimo prima che si avvicinasse al suo volto e gli appoggiasse appena le labbra sulla tempia. Remus era così malconcio che non riuscì nemmeno a divincolarsi.
«I miei genitori non mi hanno mai voluto comprare un animaletto» disse la voce flautata di Regulus al suo orecchio. «Avevo giurato loro che me ne sarei occupato io, che non avrebbe mai dato alcun disturbo, ma non mi diedero mai ascolto».
Remus deglutì stentatamente. In qualunque cosa gli avesse fatto Lord Voldemort c'era qualcosa di folle, di malsano. E poi lo disse, perché era da troppo che teneva per sé quel pensiero tanto ovvio.
«Tu sei pazzo».
Lo sentì ridacchiare, sentì la sua mano risalirgli il petto, e d'improvviso la sua stretta fu così energica da schiacciare le costole rotte di Remus e strappargli un urlo soffocato.
«Non è vero».
Ci vollero ore prima che Alastor Moody e Frank Paciock lo ritrovassero. Remus aveva provato disperatamente ad evocare l'Incanto Patronus per chiamare i soccorsi, ma le forze lo stavano abbandonando e le palpebre si stavano facendo sempre più pesanti. Cercarono di scuoterlo con estrema delicatezza per le spalle per sapere quanto fosse cosciente – quando di lui potesse essere rimasto con loro. Sul momento, Remus non si era nemmeno accorto del loro arrivo. Continuava a fissare il punto dove Regulus era sparito e a umettarsi le labbra, sperando che il sapore del sangue potesse lavare in fretta quello che il suo bacio gli aveva lasciato.

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Capitolo 10
*** La prima ad impazzire - Sirius/Bellatrix ***


In risposta alla sfida di cartavelina che aveva richiesto una Sirius/Bellatrix, rating arancione, dal prompt rosso e nero. Ho schivato un po' il prompt nero, riferendomi al fatto che Sirius e Bellatrix sono due Black.

*

La prima ad impazzire
SiriusxBellatrix
900 parole


All'inizio aveva pensato di acconciarsi i capelli in una morbida treccia sulla spalla, ma poi le era balzato alla mente il ricordo di Andromeda e del suo portamento scialbo e modesto e aveva cambiato rapidamente idea. Li aveva sciolti di nuovo, aveva scosso la testa, aveva ravvivato la folta chioma nera con le mani e aveva sorriso al riflesso dello specchio.
Era bella, si era detta, era bella più di qualunque altra strega in Gran Bretagna, ed era potente e indistruttibile; era immortale, Bellatrix, e i capelli che le circondavano il viso sembravano fatti di fumo nero e la facevano sentire ancora più bella e forte.
Aggiustò l'orlo di seta rossa dell'abito e piroettò qualche volta al centro della stanza. Era davvero bella, più di quanto non lo sarebbero mai state le sue sorelle. Sogghignò al pensiero che Sirius l'avrebbe trovata altrettanto meravigliosa e la sua risata risuonò folle fra le fredde mura di pietra di Azkaban.
La prima ad impazzire era stata lei.


*

«Buonasera, cugino».
Sirius sollevò appena la testa e le sue labbra si storsero in una smorfia divertita nel vederla comparire nel viottolo che girava attorno al Paiolo Magico. Aveva immaginato che non si sarebbe mai abbassata a indossare il mantello nero di tutti quegli altri cretini che gironzolavano dietro a Lord Voldemort; lei era sempre stata qualcosa di più, qualcosa di meglio, e ne erano consapevoli tanto Sirius quanto Voldemort.
L'orlo di seta rossa le scivolava attorno alle spalle come una serpentina di sangue e faceva risaltare la carne bianca dei suoi seni. Aveva lasciato i capelli sciolti, liberi e ferini attorno al bell'ovale del volto, e Sirius scoppiò improvvisamente a ridere. Era implacabile, Bellatrix, era dannata, ed era sempre più convinto che il solo altro uomo che non nutrisse per lei un genuino terrore fosse proprio il Signore Oscuro a cui era tanto devota; eppure era debole di una vanità ben più forte e cruda di quella che spingeva la fragile Narcissa a farsi ricoprire di orpelli da Lucius Malfoy.
«Bella» la salutò lui con un inchino sfrontato. «Non credi sia ora di andartene? Diagon Alley brulica di Auror, ormai».
«Auror?» ripeté in un soffio impudente. «Non offendere la mia dignità, Sirius... ne servirebbero almeno altri cento per farmi un solo graffio».
«Io sono bastato».
Sul momento Bellatrix inclinò appena il capo e aggrottò confusa le sopracciglia sottili, ma poi parve capire il senso delle parole di Sirius e gli rivolse uno sguardo di provocazione.
«Quel bel vestito è abbastanza lungo per coprirli tutti?» continuò lui con tono leggero.
«Dimmelo tu, Sirius».
«No. Non copre proprio un accidente».
«È per questo che hai abbottonato la camicia fino all'ultima asola?».
Rimase a guardarla per qualche istante in profondo silenzio, poi gettò la testa indietro e rise ancora. La mano sinistra si alzò d'istinto a coprire il collo, laddove qualche notte prima si erano conficcate le unghie rosse e le labbra di Bellatrix. Era un'amante spietata esattamente quanto lo era in qualunque altro aspetto della sua esistenza e Sirius si era sempre lasciato trascinare un po' troppo dalle situazioni paradossali. In quella – qualunque cosa fosse – si era fatto trascinare così tanto a fondo che dubitava di poterne tornare a galla.
Bellatrix avrebbe aleggiato attorno a lui per l'eternità, inebriante e maledetta, e lui avrebbe continuato a ripetersi che sarebbe bastato così poco per ammazzarla, quando la sentiva fremere sotto il suo peso, quando la vedeva passarsi la lingua sulla bocca e le sue ciglia sbattevano ruffiane per farlo crollare in ginocchio davanti a lei ancora un'altra volta... sarebbe bastato un niente, un respiro, un istante, e lei sarebbe morta fra le lenzuola umide del suo letto e tutta quella follia di Lord Voldemort avrebbe subito una drastica frenata. E invece no, continuava a permetterle di tornare da lui e ne era così esaltato che talvolta si domandava se non fosse proprio lui, quello addestrato a trotterellarle dietro.
E in qualunque modo cercasse di vedere la cosa, sapeva che non sarebbe mai stato in grado di cancellarla, né i segni rossi sulla sua pelle sarebbero svaniti tanto in fretta.
Erano piantati lì, rossi e indelebili nella profondità di quell'insanabile malattia insita nei geni Black, trasmessa di padre in figlio dacché era partita la loro dinastia. Qualcosa di marcio, qualcosa di incancellabile, qualcosa che li avrebbe portati entrambi alla morte o alla follia – o ad entrambe, forse – e per quanto ne fossero entrambi consapevoli, nessuno dei due sembrava intenzionato a salvarsi un briciolo d'anima.
Era un po' come se fosse normale, come se i Black fossero scusati da qualunque manifestazione di instabilità mentale, come se ci fosse perfino qualcosa di cui poter far vanto... e i segni rossi restavano sui corpi di entrambi, e a volte pareva davvero che ne fossero orgogliosi nello stesso modo malsano.

*

«Sono bella, sono bella, sono bellissima...» ridacchiava nel gelo e nell'oscurità Bellatrix, danzando sgraziatamente sui piedi sporchi.
Qualche cella più avanti, accucciato in un angolo e con la testa appoggiata alla parete umida, Sirius Black sogghignava con aria vittoriosa.
Era stata davvero lei, alla fine, la prima ad impazzire.



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Capitolo 11
*** Remus/Tonks, Ron/Bellatrix, James/Dorcas, Luna/Lucius ***


Note: In occasione dei cinque anni di Ferao su EFP – non sapevo si potesse festeggiare il compleanno pure così, quindi vi informo che ho un sacco di anni di arretrati – ho finalmente avuto la fortuna di partecipare ad una delle folli Drabble's Night.


*

Little Talks - Of Monsters and Man
RemusxTonks
104 parole.


«Sei tornato».
Gli occhi di Remus erano stanchi, arrossati, vecchi di cent'anni e la voce di Tonks fremeva di accuse masticate fra i denti come vetri rotti. Non osava sollevare il capo, non osava guardarla, non voleva vedere l'ombra sul suo viso pallido, e i capelli fradici per aver corso sotto quel dannato temporale continuavano a gocciolare sulle punte delle scarpe logore.
Plic.
«Sembra che tu sia appena cascato in mare».
Plic. Plic.
«Mi dispiace».
Plic. Plic. Plic.
Le labbra di Tonks si piegarono in un sorriso tirato. Sbuffò nervosa e appoggiò il capo alla sua giacca bagnata.
«Sali a bordo, razza di cretino».


*

RonxHermione!Bellatrix
117 parole.


«Come... ti sembro?».
Lui l'aveva guardata come se non avesse mai visto una donna in vita sua. La feroce criniera nera le circondava il viso come i serpenti di Medusa e per quanto la sua espressione fosse intimorita, titubante – per quanto fosse Hermione, miseria, perché sotto quello spettro c'era Hermione – i suoi occhi sembravano ardere di follia. La osservò piantare un dente nel labbro inferiore, rosso e sottile quanto il graffio di una gatta sulla pelle candida.
Che diavolo era quel fremito incontrollabile lungo la spina dorsale?
«Sei... terrificante».
Hermione aveva arrangiato un lieve sorriso – o forse lo credette soltanto, perché ciò che Ron vide realmente non fu nient'altro che un sogghigno di scherno.



*

Io amo lei, Diaframma
JamesxDorcas
120 parole.



Con il trascorrere degli anni James si era convinto che la vita non fosse nient'altro che una monotona serie di calci in culo. Ne rideva sempre, sprovveduto e sfrontato come uno scarmigliato Peter Pan con i Doc Martens, ma alla fine pure lui si faceva sempre un sacco di male.
Cascava ogni volta, James, e per quanto continuasse a rialzarsi, le sue ginocchia rimanevano sempre un po' sbucciate.
«Prongs».
Il sussurro di Sirius aveva la voce di uno schiaffo – di un altro calcio in culo.
«Lei non amava nessuno. Lo ha fatto un po' con tutti».
James annuì con una smorfia indifferente, ma la tomba di Dorcas sembrava prenderlo a calci un po' più forte di tutte le altre.



*
"Il mondo si beffa di questo, e qualche volta manda al patibolo per questo", Oscar Wilde
LunaxLucius
What-If (Harry è morto), 109 parole.

Nei suoi occhi c'era l'innocenza di una guerra combattuta dal fronte sbagliato – già perduta – e a guardarla ergersi con tutto quell'ardito contegno quasi si aveva l'impressione di essere al cospetto di una regina.
Ma Luna non aveva la corona, non aveva lo scettro e non aveva nemmeno voluto sguainare la spada; quando le sue mani si erano levate in segno di resa, il sangue dei suoi compagni le era scivolato fra le dita.
Lucius levò la bacchetta.
La folla trattenne il fiato.
Fu tutta questione di un alito di vento.
Pregava solo che Lord Voldemort non avesse notato quella sciocca carezza concessa al cadavere di una condannata.



*
"Le lacrime non sono l'unica arma di una donna"
PercyxFerao
106 parole.

Ferao era infuriata. Se solo lo avesse avuto fra le mani in quel dannato momento, lo avrebbe ridotto in una manciata di coriandoli. Gli avrebbe stritolato il collo, avrebbe affondato le unghie nella sua carne, gli avrebbe rotto il naso, due costole, tutto.
Alzò tremante le mani e cercò di contenere l'implacabile furia che stava inesorabilmente montando dentro di lei.
Lo avrebbe ucciso – oh, se lo avrebbe ucciso!
Con un respiro profondo, fece l'unica cosa che la sua mente razionale ritenne logico fare.
Appoggiò le dita sulla tastiera e scrisse:
«E fu così che nella mia fan fiction Percy Weasley trapassò innumerevoli volte».

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Capitolo 12
*** Severus, Fleur, Tonks e Malocchio ***


Drabble Night numero... uhm, ho perso il conto.


*

Lonely Day - System of a Down
Severus Piton
242 parole

Sette minuti.
Abbracciare Lily è come abbracciare una bambola di stracci. Il capo riverso sul tuo petto, i lunghi capelli rossi scomposti, il volto pallido, i meravigliosi occhi vuoti.
E tu sei lì, Severus.
Sette minuti dopo la morte di Lily.
Sette giorni.
Dondolarsi sulle ginocchia è come giocare su un'altalena di spine. Gli occhi stretti, il grido soffocato in gola, ma non gridi, non piangi, non respiri, e la tua nuova casa è scavata nella terra quanto la sua.
E tu sei lì, Severus.
Sette giorni dopo la morte di Lily.
Sette anni.
Osservare il sorriso di una zucca intagliata è come guardarsi allo specchio. La smorfia ghignante, gli occhi piegati, cattivi, derisori. La fiamma di una candela che danza nell'ombra di Halloween.
E tu sei lì, Severus.
Sette anni dopo la morte di Lily.
Sette vite.
Morire è un po' come addormentarsi, eppure è la prima volta che ti senti sereno. Sette vite fa, ed eri solo un bambino che inseguiva una farfalla; sei vite fa, ed eri un ragazzino con la mente vispa e il cuore febbrile; cinque vite fa, ed eri tutto un errore, tutto uno sbaglio; quattro vite fa, ed eri un uomo che piangeva con le unghie conficcate nel volto; tre vite fa, e lui aveva i suoi occhi e Dio... Dio, mordevano quanto il tuo odio; due vita fa ed era l'ultimo sforzo, l'ultimo miglio, l'ultimo istante.
Una vita fa, Severus.
E tu eri lì.


*

«Per chi vuole vederli ci sono fiori dappertutto», Matisse.
Fleur Delacour
144 parole



I giardini di Reims sembravano profumare di primavera anche al giungere dell'autunno. Li ricorda, Fleur, li ricorda come se fosse ancora la bambina che sfrecciava fra le ortensie delle madre, scivolava oltre il cancellino e correva a piedi scalzi nell'erba fresca.
Li ricorda, Fleur, anche se i fiori dell'Inghilterra non hanno mai profumato di casa. In Inghilterra non ha mai sfilato le scarpette lucide per sfrecciare sull'erba, non ha mai spettinato i capelli biondi al vento del nord.
C'erano altre cose da fare, in Inghilterra.
Siede in un angolo, Fleur, e slaccia l'elegante cinturino: i bei sandali cadono fra le pietre di Hogwarts, ma quando appoggia le dita per terra avverte solo freddo e polvere.
Fleur ricorda i fiori dei giardini di Reims... li ricorda davvero, ma li immagina sui petti di tutti quei ragazzi morti e il loro profumo le dà la nausea.



*
Tonks, Malocchio, 294 parole, «In amore e in guerra tutto è lecito».
Tonks, Malocchio (RemusxTonks)
294 parole



Toc. Toc. Toc.
Non serve essere un'Auror per riconoscere il suono della sua gamba di legno sulle assi impolverate di Grimmauld Place. Gradino dopo gradino, con il fiato affannato dell'età che avanza, eppure è un martellare impietoso, costante.
Toc. Toc. Toc.
Il silenzio fa male alla spalle, ma lei non distoglie lo sguardo umido dalla porta.
«Stare davanti alla sua stanza non lo riporterà indietro».
«E se non sapessi dove altro stare?».
L'occhio magico di Malocchio vede ciò che resta della camera da letto di Sirius Black, ma sentire il dolore roco nella gola del suo soldato fa male. Fa troppo male – male quanto James e Lily Potter, quanto Frank e Alice Paciock, quanto i Prewett, i Bones, i McKinnon, Benjy Fenwick, Dorcas Meadowes... fa male come ha sempre fatto.
Stringe i denti.
«Sta' in piedi e basta» ringhia in un soffio affranto. «C'è una guerra da vincere e poco tempo per farlo».
«Non abbiamo nemmeno potuto seppellirlo».
Malocchio fa una smorfia e se li ritrova di nuovo davanti – James e Lily, e Frank e Alice, e ognuno di loro è fiero, vivo e perduto.
«È una regola che non conta in queste circostanze. Vivi e basta, ragazza».

«Un uomo come lui avrebbe meritato una degna sepoltura».
La voce roca di Remus è a un centimetro dal suo orecchio, ma a Tonks arriva solo un soffio ovattato. Lei non risponde. Resta immobile nel loro letto, acciambellata come una gatta e con lo sguardo fisso sulla parete.
«Non importa. È una regola che non conta».
Il suo mormorio è affondato nel cuscino. Remus non riesca a capire, ma Tonks resta di nuovo muta.
"È una regola per quando saremo tutti morti" si ritrova a pensare. "E non ci sarà più nessuno a seppellirci".

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Capitolo 13
*** Filius/Pomona, Remus/Tonks, Arthur/Molly ***


Grazie a Medusa per i bellissimi prompt e a tutte le follie delle Drabble Night.


*

Immagine
FiliusxPomona
152 parole



Chiude sempre un occhio quando incrocia i suoi studenti appartati negli angoli del castello. Finge di essere troppo vecchio per vederli, tutti assuefatti e confusi dalla pazzia dei primi amori, ma lo fa perché non è abbastanza vecchio per aver dimenticato i propri.
«Ho perso il controllo delle ragazze di Tassorosso...».
Pomona sfila dal capo il buffo cappello e si lascia scivolare con aria stremata al tavolo degli insegnanti. Nei suoi capelli non ci sono rametti ed è tutto così magico e atipico che Filius non riesce a trattenersi. S'inchina galante, si fa ancora più piccolo di quanto già non sia, ma quando la invita a ballare si sente un gigante.
Lei ride imbarazzata e si copre la bocca con la mano. Ha le dita un po' sporche di terriccio – e per qualche istante crede che la sua risata possa suonare davvero per lui.
Non ha mai visto magia più bella.


*

Immagine
RemusxTonks
142 parole


Le piove fra i capelli grigi, sui brandelli del mantello, sulle punte degli anfibi logori, ma resta lì, resta immobile, resta con le mani strette al petto e con il pianto mozzato in gola.
«Tonks?».
«Fottiti, Remus».
Era diventata un'Auror perché sognava un mondo migliore – aveva combattuto, aveva resistito, ma stava ancora imparando a sue spese quanto cadere facesse male. Ed ogni cosa ora si scioglieva all'orizzonte, il fallimento rodeva nello stomaco, il sangue scivolava lento fra le mani.
Una cartolina di nebbia.
Le braccia di Remus le scivolano appena sui fianchi e la stringono in un abbraccio disperato.
Silente è morto. La guerra è morta. Siamo tutti morti.
Tonks china la testa e intreccia le proprie dita con quelle di Remus.
Abbiamo perso.
La voce roca di Remus è come la luce evanescente dell'alba.
«Resta con me».
Ma è luce.


*

«Salvami dalla mia stessa vita, dalle paure che non posso nascondere».
ArthurxMolly
134 parole


Risale di corsa i gradini con la notizia che ancora gli rimbomba nelle orecchie, nella testa, nel sangue... pulsa sotto la pelle e morde, lacera – buon Dio, quanto lacera.
La porta della loro camera da letto è chiusa; i bambini sono seduti contro la parete con un'espressione di confuso dispiacere sui piccoli visi.
«La mamma piange, papà».
Entra nella stanza.
Le mie condoglianze, signor Weasley.
Molly è accovacciata ai piedi del loro letto, con le braccia attorno al pancione, i capelli rossi davanti al volto esangue, le unghie conficcate nelle guance, e trema, trema, trema...
«Molly...».
«I miei fratelli... erano i miei fratelli».
L'abbraccio di Arthur è morboso, disperato, vitale, ma Molly continua a tremare per diverse ore – e Arthur non lo sa ancora, ma avrebbe tremato per sempre.
Le mie condoglianze.

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Capitolo 14
*** Molly, Scrimgeour/Tonks, Augusta e due crossover folli ***


*
Gesto scaramantico
Molly Weasley
134 parole

Quando era una bambina, sua madre le raccontava che niente teneva lontani gli spiriti cattivi quanto la luce di una candela.
«Sembra piccola» le diceva, «ma, mia cara, porta tanta fortuna».
Molly ne aveva accesa una nel 1980, ma Gideon e Fabian non l'avevano mai vista; lo aveva rifatto anni dopo, e c'era mancato poco che perdesse Arthur; non ha smesso di crederci e ha preso una nuova candela, ed eccola vegliare sul corpo di Bill nell'infermeria di Hogwarts, con lo spettro di Silente a pesare sullo stomaco di una guerra che non si riusciva più a vincere.
Parte per Hogwarts, parte per la battaglia del destino del mondo, e se ne dimentica.
«Non importa» si consola, «non ha mai portato fortuna. Chissà... forse avrei dovuto lasciarle spente fin dall'inizio».
Ma poi c'è Fred.



*
Rufus ScrimgeourxNinfadora Tonks
199 parole
(one-sided)

Tonks aveva gli occhi neri di una cerbiatta e lo sguardo rancoroso di Alastor Moody – due elementi inconciliabili, un po' come quel dannato visionario e i suoi capelli rosa, un po' come la guerra e i suoi sorrisi sfrontati.
Sembrava aver ignorato il più elementare degli insegnamenti del proprio mentore – vigilanza costante, ragazza, abbi paura con criterio, ragazza, sii di ferro, schiva la morte, resta viva, ragazza – e rideva, rideva, e i suoi capelli erano viola, gialli, blu e Merlino... Merlino, Rufus non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.
Era tutto ciò che un'Auror non avrebbe mai dovuto essere. E lui era un esperto di Auror, era un esperto di norme e rigore, e quella dannata cavalletta indossava jeans strappati e anfibi da maschiaccio di strada.
Passa davanti al suo cubicolo nel Quartier Generale degli Auror – gli abiti da Ministro si fanno di giorno in giorno sempre più stretti – e la cerca con lo sguardo. Lei abbassa piano la Gazzetta del Profeta – e la prima pagina sembra pugnalare proprio lui.
Nuove restrizioni per i Lupi Mannari.
Il suo dito medio è un'offesa che Rufus non riesce a ingoiare.



*
Timshel – Mumford and Sons
Augusta Longbottom
156 parole

«Ti renderò onore, mamma».
La sua voce non smette di tormentarti. Ti afferra nel sonno, ti scuote violentamente e ti svegli sudata, con le unghie conficcate negli occhi per strapparti le lacrime prima che bagnino le lenzuola pulite.
«Fa' attenzione, Frank».
Il vento cambia, scuote le foglie, gli alberi si spogliano e il tempo trascorre, ma tu resti lì, con la risata spudorata di un figlio perduto nelle orecchie e i pugni stretti, la mascella serrata. Sei una donna dura, Augusta, sei una donna nata per resistere a cento tempeste.
«Torno a Hogwarts, nonna».
Socchiudi le palpebre e ripeti al niente la vecchia preghiera di una vecchia donna.
Non prendere lui, non prendere anche lui...
«Quello è il mio posto. Devo restare. Devo combattere».
Tremi, ma gli sorridi con orgoglio.
«Fa' attenzione, Neville».
Ride nervoso, ride con rigida sicurezza, e tu senti ancora la risata briosa di Frank infrangere il tempo e lo spazio.
«Ti renderò onore, nonna».
«Torna indietro. Mi basta questo».
Questa volta ti basta.


*
Cross-over folle – Pastelli colorati
Neville Longbottom e Linus Van Pelt (Peanuts)
197 parole

Il disegno di Linus è molto più bello del suo. Neville gira il capo e scruta critico i propri scarabocchi – perché non sono davvero che scarabocchi, i suoi – mentre Linus aggiunge il giallo, il verde, il blu, e c'è un arcobaleno in piena che sgorga dalle sue mani.
«È bello».
Linus alza la testolina dal foglio, sbatte un paio di volte le palpebre e fa un largo sorriso.
«È la libertà».
«La libertà... di cosa?».
«Di essere come un uccellino che vola con le piume dell'uccellino che vorrebbe essere quando gli altri uccellini non vorrebbero che l'uccellino avesse le piume. Siamo tutti uccellini, qui».
Neville apre la bocca in una muta espressione di confusione e si sente per l'ennesima volta tremendamente idiota. Ma Linus fa le spallucce e gli passa la copertina.
«Prendi» gli dice. «Vedrai che con questa capirai più cose».
Non ci capisce niente, Neville, ma lo ringrazia lo stesso e inspira il tessuto celeste. Sa di vecchio e di rovinato – è un aroma nauseante, tutto sommato. Continua a non capirci niente, ma dopotutto nemmeno Linus ha ancora capito cosa ci faccia lui con un rospo in mano e un bastoncino di legno nella tasca dei pantaloni.



*
Cross-over folle - «Devi gettare il passato dietro di te, prima di andare avanti»
Severus Piton e Petyr Baelish (Game of Thrones)
141 parole
Parodia, demenziale, l'autrice chiede scusa...

Il primo uomo fa uno sbuffo infastidito e sorseggia ancora dal bicchiere.
«E poi ha sposato un emerito idiota».
L'altro sbuffa e alza le mani con eloquenza.
«Amico mio, quanto ti capisco. La mia se ne è andata con un imbecille che si è fatto ammazzare come un...».
«Imbecille?».
Annuisce e scuote sconcertato il capo.
«Di', secondo te cosa ci trovano le donne rosse negli idioti?».
«Sindrome della crocerossina».
Uno sbuffo, il lesto rumore del vetro che cozza e un brindisi beffardo all'amore che non dura.
«Che farai, ora?».
Severus alza le spalle.
«Hanno deciso che morirò in maniera stupida ma plateale e lascerò nugoli di fan a disperarsi per la mia triste e grama esistenza... tu?».
Petyr si liscia divertito la barba e ridacchia fra sé con aria baldanzosa.
«Vado a letto con sua figlia».
Un attimo di silenzio.
«Bel colpo, Babbano».

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Capitolo 15
*** Ted Tonks, Alastor, Tonks, Percy/Fleur, Alice/Rodolphus, Remus ***


*
Auguri
Ted Tonks, Bellatrix Lestrange
137 parole

Una volta, due volte, tre volte.
Era dannatamente semplice premere il proprio stivale sul suo petto. Gemeva fra i denti e serrava le dita attorno ai fili d'erba dal dolore, ma i suoi occhi erano ancora fissi sul suo volto. Bellatrix odiava il modo in cui quel Sanguesporco la stava guardando.
«Vinco io, alla fine».
La voce di Ted Tonks aveva il sapore della beffa di un bambino.
Un altro calcio. Altri due. Altre tre.
Dalla gola dell'uomo emerse un flebile verso strozzato.
«Tu muori. Tu perdi».
Sul suo viso insanguinato comparve un sorriso debole, tremulo, spavaldo.
«I miei a-auguri di b-buona fortuna alla nobile casata dei Black... possa c-conservare in eterno la sua purezza» sputò sarcastico. «A m-miglia da qui, mia figlia dà alla luce il figlio di un Lupo Mannaro. Io muoio, ma tu perdi».


*
Immagine
Alastor Moody, Ninfadora Tonks
131 parole

Con il trascorrere degli anni Alastor si era reso conto che lei non era fatta che di vento. Era come la brezza di un giorno di maggio, come il rumore delle onde infrante sugli scogli, era fatta un po' com'era fatta l'aria, leggera e cristallina – intoccabile.
Ma alla fine l'aveva toccata fino a perdere il fiato, e per ogni respiro preso si era maledetto mille volte tanto. Era una donna fatta di vento, Tonks, ed era destino che lui dovesse lasciarla volare.
«Che faccia cupa» lo prende in giro con frizzante allegria. La fede nuziale che scintilla al suo dito è un rimpianto su cui Alastor non vuole concentrarsi. «A cosa stai pensando?».
«Questa sera il vento soffia troppo forte. Qualcuno di noi rischia di perdere il controllo della scopa».


*
Tutto è lecito in amore e in guerra
Percy/Fleur
146 parole

Nel silenzio sporco del suo appartamento la candida accusa di Fleur risuona come un terremoto.
«Non verrai a Oguòrts, vero?».
Percy afferra gli occhiali dal comodino con stizza improvvisa, si alza e afferra la camicia del pigiama celeste. Vorrebbe che il bellissimo sguardo di Fleur si spostasse dalla sua schiena nuda – colpevole – che la piantasse di aggredirlo di ferirlo, di fissarlo... ma lei resta lì, nuda e immobile nel suo letto come un angelo di pietra.
«Non hanno bisogno di me».
«Oui, forse. Ma tu hai bisogno di loro».
Si passa le mani fra i capelli rossi e scuote agitato il capo. Gli sta venendo l'emicrania. Poi caccia uno sbuffo che sa di fiele e rancore e sbotta:
«Beh, mi auguro allora che tu sia pronta a spiegare a mio fratello... questo».
Fleur si ritrae come davanti al suono secco di una frusta, ma il suo volto resta impassibile.
«Questa è guerra, non amour».
Lui ridacchia con boria e si appoggia distrattamente al davanzale della finestra. Alla luce della luna, Fleur è l'unica cosa che sembra poter ancora brillare.
«Non ha mai fatto differenza».


*
Alice Longbottom/Rodolphus Lestrange
(one-sided)
128 parole

I suoi riccioli biondi ti ricordavano il grano e le brughiere del nord. Aveva il sorriso dei ruscelli e gli occhi vivi e brillanti di risate e usignoli, e c'era la primavera nel modo in cui danzava a pieni nudi nell'erba del parco di Hogwarts.
Fianco a fianco della ragazza alla quale eri già stato promesso, la guardavi da lontano, di soppiatto, di nascosto... rubavi ognuno dei suoi sorrisi.
Le rubavi l'estate con gli occhi, ed ora che puoi farlo davvero, Rodolphus, fallo e basta.
«Crucio».
Guardala gridare, guardare contorcersi ai tuoi piedi come un agnello con la gola recisa, guarda i suoi occhi straziati, guarda il suo dolore, guarda la nebbia farsi strada nella sua mente... guardala, Rodolphus, e dimmi che non ti fa un male cane.



*
Invenzione
Alastor Moody, Ninfadora Tonks
162 parole

«È pericoloso».
Tonks sbuffa come un'adolescente e alza gli occhi al soffitto. Moody vorrebbe tanto poterla strangolare, afferrarla per la nuca e sbatterle la fronte contro lo spigolo del tavolo della Tana fino a farle entrare un poco di senno in testa. Ma non lo fa. Resta immobile con le braccia incrociate e lo sguardo astioso.
«È geniale. E tu lo sai».
Vorrebbe prenderla a sberle – lei, i suoi capelli rosa e quella dannata fede che brilla al suo anulare.
«Troppi rischi».
«E poche alternative».
Digrigna i denti, ma sa che lei ha ragione. Sa che sono tutti incastrati, circondati, soffocati... a un passo dal cadere nel precipizio, uno dopo l'altro, insieme a ognuna delle buone convinzioni che si portano sulle spalle.
«Sette diversi Potter...» ripete con una smorfia divertita. «Buon Dio, Tonks... è l'idea più stupida che tu abbia mai avuto».
«Funzionerà. Fidati di me».
È davvero un'idea geniale – una di quelle che ti fregano proprio sul più bello.



*
Immagine
Remus Lupin
215 parole

È così magro che potrebbe contare ognuna delle proprie costole, ma non sa dove siano finite. Suppone siano lì, da qualche parte fra il collo e la cintola, ma conserva il timore che possa arrivare un'alba alla quale non tutte le propria ossa fanno ritorno.
L'alba fatale non è quella, tuttavia, e Remus le ossa le ha ancora tutte al loro posto – ne è certo, perché fanno un male infernale, e niente di ciò che non esiste potrebbe fare tanto male.
Scalare una montagna sarebbe più facile che rialzarsi in quel momento. Potrebbe restare semplicemente lì, nella polvere e nel sangue, affogando fra i brandelli della dignità che la luna si tiene stretta al petto a ogni plenilunio.
Eppure si rialza, Remus. Ha tredici anni, le ossa sporgenti, il colorito pallido... e si rialza.
Si rialza ogni volta con il pensiero che lo stanno aspettando accucciati nell'Infermeria, immobili e silenziosi sotto il Mantello dell'Invisibilità. James gli scompiglierà i capelli, Sirius lo prenderà in giro, Peter rovescerà sul suo letto una borsa piena di dolciumi e schifezze già mangiucchiate... e lui tornerà a essere Remus, solo Remus, solo il ragazzino con le ossa sporgenti – e la Bestia rimarrà lontana per altri ventotto giorni.
Se Remus ci credesse di più, potrebbe rialzarsi più in fretta.



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Capitolo 16
*** Frank, Bill/Fleur, Percy, Tonks, Scrimgeour ***


Drabble estratte a caso dai prompt di Ferao – alla quale in effetti dedico ognuna di esse (in particolare la flash fic su Percy e Tonks).


*
Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. (Samuel Beckett)
Frank Longbottom
126 parole

Il dolore è un mostro che non si è mai addestrati a sconfiggere del tutto. Lo sa bene Frank, che di mostri e orrori da sconfiggere è un grande esperto. Ci prova fino a consumare l'ultimo respiro, fino a quando non gli si spezzano le tibie e non crolla sulle ginocchia in una pozzanghera di melma, e poi lo sente, lo sente che ride, lo spezza, lo morde, finché di lui non rimane che la corazza vuota di un soldato sconfitto.
È l'umiliazione che lo deride e risale la sua gola ed esplode nelle sue orecchie – proprio là, dannazione, là dove sta già morendo Alice.
Frank prova a rialzarsi, ma il pavimento è troppo vicino.
Cade.
Ritenta, Frank.
Cade.
Buon Dio, Frank, ritenta.
Cade.

*
The High Kings – Red is the Rose
Bill/Fleur
117 parole

«Non».
Il suo tono è secco come lo schiocco di una frusta. Ha una voce flautata, Fleur, una di quelle voci melodiose che non dovrebbero nemmeno esistere. Non è umana, lei, non fa parte del mondo di Bill – eppure a volte sembra davvero tutto il suo mondo.
«È troppo pericoloso».
«Non lascerò te partir solo. Non ho lasciato te in questa guerre prima e non lascerò te adesso».
Lui tace, ma nel suo petto infuria una tempesta.
Le dita delicate di Fleur sfiorano le cicatrici sul suo volto – e c'è una tempesta anche nei suoi occhi celesti, c'è davvero tutto il mondo di Bill lì dentro.
«Tu sei la strada che ho scelto, mon amour».


*
A man of genius makes no mistakes, his errors are volitional and are the portals of discovery. (James Joyce)
Percy Weasley, Ninfadora Tonks
375 parole

È talmente attento a non farsi scivolare le pile di documenti dalle braccia che quasi non si accorge di lei. Si sposta a destra per farle spazio nell'ascensore del Ministero senza vederla sul serio, ma quel giorno i suoi capelli sono blu elettrico – da qualche parte doveva esistere una norma che li proibisse, santo cielo – e perfino la stoica concentrazione di Percy vacilla.
Si ricorda bene di lei.
Charlie non faceva che angosciarsi a causa della sua bravura come Cacciatrice.
Per le braghe di Merlino, odio giocare contro Tassorosso!” sbraitava in continuazione. Percy non lo ha dimenticato. «Quella dannata di Tonks è un demonio. Accidenti a lei, è una fortuna per noi che il loro Cercatore faccia schifo».
A Percy non è mai interessato il Quidditch quanto ai suoi fratelli. È uno dei tanti dettagli che non ha dimenticato e che continua a tormentarlo ogni notte. Il monolocale nel quale si è trasferito è silenzioso – un balsamo per le sue orecchie, ma sta diventando più insopportabile di giorno in giorno.
Tonks indossa la divisa degli Auror. Il berretto è un po' troppo storto sul capo e le stringhe dei suoi scarponi sono slacciati. Gli rivolge uno sguardo curioso e schiocca la lingua.
«Percy Weasley, eh?».
La sua voce trillante è fastidiosa – a Percy piace troppo il silenzio. Vorrebbe ignorarla, ma il suo collo si muove d'istinto e annuisce sfuggente.
«La tua famiglia sta bene».
«Non è più la mia famiglia».
È difficile scandirlo con forza quando la lingua trema così tanto. Lei sorride tristemente e scuote appena il capo.
«Quando capirai di esserti sbagliato non aver paura di tornare a casa».
Non mi interessa” vorrebbe gridarle. “Chiudi la bocca, tu non sai nulla. Tu non sei nessuno”.
Eppure tace.
«Non smetteranno di aspettare il tuo ritorno».
Percy continua a tacere. Quando le porte dell'ascensore si aprono sul piano del Quartier Generale degli Auror, Tonks solleva distratta una mano in segno di saluto e gli lancia un occhiolino di intesa. Lui inspira profondamente e caccia tutte quelle idiozie in un angolo della sua testa.
Quella notte non riesce a dormire.
C'è troppo silenzio.


*
A thing is not necessarily true because a man dies for it. (Oscar Wilde)
Rufus Scrimgeous
166 parole

Che rumore fa un castello di carte che crolla?
Rufus non ne ha idea – sono anni che non gioca con le carte – ma sa che rumore fa una vita che si spezza. È secca, è brutale, è impietosa... la morte non ha eco. Ed ora è lì, sulle soglie del suo ufficio, strizzata in un corpetto nero mentre lo fissa con gli occhiacci invasati di Bellatrix Lestrange.
Che rumore fa il sistema nervoso di un uomo che cede?
Questo lo sa eccome, invece. Suona un po' come suona la morte, ma ti lascia addosso il puzzo della sconfitta. E tu lo lavi, lo lavi e lo rilavi, ma quello resta sulla tua pelle fin quando non puzzi abbastanza da poter finalmente morire in pace.
«Buonasera, Signor Ministro».
Che rumore fa la morte che si fa beffa di te?
Credevi di saperlo, ma poi è arrivata anche da te e ti ha aperto gli occhi – ed eri fatto solo di sbagli, rimpianti, ricordi di tempi perduti e di corse a piedi nudi per le brughiere scozzesi.
La verità è già stesa davanti a te.
Non fa alcun rumore.

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Capitolo 17
*** Remus/Lily, MacNair, Oliver, Madama Bumb, Neville, James, Remus ***


Prompt fregati un po' a Ferao, un po' a Charme e un po' cascati a caso. (:



*
Niente si sa, tutto si immagina
RemusxLily
149 parole

«Dimmelo ora».
Remus rivolge un'occhiata di vaga confusione alle sue spalle candide. Il bustino candido dell'abito le fascia il corpo delicato come il bocciolo di un giglio – e sì, forse è una poesia stupida, forse è un po' quell'aria fresca che finalmente può respirare in quel tempo di fango e guerra, ma a Remus lei sembra davvero un fiore.
Lily volta appena la testa, sposta la chioma rossa e assottiglia le palpebre. C'è una malinconia nei suoi occhi verdi del tutto inopportuna su quel volto da giovane sposa. Remus non riesce a capire.
«Sei innamorato di me, Moony?».
Resta immobile e se ne stupisce, perché d'improvviso nel suo stomaco sembra essere deragliato un treno. Si schianta nella sua testa e lo paralizza, lo tramortisce, gli fa male.
«Stai per diventare la signora Potter».
Un commento gentile, un sorriso affabile, eppure Lily sospira affranta e scuote il capo.
«Già».


*
Circumnavigazione
MacNair, Remus Lupin (Pre-saga)
170 parole

È solo un dannato ragazzino, ed è una constatazione che rimbomba nella testa di MacNair come il rullo di mille tamburi a guerra.
Bum. Bum. Bum.
Ed è il suono del suo cuore, è il suo sangue, è quella caccia serrata che martella incessante nelle sue vene a spingere ogni suo passo nel fango – ed ogni passo è sempre più vicino alla sua preda, ogni passo è sempre un passo in meno dalla vittoria.
È solo un dannato animale.
Uno come tanti altri.
L'aria è densa dell'odore della pioggia, di paura, di sudore – la sua paura, la sua fine. Si nasconde come un cane, il piccolo bastardo, ma tu sei un cacciatore d'alto lignaggio, sei il boia dell'Oscuro.
Puoi uccidere ogni cosa, MacNair.
Eppure Remus Lupin – il ragazzino, il bastardo, l'animale, quello da stanare – compare alle tue spalle troppo in fretta, con troppa forza, con troppa tenacia, e tu sei già lì, con le ginocchia nella melma e l'adrenalina che si dissolve in un istante.
Mai dare la caccia a un cacciatore.
Bum.

*
Coperta
Oliver Baston
211 parole

L'importante è vincere, non partecipare.
Puoi vincere il Campionato di Quidditch, ma per farlo devi sputare sangue e fiele. Tu sei la scopa, tu sei la mano, tu sei l'aria e la terra e il gioco – e lo sai, lo senti, è parte di te. Puoi vincere il Campionato di Quidditch, puoi invitare a Hogsmeade quella graziosa Tassorosso di nome Johanna, ma poi dovrai ritagliare tempo al tempo, spazio allo spazio; dovrai scegliere, dovrai capire, dovrai volare un po' meno.
Non si può avere tutto dalla vita – puoi provare a tirare gli angoli della coperta perché hai freddo alla testa, ma i piedi spunteranno comunque fuori.
C'era una guerra da vincere stasera – ed era un po' come una partita di Quidditch fatta di gente che cade e non si rialza. C'era una guerra da vincere che alla fine è stata vinta, e quasi quasi torneresti negli spogliatoi con il capo alto e fiero – tu sei un campione, d'altronde, sei nato per vincere.
Ma il piccolo corpo di Colin Canon pesa fra le tue braccia come mille partite perse, e c'è una dannata coperta che non riesce a coprirti né la testa né i piedi.
La differenza fra vincere e partecipare non ti è mai sembrata tanto nulla.

*
In Noctem, Harry Potter Soundtrack 
Rolanda Bumb
188 parole

«Rolanda?».
La voce di Minerva fende l'aria come il tuono. Rolanda si stringe nelle spalle e serra feroce le palpebre, conficca i denti nelle labbra sottili e per un istante dimentica di essere stata una studentessa Grifondoro – e di essere ancora lì, nonostante tutto. Nonostante il trascorrere degli inverni e delle estati, nonostante le tempeste che si sono succedute, nonostante le nubi oscure che hanno avvolto i torrioni più alti, Rolanda è rimasta al suo posto.
«I confini a ovest devono essere protetti».
Annuisce debole e volta finalmente il capo verso la strega più anziana. Minerva sembra una statua di impietosa freddezza, ma è buio, la notte fa paura, e Rolanda non può vedere il terrore soffocato nei suoi occhi brillanti.
«Non entreranno nel castello».
Il suo sussurro è debole, ma lei resta lì, resta ancora al suo posto. Le dita di Minerva affondano nella sua spalla – una stretta graffiante, disperata.
«Non lo permetterò».
È una notte in cui bisogna volare per davvero, quella – forse è proprio una di quelle dalle quali bisognerebbe volare lontano.
Rolanda rimane al suo posto in attesa del fischio d'inizio.


*
Highway to hell, AC/DC
Cross-over folle – Wolverine, Fenrir Greyback
188 parole

Il più alto dei due uomini porta la bottiglia di Budweiser alle labbra e ne scola l'ultimo goccio in un'unica sorsata profonda.

«Merda. Ho bisogno di una vacanza» ringhia stizzito. «E di un'altra dannata birra».
L'altro storce il naso in una smorfia disgustata, si passa una mano fra i capelli incrostati e sputa un grumo di catarro.
«Odio gli zombie. Sanno di topo e fogne».
«Eh, un po' come il tuo fiato, amico».
Fenrir emette un verso a metà fra uno sbuffo e un ringhio gutturale. Wolverine getta nell'erba la bottiglia vuota e imbraccia la mitraglietta. Il roco mormorio dei morti viventi che si avvicina a loro si fa sempre più chiaro e distinto. Il più audace di loro barcolla a pochi passi dal muricciolo sul quale si sono seduti.
«Mira alla testa» lo informa con un sogghigno. «È quella che sta in alto».
«Ma vaffanculo, Logan».
BANG!
Il cervello del primo zombie si sparge in una poltiglia verdastra sull'asfalto. Si voltano entrambi verso il punto dal quale è giunto lo sparo: Remus Lupin sta già ricaricando il fucile a pompa.
«Sei sempre in ritardo, ragazzo».
«Ma vaffanculo, Fenrir».

*
Leggenda
Neville Longbottom
168 parole

«Ehi».
Neville solleva la testa di colpo e per un istante scruta la moglie come se non riuscisse a vederla davvero. Poi alza distratto la mano, scuote il capo con un sorriso leggero e appoggia il mento al palmo.
Hannah lancia lo strofinaccio umido sul bancone del pub e inarca appena un sopracciglio.
«Che è successo?».
Lui sospira con una smorfia tenera.
«C'è un ragazzino di Grifondoro di nome Robin...».
«Bene. Vuoi che lo adottiamo?».
Neville ridacchia fra i baffi e si rigira fra le mani il bicchiere di Whisky Incendiario.
«È timido, inciampa, non è sicuro di sé... ed è un disastro praticamente in ogni cosa cerchi di fare».
Sul bel viso paffuto di Hannah si dipinge un largo sorriso nostalgico.
«Oggi mi ha detto che sono sempre stato la sua “leggenda”» riprende con aria sconcertata. «Io, capisci? Io sono la leggenda di Robin Eckhart. Io sono la leggenda di qualcuno».
Hannah riprende ad asciugare i bicchieri, ma è difficile celare il sogghigno affettuoso sul suo volto.


*
Fine
James Potter
104 parole

Corri.
Corri con la gola arida; corri, ma le tue gambe non si muovono e pesano, pesano e restano inchiodate al pavimento; corri da una vita intera - eppure corri solo da due secondi, da due battiti di ciglia. Corri da un respiro e poco più, proprio quello che ti è rimasto mozzato nel petto.
Corri.
Non ha suonato il campanello.
È arrivato e basta, e tu ora dovresti davvero prendere in considerazione l'idea di correre.
«È lui! È lui, Lily! Prendi Harry e scappa!».
Corri.
In realtà sei già fermo.
In realtà non te ne sei nemmeno accorto.
Dove credevi di correre, James?

*
Knightrider of Doom, Rhapsody of Fire
Remus Lupin, (HBP)
197 parole

L'aria gelida della notte lo colpisce al volto come uno schiaffo, ma Remus continua a sfrecciare lungo l'antico porticato di pietre, scavalca il muricciolo con un agile salto, atterra nell'erba umida e non si ferma fino a quando non lo vede di nuovo – ancora là, impacciato e soffocato nella veste da Mangiamorte.
Solleva la bacchetta e la sua mano tradisce un leggero tremolio.
«Avada...».
«NO!».
La forza impietosa con cui Tonks gli strattona il braccio lo fa barcollare. Si divincola dalla sua stretta e le rivolge uno sguardo di fuoco – crudele, rabbioso, ferino. Quello che gli esce dalla gola è davvero il ringhio di una animale.
«Non intrometterti».
«Lo colpirai alle spalle?» lo apostrofa con durezza lei. Le sua dita affondano nella manica della sua camicia. «Lo ucciderai così? E quando lo avrai fatto, che uomo diventerai? Uno come lui».
Remus si irrigidisce e serra le palpebre in una smorfia disperata. Tonks appoggia la mano sul suo cuore, la fronte al petto, ma non abbandona la presa sul suo polso tremante.
«Ti prego. Tu sei mille volte l'uomo che lui non potrebbe mai essere».
Lascia cadere la bacchetta e le accarezza appena i capelli scoloriti.


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Capitolo 18
*** Luna, Lucius, Remus/Sirius ***


Note dell'autrice: Ho scritto per la prima volta in tutta la mia vita qualcosa di vagamente Wolfstar. Mi sento fiera di aver fatto il salto, ma ho come l'impressione di essere entrata in un baratro di dolore.


*
I go to the distance – Michael Bolton
Luna Lovegood
196 parole

Harry. Hermione. Ron. Ginny. Neville.
Era stato facile evocare il suo primo Patrono. Vedere la lepre argentea saltare intorno a lei l'aveva fatta ridere e per un attimo non aveva pensato che poteva avere dei Guazzabuchi annidati nelle lunghe orecchie.
Aveva riso e basta.
Harry. Hermione. Ron. Ginny. Neville.
La vernice che le scivolava fra le dita lasciava sempre una sensazione piacevole. Era fredda, era calda, era un po' tutto e un po' niente, e ad ogni pennellate Luna rideva sempre di più, sempre con più cuore, perché il naso di Ron era proprio lungo come quello che stava disegnando e gli occhi di Neville brillavano esattamente in quel modo.
Aveva riso a lungo.
Harry. Hermione. Ron. Ginny. Neville.
L'umidità della cella di Malfoy Manor entrava nelle ossa e te le spaccava una ad una. A volte Luna credeva di essere a metri di profondità sotto il Lago Nero, con il gelo degli abissi insidiato nel petto e l'acqua nei polmoni, senza più fiato, senza più respiro.
Ma poi intrecciava fra loro le dita e li chiamava di nuovo. Dieci, cento, mille volte ancora – non avrebbe smesso tanto in fretta.
Harry. Hermione. Ron. Ginny. Neville.
«Venitemi a prendere...».


*
Impeto
Lucius Malfoy
196 parole

«Crucio!».
Lo guarda contorcersi ai propri piedi senza battere ciglio, la bacchetta levata, lo sguardo gelido e impietoso. È lì che deve stare – se lo ripete come un mantra, se lo cuce nella testa e nella pelle con un impeto violento. Il Babbano strilla, strilla e si dimena, strilla e piange, strilla e implora, e Lucius resta immobile.
Bellatrix ride al suo fianco.
«Crucio!».
Ancora, ancora e ancora. È una ballata senza fine di grida che spezzano la notte, ma nelle orecchie di Lucius rimane solo un vago ronzio.
È lì che deve stare.
Lo pensa ancora, lo pensa finché non ne ha il vomito, e all'improvviso ripensa a Narcissa che lo sta aspettando a Malfoy Manor con il cuore in ansia e un bambino che piange fra le braccia.
È lì che deve stare.
«Uccidilo, Lucius».
È lì che deve stare.
Solleva la bacchetta con la maledizione che sfrigola sulla punta della lingua, ma dalla sua gola risale solo un vago verso strozzato. E Narcissa è ancora davanti a lui, tormentata, terrorizzata, con quella luce di accusa negli occhi che non riesce mai a nascondere.
«Avada Kedavra!».
E lui? Lui dov'è che dovrebbe stare?


*
«Non temere le ombre», William Shakespeare
RemusxSirius
Tripla drabble – 313 parole

Atto primo – Avvicina le mani e vola.

«Non ci riesco».
Remus sospira, ma le sue labbra sottili sono piegate in un sorriso paziente. L'espressione capricciosa sull'elegante viso di Sirius è quella di un bambino. Lo costringe a ruotare appena il polso e lo avvicina alla fiamma ballerina della candela che illumina il dormitorio di Grifondoro.
«Più basso. Accosta i pollici e stringi le altre dita».
«Non ci riesco».
«Non hai nemmeno provato».
Sirius sbuffa, inchina il capo e scruta con aria infastidita le ombre cinesi che Remus sa ricreare sulla parete di pietra. Non può che notare quanto la sua farfalla appaia fragile e sottile.

Atto secondo – Avvicina le mani e stringimi.

Nella penombra della Stamberga il suo viso gli appare ancora più scuro – eppure è il suo viso, è davvero il suo viso, e rivederlo come lo vedeva prima che il mondo crollasse loro addosso è come rivivere mille albe dopo mille pleniluni.
Dodici anni. Si illude siano trascorsi pochi secondi e gli getta le braccia al collo.
Dodici anni e per un attimo in quella bisarca distrutta non restano che loro due, non resta che la sensazione di riavere fra le mani una candela dalla fiamma che danza.
«R-Remus...».
La sua voce trema e Remus tace – tremerebbe anche lui.
Le loro ombre sul muro sono fuse l'una con l'altra.
Forse è davvero passato solo un attimo.

Atto terzo – Avvicina le mani e cadi.

Se potessi conoscere il momento in cui morirai fin dal primo attimo in cui vivi, lo vorresti sapere? Remus se lo è chiesto spesso. Una volta lo aveva chiesto a Sirius e lui era scoppiato in quella risata canina denigratoria tutta sua.
«Col cavolo. Voglio vivermela tutta, la vita».
Remus sapeva che aveva ragione, ma non poteva fare a meno di pensare che essere pronti è sempre un vantaggio. Anche quando si muore.
Anche quando si cade.
Anche se fai lo stesso rumore di una candela che si spegne.


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Capitolo 19
*** Apri gli occhi - Percy ***


Scritta per l'iniziativa 24hours-of-fun organizzata dalle fantastiche Geilie ed emme. Il prompt era «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi orizzonti ma nell'avere occhi occhi nuovi». (Marcel Proust)

*

Apri gli occhi
Percy Weasley
1700 parole


Di Percy Weasley si sarebbero potute dire tantissime cose. Si sarebbe potuto dire che era un Weasley dai capelli rosso fuoco come tutti i componenti della sua famiglia, si sarebbe potuto dire che era uscito fuori alto e allampanato come suo padre e cocciuto come sua madre. Si sarebbe potuto dire che era sempre stato un ragazzo dotato di vivido acume, volenteroso e diligente – spesso pedante. Si sarebbe potuto dire che era diverso da tutti i suoi fratelli, ma la realtà era che nessuno dei suoi fratelli si assomigliava l'uno con l'altro.
C'era Bill, il primogenito talentuoso e responsabile che era cresciuto in fretta per correre dietro ai fratelli più piccoli; c'era Charlie, quello scanzonato e impetuoso nato per l'avventura; c'erano i gemelli Fred e George, senza freni e senza paura, con la risata riflessa negli occhi identici e la battuta tagliante pronta sulla lingua; c'era Ron, quello timido e insicuro con la lealtà impressa nel cuore; e poi c'era Ginny, che era un po' Bill e un po' Charlie, un po' Fred e George, e perfino un po' Ron.
Percy era diverso da loro quanto ognuno era diverso a modo suo, ed erano tutti Weasley, tutti a modo loro. Era quello ambizioso, lui – ma lo era anche Bill, lo erano anche Fred e George. Era quello sveglio – ma lo era anche Ginny. Era quello che non voleva mai salire sul manico di scopo, l'unico al quale non fosse mai piaciuto particolarmente il Quidditch – e alla fine era stato proprio lui a cadere.
Quello che non aveva mai davvero volato.

    «Non hai nulla da dire?».
    Percy osservò sconcertato il volto inespressivo del padre, poi rivolse un'occhiata perplessa alla madre. La donna era rimasta immobile accanto allo stufato, con il mestolo stretto fra le mani grassocce e la labbra appena dischiuse. Il ragazzo si passò le dita fra i capelli.
    «Sono diventato assistente del Ministro» ripeté con foga crescente. «Assistente del Ministro. E tutto ciò che riuscite a fare è... tacere?».
    Arthur socchiuse le palpebre con un moto di dolore, si sfilò gli occhiali di corno e iniziò a pulire distrattamente le lenti con deboli movimenti del polso. Non disse nulla per diversi secondi, ma quando parlò il suo tono parve fendere l'aria fra lui e il figlio.
    «Percy... hai pensato a cosa davvero potrebbe significare?».

    «Certo che l'ho pensato. Significa che finalmente le mie capacità sono state notate da persone importanti, gente che conta. Assistente del Ministro, papà... e lavoro al Ministero soltanto da due anni. È un traguardo incredibile per la mia carriera, non--». S'interruppe di colpo e parve trattenere il fiato. Nei suoi occhi si accese una luce inquisitoria. «Tu non credi mi abbiano promosso per le mie capacità» concluse con un filo di voce. «Non credi che io ne sia davvero all'altezza».
    «Al contrario, credo che saresti ottimo per quel compito» replicò con forza Arthur. «Ma non così, Percy. Non adesso. Non sei stato assunto per i tuoi meriti. Sei stato assunto perché sei mio figlio».
    Percy emise uno sbuffo sarcastico.
    «Perché sono tuo figlio? Dannazione, papà, tu lavori all'Ufficio per l'Uso Improprio dei Manufatti dei Babbani» sputò l'ultima parola come se fosse un'onta tremenda. «Che raccomandazioni avresti mai potuto offrirmi?».
    Le orecchie di Arthur si tinsero di un pericolosa sfumatura rubizza. Molly si portò una mano al petto e si frappose fra loro.
    «Percy, come puoi parlare a tuo padre in questo modo?» pigolò con voce tremante. «Darebbe l'anima per ognuno di voi».
    «Forse, ma non la sua ammirazione» rispose pungente. «Non è così, papà? Non sei pronto a vedermi fare la carriera al Ministero che tu non sei mai riuscito a fare?».
    «Percy!».
    Ma il ragazzo pareva irrefrenabile. Teneva i pugni chiusi e al di là delle lenti degli occhiali il suo sguardo brillava di delusione.

    «È sempre stato così» continuò con rabbia crescente. «Quando Bill è diventato Caposcuola vi siete accesi di orgoglio, avete festeggiato per intere settimane. Quando io sono diventato Caposcuola mi avete dato una pacca sulla spalla. Mi avete detto: “Ben fatto, non ci aspettavamo niente di diverso”. Ve lo aspettavate e basta, così come vi aspettavate i risultati dei miei M.A.G.O. Ho ottenuto i voti migliori del mio anno» sibilò astioso. «I migliori. Ma voi eravate troppo impegnati a gonfiarvi per le prodezze avventurose di Ron, per i successi che Charlie riscuoteva in Romania, per la bravura di Bill in Egitto... perfino i ridicoli di scherzi di Fred e George vi hanno reso più orgogliosi dei miei progressi scolastici. A nessuno è mai importato di ciò che io guadagnavo, giorno dopo giorno, fatica dopo fatica».
    Molly osservava il volto del figlio come se non riuscisse nemmeno a riconoscerlo. Sembrava che ogni sua parola le stesse dilaniando il petto e le guance rotonde erano rigate da lacrime silenziose.
    «
    Percy... non è vero».

    Percy non aveva occhi che per il padre.
    «E ora, proprio quando vengo a dirti che sono il più giovane assistente al Ministro che si sia mai visto, che davanti a me si apre una carriera straordinaria come mai nessuno di questa famiglia ha potuto vantare... tu mi dici che non lo merito».
    Stremato, Arthur si passò le mani sul volto. Le sue spalle erano incurvate in una linea rassegnata e sconfitta.
    «Ti sbagli. Non hai la minima idea di quanto io e tua madre siamo orgogliosi di te» mormorò piano. «Tu sei un ragazzo straordinario, Percy, ma ti stai lasciando accecare dall'ambizione. Non riesci a valutare con razionalità cosa davvero sta accadendo. Il ritorno di Tu-Sai-Chi ha messo il professor Silente nella condizione di--».
    «Chi lo dice?» lo interruppe il figlio. «Silente? Harry Potter? Nessuno lo ha visto davvero tornare».
    Arthur rimase impietrito e sgranò gli occhi.
    «Percy...» lo chiamò di nuovo Molly, avvicinandosi a lui e cercando di stringerli il braccio sinistro. Il ragazzo si levò in fretta dal suo tocco e la donna trasalì come se avesse brandito una frusta contro di lei. «Percy, per l'amore del cielo... come puoi anche solo pensarlo? Conosci Harry. Come ti viene in mente che--».
    «Girano voci al Ministero che--».
    «Voci ridicole!» gridò d'istinto Arthur, picchiando con forza il pugno sul tavolo. «Sciocchezze! Cialtronate! Sussurri sciocchi di gente ancora più sciocca! Sai cosa davvero mi deluderebbe di te, Percy? Vederti chiudere gli occhi davanti alla realtà per la brama di gloria. Vedere uno dei miei figli lasciarsi corrompere dalla doppiezza e dall'ambizione... ecco, Percy. Questo mi deluderebbe».
    Percy conficcò i denti nel labbro inferiore e si raddrizzò gli occhiali con un gesto di stizza.
    «Appoggiare Silente ora getterebbe la nostra famiglia ancora più nel ridicolo».
    Un silenzio di ghiaccio piombò nella piccola cucina della Tana. Molly trattenne il fiato e si coprì la bocca con entrambe le mani, soffocando a stento un lungo gemito. Arthur si alzò di scatto, rovesciò la sedia e fissò il volto del figlio con sguardo di fuoco.

    «Non osare ripeterlo».
    Il ragazzo deglutì a fatica. Agli angoli dei suoi occhi si stavano formando due piccole lacrime.
    «È colpa
    tua se siamo sempre stati poveri, papà. Solo colpa tua».

    Molly si lasciò cadere su una sedia, affondò le mani fra i capelli e scoppiò in un pianto disperato, mentre suo marito e suo figlio iniziavano a gridare con furia l'uno contro l'altro.
    «Io ho fatto
    di tutto per questa famiglia!».

    «Non hai mai fatto abbastanza! Indossiamo abiti dismessi, compriamo libri di seconda mano... e tutto perché tu sei sempre stato più interessato a quegli stupidi Babbani che alla tua carriera al Ministero!».
    «Hai sempre avuto lenzuola pulite, un piatto caldo in tavola e una famiglia che ti ha sempre amato! Con quale coraggio ora vieni a recriminare tutto ciò che abbiamo fatto per voi!?».
    «P-papà? P-Percy?».

    Arthur e Percy sobbalzarono contemporaneamente. Ginny era acciambellata sui gradini delle scale a chiocciola che portavano al piano di sopra con aria sconvolta. Alle sue spalle, Ron fissava i propri genitori con le orecchie rosse e un'espressione imbarazzata. Fred e George fissavano seri il fratello più grande, con le labbra serrate in una rigida linea severa. Percy rivolse a tutti e quattro un'occhiata distratta e alzò le mani in segno di resa.
    «Bene. Se questo è tutto...».

    «Non è tutto» tentò di fermarlo Arthur.
    «Sì, papà. Fidati. È tutto» ribatté in un sussurro penoso. «Io me ne vado».


    Aveva temuto di aver commesso un errore di cui si sarebbe pentito non appena si era Materializzato lontano dalla Tana con le sue poche cose infilate alla rinfusa nel vecchio baule, ma era stato bravo a convincersi di avere ragione. Se lo era ripetuto per mesi, per anni, ma quando lo aveva capito non aveva più trovato il coraggio di tornare indietro.
    Odiava il Ministero.

    «Weasley» lo chiamò perentorio O'Tusoe, affacciandosi nel suo minuscolo ufficio con una smorfia annoiata.
    «Sì, signore?».
    Odiava essere costretto a rivolgersi a loro con la parola “signore”. Non c'era nessun signore al Ministero. C'erano rimasti solo i porci, i cani e tutti quegli idioti come lui che continuavano a seguirli. Odiava ogni cosa, dal calamaio alla seggiola scomoda. Odiava quella dannata fontana nuova, odiava il suo lavoro, il suo monolocale, i suoi bei vestiti costosi. Odiava rincasare a tarda notte in una camera vuota e silenziosa, dove il rimbombo di ciò che aveva fatto quel giorno lo accusava fino all'alba.
    «È arrivata una nuova lista di Nati Babbani per i quali occorre un mandato di arresto immediato».
    «Sì, signore».
    O'Tusoe gettò un rotolo di pergamena sigillato fra le scartoffie che riempivano la scrivania di Percy. Il ragazzo la dispiegò senza battere ciglio.
    «Ne ho bisogno entro l'ora di pranzo».
    «Sì, signore».
    Il Ministro della Magia si fermò sull'uscio e gli rivolse un'occhiata inquisitoria. Poi le sue labbra si storsero in un sogghigno fastidioso.
    «Sei un bravo ragazzo, Weasley. Farai carriera in fretta».
    Percy annuì brevemente. Le dita strinsero con più forza la pergamena giallastra.
    «È un onore, signore».

    Quando O'Tusoe si fu richiuso la porta alle spalle, Percy esalò un lungo sospiro affranto e affondò il viso nelle mani. Poi rilesse nuovamente la lista, e poi ancora e ancora, fin quando non ebbe memorizzato ognuno di quei nomi.
    Sarebbe stata una lunga nottata: quella volta i Nati Babbani che avrebbe dovuto avvertire del pericolo erano più del solito.

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Capitolo 20
*** Arthur/Molly, Hannah, Percy, Lucius/Narcissa ***


Altre drabble scritte a caso in momenti a caso. Ehm... la maggior parte dei prompt sono sicuramente di Ferao. Almeno un altro paio credo di averli pescati a caso. Non ne sono sicura, ma tant'è... (:



*
«But I, being poor, have only my dreams».
ArthurxMolly
114 parole

Stringe le sue piccole mani paffute fra le proprie in una morsa disperata, china il capo e lo ripete di nuovo:
«Non ce la faremo mai. Non ce la possiamo fare».
Le dita di Molly si intrecciano attorno alle sue e i suoi occhi gentili cercano il suo sguardo, ma Arthur la ignora. Continua a guardare il pavimento, prega che possa aprirsi una voragine in grado di inghiottire la sua vergogna.
«Arthur...».
«Mi dispiace, Molly».
«Arthur...».
«Non meriti questa casa disastrata».
La giovane donna arriccia le labbra in un sorriso triste, scuote con decisione la testa e lo costringe ad appoggiare la mano destra sul ventre sempre più rotondo.
«La mia casa sei tu».


*
Affrontare i propri amici
Hannah Abbott
248 parole

«Non posso farlo».
Hannah conosce bene la sensazione di essere sola in mezzo a una folla, eppure quella volta è tutto un po' più diverso e annebbiato. Susan le rivolge un'occhiata mesta. Ernie inclina deluso la testa. Justin sospira affranto e mostra i palmi in segno di resa.
E Hannah risponde ai loro sguardi – gli sguardi dei suoi amici, dei suoi migliori amici – ma nella testa non c'è altro che il vuoto rimbombo delle campane che avevano suonato durante il funerale di sua madre.
Cenere alla cenere.
«Longbottom è pazzo se pensa di poter resistere da solo ai Mangiamorte».
«Non sarà solo, se ci uniremo a lui».
Polvere alla polvere.
Hannah resta a torcersi le dita fino quando le fiamme del camino non si spengono. La sala comune è ormai deserta, le luci deboli, l'aria pesante. Stringe le ginocchia al petto e soffoca un gemito di paura.
Non può farlo.

Il giorno successivo Vincent Tiger solleva la bacchetta su una ragazzina di nome Hester. Ha undici anni, due buffe trecce castane e i denti un po' sporgenti. Ha undici anni, è al suo primo anno a Hogwarts – e quella è Hogwarts.
Le sue grida riempiono il corridoio del terzo piano e fanno male.

Hannah chiude gli occhi.
Cenere alla cenere.
La paura le ha inaridito la gola – ma Hester strilla ancora nella sua testa, e Vincent ride, e quella è Hogwarts, ed è tutto un'eco di urla e campane a lutto...
«Stupeficium!».
Non può farlo.
Polvere alla polvere.
Lo fa lo stesso.


*
Scala reale
Percy Weasley
179 parole

Bill era l'asso – era quello che vinceva sempre.
È ancora al Ministero quando lo scopre. Lavora fino a tardi, lavora perché spera di dimenticare un sacco di cose che in realtà non vuole dimenticare.
Charlie era il re – era quello che comandava.
La notizia è una bomba che gli esplode nel petto, nelle viscere, nella testa. La battaglia sta per iniziare – ed è a Hogwarts, è là che si deciderà il loro futuro.
Fred e George erano fante e cavallo – erano quelli che non stavano fermi.
Si alza in piedi di scatto. Ha l'indice sporco di inchiostro e rotoli di pergamena sparsi davanti agli occhi.
Ginny era la regina – era quella decisiva.
«A Hogwarts! A Hogwarts!» gridano fuori dal suo ufficio. Percy serra le palpebre – e c'è la Tana nella sua mente, c'è l'odore di sua madre e il sorriso di suo padre, c'è una fotografia scattata ai piedi di una piramide.
Ron è il Jolly – Ron vale più di tutti loro.
Percy stringe la bacchetta.
La scala non è ancora reale.


*
Fear of the Dark, Iron Maiden
LuciusxNarcissa
184 parole

«Andrai anche questa notte?».
Lucius si ferma in mezzo al corridoio. La luce delle torce danza sugli antichi arazzi di Malfoy Manor in decine di arabesche serpentine. Le guarda, ma non le vede sul serio: riconosce solo le lingue di fuoco che lambiscono i nobili stendardi della sua famiglia e sembrano bruciare, mangiare, divorare.
E Narcissa è lì nell'ombra alle sue spalle, dove luce e fuoco non possono arrivare – dove il Marchio Nero che dilania il suo avambraccio non si potrebbe nemmeno scorgere.
«È il mio dovere. Gli ho giurato fedeltà».
La piccola mano candida della moglie si appoggia alla sua schiena. Le sue unghie artigliano con disperazione la stoffa nera del suo mantello.
«Non andare... ti prego, resta qui».
Lucius stringe gli occhi, trattiene il fiato e ogni cosa esplode nuovamente davanti alle palpebre chiuse. Non c'è più luce: ci sono solo alte figure incappucciate, e grida, e strilla, e un ordine perentorio al quale non può sfuggire.
«Qui sei al sicuro».
Dalla gola di Narcissa non risale che un gemito sommesso.
«Di' agli elfi di spegnere le torce».
Nasconditi nel buio.




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Capitolo 21
*** Me lo devi - Remus Lupin, John Dawlish ***


Scritta in occasione del Prompts Day indetto da Pseudopolis Yard.


*
Me lo devi
Remus Lupin, John Dawlish (RemusxTonks)
1605 parole


Non voleva farlo.
Se lo era detto fin dal principio, fin da quando Silente gli aveva rivolto quella folle richiesta – e forse perfino prima, mentre risaliva le scale a chiocciola che conducevano al suo ufficio e una parte di lui aveva già amaramente intuito a cosa stesse andando incontro. Non voleva farlo, eppure aveva acconsentito per mettere a tacere quell'altra parte di sé, quella più insistente e febbrile, quella che continuava a ribadire: “È il tuo compito. È il tuo dovere. Non può farlo nessun altro”.
Aveva realizzato ciò che davvero aveva acconsentito a fare solo una volta che l'imponente profilo di Hogwarts fu svanito nella nebbia del villaggio di Hogsmeade.
A quell'ora tarda della sera la strada principale era solitamente deserta, ma ora che il ritorno di Lord Voldemort aveva gettato la comunità magica nel terrore Remus non si aspettava di imbattersi in qualche passante nemmeno sotto la luce del sole.
Davanti alla porta dei Tre Manici di Scopa si ergeva tuttavia una figura ben piantata, con le spalle larghe e il petto prominente. Attraverso le ampie finestre, le fiaccole che illuminavano l'interno del pub facevano apparire la sua lunga ombra sul ciottolato come un piccolo gigante. Remus riconobbe immediatamente il cappello tipico degli Auror e alzò d'impulso il bavero del logoro mantello per nascondere il volto.
Nel corso degli ultimi sedici anni, la lista degli Auror che gli avevano dato delle noie si era preoccupantemente allungata. Remus non gliene faceva una colpa: era il loro mestiere, quello, e nonostante la protezione di Silente lui restava comunque un licantropo, eppure sembravano tutti convinti che lui non avesse il minimo diritto di difendersi. Eppure a Remus bastava stare tranquillo. Era una caratteristica che Sirius non aveva mai spesso di prendere in giro.
«Non fate arrabbiare il Lupo Mannaro!» informava con voce professionale. «L'ho visto mordere la gamba di un tavolo, signori, e vi assicuro che è pericolosissimo».
Remus inghiottì un fastidioso groppo in gola in al ricordo della risata scanzonata di Sirius – al pensiero di Sirius che voleva combattere, di Sirius che rideva ancora e ancora, e poi finiva oltre quel dannato Velo – e infilò entrambe le mani nelle tasche. Non voleva pensarci.
«Ehi, tu!» lo chiamò l'Auror fermo davanti ai Tre Manici di Scopa.
Remus si bloccò e soffiò un'imprecazione fra i denti. Non era decisamente il momento più adatto. Alzò appena la testa verso di lui e gli rivolse un'occhiata interrogativa.
Di norma Remus evitava sempre di lasciarsi influenzare dalle prime impressioni. L'esperienza gli aveva insegnato che nessuna prima impressione è mai ben stesa, ma il suo cervello etichettò quello sconosciuto come “idiota” in pochi istanti. Quando l'uomo si mosse verso di lui, Remus riuscì a vederlo in viso e non si trattenne dal sospirare infastidito. “Dawlish...” si lamentò fra sé. “Buon Dio, perché metti tutti gli idioti sulla mia strada?”.
Prima di diventare Auror, John Dawlish era stato Prefetto di Corvonero. Divenne Caposcuola nello stesso anno in cui Silente fece l'errore di dare a Remus l'onere di essere il Prefetto di Grifondoro. Coperti da lui, gli scherzi di James e Sirius non fecero che raddoppiare di numero e spettacolarità: un po' per quello e un po' per mancanza di umorismo, Dawlish non aveva mai tollerato nessuno dei Malandrini.
A questo si aggiungeva il fatto che Remus lo avesse preso a pugni solo cinque anni più tardi, quando sotto le direttive di Barty Crouch Dawlish aveva bloccato tutte le uscite dal porto di Exeter per chiudere la fuga i Mangiamorte. Nessuno aveva dato peso alla presenza di venticinque marinai Babbani che scaricavano un mercantile arrivato da Copenaghen e nessuno di loro era sopravvissuto.
Avevamo il dovere di eliminare i Mangiamorte” si era scusato con irritante pedanteria Dawlish. “La sicurezza del mondo magico non è sacrificabile quanto qualche Babbano”.
E Remus lo aveva preso a pugni. Aveva provato una soddisfazione animalesca nel sentire il setto nasale dell'Auror sbriciolarsi sotto le sue nocche. Aveva scampato Azkaban solo per il pronto intervento di Moody, ma quello era rimasto uno dei pochi scatti d'ira che non aveva mai rimpianto.
«Il villaggio è protetto dal Quartier Generale degli Auror» lo informò Dawlish.
Remus roteò gli occhi.
«Se mai dovessi vedere qualche losca figura intenta a torturare Mezzosangue, non esiterò ad avvertirla».
Dawlish si avvicinò fino a qualche metro da lui e la sua bocca si aprì in un'esclamazione di ridicola sorpresa. Fu questione di un istante prima che l'Auror si riscuotesse dallo stupore e riprendesse il suo contegno professionale.
«Remus Lupin». Pronunciò il suo nome come se fosse un'offesa tremenda. «Non hai il permesso di girovagare per Hogsmeade».
«Non ero stato informato di questa ristrettezza nei miei spostamenti...» replicò blandamente Remus, fingendo di sistemare un filo dell'orlo sdrucito del mantello.
«È stato pubblicato sulla Gazzetta del Profeta».
«Davvero? Deve essermi sfuggito l'articolo. Quello sulla famiglia di Birmingham che avete rinchiuso ad Azkaban era prima o dopo?».
La faccia lunga di Dawlish divenne talmente rossa che Remus riuscì a vederla nonostante il sole fosse ormai tramontato. Inclinò appena il capo e scrutò l'uomo con palese disgusto attraverso un ciuffo ingrigito di capelli.
«Il giornalista di quell'articolo era stato erroneamente informato».
«Hai ragione. Ora che ci penso, credo fossero di Manchester».
«Stammi a sentire, Lupin...» ringhiò nervosamente Dawlish, sistemando il distintivo del Ministero con un gesto isterico. «Non hai alcun diritto di giudicare l'operato del Ministero. Se solo Silente non--».
«Sì, sì, sì...» lo liquidò annoiato Remus. «Io starei già marcendo in una cella di Azkaban, certo. Suvvia, un Auror del tuo calibro non riesce a dirmi qualcosa che io già non sappia?».
Non era certo del motivo per il quale stesse continuando a stuzzicare quell'idiota. Forse aveva solo bisogno di distrarsi, forse voleva lasciarsi alle spalle l'amara consapevolezza di ciò che lo attendeva l'indomani – quel conto alla rovescia con Fenrir Greyback lo stava torturando – forse ero tediato, forse era solo arrabbiato un po' con tutti e un po' con nessuno, e Dawlish gli era capitato semplicemente fra capo e collo.
«Se Silente...».
«Se Silente fosse stato ascoltato un anno fa» lo interruppe in un soffio furioso Remus, «ora avremmo un anno di vantaggio su Lord Voldemort». Si compiacque del tremito di paura che il nome del mago aveva causato in Dawlish. “Che idiota. Tonks ha la metà dei suoi anni e già lo pronuncia senza battere ciglio”.
«Voi altri dovreste mettervi in testa che non è Silente a dettare le regole».
«No, ma sarebbe vostro dovere far rispettare quelle che già sono state dettate. Buon Dio, Stan Picchetto non ha avuto nemmeno un processo. Nessuno si è accertato della possibilità che fosse sotto l'effetto della Maledizione Imperio, che qualche Mangiamorte stesse minacciando la sua famiglia... niente del genere, come sempre. Non fate niente fino a quando non è troppo tardi. Talvolta mi chiedo da quale fronte stiate combattendo».
Visibilmente innervosito, Dawlish si allungò verso di lui con aria intimidatoria. Era alto quasi quanto Remus e largo il doppio, ma non sortì l'effetto sperato.
«Potrei farti arrestare per questo».
Le labbra di Remus si piegarono in un sorriso affabile, ma nei suoi occhi riluceva una luce di sfida che lo fece apparire di poco differente dal sedicenne Malandrino che era stato un tempo.
«Potresti» sibilò fra i denti. «Ma sai bene che non ce la faresti».
Fra le sopracciglia di Dawlish comparve una ruga sottile. “Lo sa perfettamente” si disse Remus. “Ho vinto più battaglie di qualunque Auror del Ministero”. L'uomo accusò il colpo e fece un profondo respiro. Poi replicò con più malignità:
«Tu non sei un mago. Non sei nemmeno umano».
Remus scoppiò in una risata priva di allegria.
«Eppure mi devi la vita, Dawlish: quel bel cappello da idiota che ti hanno messo in testa te l'ha fatto scordare?».
A giudicare dal tremito della sua bocca, Dawlish non lo aveva affatto dimenticato. Era il 1976 e se non fosse stato per il repentino intervento dell'Ordine della Fenice la sua squadra sarebbe stata decimata. E Remus gli aveva parato le spalle: rapido e silenzioso, senza chiedere niente a nessuno. Lo aveva fatto e basta. Forse era quello il motivo dell'astio di Dawlish. O forse era un individuo infinitamente più semplice, come temeva Remus, è il solo motivo era il fatto che a salvarlo fosse stato un dannato Lupo Mannaro.
Dawlish stava per replicare, ma venne interrotto da una voce squillante che proveniva da una delle finestre del secondo piano dei Tre Manici di Scopa.
«John, va tutto... Remus?».
Remus sollevò lo sguardo giusto in tempo per vedere il profilo stupefatto del volto di Tonks affacciarsi al davanzale. Lei si passò una mano fra i capelli rosa cicca e si aprì in un largo sorriso. Non aggiunse altro e svanì all'interno – a Remus parve quasi di sentire i suoi passi scendere di corsa le scale per raggiungerlo in strada.
Dawlish rimase a contemplare per qualche istante la sua espressione improvvisamente distratta. Sorrise beffardo e disse:
«Lei è un'Auror. Non ha niente che ti dovrebbe interessare».
Il sottinteso era fin troppo evidente perché Remus non lo cogliesse.
«E tu sei un incapace» replicò duramente. «Ma se le succede qualcosa e tu non muori nel tentativo di salvarla, giuro sul mio onore che sarò io ad ammazzare te».
«Non permetterti di--».
Remus lo afferrò per il colletto della camicia con uno scatto incredibilmente veloce. Nei suoi occhi brillava una luce pericolosa – ferina, brutale.
«Me lo devi» lo minacciò in un mormorio roco. «Tienilo a mente».
Svanì in un vicolo secondario prima ancora che Tonks varcasse la porta d'ingresso.

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Capitolo 22
*** Piove sempre sull'estate - Albus/Gellert ***


Scritta in occasione del Summer Writing Day indetto da 24hours-of-fun. Il prompt scelto era il #12, «Arriverà l'estate anche per te, è solo una questione di stagioni e di tempo. O di persone», Odissea.
Dedicata a emme, perché sotto sotto gliela regalerei sul serio, l'anima. (:
*Meine
Güte dovrebbe significare "vecchio mio" in tedesco, ma io sempre fatto talmente schifo in lingue che non ci giurerei. Se qualcuno è più ferrato di me in tedesco, ben venga qualunque consiglio. 

*

Piove sempre sull'estate
AlbusxGellert
1875 parole


Fra le milioni di cose delle quali Albus Silente non aveva mai fatto parola con nessuno, c'era anche un vago senso di disagio in prossimità dell'arrivo della stagione autunnale.
Ne aveva sempre amato i colori, le prime concilianti brezze fredde che giungevano dal nord, e non di meno traeva soddisfazione dal poter finalmente rispolverare i suoi calzettoni di lana dopo l'afa estiva.
Eppure si ritrovava spesso a scrutare il cielo di piombo che anticipava le prime piogge, e quando scoppiavano i primi temporali restava per ore intere in piedi davanti alle alte finestre del proprio ufficio, osservando il lento scivolare delle gocce sul vetro e ascoltando il loro ritmato ticchettio.
Lo si sarebbe detto perso in complessi e geniali ragionamenti quali erano solitamente i ragionamenti di un uomo complesso e geniale quanto lui, ma non era vero: Silente ricordava solo autunni e piogge di molti anni prima – di secoli prima, di intere vite prima – quando i suoi capelli non erano ancora bianchi e la sua barba era molto più corta e aveva il colore rossiccio delle ultime foglie.
Con le lunghe dita intrecciate dietro le schiena, guardava la pioggia infrangersi sulle acque grige del Lago Nero senza vederla realmente. Nei suoi occhi c'era solo quella Germania dai colori di piombo dell'autunno inglese, ma più freddi, così freddi da far male fin dentro le ossa. Fin sotto le vene, oltre al cuore, nella profondità del suo animo complesso e geniale, proprio dove aveva sepolto tanto faticosamente il ricordo di Gellert.
Gellert non aveva la barba del color delle foglie che muoiono... oh, no. Lui aveva i riccioli come il grano d'estate e gli occhi limpidi quanto un cielo terso dalle nuvole. Aveva il sorriso di una giornata di sole trascorsa sotto le fronde di una vecchia quercia di Godric's Hollow, aveva la risata frizzante e vivace delle capinere che cantavano fra i rami. In quel ricordo c'era il retrogusto di un'estate che Silente aveva creduto interminabile, immortale, incancellabile.
«Essere giovani... quale dolce supplizio» si ripeteva spesso. Poiché con la leggerezza di poche decine di anni sulle spalle si è più forti e sciocchi, si è più liberi e più infelici – o forse no, forse si era solo un po' più prigionieri e un poco più felici.
L'autunno era grigio come la Germania del 1945, era rosso come un tempo lo era stata la sua barba e pioveva, pioveva... buon Dio, quanto pioveva quel giorno.

*

Germania, 1945

Albus si rigirò la bacchetta fra le mani con un'espressione imperscrutabile sul volto. La bacchetta di Sambuco, si disse. La più potente bacchetta mai creata. L'impugnatura era ancora tiepida per il lungo contatto con la mano salda di Gellert – bianca e liscia e delicata – ma fra le dita di Albus sembrava scottare. Ne sfiorò distratto la sagoma raffinata prima di sollevare gli occhi sull'altro uomo, ancora in ginocchio a pochi metri da lui, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il capo chino e il volto pallido nascosto dai capelli biondi che la pioggia aveva schiacciato sulla fronte.
Biondi come il grano d'estate.
«Dà una bella sensazione, non è vero, meine Güte*?» mormorò fra i denti Gellert in un inglese dal suono metallico, sollevando il viso di pochissimi centimetri.
Aveva perso e lo sapeva.
Di fronte a qualsiasi altro nemico, Albus avrebbe atteso che tentasse di fuggire, di attaccarlo disperatamente in un'ultima inutile difesa, ma Gellert non era un nemico qualsiasi. Non lo era mai stato. Se ne restava lì, in mezzo a ciò che restava del grigio cortile interno di Nurmengard, con la pioggia che scrosciava inesorabile fra le macerie fumanti e le grate di ferro abbattute. Attendeva paziente che gli Auror giunti dall'Inghilterra con Albus arrivassero a prenderlo.
Ha perso, ripeté Albus. E lo sa. Sa che io avrei fatto lo stesso. Ma non era Albus Silente, quello sconfitto. Non era lui, quello in ginocchio. Lui era solo il possessore di una bacchetta demoniaca.
«È pesante» constatò amaramente Albus mentre scostava dal volto i capelli fradici.
«È straordinaria».
«Mi chiedo come tu abbia potuto sopportarne lo straordinario peso per tutti questi anni».
Gellert inclinò appena il capo. Sulle sulle labbra comparve un vago sogghigno divertito.
«Meine Güte... io sono sempre stato un mago straordinario».
È vero, ammise a se stesso Albus. Ma a quale prezzo?
«Che ne farai, ora?» incalzò Gellert. «Ci si aspetta che un uomo della tua elevatezza di spirito la distrugga. La disintegri. Potresti perfino convincere tutti i maghi e le streghe del pianeta che non è mai esistita alcuna bacchetta di Sambuco. Potresti davvero, Albus. Ho visto uomini e donne credere a bugie ben più inverosimili e tu...». Rise beffardo e scosse appena la testa. «Oh, tu sei un bugiardo straordinario».
Anche questo è vero.
«Ti sei mai domando se sia valsa la pena di essere tanto straordinari? Maghi o bugiardi, non importa, ma tu dimmi, Gellert... credi davvero ne valga la pena?».
Lo sguardo di Gellert brillò di beffarda malizia. Schioccò la lingua e rispose:
«Ne vale completamente la pena, ma non credo riuscirai mai a capirlo. Non sei mai stato un mago straordinario come tutti credono. Guardati, meine Güte... cosa vedi?».
Albus cercò di farsi scivolare addosso quella pesante accusa, ma le parole di Gellert si erano già insinuate in profondità e stavano scavando attraverso ognuna delle sue misere sicurezza. Oh, quanto aveva ragione, quanto... eppure non aveva intenzione di arretrare, non aveva intenzione di lasciarlo vincere.
Non quella volta.
«Vedo che stringo fra le mani la bacchetta che tu hai inseguito per tutta la vita. E la vedo pesante, Gellert, non straordinaria. Poi vedo te. E non sei tu, quello che vedo in piedi, perciò...». Sospirò amaramente e aggiunse: «Continuerò a credere che non ne valga davvero la pena».
Per diversi secondi, l'unico rumore fu quello della pioggia che cadeva su di loro e attorno a loro, dell'acqua che sgorgava dalle tubature esplose e si concentrava in fredde pozzanghere. Ed erano grige anche loro, così com'era grigio il cielo e l'aria e Nurmengard, e agli occhi di Albus perfino loro due erano diventati grigi.
C'era il sole, una volta. C'era il sole e guardavamo l'estate all'ombra di una quercia troppo più grande di noi.
La risata di Gellert parve l'imitazione di un centinaio di calici di vetro che s'infrangono a terra. Limpida e cristallina, impietosa e tagliente. Albus serrò d'istinto le palpebre mentre nella sua mente Gellert scoppiava in una risata ben diversa. Era il cinguettio delle capinere, era il suono dell'estate che non avrebbe mai dovuto terminare.
«Un giorno, a molti giorni da questo giorno, ti volterai indietro, Albus, e sai cosa vedrai davvero? Non me in ginocchio. Non te in piedi. Oh, no... se davvero vedessi solo questo, meine Güte, sarebbe un affronto tremendo a entrambi. Sarebbe un affronto alla tua stessa intelligenza, e tu non sei mai stato un uomo stupido. Insensato, forse, ma mai stupido. Vuoi sapere cosa vedrai quel giorno?».
No, si rispose d'istinto Albus.
«Vedrai solo il tempo trascorso fra oggi e quel giorno, quel giorno in cui capirai di non essere mai diventato la persona straordinaria che saresti potuto diventare. Vedrai interi mesi, Albus, interi anni... centinaia di stagioni si susseguiranno una dopo l'altra nello stesso modo, e ognuna peserà sulle tue spalle un po' più della precedente, fin quando non resterai curvo e piegato al malefico trascorrere della vita. E poi, meine Güte, dopo infiniti gelidi autunni e infinite sterili primavere... ecco che arriverà il tuo inverno, secco e silenzioso, e ti chiederai come un uomo geniale quanto te abbia potuto commettere tutte quelle scelte sbagliate senza nemmeno rendersene conto. E forse la comunità magica rimpiangerà la tua perdita – ma è certo che lo farà, è suo dovere – e chissà, con un po' di fortuna qualcuno di quegli idioti potrebbe perfino rimpiangerti con sincero affetto... ma tu, Albus, rimpiangerai te stesso più di tutti loro».
Albus abbassò lo sguardo e studiò per l'ennesima volta la bacchetta di Sambuco. Poi arrangiò un sorriso di vaga timidezza appena percettibile – ma Gellert lo aveva visto: Gellert aveva sempre visto i suoi sorrisi.
«Hai sicuramente ragione sulla prima parte» confessò in tono affabile. «E potresti aver ragione sulla seconda. La fine giunge per tutti, prima o poi, e l'inverno non è che uno dei tanti passaggi che la vita ci regala. E sì, potrei avere la fortuna di essere rimpianto e la sfortuna di rimpiangere... chi può dirlo? Per quanto discutibilmente straordinari, né io né te possiamo affermarlo con sicurezza. Posso solo conoscere cosa rimpiango ora, in questo giorno al quale ripenserò in un altro giorno fra molti anni, o magari domani... chi può essere certo anche di questo?» aggiunse con un punta di velata tristezza. «E se anche fosse domani, non importa. Fra oggi e domani o fra oggi e la mia morte, amico mio, a me parrà comunque di aver vissuto troppo poco e troppo in fretta, e il mio ricordo di quest'oggi sarà come l'autunno che scaccia l'estate. Triste e malinconico... e, ahimè, naturale. Ed è questo, alla fine, che rimpiangerò, Gellert: che nulla di quel tempo felice sia durato abbastanza. E tu svanirai con il trascorrere delle stagioni, Gellert, anno dopo anno, inverno dopo inverno... fino a quando di te non mi resterà che il dolce ricordo dell'estate che trascorremmo a Godric's Hollow». Sentiva gli occhi bruciare di lacrime che non desiderava mostrare, così fece un respiro profondo e finse di asciugarsi il volto dalla pioggia. «È stata una bella estate, quella».
Gellert si morse il labbro inferiore e agitò la testa con un improvviso moto di stizza. Dall'esterno delle imponenti mura di Nurmengard si levava già il caotico e distante gridare degli Auror.
«L'estate è sempre bella, meine Güte» commentò amaramente. «Ma è una stagione per i giovani e gli stolti... e noi non lo siamo mai stati».
«Giovani o stolti?».
«Forse entrambi. Ti interessa davvero?».
Albus sorrise e scrollò vagamente le spalle.
«Forse un giorno avrò il coraggio di chiedermi cosa ne è stato di quell'estate e mi interesserà saperlo. Chi può dirlo?».
Gellert arrangiò un sogghigno stentato che ad Albus parve quasi un perduto gesto d'affetto e gli mostrò teatralmente i palmi delle mani.
«Albus... non prenderti gioco di me. È certo che lo farai...» rispose lentamente. «Te lo chiederai fin quando non arriverà l'inverno, e un uomo intelligente come te potrebbe perfino sperare di trovare una risposta che forse non esiste nemmeno. E se mai dovessi trovarla...». Sorrise con più genuinità, mostrandogli per un istante fulmineo lo spirito del bel giovane ambizioso che era stato in un'estate di molto anni prima. «Oh, meine Güte... promettimi che dirai anche a me cosa ne è stato».

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Capitolo 23
*** I want much more - Tonks ***


Scritta per la Settimana Tematica indetta dal forum di Pseudopolis Yard. La canzone è il reprise originale di «Little town», la prima canzone del cartone animato della Bella e la Bestia.
Eh, oggi ero un po' nostalgica. (:
Nota: So che nei libri non viene mai detto che Tonks fosse una studentessa particolarmente brillante (sappiamo solo che non eccelleva in condotta), ma io sono dell'idea che deve esserlo stato per forza. È diventata un'Auror e ha preso un G.U.F.O. Eccezionale in Pozioni con Piton come professoressa... insomma, non è roba da poco.



*
I want much more
Ninfadora Tonks, Pomona Sprite
1793 parole


I want much more than this provincial life.
I want adventure in the great wide somewhere.
I want it more the life can tell.
And for once it might be grand
To have someone understand.
I want so much more then they've got planned.
(Little town, Beauty and the Beast)


Edward uscì dall'ufficio della professoressa Sprite con un'espressione raggiante e un volantino violetto ben stretto fra le mani grassocce. Tonks sollevò lo sguardo dal fumetto di The Hulk che le aveva recapitato il gufo del padre quella mattina e gli rivolse un'occhiata curiosa.
«Com'è andata, Eddie?».
«Fantastico!» esclamò con entusiasmo il ragazzo. «Crede che io abbia tutte le qualità necessarie a un buon Guaritore!». Si incupì improvvisamente e aggiunse con più amarezza: «Certo... ha anche detto che devo migliorare i miei voti in Pozioni...».
«Possiamo studiare insieme, se ti va» propose lei con una vaga scrollata di spalle. «Devo alzare anch'io la media».
Le folte sopracciglia di Edward schizzarono verso l'alto.
«Tu? Ma sei la più brava della nostra classe! Sei l'unica ad aver preso Oltre Ogni Previsione nella Pozione Sonnolungo».
«Già...». Si alzò in piedi, infilò il fumetto nella tracolla e si ravvivò distratta i capelli turchesi. «Ma non mi basterà».
«Non ti basterà... per cosa?».
«Ninfadora?» la chiamò la professoressa dall'interno della stanza. «Sei già lì fuori o sei di nuovo in ritardo?».
Tonks fece un occhiolino fugace all'amico e si intrufolò nell'ufficio della Direttrice di Tassorosso. Era stata in quell'ufficio così tante volte che le veniva ormai naturale accomodarsi mollemente davanti alla scrivania della professoressa. Gettò la tracolla ai piedi della sedia, si sedette e si appoggiò entrambi i gomiti sul bordo con un espressione birichina.
«Auror».
La paffuta professoressa parve non capire immediatamente. Rimase a scrutarla con le labbra appena dischiuse. Poi iniziò a scuotere il capo e le mostrò entrambi i palmi.
«A-Auror? Tu vuoi... Ninfadora, può ripetere?».
«Tonks, signora» la corresse con leggerezza. «E voglio diventare un'Auror».
«Un'Auror...».
Tonks annuì raggiante.
«Deve essere un lavoro stratosferico! Riesce a immaginarlo? Duelli all'ultimo sangue, temibili Maghi Oscuri, feroci creature assassine, imprese eroiche in ogni angolo del paese... potrei perfino lavorare al fianco di Alastor Moody!».
«Io e Alastor eravamo a scuola insieme...» commentò pensierosa la Sprite. «Ed era folle già allora».
«È il più grande Auror di tutti i tempi!» protestò piccata la ragazza. «Professoressa, io--».
«È una carriera dura» la fermò con una punta di velata preoccupazione. «Dura e insidiosa. Senza contare il fatto che diventare un Auror non è facile: ammettono solo i migliori».
Sul volto di Tonks calò un'improvvisa ombra scura, ma i suoi occhi continuarono a brillare risoluti.
«Non mi ritiene all'altezza?».
«Oh, non ho detto questo...». Estrasse un opuscolo grigio da una piccola pila in un angolo della scrivania e se lo rigirò per qualche secondo fra le mani. «Sei una studentessa in gamba... e lo saresti molto di più, se solo ti comportassi meglio» aggiunse con un sorriso sghembo. «I tuoi voti sono sicuramente fra i migliori della tua classe, ma... mi chiedo se sei davvero sicura di questa scelta».
«Certo che lo sono. Sono secoli che mi preparo. Ho letto tutto ciò che ho trovato in biblioteca sulla Difesa contro le Arti Oscure, interi compendi sulle Creature Magiche più pericolose della Gran Bretagna... i miei voti in Trasfigurazione sono ottimi e sì, è vero, ha ragione, faccio un po' schifo a Incantesimi, ma solo perché il professor Vitious ultimamente sembra fissato con le magie domestiche, ed ecco, insomma...». Alzò gli occhi al cielo con aria eloquente. «Io faccio proprio schifo, in quelli. Dovrebbe vedere ciò che sa fare mia madre. Agita appena la bacchetta e puf! Mai visto calzini piegati meglio dei suoi».
La professoressa si lasciò andare a una blanda risatina sinceramente divertita. Fece un sospiro un po' rassegnato, guardò la propria studentessa con affetto e le porse l'opuscolo del Ministero della Magia.
«Quando ho detto che ammettono solo i migliori, intendevo davvero i migliori. La professoressa McGranitt è molto soddisfatta dal tuo rendimento in Trasfigurazione, e certo le tue personalissime doti come Metamorfomaga ti aiuterebbero molto... ma devi migliorare Incantesimi, con o senza i calzini. E...».
«Difesa contro le Arti Oscure?».
La Sprite annuì con un sorriso gentile.
«Ovviamente».
«Non avrò problemi. Sto studiando Difesa Applicata contro gli Artifici Oscuri, non--».
«Non è una lettura un po' troppo avanzata per i G.U.F.O.?».
Tonks si fermò di colpo. Fece un profondo respiro e intrecciò fra loro lei dita. La professoressa si stupì nel vedere il suo viso irrigidirsi in un'espressione insolitamente seria.
«Io voglio diventare un'Auror».
«Perché?» s'informò curiosamente. «Ho sempre saputo che avresti scelto una carriera d'azione, ecco, ma mai avrei immaginato che volessi diventare un'Auror».
«Io...». Per un attimo la giovane parve non avere una risposta sicura. «Voglio qualcosa di più. Non voglio.. non voglio finire come i miei genitori» Parve rendersi conto solo in quel momento di ciò che aveva detto, perché aggiunse rapidamente: «Oh, io li adoro, dico sul serio! Sono eccezionali, ma... viviamo in una bella villetta alla periferia di Londra, abbiamo un giardino curato, le tende sono sempre pulite... mia madre prepara i muffin a colazione e il pollo arrosto per il pranzo della domenica, passiamo le vacanze a Bath, e mio padre ha un rispettabile lavoro come tanti altri. Ed è tutto molto tranquillo, molto abitudinario, molto... noioso». Mise un accento particolarmente depresso sull'ultima parola. «Io voglio di più. Non voglio passare il resto della mia vita pulendo pavimenti o riordinando scartoffie in un ufficio. Voglio... l'avventura. Voglio esperienze nuove, voglio fare cose travolgenti, voglio fare qualcosa che possa cambiare il mondo». Scosse la testa con un improvviso sorriso imbarazzato. «Lei non ha mai pensato di aver fatto la scelta sbagliata?».
La professoressa Sprite sgranò sorpresa gli occhi.
«Oh, io... non credo. No» ripeté con più convinzione e un sorriso sereno. «Amo il mio lavoro, amo voi ragazzi... anche quelli che mi danno il tormento...». Tonks ridacchiò sotto i baffi. «Certo, devo ammettere che alla tua età non credevo sarei diventata un professoressa. Che resti fra me e te, eccezion fatta per Erbologia ero un disastro... ma sono felice di essere qui, oggi».
Tonks le rivolse un grande sorriso.
«È questo ciò che voglio. Poter arrivare un giorno a dire: “Sono felice di averlo fatto. Sono felice di aver rischiato”».
«Bisognerà fare qualcosa per la tua condotta...».
La ragazza fece una smorfia.
«Non guardarmi così, Ninfadora».
«Tonks. Il mio nome è Tonks».
La Sprite la ignorò con un bonario sogghigno divertito che le fece comparire due buffe fossette agli angoli della bocca.
«La condotta è molto importante al Quartier Generale degli Auror».
«Credevo fosse più importante arrestare i Maghi Oscuri».
«Sì. Quello e la condotta. E la tua non è delle migliori. Il professor Piton--».
«Oh, per la barba di Merlino!» esclamò con veemenza Tonks, appoggiando la fronte alla scrivania. «Quell'uomo mi odia».
«Non ti odia» la contraddisse la Sprite. Non ne era tuttavia sicura. «C'è da dire che tu non tieni mai a freno la lingua. E se davvero intendi diventare un'Auror... beh, il professor Piton accetta ai M.A.G.O. solo studenti con G.U.F.O. non inferiori a Eccezionale».
«Lo so...» mormorò triste la ragazza. «E io ho solo Oltre Ogni Previsione. E già per raggiungere quei voti ce la metto tutta ogni volta. Posso confessarle una cosa?».
«Certo».
«Io credo faccia apposta a non darmi Eccezionale. La mia Pozione Sonnolungo era perfetta. Perfetta, professoressa Sprite, dico sul serio. Ci mancava solo che ci sputassi dentro l'anima, giuro. Lo hanno detto tutti. Lo sapevano tutti, e lo sapeva anche Piton, e si è inventato dei difetti che non c'erano. Non mi ha mai potuto sopportare e non so perché. Io non gli ho mai fatto niente di male».
«Fargli diventare i capelli arancioni per te è “niente di male”?».
Al ricordo di quell'episodio, Tonks parve soffocare a stento una risata.
«Beh... lui aveva preso in giro i miei capelli» cercò di scusarsi. Era davvero poco credibile. «Ma fa lo stesso. Non mi sto lamentando, era solo... era solo per dire che mi odia. Ma prenderò Eccezionale ai G.U.F.O., che a lui piaccia o meno. E mi dovrà tenere per altri due anni, fino a quando non prenderò Eccezionale anche ai M.A.G.O.».
La sua ferrea sicurezza stava quasi per convincere anche la professoressa Sprite.
«E va bene. D'altronde mi sembri già piuttosto decisa».
«Non lo sono mai stata così tanto».
«Eh, ed è tutto un dire» ridacchiò leggermente la donna. «Sei sempre stata una tale testarda...».
Tonks incrociò le braccia dietro alla nuca e rise vivacemente. C'era qualcosa di frizzante nella sua risata spontanea che avrebbe potuto contagiare chiunque. Era una delle sue principali virtù.
La Sprite se ne era accorta fin dai suoi primi giorni di scuola, quando ancora portava le treccine, protestava un po' meno al suono del proprio nome di battesimo e non si divertiva a scivolare lungo i corrimani delle scale per poi cadere miseramente sul pavimento.
Era turbolenta, scanzonata, iperattiva, eppure era una studentessa molto brillante. Era anche una Cacciatrice piuttosto dotata: non fosse stato per Charlie Weasley, l'anno prima Tassorosso avrebbe sicuramente vinto la Coppa del Quidditch. Era una di quelle ragazze che non si incontravano tutti i giorni, ricca di talenti e carica di brio.
Non c'era da stupirsi che il Cappello Parlante ci avesse messo così tanto prima di Smistarla: in lei convivevano l'audacia sfrontata di Grifondoro, l'ambizione testarda di Serpeverde, l'acume brillante di Corvonero ed era onesta e sincera, un'ottima Tassorosso.
Mentre la guardava ridere, la professoressa fu tuttavia attraversata da un pensiero ben più nefasto.
Agli occhi dell'intera comunità magica, sua madre restava una Black. Sebbene Andromeda Tonks avesse tagliato qualunque ponte con la sua infame famiglia, Bellatrix Lestrange restava comunque sua sorella. E Sirius Black... Sirius, che a sedici vantava molti dei talenti di Tonks ed era stato uno dei suoi migliori studenti... proprio lui, che ora marciva ad Azkaban per aver tradito il proprio migliore amico... come avrebbe potuto Tonks diventare un'Auror? Il rigido Alastor Moody glielo avrebbe davvero permesso?
«C'è altro che vuoi chiedermi?» le domandò debolmente.
La giovane scosse la testa. Si chinò per prendere la propria tracolla, ma nel rialzarsi la sua testa cozzò contro il bordo della scrivania. Si lasciò sfuggire un'imprecazione un po' troppo scurrile, ma la professoressa Sprite la ignorò con un blando movimento della mano e la lasciò andare.
Mentre attendeva l'arrivo del successivo ragazzo pieno di sogni e speranze per il futuro, continuò a pensare a quante possibilità potesse avere la signorina Tonks di diventare un'Auror. Si lasciò andare a un sospiro sconfortato e realizzò tristemente che c'erano più probabilità che a Hogwarts venisse assunto un Lupo Mannaro come insegnante.

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Capitolo 24
*** Remus, Andromeda, Hagrid, Neville, Remus/Tonks ***


*
Vipera
Remus Lupin, Andromeda Tonks
211 parole

C'era una vecchia storiella di taverna che raccontava di una suocera morsa da una vipera. Si concludeva con la morte della vipera e gli amici di tuo padre ne ridevano sempre un sacco.
Da bambino non la capivi mai davvero – e in realtà non la capisci nemmeno ora che sei adulto, nemmeno ora che sei sposato, nemmeno ora che tua suocera affonda le lacrime nella tua camicia lisa.
«Non è vero, non è vero, non è vero...».
È una litania che non puoi fermare, che non vuoi fermare, eppure ogni singhiozzo è un morso peggiore del precedente, e il veleno non cessa di scorrere nelle tue vene e di ribollire come lava incandescente.
La pagheranno. Ti limiti a pensarlo, lo annoti mentalmente perché non è il momento per parole di vendetta, ma la pagheranno cara.
«Riportamelo indietro... ti prego, Remus, riportamelo indietro».
Stringi Andromeda in un abbraccio più stretto, tremi all'idea che tua moglie ne è ancora allo scuro e riposa nel vostro letto con una mano appoggiata sul pancione.
Trattieni un fremito: non vuoi farti sentire dalla donna che sta morendo fra le tua braccia, e ti torna in mente quella storia, quella ridicola, sciocca storia... e ti chiedi chi fra la vipera e Andromeda sia stata più fortunata.
Tu avresti preferito essere la vipera.

*
Immagine
Hagrid
272 parole

Le Creature Magiche ti piacciono da così tanto tempo che non sei mai riuscito a capire per quale motivo non piacciano a tutte le altre persone. Hai sempre amato i draghi – ricordi Norberto? Ricordi il tuo amico?
È ancora lì, da qualche parte fra i tuoi ricordi.
E Fufi, ricordi Fufi? Amavi ognuna della sue tre teste e non capivi come il resto della comunità magica potesse trovarle tanto spaventose.
Ricordi? È ancora lì, aspetta che torni a suonare per lui.
Ricordi la tua Acromantula?
La ricordi? Lei ti sta aspettando davvero, si domanda perché non torni più a trovarla.
E tutto il resto, Hagrid, ricordi tutto il resto?
Ricordi Silente? Ti ha detto che sarebbe tornato a prenderti, ti ha detto di non dimenticare niente, di non farlo mai.
Lui sta arrivando e tu devi ricordarlo.
E Harry? Ti ricordi di Harry? Ti ricordi di Ron e Hermione? Ricordi Thor, ricordi la sensazione della sua lingua ruvida sul tuo faccione barbuto?
Lui si ricorda del suo padrone. Aspetta accucciato davanti alla vostra capanna, alza il muso a ogni rumore e poi lo riabbassa. Non sei mai tu, quello che va carezzarlo.
Ricordi il fruscio del vento fra gli alberi? La luce del sole sulle acque del Lago Nero? Ricordi Hogwarts, ricordi la tua vita?
Resisti, Hagrid. Ricorda.
Ricorda, perché le porte di Azkaban si riapriranno e potrai rivedere l'oceano, e le nuvole, e il cielo sopra la tua testa.
Ricorda, Hagrid, perché quel giorno sarà come volare via, e niente – niente - potrà mai farti dimenticare le mille cose che tanto gelosamente hai ricordato per tutti quei mesi.

*
Fortunato
Neville Longbottom
262 parole

«Sei un bambino fortunato, Neville».
Neville lo sa. Non replicherebbe comunque.
La nonna lo ripete spesso in mezzo a favole che non terminano mai, perché c'è sempre qualcosa di più importante che Neville deve imparare a tenere a mente.
«Il mondo è pieno di bambini più sfortunati di te».
Sono bambini che Neville non conosce, ma tutti loro vivono e muoiono nelle favole della nonna. Talvolta si perdono, talvolta non tornano a casa, talvolta vengono abbandonati e rimangono soli – e Neville è fortunato, ripete la nonna, e se lo deve ricordare.
«Quando c'era la guerra, i bambini morivano».
Ci sono volte in cui Neville vorrebbe che le storie della nonna finissero in modo diverso – o che finissero e basta, in effetti, perché non conoscere la fine era perfino peggiore di una fine infelice. Ci sono altre volte in cui Neville non vorrebbe nemmeno che iniziassero, in cui non vorrebbe sentire storie di bambini più sfortunati di lui... alla nonna non lo direbbe mai, ma ci sono perfino delle volte in cui si domanda se in un mondo diverso la sua mamma gli avrebbe raccontato le stesse storie brutte.
Se i bambini della mamma si sarebbero persi, sarebbero stati tristi, sarebbero morti perché c'era la guerra... Neville non lo sa. La mamma continua a ballare da sola e a cantare fra i denti, e Neville non capisce le sue parole, la guarda e pensa a tutti quei bambini soli, tristi e morti.
Quelle sono le volte in cui sente molto più sfortunato di tutti quei bambini infelici.

*
Non vedersi per un mese
RemusxTonks
257 parole

Non si era mai ritenuta una di quelle donne pronte ad attendere l'amore per l'eternità, ma era stata costretta a ricredersi fin troppo in fretta.
Non aveva mai fatto attenzione a ciò che capitava in fretta – troppo in fretta, sempre troppo in fretta – e lei non era pronta. Dapprima c'era stata un morsa all'altezza dello stomaco, un rossore imbarazzato celato nella sciarpa di lana, una nuova sensazione di calore nel petto... e poi era esploso tutto e aveva capito di essere davvero una come tante altre, una di quelle che sì, per lui avrebbe atteso l'eternità.
Aveva iniziato con l'attesa di una notte – lui tardava a rientrare da quel dannato turno di guardia all'Ufficio Misteri e lei aveva avuto paura non tornasse davvero. Aveva continuato con l'attesa di una settimana – lui evitava il mondo da quella maledetta battaglia, dal momento in cui Sirius era svanito oltre il Velo e lei aveva avuto paura non tornasse davvero. E poi eccola, l'attesa di un mese – lui aveva gli occhi vuoti, il volto scavato, il puzzo di quella vita dalla quale era sempre sfuggito sugli abiti e lei aveva avuto paura se ne fosse andato davvero.
Non si era mai ritenuta una donna come tante altre, una di quelle pronte ad attendere per sempre. Un giorno, una settimana, magari un mese... ma sempre era troppo tempo.
«Mi dispiace».
Forse fu per quello che alla fine lo prese a pugni: lei non era una come tante altre.

*
Cose che cambiano
Remus Lupin
293 parole


«Ti ho portato il giornale, papà».
L'uomo resta immobile sulla sua poltrona davanti al camino spento. Una volta era la sua poltrona preferita, e Remus si acciambellava ai piedi del padre e lo ascoltava mentre gli raccontava delle buffe creature che animavano i suoi uffici al Ministero della Magia.
Non era la sua poltrona preferita da molto tempo.
Era rimasta solo una poltrona.
«Lascialo sul tavolino».
I passi di Remus risuonano ovattati sul vecchio tappeto. Appoggia la Gazzetta del Profeta sul treppiedi tarmato e rimane per un momento accanto al padre. Sorregge il capo basso con una mano, si fissa le punte delle vecchie pantofole e tace – tace sempre, tace da quando la sua poltrona è tornata a essere una semplice poltrona.
Quando alza gli occhi sul figlio, pare guardarlo senza nemmeno vederlo davvero.
«Hai bisogno di altro, Remus?» gli domanda con vuota gentilezza.
Sì” vorrebbe rispondere Remus, ma non trova il coraggio. “Sì, ma non so di cosa”. Resta fermo con le braccia sottili abbandonate ai fianchi e scuote appena il capo – e fa un po' male, proprio dove durante il plenilunio il lupo ha picchiato contro le grate di ferro della cella stregata nella cantina.
«No, papà».
È solo la poltrona a non essere più la sua preferita” cerca di convincersi Remus. “Forse è il giornale. Forse il camino. Forse è semplicemente il salotto a non piacergli più come prima”.
Ma mentre chiude la porta fra lui e suo padre, nella sua testa rimbomba un'unica verità – quella che alla fine ha attecchito davvero, quella che non è lasciata corrompere dalle illusioni del bambino e lo fa piangere nel cuscino ogni notte.
È colpa mia. Sono io”.

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Capitolo 25
*** Remus, Sirius, Hagrid, Andromeda, Remus/Tonks ***


*
Sigaretta
Sirius Black, Remus Lupin
193 parole

«Buon Dio, hai ricominciato con quella roba».
Non è una domanda, ma Sirius risponde ugualmente.
«Non mi hanno mai dato tempo di smettere».
Remus resta immobile sulla soglia dell'oscuro soggiorno di Grimmauld Place. Scruta immobile il profilo dell'amico alla luce dei lampioni che si insinuano attraverso le finestre opache. S'incanta a fissare le scie di fumo che si alzano dalla sua sigaretta, la punta di fuoco che brilla ad ogni nuova boccata.
Scatta in un attimo.
Attraversa la stanza a lunghe falcate, gliela strappa con violenza dalle labbra, la getta sul tappetto e la spegne con un violento movimento del piede.
«Fa male. Piantala».
Sirius resta fermo. Non si oppone, non si lamenta, non si arrabbia. Se lo avesse fatto tredici anni prima, Sirius lo avrebbe colpito con uno spintone e lo avrebbe mandato al diavolo – ma non lo avrebbe mai fatto, tredici anni prima, e questa consapevolezza gli sta rodendo l'anima.
«Ci sono centinaia di cose che fanno più male, Moony».
Lo sa.
Lo sanno entrambi.
Ma dirlo – accettarlo, ricordarlo – è ancora troppo difficile.
Fra di loro non è rimasto che l'acre odore di un mozzicone spento con rabbia.


*

Un secondo e la porta è a un passo in meno da lui.
«Non andrai solo».
Le rivolge uno sguardo mesto e scuote appena il capo.
«Resta con il bambino. Andrà tutto bene».
«Va' al diavolo» lo liquida inviperita Tonks, afferrandolo per un braccio. Lui si divincola dalla sua stretta con un gesto quasi rassegnato. «Voglio venire con te».
Un altro secondo e la porta è sempre più vicina.
«Ti prego».
Il tono di supplica nella sua voce riesce a ferirla molto più a fondo della consapevolezza che ancora una volta se ne sta andando senza di lei.
«Remus...».
«Tornerò».
Un secondo di più – un solo secondo – e quella porta sarebbe rimasta chiusa.


*
Camminare sui vetri
Andromeda Black
310 parole

A distanza di anni, Andromeda avrebbe suo malgrado raccontato che era tutto era accaduto troppo in fretta perché potesse rendersene conto.
Eppure quella notte aveva creduto di vivere a rallentatore ogni cosa, dal tremendo scoppio di grida al piano di sotto, il rimbombo dei passi che correvano lungo le strette scale che portavano alle camere da letto – e sua madre piangeva, suo padre batteva pugni contro la porta, Cissy strillava di essersi sbagliata, sicuramente si era sbagliata.
Andromeda non frequenta nessun Nato Babbano, ripeteva spaventata. Mi sono sbagliata, mi sono sbagliata... padre, vi prego, mi sono sbagliata.
La porta si era abbattuta con un fragoroso boato. Bella aveva la bacchetta salda nel pugno, lo sguardo inferocito, i capelli attorno al volto come i serpenti di Medusa – e l'odio, l'odio negli occhi, Andromeda non lo avrebbe mai dimenticato.
Il secondo incantesimo della sorella maggiore la sfiorò di pochi centimetri. Il vetro della finestra si frantumò alle spalle di Andromeda, che si ritrasse spaventata.
Se lo era aspettato? Forse. Ma era certa non avesse più importanza.
«Dimmi che non è vero».
La voce di suo padre era più tagliente dei vetri che si erano conficcati sotto le piante dei suoi piedi nudi. Il freddo della notte si insinuava nella sua stanza e faceva rabbrividire la pelle coperta dalla leggere vestaglia di raso.
A distanza di anni, Andromeda avrebbe suo malgrado raccontato che era accaduto molto in fretta, con troppo rumore e ben poco contegno.
Ma ciò che davvero accadde fu terribilmente più semplice. Si era mossa a disagio fra i vetri, e mentre ispirava una profonda boccata d'aria gelida aveva capito che era giunto il momento di prendere la decisione più importante della sua vita.
«È vero».
Si era Smaterializzata lontano da loro senza aggiungere altro e a distanza di anni, suo malgrado, Andromeda non avrebbe davvero aggiunto altro.


*
Albero
Remus, Hagrid
522 parole

I rami spogli del Platano Picchiatore ricordano le dita scheletriche di un morto.
Remus le fissa con sguardo distante, eppure nei suoi ricordi quelle fronde sono fitte come un mantello di spessa lana. Ha di nuovo quattordici anni, vi scivola attraverso e sa che i suoi amici sarebbero arrivati di lì a poco – e in quei ricordi arrivavano sempre, e nessuno si dimenticava di lui.
«Oh, Remus, non ti avevo mica visto qua di fuori».
Volta appena la testa per rivolgere un vago sorriso al gigantesco omone che lo ha raggiunto. Hagrid si pulisce le grosse mani sporche di terriccio sulle braghe e alza lo sguardo al cielo.
«Eh, mi sa che la neve ci sta arrivando a Hogwarts. Quest'anno ci è arrivata tardi».
«Forse ha avuto freddo anche lei» risponde piano Remus. «Con tutti questi Dissennatori, intendo».
«Creature orrende, se dai retta a me, orrende». Hagrid scuote il capo con un sospiro affranto. «Silente è arrabbiatissimo con quelli là del Ministero, ma che ci vuoi fare, te, con quelli del Ministero?».
Remus annuisce appena.
«Come stai, Hagrid?».
Il gigante gli rivolge un'occhiata interrogativa e Remus china la testa con genuina tristezza.
«Ho saputo... sai, di Azkaban».
«Oh».
Per un attimo fra di loro non resta che il soffio del vento.
«È stato bello venirci fuori».
«Mi dispiace».
«Mica è colpa tua, Remus. Mica è colpa di qualcuno».
Il grosso uomo gli batte la mano sulla spalla sinistra. Remus è costretto ad aggrapparsi alla recinzione di legno per non cadere a terra, ma sulle sue labbra affiora un sorriso nostalgico.
«Ti domandi mai se abbiamo davvero fatto del nostro meglio?». Hagrid pare non capire, così Remus prende un profondo respiro e mormora: «Contro Voldemort. Contro la guerra. Contro tutto quello che è stato. A volte penso che avremmo dovuto fare di più. Essere più forti».
«Tu-Sai-Chi è andato via e non è mica che adesso torna».
Remus osserva di nuovo il vecchio Platano. Quante volte da ragazzino aveva giocato incauto fra quei rami incantati?
«Non lo so, Hagrid. Ho sempre l'impressione che non sia mai finita. In quella guerra c'è qualcosa che non è ancora finito».
Hagrid si muove a disagio sui pesanti piedi.
«Non c'è più, la guerra... non le devi pensare queste cose, Remus. Ci fanno male a tutti».
Remus resta per un poco in silenzio, poi arrangia un sorriso triste e ricambia bonariamente la pacca del grosso amico.
«Hai ragione. Non devo pensarci».
Ma quando fissa il Platano i quattro coraggiosi ragazzini dei suoi ricordi sono ancora lì, immobili nella sua memoria e ignari dello scorrere del tempo. E i rami si stagliano nel cielo come le crepe di un muro, si intrecciano, si agitano nervose nel vento, e Remus continua a fissare le sue foglie rosse. Torneranno gemme, torneranno verdi e poi cadranno di nuovo.
Ci prova da una vita a non pensarci, ma a ogni arrivo dell'inverno crede faccia un poco più freddo dell'anno prima. Si sente un poco più solo ed è allora che tende le dita scheletriche verso il cielo grigio... nessuno le ha più afferrate.
E le foglie continuano a cadere, alla fine.

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Capitolo 26
*** Minerva, Ernie MacMillan, Kingsley ***


Non ricordo né a chi né quando io abbia fregato i prompt, mi spiace... (:



*
Armatura
Minerva McGranitt
272 parole

«Una fra le più promettenti studentesse».
Minerva sfoggia il sorriso sfrontato di una diciassettenne convinta che la propria gioventù non debba finire mai. È abile, è decisa, è sicura di sé – Prefetto, Caposcuola, Capitano.
Il rancore negli occhi di sua madre resta chiuso in un diario che non ha mai avuto il coraggio di scrivere per timore che fosse letto.
Minerva non demorde. È nata per non fallire.
«Una fra le più abili streghe».
Minerva cammina fra i corridoi del Ministero della Magia con il mento alzato e le spalle rigide. Muove i piedi l'uno avanti all'altro con ritmo incalzante, i piccoli tacchi degli stivali ad accompagnarla in quella passerella di noia e routine.
Il dolore negli occhi di Dougal mentre gli voltava le spalle verso l'alba nascente, la pena provata nel lasciarsi alle spalle il tramonto di un amore mai iniziato resta fermo nel suo cuore. Immobile, sigillato – mai dimenticato.
Minerva non demorde. È nata per non fallire.
«Una fra le più grandi professoresse».
Minerva brandisce la propria bacchetta con la fierezza indomabile di una leonessa – e nonostante gli anni trascorsi torna a essere il Capitano di Grifondoro, la promessa della Trasfigurazione moderna, la migliore in tutto, l'infallibile in nulla. Colpisce i Mangiamorte con furia impetuosa, difende ognuno dei suoi ragazzi come se ne dipendesse la sua stessa vita.
Minerva non demorde.
«Signor Canon, lei è ancora minorenne: non mi costringa a ripeterglielo un'altra volta».
«Professoressa, io--».
«Non le permetto di restare. È troppo pericoloso».
Minerva non è nata per fallire.
Quando riconosce fra i caduti il pallido profilo di Colin Canon, cade a terra e grida.


*
Our last summer – ABBA
Ernie MacMillan, Hannah Abbott
213 parole

Ricordi i pomeriggi in cui i compiti e lo studio si fermavano un attimo per lasciarci correre nei prati attorno a Hogwarts? Portavi due treccine bionde ai lati del volto; ti inseguivo e sognavo di inseguire le code delle stelle comete.
Non te l'ho mai detto. Credevo fosse stupido pensare di poterti paragonare al cielo. Avresti riso, mi dicevo, e ogni cosa fra noi sarebbe cambiata.
È ancora stupido, tremendamente stupido, eppure i tuoi occhi sono ancora azzurri quanto le giornate d'estate; e ci sono le stelle, nei tuoi occhi, e l'alba e il tramonto, e le nuvole e tutti i ricordi più belli della mia giovinezza sono tutti imprigionati nel tuo sorriso.
Sei meravigliosa, Hannah, e non te l'ho mai detto perché pensavo fosse troppo stupido.
Immagino sia questo il motivo per cui oggi sposi Longbottom – lui te l'ha detto, vero?
Lo guardo sorridere al tuo fianco ebbro di gioia, applaudo piano fra la folla in festa e rido quando la fede gli sfugge fra le mani nervose. Le stelle non mollano i tuoi occhi un solo istante – ma guardano lui, guardano Longbottom, guardano quello stupido mentre si gratta imbarazzato la nuca, e Merlino, era me che avresti dovuto guardare così, oggi.
A volte gli uomini sanno essere davvero stupidi.


*
Boulevard of broken dreams – Green Day
Kingsley Shacklebolt
185 parole

Non c'era mai stato niente che li accomunasse a parte l'aver prestato lo stesso giuramento. Proteggi gli indifesi, combatti la Magia Oscura e non mollare, non mollare per nessun motivo – se cadi, rialzati e non mollare, non puoi mollare, non mollare.
Ci credevano con la stessa forza.
Alastor parlava fra i denti, ringhiava e sputava e brontolava perché non erano mai abbastanza attenti. A volte Kingsley credeva di risentire i borbottii di Alastor riecheggiare perfino nella vastità dei corridoi del Ministero.
Si voltava e lui non c'era.
Tonks rideva come se la vita non avesse mai dovuto finire. Aveva paura? Oh, sì, e non aveva alcuna vergogna nell'ammetterlo. Ma lei era un'anima libera, era scanzonata e sfacciata e giovane – troppo giovane. Combatteva come una donna – come una moglie, come una madre – ma prendeva in giro il destino avverso come una bambina. La sentiva ancora ridere.
Si voltava e lei non c'era.
Erano gli Auror dell'Ordine della Fenice.
Kingsley pensa a loro in continuazione. Si fissa immobile le mani, china il capo sconfitto e tace.
Si volta e loro non ci sono.

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Capitolo 27
*** Tonks, Alastor, Regulus, Frank/Alice, Remus/Tonks, AU ***


*
Washed away
Ninfadora Tonks
183 parole

Il mio primo ragazzo mi aveva chiesto se potevo diventare più magra.
«Sei un Metamorfomagus, perché non vuoi farlo?».
L'ingenuità con cui me lo domandò mi fece andare fuori di testa. Un pugno in faccia, i denti conficcati nel labbro e il mio primo presunto amore è crollato come un castello di carte davanti ai gradini d'ingresso di Mielanda.
Ho perso la verginità con il secondo idiota che ho incontrato e dieci secondi più tardi mi ha chiesto se potevo diventare più alta. Un calcio nei reni, i jeans infilati in fretta, il pianto ingoiato con vergogna.
Col cavolo, mi ero ripromessa. Io non cambio per nessun uomo. Prendere o lasciare, questa è la mia partita e queste sono le regole che ho deciso.
E mi viene quasi da ridere, oggi, mentre guardo il pallore spettrale del mio riflesso passarsi la spazzola fra i capelli grigi e penso solo: «Vaffanculo, mi ero ripromessa di non cambiare per nessuno di loro».
Nessuno – mai.
Mi verrebbe quasi da ridere, dico davvero, ma con tutte queste lacrime a riempirmi la bocca sarebbe più facile vomitare.


*
Orecchie a sventola
Frank/Alice
132 parole

Le sue orecchie ti hanno sempre fatta sorridere.
Buffe e larghe, così strane e fuori posto, lo hanno sempre reso incapace di apparire del tutto serio. E ci prova, Frank, ci prova sempre, ma proprio non ce la fa a sembrare arrabbiato. Aggrotta la fronte e fra le sopracciglia compare una ruga sottile, e tu ridi, ridi e basta, perché ami ridere e Frank ti fa ridere e ami Frank e ridere con lui e lo ami con tutta te stessa...
Ora non ridi – ora gridi, gridi forte, gridi fino a strapparti l'anima dal ventre, fuori dalla bocca, fino a vomitarla sul tappetto dove Frank è già crollato.
Ti faceva ridere, Frank.
Non si rialza – non fa ridere.
Non si muove – non fa ridere.

Non fa ridere.


*
«La gioventù non sa quel che può, la maturità non può quel che sa».
Ninfadora Tonks, Alastor Moody
224 parole

«Leva quella bacchetta dai jeans, ragazza!».
«Oh, piantala, vecchio brontolone».
Malocchio ringhia fra i denti. Il suo occhio magico vortica malsano nell'orbita e si fissa sul volto sereno della sua giovane protetta.
«Quanto ti salterà in aria il fondoschiena, allora--».
«Bum!». Ti colpisce la spalla con un leggero pugno amichevole e strizza l'occhio. I suoi capelli verdi si tingono di rosso. «Buon anno».
Lui sbuffa ancora una volta – la milionesima, probabilmente – e ci rinuncia.

«Se non la pianti di rimirare quel dannato anello, te lo incollerò al naso».
«Sarebbe un po' scomodo volare con una mano che mi sventola davanti alla faccia».
Malocchio fende l'aria con il suo bastone, ma la ragazza è più svelta e lo schiva con una risata argentina. Inciampa mentre indietreggia e cade nel mezzo della cucina della Tana. Si passa una mano fra i capelli rosa cicca e ride ancora di più.
Si rilassano un po' tutti i presenti – Remus no, Remus resta immobile accanto alla finestra a scrutare torvo le nuvole del cielo. Ride perfino Molly, che non riesce a smettere di tormentarsi le mani.
«Malocchio, sei troppo allegro questa sera». La sua presa in giro continua a stonare in mezzo a quella guerra. «Quasi non ti riconosco».
Lui sbuffa ancora una volta – l'ultima, ma ancora non lo sa – e ci rinuncia.


*
L'urlo – Munch
Remus Lupin, Sirius Black
(AU)
300 parole

Conosceva bene il terrore.
Suo padre si era premurato di insegnarglielo in modo che un giorno potesse avere la forza di incuterne agli altri. Aveva imparato in fretta, il giovane Lord Black – così tanto in fretta che presto l'anziano padre aveva iniziato a temerlo nel silenzio della notte della gigantesca magione.
Il giovane Black non temeva nulla – era un uomo del Re, lui, era un soldato di Dio. Era ebbro di fierezza, di ferocia impietosa – immortale, inarrivabile.
Lo stendardo del cane nero ululava sulla pettorina scalfita con la stessa famelica grinta del lupo nelle brughiere. Ma lì non c'è la brughiera, lì c'è solo l'Irlanda, e il marcio e la neve e il freddo e il sangue inglese che gli inzuppa il mantello rosso – e ha perso, alla fine. Non ci crede, ma ha perso.
È uno straccio d'uomo quello che ora troneggia su di lui – pallido, segaligno, con i capelli chiari e sporchi appiccicati alla fronte sudata e un'espressione di insana follia negli occhi – e Lord Black continua a non capire come abbia potuto la sua spada lucente sottomettersi ai colpi dell'altra, scheggiata e arrugginita.
L'irlandese inizia ad affondare la spada nel suo petto. C'è fiele nel suo sguardo e sangue nella sua bocca, e presto anche la bocca di Lord Black ne è piena.
«Che Dio si riprenda il suo Re». Perfino nella morte il suo accento ribelle lo infastidisce. «L'Irlanda non ne ha bisogno».
Preme la lama, la schiaccia con forza, frantuma il dipinto del cane nero che uggiola un'ultima volta e sputa e vomita e muore.
C'è un lupo disperato negli occhi di quel dannato irlandese, ma Lord Black è già fin troppo lontano per poterne sentire l'ululato.


*
Rating alto
(Non è vero, ho raggirato il prompt)
Remus/Tonks
253 parole

Fare l'amore con l'uomo che ami dovrebbe essere come toccare il Paradiso e tornare indietro. Pensa che dovrebbe, sì, perché dopotutto lei non è molto istruita su cosa sia l'amore o dove stia il Paradiso – e quando aveva conosciuto Remus aveva capito di non aver mai amato davvero, di non averlo mai nemmeno sognato, il Paradiso.
Fare l'amore con lui doveva essere come toccare il Paradiso – ma ora la sua schiena era graffiata, e le ossa dolevano e si contorcevano, o forse era solo l'orgoglio ferito di entrambi, forse era solo l'amara consapevolezza di aver mollato la strada per il Paradiso per lanciarsi nelle bolge dell'Inferno.
Lui era arrabbiato. Glielo aveva letto negli occhi.
Era arrabbiato e c'erano stati solo graffi e morsi e spinte e dita conficcate nella carne come artigli. Si era arrabbiata anche lei – lui aveva il potere di farla arrabbiare in continuazione.
E allora aveva graffiato e morso e spinto e aveva piantato le unghie nella sua carne come se avesse potuto strappargli via perfino la pelle.
«Mi dispiace».
Tonks volta il capo sul cuscino. La luce della mezzaluna che filtra attraverso le tende è troppo vaga per illuminare il suo viso, ma lei non ne ha bisogno. Le basta sentire il suo respiro affannato, disperato, svuotato – è sempre così, è sempre come gettarsi da una rupe con un paio di ali di cera e sfracellarsi a terra sapendo di non aver volato per un soffio.
Sono solo atterraggi di fortuna, i loro – e Tonks ha una paura dannata di sfracellarsi sul serio.


*
Fields of innocence – Evanescence
Regulus Black
228 parole

Ha cinque anni e trotterella lungo la scia di Sirius – è felice perché il mondo in un bambino di cinque anni è piccolo, e in un mondo piccolo non c'è spazio per molto di più.
Va giù, sempre più giù.
Ha nove anni e il mondo si fa un po' più grande – entrano cose brutte, entra la rabbia e l'indignazione e la cieca consapevolezza che Sirius lo odia quanto i loro genitori odiano lui.
Va giù, sempre più giù.
Ha quindici anni e il mondo fa schifo – fa schifo davvero, e guardare Sirius ridere con i suoi amici dall'altro capo di quel mondo troppo grande è insopportabile.
Va giù, sempre più giù.
Ha diciassette anni e il mondo è ai suoi piedi – ed è lui, quello giusto, quello importante, quello destinato a incidere il nome nella storia. L'ultimo Black, il più importante, quello che non ha paura di obbedire agli ordini più duri. È Sirius, il vigliacco. È Sirius, il codardo.
Va giù, sempre più giù.
Ha vent'anni e il mondo diventa buio – ma va bene, va bene lo stesso, va bene anche se ha ancora un sacco di cose da dire e da fare e da vedere, va bene anche se vorrebbe solo ritornare il bambino che inseguiva il fratello lungo i corridoi di Grimmauld Place, va bene, va bene...
Va giù.

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Capitolo 28
*** Arthur, Fred, Alastor, Remus, Sirius, Remus/Tonks ***


*
La donna della sera, Angelo Branduardi
Arthur Weasley
442 parole

Il silenzio è strano.
Non in sé, non proprio il silenzio, ma il silenzio lì, nel giardino che abbraccia la Tana... quello sì che è strano. Si convince che tutta quella stranezza abbia qualcosa di sinistro e si spinge sulla sedia a dondolo sotto alla veranda costruita da Charlie l'estate prima con un po' meno decisione.
Ah, l'età... Arthur la conosce bene, l'età.
Ne ha sentito ogni morso, dai più febbrili ai più stentati, da quelli che possono spingere un uomo a fare a pezzi il mondo fino a quelli che ti fregano sul più bello, e allora il mondo te lo ritrovi addosso e non puoi proprio farci nulla.
È sopravvissuto a un ammirevole numero di sventure e difficoltà – e anche quello è strano, perché Arthur non è un eroe, non è nemmeno mezz'eroe e viene proprio da chiedersi come abbia potuto sopravvivere con tanta destrezza. Forse è per quello, si spiega: non era un eroe, lui, e quella guerra si era mangiata un eroe dopo l'altro.
Non lui, non Arthur.
Ad Arthur era stata concessa la possibilità di guardare i propri figli diventare padri – e piangere il figlio perduto, la più ingrata concessione. La vita era fatta di morsi buoni e morsi cattivi: quello era stato il peggiore. Lo teneva ancora stretto fra i denti, perché il boccone era troppo amaro per essere spinto in gola.
E Molly... Arthur dondola ancora e sorride al cielo sereno e ai ricordi dei morsi che ha potuto dare alla moglie nel corso della vita.
Qualcuno leggero dietro al collo, qualcuno per scherzo, qualcuno per passione. Tutti con amore, non uno meno degli altri.
Molly gli aveva confidato che se a sedici anni le avessero detto che avrebbe trascorso tutta la sua vita a Ottery St.Catchpole fianco a fianco con quel matto di Arthur Weasley, ne avrebbe riso per settimane, per mesi, per anni, senza poter credere a una sola parola. Ma poi, aveva aggiunto con infinito affetto, era diventata semplicemente la più meravigliosa delle avventure che avrebbe potuto desiderare.
C'era stata solo lei, solo Molly, anno dopo anno, figlio dopo figlio... lei prendeva chili mentre lui perdeva i capelli.
Li aveva persi tutti, ormai.
Non gli restavano che un paio di spessi occhiali di corno, una casa strana e silenziosa aggrappata alla più bella collina del mondo e una sedia a dondolo vuota accanto alla propria.
È triste, ma Arthur sorride lo stesso.


*
Camminare tre passi avanti e uno indietro
Fred Weasley
parole

Non si è mai posto il problema di diventare adulto. Nemmeno una volta, anche sua madre non smetteva di parlare di doveri e responsabilità e serietà e di un sacco di altro cose che Fred ha ascoltato mentre pensava a tutt'altro.
Il primo passo per diventare adulti si rileva estremamente semplice.
La scuola non fa per noi – ne erano così convinti da farla quasi esplodere – e via, Fred se ne vola lontano e ride fianco al fianco con George, mentre i rimbrotti della madre si mescolano al frastuono del loro negozio di scherzi.
Il secondo passo per diventare adulti è un po' più lungo, ma ce la fa lo stesso.
E che ci vuole, dopotutto? Ridi che ti passa: Fred ne ha fatto il suo stile di vita. Sì, gestire il negozio nel bel mezzo di una guerra è un problema da adulti, perché hai sempre il rischio di vendere una Merendina Marinara a un Mangiamorte e poi ti tocca sgombrare il corpo, e sì, è dura... ma Fred tiene stretto. Scherza anche se è dura davvero, anche se George ha paura quanto lui e ride quanto lui, e la paura resta nascosta dal botto dei fuochi d'artificio. I rimbrotti di sua madre ora gli mancano.
Il terzo passo per diventare adulti lo fa quasi cadere, ma se la cava comunque.
L'eventualità di restare senza George non era contemplabile. Non c'era, non esisteva, era semplicemente qualcosa alla quale non riusciva a pensare. La notte in cui rischia di perderlo gli fa esplodere il cuore e i polmoni e i reni e tutto ciò che poteva esplodere, ma non vuole pensare che sì, ehi, si sente romano ma quell'idiota è quasi morto.
Non esiste proprio. Non è che non vuole pensarlo: è proprio che non ci riesce.
È quando si sbaglia e va indietro che diventare adulti diventa impossibile.


*
«Se stai andando all'Inferno, fallo a testa alta», Winston Churchill
Alastor Moody
241 parole

Era poco più di un ragazzo sbarbato quando aveva combattuto per la prima volta. L'oscura magia di Gellert Grinderwald aveva incendiato ogni angolo dell'Europa magica, straziato e messo in ginocchio decine di migliaia di persone... c'erano solo fiamme, e grida, e gente morta.
Alastor non era morto.
Alastor era rimasto in piedi per chiedersi cosa avesse vinto.
La guerra, si era risposto. Ho vinto la guerra a testa alta.
Era un uomo forte e vigoroso quando aveva combattuto per la seconda volta. I nefasti seguaci di Lord Voldemort aveva messo a ferro e fuoco ogni dimora magica della Gran Bretagna, torturato e ucciso decine di migliaia di persone... e di nuovo le fiamme, le grida, la gente morta.
Alastor non era morto nemmeno in quell'occasione.
Alastor era rimasto in piedi per chiedersi cosa avesse vinto – di nuovo.
Forse la guerra, si era risposto. Ma ho visto ognuno dei miei ragazzi morire a testa alta.
Era anziano e logorato da mille battaglie quando aveva combattuto per l'ultima volta. Lord Voldemort non sapeva perdere, non voleva morire... e le fiamme continuavamo a divorare le persone, i sogni e i buoni propositi e tutto ciò per il quale era rimasto in prima linea per tutta quell'eternità di vita.
Resta a testa alta, ma cade verso il basso.
Non ha il tempo di chiedersi cosa possa aver perduto questa volta... spera e basta che qualcuno, da qualche parte e in qualche tempo, vinca davvero.


*
Prompt dimenticato (eh, succede)
Remus Lupin, Sirius Black
187 parole

«Tu credi nel Paradiso?».
Remus solleva lo sguardo dalla Gazzetta del Profeta. Per un attimo Sirius si illude di poter rivedere l'espressione sorpresa del ragazzino che l'amico era stato un tempo.
Non c'è sorpresa. C'è solo l'espressione grave dell'ombra di un uomo stanco.
«Mia madre lo avrebbe di certo voluto».
«La mia mi avrebbe voluto vedere dritto all'Inferno. Questo è sicuro».
Il silenzio pesa fra di loro quanto il tempo che è trascorso a dividerli, a cambiarli, a scolorirli.
«In tanti vorrebbero vederti all'Inferno, Padfoot».
Il fantasma di un sorriso sarcastico che si scioglie nel nulla.
Sirius sogghigna.
«Vorrei assistere alla scena, sai? Sirius Black che va all'Inferno». Solleva il calice in un brindisi muto. «Oh, Remus, amico mio... lo farei con stile».
Remus lo guarda senza aggiungere altro. Vorrebbe dirgli che per quella sera ha già bevuto a sufficienza, che ha già sputato abbastanza sentenze velenose e sollevato fin troppi tetri ricordi... ma alla fine cambia idea.
«Primadonna» lo deride divertito. «Non sapresti morire in silenzio nemmeno se ti tagliassero la lingua...».

Era solo un Velo, avrebbe ripensato Remus qualche settimana più tardi.
Silenzioso.
Ordinario.
Triste.


*
Kink: scrivania, What-If ambientata dopo DH
Remus Lupin, Minerva McGranitt (Remus/Tonks)
356 parole

Aveva trovato Rodney Smith di Corvonero e Cindy O'Donovan di Tassorosso nascosti nello sgabuzzino delle scope del quarto piano e si era sentito in dovere di rimproverare entrambi, ma non era stato affatto facile evitare di far trapelare il mezzo sorriso divertito che gli era affiorato sulle labbra.
I suoi studenti tendevano a dimenticarlo con facilità, ma anche Remus Lupin, professore di Difesa Contro le Arti Oscure e Direttore della Casa di Grifondoro, aveva avuto diciassette anni.
Diciassette anni, gli ormoni impazziti e compagne di scuola con gonne sinceramente troppo lunghe per poter soddisfare i primi morsi della libido di un adolescente. Era stato Sirius a spiegargli dello sgabuzzino del terzo piano per la prima volta e Remus, il Prefetto che non avrebbe dovuto per nessunissima ragione dargli ascolto, ci aveva condotto Livia Wood.
Essere beccato dalla professoressa McGranitt era stato oltremodo imbarazzante, ma a più di vent'anni di distanza tutto ciò che era rimasto di quell'esperienza era una sincera risata. Talvolta ne avevano riso insieme.
Ha un mezzo sorriso sulle labbra mentre risale le scale dell'Ufficio della Preside.
«Buongiorno, Minerva».
Lei inarca appena un sopracciglio, ripiega con estrema cura il giornale che sta leggendo e lo appoggia alla scrivania molto lentamente, nota Remus con preoccupazione. Intreccia fra loro le lunghe dita – lentamente, e Remus ha un pessimo presentimento – lo fissa severa – molto severa, e Remus smette di sentirsi un professore e ripiomba nello sgabuzzino con Livia Wood.
«Ehm... sì, lo so» inizia con tono affabile. «Rodney e Cindy hanno trasgredito almeno a una mezza dozzina di regole della scuola, ma...». Scuote una mano a mezz'aria e scrolla le spalle. «Andiamo, Minerva, hanno diciassette anni. Ricordi quando io e Livia Wood--?».
«Sì, mi ricordo» lo interrompe perentoria.
Apre il primo cassetto, ne estrae una piccola pallina di tessuto di un accesissimo rosa e gliela lancia. Remus la afferra al volo, la dispiega e si lascia scappare un gemito. Mentre si gratta imbarazzato la nuca, Minerva sospira.
«L'hanno trovata gli elfi domestici sotto la tua scrivania... a giudicare dall'assurda tonalità, credo che tua moglie abbia dimenticato la propria biancheria nel tuo ufficio, Remus».

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Capitolo 29
*** Regulus, Tonks, Minerva, Amos Diggory ***


So che Lavanda dovrebbe essere sopravvissuta all'attacco di Greyback, ma ci tenevo a fare del dramma con nomi conosciuti, chiedo perdono. (:




*
«Chiunque salvi una vita, salva il mondo intero», Schindler's List
Regulus Black, Ninfadora Tonks (pre-saga)
280 parole

All'improvviso nella sua testa c'è solo silenzio.
Ed è strano, pensa, perché Diagon Alley è in fiamme, la gente grida, i vetri esplodono, e c'è chi cade e si rialza e chi cade e non si rialza... ma all'improvviso – strano davvero – tutto tace.
Guarda la bambina.
Cinque, sei, quanti anni potrebbe avere? Conta fra sé gli anni trascorsi dal giorno in cui sua cugina Andromeda è fuggita con il maledetto Sanguesporco.
Sono sei.
Sei anni in cui il mondo che conosceva ha avuto tutto il tempo di ribaltarsi.
Guarda la bambina.
Sei anni, smarrita nel caos dell'attacco dei Mangiamorte, con il piccolo viso sporco, le lacrime sulle guance. Piange mentre lo guarda, lo guarda e continua a chiamare il suo papà – quel maledetto Sanguesporco.
Regulus alza la bacchetta.
«M-mamma...».
Guarda la bambina.
Ha gli occhi neri che brillano e i capelli neri che spuntano da sotto il berretto colorato e la carnagione chiara e delicata – è come guardare i ritratti dei suoi antenati.
All'improvviso nella sua testa c'è solo il rumore di qualcosa che si spezza, e mentre corre via da quel vicolo e le grida e le esplosioni tornano a rimbombargli nella testa, la bambina gli piange ancora davanti agli occhi.
E sono neri, sono neri come i suoi, e come quelli di sua madre e di sua zia.

Diagon Alley sarebbe stata diversa un giorno – un giorno che né Regulus né la bambina avrebbero mai potuto vedere. Qualcuno l'avrebbe chiamata giustizia, qualcun altro disgrazia. Ma ci sarebbe stato un ragazzino, quel giorno in cui Diagon Alley sarebbe stata diversa, e i suoi occhi sarebbero stati neri e brillanti quanto quelli di sua madre.



*
Tazzina di tè
Minerva McGranitt
187 parole

Non aveva mai pensato che sarebbe diventata Preside.
Albus era il Preside – era sempre stato il Preside, e perfino quando non era che il suo professore di Trasfigurazione era stato qualcosa di più importante, di più vitale.
Ma oggi la Preside è lei.
La Preside Minerva McGranitt, seduta sulla ricca poltrona che ha accolto maghi e streghe probabilmente più valorosi di lei. Uomini e donne d'onore che non avrebbero mai permesso alla guerra di distruggere la scuola, gli studenti, le loro vite.
Porta alle labbra la tazzina di tè, ma le mani tremano troppo, non si placano, la fermano e le ricordano quanto sia arduo invecchiare nei rimpianti. Silente – il Preside Silente – non avrebbe mai permesso niente del genere.
Minerva non ha dimenticato nessuno di loro.
Colin Canon, Lavanda Brown, Kevin Smith, Rosemary Carroll...
Ci sono sere in cui ripete ognuno dei loro nomi fino a tre, cinque, mille volte. Ci sono sere in cui fa meno male, in cui ricorda solo la nostalgia delle fotografie del piccolo Canon o le risatine divertite della giovane Brown, e sere più infelici in cui è semplicemente troppo.
La tazzina di tè le scivola dalle mani e si infrange a terra.
«Minerva...» mormora il triste eco della voce di Albus dal suo ritratto. «Te ne prego...».
Ma lei ha già ripreso a chiamarli per nome – di nuovo, di nuovo, di nuovo.
Colin Canon, Lavanda Brown, Kevin Smith, Rosemary Carroll...



*
La persistenza della memoria, Salvador Dalì
Amos Diggory
185 parole

Cedric sfreccia nell'ingresso di casa Diggory e irrompe come un uragano nel salotto dove Amos sta leggendo la Gazzetta del Profeta.
«Papà!» lo chiama entusiasta, «papà, vieni a giocare!».
Amos inarca appena un sopracciglio.
«Dove hai lasciato le scarpe? I tuoi piedi sono tutti sporchi di terra... la mamma si arrabbierà».
«Vieni a giocare, papà!».
Insiste con un largo sorriso, si aggrappa alla manica della giacca del padre e la tira con tutta la sua energia di bambino. Tira, tira, tira... ma Amos resta seduto e lo guarda.
Guardare il viso di suo figlio è sempre più difficile.
«Papà, vieni a giocare!».
Ripete sempre la stessa cosa.
«Vieni a giocare!».
Non cambia mai.
«Vieni, papà!».
Attraverso le lacrime che gli riempiono gli occhi, Amos vede solo il suo bambino – il suo ragazzo, il suo ragazzo morto...
«Papà, vieni a giocare».
Non c'è – sa che non c'è davvero e se tendesse la mano non abbraccerebbe che il nulla – ma in quella casa non riesce a vedere altro che il suo bambino – il suo ragazzo, il suo ragazzo morto.
È ovunque.

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Capitolo 30
*** Qualche splendida speranza - Remus/Tonks ***


Scritta per l'iniziativa Lá Fhéile Pádraig indetta da Pseudopolis Yard. Il prompt che ho scelto è la meravigliosa canzone dei Modena City Ramblers «Qualche splendido giorno».
(:




*
Qualche splendida speranza
Remus/Tonks
1925 parole

«Ci troveremo ancora, sai,
in qualche splendido giorno».
(Qualche splendido giorno, Modena City Ramblers)


Aveva chiuso la valigia con un colpo pigro della bacchetta. Non c'era nient'altro da portare con sé: pochi abiti logori e sdruciti di cui vergognarsi, qualche vecchio libro dalle pagine ingiallite e un vecchio acquario vuoto.
Era solo un uomo di seconda mano, lui.
Guardò la stanza umida che aveva occupato durante l'anno appena trascorso con uno sguardo imperscrutabile. Osservò il comodino traballante, il letto su cui aveva dormito, le tende scure e sciupate che ondeggiavano lievi. L'aria di Londra che si insinuava dalla finestra appena dischiuse regalava la sensazione piacevole dell'estate ormai alle porte. Eppure lui restava lì, immobile, con l'espressione appassita di chi si era perduto anche il passaggio della primavera.
Era stato un anno impossibile.
Il ritorno di Sirius, i tentativi di riesumare lo spettro di un'amicizia lasciata a marcire per dodici anni, Grimmauld Place e l'Ordine, la feroce convinzione di essere ancora utile a qualche scopo, di poter valere qualcosa – essere più di un uomo con una vecchia valigia.
«Remus?».
L'improvvisa intromissione della voce di Tonks nel suo silenzio lo fece sobbalzare. Strinse addolorato gli occhi, chiuse la finestra e si preparò ad andarsene con l'intenzione di non voltarsi più. Non avrebbe funzionato, lo sapeva bene: aveva tentato di non voltarsi a guardare ogni cosa che aveva dovuto abbandonarsi alle spalle, ma il mondo era rotondo e prima o poi si ricongiungeva tutto. Le sue erano solo fughe senza destinazioni.
La voce titubante di Tonks lo richiamò al di là della porta socchiusa.
«Remus, dobbiamo andare. Mi dispiace».
Prese la valigia e l'acquario e uscì dalla stanza senza dire nulla. Tonks era appoggiata alla parete del corridoio con le mani sprofondate nelle tasche dei jeans: i segni del combattimento nell'Ufficio Misteri non erano ancora del tutto svanite dal suo volto a forma di cuore. C'erano ombre scure sotto ai suoi occhi brillanti, ogni traccia della sua spavalda vitalità pareva svanita. La guerra si protraeva in silenzio da più di un anno, ma Remus sapeva che Tonks non aveva ancora avuto la sfortuna di comprenderla, di viverla, di farsi annientare da essa.
Il suo battesimo era appena terminato. Non riusciva a pensarlo senza provare un moto di rabbia nel sapersi tanto incapace dinanzi all'accaduto. Non c'era nulla da dire, nulla da fare... Tonks avrebbe dovuto reagire da sé o non avrebbe più reagito.
«Posso aiutarti?» gli chiese.
Remus scosse appena il capo e iniziò a scendere le scale. Tonks lo seguì senza aggiungere altro.
«Credo che lascerò quest'acquario in cucina» le disse poi. «Non è di alcuna utilità».
«Un giorno tornerai a prenderlo».
Sulle sue labbra si dipinse un sorriso mesto. Forse lo avrebbe fatto o forse no. Al momento la fiducia sbiadita di Tonks non era in grado di sfiorarlo. Entrò in cucina, appoggiò l'acquario accanto al caminetto spento e fece un sospiro stanco. Sentiva lo sguardo di Tonks penetrargli la nuca.
«Non aver paura di dire la cosa sbagliata» le suggerì con voce gentile. «In questi momenti non ci sono cose giuste da dire».
«Una volta un uomo saggio mi ha consigliato di tacere, se si crede di poter dire una cosa sbagliata».
Remus camuffò una risata sarcastica in un soffio stretto fra i denti. Gliel'aveva detto lui diversi mesi prima, quando lei era rimasta sconcertata di scoprire la sua vera natura. Ricordava quella sera con vivida intensità: Tonks era l'unico membro dell'Ordine a ignorare che fosse un Lupo Mannaro, e per qualche strana ragione la sola idea di rivelarglielo gli aveva causato notevoli patimenti.
Eppure la giovane non aveva mostrato alcun timore, né disgusto – qualcosa di cui gli sarebbe sempre stato grato – ma lo stupore le aveva impedito di parlare per diversi minuti. Le aveva assicurato che non aveva bisogno di sentire alcuna risposta... e lei era scoppiata a ridere. Sei il licantropo meno credibile che io abbia mai visto, lo aveva preso in giro. Come puoi dirmi una cosa del genere e aspettarti che io non rida di te?
Le era grato anche per quella risata, per le prese in giro e gli scherzi che ne erano seguiti, per tutte quelle settimane trascorse a minimizzare la sua maledizione. Non rideva dei pleniluni da quando aveva terminato Hogwarts e i Malandrini avevano avuto il loro battesimo, l'ultimo e definitivo addio all'adolescenza.
Si voltò verso di lui con un sorriso storto.
«Forse non era così saggio come hai creduto. Di' qualcosa, il silenzio è insopportabile».
«L'ultimo album delle Sorelle Stravagarie è orribile».
«Bene a sapersi, eviterò di comprarlo».
«Tu odi le Sorelle Stravagarie».
«Affatto» replicò piano mentre si avvicinava a lei con passi lenti. «Mi è solo difficile comprendere la sottile differenza che corre fra la musica e il rumore».
«Ho preso a calci uomini per aver detto eresie meno imperdonabili, Remus».
Lui inarcò appena un sopracciglio.
«Sono stato preso a calci da donne per aver detto eresie anche più perdonabili, se puoi crederlo».
Tonks si lasciò finalmente andare a una risata di sincera allegria; per un secondo Remus si illuse che l'ultima settimana non fosse mai accaduta, che nulla fosse successo, che Sirius fosse ancora malamente seduto nella poltrona di Orion Black a biascicare calunnie e improperi a Piton, che lui e Tonks si stessero semplicemente preparando per un altro turno di guardia all'Ufficio Misteri.
Si unì a lei in quel vago tentativo di lasciare un po' di amarezza al passato, ma la loro risata si spense troppo in fretta e il silenzio tornò a divorarlo. Tonks sollevò lo sguardo su di lui e rimase ferma per qualche istante, scrutandolo con una smorfia strana.
Fu più lesta di quanto Remus non avrebbe mai potuto pensare: si mosse verso di lui, si sollevò sulle punte dei piedi e gli lasciò un bacio intoccabile a fior di labbra, rapido e innocente quanto quello dei bambini. Riuscì a sconvolgerlo più di quanto non avesse mai fatto nessun altra donna. Era lui, ora, quello senza nulla da dire.
«L'uomo saggio mi ha detto di tacere» ripeté in fretta Tonks. Sulle sue gote si stava diffondendo un timido rossore. «Ma non mi ha detto di non farmi capire».
Remus aveva capito fin troppo bene. Lo aveva già capito ben prima che lei lo baciasse, ben prima che iniziassero ad attardarsi dopo i turni di guardia solo per chiacchierare un po' di più... lo aveva capito, sì, ma aveva cercato di non farlo.
Una volta, quasi per caso, Sirius gli aveva domando se si sentisse attratto da lei. Aveva mentito, ma Sirius non l'aveva bevuta e aveva riso di lui per dieci minuti.
L'attrazione si era trasformata ben presto in un altro segreto da nascondere al mondo. Si domandò se lei lo avesse capito. Magari no. Magari era solo una giovane con più avventatezza di quanta lui non avesse conservato.
Lo aveva appena baciato. In quel momento avrebbe preferito che lo avesse davvero preso a calci. Sospirò dolorosamente.
«Ninfadora, io...».
«Non dire niente, ti prego» lo interruppe lei con tono afflitto. «Ho già capito».
«No, non puoi aver capito».
Si sforzò di trovare le parole adatte con cui spiegarle ciò che dubitava potesse davvero capire. La maledizione, la guerra, lui e lei... non c'era nulla di appropriato. La guardò con folle intensità, desiderando per l'ennesima volta poter essere qualcun altro. La amava? Se lo era chiesto al punto tale da dimenticare quando quel pensiero avesse iniziato a tormentarlo. Forse era semplicemente così che iniziava l'amore, con infinite domande alle quali non si ha il coraggio di rispondere.
Non le rispose.
Sollevò una mano e le accarezzò delicato il volto pallido, la fissò chiudere gli occhi e inspirare come se in quella cucina fosse appena passato l'aroma dei fiori sollevato dal vento. Si chinò sulle sue labbra e la baciò piano, intrecciando le dita fra i suoi capelli rosa senza pensare a nient'altro. Solo per quel momento, solo per quella volta... un cervello finalmente libero e silenzioso. Sentire le mani di Tonks appoggiarsi sulle sue spalle e intrecciarsi dietro al suo collo era di certo la sensazione più dirompente che avesse mai provato.
Per un attimo si sentì felice.
Quando si scostò da lei, fu come precipitare in un abisso di desolazione.
«Non posso farlo».
Tonks aggrottò la fronte senza capire.
«Non posso» ripeté ancora lui, senza togliere la mano dal suo viso. «Meriti molto meglio di ciò che non potrei mai offrirti».
Nei suoi occhi balenò una luce risentita.
«Va' al diavolo: stai ricominciando con le stupidaggini. Credevo le avessi lasciate indietro».
Stupidaggini. È così che le aveva sempre definite. Era lo stesso modo con cui le chiamavano James e Lily e Sirius. Stupidaggini e niente più dell'insano desiderio di uno sciocco di restare da solo. Nessuno di loro aveva mai capito. Non James, non Lily, non Sirius.
Non Tonks.
«Silente ha bisogno che qualcuno si infiltri nei bassifondi abitati dagli uomini di Greyback» le comunicò con spietata franchezza. «Sono l'unico che può farlo».
Tonks dischiuse appena le labbra, si scostò dal suo tocco e scosse il capo come se non credesse a quanto aveva udito.
«Ma tornerai...».
«Non lo so».
«Non era una domanda».
«Meritavi comunque una risposta». Deglutì a fatica e non fu più capace di sostenere il peso del suo sguardo accusatorio. Si affrettò a voltarle le spalle per raggiungere la porta e aggiunse: «Ti prego. Lascia perdere».
Tonks non si lasciò abbandonare. Gli corse dietro e lo afferrò con brutale decisione per un polso.
«La guerra finirà e il mondo sarà un posto migliore. Dimmi che ci credi».
«Non importa» mormorò, voltandosi con forza verso di lei. «Il mio mondo resterà un posto del quale non vorrei facessi parte. Sono un Lupo Mannaro. Alla gente non interesserà altro e non gli interesserà nulla di te... ti faranno ciò che mi hanno fatto. Non posso permetterlo».
«Non quando tutta questa storia sarà finita» rimarcò ancora Tonks. La stretta della sua dita si fece più serrata. «La gente cambierà, cambieranno le leggi e il mondo e... ti prego. Se non ci credi, ti distruggeranno».
«Tu non sai nulla di guerra e distruzione, Ninfadora».
«No, ma so che senza speranza potrai solo morire...». Si conficcò i denti nel labbro inferiore, tremando appena. «Voglio che tu sappia che hai un motivo per cui vale la pena tornare vivo. Voglio che torni da me».
Remus tacque ancora.
«Io ti amo» confessò semplicemente Tonks, scrollando le spalle con un vago sorriso. «Non ti basta?».
Aveva ragione. Avevano bisogno di un motivo per il quale rimanere vivi. Ne aveva bisogno lui e ne aveva bisogno lei – più di quanto lei stessa non credesse. Era giovane e abile, ma l'inesperienza aveva già rischiato di ucciderla. Menti, sussurrò una voce lesta nella sua mente. Menti e dalle una possibilità.
«Tornerò» le rispose con un'ultima carezza. «Te lo prometto».
«Tornerai da me... o tornerai e basta?».
Dalle una possibilità.
«Tornerò da te».
Tonks sorrise con più serenità e intrecciò le dita con le sue. Remus si sentiva schiacciato dal rimpianto. No, non sarebbe tornato, ma lei non doveva saperlo. Aveva davvero ragione: in quei tempi disillusi avevano tutti bisogno di sperare.
E lei... lei era una sua priorità – l'unica, grande priorità. Era ciò che più di ogni altra persona avrebbe protetto.
Un giorno, forse, in uno di quei splendidi giorni a venire in cui lei tanto credeva, Tonks avrebbe capito.

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Capitolo 31
*** L'inverno del '76 - Remus, Sirius ***


One-shot scritta per l’anniversario di Pseudopolis Yard. Il prompt che ho scelto era inverno, perché siamo a fine giugno e mi piace fare scelte logiche.
 
 
 
 
*
L’inverno del ‘76
Remus Lupin, Sirius Black
1554 parole
 
 
 
Lo studio in cui Orion Black aveva trascorso la maggior parte della sua vita era probabilmente il locale più confortante di tutta Grimmauld Place.
Non lo era per Sirius, che fra quelle pareti non aveva incontrato altro che disprezzo e difficoltà, ma per Remus, tristemente avvezzo a squallidi appartamenti fatiscenti e a mobilie logore e tarmate, la morbida poltrona davanti al caminetto di marmo nero rappresentava una tentazione irresistibile. Aveva preso l’abitudine di chiudersi al suo interno nelle ore che separavano una riunione con l’Ordine da una ronda all’Ufficio Misteri – soprattutto quando Sirius diventava intrattabile perfino per lui, quando ogni frase più semplice si trasformava in un’ennesima crisi di nervi e finivano per mandarsi al diavolo a vicenda.
Era la terza volta in un mese che arrivavano ai ferri corti. Quando erano ragazzi avevano diviso lo stesso dormitorio per sette anni, condividendo ogni aspetto delle rispettive esistenze senza esitare, e nonostante gli ormoni impazziti e i caratteri così diametralmente differenti, non avevano mai davvero litigato. Avevano iniziato solo dopo, quando il sipario della guerra era calato sulla scena di Hogwarts e aveva messo fine agli anni in cui erano solo loro due, solo due ragazzini, solo Padfoot e Moony. Il passo per raggiungere il collasso era stato breve.
Remus aveva sottovalutato la fragilità della loro amicizia. Due anni prima, quando si era fiondato nella Stamberga Strillante e se lo era trovato davanti, lacero e irriconoscibile, l’istinto aveva prevalso sul suo controllo e si era gettato fra le sue braccia, con le dita che artigliavano il tessuto sciupato della tunica di Azkaban e un feroce pensiero di speranza a martellargli nella testa. Poi le cose fra loro avevano ripreso a traballare e quei dodici trascorsi ai margini della vita avevano preso la consistenza di una parete rocciosa.
La forzata prigionia che Sirius stava vivendo a Grimmauld Place non aiutava nessuno dei due. Era spesso nervoso, arrabbiato, imprevedibile, come il fantasma tirato al limite del ragazzo che era stato ai tempi di Hogwarts.
Il problema era Remus: lui sì che era cambiato.
Non era più il diciassettenne un po’ timido e arrendevole che si rassegnava ai colpi di testa di Sirius, non riusciva più ad annuire, a sopportarlo, a dargli ragione nella speranza di calmarlo. Gli ultimi dodici anni passati a spostarsi in totale solitudine da un angolo all’altro della Gran Bretagna lo avevano reso ben più ruvido e drastico di quanto non fosse stato quando era solo Moony, il Prefetto che scendeva a compromessi con Padfoot.
Quel pomeriggio avevano perso la pazienza per un motivo talmente sciocco e ridicolo che Remus ne avrebbe riso, se solo avesse conservato un po’ di ironia: Sirius stava parlando dell’ultimo racconto di Mundungus su una partita di candelabri contraffatti andata male, ridacchiando con quel sogghigno tutto suo che Azkaban non era riuscita a strappargli del tutto. Ma quando Remus gli aveva fatto notare che non trovava spiritose le imprese truffaldine di Mundungus, Sirius lo aveva accusato di essere diventato noioso, Remus aveva replicato di essere semplicemente onesto e il discorso era rapidamente degenerato in una lunga serie di “non usare quel tono superiore con me”, “scusa se la mia vita qui dentro non è interessante quanto la tua” e si era concluso con un solenne “fanculo, Remus”.
Così si era rifugiato nello studio di Orion Black con un libro che non aveva nemmeno aperto e si era ritrovato a fissare le fiamme crepitanti del camino senza vederle realmente. Quando il massiccio pendolo di quercia lo ridestò dai suoi pensieri, si accorse di essere lì dentro da più di un’ora. Si alzò dalla poltrona con l’intenzione di salire al piano di sopra per cercare Sirius, uscì dalla stanza e iniziò a percorrere il corridoio con passi grevi.
Sirius aveva sistemato Fierobecco nel sottotetto di Grimmauld Place, un ambiente basso ma sufficientemente ampio per accogliere una creatura di quella stazza. Tuttavia, nonostante il pagliericcio arrangiato sotto il grande lucernario e le continue attenzioni, Fierobecco mostrava a quella forzata prigionia la stessa irrequietezza del suo padrone.
Temendo che Sirius fosse ancora scosso da una tempesta interiore di sentimenti negativi, Remus bussò con blanda indolenza, piuttosto sicuro che l’amico non gli avrebbe nemmeno risposto. Fu sollevato di sentire la sua voce.
«Entra, Moony».
Remus si infilò con lentezza nella stanza e si richiuse cauto la porta alle spalle, ma l’Ippogrifo, acciambellato in un angolo come una grossa tigre piumata, sollevò la testa con uno scatto nervoso. Gli parve quasi di sentirlo ringhiare. Si inchinò piano, prestando attenzione a non fissare nient’altro che non fossero le assi lerce del pavimento, ma fu necessario l’intervento di Sirius per tranquillizzare Fierobecco.
«Sente che non sei umano» commentò con spietata franchezza Sirius. Era seduto su una vecchia cassapanca con la schiena appoggiata al muro. «Credo ti veda come un nemico».
«O forse ricorda che quando ci siamo conosciuti volevo sbranarlo».
Le labbra di Sirius si piegarono in una secca curva sarcastica.
«Probabile. Gli Ippogrifi non perdonano facilmente».
“Non solo loro” pensò Remus, restando immobile al centro della stanza e fissando l’amico con espressione placida.
«Sei ancora arrabbiato?» chiese Sirius con un tono di vaga stizza.
«Non lo ero nemmeno prima».
«Sì, invece».
Sirius spostò lo sguardo al cielo pallido che si intravedeva attraverso i vetri sporchi del lucernario e per un attimo rimasero in silenzio. Remus individuò una sedia di ebano con la seduta imbottita e si accomodò con calma, incrociando le lunghe gambe fra di loro.
«Quando eravamo a Hogwarts non ti arrabbiavi così spesso» commentò laconico Sirius.
Remus lo fissò per un lungo istante, soppesando il peso di quell’affermazione. Si massaggiò distratto le tempie, camuffando una risatina in un soffio fra i denti che a Sirius non sfuggì del tutto.
«Cos’ho detto di divertente?».
«Quando eravamo a Hogwarts tu eri decisamente meno irritante».
«E tu eri meno noioso».
«Meno immaturo».
«Meno arrogante».
Tacquero di nuovo, scrutandosi entrambi con un mezzo sorriso divertito. Fu Remus il primo a parlare.
«Siamo ridicoli».
«Già» sbuffò Sirius. Parve scosso da un pensiero improvvisamente vivace. «Ehi, ricordi la nevicata del ’75?».
«Dubito che qualcuno l’abbia scordata. Quell’anno ne scese così tanta che la professoressa Sprout rimase bloccata per un giorno intero nelle serre».
Sirius ridacchiò sfrontato. Per un attimo sul suo volto sciupato riapparve lo spirito scanzonato dei suoi sedici anni.
«Costruimmo una palla di neve così grande che la si poteva vedere perfino dalla torre di Astronomia» aggiunse con un sorriso storto. «Cindy, ricordi?».
«Santo cielo» mormorò Remus. «Avevo scordato che le avevi dato un nome… un nome molto stupido, fra l’altro».
«La facemmo saltare in aria con tutti i Fuochi D’Artificio di Filibuster che i Potter avevano regalato a me e a James per Natale».
«Solo i Potter potevano avere la scarsa lungimiranza di regalarvi un’intera scatola di esplosivi».
Sirius rise.
«Cinquantacinque punti in meno a Grifondoro e due settimane di punizione. Minerva era davvero furiosa».
«Mi domando per quale motivo» scherzò Remus. «Dopotutto Cindy era solo esplosa in centinaia di proiettili di neve che avevano rischiato di decimare metà degli studenti di Hogwarts».
«Che diavolo è un proiettile?».
Remus nascose un sorriso beffardo nel palmo della mano.
«È il motivo per cui quell’anno Grifondoro non vinse la Coppa della Case».
Risero entrambi e occuparono i successivi minuti ricordandosi a vicenda ogni momento di quel glorioso pomeriggio di dicembre di tanti anni prima. Per un caso fortuito, il professor Vitious aveva appena aperto la finestra dell’aula di Incantesimi ed era stato sommerso da una palla di neve vagante grande quanto la sua testa; un tizio del quinto anno di Tassorosso di cui non riuscivano a ricordare il nome aveva perfino perso un dente. Alla fine era stata Lily a togliere loro tutti quei punti, e aveva deciso di aggiungerne cinque in virtù del fatto che trovava il nome Cindy particolarmente inadatto a una gigantesca palla di neve.
«È stato il periodo più bello della mia vita».
Remus lo guardò. Sirius aveva ripreso a fissare il lucernario con espressione triste e una smorfia di vago rancore sul viso. Non riuscì a dire nulla.
«Io, te e James…» continuò con voce roca. Remus si chiese quanto gli stesse costando lo sforzo di non nominare mai Peter. «I Malandrini con la loro Mappa. Eravamo in gamba, vero? Eravamo davvero in gamba. Nessuno sapeva volare come James. Era straordinario».
Le parole parvero mozzarsi nella sua gola. Si avvicinò le gambe al petto e appoggiò le braccia alle ginocchia, tenendo il capo chino sulle mani. Nei suoi occhi brillavano dolore e risentimento. Era piuttosto sicuro che in quel momento la sua espressione era la stessa dell’amico.
«Padfoot…».
Tentò di dire qualcosa – qualunque cosa – ma non fu in grado di liberarsi dal peso opprimente di quel silenzio gelido che era nuovamente piombato fra di loro.
«Nevica» commentò infine Sirius, indicando il lucernario.
Alzò lo sguardo. Nonostante la patina opaca, Remus vide i primi fiocchi di neve posarsi lenti e placidi sul vetro. Uno, due, tre. Tentò di distrarsi contandoli uno ad uno, ma presto la voce di Sirius lo artigliò di nuovo alla realtà.
«Vorrei poter fare esplodere ogni cosa ancora una volta».
Remus continuò a tacere.
Era d’accordo con lui.
 

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Capitolo 32
*** La verità - Remus/Sirius ***


Scritta per la Battaglia Navale di Pseudopolys Yard (cliccate sul link, cliccate sul link, cliccate, cliccate…) dove lo scopo del gioco e del dolore è quello di affondare le ship. Perché non ci piace soffrire. :)
Il prompt era “I bet my life” degli Imagine Dragons.
 
 
 
 
*
La verità
RemusxSirius
1100 parole
 
You tell me to hold on
Oh you tell me to hold on
 
« Non dire niente ».
Remus socchiuse le palpebre per un istante, permettendo alla voce gracchiante di Sirius di artigliargli ancora una volta la mente, di entrare e fare a pezzi un altro angolo della fotografia del giovane che ricordava. Ormai ne conservava solo le briciole.
« Non potrai ignorarmi per sempre » lo ammonì con voce debole. Lasciò vagare lo sguardo fra i mobili impolverati della cucina di Grimmauld Place nel vano tentativo di trovare una distrazione. « E questo posto andrebbe pulito come si deve ».
Sirius tacque. Continuò a giocherellare con le linee del tavolo di legno, seguendone le curve con il polpastrello in monotoni cerchi concentrici per diversi secondi ancora, fino a quando Remus non perse la pazienza.
« Ora devi ascoltarmi ».
« Lo faccio ».
« No, tu non ci provi nemmeno » replicò con durezza, trovando finalmente il coraggio di varcare la soglia della cucina e di piazzarsi di fronte a lui. « Forse non ci sei mai riuscito proprio per questo motivo ».
Non era del tutto sicuro che avrebbe voluto trovarsi lì, né che quello forse il momento o il luogo adatto per quella conversazione, per quelle parole. Avevano già aspettato troppo – e Sirius lo sapeva quanto lui. Avevano aspettato prima un giorno, poi una settimane, poi mesi interi… e un anno dopo niente di ciò che di loro era cambiato era ritornato a posto.
Aveva trascorso l’ultimo anno a chiedersi se sarebbero mai riusciti a tornare indietro. C’erano degli istanti in cui ci credeva davvero, in cui non vedeva altra possibilità, perché non era semplicemente concepibile che Sirius non desiderasse cancellare ogni sbaglio quanto lo desiderava lui. E in quei momenti di folle positività ogni strada sembrava in discesa, ogni violenza del passato dimenticata.
Poi lo vedeva.
Vedeva il suo viso, i segni del tempo e di Azkaban, la profondità dei suoi occhi grigi spenta per sempre dall’avida fame dei Dissennatori… e sapeva cosa vedeva Sirius. Vedeva l’ombra di un uomo che sorrideva con le labbra e non più con gli occhi, cercava di scorgere il ragazzino con i riccioli biondi e ne trovava solo lo spettro dai capelli ingrigiti.
Il tempo in cui si erano amati di nascosto sembrava perduto per sempre. Erano lucciole, erano fiocchi di neve, erano fili d’erba… all’epoca Sirius si divertiva a trasformare ogni loro carezza in una metafora stupida. Remus ne rideva fino ad avere il singhiozzo, ma poi aveva capito per quale motivo Sirius continuasse a trovare di volta in volta sempre più metafore con il mondo, sempre più meraviglie a cui legarsi… erano sbagliati, loro due.
Lo sapevano tutti.
Sirius era un ricco Purosangue rinnegato da una famiglia di psicopatici, mentre lui era un disgraziato Lupo Mannaro con la divisa di seconda mano. Forse le cose non sarebbero migliorate nemmeno se non fossero stati due ragazzi. O forse sì – una delle cugine di Sirius non aveva forse sposato un Nato Babbano?
Storie diverse. Ragazzi diversi.
« Non mi devi niente, Sirius » iniziò Remus. « E io non devo nulla a te. Cerchiamo di non dimenticarlo ».
Sirius sollevò appena il capo e gli rivolse un’occhiata inquisitoria.
« Lo credi davvero? ».
“Certo che no”.
« Credo non abbia più importanza, giunti a questo punto. Sono passati dodici anni… ». Sirius distolse lo sguardo con un lampo di stizza nello sguardo, ma Remus proseguì ugualmente: « …siamo persone diverse. Siamo cambiati. Saremo sempre il passato l’uno dell’altro, ma io… ».
« Dillo, Moony » lo incitò bruscamente Sirius. « Dillo e basta ».
« Credo di aver smesso di amarti da molto tempo ». Si appoggiò al tavolo e incrociò le braccia al petto con un timido sorriso nostalgico. « Anche se probabilmente amerò per sempre il ricordo del ragazzo che sei stato… di ciò che eravamo, ciò che avevamo. Ma non siamo più noi. Non abbiamo più niente di noi ».
Sirius emise uno sbuffo di maligno sarcasmo.
« Non ti ricordavo così lapidario ».  
« Lo so » sussurrò Remus a capo chino. « E mi dispiace ».
« Non è vero » ribatté Sirius. La sua voce iniziava a tramutarsi nel sibilo d’odio che Remus aveva iniziato a temere. « A me hanno costretto a dimenticarti, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Mi hanno scavato nelle viscere e si sono aggrappati a tutto ciò che trovavano… ti ho tenuto stretto nella mia testa come nient’altro, gli ci sono voluti anni perché io ti lasciassi a loro… e a me che dispiace ».
« Sirius… ».
« A te è stato sufficiente il tempo » concluse rabbioso. Si alzò in piedi di scatto e lo fissò con sguardo astioso. « Hai ragione, Moony: non ti devo niente. Cerca di non dimenticarlo ».
Remus si frappose fra lui e la porta prima che Sirius abbandonasse la cucina. Colpì lo stipite di legno con un pugno furioso e si conficcò le unghie nei palmi, incapace di credere che quella fosse realmente la strada che lui intendeva percorrere.
« Non osare mai più insinuare che sia stato facile, che sia stato naturale… ». Anche la sua voce iniziava a ricordare il basso ringhiare di un animale arrabbiato. « Tu non c’eri e tutto ciò che conservavo di te era la maledetta confusione per ciò che avevi fatto! Io ti amavo come non ho mai amato nient’altro e tu… ».
Scosse il capo e abbandonò le braccia ai fianchi, appoggiandosi con aria sconfitta alla parete. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Dopotutto lo aveva già accettato da tempo, forse Sirius non aveva torto. Aveva accettato da tempo ciò che era accaduto, si era rassegnato e si era abituato. Prima o poi anche Sirius lo avrebbe capito.
« Hai ragione » gli disse. Sentiva gli occhi bruciare, ma per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai lasciato andare davanti a lui – non più. « Mi è bastato il tempo. E vuoi sapere la verità? ». Si lasciò andare a una risatina nervosa. « La verità, Padfoot, è che mi è servito troppo tempo. La verità è che ho smesso di amarti nel momento esatto in cui ho scoperto che Peter era vivo e tu eri innocente… perché l’unica spiegazione era che tu non mi avevi amato abbastanza per fidarti di me ».
Sirius sferrò un calcio furioso a una sedia, ma non aggiunse altro.
 
But innocence is gone
And what was right is wrong
I bet my life – Imagine Dragons
 

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