Terre Rare

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione - NOTTE ***
Capitolo 2: *** GIORNO - Aleeah ***
Capitolo 3: *** NOTTE - Gli Eredi ***
Capitolo 4: *** GIORNO - Takrin Cryso ***
Capitolo 5: *** NOTTE ***
Capitolo 6: *** GIORNO ***
Capitolo 7: *** NOTTE ***
Capitolo 8: *** GIORNO ***
Capitolo 9: *** NOTTE ***
Capitolo 10: *** GIORNO ***
Capitolo 11: *** NOTTE ***



Capitolo 1
*** Introduzione - NOTTE ***



Introduzione - NOTTE
 

 
Piccolo spazio-me:
Questo romanzetto (perché tale lo considero) è frutto della mia fantasia, così come alcune delle creature che inserirò (poche a dire la verità). Le altre fanno parte del bestiario e dell’ambientazione fantasy. Ho voluto inserirvi quante più creature possibile, perché le mie Terre Rare le immagino come un mondo dalla popolazione molto varia. Un mondo enorme, peculiare anche dal punto di vista del progresso. Vedrete!
La stesura è particolare: questo capitolo parte all’incirca dai tre quarti della storia –una sorta di piccolo sguardo al futuro, tanto per stuzzicarvi un po’. Dal prossimo, la storia sarà lineare e si svolgerà fino ad arrivare qui. I capitoli si divideranno in Giorno e Notte, ognuno con una sua storia.
Per il resto… ho inserito due piccole note a piè pagina (spero non siano superflue!).
Vi lascio la capitolo! Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate!
Ah… vietato copiare/riportare altrove questo (integrale, sue parti, i personaggi etc etc) senza il consenso dell’autrice (ovvero la sottoscritta) U_U
 
 


 
I Capi avevano scelto quel luogo perché era alle propaggini meridionali dei loro regni, lontano dalla città quanto bastava per renderli invisibili e nella congiunzione esatta dei confini di ogni dominio.
Era una scogliera, una lama di roccia che cadeva a picco verso l’oceano, illuminata da cerchi concentrici di torce che sibilavano e schioccavano al vento salmastro della notte. Sulla sommità, una tenda molto ampia e dall’aspetto decisamente malandato –quasi fosse stata tenuta per secoli chiusa in un baule- attorno alla quale si affaccendavano decine di figure silenziose. Un basso mormorio proveniva da oltre il tessuto, troppo flebile per non essere nascosto dal chiasso che saliva dal fondovalle, dove l’accampamento era cresciuto sui tre fronti.
Ad ovest, sulla larga linea della spiaggia a poca distanza da dove l’ammiraglia della flotta era alla fonda, quello dei Neutri: una decina o poco più di tende di cotone grezzo color della sabbia per la maggior parte disabitate. I corsari -vestiti di cotone blu e camicie bianche- preferivano il mare, ma occorrevano delle sentinelle per presidiare l’approdo.
A sud invece c’era una torre in pietra circondata da piccole casette -non più di una stanza ciascuna- ammassate senza ordine le une sulle altre, troppo poche per ospitare l’ingente esercito ivi radunato; era questo il fortino più orientale dei Rei, illuminato da troppe torce e presidiato da guardie vestite di nero e viola.
A nord est della scogliera, arroccate al limitare di roccia e bosco, c’erano una serie di casermoni bassi di legno scuro, sorti nel giro di una notte e difesi da una muraglia di tronchi appuntiti: l’accampamento dei Puri, troppo chiari nella notte con le loro divise di un giallo tenue.
La vita fremeva negli accampamenti, scudieri e soldati semplici che lucidavano armature ed affilavano spade, servetti che correvano fra una tenda e l’altra al suono di ordini perentori, portando secchi stracolmi d’acqua o di cibo; cuochi cuocevano decine di pietanze diverse sugli enormi fuochi della spiaggia, nei forni sotterranei del fortino, nelle cucine al centro dei casermoni. Nella torre di roccia puttane esibivano la merce fra le righe dei soldati, offrendo un diverso modo per scaldarsi in quella notte troppo tiepida di inizio autunno, mentre sulla spiaggia i marinai scalpitavano, cantando canzoni sugli oceani e le città lontane dalle quali provenivano, sulle donne che avevano amato, sulle tempeste che li avrebbero per certo colti se fossero rimasti troppo a lungo ancora alla fonda.
L’accampamento in legno era apparentemente silenzioso: nelle stanze cantori e flautisti e poeti davano sfoggio della propria abilità nell’arte; molti di loro erano guerrieri senza pietà né paura quando occorreva, ma nessuno l’avrebbe potuto mai dire, vedendoli cantare d’amore e suonare e danzare.
Fremeva la vita negli accampamenti, ma non ce n’era nella terra di confine: nessuno si muoveva fra una fortificazione e l’altra, né c’erano contatti fra i soldati dei diversi schieramenti. Troppo rischioso; nessuno dei Capi avrebbe dato agli altri un motivo per distruggerlo, non durante la tregua.
Erano tutti riuniti nella grande tenda sulla scogliera, i Capi: tre figure ammantate e mascherate sedute attorno ad un tavolo rotondo, circondate da cinque guardie ciascuno, disarmate ed a volto coperto. Non erano premesse armi di sorta all’interno della tenda -nessun Capo si fidava della parola dell’altro: erano in uno stato di pace-guerra da troppo tempo, in stallo ed in attesa. Ma la situazione richiedeva che fossero alleati, loro malgrado.
Accadeva di rado un concilio del genere: l’ultimo, non meno di un secolo e mezzo prima, aveva stabilito importanti linee guida nell’arruolamento, e fra loro ora riuniti uno vi aveva partecipato; eppure, la motivazione che li conduceva lì era fra le più gravi mai affrontate dal tempo dello Scisma.
Il tavolo era diviso da tre linee che si congiungevano al centro, ognuna di loro a delimitare una sorta di triangolo a base curva di un colore diverso, blu mare per i Neutri, viola per i Rei e giallo pallido per i Puri, gli stessi colori che indossavano i capi e il loro seguito.
«Urge un attacco in forze, preventivo e fulmineo, così da abbattere definitivamente ogni tentativo di ribellione» grugnì il Capo vestito di viola e nero, battendo la mano sul tavolo per dare enfasi alle sue parole. Aveva una maschera a forma di volto di donna, demoniaca e sensuale, ma la sua voce ed il suo accento tradivano il suo essere un maschio d’arpia, sebbene le vesti larghe nascondessero la sua fisicità quasi totalmente.
«Proponi una guerra che nessuno di noi può vincere. Ed io non ho intenzione di andare al macello per soddisfare il tuo ego, Seh’rean» ruggì il Capo vestito di giallo, non lasciando dubbi sulla sua natura. Aveva una maschera a foggia viti e rami incrociati, i tratti del volto appena abbozzati.
«Possiamo, invece! E lori ci hanno sfidati. Intendi restare a guardare mentre si fanno beffe di noi, intendi aspettare finché la loro potenza non crescerà al punto di schiacciarci? Da che parte stai, Vento di Inverni?» Seh’rean gracchiava parlando, emettendo fin troppo spesso versi gutturali, non abituato ad usare la lingua comune.
«SE davvero l’hanno fatto, non credo sia stato per boria o vanità. Le forze le hanno già, i loro adepti se li allevano, non li rubano né tantomeno attendono che vengano da loro» rispose Vento di Inverni, masticando le parole così che parevano simili ad un ringhio minaccioso, mitigato dalla sua incapacità a pronunciare bene le r.
«Sono più prolifici, senza dubbio, ma la maggior parte di loro sono umani» Seh’rean sollevò una mano, indicando alle sue spalle i guerrieri del suo seguito; un centauro baio dall’aria nervosa, un nano tozzo, un minotauro, un lupo e un’evanescente salamandra*. Tutti a petto nudo tranne la femmina, chiaramente riconoscibili se non per le maschere che indossavano.
«Dimentichi la loro arte» ribatté pronto il signore dei Puri, piegando il busto in avanti. Le dita iniziarono a tamburellare sul legno giallognolo, nervose.
«Arte… qualunque creatura muore con una lama sulla gola, o una pallottola in testa. Sul corpo a corpo, abbiamo il vantaggio, Cacciatore»
«Il corpo a corpo si può evitare, Seh’rean. Sulla distanza, sono notevolmente più forti»
«Ma lenti a castare, per la maggiore. Ed anche noi abbiamo armi utili sulla distanza»
I toni avevano cominciato a scaldarsi, da entrambe le parti. Erano giorni che discorsi del genere andavano avanti.
«E loro scudi. Dimentichi gli Illusionisti, Re di Roccia» il tono con cui Vento di Inverni pronunciò il titolo del Reo era carico di derisione.
Lo sanno.
«E tu poni troppa fiducia in loro. Il nostro bel Narciso qui ha i cannonieri più formidabili di tutte le Terre Rare» disse l’arpia, facendo un laido cenno verso il capo vestito di blu, che non rispose né si mosse.
«Li ho visti all’opera, Seh’rean. A tua differenza» riprese il Cacciatore, senza degnare il Narciso di alcuna attenzione «Nessuna dichiarazione formale ci è giunta» concluse, perentorio.
L’arpia si mise a ridere sguaiatamente, battendo il palmo sul tavolo come un pazzo «E tu proporresti di attendere fino a quando non ci saranno in casa? Credi davvero che avvertiranno prima di calare a macellarci addosso? Sono tre anche loro, o l’hai dimenticato? » lo scherno nella sua voce era evidente. Rideva in faccia al Cacciatore, che sembrava sul punto di saltargli alla gola.
Le loro marionette non sanno neppure mantenere la calma. Come faranno a decidere qualcosa?
Il suono di una campanella fece morire in gola la risposta a Vento di Inverni. Tutti si girarono verso il lato blu della tenda, a guardare la figura femminile che aveva richiamato l’attenzione. Tutti i Neutri indossavano maschere bianche dai tratti austeri, i lineamenti appena abbozzati, inquietanti nella loro semplice severità. I pirati avevano il corpo interamente coperto da lunghi mantelli, che nascondevano il sesso e la razza; solo la femmina era riconoscibile come tale, il seno scoperto dalla scollatura tipica delle puttane.
Il Capo si schiarì la voce.
«Parlate di dormire od attaccare. Ma nessuno di voi propone di parlamentare. Abbiamo una tregua, che nessuno ha fino ad ora infranto. Perché arrischiarci ad una guerra che ci distruggerebbe o restare fermi ad attendere la morte senza provare a risolverla a favore di entrambi» il maschio, forse un elfo dei laghi a giudicare dal poco accento, sollevò una mano, zittendo le risposte degli altri con garbo «è un occasione per valutare le loro forze. Incontriamoli in territorio neutrale, vediamo cosa presenteranno noi, indi decidiamo»
La campanella suonò ancora.
 
Molto più tardi, sulla nave, la femmina vestita di blu si tolse mantello e vestiti. Era una donna** molto giovane, dall’avvenenza strana e gli occhi un poco a mandorla, leggermente pieganti e d’una sfumatura viola. Un ibrido, si sarebbe pensato, vedendola in volto.
C’erano due maschi avvenenti e coi capelli blu che l’attendevano sul grande letto a baldacchino della cabina del comandante, sorseggiando brandy delle città della luce.
«C’è un traditore, fra noi. Ma chi tradisca, non so» sussurrò la ragazza nuda, attraversando la stanza. Aveva i capelli color del mare che identificavano la guardia del Capo.
I due maschi -un uomo ed un elfo- non le dedicarono nemmeno un’occhiata lasciva, limitandosi ad accigliarsi.
«Domani sceglieremo» sentenziò l’elfo. Aveva una voce modulata, la cortesia nei gesti. La sua età era indefinibile, anche se appariva giovane. La ragazza annuì, quindi si volse verso un grande armadio incassato alla parete, dando le spalle ai due maschi.
«Dove vai?» chiese preoccupato l’uomo, anche lui poco più di un ragazzo, distendendosi sul letto.
«Da Seh’rean, per quanto mi disgusti. E da Vento di Inverni, poi. Devo capire chi è che servono» disse la ragazza, indossando un abito bianco –il colore della tregua. Il vestito aveva lo scollo troppo ampio, della stessa forma di quello che aveva indossato nella tenda. I due maschi sapevano cosa voleva dire.
«Non devi farlo, bella Rosa Blu» disse l’elfo, improvvisamente serio «questa notte, resta con noi»
«Devo. Anche se spero non chiedano. Non riuscirei a farmi toccare da quel pazzo di Seh’rean. Mi fa ribrezzo» un brivido le passò lungo le braccia pallide; storse la bocca, allacciandosi un sandalo ed avviandosi verso la porta.
«Fermati» ordinò l’uomo, alzandosi di scatto per prenderla.
Arrivò troppo tardi.
La Rosa aveva già lasciato la stanza.
 


 


* creature mitologiche; io le ho intese simili a quelle della mitologia celtica, ovvero una sorta di fate del fuoco. Per intenderci, vedetele come creature dalle sembianze umane, capaci di crearsi ali infuocate, il cui habitat sono fuochi e crateri di vulcani.
 
** avrete notato che uso il termine femmina e maschio, genericamente, per indicare una creatura di quel sesso. Il termine donna ed uomo indica solo gli esseri umani di sesso femminile o maschile (come elfo od elfa indica creature maschi e femmine di razza elfica). Magari sembra banale, ma è per non far confusione. Ragazzo e ragazza sono generici, ossia applicabili a qualunque razza :) 

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Capitolo 2
*** GIORNO - Aleeah ***



GIORNO

Aleeah

 

 
 
 
La prima volta che Aleeah aveva visto l’Accademia aveva scordato di respirare.
Era un edificio maestoso situato nella via principale della città, interamente costruito in marmi bianchi e rosa; era rimasta affascinata a guardarlo, i grandi occhi da bambina colmi di rispetto e soggezione.
Ricordava –come fosse successo il giorno prima- l’odore della stanza, un misto di spezie e menta, e la donna che l’aveva fatta sedere chiedendole cosa volesse; Aleeah non lo sapeva, ma loro l’avevano esaminata ed infine spedita lì, dai Bianchi. Positiva.
Aveva cinque anni allora, un cucciolo di Aquila* bruna piena di promesse; dieci anni dopo, quando le era stato imposto di scegliere la via che avrebbe desiderato seguire, era una ragazza piena di curiosità ed estremamente vivace, vestita di una tonaca bianca larga e seduta fuori dall’ufficio di Dionio, il centauro albino che dirigeva l’Accademia Bianca.
«Credi che sarà difficile? Insomma… uno stregone deve avere la magia innata, cioè... voglio dire, se ce l’ho –i poteri, intendo- dovrei essere ammesso d’ufficio, no?» l’ansioso mezz’elfo che le sedeva accanto non la finiva più di tormentare la lunga treccia color blu cobalto; era estremamente nervoso, ed ogni tanto s’interrompeva, per tirare lunghe boccate d’aria «per gli Dei, quanto ci mette Dea?»
«Credo che ormai avrà finito gli argomenti. È logorroica, tutte le ninfe lo sono e tu lo sai bene. Sarà stata accettata nella cerchia dei Druidi, così come tu verrai accettato negli Stregoni»  
«Non dirlo! Porta male!» il ragazzo allungò le mani davanti a sé, incrociando le dita in un gesto scaramantico; aveva sedici anni ed i lineamenti elfici –orecchie a punta, tratti delicati e quasi femminei, lunghi capelli di un colore improponibile- ma la mascella forte e lo sviluppo veloce facevano pensare che in lui ci fosse molto più della donna che l’aveva generato che non del padre elfo.
«Dave, sei un mezzo-qualcosa di scienza! Cos’è tutta questa superstizione?» rise la ragazzina, dando un colpetto alle dita dell’amico, cercando di fargliele abbassare.
«Aleeah, giuro che ti ammazzo con queste mie mani se non divento stregone»
«Hai mani troppo curate, figurati se riesci ad uccidermi con quelle!» Battibecchi da bambini; non c’era nessuno nel lungo corridoio, tutti gli altri erano entrati vestiti di bianco, per uscire con la sovra tunica del loro Ordine.
«Invece posso eccome. E comunque…» il tono di Dave mutò dall’irato al cospiratorio, abbassandosi fino a divenire un sussurro «cosa hai scelto?»
«Niente. Non lo so, intendo. Penso…» la giovane Aquila sospirò, chinando il capo «mi piacerebbe…» fece, ma si interruppe quando una mano le calò sulla spalla; alzando gli occhi, un sorriso le si dipinse in volto: Deahanne’ls. Dave e Aleeah avevano rinunciato sin dal principio a pronunciare il suo nome, affibbiandole quel soprannome: Dea –e simile ad una dea era davvero: snella anche se ancora priva di forme, lunghi capelli ed occhi nocciola, una voce melodiosa ed un carattere meraviglioso, entro qualche anno sarebbe tornata nel bosco della sua famiglia, all’albero da cui era nata, per diventare un’Alseide** completamente sviluppata, destinata ad avere orde di maschi ai suoi piedi. Ora, indossava una sorta di corto grembiule verde oliva sopra la tunica bianca.
«Lo sapevo» sorrise Aleeah, ma qualsiasi domanda venne interrotta dalla voce autoritaria di Dionio, che intimò a Dea di recarsi dalla sua Arte e a Dave di seguirlo.
«In bocca al Lupo» sussurrò la giovane Aquila all’amico, prima di disporsi all’attesa.
 
Dave era uscito vestito di sovra tunica viola, il che tranquillizzò Aleeah: lui non l’avrebbe uccisa. Se Dionio sarebbe stato altrettanto magnanimo, però, la ragazza non sapeva.
«Sei l’ultima, Aquila?» l’accolse il direttore con voce stentorea. Aleeah annuì, incapace di parlare: il centauro la metteva in estrema soggezione «Bene. Concludiamola velocemente. A cosa aspiri?»
«Veramente…» attaccò Aleeah, guardando fisso un mucchio di carte impilate sulla scrivania di mogano del Maestro «… ecco, credevo doveste essere voi a dirci…»
«Hai avuto, quanti? Dieci anni almeno, per scegliere la tua Via. Ti è stata fornita un’infarinatura di ognuna Arte e su queste sei stata valutata. Alcune ti sono precluse, altre aperte, ma DEVI esserti fatta un’idea, una preferenza. Sapevi che avresti dovuto scegliere, terminata la prima fase degli studi» il centauro albino aveva inasprito la voce, accigliandosi.
«Io…»
«La farò breve. Sei stata bocciata in Stregoneria: non hai in te abbastanza capacità magiche per poter sfruttare l’Arte senza Catalizzatori. Questo ti preclude l’arte Druidica, i cerimoniali degli Elementali e la Stregoneria classica. Mi hai seguito fin qui?»
Aleeah annuì, evitando lo sguardo severo di Dionio.
«Bene. La Stregoneria Magica e quella Pozionistica sono due scelte ugualmente valide» riprese il centauro, sfogliando un documento «le tue prestazioni in Distilleria sono state discrete. Ritengo non saresti una Pozionista eccellente, ma puoi sceglierla. Per quanto riguarda la Magia classica… » e qui il Maestro fece una lunga pausa, leggendo con cura il foglio prima di riprendere «hai scelto come catalizzatore il Quarzo. Inusuale per un’Aquila. La magia ti riesce in maniera sufficientemente buona da indurmi a consigliarti di intraprendere questo percorso. Ma…» si interruppe ancora, soppesando Aleeah, che ora fissava ostinatamente un nodo nel legno della scrivania che li divideva « …guardami, ragazzina! Sarò franco, un’Aquila non vive abbastanza a lungo da avere il tempo di raggiungere vertici elevati. Occorrono almeno sessant’anni per divenire mago, e tu vivrai al massimo centocinquant’anni. Puoi tentare, ma se sogni di divenire grande, dovrai lavorare o rinunciare alle tue aspettative. Ma c’è una nota positiva: sei una Sensitiva discreta. Illusionista o Veggente, questo è il mio consiglio» concluse il centauro, così repentinamente che Aleeah ci mise un paio di secondi a metabolizzare il tutto.
«Il… illusionista? Io? Ma… occorre la magia innata per…»
«Occorre controllo sulla mente. Occorre saper castare incantesimi. Sai fare entrambe»
Aleeah annuì, senza sapere realmente bene cosa  stava facendo. Voleva davvero essere una Distillatrice mediocre? Se fosse riuscita a superare i corsi, la Gilda dei Medici non le avrebbe accettato il praticantato, ne era certa: il suo ultimo distillato di salute era coagulato in un veleno, e Dea aveva rimediato in fretta e furia, strappando la sufficienza ad entrambe. D’altro canto, la Magia in sé non le piaceva, nonostante le riuscisse; amava la PsicoArte –per qualche tempo aveva pensato di divenire una Sensitiva o un’Astrologa- ma tendeva troppo a distrarsi. L’Illusionismo, però… giudici, magistrati e Grandi erano Illusionisti. Gente di potere.
«La Casta degli Illusionisti è chiusa. Come faccio ad entrarci?» domandò Aleeah, titubante.
Dionio le sorrise compiaciuto.
«la sovra tunica bianca o la grigia. Illusionismo o PsicoArte. Decidi, giovane Aquila.»
 
Aveva scelto la veste grigia, indossandola senza pentimenti per i seguenti otto anni. Senza difficoltà Aleeah era divenuta una Veggente fra le migliori che l’Accademia Bianca avesse istruito fino a quel momento, ma non aveva avuto modo di mettersi realmente alla prova all’esterno delle mura di marmo.
Fino ad ora.
Ventitré anni, una veste grigia bordata di argento indosso, Aleeah attendeva nell’ampio ingresso l’arrivo della delegazione Nera.
 

 


Piccolo spazio-me:
Comincio a presentarvi un po’ di personaggi, giusto per farvi capire di chi parleremo :) non preoccupatevi, un po’ di punti oscuri ve li chiarisco nel prossimo capitolo! Lo so che è corto, ma vedrò di aggiornare presto! 
Commentate U_U
 
 
*: un’Aquila è a metà tra un angelo ed un’arpia; non è un’ibrido di queste due razze, ma una razza a sè. Ha forma umanoide, ma lo scheletro è cavo (come quello degli uccelli) cosa che la rende fragilissima ma adatta al volo. Ha grandi ali retrattili, solitamente del colore dei capelli e degli occhi, piccole piume alla base della schiena. Come altre razze-animali, non è molto portata per la magia.
 
**= Ninfa dei Boschi

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Capitolo 3
*** NOTTE - Gli Eredi ***



NOTTE

 
 
Di Notte, la Città tace.
È un luogo silenzioso, senza nome, senza vita, senz’anima; chiude le imposte al mondo esterno, nascondendosi e fingendo di non vedere il crimine e le armi.
Ci fu un tempo, quando “la Città” era ancora “Cydonia”, in cui esercito e magia coabitavano pacificamente; c’era crimine ed ordine, ferocia e ragione. A quei tempi, sette Angeli governavano Cydonia da scranni d’argento, mentre sette Vampiri armavano gli eserciti, sotto gli occhi vigili degli Dei, garanti dell’equilibrio.
Era il tempo dell’oro, quando le divinità camminavano sulla terra e Cydonia governava il mondo, conquistato una provincia dopo l’altra, faro di cultura e tecnologia. Poi, Elemiah l’angelo Verde cadde, mischiando il suo sangue a quello di Caliel, il vampiro più giovane; l’equilibrio si ruppe, gli eserciti si mossero, i magici si schierarono. D’un tratto, la battaglia: gli Angeli accusavano i Vampiri di aver corrotto la loro sorella, i vampiri rispondevano che un loro fratello era stato contaminato, costretto alla forma umana.
Elemiah e Caliel vennero giustiziati dagli Dei, e questa fu la loro rovina.
D’un tratto, la Guerra esplodeva nella città d’oro: i vampiri guidarono gli eserciti, forti della tecnologia e delle armi, gli Angeli risposero con la Magia; gli Dei intervennero e caddero, nell’arco dei trecento anni che frammezzarono il regno e distrussero le due fazioni.
Niente venne risparmiato, non c’era più rispetto o sacralità: pile di cadaveri marcivano nelle strade, il sangue che zampillava dalle fontane. Intere razze furono portate all’orlo dell’estinzione, mentre fratelli si combattevano a vicenda, forti delle proprie idee. Qualcuno cercò il potere, qualcuno la gloria, qualcun altro lo stupro e il saccheggio; la maggior parte morì per le proprie utopie.
Il settimo giorno del settimo mese del trecentesimo anno di guerra, solo Uriele dalle Ali Bruciate –un tempo Uriele il Giallo- e Lauviah erano rimasti, l’uno contro l’altro. Dietro di loro, eserciti stremati, terra bruciata, rovine. L’estate ed il deserto stavano distruggendo il mondo.
Lauviah gridò, sollevando la spada che era appartenuta a suo fratello Caliel.
Uriele chinò il capo.
Si incontrarono laddove la Torre degli Dei era sorta; sedettero sugli scranni dorati, fra le macerie, e parlarono per un giorno ed una notte dell’equilibrio.
Nessuna forza avrebbe prevalso; sarebbero finiti per distruggersi.
Decisero, chiudendo un’era.
 
Il mondo si divise.
Ogni singola creatura, dalla più minuscola fatina al più alto titano, fu chiamata scegliere la propria fazione.
La Magia e la Scienza avrebbero dominato il giorno, ed il loro regno sarebbe stato ogni singolo acro di terra toccato dalla luce; Uriele avrebbe dato la sua vita e la sua Arte per creare un mondo perfetto, di pace e legge. Non una goccia di sangue dell’Arte sarebbe stato versato, comandò l’Angelo.
La forza Militare invece avrebbe avuto la notte. A loro tutto era permesso, la guerra e il sangue e la lotta. Lauviah promise, mettendo a garanzia la sua non-vita.
Gli Ultimi stabilirono questo: nessuna delle due fazioni avrebbe dovuto praticare l’Arte dell’altra; i Giudici del Giorno l’avrebbero impedito. Chi della Notte fosse stato scoperto dalla luce del giorno, sarebbe stato giudicato un trasgressore e come tale giustiziato; ma chi del Giorno fosse stato trovato fuori dalle proprie case, sarebbe stato arruolato nelle Legioni della Notte, e marchiato col segno di Lauviah.
Lauviah e Uriele stilarono il patto, suggellandolo col plasma; poi, gli ultimi membri delle due razze immortali scomparvero, consumati dai loro stessi giuramenti.
La città rinacque, splendente come nei Tempi dell’Oro, eppure priva di identità. Non più Cydonia, ma la Città Divisa.
Era lo Scisma.
Da quella notte, e per le venti notti seguenti, le strade furono insanguinate: nessuno di giorno pareva notare i cadaveri, limitandosi a lavar via il sangue dal marmo bianco come fosse il succo di un melone caduto per distrazione. Per gli Attinidi, i Lantanidi non esistevano.
La ventunesima notte del primo anno dell’Era dello Scisma Simeon l’Uomo, Thorin il Nano e Caith la Silfide si radunarono sulla scogliera dei Sette Venti, il promontorio più a sud dell’ormai antico Impero di Cydonia, e strinsero alleanza: tre fazioni, in perenne stallo fra loro, ognuna con un proprio territorio ed una propria abilità tecnologica e militare.
Simeon era un marinaio: la sua famiglia aveva avuto una dozzina di chiatte, ultimo residuo della grande flotta di galee mercantili che avevano portato merci da una parte all’altra del continente nelle ere antiche. Alle sue genti Simeon riservò il mare, ogni spiaggia ed un lembo di terra a cavallo della scogliera, una decina di chilometri dal mare alla Porta Ovest della Città.
Simeon governò per oltre sessant’anni, catturando tre dei grandi galeoni da guerra degli Attinidi, che ribattezzòMarkab, Deneb e Spica, come i suoi figli; iniziò la costruzione dell’Avamposto nell’Isola-Laguna; e morì, lasciando a sua figlia Spica un cantiere, quattro navi e trenta pirati.
Quasi ottocentocinquant’anni dopo Rigel l’Uomo, discendente di Simeon, guidava i Neutri, sebbene la carica non fosse mai stata formalmente ereditaria; aveva due figli: Siryo, un ragazzo umano di ventun’anni d’età moro e nerboruto nei cui occhi color degli oceani già più di una dozzina di ragazze erano cadute, ed Edhel l’Elfo, che era cresciuto assieme a Siryo quale suo fratello adottivo, più vecchio del ragazzo per il tempo ma d’aspetto assai più giovane. Edhel era un orfano del Giorno dai lunghi capelli color del sole, occhi violacei e carattere schivo e solitario; appariva non molto dissimile da un diciassettenne.
Quella notte Siryo ed Edhel, i due Eredi della Notte, erano di pattuglia; il primo a cavallo di un frisone grigio ed il secondo di una puledra argentea, probabilmente un incrocio fra un unicorno ed un andaluso.
«… le ronde. Era più facile. Ne sentivi il rumore a chilometri di distanza, con questo silenzio» si lamentava Siryo, stirandosi la schiena con fare noncurante.
«Concordo. Ma anche gli Attinidi potevano sentirlo e nascondersi in qualche cantina. Un cavallo è la scelta migliore» Edhel aveva una voce soave, simile al suono rilassante di acqua che scorra; era la sua arma più potente, quella con cui riusciva ad ammaliare chiunque, tranne Siryo.
«Voi Elfi avete sempre odiato la tecnologia e… non negalo, tesoro!» lo punzecchiò Siryo, sbadigliando «Quando la prima officina nanica cominciò a stampare, un paio di tuoi simili del bosco ovest l’incendiarono di notte»
«Sai come la penso, riguardo la tecnologia.» ribattè Edhel con voce secca, saccente «Passino le armi da fuoco, le nostre galee senza cannoni non avrebbero avuto alcuna possibilità contro la magia degli Attinidi ma… veicoli, moto, oro nero ed altre diavolerie di voi nani ed umani! È un bene che la…»
«… la società le abbia distrutte. Lo so. Come dice il proverbio? “parlare con un elfo è come parlare con la pietra”» rimbeccò Siryo, dando un altro sonoro sbadiglio «o qualcosa del genere... forse come con un pappagallo; il concetto non cambia. In ogni caso…» diede un’alzata di spalle «le tecnologie antiche sono per la maggiore andate perse durante la Prima Guerra Interna, ed i nani non hanno nemmeno più intenzione di morire nei pozzi di oro nero, figurarsi cedere qualcuna delle loro preziose pergamene! Ci tocca tenerci questi sacchi di pulci» Siryo sorrise bonario, dando una pacca sulla criniera del frisone, che agitò la testa quasi fosse offeso dalle parole del suo cavaliere. «Comunque, il concetto rimane il medesimo. Odio le ronde. La tolda di una nave è ben più sicura di questo labirinto di vicoli e roccia. Nostro padre…» attaccò, il naso arricciato come se avesse annusato qualcosa di marcio ed il tono stizzito, ma Edhel lo zittì alzando una mano. Siryo inghiottì saliva e parole, guardandosi attorno nel silenzio. «Cosa?» chiese in un soffio.
«Passi. Motori. Tre curve da qui» rispose Edhel lapidario prima di spingere al trotto la cavalla.
I due Lantanidi voltarono un angolo, scivolando lungo un vicolo stretto e buio, fino a che anche Siryo non li sentì. Due, probabilmente lanciati all’inseguimento.
Gli eredi dei Neutri si lanciarono al galoppo.
 
 
 


Spazio-me: Ora, immagino che molti di voi mi odieranno. Lo so, fantasy e tecnologia nell’idea comune non si sposano, ma il mondo che ho ideato per questa storia è una sorta di epoca rinascimentale/industriale. A me affascina moltissimo, ma so che in parecchi non condividono. Pazienza :)
Grazie a tutti per i meravigliosi commenti!
Ah… aggiorno settimanalmente, il lunedì per capirci, almeno fino alla fine del periodo estivo (poi forse riuscirò a scrivere con più calma, quindi ad aggiornare in tempi più brevi!). Cercherò di essere sempre puntualissima!
 
PS: date un’occhiata anche a “My December”… dopo più di due anni, ha trovato conclusione, perciò ne sono orgogliosa U_U ok, non mi auto pubblicizzerò mai più, giuro! ç_ç


 

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Capitolo 4
*** GIORNO - Takrin Cryso ***



Piccolo spazio-me: Innanzitutto, chiedo scusa per questa enorme attesa, purtroppo la USB con dentro due chap della storia era rimasta alla copisteria, che ovviamente s’è fatta due settimane di vacanza (ed essendo io fuori sede, non ho potuto recuperarla tempestivamente =_=’)
In ogni caso, ora torno ad aggiornare puntuale ;) buona lettura!
 
 
 
 
 

GIORNO
Takryn Cryso

 
 
Erano passati trent’anni dal giorno in cui Takrin Cryso* era stata ammessa nella Casta, un tempo breve per la vita di una ilythiiri, eppure abbastanza da cambiarla, almeno in parte. Le piaceva definirsi una jalil dalla mente aperta, pronta ad accettare e prendere tutto da entrambi i mondi cui apparteneva -il sottosuolo e la Casta dei Maghi- eppure le tradizioni della sua razza erano dure a morire, ed era ancora difficile considerare tale un maestro elfo –maschio, per giunta!- o cercare di portargli rispetto. Si compiaceva oltre modo di ogni suo trionfo, tornando a casa solo quando poteva sbattere in faccia a sua madre ed alle sue sorelle e compagne  i suoi successi.
Questa era una di quelle volte.
Quando, a sessant’anni d’età, aveva annunciato alla matrona sua madre che intendeva lasciare l’accademia sacerdotale per salire alla Città ed Iniziarsi alla magia, lei le aveva riso in faccia. Quando, seria ed algida, Takrin le aveva risposto che la decisione era presa e che voleva solo informarla, sua madre aveva minacciato di frustarla a sangue. E l’avrebbe fatto, se Takrin gliene avesse data la possibilità. Avevano urlato, ma alla fine si era giunti ad un patto: se avesse fallito, lei sarebbe stata diseredata e sua sorelle avrebbe avuto la casata. Avevano giurato sull’altare di Lolth, la Dea Ragno: Takrin aveva cinquant’anni di tempo per diventare Arcimaga. Un’ora di ritardo, ed avrebbe perso tutto: sua madre l’avrebbe fatta sposare allo jaluk più infimo che le fosse riuscito trovare –sempre che Lolth non avesse preteso il suo sangue.
Fu con quattro jaluk alle spalle, pesantemente intabarrata per proteggersi dal sole, che Takrin aveva lasciato il sottosuolo. Sua madre le aveva fatto preparare una scorta adeguata, ma aveva preteso che lei andasse a piedi; nonostante il mantello di scaglie di rettile, i raggi del Giorno le avevano ferito la nera pelle sensibile, penetrando perfino oltre il cappuccio e sotto le lenti blu degli occhiali. A sua madre non piaceva la scelta di Takrin, e gliela stava facendo pagare.
Gli ilythiiri erano una razza da sempre dedita al misticismo ed alla magia, sebbene le armi fossero praticate ritualmente ed insegnate nei campi d’addestramento ai maschi. Tuttavia, quando lo Scisma impose di scegliere, quasi tutte le città drow si allearono con la fazione del Giorno: era la magia la loro arte e nonostante questo gli impedisse di girare per la superficie liberamente, per gli ilythiiri era la soluzione più facile: avevano scelto la parte di quello che ritenevano il vincente, come loro costume.
Nonostante questo, l’amore per la superficie e le altre razze non era cambiato: nonostante il Patto costringesse gli Attinidi –come gli schierati del Giorno vennero chiamati- a non muovere guerra fra loro, gli ilythiiri continuavano a mal vedere le altre genìe, preferendo isolarsene. Al loro sottosuolo si accedeva da una grande scala che, in superficie, era protetta dalle pareti senza finestre di una casa.
Quando Takrin era arrivata all’Accademia, aveva la pelle delle braccia e del volto dolorante, ed un velo di nebbia davanti agli occhi che le impediva di vedere bene; s’era premurata di dirlo alla donnona che l’aveva fatta entrare, usando il suo migliore tono sofferente: era piccola, all’aspetto, non molto diversa da una femmina umana di otto anni –se s’ignoravano la pelle nera come ossidiana, gli occhi rossi ed i capelli bianchi. Dalla donnona –una Strega di alto livello, a giudicare dal colore e dal tipo di cappello- aveva ricevuto una caramella, un sorrisone ingenuo ed una bella stanza confortevole; stupida umana, aveva pensato Takrin, mentre la ringraziava con tutta la cortesia del mondo.
Da quel giorno, era scesa a casa solo altre cinque volte.
La prima, per dire a sua madre d’essere stata accettata come Novizia dell’Ordine dei Maghi, allineamento Neutro. Grigia: era questa l’unica cosa che non aveva previsto: trovatasi a scegliere, s’era resa conto che i Neri, sebbene praticassero la magia oscura, avevano molte limitazioni che ai Neutri non erano imposte. Takrin aveva dunque fatto la scelta più conveniente, che s’era dimostrata la migliore: la magia ora non aveva segreti né vincoli per lei. Arcimaga, alla fine -e prima del previsto.
Quel giorno, trent’anni dopo la sua Iniziazione, Takrin era divenuta la bella rosa che il suo nome suggeriva: molto formosa e proporzionata, nonostante l’altezza tipica della razza –a stento raggiungeva il metro e cinquantadue- era in grado di attirare maschi di tutte le razze solo con lo sguardo. Peccato che la sua lingua tagliente e i modi algidi la rendessero inavvicinabile.
Non era solo apparenza, Takrin: era appena stata accettata da Sevia, una dei quattro Grandi, come sua apprendista. Se avesse saputo cogliere l’occasione –cosa di cui Takrin non dubitava affatto- in breve avrebbe avuto uno scranno nel Concilio della Città, nonché la fedeltà dell’intera casata come sua eredità.
Takrin era una piccola jalil, ma la sua ambizione era sconfinata.
 
Era a questo che pensava mentre risaliva le scale d’ossidiana che l’avrebbero portata fuori da Che´el Phish, la sua città.
Era il tramonto, e la Città era vestita d’arancione, le ombre che si allungavano mettendo urgenza nei passi dei pochi Cittadini che percorrevano le vie di marmo. Cèlia, l’Iniziata cui insegnava, l’attendeva in strada, torcendosi le mani nervosamente e guardandosi intorno, quasi si aspettasse che i Lantanidi sorgessero dalle ombre per afferrarle le sottane e farla sprofondare nella terra; era umana, una ragazzina stupida ma piena di talento, o almeno tale Takrin l’aveva giudicata. 
Cryso era un tipo taciturno; non aveva avvertito Cèlia con altro che un cenno della testa imperioso, ordinando all’umana di seguirla senza curarsi di non aver più il suo aspetto: era uno dei primi trucchi che Takrin aveva imparato, cambiare il proprio aspetto in modo da ridurre la sua debolezza. Ora la jalil era una ragazza mora ed alta, probabilmente mezza umana, dalla carnagione olivastra ed occhi viola: era il costume che le piaceva di più indossare, e Cèlia lo sapeva.
«Rientreremo subito in Accademia, Arcimaga Cryso?» pigolò l’Iniziata, mogia.
«Maestra. E si. Le Leggi lo impongono» rispose la jalil, stizzita: la puzza della paura dell’allieva era per Takrin così forte da essere fastidiosa.
«È notte, quasi…» cominciò Cèlia, ma l’occhiataccia dell’Arcimaga le fece morire le parole in bocca.
«Non ti ho presa come allieva per il tuo acume, è questo che mi stai dicendo? Riesco a vedere chiara quanto te l’ora. Affretta il passo e taci» concluse Takrin, la voce dura e carica di rimprovero.
Le ombre della notte le si allungavano intorno, misteriose ed invitanti come solo ad un’ilythiiri potevano apparire. Casa, sussurravano in un linguaggio antico, sicurezza.
Takrin Cryso accelerò il passo.
Aveva paura.
 
 
 
 


*: ho data per scontata parte della “cultura” drow, per non appesantire troppo la storia :) se qualcosa non è chiara, fatemelo sapere!
Inoltre, ci sono termini in lingua drowish, come ilythiiri=Drow, Jalil=ragazza/femmina, Jaluk=ragazzo/maschio. Se volete, ci sono traduttori italiano/inglese/drowish online!
Per quanto riguarda l’età, i drow sono simili agli elfi, ossia longevi. Una jalil sessantenne è poco più di una bambina di otto anni all’aspetto.
 
Piccolo spazio-me (di nuovo): Bene, ora che abbiamo tutti i personaggi presentati.. chi v’è simpatica/antipatico? Io personalmente ho la mia preferenza, ma al momento non la svelo :D al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** NOTTE ***



 
 
Takrin correva scompostamente, la lunga veste sollevata a lasciar libere le gambe. Trafelata, la piccola jalil aveva le mani e le ginocchia sbucciate, laddove il suo sangue denso era sgorgato a contatto con la pietra liscia della Città. Due volte era caduta, Takrin: la prima, per colpa delle gonne pesanti, la seconda nei pressi del fiume, quando il frastuono si era fatto più intenso.
Cèlia era stata la prima ad avvertire quei rumori che Takrin, i sensi schermati dalla Mutazione, non era stata in grado di percepire: era il tramonto, e l’Arcimaga era troppo occupata a valutare la distanza dall’Accademia e la lunghezza delle ombre rossastre, tanto che aveva sentito il rombo cupo solo quando i due inseguitori erano ormai troppo vicini e la Notte troppo incombente perché Takrin si potesse fermare e castare un incanto. Cèlia aveva emesso un gridolino isterico, prima di sollevarsi le gonne quel tanto da evitare che l’intralciassero; nonostante questa precauzione, era scivolata nei pressi del Ponte di Mezzo, ed aveva allungate le mani verso Takrin, rischiando di trascinare la jalil dritta nel fiume assieme a lei.
«Corri, stupida» le aveva sibilato l’Arcimaga con astio, pur sapendo che a nulla valeva tenere la voce bassa: le avevano viste, ed ormai l’alone rossastro del tramonto sbiadiva.
L’unica cosa che importava a Takrin era di mettersi al sicuro: quando fosse stata in grado di fermarsi, avrebbe attinto al suo potere, e l’indomani mattina i servi della Città avrebbero ripulito ciò che restava di quella feccia che osava minacciarla. Li avrebbe fatti soffrire, oh, eccome. Tutta la Notte li avrebbe sentiti gridare.
La distanza fra le due femmine e gli inseguitori era diminuita, ma Takrin li aveva condotti dove sperava: sentì le imprecazioni di uno dei due –un nano, a giudicare dall’accento- volare lungo lo stretto vicolo nel quale lei e Cèlia si erano infilate.
«Dovranno… seguirci a piedi» ansimò Takrin tenendosi un fianco e maledicendo quel corpo Trasfigurato troppo lento e debole. Cèlia non le rispose: aveva le iridi dilatate, gli occhi spalancati pieni di panico ed un sussurro rauco sulle labbra, simile ad un singhiozzo, che lasciò andare con disperazione accorgendosi di ciò che era loro dinnanzi. Un muro di mattoni rossi, qualche piccola porta da retrobottega, finestre sbarrate troppo alte: un vicolo cieco.
«No» boccheggiò Takrin, girando rapida la testa e sentendosi stupida, così simile ad un animale in gabbia mentre i due inseguitori scendevano dalle moto, incamminandosi verso di loro; uno dei due, quello alto con tutta probabilità, rideva.
Cèlia si mise a piangere forte, slanciandosi contro il più vicino dei piccoli usci e tempestandolo di pugni, invocando aiuto. Takrin le rivolse un’occhiata sprezzante quindi fece un passo indietro, socchiudendo gli occhi: non l’avrebbero avuta così facilmente. Dimentica di tutto, cercò di immergersi in quella rada corrente magica della Notte, ma un sibilo acuto –il rumore di qualcosa di pesante che viene trascinato- la distrasse, facendola voltare.
«Mi dispiace, Maestra» sussurrò Cèlia con un’alzata di spalle tutt’altro che contrita, prima di chiudersi la porta in ferro alle spalle.
«Cèlia» urlò Takrin, dimentica della dignità ostentata fino ad un minuto prima, il terrore che l’avvolgeva. Era così vicina alla vetta, così vicina… non poteva cadere, non ora!
Qualcosa schioccò nell’aria, avvolgendosi attorno al suo petto, legandola stretta; una massa pesante le colpì la tempia sinistra.
 
C’era puzza di nano e di oro nero nell’aria, mischiata ad un vago sentore di erbe ed acqua stagnante e ad una traccia più fine, evanescente: terriccio e sottobosco. Ma soprattutto, l’odore della gomma calda, lo sferragliare stridulo di vapore ed ingranaggi, i fumi, il rombo che squarciava prepotente il velo della notte. E l’eco di risate.
«Rei» sussurrò Siryo, masticando la parola come fosse qualcosa di amaro e disgustoso.
« Del genere peggiore» convenne Edhel, arricciando il naso.
 
Gudra girò attorno al corpo immobile della ragazzina, osservandone i lineamenti chiari con lascivia, la lunga ascia di nuovo assicurata al fianco, premuta contro le gambette muscolose.
«Aspetta di portarla alla base, capo. Prima devi arruolarla, no?» Nighe ridacchiò, strofinandosi i lunghi capelli color malva. Nella mano sinistra stringeva ancora il laccio di cuoio grezzo coi pesini tondi alle estremità che aveva lanciato per immobilizzare la femmina «sempre che non l’abbiamo ammazzata, ovvio. Dici che gli Attinidi se la prenderanno? Sembra un pezzo grosso, guarda che vestiti che indossa» aveva un accento marcato eppure melodioso che gli conferiva un’aria falsamente delicata, tipica dei Far Shee* tanto quanto lo era la sua capigliatura, il suo fisico, la sua pelle violacea –quasi spettrale- o la sua inopportuna loquacità. Gudra lo ignorò, appoggiando un ginocchio a terra per avvicinarsi al volto della ragazza. Il petto della femmina si alzava ed abbassava regolare, mentre  un rivolo nero le scendeva lungo la tempia, che aveva battuta al terreno, alla la guancia destra, finendo per gocciolare sulle pietre della strada.
«Allora capo, è viva?» Nighe sputò al suolo, dando un colpetto col piede al fianco della donna, cosa che fece innervosire Gudra: non era mai stato un tipo particolarmente paziente, ma il Far Shee lo stava decisamente mettendo a dura prova. Perché, dei, doveva essere così dannatamente abile come cacciatore? Il nano detestava doverselo portare dietro.
«Caricatela in moto. C’è un eco che non mi piace» commentò Gudra, secco.
 
L’inseguimento aveva portato Siryo ed Edhel fuori strada, facendoli smarrire fra le vie sempre più strette della periferia, tanto che il giovane uomo aveva ripreso a lamentarsi della lentezza dei cavalli, di come gli zoccoli scivolassero sul selciato pietroso e di quanto odiasse la Città.
Ora, tuttavia, entrambi i giovani erano all’erta, armi in pugno; silenziosi, osservarono –nascosti all’ombra di un vicolo- un nano pel di carota e un Far Shee trasportarsi dietro il corpo privo di sensi di una ragazza.
«Ce ne siamo fatta sfuggire una, e dire che una caccia così fruttuosa capita raramente! Eh, amico mio, se m’avessi fatto tirare prima. Ora ne avremmo una per uno, fresche fresche da marchiare e da infilare nei lett…»
«Ma tu non stai mai zitto, bastardo viola?» domandò il nano, slacciando l’ascia e prendendo a passarsela da una mano all’altra.
Siryo si voltò, incrociando lo sguardo di Edhel, ed annuì. Con un gesto fluido, il giovane uomo sollevò la pistola e sparò un colpo, dritto alla fronte del Reo dai capelli viola.
La detonazione fu acuta, l’eco poderoso ampliato dai vicoli deserti e silenziosi. Il frisone che cavalcava scosse la testa e batté a terra uno zoccolo, infastidito, ma non si ribellò. 
 
Nighe si era abbassato appena in tempo, lasciando cadere la femmina priva di sensi al suolo. Ora imprecava, la voce più alta di qualche ottavo, cercando di estrarre la daga dal fodero: troppo tardi.
Un elfo era sbucato dal vicolo, la sciabola fina sguainata, ed ora gliela puntava addosso sorridendo compiaciuto, quasi sfidasse il Far Shee a reagire. Gudra sollevò l’ascia, ma il ragazzo umano aveva già ricaricata la pistola e gliela puntava contro, serio. Il nano arretrò d’un passo, la lama dell’elfo si strinse di più sulla gola di Nighe.
«Non una parola, spilungone, o giuro che ti taglio la gola» esordì l’elfo, sussurrando alle orecchie  del Far Shee. Indi, più forte «Sembra che siate in trappola» commentò, con la sua voce cortese e colloquiale, dannatamente calma e fuori posto. Un nervo sulla gola di Gudra si contrasse: pallidi o scuri che fossero, odiava gli elfi come ogni nano che si rispetti «vorreste per cortesia gettare le armi? Non vi verrà fatto alcun male. È la ragazza del Giorno che vogliamo, non voi»
«Alcun male? Sbattitronchi che non sei altro, vieni a misurarti lama a lama con me, e vedremo chi non si farà male» sputacchiò Gudra, stringendo la presa sull’impugnatura della lama e piegando le tozze gambe, pronto a dar battaglia.
«Sei sotto tiro, nano. Non ti conviene» sentenziò il giovane uomo, avvinando il cavallo di qualche passo.
«Ragazzino, fatti crescere un po’ di peli sul mento. Un poppante come te non dovrebbe maneggiare armi più grandi di lui» riprese Gudra, ma Nighe lo interruppe con un verso di gola, simile ad un miagolio lamentoso. Nonostante cercasse di tenere il tono basso, il nano poté chiaramente percepire la parola “lasciagliela”.
«Il tuo amichetto qui pare tenere più di te alla sua vita. Ma non importa, la ragazzina ce la prendiamo lo stesso. Fratello!» disse l’elfo, volgendo un cenno del capo al giovane umano, che esplose un colpo.
Bang! Gocce di sangue volarono dalla mano di Gudra, e Bang! Dalla gamba, facendo esplodere focolai di dolore dove i proiettili si erano conficcati. L’uomo ricaricò la pistola puntandola poi velocemente sul nano, che aveva lasciata cadere l’ascia e si trascinava al suolo, imprecando.
Nighe era a terra, colpito alla testa dal piatto della lama dell’elfo che, raccolta l’Attinide da terra, la stava issando sulla groppa del suo cavallo, una fastidiosa espressione compiaciuta in volto
«una bella caccia, non trovi?» domandava il ragazzo umano, arricciando divertito il naso «è sempre divertente prendere a calci qualche Reo» concluse, facendo ridacchiare l’elfo; per Gudra fu troppo, più intollerabile del dolore: si rialzò, muovendosi a tentoni verso l’ascia, ma i cavalli dei due ragazzi erano già lanciati al galoppo.
Bestemmiando tutti gli dei caduti, Gudra lanciò l’ascia contro un muro, frantumandone l’intonaco.
 
Da una finestra, una figura sorrise. 





* Corrispettivo maschile di una Banshee.

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Capitolo 6
*** GIORNO ***


 
 
 
La coda di Dionio frustava l’aria, unico segno evidente di nervosismo nel centauro. Se ne stava impettito a pochi metri dal portone d’ingresso, quasi al centro della piccola corte-giardino dell’Accademia Grigia, davanti a tutti i suoi confratelli;  uno per ogni arte, maestro e Figlio Prediletto –ovvero l’allievo più promettente. Un piccolo esercito, ma non si sarebbe atteso nulla di meno: i direttori delle altre Accademie avrebbero fatto lo stesso –i Neutri, padroni di casa, erano schierati nello stesso modo alla loro destra, il posto riservato all’ospite.
Aleeah, ritta ad un decoroso passo di distanza dalla sua Maestra,  sudava un po’, compressa com’era in un vestito troppo stretto, sotto un sole troppo caldo; era abituata alle luci soffuse ed alla frescura secco della segreta dell’Ordine delle Veggenti, ed ultimamente l’uscire nell’aria torrida dell’estate Cittadina l’infastidiva. Spesso l’Aquila s’era chiesta se non stesse diventando una creatura notturna, una sorta di vampiro mutageno o una drow deviata. Ora, quel pensiero la spinse a volgersi alla sua destra, tentando di incrociare lo sguardo di Nadaven nella speranza che sapesse di più delle esili voci di corridoio che era riuscita a raccogliere –ma nulla, Dave guardava dritto davanti a se.
In ogni caso, non avrebbero potuto parlare, si disse Aleeah, a meno di non voler rischiare  l’ira di Dionio; cosa che la ragazza non aveva la minima intenzione di testare. Le erano bastate le storie che circolavano.
Sconfortata, la giovane Veggente sospirò forse troppo forte, mordendosi poi un labbro con fare colpevole. No, Serja non l’aveva sentita: nonostante la giovane Veggente sapesse che la sua Maestra non era tipo da far scenate in pubblico, aveva sperimentato fin troppo bene l’urlo della Banshee per rischiare di sentirlo nuovamente.
Senza pensare, Aleeah puntò lo sguardo al mosaico del pavimento, senza neppure provare a guardare a sinistra -aveva rinunciato ad avvicinare Dea: troppo seria, quasi dovesse dimostrare ogni istante di essere la Druida che era- e si dispose dunque all’attesa, per nulla impaziente. Aveva cercato di divinare questo momento, ma c’era nebbia, incertezza, e l’unica cosa che era riuscita a vedere era stato un tavolo ed un fuoco. Inutile cercare di decifrarlo.
Uno scricchiolare di cardini, una folata di vento più forte; arrivavano. 
 
I Neri erano noti per la loro irruenza; spesso, Dionio li aveva definiti “i resti della corruzione della notte”, non preoccupandosi di nascondere il malcelato disgusto che provava. Dal canto suo, Aleeah era del tutto indifferente alla antica, sotterranea faida che correva fra Bianchi e Neri; non aveva mai avuto contatti con nessun Oscuro prima d’ora, né in tutta onestà ne aveva desiderio o motivo: erano i Grigi l’organo preposto a trattare fra gli ordini rivali.
Nonostante Aleeah fosse stata messa in guardia, non poté impedirsi di assumere un’aria più che sorpresa quando i Neri fecero il loro ingresso a passo di marcia, avvolti in pesanti mantelli del loro colore, le divise scure dal taglio militare identiche se non per una corda di canapa grezza, tinta del colore dei vari SottoOrdini. La vera sorpresa, però, fu il loro direttore: comparve avvolta in una spirale di onde, sollevata di una dozzina di centimetri dal suolo, completamente nuda dalla vita in su, i serici capelli neri che, fluttuando, coprivano i seni generosi, scendendo fino ai tentacoli di un verde untuoso, cupo. Una Cecaelia1, splendida e letale –creatura mitologica perfino per loro, ben lontana dal comune.
Trattenendo fiato e domande, Aleeah si mosse, seguendo Serja fin al cento del porticato, disponendosi attorno al bassorilievo incastonato al suolo per il Rituale.
Dionio, Sevia –la direttrice dei Neutri, una Ifrit2 ibrida dall’aspetto mascolino- e la Cecaelia si fecero avanti, e senza parlare allungarono le mani gli uni verso gli altri in maniera che i palmi di ognuna fossero rivolti verso quelli di entrambi i vicini, indi i tre direttori cominciarono l’invocazione.
«Uriele, che della legge del giorno ti sei fatto portatore, che col tuo plasma suggellasti la tregua e ricreasti la Città, intercedi per noi» cominciarono, e la folla di Attinidi prese a mormorare sottovoce lo stesso incantesimo, all’unisono, nella lingua degli Dei. Aleeah seguì il coro: era stata istruita del Rituale di Richiamo, una forma arcaica di religiosità che pareva sopravvivere solo per queste occasioni.
«Intercedi fra gli Dei delle Arti» proruppe Dionio, la voce melodiosa e selvaggia.
«Intercedi fra gli Dei vendicativi» seguì la Cecaelia, con una voce simile al suono di un violino smorzato dall’acqua.
«Intercedi fra gli Dei giusti» concluse Sevia con la sua voce tonante, dalla cadenza poco femminile.
«Indicaci la via. Guida la scelta di chi siederà fra i Grandi» terminarono insieme, quasi all’unisono con la bassa litania dell’incanto evocato dai loro Adepti.
Per un istante, regnò il silenzio; fu la Ifrit a romperlo, riempiendo il cortile con la sua voce possente.
«Il candidato preposto non è più. Dobbiamo raccoglierci, e scegliere.» e, senza ulteriori indugi, si fece largo attraverso la folla della sua schiera, verso l’interno dell’Accademia Grigia.
 
Ai Seguaci di grado inferiore non era consentito l’accesso, principalmente a causa della loro potenziale elezione; vennero perciò scortati ad un refettorio, dove consumarono un pasto veloce prima di essere smistati.
L’edificio dei Grigi sorgeva nella zona nobile della Città, accanto agli edifici del potere come il foro, il senato ed il tribunale; era una costruzione prestigiosa e di dimensioni notevoli, creata tale per la necessità di dover ospitare i membri di ogni Ordine al suo interno in occasione della scelta dei Successori, ossia di coloro i quali sarebbero stati addestrati per essere i prossimi Grandi.
Aleeah, Dave e Dea sedevano ad un tavolo del refettorio, intenti a consumare una colazione frugale a base di frutta ed infusi, troppo eccitati per chiudersi nelle proprie stanze. Non erano i soli, tuttavia: membri di ogni ordine erano sparsi a gruppi e bisbigliavano incessantemente, così che la sala sembrava invasa da uno sciame d’api irrequiete.
«È passata meno di una settimana da quando i direttori si sono riuniti, stando a ciò che dice Serja» bisbigliava Aleeah, il tono cospiratorio di chi sappia «a quanto pare, è stata una cerimonia breve, senza consultazione. La Grande aveva già scelto chi dovesse Succederla»
«Per questo non siamo stati convocati prima d’ora, quindi…» cominciò Dea, ma Dave l’interruppe, sorridendo beffardo.
«Breve è stata anche la sua carriera come Successore, a quanto pare. Meglio per noi, in ogni caso» nei suoi occhi c’era una luce maligna che Aleeah gli aveva visto poche volte. Aspettativa, forse, o un deviato trionfo.
«Ma non per lui… o lei. Hai sentito come ne parlavano, no?» intervenne Aleeah, schermandosi la bocca con una mano e lanciando occhiate attorno, quasi si aspettasse di vedere il fantomatico candidato spuntare da dietro una panca.
«Presa» sussultò Dea, la figura perfetta scossa da un brivido.
«Peggio che morta» le fece eco Aleeah.
«Non più Attinide, cancellata ed esiliata dal Giorno. Giuro, io mi ucciderei davvero se qualcuno della notte dovesse catturarmi. Hai finito. Sprecata la tua vita. Sei costretto ad impugnare un’arma e a vivere di massacri, vene rendete conto?» si accalorò Dave, un’ombra di paura nella voce. Per qualche secondo, il silenzio calò fra i tre.
«Imprudente. Troppo sicura di se, forse» miagolò Dea con quella sua voce delicata.
Aleeah sospirò, quindi raddrizzò la schiena, esibendo un grande sorriso agli amici ora decisamente affranti.
«Non pensateci, ormai non esiste più. Ed in ogni caso noi non siamo così sciocchi da farci catturare quindi parliamo d’altro, vi va?» esordì, con un tono forzatamente gioviale « per esempio… dicono che la direttrice dei Grigi, quella Sevia, sia una dei Grandi. Voi credete che sia vero?»
«Sevia… mezza Ifrit, mezza Salamandra, stando a quel che dicono, ma è chiaro da quale razza abbia preso, non trovate?» commentò Dave, ora decisamente più allegro «in ogni caso, si. Addetta alla Giustizia e direttrice dei Grigi. Ha un discreto scendente, non trovate?»
«Nadaven, sei un pettegolo di prima classe» rise Dea, avvicinandosi sinuosa a Dave.
«è lei che devono sostituire?» chiede Aleeah, ignorando l’amica «voglio dire… lei che addestrerà la sua Erede?»
Dave si sistemò meglio sulla panca, allungandosi verso Aleeah e trascinandosi dietro Dea, che gli s’era avvinghiata ad un braccio.
«Il Grande del Commercio è un nano piuttosto giovane, e da quel che so ha già un suo Successore. Un folletto dei Neri, mezzo illusionista.» commentò lo Stregone.
«La fata Grande della Salute ha scelto una satira della Gilda dei Medici, ex Bianca se non ricordo male. Se la alleva da cinquant’anni buoni» s’intromise Dea, sorridendo maliziosa.
«e, se non sbaglio, la Grande dell’Ordine3 è una selkies4. Fece scalpore ai tempi perché scelse come Successore la sua stessa figlia, al tempo priva di Ordine. Se non sbaglio, la fecero entrare nei Bianchi, il che spiega molte cose sul vostro ordine» a parlare era stato un ragazzo dalla pelle di un grigio spento, capelli platino, orecchie a punta ed occhi di un verde intenso.
«Mezzodrow, lasciaci in pace. Non sei il benvenuto»
«Calmo, fratellino. Dovrebbe esserci cooperazione fra noi, non trovi? Infondo, siamo qui di comune obiettivo» cominciò, divertito, ma Dave lo interruppe, una nota violenta nella voce.
«Trovi? Siamo qui a contenderci il posto di Grande in gioco. O secondo te c’è un altro motivo?»
Il ragazzo Nero si schiarì la voce «proliferare fino ad inghiottire la Notte nostra nemica, mobilitandoci affinché loro non facciano la stessa cosa» declamò, con una solennità pomposa sminuita dall’ilarità dei toni. Dave arrossì, colpito nel vivo da quella velata accusa di cupidigia. Il Nero se ne accorse, perché allargò il sorriso beffardo e riprese «Non dispiacerti, in effetti alla fine è come dici tu. Solo che suona meglio a mio modo. Fatti furbo, fratellino, tienitele per te certe idiozie, ai Maestri non piace sentirsi ripetere da dei semplici allievi quanto siano ingordi ed avidi.»
«Sei qui a darci lezioni d’eleganza o semplicemente ti sentivi solo, Nero?» domandò Dea, sorridendo ed usando il suo tono più ammaliante e ironico.
Il nero fece un cenno del capo, indicando qualcosa alle sue spalle. Sporgendosi un poco, Aleeah riuscì ad individuare un ragazzo umano e una Lamia5 seduti sulla panca, dietro al mezzoDrow, che sorrise. L’uomo, notò la giovane Aquila con una stretta dolorosa al petto, guardava Dea come se volesse spogliarla con lo sguardo.
“Lei fa questo effetto agli uomini e le piace. È così con tutti, tranne Dave; il giorno che anche lui ci cascherà…” ma Aleeah non concluse il pensiero, limitandosi a mordersi un labbro sentendosi colpevole.
«Alseide» riprese il mezzoDrow, lanciando un’occhiata di sbieco prima al compagno umano poi a Dea «perché non vai a strusciarti contro il mio amico, la? Magari, mentre io mi faccio fare la stessa cosa dalla tua amichetta, qui. Pare che anche lei ne abbia voglia» fece, laido, rivolto ad Aleeah, probabilmente scambiando il movimento delle sue labbra per desiderio. La Veggente arrossì, abbassando lo sguardo. Non era mai stata abile a rispondere.
«Vattene se non vuoi guai, MezzoDrow» sibilò Dave, stringendo i pugni improvvisamente vibranti di scintille blu tenue.
«Per te c’è la nostra cara Austalia, non temere Mezzo» gli rise in faccia il nero, indicando la Lamia, che si passò il pollice lentamente sulle labbra troppo rosse, come eseguendo una sorta di saluto «Anche se non credo che sia interessata al altro che non sia il tuo sangue. Dico bene sorellina?»
La Lamia rise, portando indietro la testa, ricoperta da folti boccoli d’un castano ramato.
«Ora basta! Non vi…» cominciò Dave, alzandosi e strappando un gridolino a Dea, che si mosse subito per tentare di placarlo; un gesto inutile, giacchè il mezzoDrow aveva già agito.
Aleeah trattenne il fiato, mentre attorno a se la stanza sfumava.
 
 

 


1 “La cecaelia è un essere mitologico composito, con testa, braccia e torso di una donna (raramente di un uomo) e, dal torace in giù, con tentacoli e fisionomia di un polpo”.
Per farla semplice, come Ursula de “la Sirenetta” ;)
 
2 è una tipologia di "genio"- indica, nella un'entità soprannaturale, intermedia fra mondo angelico e umanità, che ha per lo più carattere maligno, anche se in certi casi può esprimersi in maniera del tutto benevola e protettiva. Comunemente conosciuti come spiriti del fuoco, appaiono come uomini di eccezionale forza e bellezza, ma è molto difficile avere contatti con loro, in quanto si considerano superiori alle altre creature.
 
3 verrà spiegato più avanti. In pratica, la Città è una sorta di micro universo a sé stante; al di fuori di questo c’è un mondo che è rimasto allo stato brado dalla caduta degli Dei. Una sorta di terra di nessuno, che questo Dicastero (o ministero che dir si voglia) tenta di tenere separata dalla Città. Contate che la città è enorme, nemmeno lontanamente paragonabile alla più grande delle nostre.
 
4 creature mitologiche irlandesi, islandesi e scozzesi che possono trasformarsi da foche a donne nelle notti di luna piena, svestendosi della pelle; se, durante la notte, questa pelle di foca viene presa e nascosta, la Selkies sarà costretta alla forma umana fintantoché non recupererà la pelle.
 
5 "figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Sorta di vampiri. Capaci di mutare forma e apparire attraenti per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue".


 
Piccolo spazio-me: giuro, arrivata alla fine del capitolo piangevo per la quantità di apici e note =_=’ mi spiace ma penso vi siano utili! Spero vi sia piaciuto! Al prossimo! Giuro che le cose da ricordare sono finite qui U_U

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Capitolo 7
*** NOTTE ***





La testa di Takrin era pesante; pulsava dolorosamente all’altezza dell’occhio sinistro, infondendole un malessere profondo, persistente. Cercò di indagarne la causa, ma la sua mente andava a rilento: un attimo era in una strada buia, un ronzio nelle orecchie, l’attimo dopo risaliva le scale della sua casa, mentre sua madre le urlava dietro di aver fallito, che era finita.
Finita? Si chiese, ma quando tentò di concentrarsi la sua mente svanì di nuovo, lasciandole nella retina impressa della nebbia perlacea.
Per un istante troppo lungo sognò di trovarsi sulla riva di una spiaggia infinita –o forse sull’orlo del deserto che circondava la Città- e che nevicasse. Solo quando si rese conto che nel Giorno non era permesso altro clima che il sole maledetto, la coscienza tornò, allontanando parte del tepore.
C’era dell’argenteo impresso sulla retina, l’assenza di colore del nubifragio del suo sogno. Ma cosa..? pensò distrattamente, aprendo gli occhi e trovandosi lo stesso bianco davanti. Per un attimo, il cuore andò a mille, mentre la jalil sbatteva le palpebre un paio di volte, timorosa di aver perso la vista.
Cos’è questo bianco? Dove sono?
Le ci vollero meno di due minuti per rendersi conto di alcuni particolari significativi: la sua infravisione attiva, per esempio, segno che doveva trovarsi al buio ed essere tornata alla sua forma originaria.
Il calore di qualcosa poggiato sulle sue gambe.
Un rumore sordo e lontano, di acqua.
Il peso di chissà cosa che le impediva di aprire completamente l’occhio sinistro.
Realizzò questi particolari accorgendosi di essere stesa su di un fianco, qualcosa di morbido sotto di se.
Come colta da una sorta di intuizione, Takrin mosse le mani verso il bianco, osservando il nero delle sua pelle stagliarsi contro quella visione lattescente, un dito affusolato toccare la vernice tiepida della parete. Sospirò piano, lasciando che le labbra si piegassero in una sorta di sorriso di scherno rivolto alla sua stessa stupidità.
«Il tuo sangue è velenoso, lo sai, ragazza?» una voce maschile, bassa e melodiosa, le congelò sorriso e movimento, mentre un fruscio di vestiti e lo scricchiolare di legno le annunciava che qualcuno si era appena alzato.
«Velenoso? È dire poco, fratellino! C’ho rimesso i miei guanti migliori, di capriolo. E pensare che li avevo appena presi ad un maledetto Reo. Trova il modo di ripagarmeli, Jalil» si lamentò un'altra voce, maschile ed aspra, e Takrin realizzò cosa le bloccasse le gambe, o meglio, chi.
Un uomo ed un elfo… per tutti gli inferi luminosi, dove sono finita?
«Levati di dosso, umano, chiunque tu sia» scattò la femmina, tentando di puntellarsi su di un braccio per guardare in faccia i suoi carcerieri.
«E’meglio che tu stia fer…» cominciò la prima voce, ma Takrin era già ricaduta indietro, il capo che le girava e la vista improvvisamente, nuovamente sfocata; una leggera nausea la prese, assieme alle prime avvisaglie di un forte mal di testa. «…ma. Hai preso una bella botta, drow.» concluse la voce ora divertita, dando in una bassa risatina soddisfatta che innervosì Takrin più di quanto già non fosse. Odiava essere derisa.
«Smettila di ridere, idiota! O giuro che il tuo prossimo respiro sarà l’ultimo.»
«Frena la lingua, vipera del sottosuolo, o finirai per mordertela da sola. Non sei nella posizione di far minacce.» rispose l’elfo, sempre tenendo quel tono melodioso ed ironico. Ci fu uno scatto, come di uno sportellino che venisse sollevato, indi l’elfo le si avvicinò un poco e Takrin dovette socchiudere gli occhi, accecata dalla luce della lanterna che il maschio le accostò al volto. Dopo tutti quegli anni, ancora mal sopportava le fonti di luce.
«Levami quella roba di dosso e fatti vedere, codardo d’un elfo. E tu togliti dalle mie gambe» sibilò Takrin con quel suo tono misto di alterigia e comando, mentre la mano scendeva al collo, le dita che frugavano fra la stoffa delle coperte ed i suoi argentei capelli in cerca del ciondolo d’onice nero.  Non lo trovò, e questo anche par divertire l’elfo, che le si avvicinò, andandole a sfiorare una guancia con il pollice.
«Non mi toccare! Non osare mai più toccarmi con quelle tue… sudicie… indegne dita, maledetto!» urlò Takrin, perdendo il controllo. Era troppo, e non poteva sopportarlo. Socchiuse gli occhi dando uno strattone per voltarsi, ottenendo solo un aumento della stretta agli arti inferiori; a quanto pareva, il suo rapitore umano si era messo più comodo, spostando tutto il peso sulle gambe sottili dell’Arcimaga. Takrin riuscì comunque a voltare il busto e, socchiudendo gli occhi, a mettere a fuoco il volto divertito di un elfo biondissimo, che agitava una mano nell’aria, come se si fosse scottato.
«Vi fanno con lo stampo a voi elfi? Biondi e sottili, uno identico all’altro. Una razza di femminei idioti» commentò acida Takrin cercando con un respiro di trovare la calma, il corpo incendiato dall’ira; aveva il fiato corto, e questo pure l’innervosiva: odiava perdere il controllo, la trovava una debolezza.
«Il ragnetto vuole mordere?» domandò l’elfo, ma fu l’uomo a rispondere.
«Ti abbiamo salvato la pelle, ragazzina. A quest’ora potevi essere nel letto di chissà quale Reo, costretta al suo piacere. O morta. Dovresti esserci grata»
«I Drow sono lascivi di natura, e le Drow femmine ne fanno un vanto. Fidati Siryo, le sarebbe piaciuto starsene nel letto di quel nano»
«Non…» cominciò l’uomo, ma un gesto imperioso della femmina gli fece morire le parole in gola; nuovamente la voce della jalil si sollevò, alta, non badando ella minimamente al fatto d’interromperlo.
«Spiegatevi, dannazione! Di che parlate? Quali Rei, che nani! Cosa andate farneticando? Spiegatevi, per gli Dei caduti!» il tono di Takrin era a metà fra il comando e la supponenza, la sua rabbia così forte da accenderle le iridi di un rosso più intenso. La femmina strinse i denti, guardando con odio l’elfo che le era dinnanzi, ogni tentativo d’autocontrollo gettato al vento.
«Non urlare, bimba. Nostro padre ti spiegherà ogni cosa fra poco. Noi siamo solo le tue guardie» i toni dell’uomo erano calmi, rilassati; non pareva sconvolto dall’ira sorda che pulsava sulla pelle di Takrin e nella sua voce, limitandosi a far scattare il meccanismo di qualcosa.
«Non darmi ordini! Non osare! Non sai chi sono, cosa potrei farti! Se voles…» cominciò la jalil, ma una fitta la bloccò, congelandole le parole in gola.
Troppa rabbia, poco controllo. Sei un’Arcimaga, per gli Dei caduti! Pensò la femmina, ma non era suo costume seguire i consigli, nemmeno quelli ragionevoli.
Takrin inspirò a fondo nel tentativo di fermare il vorticare della stanza.
«Non troverai un momento migliore, fratellino.» l’elfo si era avvicinato nuovamente alla jalil quasi priva di sensi e le aveva poggiato una mano sulla fronte e sul collo, come per assicurarsi che nonostante il colpo fosse ancora viva, sebbene sotto le palpebre socchiuse gli occhi le si muovessero ancora, pigri e quasi privi di luce.
« No, credo di no. Eppure avrei preferito evitare…» cominciò l’uomo, ma venne bloccato con uno sbuffo d’impazienza dall’elfo.
«Le avevo detto di non muoversi. La colpa è sua, o meglio, della boria e della stupidità della sua razza. Comunque, o adesso o dovrò stordirla come si deve, e sai che non mi dispiacerebbe farlo. Non collaborerà, Siryo. Non con noi, almeno»
«Sia. Dammi una mano, Edhel.»


 
« Rigel» si presentò l’uomo, allungandole una mano callosa con fare pratico e sbrigativo.
Takrin l’aveva squadrato, osservandone una creatura in là con gli anni ma dall’aspetto forte, di chi abbia lavorato per una vita intera. Aveva tratti semplici e modellati, come se il vento salmastro che sbatteva contro le imposte glieli avesse levigati e scolpiti nel corso degli anni; i corti capelli scompigliati, più bianchi che fulvi ormai, davano ancor più l’impressione che l’umano fosse appena uscito da una tempesta. Muscoli pronunciati regalavano un’idea del vigore fisico che, nonostante l’aspetto, l’umano doveva ancora possedere; aveva addosso l’odore della salsedine ma, rifletté Takrin, poteva essere solo quel posto ad esserne impregnato, od i suoi abiti, sui quali aloni bianchi si aprivano.
«Takrin» rispose la jalil, e poi «Cryso» aggiunse, sollevando il mento in un gesto di contengo sdegnoso, a sottolineare il fatto che lei potesse vantare un cognome. Qualunque segno di superiorità pareva essere un valido appiglio per la femmina.
«Takrin, bene» riprese l’uomo Rigel, ritirando la mano quasi distrattamente e mettendosi a passeggiare per la stanza, un piccolo studio ingombro di carte, con un camino sulla sinistra, un piccolo salotto composto da tre divanetti, un tavolo basso nel mezzo ed una scrivania sull’unico angolo libero della stanza, vicina alle finestre. Nonostante lo scarso mobilio la stanza, illuminata solo dalla luce del fuoco, era piuttosto ingombra, claustrofobica. «Sarai affamata. Serviti pure» riprese Rigel, indicando distrattamente un piatto pieno di quelli che sembravano piccoli pesci arrostiti, che l’uomo aveva tolto dalla griglia poco dopo l’ingresso della femmina.
Takrin osservò il cibo, vagamente nauseata –la stanza non aveva ancora smesso di tremarle intorno, di tanto in tanto; nonostante tutto, il suo stomaco fece un borbottio lieve. Takrin non si mosse, riflettendo.
Era stata portata nella stanza quasi di peso dai tirapiedi –no, dai figli!- di Rigel, che ora la guardavano con aria di sfida dai lati del padre. A quanto pareva, l’elfo doveva averla colpita nuovamente con l’impugnatura dell’arma di metallo che ora teneva riposta alla cintura: una pistola dall’aspetto usurato, con una lunga canna.
Takrin non sapeva riconoscere quell’arma, sebbene ne avesse sentito parlare più d’una volta durante la sua vita; non ne aveva mai viste, eppure una sorta di primitivo istinto di autoconservazione le diceva di evitarla.
«Mi spiace che sia stato necessario stordirvi per condurvi qui, Takrin» esordì l’uomo più anziano, prendendo un pesce dal piatto e masticandolo con calma prima di riprendere «Non vi offenderete se vi chiamo per nome, spero. È molto più pratico da queste parti. Capirete.» Rigel aveva occhi neri attenti, e nella voce la decisione di chi sia abituato a dar ordini e vederli eseguiti.
«Queste parti, dite? Dove siamo?»
«Nella Notte. Ma non risponde alle vostre domande, immagino.» il vecchio umano annuì, senza attendere la risposta della femmina; aveva preso a camminare lentamente per la stanza «Ebbene, siete stata sorpresa a violare il Vostro» e sottolineò delicatamente la parola con un mezzo sorriso, del tutto indecifrabile «coprifuoco. Come stabilito dalle Leggi Naturali successive allo Scisma, siete stata contesa e prelevata e, fra poco, sarete arruolata. Servizio a vita, senza riscatto alcuno. Comprendete?» concluse, contemporaneamente fermando voce e passo davanti al camino.
«No. Né mi interessa: il mio ciondolo! Dov’è? Ridatemelo immediatamente»
«Non sei nella posizione di dare ordini, ragazzina, pensavo che l’avessi capito» rispose brusco il giovane umano.
«Il tuo Catalizzatore l’abbiamo noi, maga. Si, sappiamo cosa sei» fece l’elfo, piegando ancora le labbra ad un sorriso a metà fra il canzonatorio e il furbesco alla vista dell’espressione in parte sorpresa in parte scocciata della jallil «e per fortuna non hai magia innata, o adesso te ne staresti legata ed imbavagliata, troppo intontita dalle erbe perfino per capire chi sei»
«Sai chi sono…» cominciò Takrin, ma venne nuovamente interrotta dall’elda.
«Ci credi degli stupidi, ragazzina? Sono sopravvissuti tomi e memorie, perfino qualche testimone, dallo Scisma. E per difendersi occorre conoscere il proprio nemico. Cosa che voi Attinidi sembrate ignorare, giacché non sai chi o cosa siamo.»
«Provi per caso una sorta di piacere sadico ad interrompermi, elfo? Se hai tanta voglia di ciarlare a vuoto, allora concentrati, se ci riesci, e dimmi: Chi sei? Chi siete! E dove sono?»
«La ragazza ha ragione, Edhel. Taci e lasciaci. Anche tu, Siryo. Ho intenzione di parlarle da solo» ordinò Rigel, prelevando un ferro dal lato del camino ed usandolo per muovere le braci, per poi lasciarvelo a contatto. Solo allora si voltò ad incrociare lo sguardo dell’elfo.
«Come preferisci, padre.» rispose Edhel, sottomettendosi suo malgrado. Erano quasi usciti, l’uomo giovane e l’elfo, che Takrin rise piano, senza divertimento.
«I membri della tua razza si rivelano gli stupidi che sono sempre stati, elfo! Prendere ordini da un vecchio umano… patetico! Ricorda le mie parole, rimpiangerai quello che mi stai facendo, ogni cosa. Tu, lui, tutti voi» sussurrò Takrin, ma nella sua lingua natia, cavernosa e sibilante. A giudicare dall’espressione, l’elfo aveva compreso, ma non ribatté.
«Non è cortese parlare in lingue che non possono essere comprese da tutti, ma immagino che il tatto non sia per nulla presente nel vostro sangue. Siete arrogante, ragazza, per essere qualcuno che ha appena perso tutto. E, con franchezza, lasciatevi dire che è da sciocchi lanciare minacce quando si è in una posizione precaria come la vostra»
Takrin non rispose, né Rigel parve aspettarsi che lei ribattesse: si era infatti voltato verso la finestra, intento ad osservare un chiarore lontano, come immerso in una qualche sorta di pensiero, o forse semplicemente nel rumore della risacca, più forte adesso nonostante la tempesta della notte si fosse placata da almeno un’ora. Rimase assorto per quasi cinque minuti buoni, quindi si volse verso la ragazza, uno sguardo serio e privo di comprensione nel volto.
«Ora, lasciate che vi risponda. Chi siamo, avete chiesto. Bene, è un’informazione che saprete a tempo debito. Conoscete i nostri nomi, e tanto vi basti al momento; fra poco sarete informata nello specifico e quando questo accadrà, comportamenti come quello di qualche istante fa non vi saranno più scusati. Non ammetto questo genere di… bhe, capirete, ragazza. Dovrete. Per quanto concerne il dove, sappiate che siete sulla costa, negli alloggi adiacenti il Porto» concluse, rimanendo con lo sguardo fisso in quello della jalil.
Takrin era allo stremo, visibilmente provata e tesa allo spasmo, con la testa che le mandava fitte dalla tempia alla base della nuca; non avrebbe altrimenti lasciato correre quello sguardo. Era vietato a qualunque maschio incrociare gli occhi di una jalil, soprattutto se nobile come lo era Takrin e, sebbene lei concedesse ai suoi maestri i privilegio di non essere redarguiti –o peggio, attaccati- in tempi più felici non avrebbe mai permesso ad un umano a lei inferiore di incrociarle lo sguardo.
«Questa è una delle nostre basi, all’interno della quale potrete fra poco muovervi con liberà. Vedete, ragazza, sebbene per le leggi voi siate già una Lantanide, agli occhi di Attinidi, Rei e Puri siete ancora -passatemi il termine- immacolata. Il cambiamento…»
«Cambiare?» la testa di Takrin vorticava; confusa, la jalil si voltò, come cercando una spiegazione razionale. Poi «No! Non sarò mai una Lantanide» urlò, comprendendo infine quello che il vecchio umano le diceva, o forse tentando solo di accettarlo «Devo diventare una dei Grandi, sono stata scelta» spiegò, col tono di chi parli ad un ritardato.
«Dovete diventare una Neutra, ragazza»
«Ma lo sono, nel Giorno. Sono Arcimaga, e sarò…»
«Una Neutra, arruolata nella ciurma della Notte» il tono era deciso, perentorio: l’umano non ammetteva repliche o dubbi. «ma ora…. L’alba si avvicina, ragazza, e c’è bisogno delle tenebre perché sia vero»
«Vero cosa?» domandò Takrin, ma Rigel le aveva già voltato le spalle, incamminandosi verso l’uscio, al quale batté due colpi veloci.
L’elfo e l’uomo rientrarono silenziosamente, e ad un cenno di Rigel si disposero ai due lati di Takrin, che tentò una ribellione, troppo fiacca –troppe emozioni e troppe ferite la rendevano debole, e lei odiava esserlo.
«Ogni Lantanide porta su di sé il segno della sua scelta, che questa sia volontaria o meno. Rallegratevi ragazza, fra poco sarete una di noi.» disse Rigel con solennità, afferrando il lungo arnese di metallo dalle braci ormai morenti del caminetto.
L’uomo chiamato Siryo afferrò il collo della veste dell’Arcimaga, tirando con forza tale che questa, già provata, si lacerò, scoprendole parte del petto fino al seno sinistro. Così esposta la pelle di Takrin fremeva, conscia che il rovente arnese nelle mani di Rigel stava per toccarla.
Uno scintillio rosso, la fugace immagine di una U allungata incrociata con una V rovesciata, il dibattersi, il terrore.
L’ultima cosa che Takrin ricordò fu il dolore, lancinante ed immenso, ed il timore che quel ferro le si facesse strada fin nella pelle, nelle ossa, bruciandola interamente. Poi la sua mente cedette, e fu solo la pace illusoria di un oblio senza dolore. 

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Capitolo 8
*** GIORNO ***


 
 
C’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato in quello che stavano facendo, ma quale fosse in particolare Aleeah non l’avrebbe saputo dire.
Forse l’uscire dai dormitori tre ore prima dell’alba, quando ancora le tenebre della Notte regnavano sovrane?
Oppure l’intrufolarsi in un’ala a loro vietata?
Magari l’idea dell’attacco?
Aleeah si era posta queste domande a ripetizione cercando di trovare una scusa che le giustificasse, o le sminuisse in gravità. Così, semplicemente si era detta che, nonostante fosse Notte, i Lantanidi non le avrebbero prese -non se fossero state attente a rimanete entro i confini dell’Accademia; aveva continuato giurandosi che nessuno li avrebbe visti –Dave aveva o non aveva detto più volte di essere in grado di fornir loro protezione?- quindi non sarebbero incorsi in alcuna difficoltà; aveva terminato assicurandosi che era più che giusto che si vendicassero.
Era quest’ultima la parte che la preoccupava di meno, in effetti: qualunque senso di colpa cominciasse a provare, veniva prontamente cancellato dal ricordo del pomeriggio appena trascorso. Quanto accaduto le bruciava ancora, nonostante Aleeah non fosse il tipo da portare rancore; forse, l’infastidiva anche per merito del colpo che aveva preso al ginocchio –il cui dolore sordo le faceva stringere i denti ogni paio di passi- o forse per l’eco delle risate divertite di una sala intera che ancora le rimbombava nelle orecchie. Quale che fosse il motivo, Aleeah non aveva voglia di lasciare i Neri impuniti.
Risate… anche quel mezzodrow rideva mentre caricava l’Illusione; e, se loro non fossero stati distratti dalle sue parole, probabilmente si sarebbero accorti del catalizzatore che il ragazzo stringeva nelle mani. Ambra, maledetta ambra! Come doveva spiccare sulla pelle grigiastra del Nero! Eppure né Aleeah né Dave né Dea si erano accorti di nulla, trovandosi bloccati dapprima dalla magia del mezzodrow ed infine catapultati nel suo Incubo senza preavviso, senza possibilità di difesa.
Il Nero aveva creato un’Illusione per ognuno di loro, in modo tale che dovessero affrontarla separatamente; perciò, di colpo Aleeah s’era sentita sollevare dalla panca, mentre intorno a sé i contorni del refettorio si allungavano, incurvandosi e distorcendosi, ed infine sbiadivano, lasciandola immersa in una nebbia bianco-pelacea via via più evanescente, mentre le ombre della realtà svanivano, sostituite dai profili alti di pareti.
Disorientata, Aleeah chiuse gli occhi nella speranza che il mondo smettesse di vorticarle attorno, riaprendoli piano per trovarsi in un vicolo buio compresso fra due alte palazzine fatiscenti, un’ombra della nebbia che le volteggiava attorno alle caviglie nude; indossava ancora la tunica bianca del suo ordine, ma era lacera, come se fosse stata attaccata da un cane. Prendendo fiato, l’aquila si volse intorno, il respiro che si condensava in nuvolette tiepide attorno alla bocca semiaperta: faceva freddo, ed i suoi piedi, nudi, erano a poca distanza da quella che sembrava una grossa pozzanghera, segno che da poco avesse smesso di piovere; seguendo la scia di un pensiero, Aleeah sollevò il capo al cielo, dove un pesante strato di nuvole d’una sgradevole colorazione giallo-rossiccia dardeggiavano minacce, facendo intuire che l’ira degli dei non si fosse ancora placata. Più oltre rumoreggiavano i tuoni, simili all'eco di lastre metalliche che cadano; intorno, solo palazzi di mattoni crollati per metà, strade infangate e deserte, rivoli di acqua ormai prossimi a prosciugarsi, enormi pozzanghere. Aleeah osservò con calma la Città distrutta,  cercando di capire dove fosse, come muoversi; la luce fioca le indicava che dovesse mancare poco al tramonto, sebbene stabilirlo fosse arduo data l’oscurità della coltre scura che la sovrastava.
Era ferma nello stesso punto da quasi tre minuti quando un fruscio alla sua destra la fece voltare, per poi indurla a scansarsi con un balzo ed un gridolino quando un topo poco più lungo del suo piede le strisciò accanto, correndo sulle sue piccole zampette rosa, fra i denti qualcosa di sanguinolento sul quale Aleeah evitò d’indugiare con lo sguardo; aveva il cuore in gola, pronta a scattare per ogni minima vibrazione, la testa affollata da un unico pensiero: non è reale, concentrati, è nella tua testa, concentrati, non è reale. Più facile a dirsi che a farsi.
La luce calava con una velocità allarmante, tanto che in breve la Veggente si trovò immersa in un cupo crepuscolo rosso sangue, nel quale ogni cosa era un’ombra vaga, appena abbozzata. Istintivamente si mosse, indietreggiando per poggiare la schiena al muro, per sentirsi più sicura; ma il muro era gelido e viscido, e la fece rabbrividire così tanto che dovette scansarsi velocemente e, nel farlo, urtò qualcosa che era nascosta dietro di lei, qualcosa di caldo.
Impietrita, Aleeah dovette esercitare su di sé tutto l’autocontrollo che possedeva per non mettersi a gridare, e fu con una notevole dose di coraggio che abbassò il capo, mettendo a fuoco una figura di donna completamente nuda, stesa ai suoi piedi.
«Dea» sussurrò l’aquila, riconoscendo il volto dell’amica, seminascosto dalla cascata nocciola dei capelli, incrostati di pioggia e fango.
«’leeah?» fece di rimando l’altra, socchiudendo le palpebre come per metterla a fuoco.
«Vieni, Alzati, dobbiamo andarcene. È stato quel… Nero, il mezzodrow. Siamo in una sua Illusione»
«Ho freddo»
«Dea alzati. Dobbiamo muoverci, dobbiamo capire come…»
«’leeah, è notte. Dei benevoli, è Notte» Dea, gli occhi di fuori, cominciò a stringersi convulsamente ad Aleeah, che si trovò a doverne sostenere il peso nel tentativo di sollevarla in piedi.
«Non ci può succedere nulla, Dea. Siamo al sicuro, è tutta un’Illusione, ricordi? Se riusciamo a credere che non sia vero, potremo liberarci» il tono cercava di essere confortante, quasi convincente, eppure Aleeah cominciava  dubitare di poter davvero ignorare il freddo e la paura e le sensazioni che i suoi sensi le rimandavano prepotentemente: nonostante quello che potesse dire, tutto era fin troppo reale da esser incontrastabile, per lei. Eppure, l’aquila mantenne un’ombra di sorriso congelata in faccia, a beneficio di Dea, visibilmente abbattuta «ti ricordi le lezioni, all’Accademia? Solo mantenendo la calma e la concentrazione potremo liberarci, alzati e seguimi, Dea, troveremo il modo di uscire e gliela faremo pag…» ma s’interruppe, volgendo la testa di scatto dinnanzi a sé, così violentemente che un nervo del collo le rimandò una fitta. C’era qualcuno, davanti a lei, un’ombra scura in sella ad una diavoleria meccanica che rombava e sferragliava.
«Dei del cielo» sussurrò Aleeah, coprendosi il volto con le mani, il corpo senza forse di Dea che cadeva ancora a terra, scosso dai brividi. Dinanzi a loro, da ogni angolo buio, figure glabre e deformi uscivano camminando incerte, si fermavano, guardavano indietro alla figura nera che indicava, si avventavano sulle due Bianche.
In un attimo le furono addosso, i corpi molli e febbrili che la scansavano per impossessarsi di Dea che, in lacrime, non oppose resistenza; veloci come incubi, trascinarono via la ragazza fino alla figura sul mezzo della Notte, che se la caricò fra le braccia, accendendo fra scintille vermiglie un motore ed iniziando una corsa feroce. I figli della Notte, invece, tornarono fra le ombre, dissolvendosi in acqua e fumo e fango.
Aleeah restò attonita un instante, paura e dispiacere che si fondevano con un senso di colpa bruciante e la gratitudine per la sorte scampata. Poi, l’aquila aprì le ali brune e si puntellò sulle gambe esili, dandosi lo slancio per il volo.
Hanno scelto lei, come sempre rombava il vento nelle sue orecchie, ma questo le dava forza, anziché abbatterla: era una Bianca, dopotutto. Il concetto di amicizia era per Aleeah una sorta di punto d’orgoglio, e, gelosa o meno –forse, anche a causa della gelosia che conservava accuratamente nel cuore come un peccato di sangue- avrebbe dato la vita per salvare la sua amica.
Un lampo, un rombo vicino, la pioggia: volar era faticoso, e lei non v’era abituata, ma la figura sul congegno meccanico si era fermata, quindi Aleeah planò dolcemente, arrivandole alle spalle mentre smontava di sella. Senza darle attenzione, il rapitore si chinò sul corpo esanime di Dea, una lama fra le mani chiare e sottili. Uno scintillio, un grido, una risata bassa, di gola; quando la figura si rialzò, continuando a dare le spalle ad Aleeah, l’aquila poté vedere il volto di Dea, solcato da cicatrici di sangue così profonde che l’avrebbero segnata a vita.
Senza pensare, Aleeah si slanciò in avanti, dimentica della lama e della natura Notturna del suo avversario; che non si mosse, limitandosi a farsi voltare dalle mani chiare della Veggente, che frugarono la stoffa del mantello nero in cerca del lembo del cappuccio, che trovarono e tirarono indietro.
Un grido, coperto dallo scrosciare della pioggia, eruppe dalle labbra di Aleeah, che arretrò, le mani alla bocca, sconvolta nel vedere il proprio viso ammiccarle, bonario, da sotto l’orlo della cappa nera del Lantanide.
«Era quello che desideravi, no?» sussurrò la sé stessa della Notte, con un sorriso dolce e conciliante che le distese i lineamenti in una smorfia orrida, laida.
Aleeah non rispose, troppo sconvolta per reagire.
«Non ne avresti avuto il coraggio, vero? Ma lo vuoi da sempre. Lei è così bella, non trovi? Ogni maschio la vuole, ogni maschio la guarda, ogni Maestro l’adora. Attira su di sé ogni attenzione, ed a te cosa resta? L’anonimato. Piccola, timida aquila. Ti prende ogni cosa, ogni possibilità. E presto, ti porterà via anche Dave, e tu lo sai. È per questo che l’hai desiderato, che mi hai creata, chiamata. Lo sai, lo so. Io sono te, Aleeah, sono noi. Non puoi sfuggire a ciò che hai fatto»
«Io voglio bene a Dea. È la mia migliore amica. Non le farei mai…»
Il cuore di Aleeah perse un battito mentre qualcosa le bloccava la voce ma, prima che potesse reagire, in alto qualcosa si squarciò rivelando una luce così intensa da cancellare tutto, l’Aleeah-Lantanide e il volto insanguinato di Dea e la Notte e la pioggia ed la Città devastata, lasciandola distesa a terra, una gamba dolorante e gli occhi spalancati, colmi di paura.
Intorno a lei i Neri ridevano, un suono simile allo scrosciare della pioggia, vibrante e fastidioso.
«Se vi avvicinate ancora ad un Bianco ne risponderete ai Direttori, è una promessa» stava dicendo qualcuno, una voce familiare a Dea che le riportava alla mente i sotterranei delle Veggenti. Non si curò di scoprire chi fosse, tuttavia. Si sentiva debole.
«Alzati, ragazza. Voi, tornatevene nelle vostre camerate. Ora» tuonò la banshee, la voce bassa ed assordante ad un tempo.
 
Quando s’erano finalmente riprese, Aleeah e Dea erano corse in camera da Dave, e con un segreto sospiro di gratitudine l’aquila aveva scoperto che le Illusioni dei suoi amici erano state diverse dalla propria; nel raccontare il suo incubo, Aleeah aveva omesso la parte finale, dicendo d’essersi svegliata quando la ragazza sconosciuta era stata aggredita dalla misteriosa figura incappucciata. Dea l’aveva abbracciata, facendo sentire la Veggente colpevole a suo modo, nonostante la certezza di non aver fatto nulla; poi, Serja era piombata nella camerata maschile, imponendo alle femmine di tornarsene nei loro letti; ordine che avevano prontamente eseguito.
Era stata Dea, pettinandosi con violenza i capelli nel piccolo bagno comune, a lanciare l’idea.
«Non glielo permetto!» aveva sussurrato improvvisamente, gettando il pettine a terra con fare stizzito.
«Infastidisce anche me» Aleeah non aveva auto bisogno di chiederle a chi si riferisse; le aveva risposto con tutta calma, nonostante dentro fremesse ancora. Quella visione l’aveva sconvolta, facendole guardare sé stessa con occhi totalmente diversi: non avrebbe mai creduto di poter essere così invidiosa o vendicativa, eppure l’Illusione aveva funzionato proprio perché reale; era questo il pregio ed il compito degli Illusionisti, saper capire le debolezze altrui e colpire sfruttandole.
«Darei… ohddeì, non so cosa! per potermi vendicare. In fondo, sono i nostri avversari naturali. Te la ricordi quella Strega, a lezione di Pozionismo? Quella con i capelli giallo acido, che aveva il tic all’occhio destro» Aleeah aveva annuito, sebbene non riuscisse a ricordare chi fosse l’insegnante cui Dea si riferiva; l’amica, in ogni caso, non pareva nello stato d’animo adatto ad essere rallentata da domande -sovreccitata e carica di ira e nervosismo com’era!- e l’aquila stessa non aveva voglia di parlare. Era sempre così, da quando s’erano conosciute: Dea s’infervorava e si sfogava riversando torrenti di parole, Aleeah si chiudeva in un silenzio ostinato, rispondendo di malavoglia. «Ecco. Lei ci raccontò di una leggenda, precedente allo Scisma, ricordi? Ci disse che la metà degli adepti negli ordini Bianchi e Neri si combattevano furiosamente, si odiavano. Per questo vennero creati i Grigi. Perciò, saremmo più che giustificate se volessimo vendicarci, non trovi? Sarebbe quasi giusto. Infondo noi non abbiamo dato motivo, nessun motivo! Perché ci attaccassero. Non trovi anche tu, Aleeah? Io credo che una bella lezione gli sarebbe addirittura utile –gli faremmo un favore. Dovremmo vendicarci. Sei d’accordo con me?» conclusa la sua tirata, Dea si voltò, aspettandosi la replica di Aleeah.
«Immagino di si» commentò la Veggente, a mezza bocca; era decisamente infastidita, ma Dea pareva trarne forza, giacché riprese.
«E se volessimo farlo –se, per ipotesi, volessimo vendicarci- quale momento sarebbe migliore di questo? Siamo nello stesso edificio, a distanza di pochi metri dalla loro ala, in gradi colpirli ora che sono sicuri, come lo eravamo noi, della neutralità dell’Accademia… Ed a nessuno verrebbe in mente di cercarci, perché si sa, i Neri sono focosi di natura, immagino che nella loro scuola le liti siano all’ordine del giorno, mentre noi tre siamo provati, sfiniti ed impauriti. Basterà recitare, non trovi?»
«Immagino» era stata la laconica risposta di Aleeah, intenta a fissare un punto del pavimento di pietra ocra senza realmente vederlo.
«Dunque credi che potremmo?»
«Io.. si, immagino»
«Bene» era stata la risposta di Dea, semi coperta dal fruscio della sopraveste verde oliva e dallo scricchiolare della sedia. Prima che Aleeah potesse realmente realizzare cosa fosse successo, Dea era uscita dalla stanza, in cerca di Dave.
 
Si erano accordati in fretta e furia, trascinati dalla passione di Dea, incapaci di dirle di no.
Erano usciti di soppiatto dalla camerata maschile, ed ora avevano salito una scalinata di marmo, trovandosi dinnanzi la porta di una sala comune sprangata e due corridoi laterali che piegavano ad angolo: con un cenno, Dea aveva indicato alla loro destra, laddove una pesante grata di argento cesellato era lasciata aperta; senza una parola, i tre Bianchi s’erano avvicinati l’uno all’altre, stringendosi gomito a gomito come se dovessero avanzare attraverso schiere di spiriti fatti d’ombra. Nessuno dei tre pareva respirare; silenziosi, superarono le due file di porte dei servizi igienici e svoltarono l’angolo, trovandosi dinnanzi un lungo corridoio, buio se s’escludeva il chiarore della notte senza luna che penetrava dalle finestre, abbondantemente disposte a coprire l’intera  parete alla loro sinistra fino alla fine del corridoio; porte identiche le une alle altre si aprivano sulla parete di destra: le camerate. Lunghe ombre si allungavano sul semplice pavimento di marmo grigio, sotto le finestre, dritto dinnanzi a loro -era quest’ultima la peggiore: una voragine nera pronta ad inghiottirli se incautamente vi si fossero avvicinati troppo.
Dave, Dea e Aleeah si mossero addossati alle pareti, quasi temessero che qualcosa avrebbe potuto colpirli alle spalle. Sapevano di non poter essere percepiti: Nadaven aveva imposto su di loro il suo migliore incantesimo d’invisibilità, rendendoli incapaci d’essere visti da chiunque: loro stessi, guardandosi, vedevano solo delle ombre sfocate –Dave l’aveva posta come precauzione: nel caso qualcosa li avesse fatti dividere, loro sarebbero stati in grado di vedersi e riunirsi.  In ogni caso, nessuno dei tre amici aveva intenzione di testare le difese, non finché il loro piano non fosse stato portato a compimento, almeno.
«Quale porta?» chiese Dea con un soffio, mimando le parole con  un gesto delle dita sottili, evanescenti come fumo. Aleeah accostò l’orecchio contro il legno di ciliegia, quasi fosse in grado di percepire chi vi si nascondesse dietro. Un sommesso russare simile ad un ronzio persistente, quasi al limite del percepibile, pervadeva l’aria. Una camerata maschile.
«Dobbiamo entrare» sussurro l’Aquila, con un cenno del capo. Dave e Dea scossero la testa entrambi, in contemporanea. «E che pensavate di fare? Non possiamo lanciare una Maledizione senza sapere se sono loro!»
«Abbassa la voce, Aleeah. Certo che non possiamo»
«Ed allora? Non c’è un modo per sapere chi dorme? Una stregoneria, una preghiera, qualcosa?» soffiò l’Aquila, guardando alternativamente l’ombra-Dave e l’ombra-Dea, che scossero il capo.
«Non ci abbiamo pensato» espirò Dave, con quel tono afflitto che Aleeah sapeva poter associare alla miglior espressione colpevole del mezz’elfo.
«Stupidì, stupidi, stupidi che siamo stati! Ma cosa pensavamo di…»
«Calmati Dea. È quasi l’alba, e noi dobbiamo essere nelle nostre camerate entro l’ottava ora dalla mezzanotte, quando suonerà la campana del refettorio. Loro dovranno fare altrimenti. Potremmo coglierli di sorpresa quando…» Dave s’interruppe, trattenendo il fiato con un risucchio roco, che risuonò nell’aria più nitido del bisbiglio semi isterico dell’Alseide. Qualcuno sussurrava, l’eco delle voci di almeno un maschio ed una femmina vibrava echeggiando lungo le pareti del marmoreo corridoio deserto, chiaramente udibile fino a loro.
Aleeah sentiva il cuore batterle all’altezza della gola, mentre il petto s’alzava ed abbassava velocemente, la respirazione accelerata. Dea le si fece vicina, poggiandole una mano sulla spalla. Tremavano entrambe.
Nessuna di noi è mai stata addestrata per questo. È in una stanza ovattata lontana dal mondo che dovrei stare si disse Aleeah, con appena una punta di vergogna per la sua codardia. Le Aquile volano via quando il mondo si rivolta loro contro. Le parole di suo padre, da un passato troppo lontano; non le aveva capite, allora. Le aquile sono vigliacche, si disse, ma lasciò che Dea la prendesse per mano, guidandola avanti, verso Dave che, primo a riprendersi, si era spinto in avanscoperta. Erano all’incirca a tre quarti del corridoio quando il gracchiare basso di un uscio che scivolava sui cardini li fece fermare nuovamente, voltandosi per osservare la figura che, dalle tenebre della camera, emerse con un sibilo irritato pericolosamente simile ad un’imprecazione e, volgendosi, accostò la porta della stanza con delicatezza per poi muoversi ad attraversare il breve spazio che lo separava dalla voragine nera in fondo.
Un lampo di gratitudine parve passare fra le mani ancora strette di Dea ed Aleeah, che si volsero a guardarsi là dove, nell’ombra evanescente di loro stesse, avrebbero dovuto esserci gli occhi, per scambiarsi uno di quegli sguardi complici che sono tanto peculiari delle femmine; perché, nel suo transitare sotto una di quelle imponenti finestre spalancate sulla Città ora dominio dei Lantanidi, le due amiche avevano riconosciuto nella veste e nel volto di quel maschio Nero il mezzodrow che aveva intrappolato tutti loro nell’Illusione, quel pomeriggio. Anche Dave parve accorgersene, giacché la sua mano-ombra si mosse a far cenno alle ragazze di avvicinarsi, cosa che entrambe si sbrigarono a fare cercando di mantenere il più assoluto silenzio, nonostante fosse palese che il maschio Nero non aveva il minimo sentore della loro presenza.
Tre metri separavano la porta da cui l’Illusionista era uscito dalla zona scura dalla quale, Aleeah si rese conto, provenivano le voci, ora più forti.
«…morire. Il rituale…» stava dicendo la femmina, soffocando la veemenza in sibili bassi e secchi.
«Il rituale è pura teoria, lo sai meglio di me. Dovremmo…» il suo compagno aveva abbassato la voce, ma la femmina pareva non concordare con lui, giacché sbuffò forte, inducendo il mezzodrow ad aumentare il passo ad una marcia veloce che gli fece percorrere il metro rimanente in pochi secondi, salvo poi sparire con uno svolazzo della tunica nera e della sovra tunica bianca, il tutto nel più assoluto silenzio.
Dea, con uno strattone, aumentò a sua volta l’andatura, costringendo Aleeah a fare lo stesso finché non furono al limitare del cono d’ombra. Lì, l’oscurità era meno fitta di quanto l’Aquila si fosse aspettata; inoltre, il corridoio disegnava una L chiusa da una tenda di leggero velluto aranciato, oltre la quale la luce di una candela tremolava. Dave, temerario, tese l’orecchio sensibile –dono della natura elfica del padre- ad ascoltare, nonostante oramai fosse possibile udire con chiarezza le parole dei tre neri oltre i tendaggi.
«Volete che l’intera ala si svegli?» aveva sibilato il mezzodrow a mo di saluto, chiudendosi la tenda alle spalle con un colpo secco.
«Drathir» salutò la lamia, la voce appena un po’ più alta ora, carica di una vena di pomposa nobiltà, altezzosa «Cominciavano a chiederci se non avessi deciso di rinunciare»
«Chiudi la bocca, Austalia, o finirai per convincermi che non è per parlare che ti è stata donata» la voce del mezzodrow era attutita, soffocata; concluse con noncuranza la frase, indi vi fu un fruscio di stoffa, un piccolo tonfo.
«Nessun maschio si è mai lamentato della mia.. conversazione» il tono lascivo con cui Austalia lo disse parve mettere Dave a disagio; si spostò di lato, cercando una falla nel tessuto, per spiare all’interno.
«Quelli morti non contano, sorellina»
«Smettetela, per carità. La mia vita è troppo breve perché debba sprecarla a sentirvi blaterare di assurdità. L’alba è ormai agli sgoccioli, e non possiamo permetterci di sprecarla. Un’occasione del genere è già di per sé fortuita, e tutte le forze che hanno evocato i Maestri!» era stato l’uomo a parlare, adesso; approfittando del rumore delle voci, anche Aleeah e Dea si erano mosse, spostando di qualche millimetro i due lembi di tessuto.
«Possono quasi essere respirate, tanto sono fitte. Tanta magia è racchiusa qui dentro» parve completare la lamia, con tono estasiato. Curvandosi, Aleeah la vide sorridere, carica di una lussuria e piacere che non parvero però colpire i suoi due compagni.
«È una cacciatrice pericolosa, quella lì» sussurrò Dea all’orecchio dell’aquila, lievemente stizzita. Aleeah capiva cosa intesse, ma non replicò. Aveva un nodo acido alla gola.
«Già, e domani potrebbe finire. Alter, la candela dorata a nord e quella argentata a sud. Austalia, quelle bianche, ad est ed ovest. È l’ultima combinazione che ci resta da provare»
Ci fu un tonfo, un borbottio d’assenso ed una serie di rumori bassi, metallici; di scatto, Dea le strinse più forte la mano d’ombra con la propria, prese quella di Dave e si spinse dentro, oltrepassando la fessura nella tenda. Nessuno dei Neri parve accorgersene: l’uomo e la lamia avevano in mano elaborati strumenti di ottone con cui stabilivano la posizione di ceri grandi quanto il polso di Aleeah, mentre il mezzodrow, di spalle, tracciava a terra un simbolo non molto dissimile da un Pentacolo Complesso.
Evocazione! Trillò un campanello d’allarme alla base della nuca di Aleeah, che trattenne il fiato mentre il volto muoveva ad incontrare quello di Dave. Un cenno di assenso fu tutto ciò di cui i suoi peggiori timori necessitassero.
«Austalia, traccerai tu il cerchio. Recita l’incanto di base secondo il rituale magico mentre lo fai, poi portati al centro esatto, qui sopra l’occhio, e comincia col Rituale Negromantico» cominciò a spiegare Drathir l’Illusionista, passando un sacchetto alla lamia «Alter, tu siedi qui ed attendi. Quando Austalia avrà finito il Rituale, gli Spiriti si manifesteranno attorno a lei. Ho calcolato che questo cerchio dovrebbe essere più potente di quello della notte scorsa, per cui nessun Elementale dovrebbe sfuggire. In ogni casi, non appena si agiteranno io comincerò a soggiogarli all’Illusione. Non appena li avrò convertiti, inizia a mutarne la natura. Ricordate solo: qualunque cosa succeda, restate nel cerchio» entrambi i Neri annuirono, ma l’Illusionista non vi badò, lanciando uno sguardo dinnanzi a se, verso uno dei grandi finestroni che lasciavano entrare una luce via via più chiara, grigiastra. «Cominciamo»
Senza una parola, la lamia immerse una di quelle sue innaturalmente pallide mani nel sacchetto, estraendone bianche pepite di sale grezzo, mentre l’altra scivolò lungo la sua vita sottile fino alla cintura, sulla quale un opale grigio frastagliato di scintille blu mare brillava. Stringendolo, Austalia lascio cadere il sale sul lucido pavimento, muovendosi a tracciare il cerchio mentre la sua mente si perdeva fra le spire magiche e, in trance, le sue labbra sussurravano parole nella lingua antica e potente dell’Arte.
Tre giri compì la maga, prima di fermarsi e muoversi verso l’occhio, sempre distillando quella bassa, raccapricciante litania, il catalizzatore che mandava scintille attraverso le dita che lo stringevano attingendone forza.
Fu un attimo, meno di un battito di ciglia; il tempo parve congelarsi attorno ai sei Attinidi salvo poi esplodere in una scintilla di pallida oscurità. La luce del giorno incipiente si coagulò, tirandosi e stringendosi al pulsare di una vita interna che fremeva, ribollente oltre la superficie del giorno –tirava, richiamata al nostro piano d’esistenza dalla magia di Austalia.
Improvvisamente, il tessuto si lacerò, lasciando fuoriuscire orde di pallidi spettri di puro plasma, pallidi e grigi come lo era l’alba oltre la finestra, senza volto né voce, eppure capaci di lanciare un grido così silenziosamente potente da far rabbrividire Aleeah fino alla punta delle ali, facendole desiderare di poter arretrare, di poter fuggire, ed al contempo bloccandola lì al cospetto della loro innaturale realtà.
Il canto della Lamia cessò di colpo, sfumando in un silenzio gravido di tensione e uggiolii di disappunto; molti Elementali dell’Oltremezzo si gettarono verso l’esterno, trovandosi bloccati dai confini del pentacolo e grattandone l’aura magica con dita spettrali, innaturalmente corte.
Drathir sollevò una mano, evocando una semplice sfera di luce, che parve richiamare l’attenzione di quegli Spettri Naturali, che si volsero, andando incontro alla loro fine.
L’Illusione del mezzodrow li colpì con la forza di un maglio ,soggiogandone l’evanescente mente al suo comando.
«Figli della notte, genitori del giorno, Elementi dell’Alba. Che il vostro spirito si corrompa» cominciò, per poi passare alla lingua arcana; fu una litania ammaliante quella che cantò, una canzone che parlava della tentazione dell’oscurità, inducendo gli Elementali a cambiare la loro natura di alba in quella di notte.
Dea si portò le mani al volto, Dave aveva un buco nero aperto laddove avrebbe dovuto esserci la bocca. Aleeah tratteneva il respiro.
Quello che cercano di fare… questi Elementali sono Neutrali! E la natura notturna cui vogliono mutarli è Malvagia. Sconvolgere un’Elementale è sconvolgere la natura stessa! Cosa.. perché! Era quello che continuava a chiedersi Aleeah, incapace di comprendere il pensiero di un Nero: nessun Bianco avrebbe solo pensato di osare qualcosa di tanto grave.  Come possono riuscirci? Chi sono? Il loro potere deve essere immenso… o immensa dev’essere la loro follia!
Per un istante, Aleeah credette che fosse vera l’ipotesi dell’immenso potere –ma poi uno Spirito diede in un grido, sfuggendo dalla rete di Illusioni che Drathir aveva tessuto per lui ed i suoi fratelli. Chiaramente percepibile, la sua rabbia crebbe fino ad avvolgerlo interamente, simile ad una corazza grigio cenere. Alter l’uomo si alzò, la sovra tunica verde oliva da Elementalista ora chiaramente visibile, ma prima che potesse tentare qualunque cosa lo Spirito aveva forzato il blocco del pentacolo.
Come se un segnale muto fosse corso fra tutti loro, gli Elementali dell’Alba si riscossero dall’Illusione, iniziando a volare in cerchio, cechi, alla ricerca del varco; il primo spirito, invece, disegnò una curva ampia attorno al conciabolo di Neri prima di puntare contro Dea.
«Restate nel cerchio» urlò Drathir, indifferente ai compagni che ancora riposavano nelle camerate fin troppo vicine; era pallido ora, apparentemente incapace di pensare con lucidità a come risolvere la situazione «chiudiamo la falla. Austalia, inverti l’evocazione, mandali indietro. Non uscite!»
Ma i Bianchi erano fuori, alla mercé degli Elementali. Il primo Spirito oltrepassò l’ombra di fumo che era stata Deahanne’ls, entrandole nel petto all’altezza del cuore per uscire dalla sua bocca, ora visibile come del resto tutto il suo corpo d’Alseide. I Neri sgranarono gli occhi, fermandosi davanti all’apparizione di Dea quell’attimo che bastò agli Spiriti ancora intrappolati per distruggere il sigillo di sale e magia che li bloccava. Austalia lanciò un grido, alzandosi di colpo in piedi, la concentrazione necessaria al rito persa.
Lontano, nelle camerate, qualcuno si mosse, voci si chiamarono in bisbigli sempre più acuti.
Aleeah non lo notò.
Uno spirito si inserì in una tempia di Dave, facendolo crollare a terra in preda convulsioni violente mentre il travestimento suo e di Aleeah crollava, rendendoli visibili. Nel cerchio, la veste di Austalia prese fuoco mentre la sua padrona, accidentalmente, urtava una delle candele; la lamia -il terrore del fuoco stampato nel volto nobile e gelido ora deformato- fece un balzo fuori dal cerchio, gettandosi al suolo per estingue l’incendio, ma ancor prima di toccare terra uno Spirito le penetrò nella bocca spalancata. Alter l’uomo si slanciò oltre la protezione del sale evocando l’acqua nelle sue mani a coppa, ed ebbe appena il tempo di soffocare le fiamme che due Spiriti gli penetrarono nel ginocchio e nella schiena, piegandolo al loro volere.
«Scappa, stupida» gridò Drathir, guardando Aleeah come se fosse normale vederla lì, ma l’aquila aveva le gambe di marmo, ancorate al suolo quasi dolorosamente
Ci fu uno scalpiccio, il tonfo di un corpo che cade, quindi la figura del mezzodrow che si contorceva  a terra, fuori dal cerchio.
Aleeah si chiese come vi fosse arrivato, prima che qualcosa la colpisse alla base del cranio. Poi, non fu più.
 




Piccolo spazio-me: Innanzitutto mi scuso per il ritardo nella pubblicazione. Lo so, è un un giorno solo e chissene, alla fine, però mi piace essere puntuale quando posso ;) purtroppo, internet ha deciso di morire per un giorno e mezzo, ed il tecnico l’ha riattivato solo un’ora fa!
Ma tornando a noi… Devo dire che questo chap mi ha fatta penare. Dico sul serio: l’ho concluso interamente domenica notte, dopo una settimana infruttuosa senza ispirazione e con dieci righe all’attivo. Ha sconvolto la mia idea, originariamente più semplice, ma trovo molto piacevole quest’evoluzione della faccenda. Ed a voi piace?
Bhe, vi lascio sempre con il fiato sospeso ultimamente :D spero siate soddisfatti come lo sono io ora ;) ho voluto dare un tocco di.. via, esagero e dico horror. Non ci stona, secondo me (infondo, parliamo comunque di magia nera).
Mi predo un ultimo secondo per ringraziare MNO (altro chap lungo :D) e David Fiddler per l’assiduità con cui mi sostengono e tu che leggi e, timido, invece non commenti :) susu fatti sentire, lo so che ci sei!
A presto e buona continuazione :D

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Capitolo 9
*** NOTTE ***




Un rollare lento accompagnava i suoi sogni, carichi di immagini sfocate e di un dolore pulsante, vivo; tutto attorno a lei oscillava, il pagliericcio, i muri, ella stessa. Qualcosa gracchiava lontano, qualcosa sciabordava, uomini gridavano: una cacofonia di rumori ed odori che i sensi maggiormente sviluppati della jalil amplificavano, rendendole impossibile riposare; ed allo stesso tempo, non era in grado di recuperare la lucidità, finendo per passare da uno stato di veglia ad uno di sonno profondo, entrambi turbati.
Poi, qualcuno era entrato –forse era meglio dire “salito”- e poco dopo nella stanza s’era diffuso un aroma di menta così prepotente che Takrin era stata costretta ad aprire gli occhi.
La prima cosa di cui si rese contro fu che era nuovamente al buio, una lampada ad olio poggiata sul pavimento molto distante, distesa stavolta su una tavola di legno spesso coperta da un materasso sottile foderato di paglia, scomodo; sentiva un pulsare lento ma questa volta nausea e dolore avevano quasi la stessa intensità, e Takrin sapeva che era quel maledetto rollare a procurarle la prima; nella speranza di  attenuare il voltastomaco, si alzò lentamente, poggiando un piede nudo e scuro sulle assi di legno del pavimento quasi con timore prima di guardarsi attorno.
Non c’era nessuno nella stanza stavolta, solo la penombra, lei ed una bacinella bassa e fumante, fonte dell’odore; prima ancora che avesse finito di chiedersi il perché di un tale oggetto, si era ricordata di ogni cosa, e le mani erano scese lungo il collo fino al petto, coperto da un panno di seta grezza che la suppurazione della ferita aveva fatto attaccare alla pelle in via di guarigione. Con una smorfia, Takrin valutò la bacinella, abbastanza vicina perché potesse raggiungerla senza abbandonare la posizione seduta, indi chiuse gli occhi e fece per strappare la pezza, ma dopo qualche centimetro si bloccò, reprimendo un’imprecazione fra le labbra. L’infezione le aveva quasi incollata la striscia di tessuto alla pelle, che ben presto l’avrebbe cicatrizzata con se.
Che sia il loro modo di imbonirmi? Si chiese, solo vagamente interessata alla risposta, mentre immergeva una mano in quell’acqua che si intiepidiva in fretta, la risollevava ed afferrava una delle strisce di seta pulite, caritatevolmente lasciate lì accanto; con il decotto di menta si lavò la ferita, aiutandosi a staccare la vecchia fasciatura, del tutto indifferente al suo bagnare lenzuola e pagliericcio, sporcandole.
Stava rifacendo il bendaggio, non senza notevoli difficoltà, quando dabbasso il rumore di una porta chiusa le arrivò chiaro, seguito da quello di passi che risalivano; in meno di un minuto la testa mora ed il viso del ragazzo Siryo fecero capolino da una botola nel pavimento, non molto distante dalla porta, seguiti dal corpo massiccio del giovane uomo. Takrin s’era mossa pigramente, a coprire il suo corpo nudo con una coperta quel tanto che bastava affinché l’uomo potesse avere uno scorcio delle sue braccia, dell’incavo del collo, un accenno del suo pieno seno sinistro fino al fianco e null’altro; la jalil era una dea, nella sua stessa mente, un essere vanesio che non temeva a definire sé stessa la più bella creatura che il sottosuolo avesse concepito, e nei lunghi anni della sua vita molto maschi, jaluk e non, l’avevano ammirata e voluta, cosa che aveva accresciuto in lei l’orgoglio per il suo corpo scuro e sinuoso, piccolo ma perfetto a suo modo.
Fu per questo che rimase interdetta quando l’uomo le lanciò un’occhiata di sufficienza, apparentemente più interessato al suo stato di salute che non alla pelle d’ossidiana in evidente contrasto col lenzuolo bianco.
«Sei fortunata ad essere una jalil, ragazzina. Non tutte le razze si riprendono in fretta come la tua. Fossi stata umana, saresti ancora distesa su quel letto in balia della febbre, ed a mio padre toccherebbe chiamare un Medico. Sono molto costosi, sai?» concluse, col tono di chi non sia sicuro che ne valga la pena, avvicinandosi e scostando un poco il lenzuolo dal petto di Takrin, per valutare lo stato di cicatrizzazione con occhio critico.
«Dove siamo?» la domanda della jalil era posta con un tono sottile, tagliente come una lama, carico di fastidio: chi era lui per permettersi di toccarla? Come osava restarle così indifferente?
«Non sai dire altro?» fu la risposta calma dell’umano, che non diede segno di aver colto l’astio nella voce della femmina «Questa è la Zephiro, l’ammiraglia, costruita su progetto di mio nonno. Mio padre ti spiegherà i dettagli ma… è bene che ti chiarisca un paio di cose, ragazzina» cominciò, guardandola fissa negli occhi vermigli, che dardeggiarono, carichi d’ira per l’ennesimo gesto sfrontato «Sei una Neutra, adesso. Che ti piaccia o no, che tu lo voglia o meno; perciò, togliti quell’atteggiamento superiore, chiudi la bocca ed apri le orecchie: non sei niente qui, adesso. Qualunque cosa tu sia stata in una tua vita precedente, dalla scorsa notte sei un mozzo, l’ultimo fra gli ultimi, e questa e la tua realtà. Perciò, accettala in fretta, eviterai di farti male» l’aveva detto senza minaccia, con una calma fin troppo invidiabile, ma Takrin non voleva, semplicemente non poteva accettarlo. «ora» riprese l’uomo «io finirò la fasciatura, poi ti vestirai, scenderai quelle scale ed ancora altre, fino ad una stanza da notte con un salottino, dove ti fermerai. Tutto chiaro?»
Takrin annuì piano, poi lasciò andare la coperta, esponendo la sua nudità fin quasi all’inguine; l’uomo mosse le labbra a sussurrare qualcosa che suonava come “esibizionista” ma non diede altro cenno di essere interessato a lei, iniziando ad applicare prima qualcosa preso da una cassetto e poi a legarle il bendaggio stretto.
Intanto, la mente di Takrin si era messa a lavorare velocemente, valutando: nella sua vita, la sua faccia innocente prima e la sua bellezza poi le avevano aperto molte porte –non c’era stato professore o saggio che potesse rifiutarle un favore, fosse un voto o la possibilità di accedere a pratiche e rituali più avanzati con un aiuto speciale-; che fosse un suo sguardo, un suo bacio od il suo stesso corpo, Takrin non s’era fatta scrupoli: era lo scopo ultimo che le interessava, era la maestria e la perfezione che qualunque mezzo valeva per conquistare. D’altronde, quella era una tecnica che nessuna jalil disprezzava, sebbene la loro natura fosse di comandare più che di sottomettersi: ma il fine giustificava i mezzi, sempre, e Takrin ce l’aveva fatta, ben prima di quanto tutti si aspettassero, e nonostante la necessità di ammaliare non sussistesse più, in cuor suo le dava orgoglio vedere che i maschi la desiderassero –e quanto la divertiva deluderli, scacciandoli con la sua gelida indifferenza o con la sua lingua affilata!
Con le donne era il suo talento, con gli uomini la bellezza, che sopperivano alla mancanza quasi totale di vero carisma. Insomma per tutta la vita la magia innata ed il fascino, entrambe lascito della sua razza, erano state la chiave del suo successo.
Ora, in quel buco puzzolente che non riusciva a smettere di dondolare qua e là, nessuna delle sue due armi sembrava poter funzionare. Cos’avrebbe dovuto fare, come comportarsi, allora?
«Fatto. A questo ritmo, direi che domani mattina sarai già in grado di iniziare i tuoi compiti. Ora, se permetti, ho una nave da preparare. I vestiti» ed indicò con un gesto distratto un basso cassettone irregolare sulla parete di sinistra «e la cabina del Capitano, due piani sotto. Non è difficile, no?» concluse, con un sorrisetto a metà fra il divertito ed il beffardo, alzandosi ed allontanandosi senza voltarsi a dedicarle neanche un’occhiata. Discese la scaletta, aprì un cassetto e fece frusciare qualcosa che somigliava al rumore della carta, quindi una porta venne aperta e chiusa, un ordine venne gridato dalla voce possente di un uomo che poteva essere Rigel, quindi passi scalpicciarono lontano. Takrin si alzò, muovendosi verso la cassettiera con passo incerto –tese le mani per reggersi quasi ad ogni cosa, mentre il rollare della nave le dava un altro forte conato- quindi si mise ad aprire cassetti a caso, da quelli minuscoli che contenevano pastiglie di erbe a quelli più grandi pieni di cambi di biancheria e bende pulite su cui era poggiato un rametto di lavanda; non c’erano pietre d’onice, ma non se l’aspettava: quegli uomini erano troppo attenti per lasciarle un catalizzatore vicino.
Il mobile era ancorato al suolo ed alla parete così come, scoprì, anche la coppia di letti che occupavano la stanza, il comodino sul quale era poggiata la bacinella ed uno scrittoio privo di carte. La cabina era troppo in ordine perché qualcuno vi abitasse o la utilizzasse regolarmente, valutò Takrin, aprendo il cassetto giusto e prendendo i vestiti, che si tese davanti ed osservò con un’espressione sconcertata in volto. Un paio di lunghi calzoni di un cotone blu dall’aria consumata, una maglia bianca dello stesso materiale dalle maniche lunghe ed il collo basso ed un paio di stivali di cuoio nero, talmente usurati che Takrin ebbe paura che, indossandoli, le si sarebbero squarciati in mano. Riluttante, la jalil indossò ognuno di quei capi, un brivido di ribrezzo che le percorreva la pelle nonostante profumassero di pulito. La lanterna aveva dato in un guizzo e s’era spenta, così che Takrin, immersa nel buio che le era congegnale, osservò la botola nel pavimento prima di scostare la lampada con un calcio e d’aprire la porta.
Ebbe appena il tempo di registrare uno squarcio di legno, cordame e vele prima che la pelle le si incendiasse e gli occhi si riempissero di lacrime. Gridò, perché il dolore era più forte ogni secondo in cui il sole le colpiva la pelle sensibile, e serrando gli occhi si mosse a tentoni fino alla porta, meno di due passi indietro. La frescura protettiva e buia della stanza la accolse come l’abbraccio più caritatevole che avesse mai ricevuto, sanando in parte la ferita e lo shock. Sapeva che la luce le era fatale, ma non vi s’era mai esposta direttamente, senza protezione. La sua pelle doleva, arrossata, mentre sugli occhi era scesa una nebbia che persistette mentre scendeva le scale fino ad una stanza dalle tende caritatevolmente tirate, che non guardò, e poi ancora più giù, dove le era stato detto di andare. Sforzandosi sempre meno, mise a fuoco la stanza, una vasta camera da letto con un’intera parete coperta da tendaggi spessi dietro al letto a baldacchino, segno dell’attenzione alla sua natura drowish; su di una parete si apriva un grande armadio, che ad angolo continuava fin sopra la porta trasformandosi in una libreria chiusa da ante di vetro, oltre le quali file e file di volumi facevano bella mostra di sé. Sull’altro lato, un’ampia scrivania ingombra di carte, piume e calamai tappati e gettati alla rinfusa. Ai piedi del letto, un ampio baule mentre proprio dinnanzi alla porta, a quattro o cinque passi da questa un tavolo rotondo con tanto di centrini e sedie trattenute con una cinghia faceva bella mostra di sé: come nella cabina in cui si era risvegliata, anche qui tutto tranne le sedie ed il baule era inchiodato al suolo od al muro.
Takrin si mosse verso il tavolo rotondo poi si fermò, volgendosi verso la scrivania e sedendosi sul bordo della panca fissa, troppo minuta per potersi mettere comoda; velocemente afferrò un calamaio, vi intinse una piuma e chiuse gli occhi, concentrandosi su qualcosa per almeno due minuti prima di scrivere freneticamente nella sua lingua madre ed in una lingua strana, fatta di simboli arcani. Quindi riaprì gli occhi, soffiò sull’inchiostro finché non fu asciutto e poi lo ripiegò, infilandoselo in tasca.
Sapeva che la magia è cosa strana, frutto di studio e lavoro ma tuttavia sfuggevole, così maestosa e vasta che necessita di un ripasso costante per non essere cancellata dalla mente, troppo semplice per Lei: era questo lo scopo dei Grimori, ricordare e trasmettere; ma Takrin aveva lasciato il suo all’Accademia, ed aveva bisogno di ricordare almeno questo.
Si era seduta da appena qualche istante quando la porta della cabina si aprì, costringendola a distogliere lo sguardo dalla luce prepotente della giornata di sole.
«Non è bello far aspettare una femmina, lo sapere?» esordì Takrin ,quando l’uomo si chiuse la porta alle spalle.
«Specie se la femmina siete voi, immagino. Ma è anche vero che il Capitano può permettersi molti lussi, soprattutto se di un galeone come questo, non trovate, ragazza?» disse Rigel, con quella sua voce calma e perentoria «Lasciate stare. Con voi non serve essere diretti, ma sottili. Siryo vi ha dato un comando semplice e diretto e voi non l’avete eseguito, e ne state pagando lo scotto» e senza preavviso allungò una di quelle sue grandi mani a toccare il volto di Takrin in una carezza un po’ troppo forte, che riverberò sulla sua pelle infiammata e dolorante «il mio cuoco vi ha vista scottarvi al sole. Stupido, e ve l’avremmo risparmiato, come potete ben vedere. Siamo stati fin troppo cortesi con voi, ragazzina, ed ora mi domando se sia questo che meritiate» disse, dando un altro colpo lieve sulla guancia della jalil «o questo.» e ritrasse la mano, indicando l’aria ed i tendaggi che coprivano la finestra, poi «Qualunque cosa sia, state certa che quando la vostra ferita si sarà rimarginata, non avrete sconti. Qui bisogna lavorare per vivere, ed io esigo che ognuno si guadagni il pasto che consuma. Dunque, sarò franco.
«Vedo due scelte per voi, e la mia ultima cortesia sarà di farvi scegliere. La prima è quella per cui opterei, perché a mio parere vi si addice , e dubito che potreste essere usata per altri scopi: ebbene, abbiamo diverse basi commerciali ma un solo accampamento, in un sito che non vi è necessario conoscere ora. In tale luogo c’è una taverna che vanta la migliore… compagnia femminile che un marinaio possa desiderare. È lì che vi manderei a servire…»
«Vorresti fare di me una puttana, Rigel?» soffiò Takrin, serrando le mani al bordo del tavolo con uno schianto «Una schiava per il piacere dei tuoi sudici ed indegni marinai? Io sono una jalil nobile, per gli stramaledetti Dei caduti!»
«Frenate la lingua, ragazza. La vostra seconda possibilità è quella di servire come mozzo in questa nave, sotto il mio comando e controllo. Non potendo salire in coperta, servirete i pasti, controllerete i carichi, laverete i ponti di batteria e di stiva, rassetterete le cabine del Capitano e degli Ufficiali, l’infermeria e le camerate femminili, il tutto ogni giorno, sotto il comando del mio attendente e dei suoi due mozzi»
«Quindi o servetta o puttana. E la chiami una scelta, questa?» s’infiammò Takrin, aumentando la stretta sul legno.
«O scegliete o vi mando al bordello e, se vi ribellate, vi inchiodo davanti alla vostra bella Accademia e vi lascio ad attendere il sole completamente nuda. Avete il marchio, nessuno vi aiuterà. A voi la scelta, Ragazza» lo disse con calma, come se non gli importasse nulla né di lei né della sua sorte, e questo scosse Takrin molto più dell’immagine che Rigel aveva evocata. Ponderò la scelta, optando per la vita innanzitutto e per la fuga poi.
Se l’accampamento coincidesse col luogo in cui mi portarono dopo avermi catturata… ma se finisco nel bordello non mi lasceranno uscire, non si fideranno; il capitano mi farà scortare, e quanti maschi mi useranno prima che io possa avere anche solo una possibilità di fuga? Ma qui.. la nave salperà, e se non dovessi farcela prima di quella data, avrei un intero viaggio per conquistarmi la fiducia di tutti, in un modo o nell’altro. Ed una volta conquistata la loro stima, non sarà troppo difficile allontanarmi un po’… tutto questo, Takrin lo pensò nel giro di pochissimi secondi, prima di rispondere con voce svogliata.
«Servetta» scelse, iniziando a recitare la sua parte.
«Perfetto. Mastro Lokks vi insegnerà quello che dovete sapere sulla nave, ed il rispetto… bene, agli ufficiali ed in generale a chi vi è superiore dovete il “voi”; a me, al Mastro Carpentiere, ai miei figli, al Mastro Artigliere ed al Capocuoco dovete il titolo di “signore”, seguito se lo volete dal titolo. La mancata ottemperanza di queste regole porta a una frustata. Tutto chiaro, ragazza?»
«Si. Signor Capitano»
«Ottimo. Qui siete un membro della ciurma, nonostante le vostre mansioni. Perciò è vostro diritto denunciare offese al Capitano. Vi prego di farlo solo in caso di reali offese, o sarete voi a pagarne lo scotto»
«Si. Signore»
«Ottimo. Potete attendere qui, manderò Mastro Lokks a prelevarvi. Buona giornata, mozzo»
«A voi, Capitano» disse Takrin, e lo guardò voltarsi e lasciare la stanza con un misto di esultanza e piacere: aveva un piano, e recitare non le sarebbe stato difficile.
Era un’artista.
 
Passò l’intera giornata imparando a distinguere l’albero maestro da quello di mezzanella, a memorizzare cosa fossero una coffa, un bompresso e delle sentine; a ripetere i nomi di corde e travi e vele; a distinguere i vari ponti dai castelli e casseri. A sera, era stremata, le mani fra i capelli lattescenti e la testa china su di un foglio di carta con il disegno della nave e delle didascalie esplicative, certa solo di trovarsi nella camerata femminile, sul castello di prua, una stanza modesta con uno scrittoio da un lato ed un armadio dall’altro della porta, due letti a castello e quattro bauli. Le sue due compagne di stanza, entrambe umane, dormivano placidamente: Takrin non aveva rivolta loro la parola, limitandosi ad osservarle con apparente disinteresse per poi tornare ai suoi studi, lanciando appena un’occhiata distratta alla sua cuccetta, nel materasso della quale aveva infilato il pezzo di carta prelevato dalla cabina del Capitano.
Per l’intera notte era andata avanti a leggere, gli occhi incollati al foglio e la mente lontana, immersa in un complicato piano di fuga, certa che l’Accademia non avrebbe voluto altro che riaverla. Così, la campana dell’alba la sorprese ancora china, la testa poggiata mollemente alle mani scure.
«Non hai dormito?» le chiese una delle donne, svegliandosi e guardandola con interesse fin troppo vivo per i gusti di Takrin, che volse piano il capo trattenendo a stento un gesto di stizza e fastidio.
«Umana, non sono debole e fragile come voi. Sono una jalil nobile, ed ilo mio corpo è superiore al vostro. Non ho bisogno di dormire quanto voi» borbottò, squadrando la ragazza umana; era giovane, rossa di capelli e spigolosa, ancora acerba e nervosa; aveva il naso storto, come se fosse stato rotto, ed indossava un camicione di tela grezza, bianco. Una ragazza nel complesso comune, banale, la giudicò Takrin, non una minaccia.
«Ah… ok. Lara, in ogni caso» si presentò la ragazza, con un sorriso che le mise in mostra una fila di denti irregolari «e lei è Sashe» disse, indicando l’altra, una donna bruna la cui bellezza, nonostante gli anni, risplendeva di vitalità e forza, già vestita ed in fremente attività.
Takrin si limitò al continuare a fissare il volto lentigginoso di Lara che, a disagio, si stiracchiò in un concerto di scricchiolii di ossa, prima di tornare all’attacco.
«Sei la nuova, vero? Si, insomma, devi esserlo, visto che non ti abbiamo mai… »
«Lara, taci. Non vuole parlarti, è palese. Lasciala stare, prima o poi si piegherà. Vatti a vestire, o Lokks ti punirà di nuovo» s’intromise quella chiamata Sashe, afferrando per la lunga camicia da notte Lara e spingendola indietro con un gesto bonario ma deciso, prima di piazzarsi davanti a Takrin, vicinissima al suo viso «E tu, jalil nobile» disse con un sogghigno troppo simile ad una smorfia «ti hanno onorata di un posto sulla Zephiro, è vero, ma sei l’ultima arrivata, ed una bastarda del Giorno per giunta. Se vuoi sopravvivere, levati di dosso quell’aria superiore, prima di farti male. E tratta con più rispetto Lara in primis e la ciurma poi»
«Perché non torni ai tuoi compiti da sguattera e lasci me in pace, umana?» rispose Takrin, aprendo le labbra in un sorriso pieno e palesemente falso.
«Lokks ti aspetta sottocoperta, jalil. Quelle scale lì» con un cenno del capo, indicò una botola quasi addossata alla parete destra «Lara, buona giornata. Passa da me dopo il mezzogiorno, anticipiamo la lezione. In fondo, hai lei ora a sostituirti, no?» il suo tono era ammaliante, basso e con un accento di divertimento che fece assottigliare le labbra a Takrin.
Uscendo, Sashe si premurò di aprire l’intera porta alla luce cristallina del mattino, così che Takrin fu costretta a spostarsi ed alzarsi in piedi, dirigendosi suo malgrado verso Lara, che fece un sorriso incerto nella direzione della jalil.
«Sashe è una in gamba, vedrai, bisogna solo saperla prendere» si scusò «non parlare a quel modo, comunque. È il Mastro Carpentiere di questa nave»
«Ed istruisce te?» incredula, Takrin sollevò un sopracciglio, le braccia che si incrociavano al petto.
«Si. Imparo a far di calcolo ed a conoscere i vari materiali. Bhe, è mia madre, e sa che sono brava, anche se non sembra. Non mi avrebbe scelta, sennò» disse Lara, arrossendo e distogliendo gli occhi dalla faccia carica di incredulità di Takrin.
«Dovrò scusarmi, immagino» commentò infine la jalil, arricciando il naso e stringendo i pugni; no, non era il tipo da piegarsi così facilmente.
«Oh non farlo, si accorgerebbe che menti, non è una donna stupida. Dimostrale che lavori bene, impara a portarle rispetto. Nessuno di noi è malvagio, nonostante quello che vi dicono nel giorno; e credimi, sono sicura che ti troverai bene sulla Zephiro»
«Immagino»
«Allora via, tieni quell’aria scontrosa se vuoi, però fai una prova. Avanti» Lare tese la mano, ora più sicura «Io sono Lara. Piacere»
È una bambina ancora… Lolth1, innocente ed ingenua, pensò Takrin, e sorrise di rimando, ricacciando fuori le sue maniere migliori. D’ora in poi, sorridente e rispettosa, chissà che il prossimo pezzente che mi torvi davanti non sia un altro ufficiale, o suo figlio.
«Takrin Cryso» si presentò a sua volta, tendendo con appena un’indecisione la mano nera a stringere quella dorata dal sole di Lara, che parve riprendere tutta la sua giovialità, lanciandole l’ennesimo, stucchevole sorrisone e correndo a vestirsi mentre riprendeva a parlare.
«Lokks è duro, all’apparenza, ma è un brav’uomo. Lavora su questa nave da almeno sessant’anni, credo che abbia cominciato quando nacque il Capitano, perciò sa come vanno fatte le cose per finire in fretta e tornarsene a casa… lui, intendo. Noi di solito –io e Steno- dormiamo un po’, certo a meno che mia… Sashe non voglia insegnarmi. Comunque, non c’è molto da fare, in realtà. Prima di colazione si pulisce il ponte, poi si mangia e si rassetta il refettorio, quindi…»
 
In vita sua, Takrin non aveva mai lavorato tanto; arrivò a sera senza energie, con il petto e gli arti doloranti e talmente affamata che litigò con uno dei cuochi per avere un’altra porzione di quello stufato acquoso che servirono loro, per poi andare a dormire senza dire una parola, conscia che la mattina successiva tutto sarebbe ricominciato. E così fu.
Lokks, un tritone in forma umana dall’aspetto più arcigno che soave, impartiva ordini, dividendo la zona da rassettare in tre aree ed assegnando a Takrin, Lara e Steno –uno Yali2 dalla corta pelliccia color ruggine- ognuna di loro perché la pulissero totalmente, sotto la sua supervisione. Il primo giorno Takrin dovette fare turno doppio, sostituendo Lara secondo gli ordini del Mastro Sashe, mentre il secondo giorno Lokks le fece pulire da cima a fondo la cabina del capitano due volte, sicuro che la jalil non ci avesse messo l’impegno dovuto. Da parte sua, Takrin sorrise e lavorò, silenziosa e mite quanto lei stessa non avrebbe mai potuto immaginare d’essere, ingoiando orgoglio e risposte taglienti come fossero un veleno amaro che le restituiva energia invece che toglierla, caricandola; la prima notte, affacciandosi con la scusa della nausea –che ancora la tormentava- aveva dato un’occhiata al ponte di coperta, osservando che l’asse per scendere sul pontile non veniva ritirato di notte: questo le aveva fatto ben sperare, ed aspettava solo l’occasione propizia, che si presentò quella notte.
Erano passati quattro giorni da quando Takrin si era risvegliata nella casetta con Rigel ed i suoi figli, ed ormai il tempo alla fonda era agli sgoccioli: quella notte, rientrando in cabina, Takrin la trovò vuota: sapeva che il Capitano aveva indetto una riunione per stabilire la rotta, ma non credeva che Sashe potesse volersi portare Lara. Vorrà addestrarla alla vita da ufficiale, senza dubbio… pensò, sorridendo in quel suo modo peculiare e sincero –incurvando le labbra a destra, così che più che un sorriso sembrava un ghigno di impietoso divertimento. Non si diede più di un secondo di tempo per valutare la situazione prima di aprire la porta con la massima calma, una mano  premuta sulla bocca ed una sulla pancia, l’espressione di chi sia affetta da una nausea incontrollabile; non incontrò nessuno, sul ponte: lontane sulla spiaggia, le luci di un bivacco, il rumore di cavalli, mentre dal ponte di batteria veniva il suono inconfondibile degli ubriachi: musica e risate, qualche sporadico rutto, tintinnare di piatti e bicchieri. Takrin si arrampicò lungo l’asse, incerta, calandosi per quei pochi metri che la condussero al pontile, sul quale rimase ferma un istante prima di cominciare a percorrerlo lentamente, senza fretta, allo scopo di dare meno nell’occhio.
Sulla nave, qualcuno si sporse a osservare, oltre la murata di legno che correva attorno al ponte di coperta.
«Sei ancora convinto, Siryo?» sussurrò, distogliendo lo sguardo dalla jalil per portarlo verso una seconda figura, in piedi dietro l’albero di maestra.
«È il modo migliore per farle capire, anche nostro padre ne è convinto. Non si darà mai per vinta, è cocciuta e stupida, a suo modo. Deve scontrarsi con la realtà.»
«Potrebbero tenersela, carpire informazioni da lei, farsi guidare…»
«Oh, è indubbio che lo faranno, e sicuramente verranno a sapere di noi il minimo indispensabile, che è quello che lei conosce. Ma noi… quando tornerà qui, umiliata, senza speranza e sola, chissà cosa vorrà rivelarci»
«Non mi fido, fratello. Ma è la voce di nostro padre. Andiamo ad avvertirlo» disse l’elfo, prima di tendere una mano a Siryo, che l’aiutò a sollevarsi in piedi; un fascio di luce investì il ponte quando la porta della cabina venne aperta, e lontano un rumore di voci si sparse, prima che la porta inghiottisse di nuovo luminosità e parole.
Takrin non vide nulla.
 
Il pontile era una struttura in legno e pietra risalente all’Epoca degli Dei, maestosa ed ancora perfettamente funzionante: i piloni che sostenevano la travatura orizzontale erano stati scolpiti a foggia di creature marine, talmente dettagliate e sublimi che, si diceva, perfino il mare aveva attenuato la forza delle onde per non arrecare danno alle opere. Se anche così era stato, doveva aver cambiato idea: ora, solo contorni abbozzati e levigati erano rimasti, ma le colonne erano grandi e forti, piantate da Titani e giganti così a fondo che nessuna tempesta, neppure quella che aveva seguito lo scisma, era stata in grado di abbatterli.
Il porto si estendeva per un lungo braccio di mare così da permettere anche ai galeoni dal pescaggio più ampio di attraccarvi. Takrin lo percorse quasi per intero, la tensione che le si attaccava addosso come la salsedine del vento e, quando finalmente i suoi piedi abbandonarono il legno per il pavimento roccioso e poi la sabbia, la jalil si mise a correre a perdifiato, ancora ed ancora senza guardarsi indietro, senza contegno, scompostamente.
Una piccola foresta di pini cresceva al limitare esterno della spiaggia; poi un tratto di pianura, gli alberi sempre più radi man mano che i contorni maestosi degli edifici cittadini le si palesavano davanti.
Palazzi, villette, giardini curati, i vialoni lastricati che tante volte nella sua forma umana aveva percorso: passò dinnanzi al Palazzo degli Dei, sede del governo, quindi svoltò in un angolo superando l’Accademia Bianca e tagliando per quel vicolo in cui l’odore del cuoio spingeva a voltarsi verso la bottega di Centralque, la migliore conceria della città, e poi sul lungoFiume attraverso il Ponte di Mezzo ed infine lì, a casa.
L’Accademia Grigia.
 
Sevia era sveglia, china su un testo dall’aria fragile ed antica, una piuma accanto a lei che svolazzava a mezz’aria, scrivendo su di una pergamena spessa parole in una lingua arcana che la Grande le dettava con un sussurro basso, quasi inudibile. Lontano, un orologio lanciò un basso richiamo, seguito da altri tre, che echeggiarono nella notte della Città deserta. Sevia sospirò, perdendo la concentrazione, e la penna diede in un ultimo sbuffo a mezz’aria prima di piegarsi e cadere di lato; l’Ifrit non vi badò e si portò le mani curate e troppo grandi per una donna alle tempie, massaggiandosele: aveva passato l’intera giornata in conclave assieme ai Maestri, cercando di decidere una sorte per quegli idioti che avevano deciso di giocare con gli Elementali. Erano ancora privi di sensi, e tali Sevia sperava sarebbero rimasti per poco, giacché un’idea la stuzzicava da quando aveva ricevuto la notizia: un colpo di fortuna inaspettato, si era detta, mostrandosi invece irosa e contrita con gli altri Rettori, minacciando pene e rimangiandosi tutto poi, scadendo nel sentimentale; sapeva recitare ed otteneva sempre ciò che voleva: per questo s’era sentita tanto attratta da quella jalil da offrirle il posto di suo Successore: un titolo senza senso, per quello che la riguardava, ma la ragazza pareva ambiziosa e potente e, cosa di ancor più pregio, stupida e manovrabile. Ne avrebbe fatto l’assistente perfetta, se solo quell’idiota non si fosse fatta catturare…
Qualcuno urlava, picchiando contro una porta con foga; Sevia scattò in piedi, attraversando l’uscio in cerca della fonte del rumore, ma nel corridoio l’eco era quasi impercettibile: con un cipiglio sorpreso, fu verso la finestra che la Grande tornò, scostando le tende decorate e guardando in strada.
Lei era lì: la jalil, quella che sarebbe dovuta… no, quella che era persa; quella catturata.
La osservò bussare e gridare nella notte che le aprissero, per lunghi minuti prima che qualcuno bussasse delicatamente alla porta: fuori, una piccola folla si stava radunando, ma non vi badò perché il servitore aveva richiamata la sua attenzione.
«Grande Sevia, vengo da parte dei…»
«Dì a Dionio e Mar’ja che richiamino all’ordine i loro studenti. Dà ordine ai custodi di non aprire i cancelli finché non mi presenterò io alla porta principale» ordinò perentoria la Ifrit, scansando con un gesto imperioso l’interlocutore ed affacciandosi in corridoio «Voialtri, in camerata. Tu, umana… Cèlia, no? vai tra i Neutri e dì loro di non uscire. Chi troverò nei corridoi verrà buttato fuori. Sono stata chiara?»
La ragazza annuì, correndo a portare il messaggio; Sevia la seguì per un istante con lo sguardo, quindi si volse, chiudendosi la porta alle spalle, e tornò alla finestra.
 
L’alba colse Takrin di sorpresa, facendola arretrare fino al limite estremo dell’ombra; poi fu solo dolore, un fuoco lento e costante che le bruciava la pelle sensibili e gli occhi, facendola lacrimare e gridare di dolore.
Quando una Sevia vestita e sazia le aprì la porta, Takrin era raggomitolata su sé stessa, avvolta come a proteggersi dall’attacco del sole, gli occhi ciechi a tutto; non riconobbe la voce di chi diede l’ordine, né prestò attenzione alle parole: seppe solo che qualcuno la sollevava, trasportandola in un luogo senza sole e senza dolore, ma non osò aprire gli occhi per vedere chi fosse; e poi, a cosa le sarebbe servito?
I minuti scorrevano lenti e dolorosi, cosicché Takrin avrebbe potuto dire quanto esattamente fosse durato il suo viaggio fino alla sala buia piena di voci in cui venne lasciata, sperduta e senza parole per la prima volta.
«Lantanide» esordì qualcuno alla sua destra «Lantanide!» tuonò ancora, con quella sua voce saggia ed impietosa, maschile; e, suo malgrado, Takrin si voltò, cercando di mettere a fuoco qualcosa fra il grigio scuro che era il suo mondo.
«Takrin» disse un’altra voce, femminile solo in parte «fu questo il tuo nome, vero? Fosti Arcimaga un…»
«Non ti è permesso di parlarne!» tuonò qualcuno, ma Takrin era tutta protesa verso quella seconda voce: l’aveva riconosciuta, l’avrebbe salvata.
«Io so cosa mi è permesso, o hai dimenticato chi sono? Taci e vattene, se devi interrompermi» tuonò quella voce bassa e profonda. Sevia.
«Non ti interromperà più, mia cara. Ora, continuiamo» riprese una voce evanescente, acquea.
«Takrin. Sappiamo chi sei stata, e cosa t’è capitato; non temere, avrai quello che ti spetta, ma prima abbiamo bisogno di sapere. Chi ti ha catturata, dove eri tenuta nascosta?»
«Un… marinai. Al Porto degli Dei» disse Takrin, la voce bassa e rauca per il troppo gridare, la gola in fiamme «Acqua» mormorò poi, supplichevole.
«Dopo, mia cara. Adesso devi dirci quali sono le loro forze. Quanti erano? Il loro equipaggiamento? Le razze, lo scopo, i piani?»
«Non so, pochi, ma non ho visti.. non… non so. Elfi, umani, tritoni.. come noi, vari. E… pulivo i pavimenti e… acqua, vi prego» disse Takrin, voltando la testa attorno, come cercando il sostegno delle figure che le erano invisibili.
«Dopo. Rispondi ora» Sevia, implacabile, continuò.
«Non… non lo so. Non so altro!» soffiò Takrin, avvolgendo le mani sulla pelle nuda delle braccia, indifferente al dolore «Acqua, vi prego»
«Parlaci di loro e l’avrai» concluse Sevia, con un sorriso.
«Hai detto.. mi hai detto che avrei avuto quel che mi spettava. Sono un’Arcimaga, maledizione! Datemi dell’acqua!»
«Avrai tutto quel che ti ho promesso quando ti avremo spogliata del tuo.. essere Lantanide. Espia la tua colpa e poi tornerai a casa. Vuoi provarci? Ci dirai tutto?» Sevia aveva un tono sereno, quello che avrebbe usato con una bambinetta viziata.
«Va bene, tutto, quello che volete…» disse Takrin , e cominciò. Narrò del vicolo, di Cèlia e delle moto, del sogno, della stanza, dell’uomo e dell’elfo; di Rigel e della nave, dei ponti, della cabina e delle sartie; della fuga e della corsa. Ad un certo punto, qualcuno bussò e Takrin dovette interrompersi, lasciando che gli astanti confabulassero tra loro, senza prestare attenzione alle parole che pronunciarono, poi riprese; e Impiegò un tempo lungo, fra pause e colpi di tosse, la voce sempre più bassa man mano che la gola terminava di asciugarsi, gli occhi che perdevano via via la patina opaca, rendendole nitidi i contorni ed i colori.
Quando non ebbe più voce, lasciò il silenzio ad allungarsi per qualche secondo, poi Sevia prese la parola.
«È tutto, dunque?» Takrin annuì «Bene. Signori, propongo di concludere l’altra questione prima di ritirarci. In quanto a te, Lantanide» il cuore di Takrin perse un colpo a quell’appellativo, trattendno il fiato con un rumore basso, simile ad un fischio, ma Sevia non vi badò e bussò alla porta, facendo un cenno veloce a qualcuno che entrò con solerzia ed impartendo ordini a bassa voce; qualcheduno lasciò la stanza, due figure presero la jalil, sollevandola da sotto le ascelle e reggendone il peso quasi senza sforzo «sarai confinata nei sotterranei in attesa della notte. Come premio per aver collaborato, sarai giudicata domattina da una giuria di Attinidi per il tuo crimine. Ti è chiaro, Lantanide?»
Takrin sollevò il mento e sputò in direzione della figura di Sevia che, assieme al Centauro bianco ed alla Cecaelia Nera, rimase a guardarla mentre veniva portata via.
Fuori, lungo i corridoi deserti e poi giù per una rampa di scale tanto, troppo familiare: incrociarono un servitore che sosteneva un’aquila barcollante, poi la luce dell’ingresso, le scale e l’oscurità della stanza, un raspare di chiavi, il silenzio.
Respirando velocemente, Takrin costrinse sé stessa a pensare con lucidità. Era mattina, e quante ore sono passate? Domattina… ho la notte, e posso… potrei… il mio crimine! Sapeva qual’era la legge in merito: ogni Lantanide, punibile per essere tale, era condannato a morte. La giuria era sono un proforma, una pagliacciata allo scopo di fingere equità e giustizia. L’avrebbero condannata, lo sapeva con lampante certezza. Io non l’ho mai voluto! Mi hanno presa, come possono non capirlo?
Takrin si scosse, respirò, socchiuse gli occhi: era in una stanza da letto apparentemente vuota, senza finestre se non una feritoia per l’aria, troppo piccola perché potesse passarvi in mezzo; alzandosi, barcollò incerta fino alla porta, saggiandone la maniglia un paio di volte prima di arrendersi e stendersi sul letto, infelice.
Passò del tempo e qualcuno aprì la porta: un servitore, che le depose accanto qualcosa che sapeva di cibo caldo e che Takrin divorò, nonostante ogni boccone le graffiasse la gola, facendole salire piccoli conati; la bocca sporca di insipido sugo, bevve, usò le coperte morbide per pulirsi quindi si volse alla finestra, valutandone la luce; chiuse gli occhi, cercando di ascoltare rumori lontani; abbassò lo sguardo al giaciglio e poi al pasto, sorrise, si mosse e quand’ebbe finito si stese sulla branda, in attesa.
 
Il tramonto tingeva di rosso il vetro della finestra quando la porta grattò di nuovo, aprendosi per lasciare passare la figura dello stesso servitore, con un vassoio fra le mani. Takrin lo attendeva stesa su di un fianco, completamente nuda ed immobile, gli occhi chiusi a metà e fissi. L’uomo trattenne il fiato prima di avvicinarsi con calma, gli occhi spalancati fissi sulla macchia rossa che dal petto della ragazza aveva lordato le lenzuola; e non volendo spostò lo sguardo, indugiando un secondo di troppo sui seni della jalil e oltre, più giù, con una smorfia d’orrore e lussuria in volto. Le si avvicinò cauto, il vassoio ancora fra le mani stretto come un’ancora di salvataggio, e Takrin attese finché l’umano non le fu a portata, chinato su d’ella a controllare se fosse o meno sangue quello, quindi la jalil allungò una delle mani chiusa a colpire la virilità del servitore, che si accasciò a terra. Veloce quanto la sua razza e la disperazione potevano permetterle, Takrin si alzò, accanendosi contro la parte già dolorante del suo avversario finché questi non fu ridotto al silenzio, piegato e dolorante; incurante di tutto, Takrin si chinò a cercare la chiavi, afferrò i vestiti ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Il corridoio era silenzioso, segno che le grida del servitore non avevano suscitato allarme; Takrin si rivestì, quindi corse  verso l’ingresso, oltre il quale il sole era meno di un pallido ricordo: evitò la porta, infilandosi in una delle grandi sale al pianterreno e, prima che qualcuno degli ignari presenti potesse reagire, si era lanciata contro la grande vetrata che dava sulla strada, atterrando con malagrazia fra i vetri e rialzandosi per correre via, zoppicante, ferita ed incerta.
Nessuno la seguì.
La Notte riprendeva possesso della Città, stendendo i suoi domini carichi di motori ed acciaio, che già riverberavano nell’ombra, in lontananza.
Qualcuno arrivava, ma erano amici.
Lantanidi, come lei.
 




1Lolth, la Regina Demone dei Ragni, è la dea matrona degli elfi Drow. È anche conosciuta come la Regina Ragno.
 
2creature della mitologia indiana, raffigurate con un elegante corpo felino, la testa di un leone, le zanne di un elefante e la coda di un serpente. Cavalcano i Makara  (creatura acquatica, a volte identificato con il coccodrillo, a volte col delfino; in astrologia è il segno del Capricorno); qui intesi come semi-umani aventi corpo felino, peli sulle mani e lungo gli avambracci, sui piedi e lungo le gambe. Possono mutare la conformazione ossea delle gambe per camminare a quattro zampe (come i felini); i capelli sono simili alla criniera del leone, le zanne sono un'escrescenza ossea che esce un poco dai polsi per rientrare nella carne ed ai lati del collo. Sono sprovvisti della coda da serpente, che viene asportata dopo la nascita per rispondere ai canoni di bellezza.
 
Piccolo spazio-me: ok, questo capitolo è stato una piccola tragedia: scritto, cancellato, riscritto, riadattato, concluso. È molto lungo per gli standard che mi ero imposta, ma non potevo fare altrimenti.
Per chi fosse -come me quando iniziai a scrivere- digiuno di termini nautici, ho preparato QUESTA che spero possa essere un modo facile per orientarvi. Non userò molte terminologie tecniche, non sono abbastanza esperta, ma questa è la base. Non inserisco i credits perchè l'immagine di base non ricordo dove l'ho trovata, ma in ogni caso l'ho modificata quasi interamente io, aggiungendo didascalie e spiegazioni. Spero siano utile, chiara e sopratutto giusta: mi sono documentata in ben tre siti diversi, ma se qualcuno dovesse riscontrare qualche errore, segnalatemelo e vedrò di sistemare :)

Inoltre, non garantisco di riuscire ad aggiornare ogni settimana, ora che gli impegni universitari sono aumentati; perciò, in linea di massima comunico che l’aggiornamento sarà ogni due settimana, ma non sono tassativa: perciò chi segue la storia di un’occhiata comunque il LUNEDÌ, perché potrei aggiornare anche a distanza di una settimana. Dipende, non posso assicurare la precisione, solo che avrete la storia di lunedì :) conto di non metterci mai più di due settimane per aggiornare, ed in ogni caso il mio obiettivo sarà di farlo ogni settimana.
Detto questo… soddisfatti? Spero di si :)
Come al solito, critiche ed appunti sono sempre accettati (neanche i complimenti dispiacciono, ovviamente!)
Buona continuazione!

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Capitolo 10
*** GIORNO ***


 
 
Aleeah era dolorosamente consapevole di ogni istante: le scovolavano lenti sulla pelle, tracciando linee di un fuoco argentato che si fondevano con le precedenti, scurendosi ed allungandosi fino a che i secondi non divenivano minuti, i minuti ore; ed ognuno di quei nomi aveva un colore, così che le tinte stesse erano indice del tempo per l’aquila –argento per i secondi, oro per i minuti, rosso per le ore, blu per i giorni.
Giorni, appunto.
Il corpo di Aleeah restò immobile e svenuto per due giorni, cinque ore e trentaquattro minuti nei quali la sua mente, vigile, registrò le lame di colore che la trafiggevano senza potervi opporre resistenza, senza potersi evitare il dolore; registrava tutto, la sua coscienza, dal rumore degli allievi in corridoio a quello dei Medici che le controllavano pressione e respiro fino alle voci che, in un bisbiglio fin troppo chiaro, si chiedevano se si sarebbero mai svegliati.
Gli Assistenti Medici parlavano al plurale, eppure Aleeah non vedeva nessuno: era immersa in una sfocata, grigia versione della realtà in cui ogni tanto una figura emergeva, spiccando sulle altre con nitidezza, ma di rado; il confine del suo sguardo era labile, gli occhi attirati dalle forme vorticanti e luminose delle ore che l’aggredivano.
Provò a pensare ai suoi amici, a Dea e a Dave, ed il suo cuore diede un battito più forte che riverberò nell’aria come una pulsazione solida dell’aria, di cui Aleeah era la sola beneficiaria; eccitata, provò di nuovo, ma si scoprì a non ricordare come fossero i loro volti, le loro voci… sapeva solamente i loro nomi e vi si aggrappò, cercando di non perdersi –c’erano ricordi latenti che le riempivano la testa, sensazioni di qualcosa che non aveva mai avuto corpo.
Passò un giorno, poi un altro; qualcuno urlò da una distanza infinita e vicina, poi arrivò l’alba, e c’era una concentrazione di pulviscolo vivo nell’aria, senziente quasi come lo era Aleeah, pregno di realtà evanescente; e lei riusciva a percepirlo, a capire di poter scegliere. In un mondo più luminoso, un Assistente le aveva forzato le labbra, facendo scivolare in gola qualcosa di un lilla cupo mentre un Medico dall’aria severa ponderava la validità del rimedio che gli era stato fatto portare; nel mondo ovattato in cui la coscienza di Aleeah galleggiava, il flusso degli Spiriti vorticava invitante, sussurrando in una lingua muta ed indicando i colori, indicando lei distesa e loro liberi, infiniti.
Aleeah doveva scegliere.
 
Quando Aleeah aprì gli occhi, irragionevolmente pensò che la luce era meno fioca prima ed un’immagine di se le si formò nella mente con una rapidità tale da non poter che essere registrata ai margini e subito dimenticata.
C’era una tenda candida tirata a nasconderla dagli occhi indiscreti e due Medici intorno a lei,  che si affannavano a misurarle parametri ed agitarle dita e mani davanti.
«Quante sono? Contale, per favore»
«Segui il dito… bene»
«Polso stabile, riflessi motori… nella norma. Muovi le dita del piede, per favore…»
C’era una strana deferenza nella voce di Medici ed un luccichio strano nei loro occhi, spaventosamente simile all’espressione di un bambino che osservi una scintilla di elettricità nell’aria: paura ed ammirazione.
«Riesci a sentirci, giusto? A parlare? Avanti, prova»
«Dove… come stanno Dave e Dea? Sono qui?» disse l’aquila, la voce più sicura di quanto avrebbe creduto, lo sguardo che passava dall’uno all’altro Medico, due mezzelfi a giudicare dai tratti.
«Dea…» cominciò il primo medico, quello coi capelli corvini ed i riflessi blu chiaro, consultando la tavoletta sulla quale aveva preso freneticamente appunti poco prima «si. L’alseide, giusto? È sveglia da qualche ora, Sevia ha fatto colazione con lei» ma si interruppe di colpo, sollevando un sopracciglio verso il collega dalla corta barba biondo cenere «è stata avvertita?»
«Ho mandato su Shole non appena ha aperto gli occhi» rispose l’altro in un bisbiglio, prima di lanciare al collega un’occhiata eloquente che quello parve comprendere, giacché tacque e si girò nuovamente verso Aleeah.
«Bene. Per quanto riguarda gli altri… si. Il mezzumano è ancora svenuto, così come… si, come il mezzodrow, la lamia e l’uomo. Ma siamo quietamente ottimisti: il vostro momento peggiore è stato l’alba. I vostri parametri si stabilizzano via via che il giorno procede e… si, credo che entro poche ore riusciremo a risvegliare il mezzodrow. Forse anche la lamia» concluse il Medico, prima di lanciarle un sorriso tanto gentile quanto ottimista. Aleeah tacque, assorbendo quelle informazioni una alla volta, filtrandole attraverso il fastidio che il difetto di pronuncia del medico le incuteva.
«Ma Dave non è in salute, giusto? Perché non riuscite a…» cominciò Aleeah, tentando di puntellarsi sui gomiti: era inquietante restare distesi mentre due figure sconosciute ti osservavano dall’alto in basso, come una cavia.
«Resta distesa, per favore» le intimò il biondo, premendole sulla spalla con la tavoletta degli appunti. L’altro le sorrise di nuovo, agitato e bonario, quindi riprese a parlare.
«Si. Vedi, dobbiamo aspettare che… si, insomma, la cura non può essere somministrata in qualunque momento. Ma sta tranquilla, nessuno di loro è in pericolo» c’era un sottinteso palese, che Aleeah avvertì forte come se qualcuno gliel’avesse sussurrato dritto nell’orecchio: fino a domattina.
«Voglio vedere Dave. E Dea, poi. Fatemi…» non concluse la frase, che i dottori le si erano messi intorno, scuotendo la testa ed afferrandola delicati ma decisi sotto le braccia; arrossendo di vergogna ed imbarazzo, Aleeah lasciò che l’aiutassero a sollevarsi quel tanto che bastava affinché la schiena poggiasse sulla testatadel letto, sostenendola per qualche istante mentre si assestava: era debole, e fu grata ai Medici dell’aiuto, giacché da sola non sarebbe mai riuscita a sollevarsi «Vi ringrazio» borbottò debolmente l’aquila.
«Si, tranquilla, ragazza, tranquilla. Ora, i tuoi amici privi di sensi non possono ricevere visite, né sei in grado di muoverti per arrivare a loro, mentre la tua amica sveglia è stata portata da Sevia. La rivedrai da lei, immagino»
«Sevia?» la bocca di Aleeah si piegò in un’angolatura dubbiosa con le labbra un poco in fuori ed una piccola, irregolare “o” disegnata, mentre da sotto le sopraciglia aggrottate gli occhi castani si spostavano dall’uno all’altro Medico «No. Dionio è il nostro Direttore. Non Sevia. Perché Dea è.. perché dobbiamo vedere lei?»
«C’è…» cominciò l’altro Medico, quello biondo e silenzioso, ma qualcuno scostò le tende con un gesto nervoso –un ragazzo umano pieno di brufoli, dai capelli color sabbia e l’aria riservata-  e, tenendo gli occhi bassi, si avvicinò al primo Medico e gli sussurrò qualcosa di chiaramente udibile all’orecchio.
«La vuole vedere, ma non ora. Manderà i suoi. Dice di rimetterla in piedi»
«In piedi!» ruggì il secondo Medico «Cosa vuole, ucciderli uno dopo l’altro? In piedi, dice!»
«Io..»
«Tu non c’entri, Shole: è una volontà contro cui non possiamo confrontarci, perderemmo. Vai a monitorare gli altri pazienti. Avital, tiriamola in piedi» sbottò seccamente il biondo, rivolgendosi al collega, che annuì.
Combattendo contro debolezza e vertigine, instabile su gambe che le dolevano come dopo un intenso sforzo fisico, Aleeah si alzò lentamente in piedi, aggrappandosi ai polsi ed alle braccia esili dei due Medici che la guardavano con apprensione; quando si fu stabilizzata cominciò a camminare, un passo alla volta sempre più sicuro del precedente. Ad un certo punto l’Assistente venne a trascinare via il Medico Avital, lasciandola con un sorriso nelle mani del suo muto collega, che le fece fare il giro dell’ampia infermeria, attento a non farla mai deviare verso le tende chiuse dietro una delle quali, Aleeah immaginava, riposava Dave.
Erano ancora nel bel mezzo della loro passeggiata riabilitativa quando l’uomo fece la sua comparsa; un mezzo gigante, a giudicare dall’altezza e dallo sguardo vacuo, o forse un troll molto umano, vestito da servitore: qualunque cosa fosse, lanciò un’occhiata eloquente al Medico prima di spostarsi a lato di Aleeah e, afferratala saldamente, cominciare a trascinarla fuori senza una parola, lungo il corridoio ed in un altro, giù per una rampa di scale che scendere fu un inferno per Aleeah, ancora debole ed instabile, i muscoli che davano in guizzi improvvisi se sollecitati troppo.
Scese le scale svoltarono in un corridoio e l’aquila si rese conto di dove si trovassero: l’ala dei Direttori, dove si riuniva il consiglio dal quale sarebbe uscito il prossimo Grande; una paura irragionevole le riempì il cuore e la mente, facendole scendere un masso pesante dalla gola allo stomaco: volevano forse giudicarla ed espellerla? Cosa avrebbe fatto?
Si voltò verso il suo accompagnatore, ma quella faccia insensibile e volitiva  la dissuase dal porgli domande, facendola voltare ancora verso il corridoio: c’erano tre figure laggiù, due servitori simili al suo che trasportavano qualcosa che, man mano, si rivelò essere una ragazza dalla pelle nera come il giaietto, lunghi capelli di un bianco sporco e sfatto, pieni di nodi ed arruffati, occhi dalle iridi rosso spento e lunghe, tremende ustioni sulla pelle del volto e delle braccia. Una drow, che si dimenava senza forza nella stretta insensibile delle sue guardie, un’aria di delusione e di smarrimento che perse, assumendo quasi inconsapevolmente quella di sfida quando i suoi occhi si incrociarono con quelli di Aleeah, che la fissò a lungo, sconcertata, rendendosi infine conto del marchio rosso che le spuntava fra la pelle scottata del petto.
Poi il  momento passò e la porta aperta le rivelò un conciliabolo dei tre Direttori, attorniati da figure che non conosceva e che la fissarono a lungo, con curiosità; nessuno parlò finché la porta non fu chiusa, poi Sevia, intenta a strofinarsi il volto con un fazzoletto, le servì un ampio sorriso e fece cenno al servitore di farla accomodare, congedandolo poi con un gesto prima di esordire.
«Dunque, un’altra. Devi avere una tempra molto forte per esserti svegliata così presto: l’incanto del quale sei rimasta vittima era estremamente potente, tanto che temevamo per le vostre vite, la tua e quella dei tuoi compagni tutti. Che sconsideratezza, che imperdonabile leggerezza quella degli Evocatori! Un incanto di quella potenza eseguito così… verranno puniti, senza dubbio. Ma siete vivi e ciò importa, sebbene si dovrà valutare quali conseguenze abbiano lasciato su di voi gli Elementali. Qualcosa sappiamo, tuttavia.
«Vedi, mia cara… Aleeah, se non erro… bene, vedi mia cara Aleeah, l’Evocazione alla quale sei stata sottoposta prevedeva un rito Nero di corruzione, atto a mutare la natura stessa della natura. Ora, non sapremo veramente cosa sia successo fino a quando qualcuno degli artefici non sarà sveglio, ma abbiamo immaginato e monitorato e… oh mia cara, lo sconvolgimento era così grande, e potente! E gli Elementali sono vendicativi.
«Abbiamo creduto che vi volessero morti, ma riteniamo che abbiano operato su di voi lo stesso cambiamento che si voleva loro imporre: la modifica della loro stessa natura. Dunque, mia cara, ognuno di noi ha dentro di se il.. diciamo, il germe della sua inclinazione: è quello che determina il carattere e dunque la fazione magica sotto i cui vessilli si sarà ospitati: nel tuo caso, il germe era quello della Positività, e tu avevi le caratteristiche che contraddistinguono i membri di questa classe» Sevia era un tipo magnetico: nessuno osava interromperla, affascinati dalla sua arguzia, dai modi mascolini eppure aggraziati a loro modo e da quella sottile vena di potenza, di comando; era carismatica e lo sapeva, in gradi di sfruttare al meglio questa sua capacità. Durante l’intero discorso, Dionio si era tenuto in disparte, limitandosi a lanciare occhiate di rimpianto verso Aleeah ad intervalli sempre meno frequenti mentre la Cecaelia, vorticante nell’acqua che le consentiva di vivere in terra, era pallida e seccata sebbene i colpevoli non fossero mai stati additati come suoi allievi. Aleeah stessa era ammaliata, rapita da quelle parole tanto che impiegò qualche secondo a registrare l’anomalia.
«Avevo? Cosa significa?» domandò la ragazza e Sevia le sorrise in maniera così dolce e tranquillizzante che Aleeah si sentì per un secondo meno smarrita.
«Significa che avevamo previsto che gli Spiriti potessero volervi rendere simili a loro, spettri neutri che vagano al limitare fra tenebra e luce. Non sei morta, ma ti hanno cambiato: quelli fra voi che sopravvivranno saranno mutati fin dentro il loro animo, nel profondo. Vedi, quel germe di intenzione è quanto di più vero e intimo ci sia: l’incantesimo e la rabbia degli Elementali, unita alla loro forza enorme e sconosciuta, ha permesso che ciò fosse corrotto. Che tu fossi corrotta, divenendo simile a loro. Capisci quel che voglio dire?» il tono di Sevia era materno, il tono basso che le ricordava i modi di suo padre quando, da piccola, la rincuorava; ed Aleeah provò una fitta, profonda nostalgia del suo nido, della sua famiglia.
«No…» disse l’aquila, non del tutto sincera.
«Sei una Grigia adesso; tu, la tua amica, e tutti gli altri che sopravvivranno al coma» fece Dionio, pratico come sempre, la coda che frustava impaziente l’aria, il volto contratto.
«Ma io non…»
«Cara, quietati, non tutto ciò che è nuovo è dannoso. Ed anzi, questa mi pare la soluzione migliore…» riprese Sevia, la bocca che si allargava man mano in un sorriso sempre più confortante e soddisfatto «Vedi, ho recentemente perso il mio Successore, un’Arcimaga di raro talento e fini capacità -eppure, la mia scelta ricadde su di lei per necessità. Ora, questo: un dono dal cielo, mia cara. Sei una Veggente, mi dicono.. molto vicina a divenire Vate, eppure portata sia per la Magia che per l’Illusionismo» Aleeah annuì, lanciando un’occhiata veloce a Dionio, che si limitò a tacere, fissandola intensamente «Anche io fui, e sono, Illusionista, e conosco il mio lavoro: necessita di questa natura, della capacità di indurre i colpevoli a testimoniare. Eppure, non sempre basta; ed ora, appari tu: immagina una Veggente, in grado di leggere i libri del Passato e del Presente, in grado di sondare fra le ombre del futuro. Immaginala in grado di piegare le coscienze ed avrai una fra i più potenti Grandi della storia: una creatura dalla vita media, che viene dal bene alla assoluta correttezza. Oh, che giorni d’oro sarebbero quelli in cui la Giustizia è retta da una simile figura. Comprendi la mia richiesta, Aleeah? Il mio desiderio?» fece Sevia, gli occhi accesi da una scintilla che l’aquila valutò chiaramente essere gioia e desiderio.
«Volete… volete istruirmi come vostro Successore?» sussurrò Aleeah, arrossendo ed usando un tono formale, improvvisamente conscia dell’opportunità che le veniva offerta.
«Voglio che tu mi succeda, si, e che sia mia allieva al contempo, che completi la tua istruzione come Veggente e che impari ad essere Illusionista. Vuoi farlo, Aleeah?» Sevia la guardava; tutti la fissavano ma non c’era nulla nei loro sguardi, solo attesa. Solo aspettativa.
«Si» disse Aleeah semplicemente, frastornata e felice, il cuore a mille e la testa leggera.
Voleva scrivere a casa, a suo padre ed a sua madre ed a tutto il suo stormo: quanto le sarebbe piaciuto andarli a trovare!
«Bene. Benvenuta all’Accademia Grigia, Successore Aleeah» Sussurrò Sevia, in preda ad una gioia genuina. Uno di due.
 
 


Piccolo Spazio-me: è breve e non c’è molta azione in questo chap, in effetti… eppure, oserei dire che ci siamo: nel prossimo vedremo l’ultimo dei personaggi secondari di rilevanza che deve essere presentato, e poi finalmente si arriverà al centro della storia, e cominceremo a capire il vero motivo che ha scatenato la riunione del prologo, ed a riconoscere le figure che vi partecipavano.
Chiedo scusa per il ritardo –ultimamente capita molto spesso, lo so- ma il Lucca Comics mi ha trascinata totalmente via, ed alla sera ero troppo stanca anche solo per pensare :)
Spero che questo chap vi sia piaciuto! ;) a presto!
 

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Capitolo 11
*** NOTTE ***



Una volta, quando Takrin era ancora solo una bambina, sua madre le aveva detto che una jalil di rango si distingue dal contegno: serena quando uccide, ferma nel dare gli ordini, insondabile nelle sconfitte, inflessibile nella tortura, impietosa alle suppliche e salda nella fede. “L’unico attimo di follia è nell’amplesso” le aveva impartito con severità prima di farla sedere alla sua sinistra, il posto d’onore; era un tempo diverso e una Takrin diversa, ambiziosa ma ancora sottomessa: aveva trent’anni ed era l’erede della casata, troppo piccola per progettare la sua ascesa, abbastanza grande perché sua madre la portasse alle fosse a vedere i maschi della sua razza combattere fino alla morte, armati solo della propria forza. Solo questo divertimento era rimasto alle Matrone: non c’erano cacce notturne dal Tempo dello Scisma -troppo pericoloso perfino per i drow, ormai ridotti drasticamente ad un terzo degli esemplari di un tempo, eppure dediti ai riti di sangue e guerra cui non avrebbero potuto rinunciare.
Fu nella piccola cattedrale nei quartieri a nord-ovest di Feryxonis – la sua città natale- che Takrin assaggiò la morte per la prima volta: senza esitazione, piantò il coltello nel petto del fratello infante, ultimo di una serie di figli maschi, segno della poca considerazione di cui la sua famiglia godeva agli occhi di Lolth. Takrin compì il sacrificio di sangue come Primogenita ed Erede, senza provare colpa o vergogna, anzi pervasa da una sorta di mistico, cauto ottimismo: non era mai stata una fervente devota e, sospettava, l’ira della Dea era in parte causa sua; ma Takrin amava esercitarsi nelle arti arcane piuttosto che nella preghiera e trovava che non ci fosse nulla di sbagliato nel preferirle a Lolth: in fondo, la sua maestria avrebbe servito la Dea quando Takrin fosse divenuta Matrona a sua volta.
Il sacrifico era stato il suo primo ed ultimo incontro con la morte, anche se non l’ultimo col sangue: nonostante le armi fossero state vietate per gli alleati del Giorno ogni jalil aveva a fianco una frusta, l’arma che le femmine più amavano, e Takrin fu iniziata all’arte del combattimento meno di una settimana dopo il rito; sebbene fosse portata, amava quest’arte come amava le preghiere: era disciplinata ma feroce, facile all’ira e fin troppo supponente, la lingua che saettava a minacciare o deridere ancora prima che il cervello avesse potuto pensare di fermarla; e tale era rimasta, nonostante l’autocontrollo dimostrato in presenza di chi le era superiore, i maestri o sua madre o i Direttori.
Eppure c’era poca grazia od autocontrollo nella sua fuga, ed una incongruente gioia sul suo volto al sentire il rombo lontano dei motori mitigata dalla certezza, impressa sulla sua pelle ferita, che, nemici che fossero per la sua fazione, sarebbe comunque stata fra suoi simili. Erano occorsi l’intervento del sole e il duro disprezzo dei suoi vecchi alleati per farglielo capire, ma ora Takrin era certa e convinta del suo essere, definitivamente, Lantanide -ed adesso era disposta perfino ad accogliere con condiscendenza quel maledetto nano che le aveva fatto perdere i sensi in quella fatidica notte.
Tamponandosi una ferita all’avambraccio sinistro, nella quale una perfida scheggia di vetro ancora le scavava la carne, Takrin corse attraverso la piazza deserta del mercato per poi fermarsi, ansante: si voltò, scuotendo la testa e socchiudendo gli occhi al dolore e, mentre le dita estraevano la scheggia coperta di rosso, il figlio della Notte sbucò da un vicolo alla sua sinistra, sterzando per evitarla e fermandosi di botto ad un paio di metri dalla jalil, che sollevò lo sguardo ad inquadrare il nuovo venuto.
L’impressione che Takrin ebbe, osservando il Lantanide che imprecava, chinandosi a controllare il motore con un ringhio basso, fu di possenza: indossava solamente delle lunghe brache di pelle morbida, color nocciola, chiuse sul davanti da una cintura di cuoio color avana: l’abbigliamento di un lupo, caratteristico tanto quanto i capelli rosso ramato o la folta striscia di pelo dello stesso colore che scendeva dall’ombelico fino ai pantaloni o dagli avambracci fino ai polsi. 
Takrin lanciò uno sguardo veloce alla mezza falce di luna quindi riabbassò gli occhi, rassicurata, e restò a guardare il lupo con un misto di curiosità ed irritazione: decisamente non era abituata ad essere ignorata. Dal canto suo, l’altro non accennò a voltarsi prima di aver rimesso in piedi quel mostro meccanico che cavalcava, sibilando insulti ad ogni danno che trovava.
«Fa che ne valga la pena, jalil» sibilò infine, appoggiandosi al sellino della moto ed incrociando le braccia nude al petto. Sul pettorale sinistro aveva un marchio di fuoco, due linee parallele orizzontali, la seconda più lunga della prima. Takrin non rispose, restando a guardare quel simbolo, cercando di ricordare se anche il Nano l’avesse indosso. «C’è qualcosa che ti interessa?» chiese infine il maschio, aprendo la bocca ad un sorriso pieno di lascivia.
«Potrebbe, in effetti» rispose la jalil, sollevando gli occhi a quelli del lupo, decisamente più in alto dei suoi; avvicinandosi, Takrin sapeva che gli sarebbe arrivata al gomito «anche se temo di non essere abbastanza in salute. Magari la prossima volta, mmh?»
«Certo. Sai cosa si dice delle promesse di un drow, vero?» sbuffò l’altro, sollevando un poco il mento.
«Se di morte o di lussuria, solitamente sono veri e propri patti»
«Non esattamente, jalil. Ma fa nulla, dubito che avrai a mantenerla» disse il lupo, sollevando le spalle e facendo un gesto distratto, d’addio.
«Potrei, se tu volessi fare in cambio qualcosa per me» Takrin colse la possibilità al volo, senza pensare troppo, com’era solita fare. Il lupo sollevò un sopracciglio, corrugando la fronte, e la femmina attese qualche istante, il tempo di capire che non avrebbe ricevuto altra risposta, indi riprese «scortarmi a casa, ad esempio»
«Neutra, vero?» disse il maschio, abbassando lo sguardo sulla scollatura della maglia, dove il marchio era ben visibile «Al Porto, dunque? E quale sarebbe il prezzo di questo favore?»
«Qualunque favore tu voglia in cambio, ovviamente» Takrin si costrinse a sorridere in quel modo ammaliante e carico di sottintesi che un tempo la divertiva infinitamente usare.
«Ma non ora. Io sono a caccia, jalil, il mio Capo mi ha dato un ordine. Sai cosa vuol dire, vero?»
«Capisco. Potrai cacciare dopo, no?»
«Dimmi il tuo nome, piccola jalil» il cambio repentino d’argomento la spiazzò al punto da farle sfuggire il sorrisetto ammaliatore per un istante; svista che la ragazza mascherò con velocità, assumendo un contegno carico di superiorità.
«Takrin» disse, dopo una piccola esitazione «Takrin Cryso»
«Non ti ho chiesta la tua vita, solo il tuo nome» riprese il maschio, beffardo, quindi «In ogni caso, ora so chi sei, come so che state per salpare l’ancora. Domani sera, con la marea, senza dubbio. Quindi, immagino che il mio premio potrò riscuoterlo solo fra quanti? Due mesi? Tre? Non lo sai. Sei nuova piccola jalil, una ragazzina appena catturata che ha cercato di riprendersi la sua vecchia vita» concluse, risollevandosi.
«Lo deduci dai vetri? O dalle ferite?» disse lei con scherno.
«Siete tutti così, voi nascituri del Giorno. Scappate per poi rendervi conto del vostro errore. A volte riuscite a tornare alla Notte, a volte finite appesi alle porte della città come monito. Tu sei stata fortunata: inoltre, la tregua che vige su ognuno degli Ordini impedisce a chiunque di ucciderti, ma potrei catturarti e fare uno scambio. Ne varrebbe la pena? Rispondi con sincerità, piccola jalil»
«Temo di no. Probabilmente saranno loro ad impiccarmi al.. ad uno di quegli alberi dai nomi impossibili, non appena mi rifarò viva» rispose Takrin con la calma di chi parti di cose futili, di poca importanza; poi scosse le spalle, inclinando la testa come a dire che si, sarebbe tornata comunque, perché dove poteva andare in fin dei conti?
«Non credo. La maggior parte delle volte venite lasciati liberi di scappare e rendervi conto della realtà. Ti faranno una lavata di capo e ti daranno una pacca sua schiena, stando ben attenti a prenderti le zone ferite, quindi ti rimetteranno al lavoro. Hanno la tua lealtà adesso, no?»
«Parli di lealtà ad una jalil?» domandò Takrin sforzandosi di suonare canzonatoria, mentre invece ribolliva di rabbia. Era stata ingannata, mandata a morire quasi di certo!
«Hai ragione, errore mio. Diciamo allora la tua alleanza?» lei stirò le labbra in sorriso, in risposta, e questo parve essere un chiaro segno per l’altro, giacché riprese «Avresti capito, altrimenti? Se non avessi sbattuto contro la realtà, avresti accettato la tua nuova vita?»
«Vuoi davvero sentirti dire che hai ragione?»
«Non mi dispiacerebbe vedere una jalil che abbassa da cresta. Ma potrei domarti. Sono sicuro che sotto le mie mani diverresti molto più accondiscendente» il tono del lupo era pieno di malizia «e ti piacerebbe. Chissà, potrei provare» le labbra troppo scure dell'altro si piegarono ad un sorriso tra la condiscendenza e la lussuria, mentre gli occhi brillavano di qualcosa simile alla ferocia «Facciamo un patto, dunque. Ogni marinaio ha una paga, immagino… una parte del bottino, una decima o qualcosa di simile. Ne voglio metà, per i danni alla moto ed il carburante, e li voglio al tuo rientro assieme a te, possibilmente priva di ferite»
«Ti fidi a stringere un patto con una jalil?» disse Takrin, accentuando lo scherno con un'espressione falsamente dubbiosa. 
«Potrei costringerti a firmarlo davanti a qualche tuo pezzo grosso, ma sarebbe superfluo. Se io ti accusassi, la tua parte e la mia si troverebbero in lotta e, credimi, nessuno vuole rompere l’equilibrio, men che meno per una figlia del Giorno, per cui il tuo Capo ti darebbe a me senza problemi: non sembri valere granchè, ragazza. Ed in ogni caso so chi sei e dove trovarti; non avrei difficoltà a prendermi quello che voglio: sono molto più letale di te, piccola jalil» lui allungò la mano e Takrin la strinse: era calda, come se il maschio avesse la febbre, ed un piccolo brivido di disgusto passò sulla pelle d’ossidiana di lei, che si ritrasse dopo pochi secondi, allacciando le braccia poco sotto il seno con gesti ora più lenti.
«D’accordo. Ora riportami a casa» era tornato il tono di comando, secco e pressante come se Takrin fosse stata ancora l’Erede, a Feryxonis, o l’Arcimaga.
«Abbassa la cresta, piccola jalil» 
«Lavori per me, no? Abbiamo un patto, fa la tua parte ed in fretta. La caccia ti aspetta, o sbaglio?» sussurrò la jalil con un sorriso tanto pieno quanto falso, tutto a beneficio del maschio, che contrasse la mascella in un gesto di stizza ma non disse nulla, limitandosi a grugnire e ad indirizzarle un cenno veloce con una mano prima di salire sulla moto, che si abbassò un poco sotto il suo peso. Takrin mosse qualche passo esitante, rimanendo un poco a studiare il veicolo –un ammasso di rame, leghe di ferro nere ed argento- con aria perplessa, ignorando l’occhiata eloquente dell’altro ed il suo tamburellare un dito sul manubrio con evidente impazienza; poi, con tutta la calma che la sua naturale avversione alle macchine le imponeva, si arrampicò sulla sella, badando bene di evitare il contatto con il lupo.
«Dovrai avvicinarti, e stringermi, se non vuoi cadere –e credimi, se succederà non mi fermerò a riprenderti»
«Puzzi di cane bagnato e fango» rispose, calma, come se questa fosse la spiegazione più naturale del mondo per la sua reticenza. Lui tossì una risata simile ad un ululato, spingendosi un poco più indietro sul sedile.
«Ed il tuo sangue è velenoso. Ognuno ha i suoi difetti, piccola jalil. Sta solo attenta a non far cadere neanche una goccia dalle tue ferite sulla mia moto. È mortalmente difficile farsene fare una dai nani» rispose, allungando un’occhiata oltre le spalle verso Takrin, che suo malgrado si trovò costretta ad avvicinarsi.
«E la lasciano in mano tua?» chiese senza divertimento mentre aderiva alla schiena di lui con tutto il corpo, dal bacino al seno, curandosi di toccargli la pelle con la maggior parte delle ferite e sorridendo, dentro di se, nel vedere la pelle di lui arrossata laddove il sangue urticante era venuto a contatto. Soddisfatta, Takrin passò le braccia lungo i fianchi del lupo, andando a stingersi con forza, le ferite più grandi che gocciolavano pigre facendole ignorare la repulsione che quel corpo innaturalmente caldo le trasmetteva con il pensiero del fastidio che lui stava provando. Se devo scendere a patti con esseri del genere, si disse, tanto vale divertirsi un po’.
«Sarà un piacere riscuotere il mio pagamento, jalil, e domarti» commentò il maschio mentre, con movimenti fin troppo decisi, accendeva il mostro meccanico, che rombò feroce sotto le gambe di Takrin, accelerando troppo in fretta e riempiendole le orecchie dell’assordante rombo fastidioso e ronzante; suo malgrado si trovò a stringersi contro il lupo con un misto di terrore ed ansia, pregando Lolth che quel viaggio finisse presto: il pavimento era troppo vicino, i muri sembravano volerla sfiorare, a volte crollarle addosso e l’aria la sferzava, fredda e violenta.
Davanti a lei, oltre il fastidio che la pelle arrossata gli arrecava, il lupo rideva.

Era stata una lunga notte.
Quando finalmente i piedi di Takrin avevano toccato il suolo, la jalil si era consentita un lento, profondo respiro; aveva inspirato salmastro e odore d’alghe e pesce placando la nausea e tentando di sciogliere la morsa dì’ansia che le aveva avvinte le viscere. C’erano andati vicini, mortalmente vicini, e lei lo sapeva, ne era certa: quell’albero li aveva evitati solo in grazia di Lolth, e meno male, giacché non era un giunco quello contro cui il maledetto lupo voleva farla schiantare; e che fastidio la sua risata quando lei gli aveva urlato contro!
A terra, l’aveva ringraziato con una bestemmia ai suoi dei ed un grazie appena soffiato quando l’altro le si era fatto vicino, troneggiando su di lei, fin troppo più alto e grosso. La piccola jalil aveva dovuto ingoiare astio e risposte, limitandosi a lanciare un richiamo all’uomo di guardia sul ponte di coperta, un kappa che aveva sghignazzato e s’era dileguato, dicendo loro di aspettare e lasciando Takrin a chiedersi se anche i suoi nuovi alleati l’avrebbero fatta arrostire un po’ al sole, così tanto per vedere se una jalil poteva davvero morirne. Forse, a forza di prender sole la mia pelle si abituerà, aveva pensato con sarcasmo, stringendo le labbra in un sorriso pieno di rabbia.
L’alba era prossima all’orizzonte quando Siryo apparve sul ponte, avvolto in un mantello blù notte ed accerchiato da quattro marinai vestiti alla stessa maniera: nessuno diede ordini, ma in silenzio lavorarono per calare l’asse. Quando il tonfo di legno su legno si spense, non fu l’erede del Capitano ma Lokks a parlare, assumendo un cipiglio da ufficiale che ben gli si addiceva. Ordinò senza mezze parole a Takrin di presentarsi dal Capitano, quindi si voltò ad incrociare uno sguardo carico di significato col Lupo, che annuì e batté due volte l’indice poco sotto l’occhio, quindi sorrise –non a Lokks, ma al gruppo intero, che non diede segno alcuno di aver compreso.
Poi Takrin fu sul ponte, e la passerella venne ritirata mentre Lokks ordinava al signor Spees di portare il mozzo da Capitano. Siryo si fece avanti, i passi per metà inghiottiti dal rombo del motore che si allontanava prima e dall’eco della risacca poi; gabbiani lanciavano grida in cielo, salutando la nuova alba, e il ponte cominciava a tingersi di scarlatto, quando il ragazzo umano chiuse la porta della cabina alle sue spalle.
Rigel sedeva al tavolo da scrittura, una piuma in mano ed un volumetto rilegato in cuoio sbiadito aperto e già pieno di scritte per metà, che chiuse di scatto quando la jalil entrò.
Takrin sostenne lo sguardo del Capitano per quello che le parve un tempo infinitamente lungo prima che questi parlasse, un’inflessione indefinibile nella voce roca, stanca.
«Abbiamo la vostra alleanza?» domandò senza tanti giri di parole, lasciando Takrin sconcertata per un breve istante: irragionevolmente s’era aspettata delle grida, come quelle di sua madre: echeggianti per una lunga sala di pietra, attraverso il buio ed il tempo stesso.
«Si» rispose semplicemente lei, chinando il capo ed annuendo una volta, come per rafforzare le parole.
«Bene. Me ne compiaccio. Ora, capirete di certo che una violazione del nostro coprifuoco vale da se una punizione, perciò non dubito che vi farà piacere essere scortata sottocoperta, dove vi saranno inferte dodici frustate come futuro monito…»
«Quindi non basta che sia stata punita dal Giorno?» disse Takrin, piena di sconcerto e rimprovero, gli occhi ridotti a due fessure scarlatte.
«Signore. O Capitano. O entrambi, se volete, prego» la interruppe Rigel, con una calma invidiabile.
«Non vi basta, signore?» riprese lei, sibilando le parole attraverso le labbra contratte.
«No. Loro hanno agito secondo la loro legge, io agisco secondo la nostra. Siamo due fazioni diverse, ed avrete due punizioni diverse. Eravate stata avvertita, idiota d’una jalil» non aveva urlato, né si era scomposto, ma Takrin ebbe l’impulso di arretrare; solo anni di autocontrollo ferreo le fecero mantenere la calma, consentendole di avere appena un tremito della fronte come reazione.
«Voi mi avete lasciata andare, signore. Era vostra quanto mia, la colpa, e ritengo…?»
«Nostra? Vi rendete conto di quello che dite, ragazzina? E ritenete… non dovreste avere neppure diritto di parola, qui»
«…chiedo che riconsideriate il vostro giudizio. Prendete questo come la mia punizione, ed accontentatevi» disse Takrin, piegando la testa di lato ed allungando il braccio sinistro così da offrire al Capitano una visione di tagli ed ustioni.
«Chiedi? Pensi che scendere a più miti termini possa giustificare la tua assoluta mancanza di rispetto? Venti frustate, jalil, così che vi rimanga addosso anche questa, di lezione. Non sono vostro padre, o un maschio della vostra génia: sono il vostro Capitano, e la mia parola e legge; mentre voi siete l’ultima, la sguattera. Non dimenticatelo, Takrin: siete meno dell’ultimo topo che striscia nelle sentine di questa nave. Lo capite? Non temete, se non vi è chiaro lo sarà a breve. Avevo deciso di essere clemente con voi, quando di norma avrei usato dare trenta frustate per una violazione, ma voi m i calcate la mano, Takrin, voi lo volete, per gli Dei!» concluse Rigel con un respiro profondo che gli dilatò le narici, piegando il busto in avanti, ocme per farsi più vicino alla femmina.
«Io non…»
«Taci! Chiudi quella bocca ed ingoia le parole, o ti giuro che per ogni sillaba che uscirà dalla tua bocca ti ordinerò una frustata aggiuntiva. Siryo, scortala di sotto, chiama Ferth e torna a riferire. Edhel» e qui sbatté un piede con forza sul pavimento, producendo un tonfo sordo e cupo, unico segno di rabbia che avesse mostrato finora «smetti di divertirti e scendi. Devo parlarti»

Serrò le labbra, ascoltando il sibilo familiare della frusta sussurrarle all’orecchio e marchiarle la carne della schiena in maniera impietosa. Poi si trascinò, sanguinante e piena di rabbia, nella cabina femminile, sbattendosi la botola alle spalle e buttandosi fra le coperte pesantemente.
Dormì solo mezza giornata, il tempo necessario affinché la maggior parte delle ferite si rimarginasse o smettesse di sanguinare ed il suo corpo recuperasse le forze, quindi si presentò nuovamente al Capitano, chinando la testa ed esibendo i suoi modi migliori, un foglietto di carta mezzo stropicciato in mano.
Chiese che gli fosse ridata l’ossidiana e perché, quindi parlò del Giorno, dell’Accademia Grigia e delle due sorelle, delle difese della città e della magia. Parlò dei cibi e delle usanze, dei desideri e degli i insegnamenti, descrisse i volti dei maestri, dei saggi e dei cittadini comuni. Raccontò tutto quello che sapeva, senza che le fosse richiesto ma sicura che fosse ciò di cui avevano bisogno, memore del rispetto e del dolore alla schiena. Disse ogni cosa, e chiese di sapere in cambio tutto della sua nuova vita.
Quando la campana della cena suonò, un soddisfatto Capitano l’aveva affidata alle mani di Edhel.

Poi la marea salì loro incontro, e l’ancora venne levata.




Picolo spazio-me: E con questo siamo definitivamente fuori dalla parte iniziale! È un sollievo, perché segna l’approssimarsi della parte più “viva”, quella in cui veramente succederà tutto. Forse, già dal prossimo capitolo, se tutto va come spero :)
Mi scuso se dovesse risultare un po’ “veloce”... l'ho scritto praticamente tutto in treno, fra un viaggio e l'altro, per cui ho avuto pochissimo tempo per revisionarlo. Se trovate imprecisioni, fatemelo sapere e correggerò ;)  e mi scuso anche per il ritardo, ma non potevo aggiornare la storia perché, fino ad oggi, non ero a casa… chiedo venia!
Come al solito, non mi offendo a sapere cosa ne pensate ;)
Spero vi sia piaciuto! Alla prossima!

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