Pull the trigger!

di Una Certa Ragazza
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Scacco matto ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - In assenza del re ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - sulle tracce della regina ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Nel mirino ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Roba dell'altro mondo ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Era solo suggestione ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Credere alle fate ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Zona collinare movimentata ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Riunione ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Una donna è sempre un buon piano ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - verba volant, scripta manent ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Ritorno ad Ishbal ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Scacco matto ***


Questa è la mia prima Fanfiction. Se avete critiche (anche sul font, se risulta illeggibile ditemelo), consigli o pesci in facca da darmi non esitate! Si ambienta circa tre anni dopo il Giorno della Promessa, e fa parte di un progetto di long fic che sto realizzando e che cercano di essere il più canon possibile. Alcune note: Roy e Riza sono ormai di stanza a Ishbal e sono ancora in squadra con Havoc, Breda e Fuery, che però hanno sede stabile al Quartier Generale di East City. Roy infatti è comandante in capo di quest'ultimo, come lo era Grumman, ma sta lavorando alla ricostruzione di Ishbal. Le città nominate fanno parte di Amestris secondo le mappe che ho trovato in giro.
Buona lettura, miei venticinque lettori! *la linciano perchè ha citato Manzoni*.

Questa storia è dedicata a Jessica, la mia migliore amica, e ad Elena, mia sorella.
Spero che vi piaccia, ragazze!







 “E dopo avere diviso tutto, la rabbia, i figli, lo schifo e il volo
 questa è davvero l’unica cosa che devo proprio fare da solo.
 E dopo avere diviso tutto, neanche ti avverto che vado via
 ma non mi dire pure stavolta che faccio sempre di testa mia”
                                                                                “Viola d’Inverno”, Roberto Vecchioni
 
 
Quartier Generale di Central City, ore 10:30
 
La scrivania di Roy Mustang quel giorno era insolitamente in disordine. Fogli, penne e scatole erano sparsi ovunque in montagne precarie.
«Signore» sospirò Riza Hawkeye, entrando nell’ufficio «forse non avrebbe dovuto tirare fuori tutto il contenuto dei cassetti. Staremo qui solo pochi giorni, quando pensa di trovare il tempo per riordinare?»
«Non trovo più il rapporto. Potrebbe essere un problema, visto che la riunione è questo pomeriggio.»
«Il rapporto ce l’ho io.»
«Cosa? Lo cerco da ore! Perchè te l’avrei dato?»
«Proprio nell’eventualità che accadesse una cosa del genere, cioè che lei si dimenticasse dove l’aveva messo.»
«Oh. Suppongo che sia stata una mossa intelligente.»
«Le ho portato il caffè, Signore.»
«Grazie.»
Il Generale Maggiore Roy Mustang iniziò a guardarsi attorno, mentre sorseggiava rilassato il caffè.
Roy si sentiva perfettamente a suo agio nell’est, ma ogni tanto era bello tornare nel cuore dello stato con tutta la squadra.
Di solito aveva un sacco di lavoro da sbrigare, soprattutto a Ishbal, dove passava la maggior parte del tempo, perciò le sue visite a Central erano una specie di vacanza, inoltre era piacevole passare qualche giorno in un posto dove ogni angolo non gli ricordava la guerra.
Il Comandante Supremo Grumman aveva cura di riservargli tutte le volte il suo vecchio ufficio.
Gli occhi dell’uomo vagarono sui familiari scaffali di legno scuro e sulle scrivanie, in quel momento vuote visto che il resto della truppa si era dileguata causa pausa.
Roy non avrebbe mai potuto dimenticare i giorni in cui quel posto era stato vuoto davvero.
Riza colse lo sguardo di Roy. Sapeva a cosa stava pensando.
«Forse bisognerebbe chiedere al Fuhrer un altro ufficio.» disse la giovane, iniziando ad impilare ordinatamente alcuni dei fogli sparsi «Questo non è molto grande, e non c’è un ufficio personale per lei.»
«Da quando in qua hai queste manie di grandezza?» la prese in giro Roy, che aveva capito cosa sottintendeva il discorso del Maggiore. Poi tornò serio. «No, questo ufficio è un monito per il futuro. Per non ripetere gli stessi errori.»
«Come tenere troppo ai suoi subordinati?»
«No, come farlo capire alle persone sbagliate.»
«E pensa di farcela?»
Roy rise «Ci posso provare.» afferrò il giornale della mattina, che non aveva avuto neppure il tempo di guardare.
«C’è stato un attentato.» disse, incupendosi.
«Un altro? Dove?»
«Sempre a Ovest, al distretto militare di Wellesley.» continuò a leggere «Ci sono stati quattro morti, anche un civile.»
«Stanno mettendo a ferro e fuoco tutto l’occidente.» mormorò Riza.
Gli occhi di Roy si spalancarono mentre scorreva l’articolo «A quanto pare questa volta è stato un gruppo di abitanti di Pendleton.»
Riza ebbe un sussulto «Sono notizie attendibili? Dai cretesi delle città di confine me l’aspettavo...»
«Sì, loro cercano di riannettersi a Creta da quando abbiamo conquistato i loro territori. Non posso dire di essermi stupito quando sono iniziati gli attentati.»
«In quei posti c’è da sempre un gruppo di secessionisti» ammise Riza «ma Pendleton fa parte di Amestris da moltissimo tempo, ormai.»
«Già» fece Roy, pensoso «gli abitanti sono ben integrati, anzi, credo che sia raro trovare nella generazione attuale qualcuno che non abbia sangue misto.»
«Qualche idea sulle motivazioni, Signore?»
«Nessuna... ah, aspetta, qui dice che hanno rivendicato l’indipendenza della loro terra.»
«Mi sembrano un gruppo di esaltati.» commentò Riza «Non credo affatto che i loro concittadini siano d’accordo o abbiano una parte in questo.»
Roy annuì «Uhm...guarda. L’attentato è avvenuto con la stessa modalità degli altri: una bomba piazzata all’interno di edifici pubblici, nessuna informazione sull’ordigno e le stesse richieste. Tutte le volte i terroristi si fanno vedere ma non vengono presi.»
«Quindi sono alleati tra di loro e usano lo stesso metodo di sempre.»
«Ovvero prendersi gioco di noi e cercare di screditarci.»
«Se lei fosse nel Comandante Supremo che provvedimenti prenderebbe?»
«Nulla che quella volpe di Grumman non abbia già messo in atto. Mobiliterei l’intelligence, piazzerei uomini in incognito nei pressi dei possibili obbiettivi, effettuerei controlli incrociati per intercettare i fornitori... ah, e minaccerei leggermente Creta di riprendere i conflitti per indurla a disconoscere i terroristi – è probabile che le bombe vengano proprio da lì, ma penso che il governo non centri.  Ma soprattutto cercherei l’appoggio della popolazione. Metterei in chiaro che per farsi ascoltare da noi non era necessario uccidere nessuno, e che saremmo stati disponibili al dialogo, se non avessero usato la violenza. Organizzazioni terroristiche di questo genere di solito non hanno abbastanza mezzi per potersi permettere l’ostilità dell’opinione pubblica.»
«Da questo punto di vista si sono praticamente suicidati: con tutte quelle morti, specialmente tra i civili, la gente non vede l’ora che siano catturati.» constatò Riza.
«Possibilmente da morti.» disse Roy, sfogliando il resto del giornale. «Grazie a Dio tutto ‘sto casino non sta avvenendo sotto la mia giurisdizione.»
«Non capisco cosa credono di fare. Oltre a non raggiungere il loro scopo rischiano di alimentare un’ondata di xenofobia nei confronti delle loro etnie...»
Gli occhi di Roy si spalancarono. Guardò la pagina che aveva davanti, poi guardò Riza come se fosse stata la profetessa di una nuova religione, infine tornò alla prima pagina del quotidiano.
«Devo andare al tribunale militare.» disse, balzando in piedi e agguantando la giubba della divisa, che si era tolto per il gran caldo.
«Aspetti, Generale, vengo con lei!» esclamò Riza, confusa dal comportamento del suo superiore ma ben decisa a capire che cosa avesse in mente.
«No, Maggiore, tu rimani qui. Vai a cercare questi libri alla biblioteca.» scribacchiò qualcosa su un foglio e glielo tese «Trova tutte le informazioni disponibili sugli attentati, sia quelle diffuse al pubblico sia quelle degli archivi militari.»
«Ma questi sono i suoi vecchi libri di alchimia.» osservò Riza, leggendo il bigliettino.
«Esatto.»
«Che succede, Signore?»
«Non c’è tempo, il tribunale militare chiude a mezzogiorno. Fai quello che ti ho detto e non preoccuparti, sarò di ritorno immediatamente.»
«Sissignore.» rispose Riza, facendo il saluto militare, di malavoglia ma senza lasciar trasparire troppo il suo disappunto.
Roy era già sparito oltre la porta.
 
«Grazie mille, Sheska.» disse Roy, entrando nell’archivio speciale.
«Si figuri, Signore.» rispose la giovane, facendo un breve inchino e pensando che questa volta se non altro era tutto legale, visto che il Generale aveva libero accesso a quei documenti «Ora però dovrei tornare nell’altra ala, se non ha bisogno d’altro.»
«Non c’è problema, da qui in avanti sono a posto. Grazie mille.»
Sheska eseguì il saluto militare e sparì nel corridoio.
«E ora, al lavoro.» disse Roy tra sé e sé, estraendo un fascicolo dallo schedario con la lettera K.
«Ci rincontriamo, Roy Mustang.» fece una voce dietro di lui.
Roy chiuse la cartella con tutta calma e si voltò con estrema lentezza.
Sul suo volto si dipinse un espressione d’orrore quando vide gli occhi rossi e la carnagione scura dell’intruso «Tu...»
«Che hai, Generale? Non avevi già capito chi c’era dietro tutto questo?»
«Sospettavo.» ammise Roy, riprendendosi e irrigidendo la mano destra, pronto a schioccare le dita. «Ma questo va oltre le mie aspettative.»
«No, sei tu ad essere andato oltre le mie aspettative.» rise l’altro. Era una risata malata, da folle, ma in un certo senso aveva in sé una nota elegante. Non stonava affatto con quella voce. «Ho sottovalutato l’eroe di Ishbal. Gli uomini come me tendono a non dare troppo peso ai miti, sai... una vera fortuna che il nostro piccolo fuoco d’artificio fosse previsto per oggi, e una fortuna anche maggiore che io ti abbia visto entrare qui dentro. Uno come te avrebbe anche potuto uscirne vivo.»
Roy adorava la mania dello sproloquio tipica dei pazzi criminali. Aveva qualcosa a che fare col loro ego. In ogni modo gli aveva offerto tutto il tempo necessario a calcolare la giusta concentrazione di ossigeno per non finire arrostito anche lui in quell’inferno di carta.
Sollevò la mano per colpire e nello stesso istante percepì una presenza alle sue spalle. Si girò di scatto, producendo una fiammata che il suo nemico non riuscì ad evitare del tutto.
L’uomo urlò quando il fuoco ustionò il suo braccio.
Roy non fece in tempo a fare nient’altro perché sentì un forte dolore alla testa.
Sarebbe caduto in ginocchio se la persona che l’aveva colpito non l’avesse spinto mandandolo a sbattere con violenza contro gli schedari.
 «Toglieteli i guanti e legatelo.» ordinò l’uomo di Ishbal «Tu, Bingley» disse, rivolgendosi al ferito «raggiungi gli altri e fatti curare. Sei fastidioso quando ti lamenti.»
Roy ebbe un’ultima, disperata reazione e cercò di far schioccare le dita, ma la botta era stata talmente forte che la mano non rispondeva più a dovere.
Sentì che entrambi i guanti gli venivano strappati di dosso, poi la sua vista, annebbiata e divorata da buchi neri che gli impedivano di vedere con chiarezza quello che gli stava attorno, distinse la sagoma dell’uomo dagli occhi rossi che gli si avvicinava.
«Signori» disse quello ai suoi compagni, cha a giudicare dal rumore dei passi dovevano essere due «Vi presento l’Alchimista di Fuoco.»
Roy sentì gli altri due trascinarlo e legarlo con una corda d’acciaio ad uno dei pali di sostegno di un pesante scaffale di metallo, poi l’uomo si chinò su di lui «Mi deludi, Mustang. Dopo tutto questo tempo non mi conosci ancora? Non sono un pazzo qualunque.»
Guardò l’orologio «Ops, ora devo andare. Sai, quando si fa esplodere un edificio sarebbe meglio non esserci dentro.»
I suoi silenziosi compagni lo precedettero fuori dalla porta, mentre l’uomo si girava verso Roy un’ultima volta, facendo il gesto di togliersi un immaginario cappello a mo’di saluto.
«Sei tu che mi deludi.» mormorò tra sé e sé Roy quando l’altro se ne fu andato «Sarebbe meglio informarsi sulle abilità del nemico, in vista di uno scontro.»
I suoi polsi erano legati strettamente, ma le mani erano libere nei movimenti.
Con fatica, contorcendosi un po’, riuscì a congiungere i palmi tra di loro.
Non usava spesso quella forma di alchimia, ma ormai si era abituato alla sensazione che una tempesta di elettricità gli stesse correndo nelle vene.
Tempesta che in qualche modo andava scaricata.
Roy premette con urgenza le mani sul palo e lo sentì modellarsi sotto le sue dita.
Stringendo i denti e ignorando il dolore, cominciò a muovere i polsi in modo che la corda sfregasse contro il seghetto che aveva appena creato.
Presto, più presto...
Un boato lontano. Il fragore di pareti che crollavano, un rumore che conosceva fin troppo bene.
“Scusatemi, tutti quanti.” pensò “E più di tutti tu, Riza, perdonami ancora una volta.”
 
Riza aveva mandato a prendere i libri ed era andata a cercare tutta la documentazione esistente sugli attentati.
Era appena entrata nell’ufficio per leggerli con tutta calma quando il telefono squillò.
«Maggiore Hawkeye, una chiamata per lei dal Fuhrer. È della massima priorità.» il centralinista non attese una replica e la mise direttamente in comunicazione con il Comandante Supremo.
«Signore?» rispose Riza all’apparecchio, appoggiando la pila di fascicoli sul tavolo di fronte a lei.
«Riza» disse la voce dall’altro capo del filo «adesso devo dirti una cosa e... oh, mio Dio... promettimi che sarai forte, bambina mia.» non furono tanto le parole di suo nonno quanto il tono con cui le aveva dette a far crollare il terreno sotto i piedi di Riza.
Quella voce suonava al suo orecchio come una campana a morto, mentre il suo cuore sprofondava in qualche abisso e annegava.
«Cosa...cos’è successo?» per un attimo tornò la ragazzina che aveva visto morire suo padre, aggrappata alla soglia della sua camera da letto.
«C’è stata un’esplosione al tribunale militare. Il Generale Mustang è rimasto coinvolto e...»
La cornetta del telefono cadde.
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - In assenza del re ***



*spunta da una nuvola di mefistofelico fumo nero* Salve a tutti, eccomi di nuovo!
Probailmente questo capitolo contiene alti tassi di nulla assoluto, ma è indispensabile ai fini della storia. XD
Anche questa volta inserisco delle note, che si chiameranno - pensate un po' - note.
NOTE: Come mi è stato fatto notare in una recensione (Roy: "Non fare la scrittrice vissuta, è stata l'unica recensione" Autrice:"Zitto tu, che al momento sei fuori scena!") non si capisce come mai Riza sappia che Grumman è suo nonno. In verità, in verità vi dico, nel manga non è mai stato specificato se Riza fosse a conoscenza o meno della parentela. Io ho deciso per il sì. Non hanno mai detto niente a nessuno perchè tutti avrebbero potuto pensare che Riza e Roy avessero fatto strada nell'esercito solo grazie ai favoritismi, e questo sarebbe stato controproducente per il loro obiettivo. Non hanno mai nascosto niente a nessuno, semplicemete si sono comportati come se niente fosse.
Le cose sarebbero continuate così, non fosse che tutta Amestris è venuta a sapere di questo fatto non appena Grumman è diventato fuhrer.
Ho spiegato il perchè e il per come di questa vicenda in un'altra long fiction che sto scrivendo. Non chiedetemi perchè ho pubblicato prima questa, che è posteriore in ordine cronologico a tutte le altre cose che sto scrivendo, perchè non sono sicura di saperlo nemmeno io.
In teoria non è necessario conoscere le altre storie per capire questa, i riferimenti sono minimi. Se non capite qualcosa, comunque, chiedete pure!
Ho scritto in un carattere leggermente più grosso, questa volta.
Sono apprezzati consigli e critiche. 

 






In this world you tried
Not leaving me alone behind
There's no other way
I'll pray to the gods: let him stay.
[...]
All of my memories
Keep you near
In silent moments
Imagine you'd be here
All of my memories
Keep you near
The silent whispers, silent tears.”
                                      “Memories”, Within Temptation
 
 
Quando i Tenenti Havoc e Breda parlarono dell’accaduto tempo dopo, giurarono di non aver mai visto una scena più spaventosa di quella che si trovarono davanti quando entrarono nell’ufficio. E forse non avevano partecipato alla Guerra di Ishbal, ma la loro fetta di battaglie l’avevano avuta.
Riza Hawkeye, quella Riza Hawkeye, era inginocchiata sul pavimento della stanza come una marionetta cui avevano tagliato i fili, accanto ad un ricevitore che pendeva dal tavolo e circondata da un’aureola di fogli sparsi.
Le sue mani giacevano abbandonate ai lati delle gambe e la sua bocca era leggermente aperta in un’espressione quasi di sconcerto. La cosa più terribile però erano gli occhi, spalancati e fissi su chissà cosa.
Sicuramente, non un qualcosa che appartenesse a questo mondo.
«Maggiore? Maggiore, che succede?!»
Breda la prese per le spalle e la scrollò, e ogni secondo che passava senza che lei rispondesse era una goccia di terrore in più.
C’era una sola cosa che poteva ridurre così Riza Hawkeye, e lui sapeva fin troppo bene quale fosse.
Havoc nel frattempo aveva preso in mano la cornetta. Dall’altro capo del filo qualcuno continuava a chiamare il Maggiore.
«Comandante supremo, è lei?» chiese il Tenente biondo, sorpreso, mentre la sigaretta che aveva in bocca scivolava a terra. Ebbe ugualmente la presenza di spirito di spegnerla, mentre il Fuhrer gli comunicava la notizia che non avrebbe mai voluto sentire.
Scacco matto.
Havoc si mise una mano sul volto, e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì scambiò uno sguardo con Breda e capì che aveva capito quando l’altro chinò la testa e circondò goffamente le spalle del Maggiore in un abbraccio che cercava conforto più che realmente darlo.
Riza non si muoveva.
Havoc le rivolse un’occhiata che era un misto di tristezza, comprensione e preoccupazione, continuando a parlare al telefono con il Comandante Supremo.
«Capisco.» disse «Sì, certo, l’identificazione... bruciato?» gli uscì dalla bocca una specie di singhiozzo strozzato.
Pausa.
«Possiamo venire anche noi, Signore?»
Pausa. Altra occhiata al Maggiore.
«Sì, ha ragione, è meglio che rimanga qui. Forse quando starà meglio...» si interruppe.
Riza non sarebbe mai stata meglio.
«Molto bene. A più tardi, Signore.»
Havoc fece un cenno con la testa a Breda e si avviò verso la porta.
Prima di andare bisognava trovare qualcuno che stesse con Hawkeye, o rischiavano di non trovarla più quando fossero tornati, anche se forse, pensò Havoc guardandola un’ultima volta mentre chiudeva la porta, sarebbe stato meglio così.
Il battente non fece tempo a chiudersi che Breda iniziò a desiderare che Havoc tornasse indietro.
Come faceva a respirare tutto quel dolore da solo?
Si sentiva ancora intontito. Non aveva mai preso in considerazione l’idea che Roy Mustang fosse mortale, men che meno che potesse andarsene in tempo di pace.
Sempre ammesso che un’esplosione al tribunale militare potesse considerarsi pace, ecco.
Spaesato, cercò di focalizzarsi su quello che avrebbe fatto di lì in poi, o meglio, su quello che avrebbero fatto, perché di qualsiasi cosa si trattasse l’avrebbero fatto assieme, almeno questo.
Solo che non c’era più il Generale, ed era sempre stato lui a dare loro un obbiettivo.
Guardò Riza. Ma certo, una cosa da fare c’era.
«Troveremo quei bastardi e li porteremo da lei, Maggiore. È una promessa.»
In quel momento Havoc rientrò, seguito da Fuery.
Il giovane Maresciallo non era riuscito a trattenere le lacrime, e anche se si era asciugato la faccia con una manica aveva gli occhi rossi.
Quando vide la donna al centro della stanza, un’espressione di orrore attraversò il suo volto e il suo sguardo cercò quello dei suoi compagni più anziani.
Havoc gli mise una mano sulla spalla, poi si rivolse all’altro Tenente «Breda, andiamo.»
Breda si alzò con il cuore pesante, ma quando si mosse qualcosa lo trattenne.
Riza Hawkeye aveva afferrato il bordo della sua giacca e non sembrava intenzionata a lasciarlo andare. Teneva gli occhi e il volto rivolti al pavimento.
«Fatemelo vedere.» la sua voce era bassa, ma tagliò l’aria dell’ufficio come un coltello. Gli uomini si guardarono.
«Non credo che sia il caso, Maggiore.» disse lentamente Havoc.
«Fatemelo vedere.» urlò Riza, sollevando bruscamente la testa. Stava piangendo, chissà quando aveva iniziato. «È un ordine, soldati!»
 
Riza Hawkeye alternava momenti di lucidità a istanti in cui la ragione sembrava averla abbandonata del tutto. Questi ultimi assomigliavano a grandi spazi bianchi in cui il suo cervello si spegneva, si staccava completamente dal mondo come se quello che la circondava non la riguardasse più e le scivolasse addosso. Rimanevano solo pensieri sconnessi, sottili nastri che le attraversavano la mente e poi sparivano.
Frammenti di discorso, parole, frasi, immagini che forse erano esistiti o forse non erano nemmeno mai stati.
Il legame di Riza con la realtà era come una linea disturbata, ogni tanto c’era e ogni tanto no, il momento prima era nell’ufficio e l’attimo dopo si ritrovava in macchina senza sapere come ci fosse arrivata. Non che la cosa le importasse.
“Non può essere morto.” diceva la Riza lucida, o almeno quella che si comportava come se lo fosse “Non può essere stato questo ad ucciderlo, non dopo tutto quello che abbiamo passato.”
L’altra Riza, quella sola nel suo limbo, canticchiava tra sé e sé il valzer che avevano suonato alla prima festa dell’esercito a cui lui l’aveva costretta a partecipare.
“Non può essersene andato senza di me. No...no!” i pensieri della Riza che ancora rimaneva diventavano frenetici, finchè non scivolavano di nuovo nel nulla.
Quella Riza che non era più di un’ombra sulla terra sembrava trovare la pistola che aveva nella fondina particolarmente interessante...
“No.” si impose Riza “Non puoi farlo, non adesso. Cosa succede se il Generale è vivo è tu ti uccidi? Conoscendolo, penserà che è tutta colpa sua... e poi” si disse, trattenendo un singhiozzo e cercando di mettere a tacere l’altra Riza, che adesso citava brani di qualche libro che avevano letto entrambi e ricordava stralci di conversazioni avvenute a Ishbal così tanti anni prima “se davvero è morto, poi... vuol dire che c’è qualcuno che me l’ha portato via. E prima di morire bisogna che mi prenda cura di loro.”
Con questo fece definitivamente ammutolire l’altra parte di sé. Almeno per un po’.
 
Il Tenente Jean Havoc guidava la macchina. Era sempre stato il terzo in comando e adesso, con il Maggiore ridotto in quello stato e il Generale... beh, il Generale come si sapeva, si sentiva in dovere di gestire la situazione meglio che poteva, anche se aveva solo voglia di andare in un bar a ubriacarsi e magari scivolare sotto un tavolo e svenire.
Per le strade c’era una gran confusione, probabilmente proprio a causa dell’esplosione.
Metà della gente guidava nella corsia opposta, a giudicare dalle facce con grande ansia, come se pensasse che se c’era stata un’esplosione al tribunale militare sicuramente ce ne sarebbe stata un’altra e che fosse il caso di allontanarsi. L’altra metà andava ad intasare la via di Havoc, probabilmente col desiderio di andare a curiosare sul luogo dell’incidente.
Jean avrebbe voluto tirare fuori una mitraglietta e toglierli tutti di mezzo. Non che avesse fretta di arrivare laggiù o volesse guadagnare qualche minuto, solo che aveva l’aria di essere una cosa che dopo che l’hai fatta ti fa sentire meglio.
“Magari il Generale non è morto.” pensava, mentre cercava febbrilmente di accendersi una sigaretta con una manovra abbastanza pericolosa per la stabilità dell’auto “Forse è tutto un errore. Un gigantesco, fottutissimo errore che farò rimpiangere a chiunque l’ha fatto. Forse stamattina non mi sono ancora svegliato.”
Senza neanche rendersene conto mollò un pugno al volante.
«Havoc, vuoi che guidi io?» si offrì Breda, che era seduto accanto a lui e aveva notato l’espressione dell’amico.
«Tranquillo. Non hai una faccia migliore della mia, te lo assicuro. Piuttosto, il Maggiore come sta?»
Breda si voltò verso il sedile posteriore: «E come vuoi che stia... sta lì. Almeno fisicamente, intendo.» poi realizzò qualcosa «Fuery» disse, rivolto al Maresciallo seduto dietro «Togli le pistole al Maggiore, è meglio.»
Fuery lanciò uno sguardo preoccupato alla donna.
«Sono d’accordo.» disse. Tuttavia deglutì.
«Signora...eh» disse esitante, tendendo una mano verso Riza «potrebbe consegnarmi, cortesemente, le sue armi?»
Riza gli lanciò uno sguardo che arrivava da molto lontano, tirò fuori la pistola ma, ben lungi dal consegnargliela, gliela puntò contro.
«Quello che deciderò di fare con questa» disse «è un problema mio.»
Nell’auto calò un silenzio anche peggiore di quello che c’era prima, mentre Riza abbassava lentamente l’arma, la rimetteva al suo posto e si voltava di nuovo verso il finestrino, appoggiandocisi con la fronte come se sperasse di passarci attraverso e finire in un altro mondo.
Silenzio. Troppo, doloroso silenzio.
«Qualcuno ha avvertito Falman?» domandò Breda, dopo un po’.
«Perché avvertirlo?» per una volta il Maresciallo Fuery sembrava arrabbiato «Forse il Generale non è morto, magari si sono sbagliati. Perché dovremmo... perché...» l’indignazione iniziale aveva lasciato il posto allo smarrimento, e adesso il giovane non sapeva più come continuare. Non sapeva neppure più cosa pensare.
«Hai ragione» concordò Havoc, col massimo di gentilezza che gli era possibile in quel momento «ma credo che Falman vorrebbe saperlo lo stesso, non credi?»
«Bisognerà dirlo anche ad Acciaio. Ho sentito dire che sarebbe arrivato in città oggi.» borbottò Breda.
«Ed è qui?» domandò Havoc, lievemente sorpreso.
«A quanto pare sì. Lo hanno chiamato per una consulenza su non so quale esperimento.»
Havoc divenne se possibile ancora più cupo, pensando al ragazzo. Edward non si meritava anche questa.
Per fortuna il tribunale militare era poco lontano, perché nessuno di loro avrebbe sopportato oltre quel viaggio.
 
Il danno causato dall’incidente era evidente già da una certa distanza.
Quasi un’intera ala del tribunale era stata disintegrata dall’esplosione, e tutto ciò che ne rimaneva era una montagna di macerie, una specie di monumento funebre che si allargava per decine di metri. La zona circostante era stata evacuata e le transenne delimitavano uno spazio più ampio di un isolato.
Due soldati di guardia al perimetro li fermarono.
«Tenente Jean Havoc.» si identificò il giovane alla guida quando li vide «Credo che il Fuhrer sappia che siamo qui.»
I due eseguirono il saluto militare e uno di loro annuì, indicando un punto poco oltre: «Il Comandante Supremo è laggiù, signore.»
«Grazie.»
Attorno all’edificio si stava muovendo una gran quantità di persone. I più facevano parte di squadre di soccorso intente a scavare tra le macerie con l’aiuto dei cani. Avevano già estratto cinque cadaveri ma non disperavano di trovare qualcuno ancora vivo, dunque lavoravano con estrema rapidità.
Accanto ad una delle salme, allineate a terra e coperte con un lenzuolo, stava il Comandante Supremo Grumman con i suoi uomini.
Le sue guardie avevano tentato di dissuaderlo dall’andare sul posto, ma il vecchio non aveva voluto sentire ragioni, e così eccolo lì, a convincersi che c’erano poche, davvero poche possibilità che il suo amico e collega Roy Mustang, cui voleva bene come a un figlio, fosse scampato alla morte e che quello che aveva davanti fosse il cadavere di qualcun altro con addosso la sua uniforme.
Quando la macchina si fermò a pochi metri da lui si riscosse, e vedendo Havoc e Breda scendere dalla vettura e salutare sospirò. Sarebbe riuscito a parlare? Al momento non si fidava della propria voce.
Tuttavia non fece tempo a proferir parola, perché una voce di donna ruggì dall’interno della vettura: «Fuery, fammi uscire di qui immediatamente.»
«E così sei qui, Riza.» mormorò il Fuhrer, incupendosi.
Uno dei soldati di Grumman alzò uno sguardo preoccupato e lucido.
“Rebecca?” pensò Havoc, confuso “Beh, avrei dovuto aspettarmelo, è uno degli assistenti personali del Comandante.”
«Ci scusi, Eccellenza.» disse Breda «Non siamo riusciti ad impedirle di venire. E abbiamo pensato fosse meglio...non insistere troppo.»
Riza riuscì alla fine ad aprire la portiera della macchina, nonostante le resistenze del Maresciallo, che si ostinava a far scattare la sicura ogni volta che lei tirava giù la maniglia.
La donna abbracciò con un solo sguardo tutto quello che aveva attorno, poi vide quello che stava cercando.
Si mosse verso il corpo senza affrettarsi, con estrema dignità, e nessuno ebbe il coraggio di trattenerla, poi, non appena gli fu accanto, cadde in ginocchio e sollevò il lenzuolo.
Tutti si sentirono in dovere di distogliere lo sguardo.
L’urlo belluino attraversò l’aria innaturalmente silenziosa: «Levatevi di mezzo!» quasi tutti lì conoscevano quella voce, anche perché quando urlava tendeva all’acuto e tornava un po’bambina.
«Signor Elric, la prego, non mi costringa a... AHHH!»
Pochi secondi dopo, Edward Elric raggiunse come un tornado i soldati davanti alle macerie.
Fuery notò in lontananza, con la coda dell’occhio, uno degli uomini che avevano superato poco prima saltellare tenendosi in mano il piede destro, che Edward doveva avergli pestato. Con la gamba d’acciaio, probabilmente.
Edward, si rese conto Havoc, era cresciuto moltissimo durante quell’anno passato in giro per l’occidente. Tuttavia in quel momento sembrava solo un ragazzino spaventato che si nascondeva dentro un’espressione dura, come la prima volta che l’aveva visto al Quartier Generale dell’Est.
«Allora è vero.» disse il ragazzo, quando vide il corpo e il Maggiore accanto ad esso. Abbassò la testa. Voleva piangere, sentiva troppo dolore per non piangere, ma le lacrime non ne volevano sapere di uscire e si erano inceppate assieme ad uno degli ingranaggi fondamentali dell’universo.
Il Generale non poteva essere morto.
Mosse un passo in direzione della salma, ma Havoc lo bloccò, scuotendo la testa. Prima bisognava aspettare il Maggiore.
Solo in quel momento Edward riuscì a vedere il cadavere. Era – se ne rese conto con un grido soffocato – quasi completamente bruciato. L’unico elemento che permetteva un’identificazione era una delle due mostrine, meno malconcia del resto dell’uniforme, che lo certificava come Generale Maggiore. E naturalmente l’orologio da alchimista di stato, che Riza aveva preso in mano e che scuoteva nel suo palmo, meccanicamente.
«Come fate a sapere che è lui?» domandò Edward, furibondo «Non è lui, lo vedete?»
«Ed» disse Havoc, paziente e triste «Quanti altri Generali Maggiori e alchimisti di stato pensi che ci fossero oggi al tribunale militare? Comunque arriverà il dottor Knox, penso. Allora sapremo se...» la voce gli morì in gola.
«Bastardo, me l’avevi promesso!» urlò Edward, mentre gli occhi gli diventavano lucidi e le lacrime iniziavano a cadere «Me l’avevi promesso che non saresti morto!» si sedette su un grosso frammento di muro che l’esplosione aveva scagliato fin lì, tenendosi la testa tra le mani.
«Me l’avevi promesso.» mormorò.
Il Maggiore prese una delle mani del cadavere – o almeno quello che ne rimaneva – e la strinse, guardandola.
Un singhiozzo le salì in gola, ma lo trattenne con i denti.
Senza preavviso, si alzò e scattò verso l’auto con cui era arrivata, gridando con voce spezzata: «È lui.»
Saltò a bordo della vettura prima che qualcuno processasse il fatto che forse bisognava fermarla, bloccò le porte e mise in moto, mentre gli altri la circondavano. Qualcuno provò a sfondare i finestrini, ma il vetro rinforzato glielo impedì.
«Riza, aspetta!»
«Scenda di lì!»
«La prego, Maggiore...»
Prima che la donna premesse l’acceleratore, il suo sguardo incrociò quello di Edward.
«Maggiore Hawkeye!» la chiamò il ragazzo, disperato.
Teneva le mani premute sul finestrino, ma non fece niente per aprire la portiera con la forza. Non aveva il diritto di costringere la donna a scendere dalla macchina, e tuttavia avrebbe tanto voluto che lo facesse.
Riza si concentrò sul volante e, senza curarsi di tutti quelli che attorniavano il veicolo, partì sgommando.
«Seguila, presto!» esclamò il Fuhrer, scambiandosi uno sguardo con Rebecca.
«Havoc, vieni anche tu.» ordinò la donna, precipitandosi a bordo di una delle auto della scorta del Comandante.
Non fecero in tempo ad accendere il motore che Edward era già salito in macchina.
«Vengo anch’io.» disse semplicemente.
Gli altri li guardarono allontanarsi, e persino quelli che non conoscevano personalmente il Generale né il Maggiore si accorsero, stupefatti, di avere un groppo alla gola.
«Signore, posso parlare?» domandò Breda, dopo parecchi minuti di silenzio.
«Certo.» rispose stancamente Grumman, passandosi una mano sul volto.
«Crede davvero che riusciranno a riportarla indietro?»
Il Comandante tacque per molto tempo. Non  si era mai sentito così anziano in vita sua.
«Non lo so.» disse alla fine con voce roca «Ma sicuramente le daranno una mano, poi...dipende tutto da lei.» il Fuhrer si mise il berretto sulla testa, nascondendo il volto «Sono troppo vecchio per veder morire le persone a me care prima di me.»
«Signore...» si fece avanti un uomo della scorta, preoccupato.
«Sto bene! Sto bene...» si rivolse a Breda e a Fuery «Anche noi abbiamo del lavoro da sbrigare. Non possiamo lasciare che faccia tutto Riza.»
«Sissignore!»
Il Comandante Supremo e la sua scorta se ne andarono.
Gli ultimi a lasciare il luogo della tragedia furono il Tenente e il Maresciallo, che avevano gentilmente rifiutato un posto nella macchina di ordinanza. Sarebbero andati a piedi.
Quando oltrepassarono il perimetro, uno degli uomini di guardia domandò a Breda, imbarazzato ma senza nascondere la curiosità: «Signore, mi scusi, posso chiederle chi fosse quella donna che è corsa via in auto? Ha sollevato un bel parapiglia...»
«Quella» rispose Breda, con lo sguardo distante «era Riza Hawkeye, e chiunque abbia ucciso il Generale Mustang da questo momento è un morto che cammina.»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - sulle tracce della regina ***


Salve gente! Ancora qui a scocciare... devo finire la storia nel più breve tempo possibile perchè dev'essere pronta entro il 2 settembre (compleanno della mia migliore amica, auguri Je!). Ringrazio tutti quelli che hanno recensito, seguito, letto. Continuate a farmi sapere le vostre opinioni!
In questo capitolo non ci sarà praticamente niente (di nuovo, scusate! Prometto che nel prossimo ci sarà più azione), a parte Ed, Havoc e Rebecca che inseguono Riza e intanto parlano, Nuovo Personaggio e una breve apparizione di Winri.
NOTE: Nel capitolo viene citato Al. Nel periodo in cui si svolge la storia Al è a Xing perchè ha deciso di prolungare la sua presenza lì (chissà perchè), è per questo che l'unico modo per contattarlo è inviargli una lettera.

Ultima breve incursione prima di lasciarvi alla storia: all'inizio dello scorso capitolo avrei voluto citare la splendida poesia "Blues in Memoria", ma mi sono ricordata il titolo solo l'altro giorno. La scrivo lo stesso qui perchè ci tenevo molto a mettercela, voi fate finta di niente. XD

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l'amore fosse eterno: avevo torto.

Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

 Allegra, nevvero? Comunque io la trovo bellissima, non si può partire dal presupposto che una cosa bella necessariamente ti eviti di deprimerti. Magari di tagliarti le vene sì, però.
Scusatemi ancora per avervi tediato, e ora... al capitolo!







“Non vi pensiate già, mia vita
Far senza me quest’ultima partita.
Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi
Ch’io vo seguirvi in cielo o ne l’inferno
Convien che l’un con l’altro spirto scocchi
Insieme vada, insieme stia in eterno.
Non sì tosto vedrò chiudervi gli occhi
O che m’ucciderà il dolore interno
O se quel non può tanto io vi prometto
Con questa spada oggi passarmi il petto.”
                                                 “Orlando Furioso”, Ludovico Ariosto


«Riesci a vederla?» domandò Havoc.
«Sì.» disse Rebecca «È là davanti.»
«Quante possibilità abbiamo di raggiungerla?»
«Prima che sparisca dalla vista? Con questo traffico poche.»
«E di convincerla a tornare indietro?»
«Vuoi davvero saperlo?»
Le mani di Ed erano ancorate al sedile e stringevano spasmodicamente la copertura in pelle. Aveva un principio di mal di testa, come quando restava alzato a studiare fino ad un’ora indecente.
Il suo sguardo scivolò sul suo riflesso nel finestrino dell’auto. Si asciugò il viso con un gesto brusco e meccanico.
“Che fai, Acciaio?” gli pareva quasi di sentire la voce sarcastica del Generale “Piangi per me?”
“Non sto piangendo, traditore maledetto, ho solo gli occhi lucidi, è un problema?”
«Accidenti, non la vedo più.» sbottò Rebecca, compiendo una terrificante gimcana tra le auto che ostacolavano il suo percorso. Nessuno comunque osava suonare il clacson o protestare, vedendo che si trattava di un’auto governativa.
«Non ti preoccupare, Rebecca, l’unica cosa che c’è da questa parte è l’uscita Est di Central.» disse Havoc, che aveva aperto il finestrino e fumava come un  turco, lasciando una lunga scia profumata di tabacco nell’aria.
«Sta andando fuori città...» mormorò la donna.
Ed diede voce alla domanda che tutti e tre si stavano facendo: «Avrà già capito chi è stato?»
«E chi lo sa. Probabilmente sta solo cercando di seminarci.» fece Havoc.
«No.» affermò Rebecca, sicura «Sa benissimo che la stiamo seguendo, e se avesse voluto farci perdere le sue tracce l’avrebbe già fatto.»
«E l’ha fatto.» puntualizzò Havoc «Più o meno due minuti fa.»
«Non credo che le importi un accidente del fatto che siamo dietro di lei o meno.» commentò Edward, cupo.
Silenzio.
«Ma se non sa ancora cosa fare, dove sta andando?» domandò Havoc a mezza voce.
«Riza è nata nella campagna dell’Est. Forse sta andando nella sua vecchia casa a mettere in ordine i pensieri.»
«Come ti è venuta quest’idea?» ad Havoc sembrava abbastanza inverosimile.
«Certe cose un’amica le deve sapere.»
«Altre possibili mete?»
«East City?» propose Rebecca.
«Ishbal?» rilanciò Edward, con scarso entusiasmo.
«Può essere.» assentì Havoc «Il Generale ha... aveva molti sostenitori lì. Tutti soldati che hanno fatto la guerra e che non aspettavano altro che una possibilità per fare ammenda.»
«Sono troppi i posti dove potrebbe essersi diretta.» si lamentò Edward.
«Per adesso siamo sicuri che è andata da questa parte, comunque.» disse Rebecca.
«Non è così complicato, sapete? Potremmo chiamare il Comandante e informarlo sulla direzione presa dal Maggiore. La fermerebbero in qualsiasi città tentasse di passare...»
«Il Maggiore ha il diritto di decidere cosa fare, è adulta e vaccinata.» protestò Edward.
«E sconvolta.» completò Havoc.
Edward scosse la testa, pensando al Giorno della Promessa, ai sotterranei «Il Maggiore Hawkeye ha deciso da secoli che avrebbe seguito il Generale dovunque fosse andato. E l’ha deciso da lucida.»
Rebecca cercò con tutte le forze di non piangere perché stava guidando e non era il caso di andarsi a schiantare da qualche parte e mettere la ciliegina su quella giornata che faceva già abbastanza schifo così.
«Perciò dobbiamo lasciare che faccia una pazzia?»
«Saresti tanto egoista da fermarla, tu?» mormorò Rebecca.
Havoc tacque. L’aveva pensato anche lui, quando avevano saputo la notizia.
Edward si passò una mano tra i capelli. Anche lui avrebbe tanto voluto che il Maggiore si fermasse, però sapeva per esperienza personale che non si possono trattenere i morti.
E il Maggiore era morta nel momento esatto in cui il Generale aveva smesso di vivere.
«Dunque la seguiamo e basta?» fece Havoc.
«Esatto.»
«Ma se l’abbiamo persa di vista!» esclamò Havoc, esasperato «Voi donne avete un senso pratico vicino allo zero assoluto.»
«Pensa, e io che credevo non sapessi cosa fosse, lo zero assoluto.» L’irritazione di Rebecca vibrava nell’aria. Era nervosa, ci mancava solo che la facessero arrabbiare e avrebbe iniziato a sputare fiamme.
«La volete finire?» intervenne Edward. Poi si rivolse al Tenente Havoc: «Il Comandante Supremo ha sicuramente avvertito i distaccamenti delle altre città qui vicino perché riportino le mosse del Maggiore, se la vedono passare. A quel punto basterà chiedere indicazioni.»
«Già.» confermò Rebecca «Chiunque fa caso ad un’auto che sembra guidata da un pazzo...»
Breve pausa, durante la quale ognuno si limitò a fissare la strada.
«A proposito dell’auto» riprese Rebecca socchiudendo gli occhi «siete davvero stati così stupidi da lasciare le chiavi nel cruscotto?»
«No, era l’auto del Maggiore.» Havoc scrollò le spalle «Avrà avuto una chiave di riserva da qualche parte.»
«Mossa ancora migliore, non c’è che dire.» commentò Rebecca.
“Accidenti, questi due non vanno tanto d’accordo, eh?” pensò Ed, squadrando i finestrini alla ricerca di una via di fuga, in caso di conflitto a fuoco sui sedili anteriori.
Ma nonostante tutto l’auto continuò ad andare, e le persone dietro di loro pensarono che fosse strano che adesso le auto governative avessero anche il caminetto ma che in fondo non ci si doveva stupire più di nulla.

L’auto nera si avvicinò all’uscita Est di Central City nello stesso modo in cui facevano tutte le altre auto attorno a lei.
«Fermo lì.» intimò un soldato del posto di blocco al guidatore.
L’uomo abbassò il finestrino, rivelando occhi rossi e una carnagione scura.
Il soldato fece un cenno alle persone che aveva attorno a lui, le quali iniziarono a perquisire la vettura. Poi si rivolse ad una giovane con i capelli castani e gli occhiali in piedi accanto a lui: «È uno di loro, signorina Sheska?»
La ragazza scosse la testa con foga: «No. Il signore ha i capelli lunghi, i tre che ho visto avevano tutti un taglio molto corto.»
Dal retro della macchina provenne un forte bagliore, scatenato da un semplice cerchio alchemico.
«Nessuna traccia di polvere pirica, Sergente.» disse il giovane soldato che lo aveva disegnato.
Il Sergente lo ignorò e si rivolse direttamente all’uomo sull’auto, squadrandolo sospettoso: «Perché ti trovi a Central?»
«Sono uno scienziato.» rispose il suo interlocutore, quasi scusandosi «Ero venuto in città per via dell’esperimento del signor Elric, ma è stato cancellato tutto all’ultimo minuto.» si fermò per un attimo, pensieroso «Credo sia stato per la morte del Generale Mustang.»
«Quindi, nonostante sia passata poco più di un’ora, tu sai già cos’è successo al Tribunale Militare. Curioso.» disse il Sergente, stringendo gli occhi.
«Lo sa tutta la città.» si intromise timidamente Sheska «Ci sono stati moltissimi testimoni.»
«Comunque è strano, no?» insistette l’uomo piantando con insolenza il suo sguardo negli occhi rossi dell’altro «Uno scienziato di Ishbal.»
«Ho la tessera dell’Istituto di Ricerca di Ishbal e quella della Federazione degli Scienziati di Amestris.» replicò il malcapitato, cercando goffamente il portafoglio «Ecco qui.» disse, passando due cartoncini delle dimensioni di un biglietto da visita al soldato.
«Uhm. Com’è che voi avete istituti di ricerca?»
«Io mi occupo di tecnologie agrarie, stiamo cercando di risollevare l’economia della regione e...»
«Va bene, va bene, non è importante. Owen.» abbaiò, rivolgendosi al soldato che sapeva qualcosa di alchimia «Questa roba esiste davvero?» gli sventolò davanti le tessere.
«Certo, Signore.» disse il giovane, imbarazzato dall’aver a che fare con un tale cretino.
«Eppure, io dico che faremo meglio a trattenerlo. I terroristi sono degli Ishbalan, e dunque tutti quelli come lui andrebbero fermati per ulteriori accertamenti.»
Sheska era una persona estremamente tranquilla, una persona che quasi aveva paura di arrabbiarsi, ma questo era troppo.
Nel giro di un paio d’ore aveva avuto paura, aveva pianto, si era arrabbiata e poi era andata lì per dare una mano, perché lei aveva visto gli attentatori e voleva fare tutto quello che poteva perché fossero catturati.
E adesso il Sergente. Sapeva che il suo modo di fare non era dettato dai reali bisogni dello stato, ma da una sua personale miopia. Xenofobia.
Se il Generale Mustang fosse stato lì non avrebbe ammesso un comportamento del genere da parte di una persona su cui la gente avrebbe dovuto poter fare affidamento.
Il Generale non avrebbe lasciato che si passasse sopra ad una tale ignoranza e presunzione, e adesso doveva essere lei a difendere un’idea in cui lei stessa credeva.
«Quest’uomo ha tutto il diritto di passare!» tuonò, indispettita dal disprezzo nelle parole del Sergente «È un cittadino di Amestris quanto lei o me, e dal momento che ci ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio di avere i suoi motivi per essere in questa città e corrisponde alla descrizione dei terroristi quanto la famiglia che è passata poco fa va lasciato andare.»
L’uomo la guardò completamente spiazzato. Le persone gentili e calme, quando si arrabbiano, hanno lo stesso effetto di un terremoto in una zona a bassa attività sismica.
Fu più per la sorpresa che per reale volontà che il Sergente lasciò andare l’Ishbalan «Vai... vai pure.»
«Grazie.» annuì il guidatore con timidezza, riprendendo le sue carte dalle mani del soldato «E scusi il disturbo.» Partì in fretta, come se volesse a tutti i costi lasciarsi alle spalle il posto di blocco nel minor tempo possibile.
“Che cosa bizzarra.” pensò Owen, mentre l’uomo si allontanava e Sheska e il Sergente iniziavano una discussione sul razzismo e l’identità nazionale e i pari diritti “Un Ishbalan che chiede scusa... pensavo che fossero persone piuttosto orgogliose ma in effetti se ci riflette c’è gente di tutti i tipi in tutte le etnie. Chissà se oggi mamma ha fatto il minestrone...”
A poco meno di un chilometro da lì, l’uomo dai capelli lunghi sorrise sulla sua decapottabile scura.

«Tenente Havoc» fece Rebecca, allarmata «cos’è questo rumore?»
Havoc tese l’orecchio. Era qualcosa come...un ringhio basso. O come le nuvole quando cozzano tra di loro e si prepara un temporale. «Forse il motore perde colpi.» disse, aggrottando le sopracciglia.
«Non è la macchina.» borbottò Edward, rannicchiato sul sedile posteriore «È che il mio stomaco è il primo esempio di vuoto naturale nella storia.»
«Il Capo ha regione, Catalina.» Havoc non aveva mai smesso di chiamare Ed così, anche se il ragazzo aveva lasciato l’esercito ormai da anni «Stiamo viaggiando da almeno sei ore, facciamo una pausa.»
«Riza non farà nessuna pausa. Non possiamo fermarci neanche noi.»
«Tanto è da un pezzo che ci muoviamo a tentoni, se mentre chiediamo indicazioni ci fermiamo un minuto di più non cambia nulla.» Havoc rimase in silenzio per un attimo «E poi io devo andare in bagno.» concluse.
Rebecca tacque per qualche secondo, poi annuì e si avvicinò alla stradina laterale che portava al centro abitato più vicino.
Sapeva bene che il tempo che si perde per riposarsi viene compensato da una maggiore lucidità ed efficienza. È il principio dello scambio equivalente, tanto per gli alchimisti quanto per i soldati.
«Certo che fa proprio schifo.» mormorò Edward mentre iniziavano a percorrere la deviazione.
Gli altri due non ebbero bisogno di chiedergli a che cosa si riferisse.
«Il Maggiore è sempre stata una persona di gran cuore, come lo era anche mia madre.» continuò il giovane «Non è giusto che siano sempre le persone così a perderci.»
«Non soffrono solo loro.» intervenne Rebecca «Solo che fanno più male quando se ne vanno perché c’è molta gente che vuole loro bene.»
Edward considerò l’affermazione della donna, e arrivò alla conclusione che era un’ironia di cattivo gusto il fatto che proprio una persona buona facesse soffrire le altre persone per effetto stesso del suo modo d’essere.
Avrebbe dovuto fare un discorsetto sull’argomento alla Verità. Tanto ormai era di casa.
Il posto dov’erano diretti non era altro che un piccolo agglomerato di case, ma c’era un emporio e tanto bastava.
«Io vado dentro, ci rivediamo qui tra cinque minuti.» disse Rebecca.
Havoc aveva una voglia matta di correre nel bagno degli uomini, ma il senso del dovere ebbe la meglio su altri istinti primari, così il soldato mise un paio di monete nell’unico telefono pubblico che c’era.
«Quartier Generale di Central City.» rispose una voce dall’altro capo del filo.
«Sono il Tenente Jean Havoc. Il Comandante Supremo aspetta una mia telefonata.»
«Mi dia il suo codice di identificazione.»
«Eccheppalle.» borbottò il giovane, cercando il portafogli «Ah, ecco qui: Three - Zero - Four - Alfa - Horse - Charlie.»
«Perfetto. Attenda un secondo...»
Havoc aspettò saltellando da un piede all’altro finchè la voce della centralinista non venne sostituita da quella inequivocabile di Grumman.
«Novità, Havoc?»
«Nessuna, Comandante. Abbiamo perso le sue tracce poco dopo essere partiti.»
«Lo immaginavo. Adesso dove siete?»
Eh, bella domanda. Havoc si guardò attorno alla ricerca di un suggerimento, senza trovarlo: «In un microbo di paese nella campagna dell’Est, Signore.»
Edward si irrigidì al suono della parola “microbo”, prima di capire che non si riferiva a lui. Era ancora piuttosto suscettibile alla parola “piccolo” e sinonimi.
«Ha ricevuto segnalazioni sulla direzione presa dal Maggiore?» continuò Havoc. Durante l’attimo di silenzio che seguì, Havoc tirò fuori dal portafoglio una cartina per sigarette e iniziò a scriverci sopra con un mozzicone di matita, annuendo di tanto in tanto.
«La ringrazio, Comandante. Ora mi scusi, devo proprio andare.» detto questo Havoc riagganciò il telefono e scappò in direzione del bagno.
«Tenente, le spiace se chiamo casa?» gli urlò dietro Edward. Ma il Tenente era già sparito oltre la porta del W.C.
La mano di Ed alzò riluttante la cornetta del telefono. Non voleva far piangere Winri per l’ennesima volta.
«Officina Rockbell, chi parla?»
«Ciao Winri.» disse Edward, guardandosi le scarpe.
«Ed!» esclamò la ragazza, allegra. Poi registrò il tono del suo fidanzato. «È successo qualcosa?»
Edward spese tutte le sue forze a cavarsi di bocca la risposta: «Il Generale Mustang è morto in un attentato, e Winri... non credo che tornerò a casa tanto presto.»
Il ragazzo poteva quasi vederla coprirsi la bocca con la mano e indietreggiare fino ad urtare senza volerlo il mobile accanto al telefono, mentre le prime lacrime cominciavano ad affacciarsi dai suoi occhi.
«Ma co...come, non capisco...»
«È stato ucciso dai terroristi, hanno fatto esplodere il tribunale militare.»
«E adesso tu andrai a cercarli, non è vero?»
«Sì.» disse Edward, con calma ma con fermezza.
Winri sospirò dall’altra parte del filo: «Potrei arrabbiarmi, e dirti che è pericoloso, e cercare di farti cambiare idea. ma tanto tu faresti comunque di testa tua, perciò è meglio darti il mio appoggio che la mia paura.» Si riempì i polmoni d’aria e lanciò un urlo pieno di lacrime e di risolutezza, tanto forte che a Ed sembrò di veder tremare la cornetta: «Vai e falli secchi!»
«S-sicuro.» balbettò Edward, stupito. Winri era davvero un fenomeno, appena pensavi di averla inquadrata faceva qualcosa di imprevedibile. Era questo che piaceva a Ed.
«Come sta la signorina Riza?» domandò la ragazza, ansiosa.
Edward riacquistò la sua espressione cupa. «È praticamente corsa via. È per questo che siamo più o meno nel bel mezzo del nulla...»
«Siamo? Chi c’è lì con te?»
«Il Tenente Havoc e il Tenente Catalina. Sai, l’amica del Maggiore Hawkeye.»
«Avete seguito il Maggiore?»
«Non proprio, ci ha seminato quasi subito.» tacque per un attimo, poi disse, con voce più bassa: «Ho paura che possa fare qualche sciocchezza.» Edward vide Havoc uscire dal bagno con la coda dell’occhio «Scusa, mi sa che ti devo lasciare. Non so quando richiamo.»
«Aspetta, posso dirti che ti amo?»
La faccia di Edward divenne esattamente color giacca di Edward «E dimmelo, se proprio devi.»
«Ti amo.»
«Ecco, adesso mi costringi a fare il ragazzo banale e a dirti “anch’io”.»
Winri rise, ma tornò immediatamente seria «Ed, so che ti caccerai nei guai, ma almeno cerca di uscirne tutto intero, ok? Altrimenti ti perforo la testa con la mia chiave a T snodabile.»
«Non ne dubito.» rispose Edward, deglutendo pesantemente. Se si fosse fatto male, un sacco di persone sarebbero venute a rincarare la dose. Ma perché proprio lui doveva conoscere gente simile? «Ah, stavo quasi per dimenticarmelo... puoi scrivere ad Al da parte mia? Io non credo che ne avrò il tempo.»
«Lo farò.» la voce di Winri divenne un po’ansiosa «Allora ciao.» la ragazza si interruppe, come colta da un pensiero improvviso «Anzi... potresti passarmi il Tenente Havoc?»
«Il Tenente Havoc?» ripeté Edward, stupito. Poi fece spallucce «D’accordo, glielo chiedo.»
Si rivolse all’uomo biondo, che nel frattempo si era appoggiato al muro dell’emporio a fumare. «Scusi, Tenente, potrebbe venire un momento al telefono?»
Havoc strabuzzò gli occhi, poi agguantò la cornetta che Edward gli porgeva quasi per riflesso.
«Sì?» biascicò nel telefono, con la pronuncia alterata a causa della sigaretta.
«Tenente Havoc? Forse non si ricorda di me, sono...»
«Signorina Rockbell! Sono contento di sentirla, come sta?»
«Bene.» rispose Winri, colta alla sprovvista, contraddicendosi con la voce un po’umida.
«Le faccio le mie congratulazioni per il suo fidanzamento con il Capo.»
«Edward gliel’ha detto?»
«A dire la verità è stato Alphonse, almeno lui scrive regolarmente al Quartier Generale.»
Cadde il silenzio. Il pensiero di entrambi andò al Generale.
Fu Winri a parlare: «Edward è molto giù, vero?» sospirò «Fa finta di avere il controllo della situazione, ma io lo capisco dalla voce.»
Havoc sbirciò il ragazzo, che adesso stava guardando dentro all’emporio per vedere dove si fosse cacciata Rebecca. Persino lui, che non era il più presto del mondo ad indovinare i sentimenti delle persone, doveva concordare con Winri. «L’ha presa peggio di quanto potessi pensare, in effetti.» 
«Vede, per quanto potesse comportarsi come se lo odiasse, Ed ha sempre voluto molto bene al Generale. Penso che fosse l’unico che lo facesse sentire come se non avesse sulle spalle tutta la responsabilità del mondo. È stato lui a dare a Ed e ad Al un obbiettivo, una possibilità per salvarsi. Credo che lo considerasse come una sorta di fratello maggiore, o come un padre.» Winri fece un suono a metà tra una risata e un singhiozzo «Forse è per questo che ci litigava sempre.»
«Sì, l’ho sempre pensato anch’io.» disse Havoc, mentre vedeva Rebecca avvicinarsi «Devo salutarla, signorina Rockbell.»
«Posso chiederle una cosa, prima?»
«Certo.»
«Trovi la signorina Riza.» fece una pausa «E si prenda cura di Edward.»
«Lo farò.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Nel mirino ***


Eccomi di nuovo. ^^ 
In questo capitolo inizia ad esserci un po' d'azione. Faccio assolutamente pena a scrivere scene movimentate, ve lo dico prima perchè sappiate premunirvi. Non vi chiedo di avere pietà, ma di segnalarmi dove sbaglio sì. ;)
NOTE: La citazione, che viene da uno dei miei libri preferiti, era perfetta ("Ci credo, è l'unica cosa in questa pagina che non hai scritto tu" Nd Roy). Non è detto che estrapolata dal contesto abbia senso per tutti, posso solo dire che è stato il libro in questione ad ispirarmi questa storia, anche se personaggi e vicende c'entrano come un ravanello sull'Himalaya.
Gli strani giochi della mente...
Nel prossimo capitolo ci saranno un paio di sorprese, che potrebbero non esserlo per nessuno dato che la Prova del Cuoco sa far salire la suspance meglio di me e ha una trama più intricata della maggioranza delle cose che scrivo.

Grazie a tutti i recensori/seguitori/altro che usano con generosità il loro tempo per leggere questa storia. Teniamo alto l'onore del Royai! *smette di fare la fangirl e cerca di fare una faccia seria*. Passiamo al capitolo, che è meglio.





 “RABDOMANT: Mi dica, Thian, fin dove può arrivare una donna
che ha deciso di vendicare l’uomo che ama?
VAN THIAN:...                      
RABDOMANT:...
VAN THIAN: Sì, come minimo”
                                “La Prosivendola”, Daniel Pennac
 
Riza tendeva ad accorgersi di quando qualcuno la stava seguendo, era fatta così. Succede, quando rischi la vita un giorno sì e l’altro pure.
Così quando vide l’uomo muovere la mano sotto la giacca nello specchietto retrovisore lei era già pronta da un pezzo.
Sì girò con la pistola già in pugno, mettendo un ginocchio sul sedile e premendo il freno con la punta del piede.
Si sporse dal finestrino e puntò l’arma contro la decapottabile scura che la tallonava.
Le bastò registrare con l’occhio il movimento del suo inseguitore che estraeva la pistola per capire che aveva ben interpretato la sua azione di prima, come se quell’informazione non avesse neppure bisogno di arrivare al cervello.
Era sempre così, quando aveva un’arma in mano: i gesti delle persone vibravano, non aveva bisogno di vederli.
Senza dare all’uomo il tempo di fare alcunché, sparò. Ormai non era più questione di prendere la mira: il bersaglio sembrava mettersi spontaneamente dove lei avrebbe colpito.
Il proiettile trapassò la spalla dell’uomo e l’automobile, che ormai aveva quasi raggiunto l’auto ferma di Riza, sbandò pericolosamente.
Dalla ferita non usciva sangue, neppure un po’.
E l’uomo, nonostante il contraccolpo che lo aveva quasi fatto finire fuori dalla carreggiata, stava benissimo, come dimostrò riprendendo immediatamente il controllo del mezzo.
Anche lui frenò, ma con tutta tranquillità, come se non si fosse neanche accorto di essere sotto tiro.
Non appena se ne accorse, Riza si tuffò contro la portiera più lontana dall’uomo e si riparò dietro alla macchina.
«Sono stufa di tutta questa gente che non muore.» ringhiò la giovane a bassa voce.
Non provava paura, solo rabbia. Non esisteva che una cosa del genere le impedisse di portare a termine il suo obbiettivo.
Analizzò rapidamente tutto quello che la circondava. Erano in una piccola cittadina, in quella che doveva essere una delle strade principali del centro abitato. Stabilì a colpo d’occhio che nessun civile rischiava di essere coinvolto nella sparatoria, a meno che non uscisse dalle case a lato della strada.
Tutti si erano prontamente allontanati.
Sentiva delle grida in lontananza, ma le escluse dalle sue percezioni perché non erano necessarie.
Estrasse dalla fondina anche l’altra semiautomatica e si mise in posizione, mentre sentiva l’uomo avvicinarsi alla sua macchina.
C’è un momento in cui gli assassini si convincono che la loro vittima non verrà mai fuori e si preparano ad andare a cercarla. Fu in quel momento che Riza agì, nell’istante in cui l’uomo meno se lo aspettava.
Si alzò di scatto e lo crivellò di colpi. Uno al cuore, uno al centro della fronte, uno allo stomaco...e l’uomo era sempre in piedi con un’espressione strana sul volto, come se volesse mostrare sorpresa ma non gli riuscisse troppo bene. E ancora niente sangue.
Riza si tuffò a terra, giusto in tempo per togliersi dalla traiettoria dell’uomo. Il proiettile si perse da qualche parte sul muro della casa dietro di lei.
Un uomo di Ishbal. In fondo aveva sempre pensato che un giorno o l’altro sarebbe morta per mano di uno di loro, e sarebbe stato giusto così. Chi spara deve anche essere pronto a ricevere uno o più proiettili, a seconda di quanto sia duro ad andare all’altro mondo.
Solo che adesso lei non poteva morire, non ancora. Non poteva permetterselo.
Con un movimento improvviso si lanciò dietro ad un cassonetto della spazzatura sotto la gragnola di colpi dell’altro.
Si abbassò per prendere la mira e sparò nello spazio tra il cassone e la strada, prendendo in pieno prima il piede destro, poi il sinistro.
L’uomo barcollò ma non cadde, anzi iniziò a correre verso di lei.
Riza sentì i suoi passi e si buttò con tutto il suo peso contro il cassonetto che rovinò al suolo.
L’uomo lo schivò per un soffio, ma cercando di evitarlo cadde a terra. Questo diede il tempo a Riza di correre dietro alla sua macchina parcheggiata nel bel mezzo della strada. Era un buon posto dove ripararsi e allo stesso tempo tenere nel mirino il suo aspirante assassino.
Correva all’indietro, Riza, senza offrire all’avversario un punto scoperto dove lei non potesse difendersi con le sue armi. E mentre si spostava gli scaricava addosso le sue pistole.
BANG! BANG! BANG!
Un colpo sorprese l’uomo mentre si stava sollevando e gli penetrò nel collo, gli altri due si conficcarono entrambi nel suo ginocchio sinistro.
Finalmente l’uomo ebbe una qualche reazione al fatto che qualcuno gli stesse sparando addosso. Il suo viso si deformò in un’espressione che assomigliava solo vagamente alla paura, mentre si portava la mano alla ferita – si poteva chiamare così quel buco senza vita? – sul collo e trasaliva.
I proiettili della prima pistola di Riza erano finiti.
Con una mossa rapida, la giovane fece cadere a terra il caricatore vuoto e ne inserì un altro con la stessa naturalezza con cui un bambino gioca coi cubi di legno.
Senza alcun preavviso, però, l’uomo sembrò perdere ogni interesse nell’uccidere Riza e, sempre tenendosi il collo, si gettò nel posto di guida della sua auto e partì sgommando a tutta velocità, mentre l’ultimo proiettile della donna gli perforava la schiena.
Aveva mirato al collo perché aveva capito che in qualche modo era il tallone d’Achille dell’uomo, ma l’auto era partita e lei aveva mancato il bersaglio.
Riza rimase in piedi accanto alla sua auto, interdetta.
Perché un uomo che sembrava immortale improvvisamente si era spaventato e se n’era andato?
“No” si disse Riza “Non esistono persone immortali, solo persone che muoiono in maniera diversa da noi”. Pensò agli homunculus, a Barry.
Che cos’era, quello?
Le persone cominciarono ad avvicinarsi con cautela.
«Tutto bene, signorina?» esordì un vecchio con barba e capelli bianchi che si rigirava ansiosamente un cappello tra le mani.
«È ferita?» le fece eco una donna.
Riza scosse la testa, mentre l’adrenalina della battaglia la abbandonava lasciando il posto a ragionamenti lucidi.
L’uomo l’aveva attaccata di proposito in un luogo dove ci fossero più testimoni possibili, non c’erano dubbi su questo.
Ma perché?
«Ha a che fare con i terroristi?» fece un giovane dai capelli chiari, allarmato, quasi dando voce ai pensieri di Riza.
«Ci sono buone probabilità.» rispose Riza, assente.
Quale ironia. Quell’uomo non l’aveva cercata per ucciderla in quanto Riza Hawkeye, cecchino di Ishbal, ma perché la sua morte poteva giovare alla sua causa, qualunque essa fosse.
Quanto avrebbe screditato la milizia la morte di un Maggiore dell’Esercito – dell’Occhio di Falco, per giunta – in uno scontro d’arma da fuoco? Il livello di terrore sarebbe cresciuto, sempre di più, sempre di più...
Ancora una volta, Riza si trovava ad essere considerata non in quanto persona, ma per quello che rappresentava.
Per di più, restava da capire come avesse fatto quell’uomo a capire che lei si stava dirigendo lì. Restavano da capire un po’troppe cose, in effetti.
«Possiamo fare qualcosa?» domandò timidamente una ragazzina. Gli abitanti si scambiarono cenni d’assenso, negli occhi la paura di avere un terrorista che girava a piede libero nella loro città e la voglia di darsi da fare per tutelarsi almeno un po’.
Riza si riscosse. Doveva rassicurarli, non sembrare una pazza stralunata che fissava il vuoto in mezzo a una strada.
«Sì.» disse, cacciandosi in gola il tono autoritario di chi è abituato a dare ordini, ma senza arroganza: solo quello di chi svolge il proprio lavoro con efficienza e si aspetta lo stesso dagli altri «Ho bisogno che alcuni di voi vadano ad avvertire la polizia militare e riferiscano l’identikit dell’uomo.» il suo sguardo color nocciola si soffermò negli occhi di chi la circondava, passandoli in rassegna uno per uno «L’avete visto tutti, vero?»
Gli astanti annuirono.
«Molto bene. Voi cinque potete andare?» domandò, facendo cenno ad un gruppo di persone. Loro annuirono. «Ditegli di sparare al collo. A quanto pare è il suo punto debole.»
«Non c’era sangue.» disse con voce tremante una donna dall’aspetto materno che era tra quelli che Riza aveva chiamato «Quell’uomo non moriva.» era pallida, terrorizzata.
Riza non sapeva come comportarsi. Non era capace a parlare con le persone, non con così tante, soprattutto.
Il Generale sì che era bravo, in questo genere di cose: sapeva conquistarsi la loro fiducia e gestire le loro paure. Era un leader.
Ma adesso toccava a lei.
«Tutti si muore.» disse con gentilezza ma con fermezza. Sapeva quello che in fondo temeva quella donna: che esistesse qualcosa di perfetto, senza debolezze, rispetto al quale gli uomini apparivano ancora più fragili e inadatti a vivere. Anche lei ne aveva avuto paura, quando si era trovata faccia a faccia con gli homunculus «Ma ci sono cose che non conosciamo e creature create dall’alchimia che sembrano immortali. Io ne ho vista più di una.»
«Più di uno di quegli affari?»
«Già, e il mondo non è ancora finito. Credo che ce la faremo anche questa volta, ma ognuno deve fare la propria parte, perciò... filate alla centrale!»
Forse non avrebbe dovuto usare lo stesso tono che assumeva quando Black Hayate masticava qualcosa che non doveva, ma ormai era fatta.
Tutti i presenti provarono un istintivo, primordiale bisogno di mettersi sull’attenti, mentre i cinque prescelti partivano di gran carriera per salvare il loro mondo, pronti ad affrontare i Temibili 500 Metritra il Luogo della Sparatoria e la Sede della Polizia Militare.
Riza si chiese se non fosse il caso di cercare il criminale e di interrogarlo lei stessa, ma avrebbe perso un sacco di tempo, e ancora di più ne avrebbe perso quando avrebbero scoperto che si trovava lì e avrebbero cercato di convincerla a tornare indietro. Sempre che qualcun altro non la facesse secca prima, naturalmente.
Meglio tenere un basso profilo, non poteva concedersi il lusso di perdere ore preziose.
Doveva cambiare macchina. C’era il pericolo che l’uomo segnalasse la sua auto agli altri terroristi – perché era uno dei terroristi, su questo la giovane non aveva alcun dubbio – ammesso che non la conoscessero già.
«Lei» disse, voltandosi verso un uomo alla sua sinistra «ha un’auto veloce?»
«S-sì.» disse quello, colto alla sprovvista «È un modello 4, non è nuovissimo ma...»
«Andrà benissimo.» tagliò corto Riza, cercando di far suonare cortese anche quella breve frase; avrebbe voluto essere più educata, era abituata ad essere più educata, ma aveva una fretta maledetta «In cambio le cederò la mia.»
L’uomo guardò incredulo la bella auto in mezzo alla strada «Ne è sicura?»
«Mi creda, se non lo fossi non l’avrei detto.» la donna prese alcune cose dalla macchina, tra cui la sua giacca e una scatola di proiettili, poi staccò le chiavi dal cruscotto e le diede allo sconosciuto «Dov’è la sua auto?»
«È proprio quella.» disse l’uomo, indicando una vettura ben tenuta a pochi metri da lì «Ecco le chiavi.»
«La ringrazio.»
Riza salì a bordo e mise in moto, fece un cenno di saluto ai presenti e si allontanò lungo la strada.
Mentre partiva la sua molletta, già provata dagli sballottamenti della sparatoria e un po’vecchiotta, si staccò e lasciò liberi i suoi capelli biondi, una fiamma d’oro che bruciava contro il cielo.
I cittadini continuarono a guardarla per qualche secondo, finchè non scomparve alla vista, poi cominciarono a parlare tutti assieme.
«Pazzesco!»
«E chissà perché quel tizio ha attaccato proprio lei... dev’essere un pezzo grosso!»
«Peccato non aver visto le mostrine...»
«Forse è il Generale Armstrong.»
«Ma nooo, quella sta al nord, che ci starebbe a fare qui?»
«Io lo so chi è, l’ho vista su un giornale: è la nipote del Fuhrer, il Maggiore Riza Hawkeye.»
Mormorii d’assenso, poi il gruppo si divise: alcuni continuarono a parlare, altri se ne andarono, sempre a capannelli di tre o più persone. Tutti comunque sentivano una strana voglia di fare addosso, una necessità di impegnarsi in qualcosa.
Riza Hawkeye era fatta così: pretendeva molto dalle persone, forse troppo, ma li faceva sentire in grado di fare questo molto.
«Però» disse un ragazzo, guardando la strada con aria ispirata «che storia. E che uscita di scena. Da romanzo, vi dico, da romanzo!»
Lontano da lì, sotto la sua espressione apparentemente impassibile, Riza stava digrignando i denti. Se non l’avesse fatto probabilmente si sarebbe messa a piangere, e del centinaio di cose per cui poteva piangere avrebbe pianto perché era molto affezionata al suo fermaglio e quello adesso si era rotto, e tutto ciò era davvero troppo.
 
«Sono io.» furono le prime parole pronunciate nella cornetta del telefono.
«Alla buon ora, Jones.» la voce dall’altra parte del filo era fredda e cordiale. Stranamente, era la parte cordiale quella che faceva paura «Come mai ci hai messo così tanto?»
«Uscendo da Central mi hanno fermato a un posto di blocco e hanno fatto un mucchio di storie. Quando sono riuscito a passare era già sparita.»
«L’hai ritrovata?»
«Sì. Prima ho seguito i suoi amichetti, ma neanche loro sapevano dove fosse, perciò ho proseguito per i fatti miei.»
«E...»
Ecco, era quello il momento che Jones temeva, perciò, come fanno spesso le persone che non possono rispondere nel modo che vorrebbero, rimase in silenzio.
«Jones, Jones, Jones.» disse il suo interlocutore con uno strano tono cantilenante, facendo schioccare la lingua «Così non va. Il mio era un ordine ben preciso.»
«Sparava moltissimo.» si giustificò Jones, per poi mollare un pugno contro il pannello della cabina telefonica. “Sparava moltissimo”? Ma come gli era venuta in mente una frase così idiota?
«Lo so.» sibilò infatti l’altro, con la condiscendenza con cui chi non ha figli si rivolge ai bambini, notoriamente più stupidi degli adulti «È appunto per questo che ti ho dato un corpo del genere.»
«Mi ha ridotto a uno scolapasta e ha mancato di tanto così il Sigillo. Se lo prendeva ero fottuto! Ascolta...»
«No, ascolta tu. In vita mia ho ammazzato molta gente ma – e sono sicuro che ti sembrerà impossibile – per la maggior parte di quelle persone non ho provato altro che rispetto. Solo due categorie di persone non sopporto: i vigliacchi e quelli che non sanno fare il proprio lavoro. Tu rientri in entrambe le categorie. Come possiamo risolvere questo deprecabile fatto?»
«Piano con l’arroganza.» sputò Jones con un moto d’orgoglio «Sappiamo tutti che razza di persona sei.»
«Già.» replicò l’altro, ridacchiando divertito «Eppure avete bisogno di me. Gente come voi ne posso trovare a centinaia, io sono fuori produzione.»
«Ne hanno fatto uno e hanno capito il casino che avevano fatto.» borbottò Jones.
Il suo interlocutore lo sentì, rise di nuovo. Aveva una risata distaccata, come se dentro di sé ridesse per qualcosa che capiva solo lui e non ci fosse bisogno di farlo sapere a nessun altro, perché nessuno avrebbe compreso. Era la risata di un uomo che giocava da sempre una partita col mondo, in solitaria, divertendosi un sacco. Le altre persone... beh, erano variabili.
«Sì, si può dire così. Ma ti assicuro che ho  avuto una vita piena e soddisfacente. Ad ogni modo, tornando a qualcosa che appartiene ad entrambi... c’è qualcuno dei nostri lì nei paraggi?»
«Bernard dovrebbe essere a una ventina di chilometri da qui.»
«Bene. Raggiungilo.»
Jones avrebbe voluto non chiedere, se non altro per istinto di conservazione, ma sapeva che se quell’uomo gli aveva ordinato di uccidere la donna bionda doveva essere una cosa piuttosto importante, perciò domandò: «E... la ragazza?»
«Non angustiarti, così tanto zelo mi commuove. Hai detto che è scappata, giusto?»
Jones aggrottò le sopracciglia «Credo di sì. Ha lasciato indietro quelli che la stavano seguendo, sembravano piuttosto preoccupati.»
«Allora se siamo fortunati le cose si sistemeranno da sole, in caso contrario... me ne occuperò personalmente.»
L’uomo chiuse la comunicazione con Jones e rimase ancora qualche istante con la mano sulla cornetta.
«Ho proprio voglia di rivederti, Riza Hawkeye.» mormorò, poi si allontanò fischiettando.
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Roba dell'altro mondo ***


Ciao a tutti! Una volta tanto sono stata puntuale e ho aggiornato oggi, come avevo promesso.
Questo è stato il capitolo più difficile da scrivere, finora, forse per l'alta probabilità di cascare a piè pari nel clichè, forse perchè è pieno di dialoghi e non sapevo quali informazioni inserire qui e quali spargere in giro in seguito. Anche il prossimo capitolo sarà così, comunque ho fatto del mio meglio per movimentare la faccenda e scrivere delle scene d'azione decenti. Sono graditi i commenti, soprattutto per quanto riguarda la parte in corsivo che mi sembra abbastanza penosa. Chiedo scusa per il font tornato microbico ma ho fatto casino con l'editor.
Spero che non vi annoierete!



“Ti riconoscerò [...] dal primo passo nel corridoio. Non ti sentirò, no,
ma l’aria sospinta dal tuo gran passo di lottatrice
verrà a bussare alla mia pelle, e ti riconoscerò,
perché nessuno a questo mondo cammina come te,
così risolutamente animata dalla certezza di andare da qualche parte.”
“La Prosivendola”, Daniel Pennac

Riza Hawkeye si avvicinò alla sua vecchia casa cercando di lottare contro l’impulso di correre.
Doveva conservare le forze; aveva sulle spalle attese di una vita, un minuto in più o un minuto in meno non avrebbe cambiato nulla.
Mentre saliva sulla collina la paura e la tristezza si litigavano il primato nel suo petto. Non era mai tornata in quella casa da sola, da quando l’aveva lasciata. C’era stato sempre lui ad accompagnarla mentre varcava la soglia...
Saliva, saliva, mentre l’aria si tingeva di viola e il buio della notte spariva.
I suoi polmoni, che respiravano con fatica, furono presto invasi dal familiare profumo di erba e di rugiada, quello che sentiva quand’era bambina e si svegliava al confine tra la notte e il giorno.
Alla fine arrivò in cima e la vide. Il posto che non avrebbe mai più potuto considerare casa sua e che tuttavia rimaneva la casa della Riza bambina e poi adolescente.
Piccola, ingenua, serena Riza. Nei primi anni della sua vita forse non proprio felice, ma con i pezzi dell’anima ancora tutti al loro posto.
Riza col suo mondo in bianco e nero, prima che arrivasse Roy.
Riza immersa in un mondo a colori quando Roy era arrivato e lei aveva capito che si può osare e fare dei sogni enormi anche se si è solo umani, e che si può anche diventare la persona che si è anziché la persona che è logico essere e cominciare a vivere, insomma.
In quel periodo sì, era stata felice per davvero.
Abbracciò con un solo sguardo la villetta in rovina. Non riusciva neppure più a ricordare un tempo in cui non sembrasse un rudere in procinto di crollare. Forse quando sua madre era ancora in vita.
Quando varcò il cancello, che pendeva da un lato, quasi completamente scardinato, il cuore le si incastrò in gola.
Senza poterselo impedire, si lanciò verso la porta della casa come un assetato che in mezzo al deserto trova un’oasi.
L’erba alta quasi sembrò ritrarsi per lasciarla passare. Inciampò in una radice ma mantenne l’equilibrio e non rallentò di un secondo, e alla fine arrivò alla sua meta.
Affannata, si frugò in tasca alla ricerca delle chiavi.
Per qualche legge della natura, quando una persona cerca qualcosa che le serve subito, e magari è in ansia e ha le mani che le tremano e solo ciò che cerca potrà alleviare la sua sofferenza, invariabilmente non la trova.
Frustrata, Riza colpì lo stipite della porta con un gesto che era a metà tra un pugno e una supplica.
Il battente cigolò e si spalancò leggermente.
Riza rimase congelata con la mano ancora alzata, poi si riprese e, con una mossa decisa, aprì completamente la porta ed entrò.
L’ingresso a sala era buio e per quello che Riza poteva vedere identico a come l’aveva lasciato.
Sul pavimento polveroso risaltava una serie di impronte di scarpa che proseguivano fino alla porta della cucina.
Riza impugnò una delle sue pistole, rimproverandosi per non aver applicato prima quella regola basilare, e le seguì camminando rasente al muro e cercando di fare meno rumore possibile.
Era in casi come questi che l’aver fatto il cecchino in guerra rivelava i suoi lati positivi. Purtroppo rimanevano sempre troppo pochi.
Riza arrivò accanto alla soglia della cucina, poi fece un respiro profondo e chiuse gli occhi.
Il secondo dopo era appoggiata con le spalle allo stipite della porta della cucina e stava puntando la pistola alla schiena dell’uomo davanti a lei.
Nello stesso istante l’uomo si voltò, come se l’avesse sentita nonostante lei non avesse fatto alcun rumore, e le sorrise mentre l’alba sorgeva alle sue spalle, incorniciata nella finestra.
«Sei arrivata, Maggiore.»
«Generale» sospirò Riza, e sembrò che liberasse tutto il respiro che aveva trattenuto nel giorno precedente. Poi, sentendo le gambe cedere, scivolò a terra, con la schiena appoggiata allo stipite della porta.
Roy Mustang le si avvicinò e si sedette sul pavimento di fronte a lei con le gambe incrociate.
«Lei» disse Riza, con una mano sulla fronte a nasconderle gli occhi, un po’come se stesse pensando, un po’come se si stesse proteggendo «è senza dubbio il più grande idiota che abbia mai calpestato la faccia della terra.»
«Anch’io sono contento di vedere che sei viva.»
«Risparmi il sarcasmo e si faccia un esame di coscienza mentre mi racconta che cos’è successo. Perché non mi ha permesso di venire con lei al Tribunale?»
«Non essere sciocca, era questione di un attimo...»
«Lei inventa i suoi piani strampalati senza dire niente a nessuno per farsi dire che erano geniali quando tutto è compiuto. Questa sua mania di teatralità è pericolosa.»
«Andiamo, Maggiore, ti ho sempre detto tutto. Come facevo a sapere che il Tribunale sarebbe esploso? Anzi, col senno di poi sono contento di non averti portato con me.»
«Avrebbe almeno potuto avvertirmi.»
«Ti ho avvertito.» la contraddisse Roy, ma senza durezza.
«Signore, lei non mi ha avvertita, ha cercato di farmi capire che era vivo, il che se mi permette è ben diverso. Mi ha fatto preoccupare a morte.» la voce, che fino a quel momento si era mantenuta salda, le si spezzò sull’ultima parola «Letteralmente.»
Roy scostò la mano che le copriva gli occhi prendendola delicatamente per il polso.
«Di nuovo, Maggiore?»
Lei si limitò a guardarlo negli occhi, in silenzio.
Roy sospirò «Finisco sempre per doverti delle scuse, non è vero?» lasciò la presa sulla mano di Riza. Non osava trattenerla oltre. «Mi chiedo per quanto ancora potrai perdonarmi.»
«Per quello di cui si scusa» rispose Riza, rendendosi conto che il Generale non stava parlando della sua fuga «è più esatto dire che non ce l’ho mai avuta con lei, e vorrei che anche lei la smettesse di avercela con sé stesso.»
La giovane si sollevò e tese un braccio a Roy.
«Si alzi. Non è molto decoroso per un Generale stare seduto su un pavimento sporco.»
Forse nessun altro l’avrebbe notato, tanto era impercettibile, ma Roy avrebbe giurato che le labbra di Riza fossero incurvate in un leggero sorriso.

Roy sentiva che la corda era ormai al suo limite, diede un ultimo strattone per liberarsi e con lo stesso slancio col quale si era staccato dagli scaffali corse nel corridoio, mentre infilava una mano nella tasca della giacca e si metteva un altro guanto. Da quando aveva affrontato Lust ne portava sempre con sé uno di riserva.
Quando capì che l’onda d’urto stava arrivando, non ebbe il tempo per riflettere.
Batté le mani e le appoggiò al suolo, la sua mente una zuppa di pensieri senza capo né coda con un solo punto fermo: doveva uscire di lì vivo.
E intanto una piccola zona del suo cervello si concentrava sugli elementi che lo circondavano, calcolava, scomponeva, ricomponeva, quasi automaticamente.
Quando la potenza dell’esplosione si schiantò contro il muro d’aria che lui stesso aveva creato sentì che gli si mozzava il fiato. Non provava una sensazione del genere dal giorno in cui aveva combattuto contro il Padre, così tanti anni prima.
Ma adesso non era cieco, e vedeva l’edificio sgretolarsi attorno a lui e implodere su sé stesso.
Sentendo la pressione attorno a lui allentarsi, capì che l’onda d’urto era passata e batté nuovamente le mani mentre il terreno sotto di lui cedeva e lui precipitava e rotolava verso il basso, o forse verso una direzione qualunque.
Non c’era più alcun punto di riferimento.
Stava per morire lasciando dietro di sé un disastro. Per un attimo questa certezza gli si piantò nel cuore come un ago ghiacciato, poi riuscì a toccare il pavimento – o meglio quello che ne rimaneva, ovvero una valanga di detriti – e sentì la materia che lo circondava fremere come attraversata da una scossa elettrica.
Rovinò sul suolo ora stabile e senza neanche prendersi il tempo per respirare schioccò le dita.
Sopra di lui e tutt’attorno il fuoco divorò ogni cosa, e Roy si rese conto che se non avesse agito in quel momento i calcinacci ora ridotti in cenere gli avrebbero aperto la testa come un cocomero.
Adesso doveva solo correre.
Si lanciò dalla parte opposta rispetto a quella da dove era arrivata la detonazione, mentre tutto continuava a frammentarsi e a cadere.
Se Roy avesse dovuto inventarsi la fine del mondo, era certo che l’avrebbe descritta così, con la confusione tra alto e basso, tra sinistra e destra, come in un gioco di illusioni ottiche, le cose che non erano più tali, che non erano più niente a parte segni della distruzione in atto e il fuoco – il suo stesso fuoco che si mescolava con quelli provocati dalla bomba– che bruciava gli ostacoli sul suo cammino e continuava ad ardere dopo che lui se n’era andato.
E poi quel suono che si sentiva in gola, a metà tra un urlo e un ringhio.
Sarebbe uscito da lì a tutti i costi.
Bloccò una parete che stava per crollargli addosso, ridusse in frantumi un’enorme sezione di soffitto che era precipitata sul suo percorso e la vide. Una porzione dell’edificio ancora in piedi.
Era come se una gigantesca bocca avesse strappato via a morsi parte del palazzo. Quello che rimaneva erano corridoi che non portavano da nessuna parte, porte che si aprivano sul nulla, scale che si interrompevano a mezz’aria.
Roy aveva già assistito ad una scena del genere. La guerra, il giorno in cui avevano catturato Gluttony... la lista era infinita.
Per qualche strano motivo, in ogni nuova disgrazia c’è sempre qualcosa che ricorda quelle passate. Corsi e ricorsi storici, si potrebbe dire.
Roy si arrampicò sui resti dei muri fino a raggiungere il primo pianerottolo ancora in piedi. Si issò a fatica, facendo forza con le braccia e avvertendo un forte dolore alle mani.
Fu solo quando si fu assicurato che il posto dov’era non dava segni di crollare che permise ai muscoli di rilassarsi e a sé stesso di guardare indietro.
Metà del Tribunale Militare era ridotto in briciole.
L’adrenalina lasciò il posto al ragionamento lucido, mentre Roy guardava quella distesa di calcinacci, polverosa e inerte, cercando di capire che cosa bisognava fare.
Doveva trovare il modo di allontanarsi da lì senza dare nell’occhio. I terroristi sicuramente erano ancora nei paraggi ed era meglio non affrontarli a viso aperto in quelle condizioni.
Doveva avvertire immediatamente il Comandante Supremo; se fosse morto chi avrebbe potuto farlo?
Un pensiero improvviso lo colpì.
Considerato con chi avevano a che fare, sarebbe bastato conoscere il suo obiettivo per fermarlo? Bastava che una cosa andasse storta, una cosa qualsiasi, e avrebbe vinto lui.
Se fosse morto? No, lui, Roy Mustang, doveva morire lì. Subito.
Si guardò attorno, certo che avrebbe trovato quello che stava cercando, finchè non lo vide. Un corpo.
Era accasciato tra le macerie come un pupazzo dimenticato sul palco alla fine dello spettacolo, e gran parte di lui era coperta dai resti del tetto.
Doveva essersi trovato all’ultimo piano del Tribunale quando era avvenuto l’attentato.
Roy scese dal suo rifugio il più velocemente possibile. Anche se c’era una minima possibilità che l’uomo fosse ancora vivo doveva andare a controllare.
Cercò di non esporsi camminando rasente alla base di un muro che era rimasta in piedi, ma non dovette avanzare granché perché per fortuna l’uomo non era molto lontano.
Gli tastò il polso. Era troppo tardi, come aveva immaginato.
Era stato meschino da parte sua sperare di trovare un morto tra le rovine. No, con un’esplosione del genere era più esatto dire che aveva sperato di trovare uno dei mortisicuramente sepolti là sotto.
Ma davanti a un cadavere non c’era utilitarismo che tenesse: dopo tanti anni provava ancora pietà. E rabbia, sì, per i morti ammazzati, come sempre.
Tolse la giacca della divisa all’uomo – senza gradi, doveva essere un inserviente – e la scambiò con la sua.
Poi si imbrattò i capelli con la calce e la polvere e si passò un polso sulla guancia sinistra, lasciandovi una scia di sangue.
tastò le tasche dei pantaloni e della sua giacca alla ricerca di qualcosa che potesse servirgli o, al contrario, fosse necessaria al suo riconoscimento. Ovvio, l’orologio.
Avrebbe voluto fare in modo che gli altri capissero che era vivo ma che dovevano comportarsi come se fosse morto, ma non c’era tempo. I soccorsi stavano arrivando, lo capiva dalle urla che sentiva oltre quel deserto di detriti.
Disegnò un piccolo cerchio alchemico sulla cassa del suo orologio da alchimista con il misto di sangue e polvere che aveva sulle dita. L’argento si spostò come se volesse mettersi da parte, rivelando un sottilissimo doppio fondo.
Roy inclinò l’orologio e ne fece uscire un piccolo oggetto, che mise in tasca.
Almeno il Maggiore bisognava che sapesse...
Fatta questa operazione, sigillò l’orologio con l’alchimia e si allontanò dal corpo di qualche passo.
«Mi dispiace.» disse, fissandolo per un lungo attimo come se volesse imprimerselo bene in mente.
Poi schioccò le dita.

«Signore, ha bisogno d’aiuto?» gridò da lontano un uomo dall’aria sconvolta che andava in direzione del Tribunale, vedendo Roy allontanarsi barcollante dalle macerie.
«No, no, sto bene.» disse lui di rimando, tenendo la giacca della divisa in modo che coprisse metà della sua faccia, all’apparenza per fermare un’emorragia, in realtà per non farsi riconoscere «Riesco ad arrivare da solo in ospedale. Piuttosto, occupatevi di quelli che sono ancora là sotto.»
L’uomo fece cenno di avere inteso e continuò per la sua strada.
Roy naturalmente non aveva alcuna intenzione di finire in ospedale, se poteva evitarlo.
Si diresse invece dove aveva lasciato la sua macchina, benedicendosi per averla parcheggiata a due traverse da lì.
Almeno non aveva subito danni.
Quando arrivò davanti alla casa del dottor Knox il sangue che aveva addosso si era rappreso, e la calce mescolata al sudore aveva formato uno strano impasto. Non doveva avere un bell’aspetto.
Bussò alla porta e sentì dei passi all’interno della casa, un tonfo e un’imprecazione, poi l’uscio si aprì.
Prima che Roy avesse tempo di fare qualunque cosa, il dottor Knox apparve sulla soglia come un bizzarro totem con la sigaretta in bocca e disse, dopo averlo squadrato con occhio critico: «Ti fai sempre vivo quando sei nei guai, eh, Mustang?»
«Da cosa lo deduci?» replicò il giovane Generale, ironico, facendo il suo ingresso nella villetta.
«Di cos’ha bisogno, Sua Somma Altezza? Devo falsificare un’altra autopsia?»
«Precisamente.»
«Uh. Chi è il fortunato cadavere, stavolta?»
«Il sottoscritto.»
«Ma che diavolo è successo?» domandò il dottore. Poi sembrò riconsiderare quello che aveva detto e ritrattò «Anzi, no. Non ne voglio sapere nulla di questa storia.»
«Tanto ci finirai dentro comunque. Ti conosco.» replicò Roy, ridacchiando.
Knox fece un verso a metà tra uno “gné” e un “mhmh”che Roy classificò come borbottio.
«C’è stato un attentato al tribunale militare, e indovina chi c’è dietro...»
«Alt! Non voglio sapere nient’altro, t’ho detto!» esclamò il dottore, premendosi le mani sulle orecchie.
Ma riuscì comunque a leggere il nome sulle labbra di Roy e impallidì.
«Cosa? Ma lui...» farfugliò, con la sigaretta che gli era d’intralcio ad esprimere il suo sgomento e gli percorreva la bocca come una trottola impazzita.
«Lo so. Però puoi credermi, l’ho visto io stesso... e ci ho quasi rimesso la pelle.»
«Si vede.» commentò Knox «Per aver messo in difficoltà l’Alchimista di Fuoco doveva avere con sé un plotone.» fece pungente.
«Sono stato preso alle spalle.» ribatté Roy, stizzito.
«Veniamo al dunque. A che ti serve morire?»
«Allora vedi che sei curioso!» scherzò Roy, poi tornò serio «Quell’uomo mi vuole morto, e ho intenzione di accontentarlo. Superfluo dire che c’è lui dietro a tutti gli attentati. Voglio sapere che cosa vuole e come fermarlo, e per farlo al meglio devo raggiungere i suoi obiettivi prima di lui, muovendomi con più libertà possibile.»
«I morti non sono liberi. Sono morti.» disse Knox con semplicità, facendo spallucce come a significare che si trattava di una cosa ovvia.
«Se quello che faccio non ti interessa devi anche astenerti dal darmi consigli.» lo ammonì Roy.
«Ma io ti sto facendo un favore, e dunque ne ho tutto il diritto.» sbuffò, grattandosi la nuca con la mano destra «Falsificare la tua dichiarazione di decesso, che idea...»
«Di questo passo la tua fama crollerà miseramente.» disse Roy, con una sfumatura divertita nella voce.
«Umph. Se avessi ancora uno straccio di etica professionale ti avrei già mandato al diavolo.»
«Io non mi riferivo alla tua reputazione di medico, ma a quella di uomo che pensa solo per sé. Fai tante storie ma alla fine dai sempre una mano.»
«Questo è il tuo modo contorto per dirmi grazie?» il dottore piantò il suo sguardo negli occhi di chi, gli costava ammetterlo, considerava un compagno e un amico «Recitiamo tutti una parte, Mustang. E quella ci si cuce addosso e ci protegge.»
Roy scrollò le spalle, indifferente.
«Spero che tu mi abbia messo nelle condizioni di coprirti.» continuò Knox.
«Ho bruciato il corpo di un poveraccio che è morto nell’esplosione, ma non ho avuto il tempo di curarmi delle impronte dentali.»
«A quelle penso io.» intervenne il dottore, mostrandosi esasperato dal lavoro in più che gli toccava fare «Ho sempre un calco delle tue.»
«Visto che è meglio essere previdenti?»
«No, è che con te non si può mai sapere.»
Solo in quel momento Roy notò che la casa era decisamente più ordinata dall’ultima volta che ci era stato.
«Cos’è successo qui? È passato un uragano e ha messo a posto per pietà?»
«Nah, è tornata la mia famiglia.» a quelle parole, qualcosa nel volto del dottore cambiò. Per un attimo, fu come se avesse qualche ruga e qualche dolore di meno.
Roy Mustang se ne intendeva di sguardi; viveva di sguardi da anni, dopotutto. E avrebbe giurato che in fondo a quello di Knox ci fosse la felicità.
Non ci fu niente da dire, ci fu solo da sorridere.
«Sai Mustang?» esordì Knox schiarendosi la gola, dopo quell’attimo di silenzio «Dovresti pensare a mettere su casa anche tu.»
«Al momento ho troppe cose sull’agenda.» il suo sguardo si spostò sull’orologio della stanza «A proposito, è l’ora che io vada, ho già perso troppo tempo.»
«Fatti almeno medicare le mani.» lo fermò il dottore, burbero «Stai sanguinando e sei ridotto a uno straccio, dovresti riposare.»
«Ho un appuntamento con una persona» disse Roy, voltandosi e incamminandosi verso la porta «e non posso mancare. Non è mia abitudine far aspettare le belle ragazze.»
Quando posò la mano sulla maniglia, si bloccò e si girò nuovamente verso il dottore «Ho bisogno anche di un’altra cosa. So che non vuoi essere coinvolto, ma il Comandante Supremo deve sapere che cosa sta succedendo. Digli che i terroristi si camuffano per sembrare di varie etnie, ma che probabilmente sono tutti di Amestris. E ovviamente, che dietro c’è lui.»
«E che tu non sei morto.»
«Quello sarò in grado di farglielo sapere io. Massima discrezione, prima di metterti in contatto con Grumman aspetta che si calmino le acque e fai in modo che meno gente possibile noti i tuoi movimenti. Alcuni dei nostri nemici potrebbero essere membri dell’esercito.»
«Ancora?» si lamentò Knox «Certo che in questo esercito c’è un tasso di criminalità più alta che nei bassifondi di Central.»
«Già, è per questo che sono ancora qua.»
Knox non capì se si riferisse al fatto che non era ancora stato cacciato dall’esercito grazie alla corruzione che vi regnava o al fatto che aveva intenzione di cambiarlo dall’interno e per questo non lo abbandonava. Entrambe le cose, probabilmente.
«Bene, allora tolgo il disturbo.» fece Roy, aprendo la porta «Grazie.» concluse senza voltarsi, sparendo contro il sole estivo.
Il dottor Knox lo guardò allontanarsi sulla macchina, mentre lui rimaneva sulla soglia.
«Sempre il solito, Mustang, metti nei guai gli altri e nemmeno te ne accorgi.»

«Allora, Signore?» Riza aveva messo su il the e aveva spedito Roy a prendere la cassetta del pronto soccorso.
Adesso gli stava medicando le ferite alle mani con lo stesso fare esperto con cui maneggiava le sue pistole.
“Prima il disinfettante, poi la garza e poi...” si diceva mentalmente, concentrata.
«Ahi!» fece per tutta risposta Roy, ritirando la mano.
«Non faccia il bambino, Generale.» lo redarguì Riza, piegando la bocca in una linea dura.
«Ma quel liquido brucia!» si lamentò l’uomo.
Riza chiuse gli occhi e sospirò. Certe cose non sarebbero mai cambiate neppure dopo ere geologiche, figuriamoci dopo quasi vent’anni, una guerra, un colpo di stato, la quasi fine del mondo e qualche sparatoria.
«Non ha risposto alla mia domanda.» disse la giovane, cercando di distrarlo mentre riprendeva la medicazione.
«Vedi» iniziò Roy, senza curarsi di nascondere, anzi esagerando una smorfia di dolore «l’idea mi è venuta quando tu hai detto che i terroristi non avrebbero ottenuto altro che alimentare l’odio nei confronti della loro gente.»
«L’avevo intuito.»
«C’è moltissima gente alla quale la nuova politica sincretista non sta bene. Nazionalisti. Mi sono detto che i più fanatici tra di loro, una volta trovato un punto di riferimento e stabilito un piano d’azione, non avrebbero esitato a compiere atti del genere.»
«Quando se n’è andato via l’ho pensato anch’io, ma ancora non ho capito perché è andato a controllare negli archivi.» commentò Riza, togliendo il bollitore che già fischiava dal fuoco e versando il the nelle tazze.
Ne porse una a Roy, mentre lei si sistemava non lontano da lui, appoggiata al piano della cucina, in attesa.
Roy chinò la testa, giocherellando con il liquido scuro, con la vaga speranza di poterci raccogliere dentro i suoi pensieri, rimescolarli e magari trasformarli in buone notizie, una volta tanto.
«Dal momento in cui ho visto la foto sul giornale, non sono riuscito a liberarmi della sensazione che fosse così... e avevo ragione.» esordì, poi sollevò lo sguardo e lo piantò in quello di Riza, l’unica persona al mondo che avrebbe capito. Perché erano gli ultimi due sulla faccia della terra, gli ultimi due a vedere in quel nome il profilo di un ricordo tracciato col sangue. Erano una specie che, purtroppo o per fortuna, si stava estinguendo.
«Dietro a tutto questo» la guardava, Roy, la guardava con insistenza come se lei potesse indovinare la risposta senza che lui gliela dicesse «c’è Zolf J. Kimbley.»





NOTE di Fine capitolo (che bello, le mie prime note di fine capitolo!): Ecco qui le sorprese di cui vi parlavo *tutti la guardano male. Avevano già capito da un pezzo* E così Roy è tornato e da ora in avanti si entra nel vivo. Il titolo del capitolo è ovvio, credo, si riferisce semplicemente del ritorno dall'altro mondo di due persone che in teoria dovevano stare di là. Rileggendo quello che ho scritto mi sono resa conto che nella parte in corsivo si parla sempre di cibo. Zuppa... cocomero... bocca... briciole...avrò avuto fame, che vi devo dire. Mi scuso perchè così il tutto assume un sapore tragicomico.
Alla prossima!





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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Era solo suggestione ***


Scusate tutti per l'immenso ritardo. Posso dirvi che, anche se suona come una scusa stupida, non è stata colpa mia ma del caricabatterie del mio computer, che ha avuto la bella idea di fulminarsi. Nel momento in cui ho visto il monitor spegnersi ho iniziato a gridare frasi sconnesse come "tu quoque" o "vile, occhio di cane e cuore di cervo". Fare il classico fa male, ve lo dico io. Le mie sorelle stavano ponderando l'idea di mandarmi al manicomio, per fortuna dopo qualche giorno mio papà, che saprebbe aggiustare persino la luna casomai smettesse di funzionare, l'ha rimesso a posto. E dopo questo breve siparietto di scuse, vado alle note.

NOTE: Ho editato il capitolo quattro.
Stavo rimuginando sul fatto di raccontarvi qualche mia idiozia letteraria, come quella volta in cui ho scritto di una bici che spariva e compariva ad intermittenza (no, la storia non era così, semplicemente la mia somma intelligenza mi faceva dimenticare una riga sì e una no di aver dotato il mio personaggio di un mezzo di locomozione) quando mi sono resa conto di quello che avevo combinato nel capitolo 4.
Il povero terrorista non se ne è reso conto, ma è scappato su una macchina molto particolare: una macchina col dono dell'ubiquità.
Infatti, mentre il terrorista con auto annessa se ne andava, Riza rimaneva sul luogo della sparatoria a fissare l'automobile suddetta. Come potrete facilmente intuire questo è un problema. Ora per fortuna ho sistemato tutto (spero) compresi un paio di altri errori che avevo seminato in giro. Non riesco invece a liberarmi degli errori come lettere mancanti e parole attaccate tra di loro: ho controllato il mio documento word ed è corretto, ne deduco che il guaio è che non so usare l'editor o che un verme disicio infesta queste schermate (cit. da Stefano Benni).
Comunque dopo questo buco logico grosso come un campo da tennis ho capito di avere una relazione complcata con i mezzi di trasporto.
La prossima volta, per la vostra gioia, sarò più prolissa nei miei interventi, ma adesso mi sento eccessivamente miracolata per aver rivisto acceso il mio computer, non vorrei che si spegnesse in questo istante.
Per quanto riguarda il capitolo che avete davanti, è il più brutto e inutile che io abbia mai scritto finora. Per farmi perdonare di questo, del ritardo e degli errori che ho fatto, prima del prossimo aggiornamento (22 agosto, salute del computer permettendo) pubblicherò una one-shot che ho tradotto e che spero vi piaccia.
Ecco a voi il turpe capitolo! Chiedete pure per eventuali perplessità/chiarimenti, ecc...






  
“Venga per un momento la fitta del suo nome
la goccia stillante del suo nome
stilato in lettere chiare su quel muro rovente
[...]
quando il deserto ricomincia a vivere
ci rilancia quel nome in un lungo brivido.”
                                             “Rimbaud”, Vittorio Sereni
 
La tazza vacillò nelle mani di Riza, ma non cadde. La sua proprietaria era troppo brava a mantenere il controllo di sé perché questo succedesse.
Non domandò al Generale se ne era sicuro, né ribadì che quell’uomo era morto – morto, capito? -né iniziò a balbettare. Semplicemente disse: «Come ha fatto a tornare?»
Roy riconobbe i segni di una dolorosa sorpresa sul volto della donna. Erano impercettibili, ma lui li vedeva: gli occhi leggermente più spalancati del normale, la bocca contratta per inghiottire un’esclamazione di sgomento. E Roy sapeva che si stava trattenendo perché lui, oltre al peso dei propri ricordi, non dovesse portare anche quello dei suoi.
«È quello che mi sto chiedendo anch’io. Sono andato al tribunale militare per dare un occhiata al verbale sulla sua morte, ma solo per liberarmi di quello che consideravo un assurdo sospetto.» indugiò, cercando distrattamente di mettere bilico il cucchiaino sul dito indice. Un giochetto che non gli riusciva mai «È per questo che non ti ho portato con me.» disse infine «Speravo fosse una mia fantasia.»
“E non volevo farti pagare con l’angoscia una mia idea bislacca”, queste erano le parole non dette.
«Quando l’ho incontrato al Tribunale ero più stupito io di aver indovinato di lui.» continuò Roy, ridacchiando amaro «Nonostante tutto avevo già una sorta di opinione su come avesse fatto a sopravvivere.»
«Ah, i suoi libri di alchimia!» fece Riza, ricordandosene «Ovviamente non ho... fatto in tempo a portarli con me, ma...»
«...Ma qui ci dovrebbero essere le mie vecchie copie.» concluse Mustang per lei.
«Qual è il piano, Generale?»
Roy sorrise. Capiva tutto, Riza, e sapeva che se lui aveva pensato che fosse meglio fingersi morto doveva esserci un motivo.
«Abbiamo a che fare con persone che lottano per una causa. Una causa schifosa, potrei aggiungere, ma una causa.»
«Sono le più pericolose.» considerò Riza «Sono più tenaci di chi lotta per potere o per denaro.»
Loro per primi lo sapevano, perché facevano parte di quella categoria un po’speciale di persone disposte a tutto per realizzare il loro sogno. Solo che, al contrario che nelle favole, lì dentro non c’era solo brava gente che cantava con gli uccellini e riempiva il mondo di cuori. A volte anche i sogni sono ombre.
«Esatto. Tuttavia Kimbley non condivide il loro ideale. Non credo neppure che ne abbia uno, in effetti.»
Riza annuì. Questo significava che collaboravano per interesse.
«Kimbley ha un altro obiettivo, dunque.»
«Probabile, ma al momento non possiamo sapere quale sia.» il Generale fece una pausa «Sono piuttosto sicuro, invece, di sapere a cosa mirino i terroristi. Cosa faresti al posto loro, dopo aver creato sufficiente panico nella popolazione?»
Riza capì dove voleva arrivare «Mi sbarazzerei delle persone che portano avanti la politica attuale, della classe dirigente. La popolazione, presa dalla paura, si affiderebbe alla mia fazione, quella che la tutela dalla minaccia straniera...»
«E tu avresti raggiunto il tuo scopo. Precisamente.»
Riza aggrottò le sopracciglia «Perciò i probabili obiettivi siete lei...»
«Ricordati che io sono morto.» la contraddisse Roy.
«Il Generale Armstrong e il Comandante Supremo. Oltre al Congresso.»
Roy sbuffò: «Il Congresso conta meno di un cens. Se i nazionalisti gli chiedono il potere una volta eliminate tutte le personalità politiche glielo daranno senza pensarci due volte e con tante scuse per l’attesa.»
Riza si morse il labbro. Era vero, il governo era troppo debole per costituire un reale ostacolo per i terroristi.
«Allora dobbiamo mettere al sicuro il Generale e il Comandante prima che sia troppo tardi.»
«E nel frattempo cercare di ottenere più informazioni possibili sui nostri nemici. Se riuscissimo a dimostrare alla popolazione la loro reale identità e le loro intenzioni perderebbero credibilità.»
Riza rimase qualche secondo in silenzio, ponderando tutte le implicazioni «Ci sarà molto lavoro da fare.» constatò infine.
«Ho paura di sì.» disse Roy, mettendosi le mani dietro alla testa e dondolandosi sulla sedia «La nostra priorità adesso è radunare degli alleati validi, ma che siano pochi per poter passare inosservati. Uomini scelti, insomma. Non possiamo permetterci di allarmare i terroristi, visto che non sappiamo ancora nulla di loro.»
«Sono d’accordo, Signore, ma quanto tempo pensa che avremo prima del prossimo attentato?»
«Non lo so.» sospirò il Generale «Non abbiamo modo di sapere quando colpiranno la prossima volta. Temo che i loro obiettivi siano del tutto casuali: il miglior piano possibile per non far prevedere le proprie mosse è non avere un piano.»
«Generale» iniziò Riza con estrema lentezza, come se il solo dire quelle parole le costasse moltissimo «credo che per il momento dovremmo concentrarci sugli obiettivi che sappiamo certi. Altrimenti rischiamo di non concludere niente e di fare il loro gioco.»
«Lo so. Ma lasciare la popolazione in balia di persone che non si farebbero scrupoli a farle saltare in aria da un momento all’altro...» lasciò la frase in sospeso «Hai ragione tu. Non possiamo agire diversamente.»
«Forse strada facendo capiremo qualcosa di più sul loro conto e potremo prevenire le loro azioni.» fece Riza, incoraggiante.
Roy annuì, poi il suo sguardo si fermò sulla giovane, sul suo viso stanco. Era così pallida che la sua pelle sembrava quasi trasparente, e le occhiaie le sottolineavano gli occhi come a molte donne della sua età faceva la matita.
«Dovresti andare a letto, Maggiore.» affermò con decisione l’uomo. Poi, vedendo che Riza apriva la bocca per protestare, si corresse: «Anzi, no. Ti ordino di andare a letto.»
«Solo se va a riposarsi anche lei, Signore.» ritrattò lei «Per essere arrivato qui prima di me e aver avuto il tempo di prendere del cibo e di lavarsi, deve aver guidato senza fermarsi un secondo.»
«Proprio così.» fece Roy con orgoglio, ma senza accennare a muoversi. Andava fiero di quando dimostrava la sua abnegazione, forse perché nell’opinione comune non c’era persona meno seria di lui. Una facciata attentamente costruita, per la quale però lui stesso provava spesso disgusto.
«Allora a dormire, Signore.» fece la giovane, con una mano sul fianco e l’altra che indicava la porta «La sua testardaggine non è produttiva.»
Attraversarono la sala in silenzio. Quel posto era pieno più di ricordi che di polvere.
Arrivati in cima alle scale si fermarono: la stanza di Riza era a destra, quella di Roy a sinistra. Le loro vecchie camere.
Esitarono sulle soglie, guardandosi.
«Buonanotte, Generale.» disse infine Riza.
«Buonanotte, Maggiore.»
 
Riza si svegliò dopo poche ore. Era abituata a concedersi il minimo di sonno possibile, perciò si sentiva perfettamente riposata.
Rimase qualche secondo nel letto a fissare il soffitto, e per un attimo fu come se non si fosse mai mossa da lì. Come se la Riza del passato e la Riza del presente, e forse anche quella del futuro, si fossero fuse nella donna che ora stava immobile a respirare l’aria viziata della stanza.
Un sottile panico si insinuò in lei. Il vago terrore di essere bloccata lì, di non essersene mai andata da lì si fece strada nella sua mente, dandole la sensazione di soffocare.
Intrappolata in quella casa per sempre. Una cosa che segretamente aveva temuto da quando aveva cominciato a percepire lo stato di immobilità che regnava tra quelle mura, nei silenzi di suo padre, nell’assenza di un giorno dopo che fosse diverso da quello prima.
Poi si riscosse, si ricordò chi era. E sorrise, perché anche se spesso si disprezzava e aveva sofferto era comunque andata avanti, e non apparteneva più a quel luogo da molto tempo.
Si alzò, perché Riza raramente riusciva a rimanere a lungo senza fare niente, aprì la finestra e si bagnò nel sole. Mai più quell’atmosfera opprimente, da nessuna parte.
Scese le scale con uno strano, stupido senso di leggerezza nel cuore e un’espressione severa sul volto, come se stesse sgridando sé stessa per quel sentimento così fuori luogo.
Arrivata sulla soglia della cucina si fermò. I tratti del suo viso si addolcirono, mentre guardava il suo Generale chino sui libri, con la fronte aggrottata parzialmente nascosta da un ciuffo di capelli neri. E Riza si disse che non tutte le cose dovevano per forza mutare, che i bei ricordi valeva la pena di ritrovarli a specchiarsi nel presente.
Roy era talmente concentrato su quello che stava leggendo da non rendersi subito conto dello sguardo della giovane, la quale non fece nulla per rendere nota la sua presenza.
Solo dopo un paio di minuti Roy si rese conto di essere osservato e sollevò la testa per incontrare il leggero sorriso di Riza.
«Che c’è?» domandò divertito, mentre lei tornava seria.
«Niente di particolare, Signore.» rispose Riza, composta, come se stesse facendo rapporto «Pensavo solo che la sua espressione quando studia non è cambiata.»
Roy fece uno sbuffo che somigliava a una risata e le fece cenno di avvicinarsi.
«Di cosa si tratta?» domandò Riza, sedendosi a quella che giudicava una distanza dignitosa. Roy scrollò la testa: la definizione di “distanza dignitosa” di Riza e la sua non coincidevano.
«Sto cercando di capire come ha fatto Kimbley a sopravvivere e a trovarsi un nuovo corpo.» il cipiglio di Roy si fece ancora più corrucciato «Non era semplicemente travestito. Quel corpo non era il suo... pensa, proprio lui passare per uno di Ishbal.»
Riza aggrottò le sopracciglia «Mentre venivo qui sono stata attaccata da uno dei terroristi. Anche lui sembrava un Ishbalan , e per quante volte lo colpissi non moriva. Non ha versato neppure una goccia di sangue.» si guardò le mani, che teneva unite sul tavolo. «Ho pensato ad Alphonse.»
Roy la guardò allarmato «Come hai fatto a liberarti di lui?»
«Ad un certo punto l’ho colpito al collo e lui è scappato. Si è dileguato prima che potessi fermarlo.»
«Il Sigillo...» rifletté Roy «Alphonse, Barry e tutti quelli come loro ne hanno uno. Quello è un uomo la cui anima è stata legata a un corpo diverso dal suo. Devi essere arrivata molto vicino al suo sigillo di sangue, e questo l’ha spaventato.»
«Signore, c’è una cosa che non capisco.»
«Dimmi.»
«È evidente che c’è più di una persona in un corpo che non gli appartiene. Ma trasferire l’anima di un essere umano in un qualsiasi oggetto è pur sempre una trasmutazione umana.»
«Se Kimbley ne avesse fatta una ora non sarebbe tutto intero.» confermò il Generale «È per questo che credo che abbia una pietra filosofale.»
«Di nuovo quella maledetta pietra?!» sbottò Riza, poi si morse il labbro e abbassò gli occhi. Era grazie alla pietra in questione se il suo superiore aveva riacquistato la vista.
Roy intuì cosa stava passando per la testa della donna e replicò a quello che lei non aveva detto: «Nessun ripensamento, Maggiore, è proprio una maledettissima pietra.»
«Ma come ha fatto?» mormorò Riza «Non solo è sopravvissuto, ma è anche tornato con una di...quelle cose.»
«Come sai, l’alchimia si basa sul principio dello scambio equivalente.»
Riza annuì.
«Ma il principio dello scambio equivalente si basa a sua volta sulla legge fondamentale della scienza: il principio di conservazione dell’energia.»
«Lo conosco. L’ho studiato quando andavo a scuola.» disse Riza, quasi con un certo entusiasmo. Poi arrossì impercettibilmente, rendendosi conto di aver detto una cosa stupida e di nessuna rilevanza.
Roy ridacchiò tra sé e sé. Era divertente quando Riza scordava per un attimo di essere un soldato e tornava la ragazzina che non aveva potuto essere.
«Secondo questo principio» continuò l’uomo «le cose possono trasformarsi, ma mai essere distrutte. Ogni cosa è energia, l’energia cambia forma e la pietra filosofale è energia allo stato puro.»
«Il rapporto sulla morte di Kimbley!» ricordò improvvisamente Riza, capendo finalmente perché mustang fosse andato a controllare l’archivio del tribunale «Edward ha dichiarato di aver distrutto la pietra filosofale di Selim Bradley...»
«...Dentro alla quale c’era anche Kimbley, esatto. Visto che la pietra filosofale non può essere finita nel nulla, o sì è trasformata in qualcos’altro oppure è rimasta lì, come una sorta di energia latente, nei sotterranei.»
«Ma da lì a dire che Kimbley è riuscito a tornare in vita...» obiettò Riza, scettica.
«Manca ancora qualcosa.» ammise Roy «È per questo che, visto che con un po’di fortuna abbiamo ancora qualche giorno, la nostra prossima mossa sarà andare a cercare il più grande esperto di Trasmutazione Umana di Amestris.»
«Si riferisce a Edward?»
«Già.» sospirò Roy «Detesto doverlo dire, ma abbiamo bisogno del piccoletto cromato.» la sua espressione però era allegra, e Riza fece un sorrisetto.
«Non appena lo saprà si monterà la testa, non è vero?» disse con una certa nostalgia.
«Puoi dirlo forte.» erano contenti di rivederlo. Si è sempre contenti di ritrovare un compagno con cui si è rischiata la vita, è un modo per dirsi “noi c’eravamo” ma anche per sentirsi un po’più presenti nel mondo.
«La nostra meta è Resembool.» disse Roy «E non dobbiamo farci riconoscere. È per questo che prima di arrivare qui mi sono fermato in un certo nascondiglio alla periferia di Central e ho preso un paio di cose.»
Tirò fuori da un sacchetto di plastica una serie di confezioni di tintura per capelli, qualche foglio e un pacchettino anonimo che Riza non riuscì a identificare.
«Cos’è questo?» chiese, prendendolo in mano.
«Mi sembra che si chiamino “lenti a contatto”» disse Roy con malcelata fierezza, come se anche il solo pronunciarne il nome fosse stata una prodezza.
«E che roba è?» fece Riza, per nulla impressionata.
«Un prototipo che hanno sviluppato nei laboratori di Briggs. Serve per cambiare il colore degli occhi.»
«E il Generale Armstrong gliel’ha dato senza fare storie?» la frase di Riza non esprimeva solo incredulità, era praticamente un periodo ipotetico dell’irrealtà.
«Ah, le avrebbe fatte, se io non l’avessi convinta con calcolate mosse di tenere in maniera quasi patologica al mio accendino, al che lei ha voluto appropriarsene immediatamente – con un certo sadismo, vorrei aggiungere – in cambio di questo.» indicò il pacchetto sul tavolo.
«Ma lei non ha un accendino, Signore.» puntualizzò Riza, confusa.
«Infatti era del Tenente Havoc.»
«Oh.»
«Sono per te, Maggiore. Io ho gli occhi troppo scuri per poterle usare, mi limiterò a un paio di occhiali da sole.»
Dopo aver decifrato le istruzioni scritte a mano e aver scoperto che doveva praticamente mettersi un dito in un occhio, Riza si accinse a provare quegli affari gelatinosi.
Parecchie lacrime e imprecazioni trattenute dopo (anche se Riza probabilmente non si sarebbe spinta oltre un rispettoso “accidenti!”) si vide finalmente un risultato. Nello specifico un paio di occhi rossi dentro ai quali però ora c’era un’iride più chiara, color miele.
Poi fu la volta dei capelli.
Mentre Riza attendeva paziente che l’impacco sulla sua testa le desse i capelli nero corvino promessi dal flaconcino, sentì un urlo provenire dal piano superiore.
«Che succede, Generale?» urlò, scattando in piedi e mettendo mano alla pistola.
«Non posso uscire conciato così!» gemette una voce familiare.
Riza si rilassò un poco «Così come?»
Roy fece la sua comparsa in cima alle scale con una zazzera di capelli chiarissimi. Evidentemente troppo chiari.
«Guarda come sono ridotto!» si disperò, mentre scendeva la rampa con fare tragico.
«Signore, il bianco è l’unico colore che abbia un qualche effetto sui suoi capelli.» gli ricordò Riza.
«Sembro un vecchio.»
«Io la definirei albino, piuttosto.»
«È una cosa tremenda.» si prese una ciocca tra le dita «I miei splendidi capelli neri...»
«Io trovo che abbiano un loro fascino.» commentò Riza, cui veniva da ridere non tanto per l’aspetto del suo superiore quanto per il suo comportamento.
Roy si bloccò «Dici davvero?»
«Sì. Anche perché in caso contrario non usciremmo più da qui.»
«È vero.» riconsiderò Roy, specchiandosi nel vecchio specchio accanto all’ingresso «Non è così male.»
«Certe volte si comporta come una primadonna, Generale.»
Roy ignorò il commento e, dopo che Riza ebbe sciacquato via i resti della tintura, le passò una camicia accollata e senza maniche e una gonna lunga con lo spacco, signorile ma in grado di lasciarla libera nei movimenti. Lui si era già cambiato.
«E adesso le foto.» disse Roy, scattando due primi piani dei loro visi. Lo sguardo di entrambi si fermò sulla polaroid. Era un regalo che Hughes aveva fatto al suo amico parecchi anni prima, dicendogli: “Quando avrai una famiglia, ricordati di scattare un mucchio di foto!”
Non appena le immagini si furono rivelate del tutto, Roy le appiccicò su un paio di fogli che aveva con sé. Documenti falsi già preparati.
«John Smith e la sua adorabile moglie Jane. Due ricche persone a modo che si divertono a scorazzare per l’Est sulla loro nuova Modello 6. Sono in villeggiatura, sai?»
«Si aspetta che una Modello 6 compaia dal nulla nel giardino?» domandò Riza, socchiudendo gli occhi sospettosa.
«Una volta che avrò trasmutato la mia auto in qualcosa che le somigli... sì, è esattamente quello che mi aspetto.» cogliendo l’occhiata che gli lanciò Riza pensò bene di giustificarsi «E dai, se forniscono la nostra descrizione la prima cosa di cui parleranno sarà la macchina, non ti sembra un ottimo diversivo?»
Riza si impose suo malgrado di rimanere seria.
 
Era ormai primo pomeriggio quando Edward, Jean e Rebecca fecero il loro ingresso nell’ennesimo paesino. Ad Amestris non c’erano sindaci, ma se ci fossero stati quello di quel posto sarebbe stato indistinguibile da un amministratore di condominio.
E ancora una volta si perpetuò il rituale che andava avanti ormai da troppe ore: Havoc accostò, Rebecca abbassò il finestrino e domandò alla prima persona che le capitò a tiro – perché c’erano talmente poche case da non esserci neppure un rappresentante dell’Ordine Costituito – «Ha visto una donna bionda su un auto bianca passare di qui, di recente?»
Ogni volta che ripeteva quella frase le suonava sempre più stupida.
La passante prescelta, una giovincella di sessant’anni e passa con due vispi occhi azzurri, la fissò interdetta.
Rebecca continuò: «Indossa una divisa militare, si chiama Ri...»
«Ah, ma lei sta parlando di Riza Hawkeye, la nostra Riza!» la interruppe la donna con un’espressione d’improvvisa realizzazione sul volto.
A quella frase Havoc si sporse verso il finestrino lato passeggeri, con un movimento talmente brusco da far cadere la sigaretta sulla maglia di Rebecca.
Il fatto che lei non se ne accorgesse e non cercasse di strangolarlo era un chiaro segno della sorpresa degli occupanti della macchina.
«La vostra Riza? Ma...»
La passante, che amava parlare e in quel posto non aveva abbastanza persone per farlo come si deve, non notò l’espressione confusa dei suoi interlocutori e tirò dritto: «Povera ragazza, che disgrazia tremenda! Li ho visti crescere, sa, lei e il piccolo Roy... cioè, voglio dire, il Generale Mustang. Del resto, come può capire, qui ci conosciamo tutti.»
Havoc non amava le chiacchiere a vanvera, e per qualche ragione sentiva di poterle non amare meglio stando in piedi, perciò scese dalla macchina, subito imitato dal resto della truppa.
«Ma dunque» disse Rebecca «Riza e il Generale Mustang abitavano qui?!»
«A dire il vero, Roy viveva in un paese qui vicino – ma sa com’è, da queste parti non fa molta differenza, i ragazzi giocano tutti assieme – ma poi si è trasferito a casa Hawkeye, che si trova appena fuori dal paese, laggiù» fece un gesto vago in direzione delle colline «non appena ha iniziato il suo apprendistato...»
«Freni, freni!» esclamò Havoc, che del discorso concitato della donna aveva afferrato sì e no il senso generale e ora cercava di collegare tra di loro le quattro parole che aveva inteso «Ha detto apprendistato?»
«Sì» annuì con convinzione la signora «Da ragazzo Roy è stato allievo del padre di Riza, non lo sapevate?»
Havoc e Rebecca si scambiarono uno sguardo. Avevano trovato la risposta a una domanda che si facevano da molti anni.
L’anziana scrollò la testa con una curiosa forma di rassegnazione, come se non avesse previsto una cosa che poi era successa e le aveva scombinato, se non la vita, almeno qualche giornata «Mi ha sempre stupito che quella bambina sia diventata un militare, con un padre del genere... stava sempre sulle sue, sapete? Un anarchico, credo, o qualcosa di simile.» si interruppe, e il suo sguardo volò sulla strada, i prati e la linea dove si incontravano col cielo, per poi fermarsi nostalgico su un albero di mele. Fu proprio la malinconia di quel volto a far rivedere a Edward l’opinione che si era fatto di quella donna.
«Si volevano bene, quei due ragazzi, e non dico che non ci siano stati pettegolezzi al riguardo, soprattutto dopo il ritorno di Roy dall’accademia militare.» fece un suono che forse era un sospiro, o un singhiozzo, o uno sbuffo, poi affermò con fierezza: «Ma sapete quello che dico io?» si interruppe per un attimo, pensando di avere parole troppo povere per comunicare quello che voleva esprimere «Sapete quello che dico io? Che se due persone non fanno nulla di male non è giusto che la gente cerchi di separarli, ecco.»
«Ha perfettamente ragione.» disse Rebecca, commossa proprio dalla semplicità di quella signora che aveva visto crescere la sua amica.
«Quando ho sentito la notizia alla radio...» la voce della donna si spezzò e lei scrollò la testa «Che cosa tremenda.»
A questo punto Havoc e Rebecca avrebbero voluto sapere qualcosa di fondamentale, cioè se la signora aveva visto o non aveva visto Riza passare di lì, ma lei iniziò ad annegarli in una collezione di aneddoti sull’infanzia del Maggiore e del Generale, senza che fosse possibile per i due Tenenti insinuarsi nel suo sproloquio.
Ed, che dopo il terzo racconto su Riza che cadeva dall’altalena si era disinteressato al discorso, si era appoggiato alla macchina e si guardava intorno.
Il paesaggio gli era familiare, perché era uguale a quello che si poteva rimirare appoggiati a una qualunque auto in un qualsiasi paesino di quella zona dell’Est, Resembool compresa.
Non avrebbe mai immaginato che il Generale Mustang e il Maggiore Hawkeye fossero nati a così poca distanza dal suo paese. Questo glieli fece sentire vicini in maniera bizzarra, come chi in terra straniera incontra un compatriota.
Un movimento sulle colline attirò la sua attenzione. Un’auto scendeva su una stradina che andava a perdersi tra le colline e si dirigeva verso il paese.
Il modo di guidare, quel modo di guidare... Edward scrollò la testa. Era stupido pensare di identificare una persona dal modo in cui guidava.
Ma poi l’auto entrò nel centro abitato e gli sfrecciò davanti e Edward vide in volto i suoi due occupanti e lanciò un’esclamazione e la donna sull’auto si girò per un secondo e poi... sì, poi Edward era sicuro di ciò che aveva visto.
«Che succede, Edward?» domandò Rebecca, preoccupata.
«Il Tenente e il Col- il Maggiore e il Generale! Sono là, su quella macchina!»
Havoc si voltò nella direzione che il ragazzo gli indicava. la sua bocca si piegò in una linea amara, delusa. Per un attimo aveva sperato anche lui...
«Ed» disse con un sospiro «non sono loro, non potrebbero essere più diversi.»
Il ragazzo seguì con lo sguardo la coppia sull’automobile.
Era vero, pensò, la donna aveva i capelli neri mentre l’uomo era praticamente un albino. Persino gli occhi della donna erano diversi da quelli del Maggiore, più chiari.
Non che prima non l’avesse notato, ma aveva creduto... no, avrebbe potuto giurare che fossero loro. Ma senza più quei visi davanti era difficile anche solo capire che cosa gli fosse preso. Era uno sciocco che si era lasciato trascinare dalla voglia di provare sollievo.
«Ha ragione.» disse stancamente «Dev’essere stata solo suggestione.»
 
Parecchi metri più in là, Riza si rivolse al Generale «Signore, credo di aver appena visto Edward.»
Roy spostò o sguardo dalla strada alla sua sottoposta, per guardarla incredulo «Non essere sciocca, Maggiore. Cosa sarebbe venuto a fare Acciaio qui?»
«Non saprei, Signore.» replicò Riza, piccata «ma quando si tratta di vedere le cose, io...»
«L’hai visto perché lo stiamo cercando.» disse Roy, come se fosse ovvio «È stata solo suggestione.»
Riza fece spallucce. Non dava ragione al suo superiore quando non era convinta che l’avesse, e doveva ammettere che quello che diceva aveva un senso. Scelse un compromesso, perché difficilmente Riza Hawkeye riusciva a mettere a tacere il suo sesto senso.
«Se lo dice lei, Signore...»

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Credere alle fate ***


Eccomi qui, con ben un giorno di ritardo! T.T Guardiamo il lato positivo: sto migliorando, il ritardo si è ridotto da una settimana a una dozzina di ore. XD Il prossimo aggiornamento è insindacabile per il 27 perchè dopo parto per Praga, anche se ci vorrà un mezzo miracolo per finire il capitolo in tempo...
NOTE: Il seguente capitolo, ad eccezione di alcune righe che mi soddisfano, è piuttosto penoso, e voi come sempre siete liberi di dirmelo. Chiedo in particolare consigli in merito allo stile: con questa storia ho cercato di ricreare, almeno lontanamente, l'atmosfera di FMA. Oltre al palese fatto di non esserci riuscita, adesso mi vengono mille dubbi circa il modo in cui scrivo, perchè questo è il mio solito stile ma non so se è adatto per una storia che si ispira ad un manga, o in generale per una fanfiction, visto che non ne ho mai scritto fino ad ora.
Inoltre, a quanto pare la storia durerà ancora per un bel po'. Se vi annoia e la volete più corta, però, in qualche modo cercherò di tagliare, basta dirlo! ^^
Passando ad argomenti più stupidi, mentre leggo la fanfiction a mia sorella ci vengono in mente delle scenette scemissime. Consideratele un po' come le strisce comiche alla fine dei manga, solo meno divertenti. Ecco quelle che sono venute fuori leggendo la mia storia, al capitolo 4:  


L'AUTO MAGICA

*Riza guarda l'auto inesistente*
JONES (che è tornato indietro): "Ehi, tu, quella è la mia macchina!"
RIZA: "L'hai lasciata qui, ora è mia"
JONES: "Ma a me l'auto serve"
RIZA: "Cavoli tuoi"
JONES: "Che schifo di storia. Credi di essertene andato via con un'auto, e invece..."

FILM d'AZIONE
*Riza si avvicina ad un uomo in auto*
Riza: "Ehi, tu, scendi dalla macchina" *gli punta una pistola contro*
UOMO: "Ma quest'auto è mia!"
RIZA: "Non stai seguendo il protocollo! In qualsiasi film d'azione che si rispetti il Passante deve lasciare la propria auto all'Agente in Missione senza fare storie!"
UOMO *sudando e sfogliando rapidamente un manuale con su scritto "la perfetta comparsa nei film d'azione"*: Donna che Urla, no. Scagnozzo Stupido, no. Ah, ecco qui. Passante in Auto... Oh. Oh, ecco... prenda la macchina, e scusi tanto.
*si alza e se ne va*
RIZA *sedendosi al posto di guida*: Ah, finalmente... Ehi, aspetta un momento! Le chiavi. Le chiaviiii!

Va bene, va bene, la smetto! Ve l'avevo detto che questa volta sarei stata più prolissa, no? ;)
Vi lascio al capitolo!






 
“Bionda non guardar dal finestrino
Che c’è un paesaggio che non va
È appena finito il temporale,
Sei case su dieci sono andate giù
Meglio che tu apri la capotte
E con i tuoi occhioni guardi in su
Beviti ‘sto cielo azzurro e alto
Che sembra di smalto
E corre con noi”
                       “La Topolino Amaranto”, Paolo Conte
 
Sullo sfondo di una campagna verdeggiante e di un cielo azzurro, avreste potuto vedere una bella auto bianca scivolare su una strada sinuosa con a bordo due persone che rappresentavano il prototipo della coppia perfetta: giovani, ricchi & belli. L’ “innamorati”, quando si parla di certe cose, è un accessorio.
Se foste stati una casalinga cinquantenne di Amestris, li avreste invidiati, e subito dopo sareste andati a comprare una rivista per vedere se parlassero di quei due, da qualche parte.
Ma, avvicinandovi un po’ di più, vi sareste resi conto che la campagna circostante aveva ben poco di idilliaco, ma anzi era punteggiata, a intervalli più o meno brevi, dai resti vecchi e anneriti di case che nessuno aveva avuto la forza di ricostruire. Che forse non avevano neppure più qualcuno a cui importasse di farlo, perché nella guerra civile era morta o emigrata troppa gente.
Avreste sentito l’uomo sulla macchina mormorare alla compagna: «Anche qui...»
Avvicinandovi un altro po’, da un’angolazione diversa, avreste notato che l’uomo stringeva il volante con un po’troppa forza per essere rilassato, e che la donna sedeva rigida, come una persona pronta a sparare un colpo di pistola al minimo movimento brusco avvertito, anziché una che sta andando in vacanza.
E di entrambi avreste visto l’espressione pensosa, una certa tensione nello sguardo che non li abbandonava mai.
Perché quello non era un paesaggio da cartolina, ma la campagna dell’Est.
E quelli erano Riza Hawkeye e Roy Mustang.
«A cosa sta pensando, Signore?» domandò Riza, intuendo che la comune linea dei pensieri del suo superiore si era mutata in qualcosa di più specifico. Una preoccupazione.
«Quando mi hanno aggredito al Tribunale» esordì «Ho colpito un uomo di nome Bingley e gli ho ustionato un braccio.»
«Questo combacia con la nostra tesi: Kimbley non vorrà sprecare la pietra, perciò compie trasmutazioni solo sulle sue pedine più importanti.»
Roy annuì: «Giusto, ma non mi riferivo a quello.»
«Forse allora al fatto che il nome di Bingley le ricorda qualcosa.»
Roy la guardò con un sopracciglio alzato «Come hai fatto a capirlo?»
Riza ignorò la domanda, che entrambi sapevano non valere una risposta, e risolse il dilemma del Generale «Il Maresciallo Alfred Bingley è stato congedato dall’esercito circa sei mesi fa per aver infierito con un inutile pestaggio a sangue su un paio di ladri venuti da Aerugo. Ricordo la pratica.»
«Lavoro burocratico» Roy finse uno sbadiglio «così noioso.»
«Ma necessario.» ribatté Riza «E a volte utile, come in questa situazione.»
«Ora sappiamo almeno in parte come Kimbley sceglie i suoi accoliti, in effetti.»
«È ovvio che debba assicurarsi una corrispondenza di ideali tra chi assolda e il Gruppo.» Riza si interruppe e sospirò «Inoltre temo che anche questa volta buona parte del nemico faccia o abbia fatto parte dell’esercito.» questa constatazione fece rimuginare per parecchio tempo i due, mentre scomponevano e ricomponevano piani.
Mentre erano persi nelle loro peregrinazioni mentali, passarono oltre un paesino che si stagliava nitido a una discreta distanza dalla strada.
Riza distinse dei semplici festoni, bandierine e il profilo di una piccola ruota panoramica.
Riza sorrise. Anche se nessuno l’avrebbe mai immaginato, a Riza Hawkeye piacevano le feste di paese. Non il fatto di poter fare chissà cosa – in qualunque città di una certa dimensione c’erano divertimenti molto più particolari – semplicemente l’atmosfera, lo stare tra la gente che non diventava mai troppa, che non la metteva a disagio.
La semplicità.
Roy sapeva cosa stava guardando.
«Un giorno ti ci porto, te lo prometto.» disse, nel tono scanzonato che gli apparteneva quando vedeva l’opportunità di trasformare qualcosa di triste in una speranza di felicità.
«Ma cosa dice, Generale!» lo redarguì Riza, ricomponendosi immediatamente «Non abbiamo tempo per queste cose!»
«Oh, vedrai che il tempo lo troviamo.» disse Roy con un sorriso sornione «Puoi rifiutare un invito di quest’umile ragazzo di campagna?»
«Vuol dire che per un po’abbandona i ristorantini di lusso?»
«A dire la verità continuo a preferire le mele caramellate.»
 
«Ti ricordi quando siamo venuti qui per la prima volta?» domandò Roy. Erano davanti alla villetta degli Elric in attesa che qualcuno gli aprisse. In attesa che qualcuno gli aprisse da un bel po’di tempo, in effetti.
«C’è bisogno di chiederlo?» Riza rivedeva ancora la stanza buia, l’odore del sangue ancora prima della sua vista, il fatto di non capire. O di non voler capire.
Adesso al posto di quella casa ce n’era un’altra che sembrava sorriderle rassicurante, sussurrando che lì non era successo nulla di male, eppure Riza non era tranquilla.
«Sembra proprio che Acciaio lo faccia apposta a non farsi trovare in casa quando lo cerchiamo.» disse il Generale, all’apparenza irritato, ma in realtà perso anche lui in vecchie, tristi immagini.
«Forse dovremmo andare a casa di Winri.» suggerì il Maggiore, guardandosi attorno circospetta.
«Buona idea. Chissà se ci riconoscerà conciati così...» commentò Roy, pregustando l’infarto che avrebbero fatto prendere alla giovane Rockbell. Riza aveva ragione, aveva davvero un’inclinazione verso la teatralità.
Si avviarono verso la macchina, che avevano lasciato a pochi metri da lì.
Riza continuava a sentirsi a disagio. C’era qualcosa di strano nell’aria, delle note dissonanti che non le permettevano di rilassarsi e che pungevano i suoi sensi da cecchino.
Spazzò con lo sguardo l’ambiente circostante, le dolci colline che circondavano quella dov’erano loro. Finchè il suo sguardo non incontrò il riverbero del sole su un vetro che non avrebbe dovuto essere lì.
Un binocolo, sulla collina davanti a loro, a centocinquanta metri in linea d’aria. Troppo vicino.
«Generale, stia giù!» gridò, buttandosi a peso morto contro il suo superiore che, colto di sorpresa, cadde al suolo.
Un proiettile passò di poco sopra le loro teste, andando a conficcarsi in una delle ruote della macchina.
«Ma cos...?» iniziò Roy, poi vide la ruota che si stava afflosciando mestamente al suolo e realizzò la situazione, mentre Riza lo trascinava con sé per andare a ripararsi dietro la macchina.
Un altro sparo. Due. Tre.
«Dietro a quel muretto, sulla collina di fronte.» soffiò Riza all’orecchio del suo superiore.
Roy mosse lo specchietto dell’auto proprio sopra la sua testa in modo che vi si riflettesse il punto descritto da Riza, in una posizione leggermente rialzata rispetto alla loro.
«Li vedo. Sono in due e hanno un fucile a lunga gittata.»
«Chissà perché me ne ero accorta...» borbottò Riza, irritata dalla situazione: dal momento che non doveva dare nell’occhio, aveva con sé solo due calibro nove, che perdevano efficacia a una distanza del genere.
Il suo fucile era incastrato sotto ai sedili, al riparo da occhi indiscreti ma anche dalle sue mani. Recuperarlo in quel momento sarebbe stato troppo rischioso, e trovandosi più in basso rispetto ai loro aggressori erano in svantaggio.
«Che facciamo, Generale?»
Molti tendevano a sottovalutare Roy perché sul campo sembrava cavarsela solo grazie ad una spaventosa fortuna (e ad una certa dose di abilità nel non farlo morire da parte dei suoi sottoposti), ma Roy non era sopravvissuto per così tanti anni andando a caccia di scoiattoli volanti.
Roy Mustang era un soldato e un abile stratega.
«Ma che domande, rotoliamo!»
Ciò non significava che i suoi piani avessero necessariamente un senso apparente.
 
«Ehi, Wesson, guarda là.»
Wesson si girò annoiato verso la casa, con scarsa speranza che la situazione cambiasse. Erano ore che aspettavano, e nessuno si era ancora fatto vivo.
«Ci sono due che stanno arrivando in auto... e allora? Nessuno di loro è il ragazzo.» affermò, girandosi nuovamente con le spalle contro il muretto e chiudendo gli occhi.
«Potrebbe essere interessante, ti dico!» continuò il compagno, pressante.
Wesson aprì un occhio solo. Barrett quando ci si metteva era maledettamente insistente. Ed era impulsivo, per cui lui si sentiva in dovere almeno di provarci, a non fargli fare qualche idiozia.
«Ma piantala.» disse con noncuranza. Se avesse mostrato il minimo interesse, quello si sarebbe ringalluzzito e non l’avrebbe più fatta finita «Non vedi che sono due ricconi? Saranno venuti solo a scocciare per vedere il famoso Edward Elric... Bella macchina, però.»
«Metti che non siano così insignificanti.» disse Barrett, tutto esaltato «Metti, che ne so, che siano il Generale Mustang e quella sua assistente...» scoppiò in una fragorosa risata come se avesse detto la cosa più assurda e divertente del mondo.
«Smettila, ci farai scoprire.» lo rimproverò Wesson, messo leggermente in allarme.
«E che importa? Tanto adesso li faccio fuori...»
«Gli ordini erano di togliere di mezzo Edward Elric.» si impuntò Wesson. Già era abbastanza scocciato dal fatto di ritrovarsi vestito come un lurido Xinghese, e come se non bastasse gli avevano fatto portare con sé quel pezzo d’imbecille. Poco importava che Barrett avesse una buona mira: Wesson era abituato alla disciplina militare, e lì non c’era posto per quelli che facevano di testa propria.
«Più gente coinvolgiamo, più facciamo casino e meglio è.» ribatté Barrett, per una volta serio «È per la causa. In questo posto noioso non troveremo mai più bersagli così facili.»
Su questo Wesson era costretto a dargli ragione, ma era ancora titubante.
«Forse dovremmo aspettare di capire cosa vogliono da Elric.» tentò un’ultima volta.
«Ma non sei stato tu a dire che non ha nessuna importanza?»
L’altro sospirò, rassegnato «D’accordo, facciamolo.»
«Questo è quello che volevo sentire!»
Mentre Barrett si posizionava dietro al fucile, già in postazione in caso di avvistamento dell’obbiettivo, Wesson recuperò i suoi binocoli borbottando, indispettito dal tono di confidenza che il compagno si prendeva con lui.
Lo strumento gli restituì una visuale ravvicinata della coppia davanti a casa Elric.
L’uomo, che stava dicendo qualcosa alla sua compagna, indossava un paio di occhiali da sole e aveva i capelli di un colore francamente assurdo.
“Sembrano quelli di un Ishbalan” pensò Wesson con disgusto.
Ma fu la donna ad attirare la sua attenzione. Continuava a muovere gli occhi di qua e di là, poi con un guizzo di capelli neri voltava la testa e continuava  la sua silenziosa ricognizione.
Ad un tratto i suoi occhi si fissarono nei suoi – o meglio, sul suo binocolo – e il suo sguardo si assottigliò.
Nello stesso momento Barrett, accanto a lui, disse: «Li ho nel mirino.»
«Barrett, aspe...» troppo tardi.
La donna gridò qualcosa di indistinguibile e atterrò l’uomo al suo fianco nel momento stesso in cui risuonava lo sparo.
“Merda” pensò Wesson “Questi non sono quello che crediamo.”
Barrett continuava a sparare.                                            
«Non contro la portiera, idiota!» urlò il suo collega «Ormai non li prendi più, cerca almeno di colpire il motore!»
«Ma che diavolo stanno facendo?!» esclamò Barrett, aggrottando le sopracciglia nel tentativo di centrare i suoi bersagli.
Quei due si erano praticamente lanciati giù per la collina, un po’scivolando, un po’rotolando o addirittura correndo, a volte dandosi una spinta col piede o il braccio per cambiare direzione.
«È semplice» rispose Wesson «Ti impediscono di prendere la mira.»
 
«Era un secolo che non lo facevo!» esclamò Roy, ridendo come un bambino.
«Forse un motivo c’è, Signore.» commentò Riza, scrollandosi per quanto poteva rametti, terra e fili d’erba di dosso.
Roy squadrò con occhio critico quello che li circondava. Nella posizione in cui si trovavano, alla base della collina, erano ormai fuori tiro.
Riza tirò fuori le pistole: ormai era abbastanza vicina perché fossero di una qualche utilità.
«Andiamo.» decretò l’alchimista.
«Un momento, qual è il suo piano? Se saliamo ci spareranno a vista.»
«Già, ma io sono più bravo di loro.» fece Roy con un sorrisetto.
Riza sospirò mentalmente e si preparò a qualunque disastro stesse per accadere. Di solito quando diceva così andava a finire male.
Per essere qualcuno che stava per combinare qualcosa di grosso, Roy non fece nulla di eclatante: si limitò a battere le mani come se volesse liberarle dalla polvere.
Il fatto è che quando le poggiò a terra dal sottosuolo provenne un rombo sordo e una faglia attraversò la collina, tagliandola in due.
Gli occhi di Riza si spalancarono, mentre guardava la terra ferita, ma poi si ricordò di quando aveva visto per la prima volta usare in guerra l’alchimia di fuoco e si rese conto che questo era niente. Niente.
Un urlo fece a brandelli quel poco d’aria che sembrava rimasta: «Wesson! Wesson!»
«Seguimi, Maggiore.» ordinò Roy, facendosi strada di corsa sul fianco della collina che era polvere e scintille, residui della manifestazione alchemica che si arrampicavano sui bordi dell’abisso sparendo a poco a poco.
Bastò il tempo di quella corsa perché Riza capisse qual’era lo scopo del suo superiore.
Per quando raggiunsero il muretto che era stata la postazione dei terroristi, Riza sapeva già che cosa avrebbero trovato: uno dei loro aggressori che correva a rotta di collo lungo la strada a valle del pendio, senza nessuna cautela.
Da preda si erano trasformati in cacciatori.
Senza esitazioni, Riza afferrò il fucile che era rimasto miracolosamente in bilico sul muretto a secco, a un pollice dallo strapiombo creato da Mustang, e sparò.
Poté quasi vedere il proiettile tracciare la sua firma nel cielo e attraversare il collo dell’uomo.
Un passo, ancora un altro e poi il suolo.
Questa volta il suo avversario non era vuoto. C’era sangue, e in pochi secondi il sangue divenne una pozzanghera in cui forse si sarebbe potuta specchiare, se fosse stata abbastanza vicina.
Aveva reciso la carotide con precisione chirurgica.
Gli occhi di Roy si mossero impercettibilmente verso di lei, poi tornarono fissi sul morto.
«Calati nella fossa e vai a vedere dov’è finito l’altro.» ordinò «Io controllo chi è quello e lo faccio sparire. Fai attenzione.» concluse, infilandosi il “guanto da forno”, come lo chiamava lui.
Una volta Riza gli aveva detto che le armi da fuoco erano le sue preferite perché non davano la sensazione di aver ucciso, e lui aveva replicato che si trattava solo di un’illusione.
Eppure, lui per primo avrebbe portato avanti la finzione impedendole di vedere il volto dell’uomo cui aveva sparato. Prima che lei arrivasse...
Si bloccò, colto da una brutta sensazione. Uno dei due terroristi si era rivelato un essere umano, cosa gli dava la garanzia che lo fosse anche l’altro?
Tornò indietro di corsa e quasi si tuffò nel crepaccio da lui stesso creato, fermandosi solo all’ultimo minuto.
Il baratro non era tanto profondo e stretto da non far passare la luce, perciò si riusciva a vedere il fondo abbastanza comodamente.
E laggiù, in piedi, Riza. Con un coltello puntato alla gola.
Gli occhi dell’uomo si fermarono in quelli del Generale. Lo aveva visto, lo stava aspettando.
«Adesso» iniziò il terrorista con voce roca e lenta «ditemi chi siete.» sembrava in tutto e per tutto un uomo di Xing, ma il movimento guizzante degli occhi faceva pensare a delle biglie di vetro senza controllo e aveva qualcosa falso.
Il coltello del’uomo luccicò e si sarebbe potuto giurare che facesse CLING.
Le dita di Roy fecero SNAP.
La testa dell’uomo, invece, non fece nessun rumore in particolare a parte quello di un oggetto che va in cenere.
Improvvisamente privato della vista, Wesson fece un movimento convulso.
Cercò di tagliare la giugulare di Riza, ma lei, approfittando dello smarrimento dell’avversario, si era già divincolata.
Ciò non impedì alla lama di lacerarle la spalla.
L’uomo si mosse a tentoni urlando di rabbia e di terrore, cosa che faceva il suo effetto, considerato che non aveva più una bocca.
Roy mise fine a quel suono terribile bruciando il resto del corpo.
Sopravvisse solo un braccio, che Roy ispezionò per essere sicuro che non avesse sopra un sigillo e fosse in grado di strangolarlo a tradimento, dicendo: «Questo ci può servire.»
Un arto cavo. Il frammento di una bambola.
«Raccapricciante.» commentò.
Poi si voltò verso Riza e la sua mascella si irrigidì, mentre il suo sguardo si fermava sulla ferita.
«È profonda?» sapeva che la domanda giusta, su un campo di battaglia, non era se faceva male.
«No, va tutto bene.» replicò lei, con quel suo sorriso rassicurante di sempre, a labbra chiuse, esaminandosi il taglio «Non sono stata abbastanza attenta, credevo di avere la schiena coperta e invece mi ha attaccato alle spalle.» si scusò, indicando con lo sguardo un piccolo anfratto nella parete dello strapiombo.
«Li ho sottovalutati.» borbottò Roy, cupo.
«Non sarà l’ultima volta.» disse Riza, facendo spallucce e prendendolo un po’ in giro «In fondo non è successo nulla di grave.»
Alzò la testa, assorta, e fissò per un attimo il cielo, inscatolato tra le due scarpate.
«Piuttosto» riprese «Non sono più una bambina che bisogna lasciar credere alle fate.»
Non ebbe bisogno di dire che si riferiva all’uomo che aveva ucciso.
Riabbassò lo sguardo e conficcò i suoi occhi in quelli di Roy. Se anche inventavano menzogne davanti a tutto il mondo, che almeno tra di loro non portassero maschere.
Roy sorrise mestamente e scrollò la testa. Avrebbe voluto tenere Riza lontano da tutti quegli orrori che avevano inciso la sua anima e sapeva di non esserci riuscito. Certe volte, così, dimenticava che Riza non avrebbe accettato di rimanere al di là del muro, che lo avrebbe accompagnato, che avrebbe visto le stesse cose che vedeva lui.
Si schiarì la voce e si passò una mano dietro la testa, scompigliandosi i capelli sulla nuca e guardandosi attorno.
«Adesso dobbiamo solo aggiustare la collina.»




NOTE di FINE CAPITOLO:  Faccio alcune precisazioni. Nello scorso capitolo, la tintura dei capelli di Roy e la sua reazione sono un piccolo omaggio a "Il Castello Errante di Howl" (<3) . I nomi che Roy sceglie non sono una citazione da Pochaontas ma da Mr. e Mrs Smith. Inoltre ho scelto il cognome Smith perchè ho deciso che i personaggi originali di questa storia avranno cognomi ispirati alle armi da fuoco. Mi sembra giusto e doveroso, considerato che i militari di FMA hanno nomi di veicoli militari e armi e che questa storia si chiama "Pull the Trigger!" ("Premi il grilletto!"). I nomi usati in questo capitolo sono stati presi dalla Smith&Wesson e dalla Barrett.
Un'ultima cosa che riguarda la citazione all'inizio di questo capitolo: Il temporale di cui parla non è altro che la seconda guerra mondiale. Un invito alla spensieratezza in netta antitesi col pensiero di Riza, ma che Roy vorrebbe che seguisse. Anche se sa che lei non distoglierà mai gli occhi da tutto questo. 
Lo so, sembra che io mi faccia di colla. Il casino è che non ce n'è neppure bisogno, sono così di natura. XD
Nel prossimo capitolo... non ve lo dico! XP ("Non vuole ammettere che è troppo pigra per scrivere un'anteprima" Nd Mia sorella)

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Zona collinare movimentata ***


 La cattiva notizia è che sono di nuovo in ritardo (scusate!), la buona notizia è che questo capitolo è diventato talmente lungo che ho dovuto dividerlo in due, e quindi ho pronto anche il prossimo capitolo. Aggiornamento domenìca 11.
Questo capitolo è pressocchè irrlevante ai fini della storia, ma mi sono divertita un sacco a scriverlo! XD
Ci troverete... beh, non molto a parte un grosso va e vieni ^^. Il prossimo andrà meglio, anche se non ci sarà molta azione: ci saranno parecchi elementi importanti per la trama.


Ringrazio di nuovo tutti quelli che seguono, commentano e leggono!




“Anche il destino a questo punto si domanda se vale la pena
di travestirsi da venditore di torroni, far morire i dentisti,
far cantare i tonni e tutto solo per far divertire questi
bambini volubili che si chiamano uomini. Nessuno gli risponde:
perché nessuno può dare consigli al destino, né a San Lorenzo né altrove.”
                                                “Il destino sull’isola di San Lorenzo – Il bar sotto il mare”, Stefano Benni
 
«Ehi, Ed! Già di ritorno?»
Edward si girò di scatto «Signor Simon!» salutò, poi si rese conto che con il vicino c’erano anche alcuni compaesani «Salve gente.»
«Com’è che sei tornato così presto?» disse uno dei contadini, il tipo d’uomo di cui non si capisce se la stazza sia dovuta al grasso o ai muscoli, scompigliando i capelli del ragazzo.
Edward se lo scrollò di dosso con imbarazzo e aprì la bocca per parlare, ma venne interrotto da uno degli uomini: «Te e i tuoi amici, venite a prendere qualcosa con noi da Kelly.»
«Non posso.» rifiutò Edward «Sono solo di passaggio.»
«Come, non vai neanche a salutare la piccola Rockbell?»
«Ma chi, Pinako?» domandò confuso il figlio di un pastore.
«Ma che Pinako» disse il padre, tirando un leggero coppino al figlio «sta parlando della sua Winri, no?» fece in tono malizioso, mentre il resto dei presenti si dava di gomito e ridacchiava.
Edward, che ormai fumava come una teiera, borbottò qualcosa che suonava simile a: “odio il mio paese.”
Edward era solito prendersela con le cose cui voleva bene, dopo tutto.
Havoc e Rebecca, che fino a quel momento erano rimasti in disparte, lanciarono un’occhiata significativa al ragazzo, che rapido si intrufolò nel discorso dei suoi compaesani prima che quelli partissero in quarta.
«Se avete finito coi commenti sulla mia vita privata, avrei una domanda da farvi.» dichiarò irritato con voce parecchio più alta del normale.
Tutti riportarono la sua attenzione su di lui. Non è raro per la gente distrarsi dall’oggetto fisico dei loro pettegolezzi quando stanno, appunto, facendo pettegolezzi.
«Stiamo cercando una donna, Riza Hawkeye. Un militare biondo, con i capelli raccolti da un fermaglio e gli occhi castani.»
«Ah, la signorina che è arrivata qui quando sono venuti a prendere te e Al!» disse il più anziano dei poliziotti del paese. Era stato proprio lui ad accompagnare il Tenente-Colonnello Mustang e il Sottotenente Hawkeye a casa Elric.
«Proprio lei!» esclamò Edward, grato che l’uomo se ne ricordasse.
«Mi spiace, ma non l’ho vista. È successo qualcosa?»
Edward non ebbe il tempo per rispondere, perché subito un giovane bracciante intervenne: «Io però ho visto due tizi andare verso casa tua, poco prima che arrivassi tu.
Edward alzò le sopracciglia, sorpreso «Sei sicuro?»
«E certo, una macchina come quella non è che te la scordi tanto facilmente... ma la donna non era bionda, eh.»
Il ragazzo si sentì improvvisamente la gola secca, gli sembrava di aver mangiato della sabbia «Descrivimeli.»
«Dunque, l’uomo anche se era giovane aveva i capelli bianchi, la donna invece aveva gli occhi un po’come i tuoi. Dì un po’, è mica una tua parente?»
«La collina va a fuoco!» esclamò il vecchio poliziotto, interrompendo il discorso.
Gli occhi di tutti guardarono nella direzione indicata dall’uomo e si scontrarono con una colonna di fumo che ritagliava la sua sagoma mobile contro il cielo estivo.
«Ehi Ed, ma lì non c’è casa tua?»
«Oh porc...»
 
Quando Winri Rockbell sentì Den abbaiare, per sicurezza spense il fuoco sotto le verdure che stavano sobbollendo.
E fece bene, perché dopo pochi minuti delle verdure non gliene sarebbe importato più un fico secco.
Appena uscì dalla porta di casa, quello che vide furono due persone. Fin qui non ci sarebbe stato niente di strano, ma quando fece qualche passo verso di loro e quelli alzarono lo sguardo su di lei, fu chiaro che l’unica cosa da fare fosse lanciare un grido.
Gridò in parte per la sorpresa, in parte perché a causa della sorpresa non si era resa conto di essere ormai arrivata alla scala e aveva saltato un paio di gradini prima di ritrovare l’equilibrio perduto.
Forse quello strano vecchietto che abitava giù in paese aveva ragione, c’erano davvero i fantasmi sulle colline.
«Ehilà, signorina Rockbell!» fece quello che somigliava in maniera sconcertante al Generale Mustang ma non poteva esserlo.
Al suo fianco, la copia mora di Riza Hawkeye le sorrise e fece un cenno di saluto.
Il cervello di Winri vagliò in un sol colpo una considerevole lista di possibilità, non ultima quella di aver battuto la testa contro il manico della pentola, quando si era chinata a prendere un bullone da quindici caduto a terra, e di essere in realtà svenuta sul pavimento della cucina anziché fuori in giardino.
Ma poi, per lei che il corpo di Roy Mustang non lo aveva visto, fu abbastanza semplice fare un sorriso all’evidenza.
«Non sono così facile a morire come si dice in giro, Miss Rockbell.» fece Roy con un’espressione ironica. Non vedeva l’ora di far sapere che era vivo, glielo si leggeva in faccia.
«Ti abbiamo fatto prendere un bel colpo, a presentarci qui così.» si fece avanti Riza «Mi dispiace.»
«A me no!» esclamò Winri, tutta contenta, andando a stringere le mani di Riza «Edward sarà così felice di sapere che state bene...» poi guardò il Generale, ricordandosi che Edward ostentava una spiccata antipatia nei suoi confronti «Ma non ditegli che ve l’ho detto.»
«Uhuh, e così sono mancato al piccolo Acciaio, eh?»
«Non è più così piccolo ormai.» intervenne Riza «Ha già diciannove anni, giusto?»
Roy avvertì una sottile sfumatura malinconica nella sua voce, e non era solo perché il tempo passava. Riza era stata felice di avere per un po’quei due ragazzi di cui prendersi, in un certo senso, cura: stranamente, per una che voleva proteggere tutta la nazione, era stata contenta di sostenerli non in quanto era suo dovere e vocazione farlo, ma perché si era affezionata a loro. Non come soldato, ma come persona.
E adesso Edward e Alphonse non avevano più bisogno di lei.
«Era davvero preoccupato?» chiese Roy, più serio, per far notare a Riza che non avere più bisogno materiale di una persona non significa necessariamente smettere di volerle bene.
«Sì, mi ha chiamato per dirmi che sarebbe andato a cercare la signorina Riza con il signor Havoc e il Tenente Catalina.»
«Allora era proprio Edward, quello che abbiamo visto.» commentò Riza, lanciando un’occhiataccia a Roy.
«Sì, sì, mi pento e mi dolgo.» disse lui, sbrigativo «Adesso dobbiamo trovare il modo di contattarlo. Stanno cercando di ucciderlo.»
“Evviva il tatto!” pensò Riza, vedendo il colore sparire dalle guancie di Winri.
«Che?!» esclamò la ragazza, spaventata.
«Casa sua era tenuta sotto tiro da due persone.» spiegò Roy «Fanno parte dello stesso gruppo terroristico che compie attacchi in tutta Amestris.»
Riza capiva che Winri voleva sapere perché qualcuno avrebbe voluto togliere di mezzo Edward, perciò disse: «I terroristi mirano a scatenare il panico assassinando persone in cui la gente crede.»
«Quelli che hanno combattuto il Giorno della Promessa?» domandò Winri. La voce le tremava, ma stava ben ritta sui suoi piedi perché Edward si sarebbe arrabbiato un sacco se avesse perso il controllo.
Riza annuì «Anche. Eravamo venuti qui solo per parlare con Edward, ma a questo punto...»
«... Sarebbe meglio portarlo con noi.» sospirò Roy con le mani dietro la testa, fingendosi scocciato e chiudendo gli occhi. Ne riaprì uno solo per guardare Winri «Anche tu dovresti trovarti un altro posto dove stare, almeno per un po’. Magari tra la gente.»
Winri aprì la bocca per protestare, ma poi incontrò lo sguardo di Riza. Loro due erano già state usate come ostaggi una volta, non era il caso di ripetere. Comportandosi come se non si avesse nessuna paura si rischiava, al contrario, di essere un peso.
«D’accordo.» annuì «Quando mia nonna torna, farò in modo che anche lei si cerchi un posto sicuro.»
«Non sappiamo come rintracciare Edward. Se dovesse farsi sentire, digli di andare qui.» Roy frugò nelle sue tasche senza trovare niente. Riza gli passò in silenzio carta e matita. «È l’indirizzo del mio appartamento a East City. Se non dovesse trovarci qui, allora dovrà chiamare questo numero e gli diranno dove siamo.»
Winri piegò con cura il foglietto e lo mise in una delle tasche dei suoi larghi pantaloni. «Grazie.»
«Abbiamo anche un altro favore da chiederti.» continuò il Generale «Possiamo entrare? Potrebbe andare per le lunghe.»
«Certo, seguitemi.» Winri si diresse quasi a passo di marcia verso la casa, tallonata dagli altri due.
Una volta dentro, Riza tirò fuori il braccio di Wesson e lo tese alla giovane meccanica «Sai dirci di cos’è fatto?»
Winri spalancò gli occhi, prendendolo in mano «È leggerissimo... ma è un automail?» scrollò la testa non appena l’ebbe guardato meglio «No, non ci sarebbe posto per i collegamenti con i nervi: è cavo e il metallo è troppo sottile. Mi ricorda l’armatura di Al.»
«In un certo senso è così.» affermò Riza.
Winri la guardò con aria interrogativa, e Roy spiegò: «I terroristi non sono provenienti da varie razze, lo fanno credere legando la loro anima a corpi fatti così.» indicò il braccio.
«Cosa? Perché fanno una cosa del genere?» scattò Winri, poi realizzò «Un momento... vogliono che la gente abbia paura di quelli di Pendleton, o di Ishbal?»
Roy e Riza annuirono, mentre il viso di Winri si irrigidiva «E per farlo usano la stessa tecnica con cui Ed ha legato l’anima al corpo di Al, vero?»
«Esatto.»
Winri digrignò i denti. Ed aveva sacrificato un braccio per riavere l’anima del fratello, come si permettevano di fare la stessa cosa per alimentare l’odio? Imperdonabile.
«Ne succede sempre una.» si lamentò la ragazza, incanalando la sua rabbia in uno sbuffo «Mi sa che ho sbagliato nazione.»
«Oppure hai sbagliato fidanzato.» scherzò Roy.
Ma osservando le espressioni sul viso di Winri, Roy si disse che Edward aveva proprio scelto una ragazza che faceva il paio con lui. Quel ragazzo non sarebbe mai potuto stare con una persona troppo tranquilla, si sarebbe annoiato.
Winri continuò ad osservare il braccio, sempre con un’espressione meravigliata «Il rivestimento sembrerebbe gomma. Però al tatto risulta simile alla pelle, e guardate com’è resistente» passò un dito sul bordo dell’arto, dove avrebbe dovuto esserci una spalla e invece c’era un orlo bruciacchiato «se fosse stata gomma normale sarebbe ridotto molto peggio. Chissà come l’hanno trattata... posso tenerlo ancora un po’? Voglio studiarlo.»
«Certo, fai pure.» acconsentì Mustang «Se scopri qualcosa di interessante, ricordati di dirlo a Edward.»
«Lo farò.»
«Ah, Winri» intervenne Riza «avremmo bisogno che tu ci prestassi una chiave inglese. Ci hanno forato la gomma dell’auto.»
«Non c’è problema, ecco qui.» Winri aveva diverse cassette degli attrezzi sparse in giro per la casa, nel caso Edward facesse qualcosa di stupido in cucina, in soggiorno o in qualunque altra stanza.
Gli consegnò l’attrezzo e li accompagnò fuori.
«Spero che troviate presto Edward.» disse la ragazza, salutandoli «Tenetelo d’occhio, per favore.»
Guardò Riza con apprensione, in attesa di una rassicurazione.
«Certo.» fece la donna. Posò lo sguardo su Winri. Era ancora una ragazza, in fondo, eppure aveva la sua stessa età, quando era partita per la guerra, anche lei in ansia per una persona. «Te lo riporteremo indietro.»
Non gli disse di stare tranquilla, era una richiesta stupida.
Senza preavviso, Winri la abbracciò come si abbracciano le sorelle.
Riza si gelò per un attimo, poi, esitante e senza sapere bene come comportarsi, restituì la stretta. Roy, guardando la sua espressione stupita, sorrise.
«Attenti, eh?» si raccomandò Winri, lasciandola e guardando entrambi i soldati.
Loro la salutarono e si incamminarono.
«Tagliamo per le colline, Maggiore, faremo prima.» disse Roy.
Riza lo seguì, le loro ombre fuse in una sola.
Winri continuò a guardarli schermandosi gli occhi e sorrise, solo un po’ ma a lungo, poi si rivolse al cane: «Vieni Den, entriamo in casa.»
 
Edward, Havoc e Rebecca corsero a casa Elric seguiti dal poliziotto. E da un nutrito gruppo di persone interessate ad osservare l’evento più eccitante della settimana per avere un’esperienza di prima mano da raccontare alle famiglie, quella sera.
Ad un certo punto della strada, la loro meta venne nascosta dalle colline che impedivano la visuale. Quando ricomparve mancava qualcosa.
«Cos’è questa storia?» fece Rebecca, dando voce ai pensieri di tutti gli altri.
Il fumo era sparito, e con esso anche le fiamme che lo avevano generato, ma la cosa più strana era che la collina era esattamente come prima. Sembrava che non fosse successo nulla.
«Abbiamo avuto un’allucinazione collettiva?»
«L’ho detto, io, che in questi posti ci sono i fantasmi.» esclamò un vecchio noto in tutta Resembool per i suoi attacchi di superstizione acuta, muovendo le braccia come un mulino a vento rinsecchito.
«Ma piantatela» li interruppe Edward, sicuro di sé «Si è trattato di un’illusione ottica comunissima, dipende dagli elementi che compongono la collina e dal sole. Quando l’elio si combina con il litio e l’idrogeno e vengono colpiti dai raggi solari, che sono onde con una frequenza pari a...»
«Basta, basta, io non ci capisco niente di queste cose, lo scienziato sei tu.» lo fermò uno dei fattori «Se mi dici che va bene, va bene.»
«Ma che scienza e scienza, i fantasmi, vi dico! I fantasmi!» ripeté il nonnetto, agitato. Tutti ripresero a parlare l’uno sull’altro.
«Per favore.» sussurrò Edward al poliziotto, in modo che nessuno potesse sentire «Può riportarli giù in paese?»
L’uomo annuì «Lascia fare a me.»
Poi disse, con voce più forte «Avanti, gente, tutti al paese, stiamo disturbando Edward.»
Vedendo che il cicaleccio continuava e che nessuno gli prestava attenzione, l’uomo continuò: «Kelly ha detto che oggi faceva le frittelle, non vorrete mica che ve le finiscano, no?»
A quelle parole gli uomini non smisero di parlare, ma se non altro cominciarono ad avviarsi verso il paese con un passo affrettato e ben consono alla promessa delle frittelle.
«Un momento, Ed!» disse il signor Simon, fermandosi «Com’è che si chiama quell’effetto di cui parlavi?»
I lineamenti del giovane si irrigidirono «Eh, si chiama... uh... effetto Doppler.»
«Doppler, eh?» il contadino sorrise «Bene, così stasera lo racconterò a mia moglie.»
Così il resto del gruppo scese a valle, ognuno dei suoi componenti pago di aver assistito ad un emozionante fenomeno scientifico.
Solo il vecchietto continuava a strepitare: «È dal 1870 che dico che ci sono i fantasmi e nessuno mi sta a sentire. Scienza: bah!» e le sue recriminazioni si perdevano nel sole.
«Ehi, Capo» esordì Havoc, dopo che tutti se ne furono andati, alzando il viso al cielo come se volesse abbronzarsi «ma esiste davvero questo fenomeno di cui parlavi?»
«Ho inventato tutto di sana pianta» ammise Edward con onestà, facendo spallucce «È andata bene che mi hanno interrotto perché non sapevo più cosa dire.»
Havoc, stupito, stava per fargli notare quanto fosse maturo da parte sua ammettere di non essere onnisciente, poi si rese conto del ghigno soddisfatto del ragazzo, che evidentemente pensava che la sua fosse stata una gran trovata, e capì che Edward non era cambiato affatto.
«Perché hai fatto quella scena, Edward?» domandò Rebecca, curiosa.
«Primo, perché è meglio non avere vicini convinti che a casa tua ci siano gli spettri, secondo perché se faccio saltare la copertura al Generale quello mi riduce in cenere.»
«Ancora questa storia, Ed?» fece Havoc.
«Adesso ne ho la certezza: la descrizione corrisponde, quelle che sono venute qui sono le stesse persone che ho visto passare in macchina. La loro auto è parcheggiata là, davanti a casa mia. Se non fossero loro sarebbe una coincidenza ben strana, no?»
Havoc voleva crederci, ma sentire il suo dubbio detto ad alta voce da Rebecca tarpò le ali della sua già scarsa fantasia.
«E se fosse l’esatto contrario? Potrebbero essere dei nemici che ci stanno pedinando, non possiamo escludere neppure questo.» ribatté infatti la donna.
Edward scosse la testa. Né Rebecca né Havoc avevano visto in faccia gli occupanti della Modello 6, era ovvio che non li avessero riconosciuti.
«Se sono il Generale e il Maggiore» spiegò il ragazzo, guardando l’orizzonte, reso una linea variegata e quasi fantasiosa dalle colline «lo scopriremo subito: saranno di sicuro andati da Winri. E poi» si girò verso i due militari «sulla collina ci sono i segni di una trasmutazione.»
Havoc si grattò la testa «Mi sono sempre chiesto come facciate voi alchimisti ad accorgervene.» poi si ricordò che Edward non era più un alchimista e assunse un’espressione imbarazzata.
Il ragazzo non fece una piega e continuò: «Se ci muoviamo, magari li incontriamo per strada. Il Generale è talmente pigro che piuttosto che tagliare per le colline si sarà fatto la stradina comoda, ci scommetto...»
 
Naturalmente, mentre Edward passava per la strada sterrata, Roy e Riza stavano tornando indietro passando per i colli.
Erano secoli che Roy non cambiava una gomma, perchè prima ad East e poi a Central aveva sempre avuto gente incaricata di farlo per lui, ma in guerra... in guerra era stata tutta un'altra cosa, perchè se qualcuno dall'altra parte della barricata ti bucava uno pneumatico o sapevi sostituirlo alla svelta o eri morto.
Colpito da un pensiero improvviso, alzò lo sguardo verso Riza
«I bulloni non si avvitano con l’alchimia.» disse a prima vista senza nessuna coerenza, come se avesse avuto una realizzazione improvvisa.
«E allora?» fece la donna, confusa.
Roy scrollò la testa. «Niente. Mi è solo venuto in mente che spesso ci dimentichiamo che l'alchimia non può fare tutto. Forse è un bene che ogni tanto la Verità ci punisca o che non ci siano molti alchimisti. Diventeremmo arroganti.»
Fu il turno di Riza a scuotere la testa «So che non lo crede davvero. Riguardo alla Verità, intendo.»
Roy sorrise «No, infatti. Penso che l'uomo possa imparare e andare avanti anche senza la punizione di una divinità, e l'ho sempre pensato, in effetti.» finì di sistemare la ruota e si alzò, guardando la campagna assolata «Non credi anche tu che l'uomo, nonostante sia fragile e così disgraziatamente... umano, abbia comunque, o forse proprio per questo, una sorprendente dignità?»
«E' per questo che siamo arrivati fin qui, no?» disse Riza sorridendo a sua volta, e per qui non intendeva una collina nella campagna dell'Est.
Roy annuì, e per un po' non dissero niente, guardando un po'di cielo e un po' di campi, schermandosi gli occhi contro il sole ma non troppo, perchè il sole era bellissimo.
Alla fine, il Generale si schiarì la gola «Dobbiamo riportare questa a Winri, adesso.»
«Signore, se Edward dovesse arrivare a Resembool, forse passerebbe per casa sua. Non è del tutto improbabile, considerato che si trovava al nostro paese non più di due ore fa.»
«Lo aspetti qui, allora?»
«Sì. Gli scriverò un biglietto, se dovesse passare dopo che ce ne siamo andati.»
Fece per fare il saluto militare nel congedarsi dal suo superiore, ma Roy la prevenne: «Non è il caso, Maggiore.»
«Scusi, Generale, ma non passa per le colline?» chiese Riza, vedendo che Roy si avviava verso la base dell’altura.
«Nah, sono troppo stanco. La strada è più semplice, perché complicarsi la vita?»
 
«Ed, per fortuna sei qui!» gli urlò in faccia Winri, aprendo la porta.
«Che succede?» domandò il ragazzo, stordito, mentre la giovane lo abbracciava. Certo che era strana, a volte a mala pena sembrava accorgersi che aveva messo piede in casa, altre volte la trovava ad aprirgli la porta prima ancora che lui si arrampicasse sulla collina perché lei lo aspettava guardando dalla finestra.
«Il Generale Mustang e il Maggiore Hawkeye stanno bene! Sono passati di qua pochi minuti fa...» iniziò Winri.
Edward fece un sorriso enorme «Ve l’avevo detto oppure no?» disse, all’indirizzo di Havoc e Rebecca.
In uno slancio di felicità Havoc strinse Rebecca in un abbraccio cameratesco riuscendo allo stesso tempo ad assestare una poderosa pacca sulla schiena di Edward.
«Dove sono adesso?» fece Rebecca, entusiasta e pratica come sempre, lanciandosi davanti ai due uomini.
«Sono tornati a casa di Ed perché gli si è forata una ruota dell’auto.»
«Perfetto, allora andiamo!» esclamò Ed, facendo per uscire.
«Fermo lì!» gli intimò Winri, afferrandolo per la collottola. Lo fece voltare verso di sé e gli disse, con la massima serietà «Ci sono delle persone che vogliono ucciderti.»
Edward la guardò smarrito, riuscendo solo a dire «Cosa, ma di nuovo?»
«Quante volte gli sarà già successo?» bisbigliò Havoc all’indirizzo di Rebecca.
«Più di una, ve lo posso assicurare.» rispose Winri, che aveva sentito, riservando al suo ragazzo un’occhiata che lasciava intendere quanto spesso il potenziale assassino fosse stata lei.
«Ad ogni modo, cos’è questa storia? Si sta parlando della mia morte, sapete...»
«Due terroristi si sono appostati davanti a casa tua per ucciderti. Ad ogni modo, credo che questo sia tutto quello che ne è rimasto.» disse, indicando il braccio sul quale stava lavorando prima che arrivassero, non senza un certo senso di colpa. Si trattava pur sempre di qualcuno che era morto.
«E che roba è?» domandò Edward, pizzicando il rivestimento dell’arto.
«Non lo so. Ma se lo studio e riesco a ricrearlo...» la ragazza fece un sorriso furbo, prima di scoppiare in una risata da maniaca «...diventerò ricca!» Se non fosse che era fisicamente impossibile, Edward avrebbe giurato di vedere una montagna di Cens fare il bagno nei suoi occhi.
«Ed, scherzi a parte» disse Winri tornando seria. Mortalmente seria «devi stare attento, hai capito? Stanno cercando di fare fuori tutte le facce conosciute alla popolazione, te compreso.» fece un respiro profondo per riprendere il controllo della sua voce, che aveva iniziato a tremare «Comunque, il Generale saprà spiegarti meglio di me.»
«Non sono l’unico che deve stare attento.» disse Edward, preoccupato, posandole una mano sul capo.
«Andrò a Central per un po’, finchè non tornerà tutto a posto. Era già da un po’che volevo tornarci.»
«Chi ti ha convinto?» domandò Edward, stupito.
«Il Maggiore.»
«Sempre detto che quella donna va fatta santa.»
Si guardarono per un attimo, in silenzio, mentre Havoc e Rebecca cercavano di appiattirsi contro i muri.
Poi Edward la baciò e le disse «Torno presto come sempre, eh, Winri?»
«Presto per te!» replicò lei, gonfiando le guance.
«Allora... ciao.»
I tre uscirono, e Winri li guardò avviarsi verso le colline, appoggiata allo stipite della porta.
Ed la salutava senza voltarsi, col braccio alzato, come faceva sempre.
Per quante volte ancora lo avrebbe visto allontanarsi? L’unico motivo per cui lo lasciava andare via era che sapeva che sarebbe tornato sempre indietro. Glielo aveva promesso.
 
Dopo che il Generale se ne fu andato e Riza Hawkeye ebbe attaccato alla porta di casa Elric un biglietto che diceva di andare da Winri non appena fosse tornato, la giovane si rese conto che non era sufficiente.
Se Ed, Rebecca e Havoc la stavano cercando, quasi certamente non si sarebbero fermati, ma avrebbero continuato a tentare di rintracciarla muovendosi di paese in paese.
Era meglio scendere subito a Resembool e lasciare detto a Edward di andare da Winri con la massima urgenza, quando fosse passato da lì.
Avrebbe potuto chiedere a qualche paesano di lasciare il messaggio a Edward.
“Andrò in macchina” si disse “Così farò in tempo a tornare qui prima che arrivi il Generale.”
E proprio mentre Riza si allontanava da casa Elric, Ed, Havoc e Rebecca ci arrivavano e non trovavano né il Generale, né il Maggiore né, se è per questo, la loro macchina.
Che fosse il caso o il destino, sicuramente stava giocando sporco.






NOTE di FINE CAPITOLO: Mia sorella mi ha consigliato di confessare che tutto il capitolo è solo un'immensa pubblicità della Vodafone. Ora sapete che i cellulari sono utili! ^^ Questa volta le note sono molto corte, ma in effetti non c'è molto da dire... rimedirò la prossima volta!
Piccolo appunto: ho girato un sacco per trovare una citazione che andasse bene, perchè mi scoccia andare semplicemente a cercare aforismi su internet, preferisco citare cose che conosco... grazie Stefano Benni!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Riunione ***


Eeeee.... puntuale! Sì, lo so, non ci credo neanch'io. Avete quindici secondi per allontanarvi dal monitor prima che il computer esploda.
NOTE: Com'era prevedibile, in questo capitolo i nostri eroi si incontrano. A un certo punto ho inserito una nota a piè di pagina che potrebbe essere utile, e a parte quello credo che non ci sia niente da dire. Piccolo appunto: la mia migliore amica mi ha fatto notare che Roy è troppo poco serio, e questo è un po' OOC. Il motivo sta nella sua sindrome da "Fu Mattia Pascal", nel senso che tutti lo credono morto e lui in questo momento sta provando una leggera euforia perchè si sente meno responsabilità addosso. Ovviamente questa è un'illusione e lui consciamente lo sa, motivo per cui pian piano si ridimensionerà. ^^
Prossimo aggiornamento: 21 settembre. Lo so, dieci giorni sono tanti e io sono una lumaca, ma inizia il periodo scolastico e sono alle prese con la scrittura di due romanzi e la revisione di un terzo, perciò dovrò dividere il tempo per riuscire a scrivere tutto U.U. Nel frattempo inizierò a postare una raccolta di OneShot che sto scrivendo! XD

Breve siparietto inventato da mia sorella, questa volta non riguardante la storia ma la scena in cui Alphonse e Kimbley lottano, che credo sia nel volume 23 e nella puntata 53, anche se non ci metterei la mano sul fuoco ("Se vuoi ti brucio direttamente" NdRoy "Ma anche no" NdAutrice). I dialoghi e la situazione non sono papali papali, ma mi sono arrangiata un po'. XD
KIMBLEY: "Devi scegliere se salvare gli altri o recuperare il tuo corpo."
ALPHONSE: "Perchè ci sono solo due scelte? Perchè non posso salvare gli altri e riavere il mio corpo?"
*Kimbley lo guarda come folgorato*
K *Mettendogli una mano sulla spalla e portandolo da parte*: "Ho sempre voluto discutere con qualcuno su questo punto!"
Al *Illuminandosi*: "Quindi anche lei è d'accordo con me!"
K: "Ma certo, bisogna andare oltre certe idee superate."
PRIDE: "Ehi, ci sono anch'io!"
*Gli altri due continuano a cianciare senza prestargli attenzione*
P: "Attaccalo, Kimbley!"
*Viene ignorato. Ora l'argomento di conversazione di Al e Kimbley si è spostato sui gattini.*
P *Piagnucolando* "Non mi sento preso in consideazione."
*Inizia a giocare sconsolato con la testa di Alphonse, picchiandola con un legnetto*

Molto lontano da lì, a Central City...
PADRE *in ascolto*: "Ma cosa sta dicendo Pride? Colla... Tritaverdure... Bastone... Ma che cos'è, un insulto?!

E ora... al capitolo!








 “Ti si era dato per disperso
[...]
invece ci siamo tutti proprio tutti
e solo adesso, con te,
la tavolata è perfetta sotto queste pergole.”
                                              “I ricongiunti”, Vittorio Sereni
 
«Sono venuto a restituirle la chiave, signorina Rockbell.» disse Roy, quando Winri gli aprì la porta.
«Oh, ma non era necessario, non ho solo quella!» la ragazza si interruppe, pensosa «Già che è qui potrei darle qualcosa da mangiare durante il viaggio. Venga dentro.»
E senza aspettare risposta si diresse in cucina.
«Edward è arrivato, l’avete incontrato?»
«No!» esclamò Roy «Dov’è andato?»
«Verso casa sua.» Winri si morse il labbro «E così non vi siete incontrati?»
«No, ma se sta andando a casa va bene. Hawkeye è rimasta lì, si incontreranno per forza.» questo gli ricordò che aveva un’altra cosa da chiederle «Posso avere anche delle garze, del disinfettante e qualcosa del genere? Il Maggiore prima è rimasta ferita e si è medicata alla bell’è meglio, ma preferirei che si curasse come si deve.»
«Ma perché non lo avete detto subito?» domandò Winri, andando a prendere una cassetta del pronto soccorso «Qui di queste cose ne abbiamo tante, siamo pur sempre medici.»
«Grazie, ma prenderò solo quello che ci serve. Altrimenti mi toccherà venire a restituire anche la cassetta.» scherzò Roy.
Winri scosse la testa «Fa sempre comodo avere qualcosa con cui medicarsi. Me la riporterà Edward quando sarà tutto finito.»
Roy, guardando la ragazza che si muoveva affaccendata per la stanza, raccogliendo tutto quello che pensava potesse tornargli utile, pensò che le doveva qualcosa. E sapeva esattamente cosa.
«Winri» iniziò «Prima non ti abbiamo detto una cosa. Ti ricordi di Kimbley?»
«Certo.» rispose la giovane, incupendosi. Zolf J. Kimbley era stato l’autore materiale del suo sequestro, tre anni prima.
«In qualche modo quell’uomo è sopravvissuto, ed è lui che tira le fila dell’organizzazione terroristica.»
«Ne siete sicuri?» chiese Winri ad occhi bassi, ficcando con più energia di prima la frutta che aveva riunito nella borsa.
«Purtroppo sì. E c’è dell’altro.» Roy si interruppe. Doveva dirglielo oppure no? Probabilmente nessuno aveva mai raccontato a quella ragazza come stavano veramente le cose. Se lo avesse saputo forse non avrebbe cambiato niente, forse le avrebbe anche fatto un po’ male, ma la verità non è mai irrilevante.
«Io ero coi tuoi genitori ad Ishbal.» la guardò, spiando le sue reazioni. Winri non si mosse.
«In quella guerra, credo siano stati gli unici a fare davvero il proprio dovere. Secondo lo Stato Maggiore, lo fecero fin troppo bene.»
Si bloccò, pensando a come continuare «Il distretto dove lavoravano i tuoi genitori doveva essere raso al suolo dalle truppe, ma i dottori Rockbell non se ne volevano andare. Sarebbe stato difficile per l’esercito agire senza che fossero coinvolti nella battaglia, ma la loro morte avrebbe causato uno scontro con l’opinione pubblica. Kimbley fu incaricato di ucciderli facendo in modo che sembrasse un incidente, preferibilmente causato dagli Ishbalan.»
Gli occhi di Winri si riempirono di lacrime, mentre la bocca le tremava con qualche parola ancora intrappolata dentro.
«Devi essere molto... molto orgogliosa di loro. Hanno avuto il coraggio di opporsi a quelle stesse persone che volevano sfruttare la popolazione di Amestris prima che lo facessimo tutti noi.»
Winri annuì, asciugandosi le lacrime «Grazie, grazie infinite.» disse con voce tremante.
«Perché?» sfuggì detto al Generale, che non capiva.
«Perché si è fidato di me. Avrei potuto non essere abbastanza forte per sopportare la realtà, è quello che pensano sempre tutti, ma lei ha creduto che avessi il diritto di sapere. La ringrazio.»
Fece un piccolo inchino «So da molti anni che l’odio è poco produttivo. Non voglio che fermiate Kimbley per avere vendetta, solo perché non voglio che muoia altra gente.»
«Sei fortunata se riesci a non odiare.» commentò Roy, amaramente «Kimbley... non si può neanche definire umano, forse uno che non l’ha visto in azione non può capire fino a che punto.» abbassò leggermente la testa, poi parlò con una sincerità che raramente gli apparteneva e se ne stupì «Troppi brutti ricordi. Avrei voluto che questa volta il Maggiore non ci finisse in mezzo.»
«Lo sa che mi sono impegnata così tanto nel costruire automail proprio grazie alla signorina Riza?» disse Winri, versando il the che aveva preparato in un thermos e passandone una tazza al Generale.
Roy alzò gli occhi, stupefatto.
«Quando le ho chiesto perché era nell’esercito» continuò la ragazza con un sorriso «mi ha detto che doveva proteggere qualcuno, e che avrebbe continuato ad essere un soldato finchè quella persona non avesse raggiunto il suo obiettivo. È per questo che ce l’ho messa tutta per costruire a Ed degli automail sempre migliori.» fece una pausa, poi lo guardò diretta, dicendo con slancio: «Deve permetterle di rimanere al suo fianco.»
«Uh?» fece l’alchimista, bevendo un sorso di the.
«Dopotutto» disse Winri, sistemando meticolosamente garze e compagnia bella nella cassetta di primo soccorso «lei è innamorato della signorina Riza, non è vero?»
Roy sputò tutto il the sul muso di Den «M-ma lei è solo un’amica, un’amica d’infanzia!»
Winri lo guardò senza parole per un attimo, pensando: “Divertente... il Generale va nel panico quando gli si dice come stanno veramente le cose.”
Roy si ricompose quel tanto che bastava per dire: «Adesso devo proprio andare. Ora che Edward è arrivato, dobbiamo partire il prima possibile. Grazie di tutto.»
«Si figuri. Mi ha fatto piacere sentirmi utile.»
Per la seconda volta in quella giornata lo osservò allontanarsi e si disse: “speriamo che si incontrino, questa volta.”
 
Quando Roy arrivò per la terza volta davanti a casa di Edward e Alphonse non trovò nessuna delle persone che avrebbero dovuto essere lì. Su quattro non era una buona media.
Li chiamò, sentendosi un bambino stupido che gioca a nascondino facendosi fregare dai compagni, e sbirciò anche dentro la casa, ma di loro non c’era traccia.
Il problema era che non capiva nemmeno dove potessero essere andati.
Forse erano tornati da Winri? O gli era successo qualcosa?
Roy scosse la testa. In un caso del genere, senza poterli sentire in alcun modo, la cosa migliore da fare era scendere al paese. Prima o poi sarebbero di sicuro passati da lì, o almeno lo sperava, anche se qualcosa di molto simile a un filo di panico si faceva strada in lui.
Non c’era davvero nessun modo di contattarli, si rese conto.
Doveva fare in fretta.
Ispezionò i dintorni della casa, certo che se Acciaio non era completamente scemo un mezzo per muoversi in quei posti doveva pure averlo.
Trovò una bici all’apparenza nuova incatenata al recinto, forse più per evitare che cadesse che non per la paura che qualcuno gliela rubasse.
«Scusa tanto, Acciaio.» disse tra sé e sé Roy, fondendo la catena del lucchetto.
 
Era parecchio tempo che Roy non pedalava giù per una collina, e se è vero che non ci si scorda mai come andare in bicicletta forse c’era bisogno di un po’più di pratica.
Fece tutta la strada avvinghiato al manubrio, con l’istinto di urlare e il rifiuto di frenare perché per farlo avrebbe dovuto muovere le mani e aveva il vago sentore che se lo avesse fatto si sarebbe schiantato da qualche parte.
Ma dopo pochi minuti non ebbe più bisogno di preoccuparsi perché più avanti le colline digradavano dolcemente, e laggiù c’erano tre persone che camminavano verso il paese, ma soprattutto un’auto bianca che procedeva verso di lui.
A quel punto poteva pure cadere.
«Edward!» Esclamò la donna sull’auto.
«Maggiore!» urlarono all’unisono il ragazzo e Roy, mentre quest’ultimo continuava a scendere e Riza si avvicinava.
«Edward?» domandò Roy realizzando la situazione.
«Generale!» fecero le tre persone, che adesso erano diventate chiaramente Edward, Havoc e Rebecca, girandosi verso di lui.
«La mia bici!» strepitò Edward, non appena si accorse del mezzo di locomozione di Mustang.
«Riza!»
«Rebecca!»
«Ehi, a me non chiama nessuno?» intervenne Havoc, con un ghigno contento che gli andava da un orecchio all’altro passando, ovviamente, per la sigaretta.
«Havoc!»
«Così iniziamo a ragionare, Generale.»
Il viso di Edward sembrava essere di un’indecisione cronica, la sua espressione passò dalla sorpresa ad un sorriso aperto e infine alla rabbia.
«Inizi a correre, Generale di Merda, perché se la raggiungo la stermino!» urlò, stringendo i pugni.
«Ti sono mancato, eh, Acciaio?»
«Da morire.» replicò lui, sarcastico «Però non mi piacciono quelli che non mantengono le promesse. Ci tenevo a dirglielo, prima che schiattasse.»
Si salutarono con un pugno, perché i ragazzi spesso quando quello che vogliono dire diventa troppo complicato si picchiano.
«Generale.» salutò Havoc, simulando rispetto, anche se un angolo della bocca un po’sollevato lo tradiva. Era emozionato, era evidente.
Intanto Riza era scesa dall’auto, giusto in tempo per ritrovarsi impacchettata in un abbraccio di Rebecca.
«Riza!» il Tenente quasi urlava, mentre scuoteva la sua amica come fosse stata una bambola di pezza «Come hai potuto farmi preoccupare così?»
Tutti tacquero per un attimo, guardandosi l’un l’altro. C’era qualcosa di rinfrancante, in quel silenzio.
«Bene, adesso ci siamo tutti.» commentò Mustang, gioviale.
«Dovremmo avvertire il Comandante, vedrete come sarà contento...»
«Ehi, Havoc, frena! Prima devono dirci cos’è successo.» disse Rebecca, prevenendo Edward che stava per dire pressappoco la stessa cosa.
Tutti e tre guardarono con fare inquisitorio il Generale e il Maggiore, mostrando ben poco rispetto nei confronti dei loro gradi.
«Molto riassumendo, l’organizzazione terroristica che dovrebbe avermi fatto la pelle è in realtà composta da nazionalisti che sfruttano l’alchimia per farsi credere di varie etnie, e che probabilmente hanno intenzione di uccidere il Generale Armstrong e il Comandante Supremo, come minimo... ah, già, anche te, Acciaio. Ci sarebbe anche il fatto che il capo è Kimbley.» Roy sapeva bene che, paradossalmente, un tono noncurante aumentava l’impatto di quello che stava dicendo.
«Ma cosa blatera, Generale!» sbottò Edward, mentre la faccia degli altri due Tenenti si liquefaceva in un espressione di sconcerto «Kimbley è morto stecchito. Io c’ero, se non se l’è dimenticato.»
«È proprio per questo che ci servi tu, Acciaio.»
«Venite, vi spieghiamo strada facendo.» intervenne il Tenente.
A quelle parole l’irritazione abbandonò Edward. Quello che stava succedendo l’avrebbe scoperto di lì a pochi minuti, intanto adesso si partiva.
E quando Edward partiva, c’era qualcosa nell’aria.
Un’alchimia segreta tra lui, la strada che aveva da fare e la meta.
 
«Pronto?»
«Buongiorno, Eccellenza, sono Havoc.»
«Aspettavo che mi chiamassi. Avete trovato Riza?»
«No, Signore. Mi dispiace.»
«Lo immaginavo. Se Riza ha deciso di non farsi trovare da voi non penso che riuscirete a rintracciarla.»
«Avete qualche nuova informazione sul nemico?»
«A sentire i testimoni sono stati un gruppo di Ishbalan.»
«Non le sembra un po’ strano?» replicò Havoc, dando col tono un peso preciso alle sue parole «Tutti questi attentati portati avanti da diverse etnie, così all’improvviso.»
«Molto strano.» rispose Grumman in tono cupo, drizzando le antenne «Perché allearsi e formare un’organizzazione terroristica di queste dimensioni proprio ora che abbiamo intrapreso una politica egalitaria? Non per vantarmi, ma avrebbe avuto più senso sotto il precedente governo.» fece una breve pausa. Aveva capito che Havoc sapeva qualcosa, e aveva intenzione di farsi passare più informazioni possibile «Allora, come ve la passate lì?»
Havoc non aspettava altro.
«Sto facendo una partita a scacchi con Ed. Era convinto di avermi messo sotto scacco e che per me non ci fosse più speranza, ma sono riuscito ad ingannarlo e adesso il Re e la Regina stanno per fare la loro mossa.»
Silenzio attonito dall’altra parte del filo, il rumore di qualcosa che cadeva.
«Però, Havoc» il comandante supremo si era ripreso dalla sorpresa, la sua voce rideva «non ti facevo così abile, sono basito.»
«Un consiglio per le sue prossime partite, se mi permette di darglielo: lasci morire la Regina e si tenga pronto a farla ritornare in qualsiasi momento. Nessuno fa caso ad un pedone tenuto in campo nemico, e al momento più opportuno si può sorprendere il proprio sfidante.[1]»
«Consiglio prezioso, lo terrò a mente.»
«Allora a risentirla, Eccellenza.»
«A presto, Tenente Havoc, e grazie.»
Il Fuhrer mise giù la cornetta con entusiasmo, tanto che il suono del ricevitore contro l’apparecchio attirò l’attenzione di Breda, che in quegli ultimi giorni aveva passato più tempo nell’ufficio del Comandante che a casa sua.
«Buone notizie, Signore?» domandò il Tenente, notando il sorriso dell’uomo, che sembrava troppo grande perché a sua faccia potesse contenerlo.
«È vivo.» disse Grumman «Non so come abbia fatto quel diavolo d’un ragazzo, ma è vivo, e Riza deve averlo capito, è per questo che è scappata per raggiungerlo.»
Il volto di Breda si aprì prima in un’espressione di stupore, poi nel suo tipico sorriso franco con una punta di furbizia che negli ultimi tempi sembrava aver messo via come un vestito fuori stagione.
«Lo sapevo, lo sapevo!» esclamò, dando una poderosa manata sulla scrivania del Fuhrer.
Poi si bloccò, imbarazzato.
Grumman era stato per tanti anni suo Generale in capo, a East City, e il Tenente faticava ad adottare con lui l’etichetta che si doveva tenere in presenza del Comandante Supremo, perciò non sapeva mai come comportarsi e aveva la sensazione di essere un po’troppo informale nei suoi confronti.
Il Fuhrer se ne accorse e rise «Non essere così ingessato, Breda! Oggi bisogna festeggiare, e io non sono un fissato del bon ton.»
Il Tenente si rilassò un po’ «Sono con Havoc, adesso?»
«A quanto pare sì.»
«Allora ci ha davvero beffati tutti... tipico del Generale. Ha qualche idea su come possa averlo fatto?»
«No» rispose il Comandante, quieto «Ma ho la sensazione che per capirci qualcosa di più dovremmo parlare col dottor Knox.»
«Vuole che vada da lui?»
«Sì. Ma prima avverti Madama Christmas, saprà allestirci una rete di comunicazione coi fiocchi per tenerci in contatto. Massima riservatezza, mi raccomando. Il fatto che Havoc abbia usato un codice, anche se elementare, è un preciso invito ad essere cauti. Se il Generale non ci ha contattato prima per dirci che era in vita significa che il nemico, chiunque sia, ci tiene sotto controllo.»
«E significa anche che ha bisogno che lo credano morto per muoversi più liberamente.»
«Precisamente. Motivo per cui è opportuno simulare la morte di mia nipote, come mi ha suggerito Havoc. Ho bisogno che tu esca di nascosto da Central City e rientri con la bara di Riza Hawkeye. E mi raccomando, fa in modo che ti vedano tutti ma che nessuno capisca cosa stai facendo. Il modo migliore per attirare l’attenzione è fingere segretezza.»
«Sarà fatto, Signore.»
«Ah, Breda, avrei anche un altro favore da chiederti...»
 
 
 
 
 
 
 
 
 



[1] Scusate l’intervento. Non sono una grande fan delle note a piè di pagina, ma mi sono resa conto che forse non tutti conoscono il gioco degli scacchi e quindi mi sono permessa di fare questa incursione. Havoc con questa frase si riferisce al fatto che un pedone che attraversa tutta la scacchiera fino alla fine del campo avversario può essere sostituito dalla regina, se questa era stata precedentemente mangiata. Penso che tutti capiate come questa mossa si adatti al contesto. XD
 




NOTE di FINE CAPITOLO: Come avrete capito una parte del dialogo tra Winri e Roy è ricalcato da quello di Ed e Riza in FMA, prima che lei gli racconti della guerra. XD Mi è venuta quest'idea bislacca e non ho resistito.
Ho assunto come dogma di fede il fatto che nessuno abbia detto a Winri che Kimbley era stato mandato ad uccidere i suoi genitori, al tempo della guerra di Ishbal, se qualcuno ha informazioni che contraddicono questo punto si faccia avanti. Sto cercando di leggere più informazioni possibile dagli artbook della Arakawa per far rimanere la storia nel canon, ma naturalmente le devo cercare in inglese perchè di Giapponese conosco a malapena l'Hiragana e tre kanji (niente scherzi, sono tre davvero). Se qualcuno ha traduzioni/altro sarò ben felice di parlarne con lui!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Una donna è sempre un buon piano ***


Nota a margine: Evviva! Lo scorso capitolo ha ottenuto ben sei recensioni, grazie mille!^^ ("Per forza, sei talmente in ritardo che la gente ha iniziato a commentare per esasperazione!" NdRoy)
Sono in straritardo, è vero. Ma dopo la patente e una simpatica verifica di matematica (tralasciamo le altre, la matematica è il vero problema) sono tornata su questi lidi.
Per fortuna il capitolo undici è già pronto, dunque l'aggiornamento sarà puntuale. Per precauzione, però, d'ora in avanti le scadenze saranno più vaghe, dunque diciamo che aggiornerò tra una decina di giorni!
Nei prosimi tempi posterò inoltre il secondo capitolo di Analisi del periodo, che sarà molto più lungo e - spero - più interessante del primo. Inoltre posterò una simpatica oneshot che sto traducendo.
NOTE: La citazione di questo capitolo viene dal Don Giovanni di Mozart, opportunamente dissacrato. Mi scuso profondamente con Mozart e Da Ponte (*Si ritira in un angolo come tutti i personaggi di Soul Eater dopo aver letto una poesia di Chrona*). Spero che le spiegazioni che darò su Kimbley siano verosimili e non rompano le scatole.

Ho messo a posto gli errori che mi erano stati fatti notare: veramente palesi, tanto che se n'è accorta persino la sottoscritta quando ha riletto! -.-' Scusate, sarà stata la botta che ho preso l'altro giorno: stavo andando in bici e mi sono fatta investire da un pedone. Sì, avete letto bene. Credo che sia la punizione per aver tirato per errore una manata ad una vecchietta pochi giorni prima: lo scambio equivalente, il karma o quel che volete funziona sempre! ^^
... Lo so, non ditelo: nei libri di serie B la protagonista imbranata di solito incontra un vampiro sbilluccicoso e figo, ma la vita reale è un'altra storia. O voi, fan di Twilight, non mi linciate: non è che a me non piaccia, sono solo conscia di quanto sia un adorabile e gelatinizzante librucolo di serie B. U,U
E dopo aver fatto tutte queste considerazioni che non c'entrano una mazza con nulla, vi lascio nelle mani virtuali del capitolo e mi scuso ancora per il ritardo!

Minna, arigato gouzaimasu! XD *si chiede tra sè e sè "ma l'avrò scritto giusto?" Però è troppo pigra per andare a controllare.*







 “In Aerugo 640,
ed a Creta 200 e 31,
100 in Drachma
ed in Xing 91
ma...
in Amestris son già 1003!”
                           Da “Il Don Giovanni”, nota opera lirica di Amestris
 
«Dunque le cose stanno così, eh?» fece Edward, dopo che i due ufficiali ebbero concluso il racconto.
«Sì, e ti sarei grato se togliessi i piedi dal mio poggiatesta.» replicò Roy.
Edward borbottò qualcosa, ma rimise i piedi al loro posto e si sistemò un po’meglio sul sedile posteriore. Non era più un bambino, in fondo, era stupido intestardirsi solo per il gusto di irritare il Generale.
«E adesso?» domandò Havoc, mentre posteggiavano nel paese, vicino a dove loro tre avevano lasciato la macchina quando erano arrivati.
«Ho intenzione prima di tutto di scoprire quando i terroristi attaccheranno i loro obiettivi, e di andare a recuperare qualche alleato valido. Ci state?»
«Il capo è lei, non possiamo fare altro che obbedirle.» rispose Havoc con un sorriso furbo.
«Sicuro? Non sei in servizio, e non si deve fedeltà a un Generale morto.» dietro al suo tono leggero, Roy non stava scherzando. Voleva che i suoi sottoposti lo seguissero solo per loro volontà.
«Allora lo prenda come un favore personale.»
«Voglio proprio vederti davanti a uno pericoloso come Kimbley.» fece Rebecca, alzando un sopracciglio.
«Probabilmente ti sorprenderesti. Non sono così codardo come dici tu.» ribatté Havoc, girandosi stizzito dall’altra parte.
Edward guardò il Generale e il Maggiore, ma loro non sembravano affatto preoccupati dall’astio tra i loro due compagni.
«Bene.» tagliò corto Roy «Allora tu e Rebecca andate sull’auto con cui siete arrivati qui, mentre Acciaio viene con me. Devo parlare con lui.»
«È sicuro, Generale?» domandò Edward, guardandosi alle spalle, dopo che Havoc e Rebecca si furono allontanati «Non hanno fatto altro che litigare per tutto il viaggio... ma sono sempre così?»
Non ricordava che si comportassero in quel modo anche al Quartier Generale dell’Est, ma d’altronde lui ci passava talmente poco tempo che poteva benissimo non averci fatto caso.
«No» rispose Riza, con voce stranamente divertita «Hanno litigato, ma lo fanno sempre e prima o poi faranno pace. Sono ottimi amici, sai?»
Edward fece spallucce «Se lo dice lei...»
«Passiamo a questioni più importanti, Edward.» lo esortò Roy.
«Ah, già... perché vi servo? Si parla di scienza?»
«Si parla di alchimia.»
«Non sono più un alchimista da parecchio tempo, ormai.» fece Edward, voltando bruscamente la testa di lato e fissando la strada.
Roy, irritato dall’apparente mancanza di collaborazione, replicò «Uno che nasce alchimista non può che continuare ad esserlo, finchè non si dimentica di cercare la Verità.»
Edward stava per interromperlo dicendo che lui di Verità ne aveva vista già fin troppa, ma il Generale lo prevenne «E non fare il finto tonto. Lo sai, l’hai capito nello stesso momento in cui ti ho detto cos’era successo: abbiamo bisogno di sapere come ha fatto Kimbley a sopravvivere, per filo e per segno.»
Edward finse di sospirare. Aveva deciso fin da subito che li avrebbe aiutati, e poi – checcacchio! – i terroristi volevano ucciderlo «Ma perché non sono nato menefreghista?» disse, con uno sbuffo lento.
«Se lo fossi, non saresti tu.» considerò quietamente Riza.
Edward si chiuse per un attimo in un silenzio sostenuto, poi cominciò a parlare: «Prima di tutto, cosa vi fa credere che Kimbley abbia una pietra filosofale?»
«Se ha dato un corpo falso a così tanta gente, deve aver compiuto diverse trasmutazioni umane.»
Edward incrociò le braccia, fissando lo sguardo in basso, concentrato «Non è detto, in realtà. Non abbiamo prove che abbiano davvero usato una pietra filosofale, quando hanno trasmutato i carcerati del Laboratorio N°5.»
«Sì, ma tu e Al...» replicò Riza, confusa.
«Dall’esperienza che ne ho avuto io, la Trasmutazione umana si basa comunque sul principio di scambio equivalente. Dai qualcosa in cambio di qualcos’altro che non hai. Io ho dato il mio braccio in cambio di un collegamento tra l’anima di Alphonse e l’armatura.»
«Se ho capito bene» disse Roy «stai dicendo che tu hai dovuto pagare per ottenere una cosa che non c’era, ovvero un legame tra anima e corpo, mentre invece i terroristi sarebbero partiti da un essere umano provvisto di anima, corpo e connessione tra le due, e quindi...»
«...E quindi potrebbe non essersi trattato di trasmutazione umana. Sì, potrebbe essere così: un esperimento controllato è molto diverso da una situazione come quella in cui ci siamo trovati noi, dunque tutto è possibile.» si interruppe, poi parlò con una voce che non sembrava nemmeno la sua «Ricordate Tucker?»
«Come dimenticarlo?» borbottò Roy. Riza assottigliò lo sguardo, serrò le labbra e non disse niente.
«Beh, quando ha trasmutato Nina ha giocato con la vita umana, eppure non ha perso proprio nulla. Questo perché aveva le materie prime per la sua stupida ricerca tutte lì, a portata di mano. Non ha dovuto creare niente, né ha toccato con i suoi studi il segreto della vita, come fa chi vuole riportare in vita un morto.» si guardò le mani, ora tutte e due calde, di pelle e carne e ossa.
Cadde il silenzio, e Edward quasi si incantò a fissare le linee che si intersecavano sui suoi palmi, come in un labirinto. Poi parlò «Tuttavia, quella che ho appena detto è solo un’ipotesi. Credo che nessuno conosca abbastanza la trasmutazione umana da sapere con assoluta certezza come funziona.» altra pausa, mentre cercava di ricucire assieme tutti i ragionamenti che aveva fatto nel corso degli anni «In effetti, se si parte dal presupposto che si perde qualcosa quando si vede la Verità, e che la pietra filosofale ti permette di non varcare il portale, allora è molto probabile che ne abbiano una.» concluse.
Roy pensò al Giorno della Promessa, alla faccia ghignante della Verità. E poi, ancora prima, c’era stata Riza sanguinante, a terra.
Sì, quel giorno aveva rischiato prima di perdere la ragione, poi di perdere lei e alla fine aveva perso la vista e si era sentito quasi felice, perché gli era andata decisamente bene. A volte pensava di essersi trattenuto dal fare una trasmutazione umana solo perchè altrimenti avrebbe consegnato Amestris in mano al nemico, e questo non poteva farlo. Ma se Riza fosse morta, una volta che la battaglia fosse finita, davvero lui, nel buio della sua casa, non avrebbe provato a riportarla indietro?
Guardò la donna che ora sedeva al suo fianco. Non avrebbe mai ringraziato abbastanza May Chang.
Frattanto, la donna in questione lo stava chiamando «Generale?»
«Sì?» disse lui, riemergendo nella realtà.
«Stavo pensando che se Kimbley vuole sfidare lo Stato con un’organizzazione terroristica dubito che non abbia qualche asso nella manica. In caso contrario avrebbe troppe probabilità di essere catturato.»
Edward annuì «Motivo per cui, alla fine della favola, la pietra filosofale rimane la spiegazione più plausibile.»
«Ti spiace spiegarmi perché fino ad ora hai sostenuto la tesi opposta?» disse Roy, irritato.
«Perché bisogna prendere in considerazione tutte le possibilità.» spiegò Edward «E perché non vi illudiate che abbia già consumato parte della pietra per effettuare trasmutazioni umane.»
«Hai ragione» assentì Riza «non possiamo dare nulla per scontato, in una materia che conosciamo così poco.»
«Passando a come è sopravvissuto» iniziò Edward a voce un po’più alta «anche qui posso solo fare ipotesi, ma... gli spargimenti di sangue ordinati dal Padre avevano uno scopo ben preciso: creare una specie di ristagno di energia nel sottosuolo, per poter attivare il circolo di trasmutazione.»
«Va’ avanti.» disse annuendo Roy, che ormai aveva capito dove stava andando a parare il discorso del ragazzo.
«Questo prova che l’energia non solo si conserva, ma si mantiene più o meno intatta nello stesso luogo.»
«Quando hai distrutto la pietra filosofale di Pride, l’energia che conteneva non solo non è sparita, ma è anche rimasta lì... si può dire che sia stato lo stesso per l’anima di Kimbley?» domandò Roy.
«Non solo per l’anima, anche per il corpo.» precisò Ed che, scocciato dalla lunga immobilità, si era sdraiato sul sedile posteriore, lasciando penzolare leggermente gli stivali fuori dalla decapottabile.
«Cosa intendi?» domandò sorpresa Riza, girandosi di scatto.
«Al sostiene che quando hanno lottato contro Kimbley, Heinkel l’ha azzannato, probabilmente a morte, e poi io l’ho visto all’interno di Pride. Così ne ho dedotto che Selim l’aveva ingoiato, anima, corpo e tutto il resto.»
«Probabilmente questi elementi sono rimasti all’interno della pietra» rifletté Roy «Perciò Kimbley aveva a portata di mano il suo vecchio corpo trasformato in pietra filosofale...ma per riaverlo indietro avrebbe dovuto fare una trasmutazione!»
«E l’ha fatta.» mormorò Edward «Non sei obbligato ad avere un corpo, per fare una trasmutazione.»
«Ma che stai dicendo?! Devi per forza fare un cerchio, in qualche modo!»
Edward scosse la testa «Lo credevo anch’io. Ma quando sono diventato una pietra filosofale...»
«Aspetta un minuto...» fece Riza, sentendo che la situazione le stava sfuggendo di mano e che la cosa non le piaceva «Quand’è che sei diventato una pietra filosofale?»
«Per sconfiggere Pride sono dovuto entrare nel suo corpo, e anche se ero soltanto una forma di energia potevo agire fisicamente. Kimbley, che era nella mia stessa condizione, avrebbe potuto senz’altro usare l’alchimia.»
«E così non solo è riuscito a riunire la pietra filosofale dispersa in quel posto.» le sopracciglia di Roy erano aggrottate, lo sguardo perso tra il volante e la strada. «Ma ha anche riavuto indietro il suo corpo: non si può recuperare qualcosa che è andato perduto, ma ogni cosa ritorna più facilmente al suo stato iniziale, se ancora esiste in qualche forma. La stessa cosa dev’essere accaduta per un corpo trasformato in energia.»
«Generale, porti lo champagne: per una volta anch’io la penso così.» concordò Edward, con gli occhi chiusi e le mani dietro alla testa «Cosa sappiamo su quello che sta facendo?»
«Non molto, a dire la verità.» ammise Riza.
«Con tutta probabilità vogliono eliminare ogni persona che occupi una posizione di rilievo nell’amministrazione dello stato. Ma non sappiamo quando abbiano intenzione di farlo. O come. O quale sia il vero obbiettivo di Kimbley, che difficilmente corrisponde all’ideale dei terroristi.»
«Insomma, siamo messi bene.» commentò Edward. Sull’auto scese un lungo, indigesto silenzio.
«Allegri!» fece il ragazzo, con un certo sarcasmo «L’ultima volta che abbiamo iniziato così è stato un successo...»
 
Arrivarono a East City che era ormai sera. Più precisamente il momento in cui la sera si trasforma in notte e chi ha vissuto di giorno va a casa a dormire, mentre chi esiste solo nelle ore piccole esce a divertirsi.
Riza stava all’erta, protesa leggermente verso l’esterno della macchina e con tutti i muscoli tesi. Potevano passare inosservati in molti posti, ma lì li conoscevano tutti... e per di più Edward continuava ad essere Edward.
«Dobbiamo trovare qualcosa per coprirgli i capelli.» disse ad alta voce, passando mentalmente in rassegna tutti gli oggetti che avevano. Un paio di forbici sarebbe stato l’ideale, ma forse Ed non sarebbe stato tanto d’accordo.
«Cosa?» fece Roy, che stava pensando a tutt’altro, poi realizzò cosa intendeva Riza.
«Maggiore, la prudenza è una gran bella cosa, ma la maggior parte della gente qui è ubriaca.» mosse leggermente la testa in direzione della donna «Non c’è bisogno di tagliare i capelli del povero Acciaio.»
«I capelli?» esclamò Edward, con un tono più da “non osare” che da “ti sto facendo una domanda”.
«Tranquillo Elric, per adesso ti sei salvato.»
La bella gioventù di East – che non rinunciava a spassarsela solo perché non si trovava esattamente al centro di Amestris – era tutta seduta sulle sedie dei bar che chiudevano tardi.
Mentre passavano davanti ad uno dei suddetti, Roy se ne uscì con un improvviso: «Il Capitano Wesson non aveva una figlia?»
«Sì.» rispose Riza, sorpresa «Non era venuta al Quartiere qualche anno fa...?»
«Quante probabilità ci sono che quello che abbiamo incontrato a Resembool fosse il Capitano?» Edward girò lo sguardo lontano, sul cielo di East, pensando che il Generale si sentisse in colpa.
Ma Riza vide l’espressione di Roy e capì che sottintendeva tutt’altro «Considerato che tipo è parecchie, Signore.»
«Bene, perché quella seduta laggiù era la ragazza, e se non ci sbrighiamo la perdiamo.» accostò e fece cenno ad Havoc, che li seguiva poco distante, di fare lo stesso.
«Ma che gli è preso?» sussurrò Edward al Maggiore.
«Ha intenzione di cercare qualche informazione.» rispose la donna, con una frase che secondo Edward non spiegava niente. Mica potevano andare dalla figlia di Wesson e chiedergli “quali sono i prossimi appuntamenti di tuo padre con il suo club di terroristi?”
Poi Riza si rivolse al Generale «Non sarebbe meglio aspettare fino a domattina, Signore?»
«Se è in piedi adesso, dubito che lo sarà domani.» Roy prese il blazer che aveva lasciato sul sedile posteriore e si tolse gli occhiali da sole, decidendo di sfidare la sorte: tanto nessuno l’avrebbe riconosciuto. Sì, così era piuttosto elegante.
«Che succede, Signore?» domandò Havoc.
«Voglio approfittare di una coincidenza per sapere qualcosa di più sui terroristi.»
Il bar dove si diressero non era molto lontano da lì.
Il gruppo si fermò dall’altra parte della strada, decisamente in ombra rispetto alle sfavillanti luci del locale.
«Eccola.» disse Roy, indicando con un cenno una giovane che sedeva ai tavolini all’aperto «La riconosci?»
Riza annuì «È quella col vestito verde?»
«Sì.»
Chiunque fosse passato per strada in quel momento avrebbe visto cinque persone che parlavano animatamente tra di loro e che, per qualche stravagante ragione, avevano scelto il lato più buio della strada. Due di loro portavano addirittura la divisa, ma in questo non c’era niente di strano, visto che le divise dei soldati erano più eleganti dei vestiti che la maggior parte di loro possedeva. Per questa mancanza di aspetti notevoli, comunque, chiunque fosse passato per strada in quel momento non avrebbe prestato la minima attenzione al gruppo. E dunque non si sarebbe neanche reso conto delle occhiate furtive che lanciavano ad Amanda Wesson, aspettando che tutti i suoi amici se ne andassero.
Quando lei rimase sola con un'altra ragazza, e le due si alzarono per pagare il conto, Roy si staccò dagli altri «Aspettatemi qui.»
Attraversò la strada ed entrò nel bar con passo sicuro.
Più o meno nello stesso istante, ad Amanda cominciò a girare la testa «Mi sento un pochino strana.» disse con un filo di voce alla sua amica, prima che le ginocchia le cedessero.
Roy la prese al volo «Tutto bene?» domandò con voce calda, con una punta di studiata preoccupazione.
«S-sì.» balbettò quella, in egual misura stordita dall’improvviso capogiro e abbagliata dall’uomo che l’aveva afferrata.
«Forse è meglio che ti siedi e prendi qualcosa di caldo.» disse Roy, parlando con calma e senza sembrare pressante «Offro io.»
Quella strabuzzo gli occhi, senza sapere bene cosa rispondere.
«Che maleducato» sorrise Roy, galante «Vista la situazione non mi sono presentato... John, John Smith.»
Amanda, che nel frattempo si era ripresa, sorrise a sua volta con una punta di malizia e gli strinse la mano «Amanda Wesson. Non so davvero cosa mi sia preso, mi sento così in imbarazzo...»
«Può capitare a tutti, anche alle ragazze carine come te.»
Amanda Wesson, a onor del vero, sarebbe stata effettivamente una bella ragazza, se non fosse stato per il naso alquanto prominente, ma i progressi della chirurgia in quegli anni erano di buon auspicio, e dunque lei non disperava di poter risolvere quel piccolo problema in tempo utile. Ma questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta. Ciò che conta è che in quel momento non credeva alla sua fortuna, e che mandò via l’amica con una strizzatina d’occhio.
Certo che quell’uomo era proprio bello, anche se bisognava dire che i suoi capelli erano quantomeno bizzarri... un colore particolare, ecco.
Qualche metro lontano da lì, quattro persone osservavano la scena.
«Che razza di bastardo.» commentò Edward «Ha diminuito la concentrazione di ossigeno nell’aria per far avere un mancamento a quella ragazza.»
Riza lo guardò sorpresa «L’hai capito solo guardandolo?»
Fu il turno di Edward a sorprendersi, non senza una punta di sospetto «Lei gliel’ha già visto fare?»
Riza annuì, con gli occhi puntati sul bar «Molte volte. Fa sempre così, quando vuole guadagnarsi un appuntamento con una donna.»
«Allora è così che fa!» esclamò Havoc, indignato «Allora c’era un trucco! Quando rivedo Breda...»
«Beh, però bisogna riconoscere che ha del talento.» considerò Rebecca, pensosa «Non è da tutti far cadere ai propri piedi una persona con così poche parole.»
«Una volta ero convinto che fosse solo un donnaiolo da quattro soldi» disse Edward, come se stesse facendo casualmente quella considerazione «ma ormai mi sono convinto che esca così spesso con le donne per ottenere informazioni.»
«In effetti è così» ammise Riza, guardando Edward con la coda dell’occhio «ma c’è anche quell’assurda scommessa che il Generale ha fatto con Havoc...» lanciò un’occhiata di rimprovero al Tenente, che nel frattempo aveva estratto dalla tasca un block notes sgualcito e che le fece di rimando un sorriso colpevole.
«Una scommessa? Sembra interessante...» fece Rebecca, strappando dalle mani di Havoc il taccuino.
Di fronte all’espressione curiosa di Edward, Riza spiegò «Hai presente il Don Giovanni?»
Edward scosse la testa.
«Non conosce il Don Giovanni?» Rebecca sembrava sorpresa «Ma cosa insegnano a questi ragazzi?»
E fu così che Edward Elric, uno dei più grandi scienziati di Amestris, si sentì in imbarazzo per la propria scarsa cultura.
«Piantala, Catalina» fece Havoc «non l’hai neppure visto, il Don Giovanni.»
«Perché, tu sì?»
Riza li ignorò e si rivolse ad Edward «È un opera lirica. Il protagonista conquista 1003 donne ad Amestris... così hanno scommesso che il Generale deve riuscire ad avere un appuntamento con 1004 diverse ragazze per superarlo.» guardò per un attimo Havoc che sfogliava febbrilmente il blocchetto, poi scosse la testa «Se passasse in ufficio tutto il tempo che spreca per uscire avremmo già finito il lavoro dell’anno prossimo!»
«Ma si può sapere cos’hanno scommesso?»
«Qualunque cosa sia» disse Rebecca «tra poco dovranno dargliela, perché con questa siamo a 1003.»
Havoc aveva l’espressione di uno che è appena finito sotto un trattore.
Riza stava riflettendo, e quando ebbe finito di farlo ordinò: «Havoc, Rebecca, andate a casa vostra e prendetevi qualche vestito.»
«Ricevuto! Anche se qui ad East ho al massimo un abito decente...»
«Vieni Edward. Noi due ci sediamo al bar.» gli fece cenno di seguirla «Mettiti questi» gli porse il paio di occhiali da sole che le aveva dato il Generale quando se li era tolti «non sono molto, ma almeno ti copriranno gli occhi. E sciogliti i capelli.»
Così un paio d’ore trascorsero con Edward e Riza che chiacchieravano tra di loro tenendo d’occhio la situazione, Miss Wesson che ridacchiava e Mustang che continuava ad ordinare alcolici che a malapena sfiorava ma che in compenso faceva bere in una certa quantità alla sua accompagnatrice. Stando comunque bene attento a non farla ubriacare del tutto.
Nel frattempo il discorso andava avanti su questa linea:
«Oh, sono molto amico di tuo padre.»
«Davveeeero?»
«Sì, sono un militare anch’io.» quest’ultima frase era stata un rischio, che però Roy sentiva di poter correre.
«ma nooo!»
«È in città in questo momento? So che doveva partire, ma ho bisogno di un documento urgente...»
«Ehhh, in effetti –hic!- non è qui, adesso.» diceva Amanda con la pronuncia un po’strascicata a causa dell’alcool. Era una brava ragazza, Amanda, solo facilmente impressionabile, con una certa propensione all’entusiasmo e parecchia sana voglia di divertirsi.
E via così, per minuti che diventavano ore. Un sacco di frasi.
Intanto un gruppo di giovani si era seduto ad un paio di tavoli poco distante. Per un po’avevano guardato con insistenza Riza, poi uno aveva esclamato: «Ehi, bellezza, lascia lì il ragazzino e vieni a divertirti con noi!»
Edward fece un sorriso da bambino. Ma da bambino non significa necessariamente innocente: Edward, ad esempio, quando era piccolo era piuttosto furbo.
«Mia madre non può andare da nessuna parte, stiamo aspettando papà.» nel dire questo lasciò scivolare leggermente gli occhiali, mostrando gli occhi dorati. Tutto la mamma!
Roy, dall’altra parte del dehor, gli lanciò un’occhiata di approvazione.
Lui per tutta risposta gli fece una linguaccia.
Proprio mentre Roy e Amanda si alzavano arrivarono Havoc e Rebecca, adesso vestiti in abiti da civili e con due borse al seguito.
Il Generale si voltò un attimo verso il Maggiore e fece un impercettibile cenno con la testa.
«Adesso viene la parte divertente.» fece Riza, con un sospiro che lasciava intendere tutt’altro.
«Sarebbe?» chiese Edward.
«Quella in cui commettiamo violazione di domicilio.»






NOTE di FINE CAPITOLO: A onor del vero, quando Ed e Al hanno fatto la trasmutazione umana l'anima di Al si è legata al corpo mostruoso che avevano cercato di creare, ma Ed, non sapendolo, non è intervenuto su di esso, quando ha legato l'anima di Al all' armatura. Qesto è ciò a cui allude Ed quando dice che a causa del panico la sua è stata una trasmtazione molto improvvisata, diversssima da una provata in laboratorio. Amanda Wesson non è altro che la figlia di quel Wesson che aveva cercato di fare fuori i nostri eroi a Resembool.
L'occhiata significativa che Ed lancia a Riza quando si parla degli appuntamenti di Roy... beh, è comprensibile solo dopo aver letto le fanfiction precedenti a questa, che io non ho ancora pubblicato. Ammazzatemi pure perchè me lo merito, e nel frattempo ripetetevi che non sono cose fondamentali.^^ 
Per il prossimo caitolo ho in serbo... beh, una discreta sorpresa alla luce della quale alcuni di voi dovranno rileggere quanto detto sinora. ;)

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - verba volant, scripta manent ***


Ehilà! Ormai è parecchio che non aggiorno, ma abbiate pazienza: il capitolo non mi soddisfava e così l'ho modificato parecchie volte.
NOTE: il capitolo ha questo titolo perchè i nostri eroi si trovano alle prese con un mare di carta, mentre la citazione è tratta dal solito, adorabile Pennac. La persona che dice questa frase è ubriaca e si riferisce al fatto che tutti ora sanno una cosa che nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Alla fine capirete il perchè di questa frase, ma non anticipo nulla.
La storia sarà ancora moolto lunga, diciamo che non siamo neppure a metà. Se volete che io accorci, come al solito, basta dirlo.^^






“Fottuto film. Tutto il cimitero ne parla.”
                                                       “Signor Malausséne”, Daniel Pennac
 
«Sono arrivate delle lettere, mentre tuo padre non c’era?»
«Sci.» disse Amanda, con voce impastata, barcollando e appoggiandosi completamente a Roy «Ma non le ho aperte, nossignore.»
«Oh, non importa, quello che cerco è un semplicissimo foglio.»
«Vaaa... bene. Entri, vero?» biascicò la ragazza, dondolandosi sulla porta.
«Sicura che non disturbo?»
Amanda scosse la testa, facendosi ballare tutta la strada davanti con un curioso movimento sussultorio «Sono da sola, non c’è problema, eheh.»
Dall’altra parte della strada, dietro ad un cespuglio, Rebecca commentò a bassa voce «Che disgusto.»
«Beh, ho visto di peggio.» commentò Edward, constatando che quel giardino secco era decisamente più pulito rispetto allo stomaco di Gluttony.
Rebecca scosse la testa «Magari ci sono cose peggiori.» ammise, senza capire che stavano parlando di due cose diverse «Ma una ragazza con così poco rispetto per sé stessa...»
«È una scelta sua.» fece Havoc.
«Per quanto ne sa, Mustang potrebbe essere un pazzo o un maniaco! E lei lo fa entrare in casa come se niente fosse.»
«Allora diciamo che le è andata bene così, e magari la prossima volta starà più attenta.» Havoc aveva un tono di voce leggermente soddisfatto, come se avesse appena compiuto la buona azione del giorno «Mica brutta, però.» osservò.
«E smettila, cretino.» Rebecca gli piantò una gomitata nello stomaco.
«Volete fare silenzio?» gli intimò Riza, che stava accucciata in equilibrio sulle punte dei piedi, pronta all’azione.
Già trovava seccante il fatto di doversi appostare in un giardino dietro ad una siepe, un po’perché aveva qualcosa di infantile un po’perché potevano scoprirli da un momento all’altro, poi ci si mettevano Havoc e Rebecca che facevano chiasso, la posizione da tenere che era scomoda e quella gallina che abbracciava il Gen... ok, era più dignitoso cancellare quest’ultimo pensiero.
Calò il silenzio, rotto solo dal frinire dalle cicale da qualche parte in lontananza.
Davanti a sé, nel buio, Riza aveva solo una finestra illuminata. E un’altra attesa, come sempre.
 
«Grazie, il foglio che cercavo era proprio questo, sei stata gentilissima.» a dire la verità il foglio che la ragazza aveva dato a Roy era la lista della spesa. Non che fosse importante.
«Ma figuuurati.» Amanda si lanciò sul divano e scoppiò in una risata roca.
«Posso usare il bagno?»
«Certo... di sopra... o qualcosa del genere, già.»
Non appena arrivò in cima alle scale, Roy iniziò ad aprire sistematicamente le porte del corridoio.
La terza era una stanza ben tenuta, con una scrivania in noce su cui si trovavano dei fogli ben impilati. In cima alla prima delle pile c’erano anche delle lettere, all’apparenza intonse. Proprio quello che stava cercando.
Roy, che fino a quel momento aveva usato solo la luce del corridoio per muoversi, accese la luce della stanza e la spense nuovamente subito dopo, poi aprì leggermente la finestra.
«E questa è fatta.» disse tra sé e sé.
 
Riza guardo la luce sfarfallare e la finestra aprirsi.
«È quella.» disse semplicemente, alzandosi e lasciando che il suo braccio pendesse lungo il fianco, in una mossa apparentemente casuale che però le metteva la pistola che aveva sotto lo spacco della gonna a portata di mano.
Il viale, fiancheggiato da villette signorili, non era molto illuminato. Ma questo non significava che potessero attraversare la strada come fossero una truppa d’assalto o, peggio, come sprovveduti.
«Chi entra?» domandò Rebecca, non appena giunsero sotto la casa che era stata del Capitano Wesson e che adesso era di sua figlia. Anche se lei ancora non lo sapeva.
Tutti si voltarono verso Edward.
«Ci fosse una volta che non guardano me, eh?» borbottò il ragazzo «Perché io?» domandò ad alta voce.
«Perché se cadi al massimo ti rompi una gamba sola.» replicò Rebecca.
«Andiamo, Capo, ti sei sempre vantato della tua agilità.» commentò Havoc. Non riusciva a capire perché quella piccola peste ne avesse fatte di cotte e di crude e adesso si facesse tanti scrupoli, ma Edward aveva una morale. Forse era un po’distorta rispetto al senso comune, ma era comunque una morale.
«Ma quella mi serve per picchiare la gente, non per scassinare le case!» protestò infatti il ragazzo, come scandalizzato dal fatto che gli proponessero di compiere un’azione illegale.
Tutti gli fecero notare con lo sguardo l’assurdità di quello che aveva appena detto.
«Coraggio» fece Riza in un tono di voce che voleva essere rassicurante «non è così terribile come sembra.» poi aggiunse lanciandogli un’occhiata penetrante, non senza un pizzico di divertita crudeltà «Non sei il grande Edward Elric?»
Sì, lo sguardo di Riza gli ordinava di farlo, e di farlo subito.
Il giovane deglutì «Lei, Maggiore, mi fa paura.» decretò.
Poi si girò verso la villetta: a questo punto diventava una sfida tra lui e la grondaia.
Un piede lì, l’altro là, reggendosi al tubo. Se l’avesse visto sua madre, quanto si sarebbe arrabbiata!
Ma soprattutto, mentre saliva, Edward non riusciva a non pensare a quanto sarebbe stato più semplice se avesse potuto trasmutare il muro, e il ragazzo cercava in tutti i modi di non farsi venire idee del genere per la testa.
Si issò con facilità oltre il davanzale e si guardò intorno, per quello che riusciva a vedere.
Adesso doveva solo capire che cosa doveva prendere, perché lì dentro c’erano talmente tanti fogli che era impossibile controllarli tutti e non era neppure sicuro che i terroristi comunicassero davvero su carta.
Facendo mente locale, ad ogni modo, il campo si restringeva. Se Wesson stava aspettando degli ordini per i prossimi attacchi il foglio doveva essere recente e destare meno sospetti possibile, quindi probabilmente era camuffato da qualcosa di perfettamente innocente. Come una lettera.
Edward radunò tutte le buste che c’erano sul tavolo, chiuse o aperte che fossero, e le lanciò dalla finestra.
«Prendo anche i documenti militari?» domandò all’oscurità.
La voce di Rebecca gli disse di rimando «Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno.»
«Prendi tutto quello che puoi, Edward.» decretò Riza.
Il ragazzo si lanciò un occhiata alle spalle. Beh, contenti loro...
All’improvviso due luci fendettero il buio della strada e Edward per un attimo le fissò senza riuscire a identificare che cosa fossero. Ma l’illusione durò poco.
«Ehi, voi!»
Oh, accidenti!
 
«Adesso devo andare, Amanda.» affermò Roy, sgusciando via dalle braccia della ragazza che gli si era appiccicata non poco «Grazie ancora. Sei un tesoro di ragazza.»
«Maaa non puoi restare un altro po’?» Amanda lottò con la sua lingua, che sembrava non voler rispondere ai comandi «Tipo tutta la notte?»
«Mi spiace, ma devo proprio...» iniziò Roy, avviandosi verso la porta. Ma la ragazza gli si avvinghiò, tirandolo per un braccio.
«Ti prego ti prego ti prego, eh» fece lei, spezzando la frase con una specie di singulto «resta un altro po’!»
«Facciamo così: adesso io vado, ma ti lascio il mio indirizzo, così sai dove trovarmi.» le disse il nome della prima strada di East City che gli venisse in mente, e prima che se ne rendesse conto aveva formulato per intero l’indirizzo del Tenente Breda.
«D’aaaccordo.» rispose Amanda con un sorriso ubriaco «Verrò a trovs..a trav...trovarti domani.» ci metteva un po’a trovare le giuste lettere da mettere in fila.
Roy uscì appena in tempo per sentire una specie di tonfo e vedere, in ordine, il Maggiore, il Tenente, Catalina e Acciaio correre come dei dannati inseguiti da un paio di rappresentanti della polizia militare di Amestris. Ognuno di loro portava con sé un plico di fogli, e mentre il Maggiore teneva i suoi stretti al petto e non se ne lasciava sfuggire nemmeno uno quelli di Edward sventolavano come banderuole e prendevano il volo uno dopo l’altro.
Molto opportunamente fece finta di non conoscerli e aspettò che fuggiaschi e inseguitori si dileguassero oltre le siepi di uno dei giardini, prima di andare a prendere la sua macchina – aveva visto Havoc parcheggiarla poco lontano da lì – e mettere in moto.
Il giorno dopo Amanda Wesson passò un indefinito numero di ore davanti alla porta di casa di Heymans Breda, lasciando i vicini a mormorare che era una vera indecenza che quel playboy del Tenente riducesse così una povera ragazza.
 
Roy si fermò davanti ad un magazzino malandato.
«Adesso potete venire fuori.» disse ad alta voce, aprendo la portiera.
«Come faceva a sapere che eravamo qui?» domandò Rebecca, emergendo con gli altri dall’oscurità del magazzino.
Fu Havoc a risponderle «La nostra squadra ha diversi rendez-vous concordati in varie città. Questo era in zona.»
«È un sollievo sapere che non stavamo correndo alla cieca.» commentò Edward.
«Avete preso i documenti?»
Edward indicò con un cenno del capo il plico tenuto da Riza «Non sono riuscito a prendere altro.»
«Senza contare quelli che sono andati persi per strada.» precisò Riza, piccata.
«Non importa» fece Roy, prendendo le buste che aveva visto nello studio di Wesson «Probabilmente quello che stiamo cercando è qui dentro. Ma adesso andiamo, leggeremo strada facendo.»
«Dovremo viaggiare su una macchina sola?» realizzò Edward, deluso: adesso non avrebbe più potuto stravaccarsi sul sedile posteriore.
Roy non stette a commentare sul fatto che difficilmente avrebbe potuto sdoppiarsi per portare lì le due macchine. Ed era abbastanza intelligente da arrivarci da solo.
Viaggiarono tutta la notte.
Havoc cominciava ad essere stanco di girare la manopola di quella stupida torcia a mano, ma il Generale aveva detto che era meglio risparmiare quelle a batteria nel caso ne avessero avuto davvero bisogno.
Il Maggiore lesse quella che doveva essere la sesta lettera, o forse la settima: «“Caro George, è un po’che non ci sentiamo. Come sta tua figlia? Io me la cavo alla grande. Ti scrivo perché ho bisogno di un favore: ho presso l’ufficio del catasto una pratica che riguarda la casa di mia madre, è la numero 85-46-162-2410. Se potessi dare una piccola spinta per accelerarla un po’ te ne sarei veramente grato. Spero che ci vedremo presto, Kayle”.»gli occhi del Maggiore scivolarono verso il basso «“P.S.: Ho appena finito di leggere “Gente di Dublith”, come mi avevi consigliato. È veramente un ottimo libro.»
«Bingo.» disse il Generale.
«Dice?» commentò Havoc «A me sembra solo una richiesta di favoritismi.»
«Maggiore, come sono i numeri delle pratiche del catasto?»
«Finiscono con tre cifre, e non con quattro.» rispose lei con le sopracciglia aggrottate. Poi il suo sguardo si spostò sull’uomo seduto accanto a lei «Dunque lei sa che cos’è una pratica, in realtà.»
«Ogni tanto presto attenzione.» confessò Roy. Sapevano entrambi quanto lui si impegnasse per raggiungere il suo obiettivo, e spesso le leggende sui suoi vizi erano in gran parte esagerate. Ma con il lavoro d’ufficio non andava molto d’accordo, quello era un fatto.
«Questo sarebbe un messaggio in codice?» domandò Rebecca, scettica ma senza la solita energia. Toccava a lei guidare e a lei piaceva viaggiare di notte, perciò si sentiva in pace con sé stessa e con il resto del mondo.
«Esatto. La chiave di lettura ce la fornisce il post scriptum: dobbiamo procurarci una copia di “Gente di Dublith”.»
Non sarebbe stato difficile da trovare: era un classico, forse si trovava addirittura negli empori di paese più forniti. Riza adorava quel libro.
«Sta dicendo che il numero della falsa pratica indica quali parole cercare nel testo?»
«Ma certo!» esclamò Rebecca «È un codice così banale che non ci avevo neppure pensato.»
«Non è stato molto furbo camuffarlo da tentativo di corruzione, però.» ragionò Havoc «Wesson ci andava comunque di mezzo.»
«È stata un’ottima idea, invece.» disse quietamente Riza «Se mascheri un reato con un’azione scorretta, chi ti scopre non indagherà oltre.»
La mattina dopo, non appena i negozi aprirono, Edward entrò con Rebecca in un piccolo negozio che vendeva praticamente tutto dagli ombrelli ai semi di girasole, e comprò una copia un po’sgualcita di “Gente di Dublith”.
E, proprio mentre stava per uscire, vide qualcosa di molto interessante...
 
«Si può sapere che diavolo è questo?» ruggì Roy, accartocciando nelle sue mani i bordi del giornale.
Riza, da parte sua, teneva gli occhi fissi sulla strada e le mani ancorate al volante senza sapere se essere più imbarazzata o arrabbiata. Al momento propendeva per la seconda ipotesi.
Edward non riusciva a smettere di ridere, anche se stava in guardia, casomai il Generale decidesse che bruciarlo non sarebbe stato un grosso problema.
Persino Havoc e Rebecca non riuscivano a fare a meno di sorridere. A labbra strette, però, per evitare di cedere alla ridarella.
Forse non c’era molto di cui divertirsi, tuttavia bisognava ammettere che la situazione era abbastanza ironica.
«Quello» rispose Jean, con la voce che gli vibrava per l’urgenza di ridere «è un articolo, Signore.»
«Mi prendi in giro, Havoc? Questo lo vedo da me.»
«Il problema è» disse Riza lentamente, con gelida rabbia «che razza di articolo è?»
«”La tragica storia di Roy Mustang e Riza Hawkeye”» lesse Rebecca alzandosi in piedi e spiando il giornale da sopra i sedili anteriori «Beh, Riza, a me il titolo sembra lampante.»
«Comunque, Generale, non è contento di essere diventato famoso?» intervenne Edward con un ghigno «Nel posto dove l’ho preso c’erano i vostri nomi dovunque!»
Roy e Riza si guardarono con la coda dell’occhio.
Senza alcun preavviso, l’auto compì un’inversione ad “U” ed entrò bruscamente in un centro abitato che avevano appena superato.
Edward, che non era più abituato alla guida pericolosa tipica del Generale e del Maggiore, lanciò un grido e si aggrappò al sedile con una forza tale che le nocche gli diventarono bianche.
«State cercando di uccidermi!?»
«Che ti serva di lezione.» gli rispose Roy con stizza.
Parcheggiarono davanti all’unica edicola del paesino.
Quasi non fecero in tempo a fermarsi che Roy e Riza si erano già lanciati fuori dalla vettura, incuranti delle occhiate degli abitanti, i quali si erano visti sfrecciare davanti un bolide all’apparenza senza controllo che aveva posteggiato con impeccabile quanto sorprendente precisione, miracolosamente senza investire nessuno.
Edward, Jean e Rebecca seguirono i compagni con più calma, scambiandosi occhiate divertite ma allo stesso tempo preoccupate.
Sul serio, cos’era quella storia?
Il Generale e il Maggiore si avvicinarono al chiosco e il loro sguardo fu ricambiato da quello di centinaia di loro copie.
«Mio Dio.» si lasciò sfuggire Roy.
«Questo potrebbe essere un problema, Signore.» constatò Riza. Il suo volto era calmo, ma la sua voce tremava leggermente per lo shock.
«”L’alchimista di fuoco e la tiratrice scelta: un amore travagliato, impossibile, commovente”» lesse a bassa voce Roy, prendendo in mano un settimanale per casalinghe disperate. La voce gli morì sul finale. Doveva essere un brutto sogno, uno di quei sogni schifosi che ti convincono di essere la realtà e poi anche quando ti svegli ti fanno stare male per tutta la giornata. «Hanno anche fatto uscire un numero speciale. Che onore.»
«”L’eroe di Ishbal e l’occhio di falco”» Riza storse la bocca leggendo il suo antico soprannome. Nonostante tutti i loro sforzi per far capire che la Guerra di Ishbal non era stata – sotto alcun aspetto – una vittoria, c’era ancora gente che pensava che potersi fregiare di titoli del genere fosse un privilegio «”una storia di dedizione e coraggio”...questo è il colmo.» disse la donna con amarezza, abbassando lo sguardo e rimettendo a posto il quotidiano «Ci citano perfino sui giornali dei guerrafondai.»
«”Il Generale e la nipote del Fuhrer, tutti i retroscena”» lesse Ed, pescando a caso un periodico a sfondo chiaramente scandalistico «E poi...forse questo è più normale: “La vera storia di due soldati”. Ve l’ho detto, siete voi in tutte le salse!» esclamò il ragazzo.
Per tutta risposta Roy gli pestò un piede, accennando con la testa all’edicolante.
Per fortuna il negoziante era un vecchietto che probabilmente non riusciva a sentire nulla che non superasse i novanta decibel.
«Attira più l’attenzione lei col suo modo di fare di me.» borbottò Edward.
«Non importa, volevo solo pestarti il piede.»
«Ma quanti anni ha?»
Fu Rebecca ad interrompere il battibecco «Ehi!» esclamò, indicando la copertina di una rivista patinata «Questa foto la conosco!»
«Fa vedere.» disse Havoc, prendendole di mano il giornale. La copertina ritraeva Roy e Riza, entrambi vestiti con sobri abiti da sera. «Hai ragione, è la foto che ci hanno fatto a una festa del Quartiere dell’Est, ma... l’hanno tagliata! Qui attorno c’eravamo noi e una ventina di altre persone.»
«Hanno tolto il mio bellissimo visino.» si lamentò Rebecca, fingendo di essersela presa «Come farò adesso?»
«Questa invece» mormorò Riza, prendendo un altro quotidiano, la cui prima pagina ritraeva lei e Roy in uniforme da parata, sei o sette anni prima «è quella che ci hanno scattato quando siamo stati promossi a Colonnello e Tenente.»
«Ma chi gli ha dato quelle foto?» domandò Roy tra sé e sé, passandosi una mano sul viso.
Tutti tacquero. Sapevano che c’erano moltissime persone che potevano averlo fatto, anche in buona fede.
Chiunque avrebbe voluto rendere giustizia ai loro amici, almeno nella morte. Il fatto che gli amici in questione fossero vivi era del tutto irrilevante.
Roy rimase a guardare in silenzio assoluto gli infiniti fogli che pretendevano di raccontare al mondo la sua storia, la loro storia, con le mani sui fianchi come chi si accinge a fare un lavoro faticoso e cerca di valutare quanto tempo gli prenderà. E, naturalmente, di raccogliere le forze.
Poi lanciò il portafoglio in mano ad Havoc e disse a lui e a Rebecca: «Comprate una copia di ogni giornale. Ci rivediamo in macchina.»
Riza salì sull’auto e si mise al posto di guida con le mani sul volante e la bocca appoggiata sul dorso, gli occhi bassi.
Roy invece rimase sul marciapiede, appoggiato al muro di un palazzo, a riflettere.
Aveva un’espressione così cupa che Ed si sentì in dovere di consolarlo. Tale dovere non implicava però l’essere cortese.
«Avanti, Generale» sbottò il ragazzo «non è così grave!»
«Quello che hai acquistato in statura l’hai perso in cervello, Acciaio?»
Edward non registrò il commento sui suoi neuroni e prese la frase come un complimento: «Allora lo ammette, eh? Ho acquistato almeno una trentina di centimetri.» precisò orgoglioso.
Con sua grande sorpresa il Generale non replicò e si lasciò cadere su una panchina come un sacco vuoto.
«Secondo te perché io e il Maggiore siamo seduti uno qui e uno là, e non a casa nostra, sposati e magari con un paio di bambini?» dire una cosa del genere ad alta voce dopo tanti anni di silenzio fece quasi venire la nausea a Roy. Si sentiva come se avesse fatto qualcosa di profondamente scorretto.
“Legge sulla fraternizzazione” pensò Ed. Causa della loro forzata lontananza e allo stesso tempo loro punizione.
La comprensione si dipinse sul viso del giovane. Paradossalmente se il Generale e il Maggiore fossero davvero morti non si sarebbe posto il problema, ma adesso che la loro storia aveva fatto il giro di Amestris poco importava quanto ci fosse di vero su quei giornali: tutti guardavano a loro come ad una coppia, e dunque...
«Sarete separati.» mormorò Edward. Quasi si sorprese dell’amara consapevolezza con cui lo disse «Vi assegneranno a due squadre diverse non appena sapranno che siete vivi.»
«Esatto.»







... Finito. La sorpresa a causa della quale alcuni avrebbero dovuto rivedere quello che è stato scritto fino ad ora è ormai facile da individuare, ma non dirò nulla finchè non emergerà del tutto. Il fatto che voi lo abbiate capito o meno dipende da come avete concepito la storia fino a questo momento, perciò spero di riuscire a stupire almeno alcuni di voi. ^^ Per coloro che non sapessero cos'è la Fraternization Law di cui si parla, è una legge dell'esercito che vieta ad un superiore e ad un subordinato che lavorano nella stessa squadra di avere una relazione. Stando all'Arakawa, è il motivo per cui non ha potuto far sposare Roy e Riza al termine di FMA. Riassumendo, la Fraternization Law è qualcosa che deve morire -.-.
 
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12: Ritorno ad Ishbal ***


E finalmente aggiorno! Sono talmente in ritardo che... che non mi viene neanche in mente un paragone azzeccato per esprimere quanto io sia in ritardo.
Mi scuso, sono davvero dispiaciutissima ma questo dal punto di vista del tempo è davvero stato un periodaccio. !
Ora sono messa un po' meglio, ho finito il romanzo che stavo scrivendo (ci sarebbero un po' di revisioni da fare, ma ho la sensazione di aver già fatto il grosso del lavoro in termini di tempo), lo spettacolo teatrale se dio vuole è finito e il polo di filosofia anche, e la gente ha momentaneamente smesso di chiedermi di fare qualsiasi lavoro gli venga in mente di farmi fare, per cui entro due-tre settimane (che già sono tante, è vero) dovrei aggiornare di nuovo.
Ci sarebbero ancora l'esame di maturità e quello per entrare a medicina, ma quelli li liquido in un attimo (*"Non è vero, ti tremano le gambe" NdMe*).
Scusate ancora, per farmi perdonare questo capitolo è leggermente più lungo degli altri e vi ho fatto un disegno *arrivano pomodori dal fondo* Ehi, siamo in tempi di crisi, non si spreca il cibo! U.U
Ok, dopo molta fatica sono riuscita ad inserire l'immagine! Ringrazio Neutraldarkside (e la sua amica) per avermi detto come fare!
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Nei suoi occhi c’è la vita, c’è l’amore

sul suo corpo c’è la febbre del dolore

sta seguendo una luce che cammina

lentamente tanta gente si avvicina.

[...]

Mille voci come sabbia nel deserto

mille voci come onde in mare aperto.

[...]

Liberati dal cemento e dalle luci

il silenzio nelle mani e nelle voci.”

Jehsael”, Ivano Fossati

 

 

Quando ripartirono, né il Generale né il Maggiore fecero ulteriori commenti sulla vicenda.

Anzi, non appena furono saliti in macchina Riza chiese ad Edward di tirare fuori lettera e libro, perché dovevano iniziare a tradurre.

«Cosa facciamo se i terroristi usano un’edizione diversa dalla nostra?» domandò Edward con le sopracciglia aggrottate.

«Questa è la più comune, ce l’hanno quasi tutti.» spiegò Roy.

«Già. Non credo che i terroristi si siano complicati la vita: se comunicano grazie a quel libro e sono sparsi in giro per il paese dev’essere facilmente reperibile, no?» Rebecca faceva le sue considerazioni sgranocchiando i pasticcini che aveva fatto in tempo a comprare mentre l’edicolante incredulo caricava di giornali il povero Havoc.

«E poi, Acciaio, non dimenticarti un fattore fondamentale.» proseguì il Generale.

«Sarebbe a dire?»

«La fortuna.»

Edward si ritrovò a riflettere sul fatto che effettivamente la buona sorte influiva non poco sulla buona riuscita delle imprese, da che mondo è mondo. Solo che spesso i protagonisti delle imprese suddette si dimenticavano di ringraziarla, e lei neppure se la prendeva troppo.

«Come dovremmo leggerli, questi numeri?» chiese Havoc, mentre si rigirava tra le mani la lettera.

«Mhmh» fece Edward pensieroso «Ammettiamo che il primo sia la pagina...poi? Leggi gli altri.»

«46,162 e 2410» lesse Havoc «Quanto ci metteremo?» domandò poi, espirando una lunga boccata di fumo «Dovremo fare qualche tentativo per capire qual è la riga e qual è la parola.»

«Quanto la fai difficile» Edward si appoggiò col gomito al sedile e con la schiena alla portiera, e si girò verso Havoc e Rebecca «Vedi? Non ci possono essere 162 righe in questa pagina, e beh, neppure 2410.» diede un’occhiata al foglio, poi disse con sicurezza «Le righe sono la 4, la 16 e la 24, mentre le parole sono nella prima riga la sesta, nella seconda la seconda, nella terza la decima.»

«Cosa viene fuori?» domandò Rebecca, quasi accoppando Havoc per vedere il libro che Edward teneva in mano.

«Nord.» sottolineò il ragazzo con una matita «Stazione. Diciannove.»

«Ma diciannove che cos’è? Il giorno o l’ora?»

Roy mise da parte i suoi frenetici pensieri su come risolvere la situazione in cui si sarebbero trovati lui e il Maggiore una volta che quella storia fosse finita. Cacciò via dalla sua testa i giornali, le leggi, le domande, via tutto, e rispose.

«Potrebbe essere tutti e due: il diciannove luglio alle diciannove.» dopotutto per pensare a cosa avrebbero fatto una volta fuori pericolo bisognava prima uscirne, e non si trattava di lui, ma di tutto il paese.

«Abbiamo quattro giorni.» precisò Riza.

«Ce la facciamo?» domandò Rebecca, alzando un sopracciglio.

Havoc scoppiò a ridere «Si vede che non lavori con noi, Catalina.»

Quella era una domanda che la squadra di Roy Mustang aveva imparato a non farsi da molto tempo.

 

«Benvenuti a Ishbal.» borbottò Roy quando giunsero in vista della città del deserto. Edward, che si stava lamentando con Havoc di quanto quel pastrano da deserto che gli avevano ficcato addosso fosse fastidioso, ammutolì.

Fino a qualche anno prima, la gente non sapeva nulla di Ishbal. Certo, c'era stata la guerra, questo era un dato di fatto, ma nessuno sapeva veramente cosa fosse successo su quella sabbia che aveva bevuto così tanto sangue.

"Ancora adesso", pensò Edward "Chi non è mai stato a Ishbal non può immaginare questo."

Dall'altura dove si trovavano si vedeva chiaramente la distesa di rovine che si estendeva per chilometri, all'infinito. Un deserto in mezzo al deserto.

Le urla, la gente che correva tra quelle mura che cadevano, l'odore del sangue...

«Mamma!» Un bambino che gridava, nel buio. Un cerchio di trasmutazione. Un rantolio. Al che non c'era più...

«Ed!» la mano di Havoc sulla spalla scacciò quella penosa associazione di pensieri «Guarda là davanti.» superata l'ultima curva, la visuale si aprì su un agglomerato di case questa volta indubbiamente intere. Il centro abitato non era molto grande, ma era già tagliato in due da una ferrovia, e gli innumerevoli cantieri che lo circondavano indicavano che era in via di espansione. Tutt'attorno le tende spuntavano dalla sabbia come margherite, e ancora oltre si aprivano sorprendenti campi coltivati e serre. Dei campi, in mezzo al deserto!

Catalina rise dell'espressione stupefatta di Edward «Ecco qui la nuova Ishbal!»

«Non è un paradiso» disse Havoc senza giri di parole, scoprendosi a guardare quel panorama quasi con affetto «Ma se mi sai dire un posto che lo sia, Capo, mi mangio gli anfibi.» fece una pausa «Sai» disse a Edward «E' stato il Generale a proporre che le rovine della vecchia Ishbal non fossero rimosse. Gli Ishbalan sono stati molto contenti: temevano che volessimo ricostruire sulle macerie e fare finta che la guerra non ci fosse mai stata.»

Roy scrollò le spalle «E' stata una manovra politica.»

Havoc fece un sorriso pigro e non disse niente.

Si fermarono prima che iniziassero le strade sterrate tracciate tra le tende.

«Io e Rebecca andiamo al Quartier Generale, allora?» domandò il Tenente.

«Sì» rispose Roy «Noi vi aspettiamo in piazza: voglio vedere com'è la situazione dopo gli attentati.»

Havoc e Rebecca fecero per eseguire il saluto militare, ma Riza gli scoccò uno sguardo di ammonimento. Nessuno doveva riconoscerli.

Quando i loro amici furono spariti, Roy e Riza si incamminarono puntando verso il centro della città. Edward gli tenne dietro guardandosi attorno perchè sentiva che gli abitanti della tendopoli lo stavano fissando.

Ad un tratto qualcuno sbucò da dietro un drappo di stoffa e lo salutò.

Edward, riavutosi dalla sorpresa, sorrise e ricambiò il saluto. Era il ragazzo che aveva incontrato alle rovine di Xerses così tanti anni prima, lo stesso che i dottori Rockbell avevano salvato durante lo sterminio.

«Ed, che fai?» Riza, accortasi che era rimasto indietro, si era voltata verso di lui.

«Ah, arrivo!» disse il giovane, accelerando il passo.

 

La piazza di Ishbal era piuttosto grande, abbastanza per contenere l'enorme fontana ma anche per lasciare molto spazio attorno.

C'era un certo viavai di gente: alcuni discutevano tra di loro, i bambini giocavano e parecchie donne attingevano l'acqua e si fermavano a chiacchierare.

Edward guardò la statua al centro della fontana.

Riza colse il suo sguardo e spiegò a bassa voce: «È dedicata a Ishvara.» non aggiunse che tutte le volte che il Generale Mustang vedeva quella statua la sua espressione cambiava, e lei sapeva perchè anche se non poteva capirlo fino in fondo.

Ma il ragazzo non la stava ascoltando. Quella statua...

Era costruita in una pietra in apparenza porosa che non doveva essere facile scolpire nel dettaglio, tuttavia Edward sentì un freddo glaciale dalle parti del petto anche se era nel deserto in estate e c'erano quaranta gradi.

Ogni tratto inciso su quella pietra era solo un frammento di un disegno più grande, ed era naturale, ogni statua era fatta così, eppure... eppure guardando quella statua in particolare era impossibile dimenticare che tutto fosse uno e uno fosse tutto: non si poteva scordare che quel solco o quella curva, pur in tutto quello che potevano significare, erano in realtà solo una parte della statua, lo stesso materiale a cui si era data una forma diversa.

Edward ebbe la sensazione che la pietra riverberasse, che spandesse ciò che era nel mondo come una musica, come un urlo. E il volto, il volto della statua...

La Verità.

Il giovane provò un'improvvisa vertigine e distolse lo sguardo dalla statua dal volto liscio, sedendosi sullo spesso gradino di pietra squadrata che circondava la fontana.

Roy lo guardò con un'espressione grave e fonda. La Verità pretendeva qualcosa in cambio da chi si avventurava fino a lei, ma anche se non l'avesse fatto avrebbe potuto ritenersi soddisfatta: chi l'aveva vista non tornava più normale, per quante braccia o occhi o corpi potessero essergli restituiti. Mai più.

Ed, che quando cercava di allontanare da sé qualcosa che lo turbava tendeva ad osservare meglio quello che lo circondava, notò che dalla fontana si dipartiva a raggiera una serie di tubi che sparivano immediatamente nel sottosuolo, interrati.

«Dove portano?» chiese con voce rauca, non volendo dare a vedere al Generale più di quanto avesse già fatto. Entrambi sapevano che cosa significava quella statua. Era abbastanza.

«Ai campi» spiegò Riza «Qui sotto c'è una falda acquifera, e il suolo della città è leggermente in pendenza. Questo è il punto più alto, così l'acqua finisce a valle.»

«Adesso stiamo cercando un modo comodo per far arrivare l'acqua corrente nelle case.» aggiunse distrattamente Roy, che da quando erano scesi dalla macchina non aveva detto nulla. Sentiva che l'atmosfera era tesa come una corda di violino.

«Avete fatto un ottimo lavoro.» constatò Edward, osservando quello che erano riusciti a fare in soli tre anni. Non doveva essere stato facile.

«E' il minimo» replicò Mustang in un tono che il ragazzo non riuscì a decifrare «visto quello che abbiamo distrutto.»

«Inoltre quello che vedi è merito della popolazione.» precisò Riza.

Qualunque fossero stati il loro lavoro e i loro meriti lì, non volevano parlarne. Edward rispettò questo desiderio.

Dopo qualche minuto il ragazzo si rese conto che erano diventati oggetto dell'attenzione di parecchia gente. Non era nulla di palese, nessuno li aveva circondati per sentire cosa dicevano o aveva iniziato a darsi di gomito col vicino indicandoli, ma non c'era persona nella piazza che non lanciasse verso di loro occhiate più o meno regolari.

Edward si chiese come avesse fatto a non accorgersi che erano gli unici abitanti di Amestris che si vedevano nei paraggi.

Alla fine una donna si decise a rivolgergli la parola: «Cosa vi porta qui?»

Non aveva esordito con uno "scusate" o con mille salamelecchi, ma nella sua schiettezza era riuscita a sembrare educata.

«Sono un imprenditore di East City» si presentò il Generale «John Smith. Questi sono mia moglie Jane e mio figlio Edmund.»

Edward si sarebbe aspettato di vedere il Generale allungare la mano per concludere la presentazione, invece si toccò il petto, le labbra e la fronte e disse qualcosa che Edward non capì.

La donna spalancò un poco gli occhi, poi si affrettò a ripetere il gesto e replicò con un'altra frase in una lingua che il ragazzo non conosceva.

«Cos'hanno detto?» domandò, inclinando leggermente la testa verso il Maggiore.

«E' antico Ishbalan. John ha detto "pace", e la donna ha salutato dicendo "e pace sia con voi": si dice così, quando due persone si incontrano.»

Ma certo. Non ci aveva mai riflettuto su, ma era ovvio che prima di parlare la loro lingua la gente di Ishbal doveva averne avuta un'altra. Non era stato Al a dirgli che gli appunti del fratello di Scar erano scritti in Ishbalan antico? Si chiese quante lingue che non conosceva fossero sepolte all'ombra di Amestris.

«Sono interessato ai tappeti che producete qui.» proseguì Roy «Penso che si potrebbe trovare un accordo.»

«È una buona notizia.» affermò la donna, quieta «Temo che adesso inizieranno i tempi duri: molti ci ritengono responsabili degli attentati, e adesso anche il Generale Mustang è morto...»

Roy si stupì delle parole della donna «Perdonatemi, io non so niente di queste cose, ma voi di Ishbal non siete soddisfatti della sua morte? Lui...»

«Il Generale ha ucciso molta gente.» lo interruppe dura una donna che si era avvicinata nel frattempo. Portava in testa un foulard arrotolato più volte che le cadeva su una spalla e una cesta di panni tra le braccia «Ma ha anche avuto il coraggio di tornare qui per rimediare a cose che non era stato lui a decidere. Cose che...» distolse lo sguardo e lo piantò lontano, non riuscendo a continuare.

«Noi non perdoniamo.» chiarì la prima donna «Sappiamo quello che ha fatto, ma neppure possiamo dimenticare il suo impegno.»

Di fronte all'espressione stupefatta di Roy, che rimase un lungo momento immobile con la bocca aperta a metà come se volesse dire qualcosa ma avesse dimenticato come si parla, la donna rise senza allegria «Non cerchi di capire il legame tra noi e Mustang. Ci vedrebbe sempre troppo odio o troppo amore.»

«Capisco, invece.» disse quietamente il Generale. Aveva voglia di gridare, di piangere, di dire grazie «Più di quanto immagina.»

«Comunque» riprese la donna con lo scialle sui capelli «non passeremo indenni i prossimi mesi. Adesso che il Generale è morto, chi prenderà a cuore questa zona?» dalle occhiate che il resto della gente che assisteva si scambiò fu evidente che su quel fatto si era dibattuto a lungo.

«Non infastidire questa gente con i nostri problemi, Rada.» disse un uomo, facendosi avanti e mettendo una mano sulla spalla della donna «Scusi mia moglie. Siamo tutti preoccupati.»

«Ora sapete perchè siete i benvenuti qui!» si intromise un ragazzo, in tono più leggero «Ma come mai siete qui in piazza?»

«Quando abbiamo contattato preso contatti con l'amministrazione locale ci hanno fissato un appuntamento con un certo Miles. Dovrebbe arrivare a momenti.»

«Certo. È lui che si occupa dei progetti economici.» fece un giovane con un paio di occhialetti.

Sembrò deciso all'unanimità che fosse l'ora di togliere il disturbo, e la folla radunata lì attorno si disperse e tornò alle proprie occupazioni, anche se molti rimasero nei pressi.

Roy si lasciò cadere sul muretto in preda a uno strano miscuglio di emozioni. C’era la gratitudine verso il popolo di quella terra che era riuscito a capirlo nonostante tutto, ma c’era anche il dolore per quello che aveva fatto, più forte del solito. C’era l’amarezza, c’era il rimorso, c’era un senso di liberazione che paradossalmente rinsaldava un legame.

Era sicuro che gli Ishbalan avrebbero visto la sua morte come un risarcimento, il segno che giustizia era stata fatta. Poco importava che lui coordinasse la ricostruzione della città: le reazioni di un popolo ferito non sono dettate dalla ragione, o dall’utilità.

E invece, sorprendentemente, si fidavano di lui.

Non era sicuro di volere che fosse così. Era più facile fingere di essere in pace con sé stesso se era odiato dalla gente a cui aveva fatto del male.

Alzò lo sguardo e incontrò quello di Riza. Erano stati graziati. Perdonati no, questo mai, ma adesso... era come se gli avessero detto che avevano ancora il diritto di essere al mondo.

«Adesso vediamo di meritarcelo.» disse lei, in risposta ad una domanda non fatta.

Roy fece un cenno, breve ma deciso. Sì, l’unica strada, per il resto della loro vita.

Interruppe il contatto visivo col Maggiore con un’espressione di scusa.

La donna si guardò rapidamente attorno – Edward stava parlando con un’anziana signora che curiosamente sembrava conoscere e le raccontava del suo fidanzamento con la figlia dei dottori Rockbell – e si sedette accanto al Generale, tirando fuori qualcosa dalla borsa.

Senza dire niente gli mise davanti la copia di “Gente di Dublith”.

Roy alzò lo sguardo, perplesso.

«Ha visto che storia hanno usato?»

L’uomo sfogliò il libro finchè non arrivò alla pagina sottolineata da Edward, poi fece una specie di risata malinconica «Evelynn.» disse, quasi con un sussurro «Era la tua storia preferita e non la volevi mai leggere.»

«Già.» disse lei, poi fece una pausa e sollevò il mento, chiudendo per un attimo gli occhi e lasciando che la luce del sole le gocciolasse sul viso «Somigliavo molto ad Evelynn.»

«Ma tu te ne sei andata.» obiettò Roy.1

«Perché non ho incontrato nessun Frank. Ho incontrato lei.» Roy la guardò sorpreso. Sapeva che dire quelle parole doveva esserle costato non poco, perché Riza era così, riservata, silenziosa, e anche dopo tanti anni doveva essere lui ad andare a cercare quello che lei voleva dirgli senza che lei lo dovesse dire ad alta voce.

«Ce l’avresti fatta comunque...» disse infine.

«È sicuro che sarei stata ancora io?» ribatté lei.

Tacquero, non dissero più nulla. Ma Roy si ritrovò a sorridere piano.

 

Tutto ad un tratto l’aria si riempì della consapevolezza che qualcosa stava per accadere, come se mille voci mormorassero senza che nessuno avesse aperto bocca.

Laggiù, in fondo ad una delle strade, la gente faceva spazio ad una divisa blu che procedeva a passo spedito verso la piazza. Nessuno si ritraeva al suo passaggio, ma l’atteggiamento delle persone che aveva attorno era inequivocabile anche da lontano: era circondato da una diffidenza quasi palpabile.

Quando anche Edward si accorse di lui pensò che fosse Miles, ma solo per un secondo: più si avvicinava più diventavano evidenti i capelli castani e la carnagione chiara.

Accidenti, pensò il giovane, ci mancava solo che gli calasse la vista. Un momento, Hohenheim...

Hohenheim portava gli occhiali, maledizione, e adesso anche lui era condannato a vaderci sempre meno!

Nella sua mente prese forma un’immagine di Winri che decideva di trasformare i suoi occhi in automail e un panico neanche troppo sottile, anzi abbastanza invadente, si insinuò in lui.

L’angoscia riguardo al futuro della sua vista non poté durare a lungo, però, perché il soldato sconosciuto era ormai arrivato al limitare dello spiazzo e qualcosa in lui attirò l’attenzione di Edward.

Eppure non era niente di speciale, in realtà. Un giovanotto mingherlino, con una zazzera di capelli castani. Alto e sgraziato, una di quelle persone che si devono piegare goffamente sotto lo stipite delle porte per non sbatterci contro.

L’unica caratteristica degna di nota era lo strano contrasto tra il suo aspetto fisico e la sua camminata militare. Procedeva impettito, troppo anche per un soldato.

Roy e Riza si scambiarono un’occhiata impercettibile. C’era un inconfondibile profumo di guai.

La marcia del giovane allampanato si tradusse in ampie falcate all’inizio della piazza, fino a diventare quella che, se non fosse stata così contegnosa, si sarebbe potuta definire corsa.

Riza si voltò verso Edward nel momento in cui il soldato urtò il giovane.

Subito Ed guardò sorpreso l’uomo che l’aveva scontrato, poi assottigliò gli occhi. Per un attimo a Riza sembrò che volesse fermare l’altro, ma quello era già salito con un balzo sul muretto della fontana.

Calò un silenzio affilato, di quelli che si potevano sentire, forse, solo tra gli asteroidi ghiacciati a miliardi di chilometri da lì.

«Bastardi!» sbraitò concitato il soldato all’indirizzo degli Ishbalan «Bastardi ed assassini!»

Nessuno replicò alla sua accusa. Qualcuno si voltò dall’altra parte, una madre si allontanò e spinse i figli in casa.

Solo Roy e Riza, fino a quel momento ancora seduti sul muretto, fecero un movimento brusco e si alzarono contemporaneamente.

«All’inferno!» urlò ancora l’uomo, tirando fuori dalla tasca un fascio di fogli stropicciati e scagliandogli davanti a sé.

Riza incrociò lo sguardo di un Ishbalan. Era uno sguardo di rabbia rassegnata: si aspettavano una cosa del genere da un momento all’altro, era solo questione di sapere quando il disastro sarebbe esploso.

Il più arrabbiato di tutti però era Roy. Strinse i pugni, furioso, pronto ad intervenire, poi il suo sguardo cadde sui fogli a terra e si tinse di amarezza. Era un dispaccio telegrafico. Un nuovo attentato, altri morti.

Quell’uomo era uno di quelli. Uno di quelli che generalizzavano, uno di quelli che agivano prima di riflettere, uno di quelli che si accodavano volentieri alle opinioni correnti per avere le loro risposte, ma era un atteggiamento più normale di quello che Roy avrebbe voluto ammettere.

Respirò a fondo e abbracciò con un’occhiata l’atteggiamento degli Ishbalan. Non stavano raccogliendo la provocazione.

Sorrise a metà tra sé e sé, pensando che in casi come questo il loro orgoglio tornava utile.

Era meglio che anche lui non facesse niente, se non si fosse reso necessario.

Anche il soldato allampanato parve accorgersi del fatto che nessuno sembrava colpito dalle sue parole. Saltò a terra e si scagliò contro il primo uomo che gli capitò a tiro e gli sputò in faccia con una foga quasi inumana ma a bassa voce: «Morirete tutti.»

Solo in quel momento ci fu un qualche tipo di reazione.

Un uomo si fece avanti per liberare il malcapitato dal soldato, la gente cominciò a parlare e a protestare ad alta voce, Edward borbottò qualcosa che somigliava ad un: «Se l’è presa con lui solo perché è più basso.» e Riza fece un passo avanti.

«Caporal Maggiore Colt, la smetta immediatamente!» disse severa, dimenticandosi che non avrebbe dovuto conoscere il nome dell’uomo.

Nella confusione nessuno ci fece caso.

Il soldato si voltò verso l’Ishbalan che aveva cercato di fermarlo e c’era qualcosa di inquietante in lui che non era né nel volto, né nella piega della bocca, né nello sguardo, era solo nel modo in cui si era girato. Rimase a lungo immobile.

Nessun altro si mosse.

Roy raggiunse la pistola sotto il mantello e tolse la sicura. Non era necessario fare niente di drastico, ma la situazione stava rapidamente degenerando.

Colse con la coda dell’occhio Edward che si avvicinava al Maggiore e le sussurrava qualcosa nell’orecchio, ma tutta la sua attenzione era dedicata a cercare di capire cosa avrebbe fatto Colt adesso.

Era un bravo soldato, Colt. Un semplice. Strinse i denti, pensando che se anche persone che credeva di conoscere avevano tirato fuori il loro lato peggiore allora non poteva sapere quanti anonimi invasati si aggirassero per Amestris.

Si rese conto in quel momento che, se bastava questo per distruggere la facciata mite dietro alla quale tanta gente viveva, allora non sarebbe mai potuto essere del tutto sicuro di aver raggiunto un obbiettivo, di aver fatto anche solo un piccolo passo avanti. Al diavolo, questo non cambiava le cose.

Il Caporale si mosse. Lasciò lentamente la tunica dell’uomo che aveva afferrato e poi, all’improvviso, si lanciò verso l’altro.

Il sole si specchiò sul coltello che aveva in mano.

Uno sparo risuonò nell’aria, ma non era stata la pistola del Generale.

Roy si voltò di scatto verso il Maggiore.

Lei e Edward stavano lì, immobili, Riza con la sua calibro nove in mano, il ragazzo con un’espressione dura sul volto.

Non ci fu un cenno da parte loro, ma c’era qualcosa nel loro sguardo, che guardava oltre lui, che lo costrinse a girarsi di nuovo verso il Caporal Maggiore.

L’uomo era finito contro il muretto della fontana dietro di lui per il contraccolpo, ma dalla ferita proprio al centro della fronte non usciva sangue. Era un’orbita cava, un terzo occhio che li guardava dal buio di un cranio vuoto.

«L’ho sentito prima» disse Ed, a bassa voce, avanzando e portandosi al fianco del Generale «quando mi ha scontrato...» deglutì «suonava come Al.»

Nel frattempo Riza stava aspettando che l’uomo si alzasse, sperando che con un suo movimento tradisse la posizione del suo sigillo così com’era successo per l’uomo che la aveva attaccata due giorni prima.

Colt si sollevò e cercò con lo sguardo chi lo aveva colpito.

BANG.

Un altro colpo, questa volta dritto sulla mano che reggeva il coltello.

Le palpebre di Riza sfarfallarono. Aveva dimenticato come risuonava uno sparo nel deserto, in quel deserto. Un suo sparo. Era un’eco vibrante che aveva dentro sia il tuono sia il silenzio che l’avrebbe seguito. Certe volte, lì ad Ishbal, avrebbe preferito che fosse il suono della morte, invece era il suono di un inferno dove lei restava viva.

L’uomo barcollò, quasi ruotò su sé stesso, ma questa volta non cadde, anche se si piegò e si portò una mano al cuore, sotto l’uniforme.

Sembrava che stesse male, ma Roy e Riza contrassero i muscoli.

Colt rialzò la testa e allungò un braccio davanti a sé, mentre qualcosa che assomigliava più ad una ferita che non ad un sorriso si disegnava sul suo volto.

Una pistola. E la stava puntando contro un bambino.

Ci fu una frazione di secondo in cui la folla fece un rumore che sembrava un singhiozzo. Qualcuno – forse la madre del bambino – gridò. Movimenti, tutti quei movimenti e tutti assieme, senza che potessero fermare la scena in corso. E il bambino stava lì, con gli occhi spalancati e ipnotizzati dalla bocca scura della pistola.

Roy vide tutto questo anche se ognuna di quelle sensazioni separate che lo circondavano facevano parte di un solo attimo.

No, questa volta no.

Il Generale schioccò le dita e una colonna di fuoco divorò l’aria all’improvviso, come se fosse sempre stata lì, nascosta da qualche parte.

Qualcuno che aveva la guerra nel cuore e l’odore di quelle fiamme intrappolato lì con essa gemette, ma i più si abbandonarono ad una semplice esclamazione.

E per l'ennesima volta in quel deserto cadde il silenzio, ma questo era il silenzio di tanta gente viva che tratteneva il fiato.

«Urca!» disse un bimbetto.

Quello che seguì, come tutte le volte in cui c'è una calma quasi religiosa e qualcuno parla, fu il pandemonio.

«I- Il Generale?» balbettò una donna, stordita.

«Ma, ma...»

«Che diavolo...?»

«Quello era un immortale!» esclamò uno degli Ishbalan, che aveva dato una mano il Giorno della Promessa e sapeva degli homunculus.

«Immortale? Ma se è morto!» lo contraddisse confuso un vicino.

«Che sta succedendo qui?» fece una voce autoritaria alle loro spalle.

«Tenente-Colonnello Miles.» salutarono in molti, altri iniziarono direttamente a tentare di spiegare l'accaduto.

Edward si girò e si trovò davanti quello che aveva conosciuto come Maggiore Miles, si stanza al Nord, e che ora aveva sostituito la pelliccia invernale con un mantello più adatto al deserto.

Un orso che aveva fatto la muta.

I suoi occhi però si spostarono subito sull'uomo che accompagnava la sua vecchia conoscenza, si spalancarono.

Un uomo dai capelli bianchi, con la carnagione scura e gli occhi rossi, cosa che in effetti era piuttosto normale in quella regione. Ma Edward conosceva bene la cicatrice che stava tra quegli occhi.

Il ragazzo emise un suono strozzato «Lui!»

«Lui?» fece Roy, non realizzando immediatamente la situazione «Ah, lui. Non te l'avevo detto? È vivo.»

«Ah sì? Tu pensa...» fece Ed, sarcastico.

Miles ci stava capendo sempre meno «Edward? Che ci fai tu qui?» lanciò un'occhiata perplessa a Roy e Riza «E loro due...?»

Si bloccò, mentre registrava anche la presenza della pira ancora fumante e una curiosa forma di comprensione si faceva strada sul suo volto.

«Sì, sì» confermò Edward senza tante cerimonie «sono il Generale e il Maggiore, sono vivi, festa grande eccetera eccetera... ma non li avete incontrati Havoc e il Tenente Catalina?»

La risposta alla sua domanda provenne dal fondo della via che portava al gruppo di tende che era stato nominato Quartier Generale ad interim.

«Eccovi!»gridò Havoc al loro indirizzo non appena giunse a tiro di voce.

«Eccovi tutti!» rincarò Rebecca, agitando le mani come un mulino a vento «Ci hanno spedito a cercarvi per tutta la città. Ma vi sembra l'ora di fare un'ispezione?»

Miles sorvolò sul fatto di essere appena stato apostrofato così da una subordinata. Non era tipo da formalizzarsi, lui. Si girò invece verso il Generale Mustang e il Maggiore Hawkeye, in attesa di una spiegazione meno convulsa e possibilmente più comprensibile.

«Mettetevi comodi.» disse quello che la gente lì attorno non aveva ancora capito se fosse il Generale Mustang o no ma probabilmente sì «Abbiamo parecchie cose da spiegare a voi. A tutti voi.» sottolineò, includendo con un'occhiata anche il gruppo eterogeneo di abitanti di Ishbal.

«Il Generale Armstrong» iniziò Riza, ma si interruppe per un attimo vedendo Miles e Scar irrigidirsi in maniera percettibile.

«Il Generale Armstrong è in pericolo.»

 

 

1 E rieccomi con una nota a piè di pagina, la seconda di questa storia! L’ho messa perché forse non tutti hanno letto “Gente di Dublino”. Mia sorella di sicuro non l’ha fatto *le lancia uno sguardo accusatore*. Dovete sapere che la storia di Eveline (che è famosissima, forse l’avete letta antologizzata, e di cui ho cambiato leggermente il nome) parla di una ragazza che vive col padre e si occupa della casa, vivendo in un clima soffocante e oppressivo, tormentata dal ricordo della madre morta. Questa ragazza vorrebbe fuggire con un giovane, Frank, che si è innamorato di lei, mentre per lei rappresenta solo un modo per fuggire dalla sua immobilità, tant’è vero che alla fine Eveline non scappa di casa, rifugiandosi nella paralisi del suo mondo e lasciando che a partire sia solo lui. L’ho riletta di recente, e c’è qualcosa nell’atmosfera di quella storia che mi ha fatto venire in mente l’ambiente in cui dev’essere vissuta Riza da ragazzina. Mi sembrava la storia più indicata, così l’ho inserita qui... e nel farlo mi sono accorta che le parole sottolineate da Edward nella versione inglese sono davvero in quella storia O.O (se siete scettici andate a controllare). Forse esiste davvero un ponte tra questo mondo e Amestris...







NOTE di FINE CAPITOLO: La formattazione è venuta fuori pessima ma ancora una volta non ho il mio computer e sto usando Open Office. Si fa quel che si può XD
Come promesso a Silvery Lugia, adesso racconterò che fine hanno fatto i baffi di Roy, o meglio dove sono iniziati. Per spiegarlo devo tornare un po'indietro all'interno della mia storia, precisamente al momento in cui Winri ha chiuso la porta alle spalle di Roy e Riza che si allontanavano da casa sua...

*Winri si avvicinò alla bacheca delle foto, dove un Generale in uniforme da parata sfoggiava un paio di baffetti alla Erast Petrovic (chi ha orecchie per intendere...). A prima vista sembravano veri, ma ad uno sguardo più attento era evidente che a farli era stato un pennarello appartenente ad un certo Edward Elric.
Winri sospirò; fortuna che il Generale non aveva visto la foto...


 
 

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