Il lungo sonno della Lucciola

di Melanto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Part I: The orange Sun shines upon me ***
Capitolo 2: *** Part II: Just before the rain ***
Capitolo 3: *** Part III: The Firefly's long sleep ***
Capitolo 4: *** Part IV: Melancholic Origami ***
Capitolo 5: *** Part V: The Sand, the Waves, the Sphere ***
Capitolo 6: *** Part VI: Sagrada Família ***
Capitolo 7: *** Part VII: Curveball ***
Capitolo 8: *** Part VIII: Voulez-vous? This is Hope ***
Capitolo 9: *** Part IX: Your photos, your life... your strength ***
Capitolo 10: *** Part X: Running into your world ***
Capitolo 11: *** Part XI: The Oni's fall ***
Capitolo 12: *** Part XII: The men who sold the world ***



Capitolo 1
*** Part I: The orange Sun shines upon me ***


Documento senza titolo

Note Iniziali:
Se non sono morta nello scrivere questa storia, allora non morirò per nessun’altra. E non è un bell’inizio di nota iniziale per presentare il lavoro XD, lo so.
Chi mi legge sa che ho un amore particolare per i rapporti familiari. Li preferisco alle classiche storie d’ammmmore. Diciamo pure che se in ogni storia ci stessero ‘rapporti familiari+azione+ammmore’ sarei la lettrice più appagata della terra, XD ma so che non si può avere tutto dalla vita.
Quest’argomento, anche se non sempre con ruolo principale, l’ho trattato in molte altre storie, come “Huzi”, la raccolta “Love&Life”, accennato in “Fragile – Innocence Lost” (che trovate solo su ELF! :3), nella saga di “Maharajakumar” e anche in quella di “Elementia” (XD abbiate pazienza, ci arriveremo molto presto! Lo giuro!).
Insomma, è un tema che mi piace tantissimo. :3
Questa storia è stata cominciata, con una trama totalmente differente, l’anno scorso (il Word dice che ho creato il primo file il giorno 3-11-2010 XD, proprio dopo i Morti, allegria), poi ha subito uno stop perché non ne ero sicura. L’ho ripresa alcuni mesi fa, e l’ho stravolta. XD Ma di questo vi parlerò più avanti, giusto per farvi capire come funzionano i miei viaggi mentali. XD

Qualcosa da sapere prima di iniziare la lettura:
Ho un po’ imbrogliato con i tempi di ambientazione :P
Nel manga, il World Youth comincia a Ottobre (*facepalm* che li possino. Ma dove si è visto mai un campionato del mondo di calcio giocato IN AUTUNNO?! °_° Solo Takahashi può, solo lui -__-), io l’ho fatto cominciare un bel po’ prima XD e l’ho fatto concludere per la fine di Luglio, ergo, ci troviamo ancora nel pieno dell’estate. Volevo l’estate. La volevo e basta. XD
Amo l’estate e visto che anche noi ci stiamo avvicinando, volevo utilizzarla come collocazione temporale.

Altra cosa da sapere, e che ho detto anche nell’introduzione, è che: lo Shonen-ai è l’ultima ruota del carro, in questa storia. XD Quindi, le non amanti del genere non abbiano paura: non morde mica. *ridacchia*
Per le amanti, invece: donne mie, se ne parla alla prossima fic XD.

Terza cosa: la musica è fondamentale. Ammetto che è fondamentale nel 99% delle cose che scrivo, ma qua lo è un pochino di più. Di solito non lo faccio mai, ma in questa storia ogni scena avrà una canzone di riferimento, quindi, mi sembra giusto augurarvi anche un ‘buon ascolto’. :D

Ok, potete andare in pace.
Buona lettura!

 

Il lungo sonno della Lucciola
- Part I: The orange Sun shines upon me -

 

Nell’aria, quell’estate, c’era odore di gigli e bucato appena steso.
Le cicale cantavano, aggrappate al tronco degli alberi, e lenzuola candide sventolavano come fantasmi su fili di ferro.
Di fuori, Nankatsu si preparava ad accogliere la sera, godendosi in tranquillità il piacere del tramonto che stemperava la calura della giornata. Dentro, rimbalzate contro le pareti di una bella villetta, le grida furibonde si erano appena spente. Adesso, a urlare era rimasta solo la musica che cercava inutilmente di sopraffare i pensieri, ma tutto quello che, invece, riusciva davvero a fare era amplificare l’emicrania del proprietario delle cuffiette infilate con forza a turare le orecchie, bloccare il cervello e soffocarlo tra lo stridere di una chitarra elettrica e la voce graffiata di Kurt Cobain.
L’universo era completamente raccolto in millecinquecento centimetri cubici: tutt’intorno regnava il silenzio, ma lì bruciava l’Inferno.
Lui restava immobile, sul letto, le braccia distese sulle lenzuola; abbandonate. Una mano penzolava fuori dal materasso. Gli occhi erano arenati al soffitto; avevano gettato l’ancora su di un punto qualunque e non lo avrebbero lasciato per nulla al mondo. Nel legno che rivestiva la volta spiovente, vide la proiezione di sé stesso cantare fino a non avere più fiato quella ‘In Bloom’ che ruggiva come una leonessa impazzita, mentre lui manteneva serrate le labbra.
Odiava alzare la voce.
Diversamente da quello che suo padre gli ripeteva più di sovente nell’ultimo periodo, la sua educazione era impeccabile, e urlare era così fuori luogo e fastidioso. Ma tutto ciò che era sempre stato, la sua personalità e le sue convinzioni, si stravolgevano appena si trovava a sbattere contro quel muro indistruttibile che chiamava: ‘papà’.
A volte, Yuzo pensava di non volerlo chiamare affatto; con nessun nome. Pensava di volerlo vedere scomparire lentamente, inghiottito da quel lavoro che sembrava essere divenuto più importante di qualsiasi altra cosa gli girasse intorno e puzzava di polvere da sparo, di isolamento, di ‘sei mio figlio e fai quello che dico io’, di ‘il tuo posto è nell’azienda di famiglia. Chi credi che se ne dovrà occupare dopo di me?’, di ‘devi andare all’università’.
Di ‘dimentica il calcio’.
Sulla scrivania il diploma era da un anno abbandonato sotto i libri di preparazione ai test di ammissione che lui non aveva nemmeno aperto. Non aveva ricevuto nessuna parola di affetto per l’ottimo voto preso, men che meno aveva ricevuto un complimento per la vittoria al World Youth appena conclusosi.
‘I complimenti si fanno a chi è arrivato in cima, tu hai ancora molta strada davanti’.
Lui non era mai abbastanza.
Il suo impegno non era mai abbastanza.
I traguardi raggiunti non erano mai abbastanza.
I Morisaki non erano fautori del doversi ‘accontentare’.
Lui era una pecora nera.
I Morisaki dovevano spingere, sempre, fino in fondo, per raggiungere la meta.
Quella meta non era la sua.
I Morisaki lavoravano da generazioni nell’industria bellica.
Lui era un pacifista.
Quella famiglia gli stava risucchiando l’anima affogandola nel piombo e, sempre a volte, era sé stesso che sperava di veder sparire.
Senza fare rumore.

“And he likes to shoot his gun/
E a lui piace sparare con la sua pistola
but he knows not what it means/

ma non sa cosa significhi

NirvanaIn Bloom

 

§*§

 

“Amai okashi kieta ato ni wa /
Dopo che il dolce sapore delle caramelle è svanito
sabishisou na otoko no ko kumo hitotsu nai Summer day /
ha lasciato un ragazzo solitario su un cielo sereno d’un giorno d’estate

 

«…e così gli ho detto: ‘Mi sembra un’offerta vantaggiosa, passerò alla vostra sede per poter leggere per bene il contratto’, proprio con un tono da affarista scavato. Cazzo! Non potevo mica mettermi a urlare per la gioia; vorrei cercare di fare una buona impressione ai dirigenti degli Yokohama Marinos
La risata di Mamoru lo strappò ai suoi pensieri con qualche momento di ritardo e fece un notevole sforzo per dire una qualsiasi banalità.
«Vedi di non farti riconoscere subito» Yuzo mostrò una smorfia sorridente e cincischiò nel proprio frappé con la cannuccia.
Chiacchiericcio e tintinnio di oggetti li avvolgevano in quel bar del centro di Nankatsu. Erano il sottofondo musicale, assieme alla radio, che aveva sostituito il cantare delle cicale udibile all’esterno.
Mamoru, di fronte a lui, lasciò il cucchiaio dal manico lungo e incrociò le mani all’altezza del mento, guardandolo con un sopracciglio inarcato.
«Non mi stai ascoltando, vero?»
Stavolta, Yuzo sollevò il capo.
«Che dici? Certo che ti sto-»
«Yuzo, per favore, guarda che ci vedo. Credi ch’io non me ne sia accorto? Da quanto sarà? Un annetto? Ed è peggiorato dopo il World Youth. Sei sempre distratto, più silenzioso del solito, fisicamente sei qui, ma la tua testa è costantemente persa in altri pensieri. Non stai bene. Si può sapere che hai?»
Yuzo negò, negò a oltranza, o almeno ci provò. La cannuccia veniva smossa con decisione nel frullato di latte, fragola e panna; la scia di cioccolata era il filo d’Arianna che si perdeva nel bianco e nel rosa.
«Niente, niente. È tutto ok. Scusa… avremmo dovuto festeggiare il tuo acquisto presso i Marinos…»
«Ma va! Lascia perdere! Se vuoi saperlo, l’idea di festeggiare era solo una scusa per poterti parlare, da solo. Di solito siamo sempre in compagnia dei ragazzi e non abbiamo mai la giusta occasione per fare due chiacchiere, quindi puoi anche smettere di fingere che sia tutto normale.»
Simulare, con Mamoru, non era mai una buona idea, anche perché il difensore riusciva sempre a scoprirlo subito. Yuzo non sapeva se essere felice di questa loro intesa così istantanea o triste per dover coinvolgere anche lui nei suoi problemi.
«Si tratta di tuo padre? Come vanno le cose?»
Mamoru indovinò subito. Era andato piuttosto a colpo sicuro, perché sapeva non esserci altri motivi validi per avvilirlo in quel modo.
Yuzo replicò con marcata ironia. «Come vuoi che vadano? Una meraviglia. Non abbiamo mai parlato così tanto come in questo periodo. Certo, urlare non rientrava proprio nel mio ideale di dialogo padre-figlio, ma, ehi!, non si può mica avere tutto dalla vita.»
«Ancora fissato con l’idea di vederti alla guida della ‘Golden Gun’
«Ovvio, nessuno lo smuoverà visto che ha deciso così. Vuole fare di me un imprenditore, un manager e mandarmi a Economia, che mi ha sempre fatto schifo. Non è ironico?»
«Hai ancora un po’ di tempo prima di dover prepararti per i test di ingresso, magari prende una botta in testa e rinsavisce!»
«Credi ai miracoli? Non ti facevo il tipo» scherzò il portiere. «Comunque, mio padre ha già organizzato tutto: per farmi recuperare l’anno che ho perso a causa del World Youth, vuole cominciare a portarmi in azienda con sé.»
«Davvero?»
«Mh
«Almeno non ha detto di volerti portare in fabbrica…»
«Veramente, nel giro turistico rientra anche quella. Farsi vedere dagli operai è fondamentale: si dimostra di essere attenti a tutto e i lavoratori sono incentivati a fare di più e meglio. Così dice lui, almeno. Che a me le armi facciano venire l’ansia non è importante.»
«Tsk! Che bastardo!» ringhiò Mamoru, poi agitò le mani davanti a sé «Ah! Scusa! È pur sempre tuo padre. Scusami, non volevo.»
Yuzo sorrise e scosse il capo. «Figurati. Sono il primo a pensarlo.»
«Tu… che vuoi fare?»
Il portiere conosceva la risposta a quella domanda fin da quando il rapporto con suo padre si era inasprito in maniera esponenziale. «Andarmene via. Non importa dove, voglio solo andarmene o finisce che mi ammazzo prima del tempo». Mamoru gli mollò un calcio da sotto al tavolo, facendolo sobbalzare. «Ahi! Ma sei scemo?!»
«Non dirlo nemmeno per scherzo, chiaro?! Non voglio sentirti parlare in questo modo.»
Sul suo viso, Yuzo scorse un’espressione talmente severa e minacciosa che fu costretto a capitolare.
«D’accordo, scusa. Era per dire.»
«Beh, dici male». Il difensore stemperò il tono e tornò a mescolare ciò che rimaneva della propria bevanda. «Non hai ancora ricevuto alcuna offerta da parte dei Club della League?»
«No. Aspetterò fino alla fine dell’estate e poi… poi me ne andrò. La sola idea di restare con la prospettiva di dovermi occupare dell’azienda mi fa entrare nel panico.»
«Tua madre che dice?»
Yuzo sospirò, girandosi a guardare il mondo che continuava a vivere dall’altra parte del vetro. «Lei cerca di farlo ragionare, ma è come parlare con un muro. E poi non voglio che venga coinvolta nei nostri problemi, già ne soffre abbastanza quando ci sente litigare.»
«Sì, capisco.»
Anche Mamoru si mise a guardare l’esterno per un attimo. La gente passava veloce, avvolta in abiti colorati e leggerissimi. Nonostante fosse estate, ci si muoveva sempre di fretta verso la propria meta.
Quando tornò a osservare il suo ex-compagno di scuola, scorse, nel profilo puntato all’esterno, gli occhi che non vedevano e la mente di nuovo distante. Mamoru pensò che fosse quello il vero significato del dono dell’ubiquità.
«Andiamo a farci due passi» decise d’un tratto, attirandosi l’attenzione di Yuzo, che annuì con un po’ di perplessità.
I frappé rimasero bevuti a metà, mescolati nei sapori che di dolce avrebbero perso ogni ricordo.

 

“So Goodbye Happiness /
Addio felicità
Nani mo shirazu ni hashaideta /
A questi giorni che abbiamo vissuto senza preoccupazioni
ano koro e wa mou modorenai ne /
non si può tornare indietro
sore demo ii no. Love me /
ma va bene così. Amami.

 

L’eco dei rumori della città era stata lasciata indietro a mano a mano che si erano allontanati dal bar. Era stata sostituita dal mormorio del fiume e dal frusciare dell’erba smossa dal vento caldo. Ogni tanto, qualche bicicletta cigolava lungo la stradina che costeggiava il corso d’acqua e i campanelli trillavano per avvisare i pedoni del loro passaggio.
Mamoru aveva le mani nelle tasche, guardava a terra, Yuzo accanto a lui fissava l’acqua. Camminavano à rebours, controcorrente.
«Sai già quando ti trasferirai?» domandò il portiere e l’interpellato sollevò il capo.
«Tra una settimana, circa. Hanno un dormitorio per i giocatori che vengono da fuori. Starò lì» con un balzo abbandonò la strada in favore dell’erba che scendeva lungo il fianco e arrivava a lambire la sponda del fiume. Rivolse un sorriso al suo compagno di Nazionale. «Per i primi giorni credo che si prospetterà davvero epica!»
Yuzo lo seguì, immergendosi nel verde. L’erba aveva una consistenza morbida sotto le suole, sembrava di camminare sull’ovatta. Il suono dell’acqua diveniva più forte, mentre il flusso era veloce, impossibile da fermare, e la sua presenza rinfrescava l’ambiente intorno, dando un piacevole sollievo dalla calura estiva.
«Oh! Qui sì che si sta bene!» esclamò il terzino lasciandosi cadere a terra con un tonfo attutito dal prato. Yuzo lo imitò.
C’era odore di erba bagnata, di natura. Era una caratteristica di Nankatsu che gli piaceva molto: sapeva fondere urbanizzazione e verde. Da un lato si vedevano i rilievi che portavano al Fuji, dall’altro si scendeva in pianura e si apriva verso il mare; nel mezzo scorreva quel fiume.
Yuzo inspirò a pieni polmoni, dipingendosi un largo sorriso soddisfatto e chiudendo gli occhi per un lungo momento.
Accanto a lui, non si accorse delle occhiate visibilmente preoccupate che Mamoru gli lanciava di sovente. Con lentezza, il difensore sciolse i capelli, permettendo alla brezza leggera e calda di sollevarli appena. Puntò lo sguardo al cielo limpido.
«Hai mai pensato al futuro, Yuzo?» chiese, seguitando a cercare chissà quali risposte in quell’azzurro sconfinato.
L’altro sbuffò un sorriso, mantenendo le palpebre chiuse. «Anche troppo, soprattutto in questo periodo.»
«E cosa hai visto?»
Gli occhi si aprirono, l’erba e il fiume tornarono a occupare le sue percezioni.
«Niente.»
Mamoru si volse, inarcando un sopracciglio. Yuzo aveva sempre avuto molta fantasia e quella non era la risposta che si sarebbe aspettato da lui. «Niente?»
«Niente» ripeté.
«Non puoi non aver visto niente. Che so… noi tra dieci anni!»
«Se è per quello, ci ho visti tra una sessantina, di anni, e siamo due vecchietti brontoloni, seduti sulla soglia di casa, che ripetono sempre: ‘ai miei tempi…’
«Ah, ah. Molto divertente» lo pungolò Mamoru col gomito «Ma davvero non vedi niente? Nemmeno… nemmeno un colore?»
«Un colore?»
«Sì…» Lo sguardo veniva nuovamente orientato verso il fiume. «…quelle volte che ci ho pensato, non ho mai visto nulla di certo, però ogni immagine aveva un colore dominante ed era il blu. Mi piace il blu, mi rilassa.» Blu come l’acqua, blu come il cielo. «Poi sono arrivati i Marinos e il blu è uno dei colori della squadra», a Mamoru venne da sorridere, «Credo di aver accettato la loro offerta anche per questo.»
Nel suo profilo, Yuzo scorse quella sicurezza che lui non aveva mai avuto e che aveva sempre ammirato, mista a un po’ di follia e sconsideratezza tipiche della loro età.
Quando si era certi del proprio destino e si sapeva perfettamente cosa fare, tutto assumeva un aspetto diverso. Anche gli ostacoli e le incertezze era come se si ridimensionassero. Quando si conosceva la meta, si potevano creare centinaia di percorsi.
Di sé, invece, Yuzo non sapeva nulla se non quel ‘voglio andare via’; ma tra dirlo e farlo c’era un ammasso nebuloso di punti interrogativi e difficoltà che sembravano insormontabili.
Andare via per andare dove?
Quando non si conosceva la meta non si sapeva nemmeno da che parte cominciare a cercare la strada da percorrere.
«Io non so di che colore sarà il mio, spero solo che sia vivace. Non mi piacciono i colori scuri.»
Mamoru si volse a osservare quell’espressione sorridente dietro cui faticava a riconoscere il proprietario. Guardare Yuzo, in quel momento, era come scrutare una vecchia fotografia: l’immagine sbiadiva con l’andare del tempo, i contorni si ingiallivano e la pellicola lucida veniva via, portandosi anche i colori. Era quello che stava succedendo alla sua serenità, alla gioia di vivere che lo aveva sempre animato e reso quello che era: Yuzo, il suo migliore amico, compagno di squadra, scuola, vita; quello che non si arrendeva mai nemmeno dopo cento pallonate; quello che si era sempre fatto carico, a testa alta, di sostituire Genzo.
«Senti, sai che facciamo?» esordì con l’aria di chi la sapeva sempre più lunga di tutti «La prossima volta che tuo padre parla a vanvera, chiamami: ce ne andiamo al mare.»
«Al mare?!»
«Sì, non è il tuo posto preferito? Ci prendiamo il primo treno e raggiungiamo Fuji(1). Che ne pensi?»
Yuzo rise. «Penso che se dovessi litigarci di sera, andare al mare non sarebbe fattibile.»
«Nah! Possibile che tu debba essere così guastafeste?!» Mamoru gli mollò una gomitata. «Non hai capito i miei intenti!»
E invece, Yuzo aveva capito benissimo e gli era grato di quella sua amicizia che considerava insostituibile, ma adesso Mamoru aveva cose più importanti di cui occuparsi, come il suo percorso in J-league, e non voleva che si distraesse dietro i suoi, di problemi. Gli bastava sapere di avere il suo supporto.
Adagio cambiò posizione mettendosi parallelamente al corso d’acqua. Le gambe distese in avanti e la schiena appoggiata alla spalla del difensore. Era una posizione che assumevano spesso; avevano passato tante pause pranzo così, fin dalle medie.
«Mamoru.»
«Mh
«Ascolta, se io non dovessi entrare nel professionismo-»
«Ma sta’ zitto! Non dire stronzate!» Il terzino si inalberò, agitando animatamente un indice.
«Sto facendo solo un’ipotesi, fammi finire prima di partire in quarta!»
«Seee, seee. Sentiamo l’assurdità.»
«Se non dovessi entrare nel professionismo…»
«…ipotesi improbabile…»
«…e dovessi andarmene lontano da Nankatsu, vorrei che non ci perdessimo di vista, almeno noi. Sai come vanno queste cose, si finisce col prendere strade diverse. Vorrei che noi… potessimo restare sempre amici.»
Mamoru non rispose subito, mentre cercava di valutare il senso di quella richiesta, la sua reale importanza. Sentì la testa di Yuzo appoggiarsi contro la propria e il suo odore, familiare e inconfondibile, si fuse all’erba bagnata e al profumo dell’estate. Le parole si rincorsero come le onde del fiume dal letto irregolare, mutando, condensandosi, liberandosi dei significati superflui per lasciare solo il fulcro.
Continua a rimanere quella sicurezza che io non ho.’
Mamoru gli passò rudemente il braccio attorno al petto, in tono scherzoso. Voleva spezzare la tensione che c’era, la sentiva. Forse… poteva anche vederla.
«Ma certo che resteremo amici, che domande.»
Solo allora, Yuzo si concesse un sorriso sincero. Chiuse di nuovo gli occhi e ascoltò i mormorii del fiume.
«L’acqua ha davvero un bel suono.»

 

So goodbye happiness /
Addio felicità
Nani mo shirazu ni hashaideta /
Desidero che noi possiamo tornare indietro
ano koro e wa mou modoritai ne /
a questi giorni vissuti senza preoccupazione.
Baby, soshite mou ichido kiss me /
Baby, baciami un’altra volta

Utada Hikaru Goodbye Happiness

 

*

 

“Vorrei imparare dal vento a respirare,
dalla pioggia a cadere,
dalla corrente a portare le cose dove non vogliono andare
e avere la pazienza delle onde
di andare e venire,
ricominciare a fluire.”

 

Il primo gesto che Yuzo compì una volta entrato in casa, ancor prima di togliersi le scarpe, fu quello di osservare la porta dello studio di suo padre.
Aveva recuperato una parte di buon umore, grazie a Mamoru, e non voleva lasciarsela sfuggire tanto presto. Per fortuna, l’uscio era chiuso segno che l’uomo non era ancora rientrato dal lavoro. Quando c’era, lasciava sempre la porta socchiusa o addirittura spalancata, come a voler palesare a tutti i costi la sua presenza.
Sospirò.
«Sono a casa!»
La risposta di sua madre arrivò dal fondo dalla cucina accompagnata da un profumino così invitante che gli fece venire immediatamente l’acquolina.
«Bentornato, tesoro! Indovina cosa sto preparando?»
Yuzo raggiunse la donna in rapidi passi, attutiti dal parquet. Quell’odorino l’avrebbe riconosciuto tra mille. «Okonomiyaki!» esclamò, facendo capolino. Lentamente le si avvicinò e le diede un affettuoso bacio sulla guancia. «Mamma, sei fantastica!»
La donna gongolò. «Lo so, ma dimmelo ancora.»
Diversamente da suo padre, per il quale era sempre stato come trasparente salvo poi divenire l’oggetto del suo tormento da quando si era diplomato, sua madre stravedeva per lui e gli voleva bene per quello che era. Era orgogliosa del suo impegno, dei suoi risultati. Qualche volta era andata anche a vedere le partite del campionato studentesco assieme alla madre di Tsubasa e a quella di Ryo, e non si era persa nemmeno un incontro del World Youth. Sua madre voleva che continuasse a rimanere libero, come era stato fino a quel momento. Libero di scegliere e decidere da solo, libero di vivere il suo futuro nel modo che preferiva. Anche per questo, molto spesso, Yuzo la sentiva discutere con suo padre; discussioni di cui l’uomo non perdeva occasione di dargli la colpa.
‘Se mi obbedissi senza fare storie, una buona volta, nemmeno tua madre soffrirebbe. Quindi smettila di comportarti come un ragazzino egoista.’
Ragazzino.
Ragazzino era l’appellativo con cui gli si rivolgeva più di sovente e che, detto fuori dai denti, gli faceva andare il sangue alla testa.
Non era più un ragazzino. Aveva diciannove anni, dei desideri, dei sogni, delle aspirazioni; si era diplomato con successo, aveva la testa a posto e non era uno spericolato. Non aveva mai creato problemi né a loro né a sé stesso. Avrebbe saputo vivere perfettamente da solo, visto che sapeva cucinare e fare il bucato. Inoltre, nonostante nella sua famiglia non fosse mai mancato il denaro perché – purtroppo o per fortuna – le armi rendevano sempre bene, lui conosceva il valore dei soldi ed era un tipo oculato e attento.
Aveva diciannove anni, faceva parte della Generazione d’Oro.
Aveva diciannove anni, ma per suo padre continuava a essere un ‘ragazzino’.
«E’ andata bene l’uscita con Mamoru?»
La voce della donna interruppe il flusso dei suoi pensieri. Yuzo sorrise, appoggiandosi di spalle al mobile lì accanto, mentre lei lavava alcune stoviglie.
«Benissimo. Non so se te l’ho detto, ma è stato acquistato dalla squadra dei Marinos. Giocherà nella J-league.»
La donna gli rivolse un’espressione entusiasta e felice. «Che bello!» esclamò, poi ci pensò un po’. «E di dove sono?»
«Yokohama City, mamma.»
«Oh! Che bello!» ma, ancora, l’entusiasmo scemò. «Ma è lontana da Nankatsu! Quindi non verrà più a casa? Oh, che peccato, era così carino.»
Yuzo le pungolò il fianco, simulando un’espressione shockata. «Senti, senti!»
«Non fare quella faccia, tesoro. Guarda che lo pensano tutte le mamme: il figlio della signora Izawa è così bello che potrebbe fare l’Idol
«L’Idol?! Questa gliela devo raccontare!» sbottò a ridere di gusto, mentre sua madre gli mollava una leggera gomitata.
«Ridi pure, ma lo sai cosa dicono di te?»
«Oddio, ma cosa siete? Il comitato dello ‘sparliamo dei nostri figli’
Haruko asciugò le mani su uno straccio e gli si avvicinò. Con affetto, gli prese il viso tra le mani, ignorando le rimbeccate. «Pensano che tu sia il ragazzo più dolce e beneducato che abbiano mai conosciuto.»
Lui inclinò il capo di lato, inarcando un sopracciglio. «Se io sono dolce, Taro Misaki cos’è?»
«Oh, ma lui è kawaii!» urlettò la donna, facendogli sprofondare il viso in una mano.
«Voi siete molto pericolose. Molto» rise, quando lo squillare del telefono interruppe la loro frivola conversazione. «Vado io» disse, allontanandosi in fretta per raggiungere il corridoio. Con decisione afferrò il cordless. «Pronto? Casa Morisaki.»
«Sei Yuzo-kun?»
Sulle prime non riconobbe la voce. Anzi, ne era sicuro, non l’aveva mai sentita.
«Sì…»
«Oh, che fortuna trovarti in casa a quest’ora. A dire il vero, mi rendo conto come sia un po’ tardi, ma, sai, sempre un sacco di impegni e poi si finisce col dimenticare anche come ci si chiama!»
Yuzo si grattò un sopracciglio, con perplessità. «Sì, certo, ma… chi parla?»
«Ah, scusami! Che viziaccio che ho! Come inizio una conversazione, mi perdo sempre in inutili banalità. Sono Kurata Inoki, chiamo per conto della S-Pulse
«S-Pulse? La Shimizu S-Pulse?» stavolta la perplessità scomparve, venendo sostituita dalla sorpresa.
«Sì, esatto! Proprio noi! La squadra di Shimizu-ku!»
«Oh, è un piacere… cosa posso fare per lei?»
«Veramente, penso proprio che sarò io a fare qualcosa per te. Ti prego, dimmi di non esser già stato contattato da qualche altro Club o il Presidente mi ammazza! Erano tre giorni, dico tre giorni!, che dovevo telefonarti e poi, uff! Non sai che fatica essere un agente! Fai questo! Fai quello! Ti chiamano a ogni ora della giornata e poi va a finire che-»
«…ci si dimentica come ci si chiama?»
«Esatto! Oh, vedo che mi capisci! Sono sicuro che andremo d’accordissimo!»
Yuzo si portò una mano alla bocca per trattenere una risata: ma quel tipo parlava sempre così tanto e a raffica?
«Quindi, per farla breve o divago di nuovo, vorremmo averti con noi! Che ne dici, ne possiamo parlare di persona?»
Non ci credeva. No, non ci credeva affatto. Sembrava tutto irreale. Proprio quel pomeriggio aveva affrontato l’argomento con Mamoru, discusso di quel futuro che per lui sembrava destinato a mantenersi acromatico e senza una direzione precisa, se non mille percorsi che si fondevano nella nebbia. E ora, era bastata una semplice telefonata, come un soffio di vento più forte e deciso, e la nebbia aveva iniziato a diradarsi.
Il suo vento, la sua strada.
«Ma certo, ne sarei davvero onorato.»
«Oh, è fantastico, Yuzo-kun! Evviva! Ti andrebbe bene tra due giorni? Devi solo dirmi dove.»
«Nel centro di Nankatsu c’è un bar che si chiama Glass no Balalaika(2). Spero non sia un problema per lei incontrarsi fuori.»
L’altro negò, però parve evidente una certa sorpresa nel tono della voce, come se si fosse aspettato più un invito a casa dove poter conoscere anche la sua famiglia. Kurata ignorava quanto Yuzo volesse tenere fuori tutto quello dalla portata di suo padre.
«Perfetto. Allora facciamo per le dieci, va bene?»
«Sì, certo» accordò Yuzo, ridacchiando dei suoi convenevoli frivolissimi e superallegri. Quando chiuse la comunicazione si sentì talmente leggero che era convinto che nel momento in cui avesse lasciato la cornetta, avrebbe preso a volare.
Doveva avvisare Mamoru, immediatamente. Mamoru doveva essere il primo a sapere che-
«Sono a casa.»
Quella voce profonda e ferma come acqua stagnante nel fondo di un pozzo gelò il suo entusiasmo in un attimo. Non si era nemmeno accorto della porta che era stata aperta.
Come per difendersi, per difendere l’opportunità di realizzare il sogno di continuare a giocare, Yuzo allontanò subito la mano dal cordless girandosi a guardare suo padre.
Nella figura alta, dal completo impeccabile, riuscì a vedere la proiezione del sé stesso trentenne che l’uomo avrebbe voluto che diventasse. Gli vennero le vertigini e la nausea.
Suo padre incrociò il suo sguardo – fisso e sulla difensiva – con il proprio – severo come sempre. Inarcò un sopracciglio nel sentirsi così osservato.
«Beh? Non si saluta più?» disse in tono deciso e lui si riscosse, rispondendo sbrigativo.
«Sì, bentornato.»
«Chi era al telefono, tesoro?» Haruko si affacciò dalla cucina, notando suo marito. «Bentornato a casa, caro.»
Yuzo tentennò, guardando prima la donna e poi il cordless. Mentì. «Ryo, mamma.»
«Oh! Il figlio degli Ishizaki! Quant’è simpatico!» aveva sempre un commento per tutti, sua madre, ma in quel momento non gli venne da ridere. «Senti, tesoro, devo ancora finire di preparare la cena, quindi potresti tirar via i panni dalla lavatrice? Mi faresti un grandissimo favore.»
«Certo.» L’attimo dopo era già scomparso nella lavanderia, chiudendosi la porta alle spalle. Non voleva vedere suo padre, non voleva sentirlo perché tanto già sapeva che avrebbe avuto qualcosa da ridire. Aveva sempre da ridire.
La sua bolla di felicità si era rotta subito, come un palloncino bucato da uno spillo.
Doveva andare via da quella casa, da quella città. Doveva andare via o avrebbe finito col vivere solo in brevi lassi di tempo, ore d’aria, in cui la sua strada non si sarebbe incrociata con quella di suo padre. E adesso aveva trovato anche un modo per allontanarsi pur rimanendo vicino a sua madre; Shimizu-ku era a circa un’oretta di treno. Avrebbe anche potuto andare a trovare nonna Chiyo, che vedeva sempre così di rado. E poi c’era il mare. Shimizu-ku aveva il mare. La voce dell’acqua che mormorava alla riva gli fece distendere un largo sorriso al solo pensiero della sabbia sotto i piedi e dell’odore di salsedine.
In quel momento si ricordò che a Shizuoka City c’era la sede della ‘Golden Gun’.
Il sorriso si smorzò, ma lui lo trattenne, a tutti i costi, affinché non scomparisse. Non importava se si fossero trovati ancora così vicini, era sicuro che non si sarebbero mai incontrati perché la vita di suo padre si svolgeva in luoghi differenti da quelli che avrebbero potuto interessargli. Estranei nella stessa città, così com’era nella vita di tutti i giorni, senza però doversi sforzare di condividere lo stesso tetto.
Il sorriso tornò a essere un po’ più felice, mentre rapidamente riponeva i panni nella cesta, lasciando la lavanderia.
Dalla cucina, gli arrivarono parole decise. I suoi genitori stavano discutendo.
«Tuo figlio continua a mantenere quell’aria di supponenza nei miei confronti e io sto cominciando a perdere la pazienza. Sai cosa avrebbe fatto suo nonno se avessi anche solo pensato di comportarmi come lui?» il padre aveva una mano appoggiata sul tavolo e l’altra al fianco, sotto la giacca aperta; stava dando le spalle alla porta. «Sarebbero volati ceffoni! Insomma, si può sapere dove diavolo abbiamo sbagliato?»
«Non abbiamo sbagliato niente, Baiko!» Haruko rispose con decisione, lanciando quasi il coltello della verdura sul tavolo. «Yuzo è un ragazzo d’oro, intelligente e sano.»
«Beh, mi sembra il minimo! Ci sarebbe mancato solo un figlio deviato!»
«Vuoi smetterla di parlare in questo modo?! Yuzo è ostile perché tu lo sei con lui!»
Baiko gesticolò animatamente, facendo un paio di passi per la cucina. «Ah! Ostile, dici? Io non sono ostile, io sono suo padre e lui mi manca di rispetto.»
«Non è vero! Continui a trattarlo come fosse un bambino, ma Yuzo è cresciuto! Ha un futuro nel calcio che tu gli vuoi togliere…»
«Tsk! Futuro. Che parola grossa per uno sport. Correre dietro a un pallone non è quello a cui dovrebbe aspirare un ragazzo come lui, che ha studiato e ha un’azienda a portata di mano. Io gli offro quella sicurezza che altri pagherebbero oro pur di avere. Yuzo dovrebbe ringraziarmi e invece cosa fa? Si intestardisce nel voler continuare con quel dannato sport!» Baiko incrociò le braccia al petto, chiudendo la sua arringa. «No, mi dispiace, lui è ancora un ragazzino.»
Sua madre tentò un’ultima volta, aggrottando le sopracciglia. «Ha vinto il World Youth, questo non significa niente per te?»
«Cosa dovrebbe significare? Cosa gli resterà di queste vittorie? Una medaglia? Un vecchia foto? La fama? Sic transit gloria mundi, dicevano i latini. Io non gli permetterò mai di gettare la sua vita alle ortiche, se ne facesse una ragione.»
Yuzo aveva sentito a sufficienza.
Con un gesto secco lasciò cadere al suolo la cesta. La conversazione venne interrotta ed entrambi si volsero in direzione della porta dove la figura del giovane si stagliava rigida e senza espressione. Gli occhi, puntati solo su Haruko, non sfiorarono nemmeno per un attimo Baiko.
«La lascio qui, mamma» disse, poi le volse le spalle.
«Yuzo…» la donna tentò di allungare una mano verso di lui, ma il giovane se n’era già andato. I suoi passi risuonarono affrettati lungo le scale, poi il tonfo leggero della porta della stanza che veniva chiusa.
Baiko emise una sorta di sbuffo infastidito. «Ecco, hai visto? Un comportamento molto maturo, non trovi?»
«Smettila!» Haruko lo urlò carica di frustrazione. «Non ti rendi conto che lo ferisci?! È tuo figlio…»
«Proprio per questo sono così severo, perché se si fa piegare da simili stupidaggini non sarà mai in grado di affrontare le vere avversità della vita. Un giorno mi ringrazierà» e, detto questo, se ne andò per serrarsi nello studio e nel suo lavoro.
Il loro, ormai, era un rapporto edificato su spalle girate e porte chiuse.

 

“Un aereo passa veloce, e io mi fermo a pensare
a tutti quelli che partono, scappano o sono sospesi
per giorni, mesi. Anni.
In cui ti senti come uno che si è perso,
tra obiettivi ogni volta più grandi.

Succede perché in un istante tutto il resto
diventa invisibile, privo di senso e irraggiungibile per me.
Succede perché fingo che va sempre tutto bene,
ma non lo penso, in fondo.”

 

Perché non aveva un sistema che generasse automaticamente l’amnesia? Perché non si potevano prendere determinate frasi, metterle da parte e fare finta di non averle mai udite?
Perché?
Yuzo voleva cancellare quello che aveva sentito, lo voleva talmente tanto che sarebbe arrivato a strapparsi le orecchie se fosse servito a qualcosa.

«Ha vinto il World Youth, questo non significa niente per te?»
«Cosa dovrebbe significare?»

Il capo chino, lo sguardo al suolo.
«Niente. Non deve significare proprio niente» rispose a un interlocutore invisibile che non l’avrebbe udito nemmeno se gli avesse urlato in faccia cento volte.
Ma tra tutte le frasi che erano volate, stridenti come pipistrelli, una l’aveva passato da parte a parte, nemmeno le parole avessero potuto assumere una reale consistenza. Nemmeno le parole fossero potute divenire lama.

«Ci sarebbe mancato solo un figlio deviato!»

Una risata gli uscì a labbra strette. Una risata così ironica che gli deformò i tratti, che aveva un sapore amaro e salato come acqua di mare, che gli fece ammettere a sé stesso di non avere proprio speranze di essere accettato da lui per quello che era, per quello che avrebbe voluto essere. L’unico modo che aveva per poter ottenere la sua approvazione era fingere.
«Mi dispiace, ma sembra che il destino abbia davvero deciso di remarti contro, papà» sussurrò, passandosi una mano sul viso.
L’emicrania era esplosa in un attimo; capitava sempre quando litigavano e anche se non aveva preso parte attiva alla discussione, sentiva ugualmente la testa che veniva fracassata a colpi di martello.
Mamoru diceva che accadeva perché si teneva dentro ciò che pensava; anche quando affrontava suo padre, alla fine non riusciva a tirare fuori proprio tutto quello che avrebbe voluto dirgli, a sputargli addosso il veleno che, allora, restava in circolo nelle vene, finendo per arrivare alla testa. La testa era il centro di tutto: dei suoi pensieri, dei suoi ragionamenti. La testa, prima del cuore che era riservato a qualcuno per lui fondamentale, insostituibile. Qualcuno che non avrebbe mai voluto perdere di vista.
Si focalizzò su Mamoru, chiudendo gli occhi, si focalizzò su un frappé non finito, sul vociare del fiume e il frusciare dell’erba; sulla sua sicurezza che gli fece rallentare i battiti e il martellare dell’emicrania.
Doveva avvisarlo della proposta della S-Pulse.
Già, la S-Pulse.
Si focalizzò anche su quello e quando riaprì gli occhi, il fuoco del tramonto stava incendiando il cielo fuori dalla finestra aperta. S’avvicinò a piccoli passi, appoggiandosi al legno dello stipite, gli occhi rapiti da quelle fiamme diffuse e intense. Gli venne da sorridere rendendosi conto che il suo futuro stava lentamente abbandonando l’acromia per assumere davvero il colore vivace che aveva desiderato.
«Il mio futuro è arancione.»

 

“Torneremo ad avere più tempo e a camminare,
per le strade che abbiamo scelto, che a volte fanno male.
Per avere la pazienza delle onde,
di andare e venire.
Non riesci a capire.

Succede perché in un istante tutto il resto
diventa invisibile, privo di senso e irraggiungibile per me.
Succede anche se il vento porta tutto via con sé.
Vivendo…
…ricominciare a fluire.”

TiromancinoImparare dal vento




[1]FUJI: è una delle città della Prefettura di Shizuoka; sorge sulle rive del fiume Fuji e ha, anche, una meravigliosa visuale dell’Huzi-san. XD diciamo che non si capisce proprio da cosa prenda il nome questa città, vero?! (a dire il vero, a me questa città mi fa davvero pensare a Nankatsu: ha un fiume, ha il vulcano, affaccia sul mare. Potrebbe tranquillamente essere lei)

[2]GLASS NO BALALAIKA: “La Balalaika di Vetro”. Non c’è nessun significato particolare dietro la scelta del nome, mi piaceva come suonava (e ammetto che fa anche un po’ il verso a Glass no Kamen, aka ‘La maschera di vetro’, ovverosia ‘Il grande sogno di Maya’ XD)


 

Note Finali:
Ah! Dimenticavo di dire: i capitoli NON sono brevi. XD Sono tutti lunghi più o meno quanto questo.
Con “Barabba! Barabba!” ho capito che non sono fatta per capitoli che non seguono la divisione che ho in testa, e così sono tornata al mio modo.
Perdonatemi se i capitoli lunghi vi spaventeranno e/o scoraggeranno, ma è così che scrivo fanfic :D

Al momento la storia è ancora in stesura, ma non saranno troppe parti: credo 8/9, io sono a 5 complete e corrette, mentre le altre sono in fase di scrittura con già molto materiale battuto a pc.
Gli aggiornamenti saranno più lenti, anche perché i capitoli sono corposi. XD



Le Canzoni del Capitolo:

- In Bloom (Nirvana): con i Nirvana ci sono praticamente cresciuta, e anche se, in principio, non mi piacevano, con gli anni e la maturità ho finito per amarli. Forse anche perché mi ricordano un po’ i tempi andati, di quando ero più piccola. Amo tantissime loro canzoni, tra cui ‘In Bloom’, ma la mia preferite resteranno sempre ‘Lithium’ e ‘Rape me’. Ho scelto questa perché Yuzo si trova ancora nell’età in cui un giovane comincia a scegliere il proprio futuro, ad alzare la testa, a ‘sbocciare’ (‘In Bloom’ significa ‘In Fiore’). Certo, l’adolescenza comincia prima, ma se a 15/16 anni si è davvero ancora dei ragazzini, sentirselo dire a 19 ti fa girare i coglioni.
Bisogna anche tener presente che parliamo di ragazzi giapponesi, dove c’è un’educazione al rispetto della famiglia e dei genitori molto alti e se prima Yuzo non ha mai risposto in maniera diretta a suo padre, ora che è maggiorenne, beh, la testa comincia a tirarla fuori dal sacco.
L’ho scelta anche per la sua negatività (e valla a trovare una canzone dei Nirvana che sia positiva XD) e per quel verso, in particolare, che ho riportato e che è totalmente dedicato a Baiko. Baiko e la sua azienda di armi, Baiko e il suo rigore: non si rende conto di quello che sta facendo a suo figlio, non sa cosa comporterà il suo atteggiamento.

- Goodbye Happiness (Utada Hikaru): ammetto che questa canzone non la conoscevo. XD Non sono una grande fan della musica giapponese (anche se io ascolto veramente, ma veramente di tutto: hindi, son, ebraica. Di tutto). L’ho scoperta per puro caso, proprio in lavorazione a questa storia. Mi ero detta: “che cazzo è una fic ambientata in Giappone, almeno una canzone giapponese ce la vogliamo mettere?!” XD e così è spuntata questa. Ditemi voi se il testo non è perfetto.
Per la scena cui avrebbe dovuto fare da sfondo musicale era adattissima: si parla della fine dei giorni spensierati, si parla della crescita, si parla del non poter tornare indietro. C’è molta malinconia, nonostante la musica allegra (il video, poi! E’ di un carino! ** Utada Hikaru è carinissima!), ed era un po’ l’atmosfera che volevo per quel momento tra Yuzo e Mamoru.

- Imparare dal vento (Tiromancino): oh, beh, questa è senza dubbio la più bella canzone dei Tiromancino (e il video è stupendo). E’ poetica, è romantica (non nel senso lovelove -_-), era perfetta. Il testo, in questo contesto, sembrava uscito dalla mente di Yuzo, sembravano i suoi pensieri. C’è il senso dell’acqua e della fluidità, c’è l’incapacità e il sentirsi schiacciare dagli ostacoli che si trovano sulla strada di ognuno di noi e poi c’è quel ‘passare avanti’ (Vivendo, ricominciare a fluire). Per Yuzo il ‘ricominciare a fluire’ è la possibilità di andare a giocare alla Shimizu S-Pulse.



Ok, ciarle finite per adesso. :D
Ci risentiamo al prossimo capitolo e grazie, sin da ora, a chi vorrà seguirmi in quest’avventura: sarà molto densa, ve lo assicuro. :D

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Capitolo 2
*** Part II: Just before the rain ***


Documento senza titolo

PreNota:
Per la cronaca, i capitoli vanno allungandosi pericolosamente verso gli 11, e io sono al 7.
Mai una volta che riuscissi a rientrare nel conteggio che mi ero prefissa, eccheppalle XD!
A ogni modo, credo che aggiornerò una volta alla settimana, in modo da poter lavorare anche ai capitoli ancora mancanti :D

 

Il lungo sonno della Lucciola
- Part II: Just before the rain -

 

Kurata Inoki era ancora più stravagante di come aveva immaginato che fosse in quei pochi momenti che avevano parlato al telefono.
I capelli corti, il completo elegante e quella cravatta arancio-fluo che era uno stratosferico cazzotto in un occhio.
Seduti nel bar del centro, dove nemmeno un paio di giorni prima era andato a festeggiare con Mamoru, il signor Kurata stava parlando, parlando, parlando senza sosta da almeno un’ora. Divagando, per lo più, nella descrizione della città, della squadra, dello stadio. Anche il colore dei tappetini nelle docce degli spogliatoi.
Un paio di volte, Yuzo aveva rischiato di scoppiare a ridere, ma si era trattenuto perché sarebbe stato sgarbato e perché Kurata non era venuto da solo. Con lui c’era un uomo ben più anziano e dagli abiti più informali. Indossava una semplice polo arancione con lo stemmino degli S-Pulse e un pantalone di lino leggero. L’abbigliamento più adatto, col caldo che faceva.
Il signor Tamura non aveva parlato molto, ma si era capito chiaramente che era lui a comandare; spesso, infatti, Kurata gli si era rivolto per avere la sua approvazione o quando non era stato troppo convinto delle risposte da dare.
A Yuzo piacque anche il signor Tamura. Aveva un modo di fare affabile e il viso simpatico. I pochi capelli e quegli occhialetti sul naso gli conferivano l’aspetto rassicurante di un nonnino. E poi, era alto quasi la metà di Kurata, che era uno spilungone addirittura più alto di lui. Insieme formavano un duo davvero stravagante.
«Santo cielo, Inoki. Se continui a torturarlo così, gli farai venire il mal di testa a questo povero ragazzo» esclamò d’un tratto il signor Tamura, passandosi il fazzoletto di stoffa sopra la fronte.
Il talent-scout si scusò in tutti i modi possibili e con l’eccessiva teatralità che era propria del suo modo di fare.
«Oh, lo so! E’ che io parlo troppo, non ci riesco a contenermi, ho sempre qualcosa da dire!»
Yuzo rise, finendo il suo caffè freddo. Il contratto che l’avrebbe legato alla S-Pulse era appoggiato sulla liscia superficie del tavolo, assieme alla penna. Aspettava solo di essere firmato.
«Infatti, ho divagato di nuovo, uff! Dunque, concludendo, ti trasferirai a Shimizu-ku tra un mese, per gli inizi di Settembre. Come saprai, il campionato è ancora in corso e noi vorremmo farti debuttare nella prossima stagione, cioè a Marzo. Non è incredibile?!»
«Beh, sì. Direi di sì.» Il portiere cercò di non farsi travolgere dal suo entusiasmo dilagante e scambiò una rapida occhiata col signor Tamura che sospirò, rassegnato.
«Che poi, non sarai nemmeno da solo! Infatti vorremmo ingaggiare anche il difensore Takeshi Kishida.»
La notizia gli illuminò il viso di genuina felicità.
«Veramente? Ma è fantastico! Takeshi è un ottimo giocatore.»
«Lo sappiamo!» squittì Kurata, quando il signor Tamura si intromise sollevando gli occhialetti sul naso.
«A proposito di Kishida. Non avresti dovuto già metterti in contatto con lui quando hai chiamato Yuzo?»
Inoki gelò, cristallizzando il sorriso come fosse stato ibernato all’istante. Si girò verso l’uomo più anziano con movimenti lentissimi, calibrati al millimetro. Le labbra vennero tirate fino all’inverosimile e quasi le lacrime agli occhi.
«Me lo sono dimenticatooooo!» lagnò, allungando a dismisura l’ultima vocale. Aveva la stessa espressione de ‘L’urlo’ di Munch. «Mi dispiace! Mi dispiace infinitamente! Lo chiamo subito! Adesso! Voloooo!» Con uno scatto di reni balzò in piedi e scappò fuori dal bar, estraendo il cellulare.
Stavolta, Yuzo non riuscì a trattenersi e rise di gusto, coprendosi la bocca con la mano. «Mi scusi! Davvero, mi scusi… è solo che…»
Il signor Tamura scosse il capo, ridacchiando con lui.
«Non preoccuparti. Inoki è un tipo involontariamente divertente, ma è davvero un ottimo talent-scout, anche se un po’ distratto.»
Un po’ tanto, avrebbe detto il portiere, ma si limitò ad annuire, assumendo una postura più composta. Nonostante fosse la prima volta che aveva a che fare con persone importanti di una squadra altrettanto importante, Yuzo si sentiva a suo agio. Forse erano proprio i modi vistosi ed esuberanti di Kurata o forse era l’espressione benevola di Tamura, non avrebbe saputo dirlo, però era felice che fossero stati quelli della Shimizu S-Pulse a contattarlo.
«Se hai qualche domanda, non esitare a esporci i tuoi dubbi, figliolo» esordì l’uomo a un tratto, incrociando le mani sul tavolo. Il portiere lo osservò in silenzio, poi cambiò postura.
«A dire il vero… una curiosità ce l’avrei…»
«Ti ascolto.»
L’aveva nella testa fin dalla prima telefonata ricevuta da Kurata. Non aveva mai avuto chissà quale grande autostima ed era sempre stato convinto che, semmai una qualsiasi squadra professionista l’avesse contattato, non sarebbe stata di certo della serie maggiore, e invece la S-Pulse si trovava in J1 fin dalla sua fondazione e non era mai retrocessa. Quindi l’interrogativo gli era rimasto come marchiato nella mente.
«Perché proprio io?»
Tamura parve realmente sorpreso da quella domanda, tanto che non rispose subito e lui credette d’aver sbagliato a parlare.
«Mi scusi, forse non avrei dovuto-»
«No, invece, credo sia una domanda più che legittima» Tamura sorrise ancora, sistemando gli occhialetti sul naso e sporgendosi di più verso di lui. Negli occhi c’era sempre quell’espressione protettiva del nonno che parlava al nipote e aveva tanto, tanto da raccontare. «Il Presidente ti ha visto giocare e gli sei piaciuto.»
Semplice, lineare.
Yuzo sorrise.
«Dice sul serio?»
«Sì. Lui presta sempre molta attenzione ai giocatori da selezionare. Ha visto tutti gli incontri del World Youth ed è rimasto davvero colpito dalla tua forza di volontà, tanto che è andato a cercare anche qualche partita del campionato studentesco.» Mentre parlava, mise mano al solito fazzoletto di stoffa e cominciò a pulire gli occhiali. «Vedi, la Shimizu S-Pulse è una squadra molto particolare. L’intera città la segue con affetto e raccoglimento fin dai suoi esordi, creandole attorno un clima pacifico e caloroso. Lo stesso Presidente non valuta i giocatori solo esclusivamente in base alle loro abilità, ma anche in base al carattere adatto a giocare in gruppo e a vivere il calcio meno come un business e più come uno sport che unisce le persone. Vuole che i suoi ragazzi, prima di tutto, si divertano nello stare in campo. Ed è convinto che tu abbia entrambi i requisiti: abilità e passione. Crede molto in te.» Mise via il fazzoletto e inforcò le lenti, ora pulitissime. «E adesso posso affermare che ha visto giusto.»
Yuzo arrossì un po’.
«Immagina quindi la Shimizu S-Pulse come una grande famiglia; alla fine, è proprio questo che siamo.»
«Una… famiglia?»
Quelle parole lo colpirono in pieno petto.
«Sì, ci siamo sempre visti così. Una famiglia grande quanto l’intero distretto di Shimizu-ku.»
«Una famiglia…» fece eco di nuovo; gli occhi si spostarono sui fogli del contratto ancora intonsi.
La sensazione di venire accettati, di avvertire che c’era fiducia nelle sue capacità, la sensazione di sostegno e calore tutto racchiuso in quella semplice affermazione. E la cosa più incredibile era che sentiva, fin dentro le ossa, quanto fosse vera. A volte c’erano percezioni che il corpo riusciva a comprendere prima della mente. Era un qualcosa di fisiologico, forse chimico. Yuzo non lo sapeva, ma ora capiva perché si fosse trovato così a suo agio con loro fin da subito, nonostante non li conoscesse affatto.
Una famiglia.
Senza aggiungere altro, il portiere allungò la mano verso la penna e firmò entrambi i fogli del contratto che aveva già letto attentamente fin da quando si erano seduti nel bar. L’inchiostro nero tracciò la scia del suo nome lasciandolo indelebile sul bianco. Aveva appena imboccato la strada giusta verso la meta.
Piano, appoggiò la biro sulla carta, allungando entrambi verso Tamura.
«Sì, sono sicuro che mi troverò bene» sorrise e l’uomo lo ricambiò con calore. In quel momento tornò anche Kurata più su di giri che mai.
«Fiùùù! Per fortuna sono arrivato in tempo! Anche Takeshi-kun era libero da impegni, sìììì!» Poi si accorse della firma che spiccava chiara e leggibile sul contratto, e la sua euforia andò in orbita. «Oh! Ma allora hai accettato?! Sei dei nostri, è meraviglioso! Dobbiamo festeggiare!» Con l’indice puntato al cielo e una mano sul tavolo esclamò, attirandosi praticamente l’attenzione di tutti gli avventori: «Cameriera! Un altro giro di caffè freddo!»

 

“May your smile (may your smile) /
Possa il tuo sorriso
shine on (shine on) /
brillare.
Don’t be scared /
Non essere spaventato
your destiny may keep you warm /
il tuo destino ti riscalderà

 

Tornò a casa prima dell’ora di pranzo, camminando lentamente per le strade di Nankatsu e godendo di quella calura asfissiante che gli si attaccava alla pelle. Attorno a lui c’era chi passava, sbuffando, sventolandosi con le mani o con qualsiasi altra cosa adatta a fare un po’ di vento. Si muovevano velocemente per raggiungere luoghi più freschi, ma non si rendevano conto che, così facendo, sudavano ancora di più. Lui non aveva fretta, non voleva averne per memorizzare meglio ogni attimo di quella realtà che stava per abbandonare.
Quella era Nankatsu e Yuzo voleva imprimersela bene nella mente fino all’ultimo istante, in ogni suo più piccolo pregio e difetto, per non dimenticarla troppo quando si sarebbe trovato a Shimizu-ku.
La copia del contratto era nello zaino a tracolla. Biglietto d’addio alla sua città natale dove non era sicuro che sarebbe ritornato; forse non avrebbe potuto: suo padre non gliel’avrebbe permesso dopo che gli avrebbe detto della partenza, ovvero il giorno prima se non il giorno stesso.
Probabilmente, suo padre gli avrebbe detto di non tornare mai più.
Anche per questo voleva assorbire, come una spugna, tutti i colori di Nankatsu, i suoi odori, il suo clima, il cielo e le nubi, la terra e l’asfalto. Gli occhi fotografavano attimi ogni volta che le palpebre si chiudevano.
Ma sulle labbra c’era un sorriso. Era grato di tutto quello che la città gli aveva dato, dei suoi amici, della sua passione e dei suoi successi; del campo da calcio vicino al fiume, del fiume stesso. Era grato dei ricordi che avrebbe potuto portare con sé come un vecchio album da sfogliare per scoprire quanto sarebbe cambiato negli anni a venire.
Yuzo fece il giro più lungo possibile, quasi a voler comprimere tutti gli scatti in quei pochi momenti. Aveva fretta di cambiare e correre lungo quella strada nitida e arancione. Aveva fretta di sentirsi slegato da qualsiasi vincolo paterno. Aveva fretta e un po’ aveva paura. Forse più di un po’.
Cambiare in maniera radicale le abitudini e sapere d’averlo scelto con le proprie mani era un qualcosa troppo grande per non esserne spaventati. Però era il guardarsi indietro e non trovare nessuna certezza a intimorirlo di più, per questo Yuzo non si era voltato mai mentre camminava. Se si fosse girato, Nankatsu avrebbe finito col cessare d’esistere, abbandonata nel passato che non poteva essere cambiato e che oramai doveva giacere in un angolo della sua memoria. Di concreto aveva solo il presente, la strada dritta, che lo stava portando verso il futuro.
Quando arrivò davanti al cancello della villetta, il sole aveva raggiunto e superato lo zenit, cominciando a far allungare nuovamente le ombre sulla terra.
Yuzo guardò la costruzione dall’esterno lungamente e con intensità. Anche quella voleva imprimersi bene, fotogramma per fotogramma, perché, nonostante tutto, era stata la sua casa.
Era sempre stata una bella sensazione quella di sapere di avere un posto in cui tornare, dove si nascondevano le radici della propria identità. Yuzo aveva sempre saputo che le sue erano ben piantate in quella villetta, nel panorama visibile dalla finestra dove poteva rubare cielo e tramonto; sovrastante i tetti delle case vicine, si scorgeva la maestosità del Fuji. E a ogni ritorno, quando gli impegni calcistici l’avevano portato fuori Nankatsu, aveva sempre avvertito quel magnetismo indissolubile verso qualcosa che gli apparteneva o cui sapeva di appartenere; era soddisfazione, erano luoghi conosciuti, erano odori inconfondibili, erano letto-tetto-cancello. Era casa.
Ora capiva che avrebbe dovuto piantare altrove quelle stesse radici, sradicarle dal legno del parquet e dal cemento dei muri, sperando di farle attecchire lo stesso, per non marcire. Oppure, avrebbe potuto lasciare un piccolo ramettino, foglia, germoglio di sé, perché non ci si dimenticasse di lui.
Adagio estrasse le chiavi di casa e varcò il cancello, richiudendolo alle sue spalle. Appena aprì la porta, dall’interno provenne il profumo piacevole e familiare della cucina di sua madre. Quanto gli sarebbe mancata, lei, una volta lontano da lì?
«Tesoro, sei tu?»
Sentì chiedere, mentre si toglieva le scarpe, ma non rispose. Raggiunse la cucina con passo lento, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta. Sua madre era allegra, dimentica delle discussioni di un paio di giorni prima, o forse fingendo di dimenticare, come spesso faceva anche lui.
La donna si volse, guardandolo con un largo sorriso e asciugandosi le mani sul grembiule. Avevano lo stesso taglio d’occhi. Lei aveva una fisicità minuta che, no, decisamente non aveva ereditato. Di corporatura, Yuzo aveva preso da suo padre: stessa altezza, ossa spesse e spalle ampie. Di viso, aveva i tratti dei Morisaki, e fin da quando era piccolo gli avevano detto che sorrideva come Baiko. Yuzo non l’aveva mai potuto verificare per il semplice fatto che non ricordava d’averlo mai visto ridere, suo padre, o, se era stato, era avvenuto troppo tempo prima, in cui era stato solo un bambino convinto che tutto quello che avrebbe caratterizzato il suo quotidiano, sarebbe rimasto per sempre immutabile attraverso gli anni; ignorava il senso di mancanza per un ricordo perduto.
«Ehi, ma allora eri tu. Perché non mi hai risposto?»
Haruko lo guardò in attesa di parole che non arrivarono, e il suo sorriso assunse una sfumatura perplessa.
«Tesoro… va tutto bene?»
Yuzo avanzò per la stanza. Spostò leggermente una sedia, trascinandola sul pavimento, e si sedette facendole cenno di prender posto accanto a lui.
«Ti dovrei parlare, mamma.»
«Che succede? Sei così serio, mi fai preoccupare» si allarmò Haruko, obbedendo subito alla richiesta.
Yuzo estrasse il contratto della S-Pulse rigirandolo tra le mani. Non sapeva bene da dove cominciare, ma non voleva prenderla troppo alla larga. Guardò la carta bianca piena di scritte nere, stampate, e poi levò lo sguardo su di lei, inspirando a fondo.
«Io… ho fatto una scelta. Ho scelto il mio futuro e, no, non sarà alla guida della ‘Golden Gun’.» Negli occhi di sua madre, il portiere lesse un guizzo preoccupato. «Due giorni fa, quando hanno telefonato a casa, ti ho mentito: non era Ryo, era un talent-scout della S-Pulse, la squadra di calcio di Shimizu-ku. Volevano ingaggiarmi, per farmi giocare nella J1, la lega maggiore.» Yuzo appoggiò i fogli sul tavolo, facendoli scorrere verso di lei. «Io ho accettato e oggi ho firmato il contratto; tra un mese mi trasferirò a Shimizu-ku per prepararmi a debuttare nel mondo del professionismo. Avrei voluto dirtelo prima, ma… volevo essere sicuro della mia scelta.»
Haruko prese le carte con le mani tremanti, l’espressione si deformò in sconcerto e leggero timore; non lesse cosa c’era scritto, la sua testa era troppo presa da un unico interrogativo, quello che non le aveva permesso di sorridere felice a quella notizia. Era lo stesso che teneva in scacco anche Yuzo.
«E… e tuo padre… cosa dirai?»
«Non glielo dirò fino al giorno della partenza, per questo ti chiedo di mantenere il segreto. Lo so che è una richiesta enorme, so che papà… papà forse mi odierà per tutta la vita, ma io ho davvero provato a cercare di andare d’accordo e comprendere il suo punto di vista. In questo anno ci ho provato con tutto me stesso, ma lo hai visto anche tu, lui guarda da una parte, io dall’altra e non posso più… cercare di rincorrere i suoi occhi. Se glielo dicessi ora, lui farebbe di tutto per non farmi partire, sai quanto è testardo, e di sicuro ci riuscirebbe e dopo cosa ne sarebbe di me?» Sospirò, abbassando lo sguardo sul tavolo. «Io non pretendo che lui capisca la mia scelta e mi perdoni come se niente fosse. Però… vorrei solo… che non mi considerasse un ingrato, perché io non smetterò mai di ringraziarvi per tutto quello che avete sempre fatto per me, per quello che mi avete dato. Vi sarò eternamente debitore.» Accennando un sorriso sbilenco, si strinse nelle spalle. «Ti lascerò la patata bollente. Scusa, mamma.»
Al termine del discorso, Yuzo sentì di averla ferita e delusa, tanto da non avere il coraggio di guardarla negli occhi. Poi, il calore della mano che cercava la sua lo convinse e sul volto di Haruko c’era un sorriso pieno di affetto, puro e indistruttibile, e negli occhi una luce commossa.
«Io sono e sarò sempre orgogliosa di te» disse «Hai lavorato così tanto per raggiungere il tuo sogno, non ti sei mai arreso. E ce l’hai fatta. Tu non puoi nemmeno immaginare quanto io… sia fiera, fiera dell’uomo che sei diventato.»
Yuzo seguì con lo sguardo le dita della donna che risalivano lungo il viso per carezzargli la guancia come sempre aveva fatto fin da che aveva memoria; quel tocco era un qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare. Ricambiò il sorriso, si lasciò carezzare la nuca e i capelli.
Haruko si sporse, dandogli un bacio sulla fronte, e Yuzo cercò rifugio nel suo collo, per prendersi un abbraccio e nascondere le lacrime.
Ora poteva andarsene con mezza serenità nel cuore, mentre l’altra metà sarebbe rimasta vuota, forse per sempre.
«Ti voglio bene, mamma.»

 

“Get up (get up) /
Alzati.
Come on (come on) /
Andiamo.
Why’re you scared? (I’m not scared) /
Perché sei spaventato? (Non sono spaventato)
You’ll never change what’s been and gone /
Non cambierai mai ciò che è stato e sepolto.

Cos all of the stars /
Perché tutte le stelle
are fading away /
si stanno spegnendo.
Just try not to worry /
Prova a non preoccuparti
you’ll see them some day /
le vedrai, un giorno.
Take what you need /
Prendi ciò di cui hai bisogno
and be on your way /
e segui la tua strada
and stop crying your heart out /
e smetti di far soffrire il tuo cuore.

OasisStop crying your heart out

 

§*§

Sei l'affanno, il brivido, la perdita
del ritmo regolare del respiro.
Mi nascondo
dietro parole inutili.
Linee parallele che non si incontrano,
destini pronti a perdersi
nell'infinito.
E non fermarmi adesso.”


«Come vanno le cose?»
Yuzo si distese completamente sul letto, allungando le gambe. Mamoru era rientrato da Yokohama City la sera prima; essendo una nuova leva non effettuava ancora l’allenamento ordinario dei suoi compagni più anziani, ma restava solo tre giorni alla settimana.
«Normale, per ora.»
«Tuo padre sospetta nulla?»
Yuzo accennò un sorriso sarcastico sistemando meglio il cordless contro l’orecchio. Era trascorsa già una settimana da quando aveva stipulato il contratto.
«Figurati, lui non vede niente oltre al suo lavoro. Ha i paraocchi.»
Sentì Mamoru sospirare dopo qualche momento.
«Sei sicuro che sia la scelta giusta? Diventerà una bestia…»
«Tanto s’arrabbierà uguale. Almeno così gli impedirò di intervenire.»
Ma il terzino non era davvero convinto della riuscita del suo piano. E, a dirla tutta, era preoccupato.
«Senti, non vuoi che ci sia anche io quando glielo dirai?»
«Ma scherzi?! E farti assistere al Litigio Epocale?! No, ti prego, te lo risparmio…»
«Almeno potrei fermarvi se doveste arrivare alle mani.»
Yuzo sbottò a ridere sonoramente e di gusto.
«Ma va! Che dici?! Papà non è il tipo, ha strategie migliori: prima ti distrugge a parole, poi ti cancella dalla sua esistenza. Lui fa così» era il mago dell’Indifferenza; il modo in cui sapeva ignorare la gente era ineguagliabile. O, almeno, Yuzo non avrebbe mai saputo fare altrettanto.
«E tu?»
Quella domanda lasciò il portiere perplesso.
«Io cosa?»
«Yuzo, le acque chete distruggono i ponti e io non voglio vederti spaccare gli argini.»
«Mamoru, è mio padre, non arriverei mai a tanto, dovresti saperlo.»
«Sì, sì. Lo so.»
Non si sarebbe mai sognato di alzargli le mani addosso. Nonostante tutte le incomprensioni, rispettava il suo ruolo di genitore e la sua autorità. E, in fondo, Yuzo sperava che non dovessero mai trovarsi a un simile livello di esasperazione. «Dai, ne riparliamo al campo tra un’oretta.»
Mamoru sembrò convincersi, anche se aveva un tono più titubante del solito. «Ok. E, oh!, non ti dimenticare che puoi sempre contare su di me, eh?»
«No che non lo dimentico. A dopo.»
Il portiere rimase a fissare il telefono senza smettere di sorridere anche dopo che ebbero entrambi riagganciato. Mamoru era fatto così, era molto protettivo verso le persone cui teneva, anche se ostentava un atteggiamento alla ‘macho’. Era una delle sue qualità che amava di più e sapere di fare parte della sua cerchia di persone importanti, lo rassicurava. Bastava solo quello per sentirsi un pochino più forte.
Yuzo si tirò a sedere e infilò le ciabatte per scendere al piano inferiore e posare il cordless. Sua madre era uscita pochi minuti prima per il solito giro di spese del Giovedì. Le aveva detto di avere una partitella di allenamento con gli ex-compagni di liceo e che sarebbe tornato per cena. Da quando avevano parlato, lei non aveva più fatto domande, dandogli il suo completo appoggio e mantenendo il segreto. E i giorni stavano passando, anche se lentamente.
Yuzo ci pensava di continuo, pensava alle parole da dire e al tono da usare, ma si sforzava di non immaginare la reazione che avrebbero sortito. Non voleva aspettarsi nulla, limitandosi a prenderla così come sarebbe arrivata senza nemmeno replicare. Glielo doveva, a suo padre, per aver agito di nascosto.
Nel suo rimuginare, il giovane aveva appena appoggiato il telefono sul supporto, quando il rumore della chiave nella toppa gli annunciò che qualcuno stava entrando e, per certo, sapeva non essere sua madre. Rimase stupito nel vedere l’uomo varcare la soglia così presto e sentì l’ansia allargarsi nello stomaco. Da quando avevano cominciato a discutere più animatamente, era una cosa che gli accadeva spesso.
«Sono a casa.» Baiko si tolse le scarpe senza nemmeno appoggiare la ventiquattro ore. Levò lo sguardo e trovò suo figlio.
«Sei tornato prima.»
Nel tono e nello sguardo un po’ sorpreso, all’uomo parve di cogliere una nota delusa, come se Yuzo avesse preferito che rientrasse il più tardi possibile. La cosa lo irritò.
Baiko inarcò severamente un sopracciglio, rispondendo con tono duro: «E’ un problema?»
Yuzo si sentì attaccato. Cambiò espressione, mettendosi sulla difensiva e distogliendo lo sguardo per non peggiorare le cose e stroncare sul nascere la discussione.
«Era solo un’osservazione» disse ed era la verità, ma la frase gli uscì più piccata di come avrebbe voluto. «Comunque, bentornato.»
«Tua madre non è in casa?» Baiko lo bloccò che aveva messo il piede sul primo scalino, ma si trattò di un attimo poiché riprese a salire subito dopo.
«Il Giovedì va sempre in giro a fare compere.»
«Yuzo» il tono divenne imperioso e lo fermò del tutto «Ti sto parlando. L’educazione vorrebbe che tu non mi dessi le spalle, ma ti fermassi ad ascoltare.»
Il portiere ingoiò a vuoto, costringendosi a obbedire. Non doveva fare passi falsi, ma chiuderla lì.
Lentamente si girò, scendendo adagio tutti gli scalini. Entrambi sullo stesso piano, Yuzo si appoggiò al muro, mani nelle tasche dei jeans e spalle strette.
Era nervoso, Baiko se ne accorse: lo agitava stargli così vicino e parlare più di due minuti. Molto bene, non gli avrebbe permesso di andarsene tanto facilmente.
«Così va meglio» continuò, autoritario, «Per quanto riguarda tua madre, perdonami se non conosco tutte le abitudini di questa casa ma, sai, lavoro tutto il giorno.»
«Non l’ho mai messo in dubbio» rispose Yuzo svelto. Lo sguardo sempre distolto.
«A ogni modo…»
Baiko si mosse in direzione dello studio e Yuzo fu costretto, suo malgrado, a tenergli dietro. L’ansia si aggrovigliava sempre di più allo stomaco mentre sentiva che sarebbero potuti arrivare al punto di non ritorno, e senza nemmeno Haruko a contenerli, sarebbero volate parole grosse, quelle che lui non voleva né dire né sentire.
«…a breve cominceranno i test di ammissione. Stai studiando?»
«Sì» era vero, anche se non Economia. Non aveva mai detto di non voler andare all’università, gli era sempre piaciuto studiare, il problema era la materia.
Baiko appoggiò la valigetta sulla scrivania e si volse, scrutando suo figlio che, invece, restava fermo sulla porta. Inarcò un sopracciglio con sospetto.
«Non ti credo, non ti ho mai visto studiare-»
«Se non sei mai a casa, mi sembra ovvio.»
«Non essere indisponente!»
Yuzo sussultò, non era riuscito a frenare la lingua e, anche se in fin dei conti aveva detto la verità, aveva usato il tono sbagliato.
«E’ questo che ti hanno insegnato a scuola? A rispondere a tuo padre? Mi avevano parlato così bene della Nankatsu e invece. Sarebbe stato meglio se fossi rimasto alla Mizukoshi e avessi completato lì il tuo ciclo di studi.» Baiko aveva preso il ‘la’ e non si sarebbe fermato fino a che non avesse demolito ogni cosa, poco importava se la persona in questione era suo figlio. «E invece ho dato retta a tua madre. ‘No, caro, fallo continuare a giocare. È un bambino, lo sport gli farà bene’. Stronzate.»
Yuzo sentì l’apprensione salirgli al viso e colorarlo di rosso; il panico, per il modo in cui sapeva sarebbero degenerati, arrivò alla gola. Ecco che ricominciava ad attaccare il calcio e quelli che erano il suo mondo e le sue scelte.
«Senti, smettila, va bene? Lascia in pace la mamma, non era di questo che stavamo parlando! Mi hai chiesto se stessi studiando e ti ho detto di sì, d’accordo? Finiamola!»
«Ah, sì? Stai studiando? Davvero? E allora dimmi cosa hai studiato fino adesso. Forza.»
Il portiere si sentì in trappola perché in ogni caso avrebbe finito col dare la risposta sbagliata. Tacque, mordendosi il labbro e perdendo in parte il piglio aggressivo.
«Avanti, voglio sentirtelo dire, Yuzo! Cosa hai studiato?»
«Non Economia» masticò.
Baiko fece schioccare la lingua tra i denti, dipingendosi un mezzo sorriso ironico.
«Sei anche bugiardo, ma bravo.»
Yuzo si sentì ferire da quell’accusa e sollevò il capo di scatto; finalmente lo guardava negli occhi.
«Non ti ho mentito! Mi avevi chiesto se stessi studiando, non cosa!»
«Non usare questi giochetti con me!»
Il portiere non replicò, ma girò il viso, facendo cadere il silenzio su entrambi.
Baiko si appoggiò con una mano sul tavolo e l’altra al fianco; scrutò attentamente suo figlio in un misto di delusione e fastidio.
«A questo punto mi sembra il caso di doverti trovare un insegnante privato.»
«Non ho bisogno di nessun insegnante. Non farò Economia, non è la materia adatta a me.»
«Ma che significa ‘non è la materia adatta’?! E’ una materia come le altre: si studia e si impara! E’ di un’azienda che ti dovrai occupare, di managment, di investimenti e azioni. In che facoltà dovrei mandarti se non quella?! Ormai ho deciso, ti troverò qualcuno che ti segua, così sarai costretto a dedicarti come si deve allo studio, invece che perdere tempo. Ne hai già sprecato fin troppo, dietro a quel dannato campionato!»
Yuzo sentì il cuore battere ogni secondo più velocemente. La testa continuava a dirgli di incassare, tanto mancava poco, ma il suo orgoglio aveva una voce più forte e ululava.
«No.» Non si sarebbe piegato.
«No?» Baiko era divertito. «Non vorrai costringermi a metterti in punizione. Alla tua età sarebbe ridicolo.»
«Non trattarmi come fossi un bambino!»
«Tu sei un bambino se continui a comportarti in questo modo e se continui a disobbedirmi!»
Yuzo udì le parole di Mamoru nella testa, avvertì il montare dell’acqua e in suo padre vide il ponte da abbattere. Urlò con quanto più fiato avesse in gola, sovrastando con forza la voce di Baiko, tanto da lasciarlo interdetto.
«Volevi qualcuno che seguisse i tuoi ordini e comandi?! Allora ti dovevi prendere un cane, non fare un figlio! Io non sono un robot! Ho una mia testa, ho i miei desideri e non ci rinuncerò! Tra due settimane toglierò il disturbo-»
L’uomo si riscosse e tentò di arginare la sua foga e la sua rabbia opponendogli le proprie.
«Cos’è che farai tu?!»
«Toglierò il disturbo, papà! Me ne vado!»
«Per andare dove?! A tentare di rincorrere un sogno inutile?! Chi ti dice che ci riuscirai?!»
«Credi che io valga così poco?!» Yuzo sentì le lacrime attorcigliarsi nella gola. «Beh, guarda, faccio talmente pena da aver firmato un contratto con la S-Pulse per giocare in J1!»
Baiko si imbestialì, girando attorno al tavolo come una furia. In preda al nervosismo sbatté tutte e due le mani sul legno. Yuzo lo vide arrossire per la collera e spalancare gli occhi, ma non si fece intimorire anche se dentro, dei suoi organi non erano rimaste che frattaglie.
«E questo quando pensavi di dirmelo?!»
«Avrebbe cambiato qualcosa?!»
«Non ti permetterò di fare quello che ti pare e mandare all’aria il tuo futuro e quello della ‘Golden Gun’!»
«E io non voglio la tua maledetta azienda!» Le lacrime gli graffiarono gli occhi, ma riuscì a trattenerle ancora. Abbassò il tono. «Per fortuna ho trovato chi crede in me. E non sei tu!»
Quelle furono le sue ultime parole. Lasciò in fretta la stanza e si diresse all’ingresso.
«Yuzo! Yuzo torna indietro non abbiamo ancora finito! Yuzo!»
Ma lui era sordo. Infilò le Nike senza nemmeno allacciarle e corse fuori, spalancando la porta; non la chiuse. Spalancò il cancello; non lo chiuse.
Corse lungo la strada senza mai guardarsi indietro.

 

Le conseguenze
che mi aspettano,
nascoste dietro la luce soffusa
della stanza, mi assalgono;
comprimono il cervello,
stringono la presa e mi confondono.
Non respiro più.
Lo sguardo cade su un particolare ormai dimenticato,
la testa gira, ferma tutto voglio scendere
da questa paranoia.


Libero…
TU SEI
…di essere.
LIBERO DI ESSERE
Niente più…

NIENTE PIU`
…di un numero.

SEI
quello che è stato
SEI
il mio passato che non tornerà
TUTTO QUELLO CHE

desideravo avere tempo fa.”

 

Baiko aveva cercato di rincorrerlo, invano: Yuzo era molto più veloce di lui.
Rimase fermo sulla soglia del cancello aperto, ma suo figlio era già lontano.
E così, Yuzo aveva agito alle sue spalle. Aveva firmato un contratto. Aveva progettato di andarsene senza dirgli nulla se non all’ultimo momento.
Inaccettabile.
La sua espressione si fece minacciosa e dura come la pietra.
Voleva forse la guerra? Non si rendeva conto d’averla già persa in partenza?
Yuzo era destinato a prendere in mano la ‘Golden Gun’, doveva solo rassegnarsi, e lui avrebbe piegato la sua indisponenza con la forza. Sapeva già come agire.
Adagio, richiuse il cancello ed entrò in casa: aveva una telefonata da fare.


“Ti vedo ancora sempre troppo distante
mi sento ancora sempre troppo distante
Ti sento ancora sempre troppo distante
mi vedo ancora sempre troppo distante”


Linea 77 feat Subsonica66

 

- Via! Via! -
La sua testa continuava a ripeterlo come fosse stato l’unico pensiero che era in grado di formulare.
Andare via, lasciarsi tutto alle spalle, ricominciare da capo. Non c’era altro modo tra loro, non esistevano soluzioni. Non riusciva a far valere le sue ragioni, non riusciva a farsi capire quasi parlassero due lingue diverse. Mancava così poco per poter fuggire davvero; Shimizu-ku era il sogno alla fine del tunnel.
Aveva sbagliato a dirglielo, Yuzo lo sapeva, ma gli era sfuggito e ora era consapevole di come quelle due ultime settimane sarebbero state un Inferno.
Eppure non voleva pensarci mentre correva come non ci fosse stato un domani ad attenderlo, fendendo l’aria calda del pomeriggio.
Le gambe si muovevano da sole e con agilità, abituate da ore e ore di allenamenti. Lo condussero attraverso Nankatsu come fossero dotate di vita propria e non rispondessero più ai comandi del cervello. Anche quest’ultimo era stato ridotto in frattaglie, un meccanismo rotto, inceppato su di un unico pensiero: via da qui.
Le gambe lo portarono presso il fiume. Si lanciò lungo il declivio senza rallentare e, complici i lacci sciolti, il viscido dell’erba e la stanchezza, scivolò. Ruzzolò sul manto morbido, che attutì la caduta, e si fermò alla fine della pendenza.
Il viso premuto nell’erba respirava affannosamente l’odore della terra e del fiume. Gli occhi vedevano attraverso i fili sottili e folti la sagoma sfuggevole dell’acqua. Le orecchie udivano il mormorio della corrente e il canto delle cicale. Lì attorno si muoveva tutto a rallentatore.
Suo padre non l’avrebbe mai capito. Mai.
A suo padre non importava niente della persona che era, della sua individualità, e non l’avrebbe mai accettato.
Suo padre non aveva fiducia nelle sue capacità.
Le lacrime tornarono alla carica, aprendosi un varco, e stavolta non le trattenne.
«Non ce la faccio… non ce la faccio più…»

 

“How can I try to explain? /
Come posso provare a spiegare?
When I do he turns away again /
Quando lo faccio, si gira di nuovo
and it's always been the same /
ed è sempre stata la stessa,
same old story /
stessa vecchia storia.
From the moment I could talk /
Dal momento in cui avrei potuto parlare,
I was ordered to listen /
mi fu ordinato di ascoltare.
Now there's a way and I know /
Ora c’è un modo e so
that I have to go away /
che devo andare via.
I know I have to go /
Lo so, devo andare.

Cat Stevens Father and Son

*

Non era venuto.
Sulle prime, Mamoru aveva pensato si trattasse di un semplice ritardo. Un po’ strano da parte sua, visto che era sempre puntualissimo, ma non impossibile. Poi i minuti erano fuggiti via, trasformandosi in ore e del portiere nessuna traccia.
Non era normale che Yuzo si dimenticasse un appuntamento, soprattutto se si trattava di allenarsi, e poi non aveva nemmeno avvisato.
No, non era normale.
Mamoru continuava a pensarci mentre opponeva una blanda marcatura ad Hajime, il quale riuscì a smarcarsi con notevole facilità per puntare alla porta. Tiro. Goal.
Lui sospirò, passandosi una mano tra i capelli legati per sistemare l’elastico.
«Ehi, si può sapere che hai? Non ci sei con la testa.» Teppei gli si era avvicinato poggiandogli una mano sulla spalla; i ricci erano tirati indietro da una fascetta bianca.
Mamoru scosse il capo, minimizzando. «No, niente. Ero solo un po’ sovrappensiero. Tutto qua.» Ma non poteva di certo sperare di farla a una persona che lo conosceva da quando aveva imparato a leggere e scrivere.
«E’ per Yuzo, vero?» anche Teppei sembrava un po’ preoccupato. Fece vagare lo sguardo agli altri che avevano ripreso a correre per il campo. «E’ strano che abbia saltato l’allenamento. Non ti ha detto niente?»
«No, anzi, adesso provo a chiamarlo. Magari ha avuto un impegno all’ultimo momento, di sicuro.» Il terzino sforzò un sorriso che non riuscì a ingannare a dovere Kisugi, ma quest’ultimo si limitò ad annuire, dandogli una pacca leggera sulla spalla, per poi tornare a giocare assieme agli altri.
Mamoru fece un cenno a Shingo, lasciandogli intendere di coprire anche la sua posizione. Rapidamente raggiunse il borsone e, da una tasca laterale, cavò il telefono. Per un attimo, aveva sperato di trovarci un qualche messaggio o chiamata persa da parte del portiere, ma il display gli apparve vuoto. Sospirò.
Non era normale.
Svelto compose il numero di Yuzo, sedendosi sulla panchina a bordo campo. All’altro capo squillava e questo riuscì a rassicurarlo appena un po’.
Mamoru abbassò il viso, fissando l’erba ai propri piedi; con un gesto fluido sciolse i capelli che gli caddero davanti agli occhi, creando una cortina invalicabile.
Finalmente qualcuno rispose.
«Pronto…»
Lui assunse subito una posizione più composta e dritta, lo sguardo di nuovo fisso in avanti. «Ehi! Ma si può sapere dove sei finito? Avevi detto che ci saremmo visti al campo per la partita.»
Il silenzio più lungo del solito l’allarmò, ma fu il tono a fargli decretare con certezza che fosse successo qualcosa. Qualcosa di grave.
«Ah… l’allenamento… sì…» Yuzo aveva una voce strana, incerta, un po’ nasale. «…scusa, io… ho avuto un impegno imprevisto e…»
«Va tutto bene?»
Un’altra pausa.
«Ma certo… certo… tutto bene-»
«Balle.»
All’altro capo, il terzino avvertì il respiro spezzarsi e poi di nuovo silenzio, stavolta ancora più lungo.
«Ma no, niente di che… una piccola discussione… è tutto ok…»
Mamoru si irrigidì, tornando ad abbassare il viso per nascondere le sue espressioni a chiunque avesse potuto vederlo. «Hai litigato con tuo padre?» disse con decisione e quando l’altro non negò ebbe l’impulso irrefrenabile di mollare tutto per raggiungerlo ovunque si fosse trovato.
«Non preoccuparti, lo sai che… che non sappiamo proprio come prenderci… davvero, è tutto… tutto a posto… si risolverà…» gli sentì fare uno sforzo sovrumano per proferire quelle ultime parole «…si risolverà…»
E Mamoru capì che no, non era come le altre volte. Yuzo era divenuto un vaso pieno fino all’orlo e stava cominciando a tracimare. Improvvisamente comprese anche la differenza nel tono di voce.
«Stai piangendo…»
La risata del portiere gli risuonò così finta da farlo rabbrividire.
«Ma no! No, che dici?»
«Senti, dimmi dove sei. Vengo lì.»
«No. Non ce n’è bisogno, davvero… resta con gli altri… me la caverò…»
«Io non voglio che tu te la cavi! Io voglio che tu stia bene!» Si era lasciato prendere un po’ troppo la mano dal nervosismo e se ne rese conto solo dopo averlo aggredito. Fugacemente sollevò lo sguardo per scrutare tra la cortina di capelli, sperando che nessuno l’avesse sentito. Per fortuna, i suoi compagni erano troppo presi dalla partita. Tornò a puntare gli occhi al suolo massaggiandosi la fronte con la mano. «Scusa, non volevo. Dài, dimmi dove-»
«Mamoru…» la voce suonò spezzata e stavolta il portiere non fece nulla per nasconderglielo. «Mamoru, per favore… ho bisogno di restare da solo per un po’. Solo per un po’… ti prego…»
Lui inspirò a fondo, la mano scivolò lungo il viso.
«C’è qualcosa ch’io possa fare?»
«L’hai chiesto, mi basta…»
Mamoru sospirò, con una certa rassegnazione. «Chiamami più tardi, ok?»
«Sì…» Yuzo continuava a piangere. «…non è niente, tranquillo…» Ma nessuno dei due era più in grado di credere a quella bugia.
Il terzino non ebbe modo di replicare che la linea era già stata interrotta. Con una fitta allo stomaco, si ritrovò a fissare il display quasi avesse potuto vedere il suo amico di sempre comparire all’improvviso tra i cristalli liquidi, ma Yuzo era immerso nell’erba lungo la sponda del fiume a sentire lo scorrere dell’acqua, senza vederla: la testa nascosta nelle braccia e tra le ginocchia.

 

“Now don’t drown in your tears babe /
Ora non affogare nelle tue lacrime, tesoro
Push your head towards the air /
Spingi la tua testa verso l’aria
Now don’t drown in your tears babe /
Ora non affogare nelle tue lacrime, tesoro
I will always be there /
Ci sarò sempre.

 

«Quindi è di questo che si tratta.»
Teppei lo sospirò mentre, assieme a Mamoru e Hajime, stava camminando lentamente lungo la via di casa. Il nuovo acquisto dei Marinos aveva raccontato loro della telefonata con Yuzo; un modo come un altro per cercare, senza chiederlo esplicitamente, un consiglio.
Hajime sbuffò, calciando un sasso. «Che imbecille! Suo padre è un vero idiota! Ma non si rende conto di quello che sta rischiando?! Se continua così, presto o tardi Yuzo non vorrà più avere niente a che fare con lui!» Scosse il capo, mordendosi il labbro con stizza. «Certe volte i genitori sono talmente ciechi da non saper vedere al di là del proprio naso. Stupidi.»
I capelli di Mamoru erano nuovamente legati in una coda di cavallo e lui seguitava a guardare la strada senza realmente vederla. Tra i tetti delle case, il sole esplodeva in un mare di fuoco che si infrangeva contro scogliere di nubi grigie. Erano arrivate piano piano, ma inesorabili come l’avanzata di un esercito.
«Che hai intenzione di fare?» domandò Teppei, facendogli sollevare il capo per guardarlo. Il terzino si fermò al centro d’un crocevia; alle sue spalle, c’era la direzione per raggiungere la casa del portiere.
«A dire il vero non saprei… c’eravamo messi d’accordo per sentirci più tardi, ma io…», si girò a guardare lungo la strada silenziosa, «…vorrei passare per vedere come sta.»
«Vuoi che ti accompagniamo?» si offrì subito Kisugi, accanto a lui anche Hajime annuì.
«No, no, non ce n’è bisogno. Poi sapete come è fatto Yuzo, se vede che in tanti si preoccupano per lui, finge che vada tutto bene.»
La Coppia d’Argento si scambiò una rapida occhiata.
«D’accordo, allora noi torniamo a casa, però tu facci avere notizie, ok?»
Mamoru mollò un pugno leggero sulla spalla di Teppei, distendendo un sorriso rassicurante e complice. «Ma certo. Ovviamente senza dirglielo, se no chi se lo sente, dopo?»
I suoi compagni ridacchiarono, riprendendo a camminare verso le rispettive abitazioni e raccomandandosi ancora una volta di tenerli aggiornati. Un cenno con la mano fu il loro saluto definitivo prima di volgergli le spalle e allontanarsi nel riflesso arancio del cielo che colava su di loro simile a pittura da una tela.
Mamoru sospirò, eclissando il proprio sorriso e aggrottando le sopracciglia. I piedi tornarono a guidarlo come una barca alla deriva, conducendolo meccanicamente verso l’abitazione di Yuzo. Aveva cercato di mantenere un tono meno preoccupato di quanto fosse in realtà, ma ora che era nuovamente da solo, poteva far emergere i suoi veri sentimenti. Le espressioni sul suo viso divennero lo specchio di quello che stava provando lasciandogli le labbra tese, uno sguardo severo e l’aria di chi non voleva essere avvicinato da nessuno.
Sperò che Yuzo fosse già rientrato, perché non moriva dalla voglia di incontrare suo padre.
Del signor Baiko avrebbe potuto dire di tutto: che gli era antipatico, che era insopportabilmente cinico e distaccato, che era freddo come un blocco di ghiaccio, ma in definitiva di lui sapeva così poco che non era riuscito davvero a inquadrarlo bene. Sapeva solo che Yuzo teneva tutti gli amici lontano da lui, come se se ne vergognasse o si sentisse a disagio. Non che al signor Morisaki la cosa importasse chissà quanto; da che lo conosceva, non aveva mai chiesto nulla di loro, non si era mai interessato alle compagnie frequentate da suo figlio, anche solo a titolo informativo. Yuzo portava a casa buoni voti? Ok, andava bene, il resto era inesistente o, quantomeno, non importante. Nemmeno che Yuzo avesse giocato nel mondiale giovanile di calcio era importante per lui. Mamoru non l’aveva mai visto assistere a una loro partita, non aveva mai sentito Yuzo parlare dei commenti di suo padre, cosa che, invece, gli altri membri della squadra facevano sempre.
Baiko Morisaki era quasi associabile a una figura mitologica, che se non era rinchiusa nell’alto edificio della ‘Golden Gun’, allora restava rinchiusa nello studio di casa, a lavorare ugualmente per l’azienda.
Il Minotauro e il suo labirinto.
Per il giovane calciatore, era quasi Baiko Morisaki a essere inesistente. E, a dirla tutta, non ricordava nemmeno che faccia avesse.
«Mamoru?»
Il terzino dei Marinos sobbalzò nel sentirsi chiamare; troppo perso nei propri pensieri non si era nemmeno reso conto dei passi alle spalle e, quando si volse, non seppe che espressione fare.
«Signora Morisaki!»
La madre di Yuzo gli stava sorridendo cordiale, aveva delle buste ricolme di spesa e un’espressione serena che gli fece capire che era all’oscuro di quanto accaduto. Cazzo.
«Ciao, Mamoru, stai venendo a casa? Non sei con Yuzo?»
Cazzo due volte. No, non lo sapeva.
Lui cercò di mostrarsi tranquillo e sorridente e ignorò volutamente la domanda. «Ah! Salve! Lasci che l’aiuti!» s’offrì con cortesia e la donna ridacchiò, divertita.
«Oh, sei sempre tanto galante!» Gli cedette i due pesi che, per il giovane, non erano nulla di speciale e ripresero a camminare assieme verso la villetta. «Yuzo ti ha lasciato indietro?» domandò di nuovo e il terzino si rese conto di non poter far finta di nulla, però cercò ugualmente di sorridere.
«Beh, ecco… io…»
«Avevate allenamento, vero? Me l’ha detto Yuzo prima che uscissi a far compere.»
«Sì... sì, noi… noi avevamo…»
«Qualcosa non va?»
Di fronte a quello sguardo un po’ accigliato, Mamoru si ritrovò a capitolare, assumendo un’aria mesta, quasi colpevole.
«Yuzo non è venuto ad allenarsi.»
«Cosa? E per quale motivo?»
«Al telefono mi ha detto… di aver avuto una discussione col signor Morisaki…»
Haruko non rispose, ma Mamoru le vide trattenere un’esclamazione frustrata e girare il viso, le mani vennero intrecciate in grembo. Era visibilmente esausta di quella situazione che sembrava non riuscire a trovare il giusto equilibrio e fine, così il difensore tentò di non farla preoccupare oltre, sorridendo e alzando la testa con decisione.
«Ma… ma stia tranquilla, signora, sono sicuro che si sistemerà tutto-»
«L’avevo sempre creduto anche io, lo sai? Ero davvero convinta, all’inizio, che sarebbero riusciti a trovare un punto di incontro, sono pur sempre padre e figlio, doveva esserci una soluzione.» La signora Morisaki sollevò lo sguardo al fondo della strada, inquadrando la sagoma della propria abitazione e avvertendo i passi farsi improvvisamente più pesanti. Sembravano volessero impedirle di arrivare. «E invece oramai ho capito che l’unica soluzione è tenerli separati. Non sono in grado di poter andare d’accordo. Yuzo non è più un bambino e mio marito non accetta il fatto di non poterlo controllare come faceva un tempo.» Con un sorriso triste, che le accentuò una ruga al lato della bocca, Haruko rivolse lo sguardo al terzino. «Forse ti sembrerò una cattiva madre, ma spero che questo mese passi in fretta così Yuzo si trasferirà a Shimizu-ku. Una volta lontano da qui, potrà finalmente tornare a sorridere come faceva prima che suo padre si mettesse in testa di voler dettare legge nella sua vita.»
Entrambi si fermarono una volta arrivati davanti al cancelletto. Mamoru le sorrise caldamente e con sincerità, mentre il cielo s’era fatto improvvisamente cupo; le nubi avevano coperto i resti del tramonto.
«Non è affatto una cattiva madre, signora Morisaki. Anzi, è l’esatto contrario. E comunque non deve preoccuparsi, Yuzo non è da solo. Ci siamo io e gli altri ragazzi; avrà sempre noi dalla sua parte.»
Haruko appoggiò la mano sul suo braccio e in quel tocco, nell’espressione più rilassata, c’era profonda gratitudine.
«Sono davvero felice che Yuzo abbia incontrato un bravo ragazzo come te.»
Mamoru arrossì, cercando ugualmente di sorriderle, ma camuffando l’imbarazzo.
La donna sembrò tornare di buonumore. Armeggiò con le chiavi di casa e aprì il cancello. «Ma perché non ti fermi a cena da noi? Sono sicura che anche a mio figlio farebbe piacere.»
Il terzino non avrebbe mai voluto rifiutarle quella richiesta, soprattutto vista la situazione, però proprio in virtù della stessa, e dell’eventuale presenza del signor Morisaki, tentennò. «Non vorrei sembrarle scortese, ma… forse non è una buona idea» sospirò, mortificato. «Di solito, Yuzo tende a evitare di farci incontrare suo padre; teme che possa metterci in imbarazzo.»
Per fortuna o per dispiacere, Haruko parve comprendere i punti di vista di Mamoru e suo figlio, ma cercò ugualmente di trovare una soluzione. Insieme si avvicinarono ai pochi gradini che conducevano all’ingresso.
«Allora potreste uscire a mangiare fuori! A Yuzo farebbe bene prendere un po’ d’aria e magari sfogarsi un po’.»
Quell’ipotesi lo trovò concorde, tanto già sapeva dove portarlo: l’avrebbe trascinato a fare due tiri a pallone, ché aveva saltato l’allenamento, e poi sarebbero potuti andare al loro chiosco di okonomiyaki preferito.
«Sì! E’ un’ottima idea, vedrò di convincerlo anche se dovrò usare le maniere forti.»
La donna rise divertita, cercando la chiave della porta principale tra le altre che tintinnavano appese al mazzo. Dentro di sé era fermamente convinta che, fintanto che Yuzo avesse avuto amici come Mamoru, le cose si sarebbero potute sistemare, senza precipitare del tutto.
Ma lo sparo improvviso la gelò all’istante, facendole perdere la presa sulle chiavi. Caddero al suolo con un sonoro ‘tlin’.
Entrambi volsero lo sguardo alla porta chiusa, con gli occhi spalancati.
«Che… che cos’era?»
Mamoru lo domandò ingenuamente, sul viso un’espressione incredula e confusa. Si volse a cercare risposte negli occhi della signora Haruko che erano enormi, terrorizzati e fissavano l’uscio come fosse l’ingresso di un antro stregato. Svelta si chinò per raccogliere le chiavi e cercare quella della porta, ma l’apprensione e la paura rendevano i suoi movimenti frenetici e ingestibili. Mamoru mollò di schianto le buste e il borsone.
Come impazzito cominciò a suonare il campanello, ma nessuno comparve in quei lunghissimi secondi.
«Yuzo! Signor Morisaki! Aprite!»
Driiiiin. DrinDrinDrinDrinDrinDrin. Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin.
Quello stridente tinnire gli penetrò nel cervello, ma non smise fino a che Haruko non riuscì ad aprire la porta e insieme si precipitarono all’interno dell’abitazione.
Di fuori un tuono cupo anticipò le prime gocce di pioggia.

 

“When you fall and you can’t find your way /
Quando cadi e non riesci a trovare la tua strada,
push your hand up to the sky /
solleva la tua mano verso il cielo.
I will run just to, to be by your side /
Correrò subito per essere al tuo fianco,
don’t you ever bat an eye /
non temere.

EditorsPush your head towards the air


 

Le Canzoni del capitolo:

- Stop crying your heart out (Oasis): mi sono sempre piaciuti gli Oasis, ma preferivo quelli degli inizi. Infatti il mio album preferito è “What’s the story? (Morning Glory)”. Ciò non toglie che abbiano fatto delle altre belle canzoni, tra cui questa. Lo scelta perché sottolinea la scelta di Yuzo di andare avanti, di alzare la testa definitivamente e prendere la propria strada, non importa quello che è accaduto o quello che potrà accadere (il rancore di suo padre è paragonato al verso ‘perché tutte le stesse si stanno spegnendo’).

- 66 (Linea 77 feat Subsonica): questa canzone è stata cambiata in corsa, proprio all’ultimo secondo. Al suo posto, c’era “Come as you are” dei Nirvana, poi mi sono ricordata di questa dei Linea 77 e, beh, ci stava a pennello. Canzone arrabbiata per un momento arrabbiato, le parole sembravano descrivere proprio Yuzo e suo padre, nella stanza in penombra – e cioè lo studio –, nella voglia di libertà individuale, nella voglia di fuggire, e nelle distanze che ormai sono diventate abissi (La canzone che cantano nel video è però la versione ridotta dell’originale! X3 E comunque Samuel dei Subsonica era davvero un gran bel tipo, peccato stia invecchiando male! XDDD )
Però vi consiglio tantissimo di vedere anche il video di “Come as you are” (*clicca qui* ) perché, oltre alle parole, ha anche un elemento importante. :D Provate a indovinarlo!

- Father and Son (Cat Stevens): oh, beh. In una storia che parla di rapporti burrascosi tra genitori e figli, questa canzone non poteva mancare. Mi è sempre piaciuta, e la preferisco nella sua versione originale che in quella cantata da Ronan Keating e Yusuf (anche se il video è bellissimo *_*, con tutte quelle fotografie! ** ve lo devo linkare, vale la pena: *clicca qui* ). Ovviamente, i versi citati si spiegano da soli. XD

- Push you head towards the air (Editors): premetto che non sono una grandissima fan degli Editors, me ne piacciono solo alcune canzoni, tra cui questa. Però devo ammettere che il cantante ha una voce che non ti aspetti, data la sua fisionomia. E’ molto profonda e particolare. A vedere il tipo non l’avrei mai creduto/pensato, giuro. XD
Mi sembrava adatta per parlare della presenza di Mamoru, del suo supporto continuo, della sua vicinanza e del legame che ha con Yuzo di affetto e protezione.

:D anche per questo capitolo è tutto.
Grazie a tutti coloro che hanno deciso di seguirmi in questa storia.

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Capitolo 3
*** Part III: The Firefly's long sleep ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part III: The Firefly’s long sleep -

 

“Avevi tutto quanto,
anche il mio sogno migliore.
Hai preso ciò che serve
senza ritegno né onore.”

“The colours are flowing from the wall to the floor /
I colori stanno cadendo dal muro al pavimento
and only an outline still remains /

e solo una linea di contorno resta ancora


Gli occhi gli facevano male e quel dolore s’era aggrappato alle tempie, azzannandogli buona parte della testa.
Troppe lacrime. Il pianto non portava mai nulla di buono se non emicrania e senso di colpa per non essere riuscito a controllare la propria emotività. Si sentiva così poco uomo, fuori, da non avere nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio.
Inoltre aveva fatto preoccupare Mamoru, che ora sapeva quanto corti erano divenuti i ferri tra lui e suo padre; quasi inesistenti.
Yuzo sospirò continuando a fissare la strada che scivolava pacifica sotto i suoi passi. Aveva la testa che martellava come un tamburo e il solo desiderio persistente era quello di dormire. Non aveva nemmeno fame, non avrebbe cenato. Sarebbe entrato in casa, avrebbe salito le scale per raggiungere la propria camera, si sarebbe lasciato cadere sul letto e poi avrebbe chiuso gli occhi.
Dormire.
Cancellare il reale per rifugiarsi in un angolino silenzioso della propria mente.
Morire.
Era un po’ questo, in fin dei conti, che avveniva. Anche se il cervello continuava a lavorare, il cuore a battere, il sangue a pulsare, non ne aveva coscienza. Quest’ultima moriva per un breve intervallo di tempo, dimentica degli affanni.
Morire, dormire… forse sognare(1), desiderando di tornare il più tardi possibile o di non tornare affatto.
Yuzo si fermò all’improvviso senza nemmeno sapere dove fosse, quanta strada avesse percorso e quanta ancora avrebbe dovuto percorrere. Continuava a guardare a terra cercando rifugio nell’unica consolazione rimastagli: Shimizu-ku.
Due settimane.
Quindici giorni.
Cos’erano quindici giorni ancora di attesa dopo gli anni spesi a non essere praticamente mai considerato? A essere invisibile?
Non erano niente, sarebbero passati come acqua. Una volta lasciata quella casa, poi, non sarebbe mai potuto tornare indietro, ormai era sicuro. E non ne aveva più paura. Ne aveva avuta fino a quel pomeriggio, fino a che la strada che aveva percorso con suo padre non si era biforcata del tutto e loro avevano preso svincoli diversi.
Forse, però, c’era qualcosa che ancora temeva: le ultime parole che Baiko gli avrebbe rivolto il giorno in cui se ne sarebbe andato. Invettive, forse; magari minacce o, più sicuramente, avrebbe taciuto abbandonandolo ancora nell’indifferenza.
Yuzo scosse il capo cercando di scacciare il silenzio dalle sue orecchie e quando si volse per vedere dove fosse, si trovò davanti al cancello di casa. Per un attimo il cuore ebbe un battito aritmico.
Aveva camminato così meccanicamente che nemmeno se n’era accorto.
Sorrise di sé stesso, doveva imparare a pensare di meno.
Con lentezza aprì l’ingresso, scivolando nel cortile interno dell’abitazione e richiudendo il cancello alle spalle, facendo il più piano possibile.
Quasi non avesse voluto farsi sentire.
Altrettanto adagio entrò in casa. L’ingresso non era illuminato e non c’era odore di cibo; sua madre non era ancora rientrata dal giro di spese. L’occhio gli cadde sulla porta dello studio di suo padre: era aperta. L’uomo l’avrebbe visto passare nel momento in cui avesse tentato di andare a rifugiarsi nella propria stanza, ma non poteva di certo volare.
Con un sospiro pesante, Yuzo lasciò le scarpe all’ingresso, infilandosi le ciabatte, e s’avviò. Non avrebbe potuto evitare suo padre per quindici giorni, tanto valeva iniziare a farsi vedere fin da subito.
Passò davanti la porta, ma non si fermò né si volse. Forse Baiko non l’avrebbe notato, forse non l’avrebbe fermato.
Yuzo lo pregò, lo pregò con tutto sé stesso.
Non venne ascoltato.
«Finalmente ti sei deciso a rientrare.»
La voce era tagliente come vetro.
Yuzo non si volse, ma non avanzò.
«Cos’è, adesso t’hanno mangiato la lingua? Non mi sembrava fossi così silenzioso, prima». Ironia sottile, gli stilettò la schiena. Sentì la nausea che cominciava a salire. «Bene, allora possiamo riprendere da dove abbiamo interrotto.»
- Oh Dio, no. Non di nuovo. Per favore. -
Yuzo lo pensò con una disperazione tale da chiudere gli occhi e deformare le labbra in una smorfia sofferente. Ingoiò a vuoto, ricacciando la frustrazione.
«Non ho niente da dirti.»
«Non fare lo spaccone e vieni qui.»
«T’è così difficile lasciarmi in pace?!»
«Tsk. Ogni volta mi domando come diavolo hai fatto a divenire tanto maleducato. Sembra quasi che io e tua madre non ti abbiamo insegnato nulla. Dovevo aspettarmelo, chissà che razza di gente frequenti.»
Yuzo si volse di scatto, rabbioso, varcando la soglia dello studio con foga.
«Non ti permetto di parlare così dei miei amici! Non li conosci nemmeno, come puoi giudicarli?!»
Seduto in poltrona, Baiko tirò un sorriso trionfante; sapeva sempre quali tasti toccare per avere le reazioni desiderate. Appoggiò i gomiti sulla scrivania, unendo le punte delle dita davanti al viso.
«Di sicuro questi tuoi amici non disobbediscono ai propri genitori.»
«Certo, perché i loro genitori non sono come te, perché i loro genitori li ascoltano, perché i loro genitori sostengono i loro sogni!»
«Ah!» l’uomo emise quell’esclamazione quasi con disprezzo e condiscendenza. Lentamente si alzò, girando attorno al massiccio tavolo in ebano brillante. Sistemando la giacca, si fermò davanti alla scrivania, appoggiandosi al bordo. «I sogni passano in secondo piano quando si hanno delle responsabilità. E tu ne hai verso questa famiglia.»
Yuzo era avanzato all’interno dell’ambiente, sempre in penombra; solo le lampade e sottili fili di sole illuminavano lo studio, mentre le tende restavano perennemente tirate. A suo padre infastidiva il riflesso della luce sullo schermo del computer.
«Io non le ho mai chieste!» esclamò il ragazzo, aveva il camino alle spalle e le armi da collezione di Baiko erano dappertutto: su ogni superficie, attaccate al muro. Erano scariche, ma perfettamente funzionanti, eppure suo padre ne aveva sempre una pronta per l’uso, quella che considerava la sua preferita. Lo mettevano a disagio, di solito, ma in quel momento, in cui sentiva il calore ardente del rancore risalire le vene, tutto il resto passò in secondo piano.
«Non sono cose che si chiedono, Yuzo. Si tratta di onore e rispetto verso il nostro nome. Lo sai da quanti secoli esiste la ‘Golden Gun’
«Non me ne frega niente! Io non prenderò mai il tuo posto, te l’ho già detto! Mai! Detesto le armi, come puoi chiedermi di gestirne un’intera fabbrica?! Non saprei nemmeno da che parte cominciare!»
«E’ ovvio che ti insegnerei io tutto quello che c’è da sapere, come tuo nonno ha fatto con me.»
Suo padre la faceva facile. L’aveva sempre fatta facile perché secondo lui la strada poteva essere solo una e dritta, ma per Yuzo la strada dritta era un’altra mentre quella che Baiko aveva deciso era così tortuosa e contorta che il sol vederla gli faceva venire la nausea.
«No! Non puoi costringermi! E’ il mio futuro, il mio! E io ho scelto e la mia scelta è Shimizu-ku! Si tratta solo di pochi giorni e dopo potrai anche dimenticarti che esisto, tanto non ti sarà difficile, vero papà?»
Baiko colpì la superficie del tavolo per farlo tacere e spezzare quel tono arrogante che lo mandava in bestia. Era sempre stato abituato ad avere tutto sotto controllo, compreso suo figlio, e sapeva che sarebbe riuscito a piegare la sua assurda volontà di uscire fuori da quelli che erano, da generazioni, i binari stabiliti della famiglia Morisaki. Un giorno, anche il figlio di suo figlio si sarebbe occupato dell’azienda.
«Non azzardarti a parlarmi in questo modo! Credi davvero che io rimanga a guardare mentre butti via la tua vita?! Puoi scordartelo! Così come ti scorderai Shimizu-ku: ho già provveduto a parlare con il presidente di quella dannata squadra per la rescissione del contratto. E gli ho anche fatto capire che se si azzarderà a volerti trattenere a tutti i costi, gli sguinzaglierò contro i miei avvocati: sono della famiglia Wakabayashi, dovresti conoscerla bene, no? I più spietati del Giappone, non perdono mai una causa. Domani ci incontreremo alla ‘Golden Gun’ e ci sarai anche tu perché devi imparare a prenderti la responsabilità delle tue azioni sconsiderate, mi sono spiegato bene?!»
Yuzo tentò di non darlo troppo a vedere, ma dentro sentì un brivido scuoterlo fin nelle ossa; avevano vibrato, come se una mano invisibile le avesse afferrate e smosse con forza.
Non era possibile. Lo stava solo minacciando per cercare di intimorirlo e farlo cedere. Non era possibile. Non sarebbe mai arrivato a fare una cosa simile. Non era possibile.
«Stai mentendo! Non potresti mai-»
«Davvero? Non potrei? È questa la differenza tra un ragazzino e un uomo, Yuzo, e vedi di impararla bene: i ragazzini parlano, gli uomini agiscono.» Con un gesto deciso, Baiko sollevò la cornetta del telefono che aveva sulla scrivania e gliela porse. «Chiama. Verifica con le tue orecchie. Vedi se non ti ho detto la verità. Io non mento. Mai.» Fissò l’espressione terrea di suo figlio con una serietà che era gelida come il ferro. Le rughe sul viso, ai lati della bocca, si accentuarono calcandone la severità mentre tra loro l’aria era divenuta di piombo; silenziosa, immota e pesante. In quella frazione di tempo in cui nessuno dei due fiatò, Baiko gli dimostrò come avesse sempre avuto la vittoria nelle sue mani, sempre, fin dall’inizio, e tornò a posare lentamente la cornetta sul supporto. «Hai ancora molto da imparare.»
Yuzo aveva le iridi fisse su dove c’era stato il ricevitore. Gli occhi erano sbarrati, enormi, così increduli da essere privi di reazione. Nessun guizzo, nessun movimento. Le labbra si aprirono adagio e non era più padrone nemmeno della propria voce; sembrava un automa, il corpo agiva da solo, lentamente, con fatica.
«Non puoi… non puoi… tutto il lavoro, tutta la fatica, tutto il sudore… le vittorie, le sconfitte… come hai potuto farmi questo? Come?... a me… che sono tuo figlio… Ti odio… ti odio con tutto me stesso… che razza di padre sei?»
«Che razza di padre sono?!» ruggì Baiko, furente, «Sono quello che ti ha dato tutto ciò che hai!»
Yuzo scosse il capo, arretrando fino a urtare il camino; tremava e lo guardava come se non l’avesse mai conosciuto davvero.
«Tutto quello che avevo l’hai appena distrutto… non ho più niente… io… io non sono più niente…» si volse, appoggiando entrambe le mani alla mensola della cappa. Gli occhi non riuscivano nemmeno a piangere. Dentro si sentiva come se l’avessero sventrato, il corpo aperto da un coltello affilato e gli organi strappati a mani nude. Il passato e il futuro cancellati con una sola telefonata, restava solo un presente, che non era il suo, grigio come il piombo; era come non esistere, la forza di tenersi anche solo in piedi risucchiata via assieme alle viscere.
Cosa gli restava, adesso?
Davanti ai suoi occhi c’erano esclusivamente armi, la collezione del padre esposta come un trofeo, gioielli preziosi, opere d’arte. Tutto quello avrebbe riempito il resto della sua vita. Lo toccò con mano, facendo scivolare le dita sul freddo di una canna lunga e lucida.
La sua individualità era appena stata uccisa, cancellata, come non fosse mai esistita; il sistema resettato. Lui sarebbe divenuto la fotocopia di suo padre, delle sue aspirazioni non sarebbe rimasta nemmeno una briciola.
Il lungo sonno iniziava da lì perché la mente aveva chiuso gli occhi.
Suo padre infierì, dietro di lui, mentre si voltava di nuovo.
«Piantala di farne un dramma, si tratta solo di uno sport! Che figlio smidollato mi ritrovo? Credi non mi costerà nulla questo scherzetto che mi hai giocato? Tsk! Smettila di comportarti come un ragazzino e sii uomo. E’ finito il tempo dei giochi, tu andrai a Economia e ti preparerai a occuparti dell’azienda di famiglia. Questa è la mia decisione.»
Dopo quelle parole, gli occhi di Baiko si focalizzarono con evidente sorpresa sulla pistola, quella preferita, la Smith&Wesson Modello 15 .38 Special(2), una semiautomatica di importazione. Yuzo la stava impugnando mollemente con la sinistra.
Baiko Morisaki inarcò un sopracciglio con sfida, il sorriso ironico che si tendeva al lato della bocca e gli accentuava la ruga d’espressione. «Oh, vuoi già prenderci confidenza? Vedi di fare attenzione: è carica. O forse vuoi spararmi?»
Era divertito, quasi fosse una burla, ma Yuzo non scherzava affatto.
Il portiere rivide gli allenamenti intensivi con Tsubasa, sulla spiaggia; erano solo le elementari. Rivide la fatica per guadagnarsi il rispetto e la fiducia dei suoi compagni. Rivide il lungo e tortuoso percorso per arrivare alle prime convocazioni in Nazionale. Rivide tutti i suoi sacrifici, uno per uno, le soddisfazioni e le delusioni.
La sua espressione si fece imperscrutabile.
«Pensi che potrei farlo? Non hai mai capito niente di me. Per chi mi hai preso?» sibilò, continuando a guardare l’arma, e quando si decise a sollevare gli occhi per puntarli in quelli dell’uomo, Baiko vi lesse qualcosa che non riuscì a comprendere. «Sei mio padre, il rimorso mi ucciderebbe. Ma tu… tu sei forte, vero? E non provi rimorso…» annuì, scrutandolo dalla testa ai piedi, come se ne stesse soppesando la solidità. «Tu sei forte… vediamo se sopravvivrai.»
La sinistra impugnò il calcio della Smith&Wesson, il braccio si alzò deciso, la canna alla tempia aveva un contatto freddo che gli provocò un brivido leggerissimo. Poi sparò.
Assordato, Baiko sussultò e rimase immobile senza dire una parola o fare il minimo gesto. Era avvenuto tutto così rapidamente che era stato come se il colpo lo avessero sparato a lui, uno solo, a bruciapelo. Il sangue era scomparso dalle vene, mentre quello di suo figlio era così rosso e scuro da lasciarlo senza fiato; gli occhi sbarrati, il sorriso dileguato dalle labbra semiaperte e mute.
Lo vide afflosciarsi su sé stesso e toccare il suolo con un tonfo, sembrava un fantoccio, ma Baiko non riuscì a muoversi e dentro il cervello gli parve che qualcosa si fosse fermato, che i neuroni si fossero bloccati all’improvviso perché non capiva quello che stava vedendo, non riusciva a tramutarlo in pensiero. Paralizzato, come un computer andato in sovraccarico.
Il campanello di casa squillò impazzito, ma lui era gelido come un cadavere. Chiavi girarono con fretta nella toppa di ingresso, passi rapidi e qualcuno comparve sulla porta dello studio. Forse Haruko. Non seppe dirlo subito, non si volse, ma riconobbe il grido strozzato in gola, riconobbe la voce che chiamava il nome di suo figlio e poi la vide entrare nel campo visivo per gettarsi sul corpo al suolo, toccarlo, scuoterlo e cominciare a urlare. Urlare, urlare, urlare.
Lui non disse una parola.
Non un gesto, non un fiato. Nemmeno quando quel ragazzo, che ricordava d’aver visto di sfuggita assieme a Yuzo, entrò a sua volta, raggiungendo sua moglie.
«…che hai fatto?... Oddio, che hai fatto?!... che hai fatto… che hai fatto…»
La sua voce aveva l’inflessione di chi era sull’orlo delle lacrime, ma non ne vedeva il viso, tutto ciò che scorgeva era sangue. La pozza s’ingrandiva adagio sul pavimento e Mamoru – era poi questo il suo nome? – vi si era inginocchiato dentro per toccare il volto di Yuzo.
«Sento ancora il battito! Signor Morisaki, ha chiamato l’ambulanza?»
Non rispose.
«Signor Morisaki?!»
La mente non formulava pensieri e la gola non formulava suoni. Tutto si era spento come le luci d’uno stadio alla fine d’una partita. E non c’era similitudine peggiore per lui.
Non ebbe reazioni nemmeno quando il ragazzo s’alzò, il sangue che veniva sparso ovunque: dagli abiti, dalle suole delle scarpe, dalle mani. Non lo vide, ma s’avventò sul telefono che aveva sulla scrivania.
«119? Mandate un’ambulanza, c’è… c’è un ferito d’arma da fuoco… alla testa… fate presto… per favore…» piangeva e tra le lacrime diede loro l’indirizzo.
Lui continuava a non muoversi, Haruko continuava a gridare e davanti ai suoi occhi le immagini ballavano un triste girotondo.

«Come hai potuto farmi questo?… ti odio… ti odio con tutto me stesso… che razza di padre sei?»

Le ultime parole che Yuzo gli aveva rivolto tornarono a sussurrarsi al suo orecchio e sentì qualcosa, in fondo al petto, risalire i battiti che ancora lo scandivano in modo da amplificarlo, ed era dolore. Si diffondeva lungo le vene e arterie gelate come il sangue che aveva perduto, fino ad arrivare alla bocca. Del sangue aveva anche lo stesso sapore e lo stesso colore. Il dolore era rosso, rosso scuro.
Rosse divennero le immagini, rossi divennero anche i suoni per quanto non potessero avere colore. Rosse erano le sirene dell’ambulanza, rossi erano i paramedici che si facevano spazio, allontanando sua moglie.
«E’ mio figlio!» continuava a ripetere.
«Si calmi, signora, ci pensiamo noi.»
«Il battito è debole.»
«Dobbiamo fermare l’emorragia!»
«Stabilizziamolo, deve essere operato d’urgenza!»
«Veloci! Veloci!»
Rossi erano i poliziotti fermi sulla porta che guardavano la scena, tesi e incerti.
Rosso era il tempo mandato avanti velocemente: i paramedici che portavano via Yuzo, Haruko che li seguiva, Mamoru che andava con lei.
Rossa era la stanza vuota e il vociare incuriosito che sentiva provenire dall’esterno.
«Signor Morisaki, sono l’agente Takemiya…»
Rossa era la voce del poliziotto che lo avvicinò per interrogarlo e capire cosa fosse accaduto.
Rossa era la voce del suo collega, quando affermò: «E’ sotto shock.»
Rossa era ogni cosa, ogni colore, ogni odore, ogni rumore, ogni sensazione che lo permeava da capo a piedi. Rosso era il dolore che lo stilettava dal ventre al cuore, tra le vertebre della schiena, in ogni singolo osso, nei nervi, nei muscoli. In ogni lembo di pelle.
Rossa, la chiazza di sangue che era rimasta lì, spalmata dalle suole che l’avevano pestata ed era tutto ciò che i suoi occhi avevano continuato a fissare fino a quel momento.
Si mosse.
Fece un altro passo e un altro ancora, fino a raggiungerla. La guardò dall’alto e in quel tripudio vermiglio solo una cosa era nera, priva di qualsiasi tonalità, fredda. La Smith&Wesson giaceva a terra. La fissò a lungo rendendosi conto di una realtà terribile.

«Smettila di comportarti come un ragazzino e sii uomo! E’ finito il tempo dei giochi, tu andrai a Economia e ti preparerai a occuparti dell’azienda di famiglia!»

La sua pistola, la sua azienda.
Una mano si poggiò piano sulla spalla, ma lui non si mosse.
«Signor Morisaki, mi ascolti per favore: può dirci cosa è successo?»
Baiko non esitò.
«Ho ucciso mio figlio.»

 

“Cause the roof's got a hole in it /
Perché il pavimento ha un buco
and everything's been ruined by the rain /
e ogni cosa è stata rovinata dalla pioggia

 

All’ospedale lo avevano accompagnato l’agente Takemiya e il suo collega, dopo che aveva raccontato loro per filo e per segno quello che era avvenuto. Lui non sarebbe stato in grado nemmeno di arrivarci a piedi, in quelle condizioni, e i poliziotti se n’erano fatti carico.
Quando varcò la soglia della struttura, il temporale era ancora nel pieno del suo vigore e non sembrava disposto a calmarsi. Lui aveva l’aria sfatta, la cravatta allentata, i primi bottoni della camicia aperti, la giacca appesa alle dita e trascinata lungo il pavimento.
Era irriconoscibile, un fantasma che camminava.
Per Baiko, l’intero mondo che lo circondava era come rivestito d’ovatta: i suoni arrivavano attutiti e i pensieri non riuscivano a farsi spazio nella testa, ma restavano chiusi in bolle senza potersi connettere e formulare una sequenza lineare, opinioni, sensazioni e sentimenti. Astronauta nello spazio, il suo cervello orbitava nella scatola cranica e lui si trascinava senza avere la capacità di riuscire a esternare nulla se non un’espressione vacua. A prima vista, sembrava smarrito, a disagio nei suoi stessi panni – quasi come non fossero i suoi –; faceva vagare lo sguardo nell’androne principale dell’ospedale aspettando di ricevere direttive che gli dicessero dove andare e cosa fare. Era come non essere più sé stessi ma nel corpo di qualcun altro e non riuscire a muoverlo bene, non sapere come comportarsi, cosa dire o aspettarsi.
Un’infermiera sembrò accorgersi delle sue perplessità, di quel sezionare lentamente ogni angolo della stanza, sedie, scale, corridoi, soffitto e non riuscire a porre la giusta domanda.
«Posso aiutarla?»
Baiko la guardò pur non vedendola. Lei gli sorrise con gentilezza, inclinando leggermente il capo; si intenerì: un così bell’uomo che sembrava un bambino abbandonato.
«Mio figlio» riuscì a sillabare adagio e ci volle qualche altro momento per formulare il resto della frase, «lo hanno portato qui. Dov’è?»
L’infermiera non seppe che rispondere a una richiesta tanto generica e cercò, con dolcezza, di avere qualche informazione in più. «Venga con me» disse, avvicinandosi al banco dell’accettazione. Baiko la seguì passivamente; sulle spalle, la camicia era puntellata di gocce di pioggia. L’infermiera prese a sfogliare alcune cartelle con i nomi dei pazienti ricoverati nella struttura, compresi gli ultimi arrivi dalle ambulanze. «Può dirmi come si chiama?» chiese, seguitando a mostrargli un sorriso cordiale per cercare di infondergli tranquillità, anche se sul suo volto non leggeva ansia o paura; semplicemente, non era decifrabile.
«Yuzo Morisaki.»
«Vediamo…» abbassò lo sguardo, facendo scorrere il dito sui vari elenchi e quando lo trovò, l’espressione mutò radicalmente. Sollevò il viso per scrutare negli occhi dell’uomo che le stava davanti e non gli vide nessuna reazione per il suo improvviso cambio d’umore. «E’ in sala operatoria, al momento. Vada al quarto piano, sulla sinistra, può aspettare là.»
«Grazie.» Baiko fece per allontanarsi senza aggiungere altro, quando la donna lo fermò, titubante.
«Vuole… vuole che l’accompagni?»
Sembrava che non fosse nemmeno lì. Sembrava non rendersi conto della gravità della situazione. Sembrava senz’anima.
Baiko la guardò per un istante dilatato e distorto in percezioni sballate, «No», e riprese a camminare infilandosi nell’ascensore.
Fuori, al quarto piano, sulla sinistra lo aspettava un corridoio. Era piccolo, in verità, ma a Baiko parve allungarsi all’infinito quando scorse la figura di Haruko seduta su di una sedia in plastica, con le mani strette in quelle dell’anziano padre e la testa sprofondata nel suo collo. Non riusciva a vedere il viso, ma solo capelli spettinati. E comunque non aveva bisogno di guardarla negli occhi per sapere che stava piangendo; poteva già sentirla: una sorta di cantilena sottile, esausta.
«Quanto tempo ci vorrà? Quanto tempo… Quando me lo ridaranno? Quando…»
Vide il profilo dell’uomo tirare un profondo sospiro e udì l’eco della sua voce che arrivava flebile fino a lui, ancora immobile fuori le porte dell’ascensore.
«Presto, vedrai…»
Le labbra non si vedevano sotto i baffi e la barba bianchi come neve.
Lui si decise ad avanzare. I passi erano uno spostare di massi che a stento si sollevavano da terra e lo portavano avanti per forza di inerzia. All’altro lato del corridoio, stanze e pazienti, altro dolore, chi moriva lentamente e chi s’aggrappava alla vita con tutta la forza che aveva. Infermiere e parenti. Movimento continuo. Reflusso del mare.
Sua moglie e suo suocero non erano da soli.
Più isolato riconobbe l’amico di Yuzo, Mamoru. Sì, Mamoru. Adesso era convinto che si chiamasse davvero così. Aveva gli occhi fissi al suolo e la mano che veniva passata sulla fronte in un gesto automatico e ripetitivo. Chissà da quanto tempo lo stava compiendo. I suoi jeans erano sporchi di sangue, e anche le dita. E quel sangue, ora, era stato passato anche sulla fronte, ma il ragazzo continuava a non curarsene. Baiko si rese conto che nemmeno lui era lì, in quel momento, e tutto ciò che lo teneva ancora legato alla realtà circostante erano gli altri due giovani seduti accanto a lui: quello con i capelli ricci gli passava lentamente una mano sulla schiena come fosse un mantra, mentre quello con i denti sporgenti gli teneva appoggiata la mancina sulla nuca; ma di entrambi, questa volta, non riuscì a ricordare i nomi. Quello con i capelli ricci sollevò lo sguardo su di lui, quando si fermò sulla soglia di quella specie di saletta: uno spazio leggermente più ampio dove vi era una fila di sedie in plastica. La sua presenza riuscì a far avere una reazione anche a Mamoru, che lo guardò fissò, trapassando i suoi occhi. Baiko avvertì aghi neri infilzargli le pupille e accecarlo per un momento. Nessuno dei due disse o accennò nulla; lui era ancora perduto in quello stato di sospensione cerebrale da cui non sembrava riuscire a venire fuori.
Perse il duello visivo, se così poteva chiamarlo, con l’amico di suo figlio e guardò il padre di Haruko. Negli occhi di Kyoshi non lesse alcuna ostilità, ma un dolore immenso, quello sì, e l’espressione angosciata che gli rivolse sembrò dirgli che, sotto l’indecifrabilità, lo stesso dolore velava anche le sue iridi, per quanto non fosse in grado di rendersene conto.
Haruko sollevò la testa, smettendo di singhiozzare. Gli occhi rossi. Lo guardò senza agire per un tempo che non seppe quantificare e anche lui rimase immobile, perché non sapeva, davvero, cosa avrebbe dovuto fare. Non sapeva niente; non era capace nemmeno di capire.
Poi, Haruko si alzò. Il passo un po’ incerto, ma la schiena dritta. Gli si fece vicino con lentezza, misurando la distanza in movimenti piccoli.
Quella scena era irreale, loro erano irreali, quel luogo era irreale, il tempo era irreale. Un enorme sogno, un infinito incubo. Baiko l’avvertiva così, come fosse qualcosa di onirico da cui, molto presto, si sarebbe svegliato e dopo avrebbe potuto dimenticare tutto senza sentirsi ancora in quel modo incorporeo, inconsistente. Non era materia, perché si sentiva leggero e pesante assieme. E allora cos’era?
Sollevò una mano verso Haruko, per toccarle il viso; magari, con quel contatto, sarebbe riuscito a spezzare il proprio stato di ‘non-esistenza’. Ma il contatto che ricevette fu di tutt’altro tipo.
La guancia gli pulsò come vi avessero dato una scudisciata, perché quello schiaffo fece esattamente lo stesso rumore.
Baiko non parlò. Troppo sorpreso, forse, troppo incredulo. Negli occhi di Haruko – che erano anche gli occhi di Yuzo –, in quel rosso che sembrava divorare il nocciola, lesse qualcosa che lo trafisse per la seconda volta. E fu solo questo a ricordargli d’avere ancora un corpo.
Era odio.
Quello che aveva velato le iridi di Yuzo, nell’attimo in cui aveva premuto il grilletto, e che lui non aveva capito.
Spietato, sanguinante, folle.
Odio di una portata che non avrebbe mai potuto affrontare, odio che lo travolse come la piena di un fiume nel sibilare delle parole.
«E’ colpa tua.»
Un ago in mezzo al petto.
«E’ tutta colpa tua.»
Un altro al centro del cranio.
«Sarai contento ora, no? Sarai soddisfatto, vero? Tu e la tua dannata azienda! Tu e il tuo dannato nome da portare avanti! Tu e il tuo volere a tutti costi controllarlo come fosse… fosse… un oggetto!» La voce di Haruko era un esplodere di proiettili, revolver che sparava a ripetizione. E ogni colpo andava a segno. Un altro schiaffo. «Se solo l’avessi lasciato libero… se solo avessi provato a capirlo…»
Occhi rossi, sembrava una strega.
«…se solo avessi provato ad ascoltare tuo figlio per una sola volta, tutto questo non sarebbe successo! Lui non avrebbe mai… lui…»
L’uomo venne raggiunto dall’ennesimo manrovescio. Dio, quanto faceva male.
«Ridammelo, Baiko…», un pugno sul petto, «…ridammelo!», un altro e un altro ancora. Le lacrime nascondevano il rosso e facevano nuovamente brillare il nocciola. Poi altri pugni che non avevano forza sufficiente per ferire, fuori, ma dentro lo stavano uccidendo tanto che lui non riusciva nemmeno a reagire. «Ridammi mio figlio! Ridammelo! Ridammelo!»
Mamoru si alzò di slancio, anticipando il nonno di Yuzo: era riuscito a riemergere dalla stasi, almeno lui. «Signora Morisaki! Signora Morisaki, si calmi!» disse, bloccandole i polsi, «Si calmi, non faccia così…»
«Rivoglio mio figlio! Lo rivoglio… ti prego… Baiko… Baiko…»
Mamoru la tenne stretta, cercando di non piangere di nuovo, ma le lacrime erano tutte lì, tra gola e occhi. Haruko s’aggrappò al giovane con una forza insospettabile e la sua voce era il latrato di mamma lupo che cercava i cuccioli uccisi nelle tagliole.
«…ha diciannove anni… solo diciannove anni…»
Baiko guardava, ascoltava e non aveva risposte. Non aveva niente che potesse darle, in quel momento, per esserle di conforto, perché era la causa e aveva già fatto abbastanza. Rimase fermo sul posto fissando quel quadro vivente come fosse un estraneo spettatore, visitatore d’un museo. Davanti a lui c’erano figure a colori: cupi, intensi, che ferivano gli occhi, ma pur sempre colori. Lui era in bianco e nero; un televisore anni ’50 senza più segnale; white noise(3).
La porta in fondo alla sala si aprì all’improvviso spezzando l’attesa e creandone un’altra, diversa, in perfetta sequenza.
Mamoru lasciò lentamente la presa su Haruko. Quest’ultima mosse qualche passo verso gli infermieri che si avvicinavano, trascinando un lettino. Altre infermiere arrivarono alle spalle di Baiko e si muovevano come formichine bianche. Aprirono la porta della stanza lì accanto, dove fino a quel momento erano rimasti ad aspettare, e fecero entrare il letto.
Occhi chiusi, il capo fasciato da bende e garze, un tubo che partiva dalla bocca, un altro dalla testa. Ma in quello spiraglio di viso che era riuscito a carpire aveva riconosciuto suo figlio.
Era stato come immergersi in un lago ghiacciato e restare sotto, senza respirare, mentre sopra il ghiaccio si richiudeva, intrappolandolo per sempre: i brividi l’avevano trafitto in centinaia.
Un’infermiera aveva gentilmente, ma con decisione, fermato sua moglie che aveva tentato di avvicinarsi.
«Non potete ancora entrare» aveva detto «Per favore, aspettate qui» ed era scomparsa all’interno della stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
Haruko aveva flebilmente allungato una mano. Lui era tornato a guardare l’operato delle formiche attraverso il vetro e spiragli delle tende un po’ aperte.
«I signori Morisaki?»
Una voce più profonda li richiamò ed entrambi si mossero all’unisono verso il medico che restava in piedi con aria seria, ma non allarmata.
«Sì?! E’ mio figlio! Ditemi cosa… come…» Haruko non sapeva nemmeno cosa domandare di preciso e se non ci riusciva lei, che era paradossalmente più lucida, Baiko nemmeno ci provò, ma si limitò a farsi avanti, un passo alla volta, pur tenendosi in disparte.
L’uomo sollevò le mani per fermare la foga della donna. Accennò un sorriso. «L’operazione è andata bene e visto che il proiettile era già uscito, non è stata particolarmente invasiva. Tra ventiquattro ore lo potremo anche staccare dal tubo del respiratore. Inoltre, il danno, per fortuna, è più limitato del previsto: il proiettile ha toccato solo in piccola parte la corteccia prefrontale poiché la traiettoria non era dritta, ma leggermente inclinata» annuì. «Potrà recuperare in alcuni mesi, quasi sicuramente senza conseguenze.»
Haruko si coprì la bocca, chiudendo gli occhi e cantilenando quel ‘grazie, Dio, grazie’ anche per lui, che si limitò a inspirare a fondo.
Anche sul viso degli amici di Yuzo, Baiko lesse l’allentarsi della tensione.
Mamoru respirò un paio di volte, nascondendo gli occhi dietro le dita e sforzando sé stesso a non piangere, nemmeno di gioia, ma se da un lato fu in grado di serrare qualsiasi lamento, dall’altro non riuscì a fermare le lacrime che scorsero ai lati del viso prima che le mani le cancellassero.
«Il problema», il medico aveva ripreso a parlare e stavolta sembrava titubante, «…è che, in questi casi, di solito induciamo una condizione di coma farmacologico, monitorata, per permettere all’organismo di facilitare le operazioni di guarigione, ma non abbiamo potuto: il ragazzo era già in coma.»
Silenzio.
I brusii, le cantilene, i sospiri sollevati, ogni suono era stato stroncato. Gli occhi erano di nuovo orbite spalancate, in grado di inghiottire l’universo, e il medico continuava a rivolgersi a quei vuoti cosmici.
«Al termine dell’intervento, ci siamo resi conto che non rispondeva agli stimoli.»
«Ma… ma è momentaneo, no?... vero?»
I ringraziamenti di Haruko agli Dei le erano stati restituiti, tornati indietro, mittente sconosciuto.
«Questo non lo sappiamo. Non è un coma artificiale.» Il medico si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. «Il risveglio potrebbe avvenire tra poche ore, giorni, mesi. Anni. Mai più.» Inspirò a fondo. «Si deve solo aspettare, adesso. Mi dispiace» e, detto questo, se ne andò lasciandoli perduti nello spazio a gravità zero, sospesi e immobili come il cervello fluttuante nella testa di Baiko, come l’anima di Yuzo, addormentata chissà dove, in meandri sconosciuti e invisibili ai loro occhi. Tutti volavano, senza smettere di toccare terra. L’irrealtà tornò a essere reale e parte di ciascuno di loro che si trovavano lì e sapevano che Yuzo stava bene, sì, sarebbe guarito, sì, ma avrebbe continuato a dormire.
Dormire.
Morire.
Essere o non essere?(4)
Haruko s’afflosciò al suolo come un palloncino sgonfio. Venne subito raggiunta da suo padre, che tentò di farle coraggio, aiutandola a rimettersi in piedi per avvicinarsi al vetro dove poteva vedere il corpo del figlio, ma erano solo spoglie, perché Yuzo non era lì, non in quel momento.
Alcuni infermieri uscirono e la stessa che poco prima aveva impedito ad Haruko di entrare, le fece cenno che poteva accomodarsi.
«Massimo due alla volta» si raccomandò.
Kyoshi si volse per cercare un cenno in Baiko, ma quest’ultimo non si mosse, gli occhi fermi sul vetro e ciò che riusciva a vedere. Allora accompagnò lui stesso Haruko dentro la stanza.
Di fuori, Mamoru era rimasto in piedi, fermo come un albero in inverno: vivo e morto al contempo, senza le sue foglie. Lo sguardo fisso a terra.
Hajime e Teppei erano nuovamente crollati sulle sedie. Chi aveva la testa sprofondata nelle mani e chi le mani intrecciate all’altezza delle labbra.
Baiko non distolse lo sguardo, nemmeno quando arretrò di un passo, nemmeno quando i passi divennero due e poi tre e girò le spalle a quella piccola saletta, a quel vetro, a quel corpo. Non distolse lo sguardo perché l’immagine era ormai impressa sulla retina e anche se non l’avrebbe avuta di fronte, sarebbe rimasta stampata davanti agli occhi, tatuata nel cristallino.
Trascinando ancora la giacca sul pavimento – che era come trascinare sé stessi, in fin dei conti: il suo spirito era rinchiuso in quell’indumento, ora sudicio e informe, che per anni aveva rappresentato il suo rigore e ordine, mentre il corpo era vuoto proprio come quello di Yuzo –, rientrò nell’ascensore le cui porte metalliche si chiusero con un rumore cupo che gli evocò quello dei grandi portoni dei templi shintoisti.
Baiko rimase fermo al centro della cabina, dando le spalle all’entrata. Il mezzo si azionò, lento, sprofondandolo verso il piano terra con un sottile rollio.
Plin.
«Signore, non esce?»
Quella voce giunse da dietro di lui che si volse a rallentatore. Un medico restava fermo tra le porte aperte dell’ascensore, guardandolo con perplessità.
«Si sente bene?»
«Sì» monosillabica risposta e poi fuori, senza più dare spiegazioni. Percorse l’intero atrio con lo stesso passo e la stessa velocità. Passò davanti al banco dell’accettazione. L’infermiera che l’aveva accolto al suo arrivo lo notò e fece per chiamarlo, ma si fermò: sembrò capire che non avrebbe avuto risposta.
Fuori la pioggia continuava a cadere con un intenso scrosciare. Fitta, folta come le fronde d’una foresta, e ferma, quasi dritta. Cancellava tutto, portava via lo sporco dalle cose, rubandone i colori. ‘Paga pegno! Paga pegno!’, diceva, ‘Per la vita che ti do, paga pegno!’.
Baiko camminò fino alla fine della pensilina che copriva l’ingresso dell’ospedale, camminò per il viale che conduceva all’enorme cancellata delimitante l’intero perimetro della struttura. Un’ambulanza sfrecciò accanto al marciapiede a tutta velocità. Baiko continuò a camminare e nella testa rimbalzò il suono della sirena contro le ossa del cranio, fino a dissolversi.
Fuori dal cancello, si fermò.
La pioggia iniziava a insinuarsi sotto il tessuto della camicia, tra i capelli; era già arrivata alla pelle del viso e delle mani, ma lui sembrò non sentirla né avvertirne il contatto. Della gente correva attorno a lui, aggirandolo e guardandolo per un attimo da sotto gli ombrelli; qualcuno borbottò che doveva togliersi dal centro del marciapiede perché intralciava il passaggio, ma lui non si mosse, poiché non li aveva sentiti.
A terra, l’acqua aveva creato una pellicola sottile che ricopriva il manto stradale. Le suole facevano suoni masticati e acuti. La giacca si era impregnata quasi subito, ma Baiko aveva continuato a trascinarla come fosse stata un peso impossibile da sollevare. Un lampo diffuso cavalcò le nubi sopra la sua testa, accennando un momento di luce in quella sera che era calata senza che nemmeno se ne rendesse conto. L’ora di cena era morta e sepolta tra riso e verdure che altri avevano mangiato al suo posto, eppure sentiva ugualmente lo stomaco pieno, occluso.
Sollevò la testa fino a piantare lo sguardo nelle nuvole grigie. Gli occhi vennero trafitti da centinaia di gocce e il viso venne lavato da lacrime non sue, ma piangevano al suo posto perché il suo volto era ancora immoto, perché ancora si sentiva estraneo nel proprio corpo, perché ancora sembrava un bambino smarrito senza alcuna direzione.
Paga pegno! Paga pegno!
Baiko abbassò il capo e si volse prima a destra e poi lentamente a sinistra, aspettandosi di scoprire cosa c’era da una parte e dall’altra, oltre il fondo della strada, poi si ricordò che doveva andare a destra e si incamminò verso casa. Non prese alcun mezzo e anche per questo ci mise più tempo del previsto per arrivare a destinazione, ma per lui il tempo aveva perso significato nel momento dello sparo. Il suo orologio interno, ciò che lo teneva in contatto con la realtà, che gli dava la tridimensionalità del visibile e lo rendeva reattivo e partecipe si era bloccato, il vetro era spaccato e le lancette spezzate; lui camminava perché non sapeva cosa fare se non quello.
Davanti casa infilò la mano nella tasca dei pantaloni, estrasse le chiavi e varcò il cancello; la stoffa della giacca aveva raccattato sporco e acqua, erba del prato, carta straccia, trascinata per chilometri e a mano a mano che saliva i gradini lasciava qualcosa e prendeva qualcos’altro; il suo simulacro era ricettacolo dei resti altrui e di quella pioggia sudicia che aveva assorbito come una spugna. Entrò in casa, chiuse la porta alle spalle e lì stette, appoggiato contro il legno.
Non si sentiva più alcun rumore, tra quelle mura. Il ticchettare dell’acqua, il ciabattare dei piedi, lo scorrere delle vetture, parole volanti e suoni di vita. Adesso c’era solo il silenzio, il respiro del suo corpo, lo stillicidio delle gocce che cadevano dai capelli e dagli abiti. Lo spazio era cubico, una scatola di cui il cervello iniziava a percepire la forma. La mano smise di reggere il proprio spirito e la giacca cadde al suolo in un fruscio bagnato e pesante; si afflosciò su sé stessa come melma. Le bolle in cui i pensieri erano stati racchiusi cominciarono a rompersi, a esplodere con piccoli scoppi, e l’astronauta solitario rientrò nello shuttle, riscaldando le sinapsi.
Connessioni. Parole.
Non sentiva ancora i sentimenti, però aveva una domanda. Una sola.
Baiko si lasciò scivolare al suolo, guardando il niente.
Parlò, ma nessuno rispose, perché l’unica persona che avrebbe potuto dirgli come stavano le cose aveva deciso di dormire per sempre.
«Yuzo… sono stato io a renderti così spietato?»

 

“Yes, my head's got a hole in it /
Sì, la mia testa ha un buco
and everything's been ruined by the rain /

e ogni cosa è stata rovinata dalla pioggia

Meat PuppetsRoof with a hole

 

“Ti farò male più di un colpo di pistola,
è appena quello che ti meriti.
Ci provo gusto me ne accorgo ed allora?
Non mi vergogno dei miei limiti e lividi.”


SubsonicaColpo di pistola

 

 


[1] [4]: citazioni da “Amleto” di W. Shakespeare.

[2] la Smith&Wesson 15 .38 special è stata la pistola d’ordinanza della polizia americana fino a circa i primi anni ’90, prima di venir sostituita dalla Beretta M9. E’ un revolver a tamburo, sei colpi, precedentemente conosciuta come K-38 Combat Masterpiece (Pistoletta puccia: *clicca qui* e per chi non avesse scoperto l’arcano che avevo indicato nelle note alle canzoni del capitolo precedente, beh, era proprio questa pistola l’elemento presente nel video di “Come as you are”. :3)

[3]WHITE NOISE: il white noise è quel rumore che – almeno fino a quando le televisioni andavano in analogico – si sentiva quando si perdeva il segnale. Il fruscio fastidioso. (qui potete sentire il famoso white noise, e saperne di più sulla sua natura fisica: *clicca qui* )


 

Note Finali:

Due parole prima di lasciarvi alle amenità (per farvi ridere! XD).
Il Giappone, purtroppo, è flagellato dai suicidi/tentativi di suicidio, soprattutto giovanili.
La troppa pressione, le troppe aspettative cui sono pressati i ragazzi, e così gli adulti, li fanno arrivare spesso all’estremo della resistenza psicologica. Molti vanno in paranoia, si chiudono in casa e non escono più, vegetano e altri la fanno finita.
Questo non è il caso di Yuzo e vorrei che questo sia molto chiaro. :D
Yuzo non agisce in quel modo perché si è rotto i coglioni di vivere o perché gli ostacoli sono troppo grandi. La sua è una vendetta, totale.
Come risposi in una recensione su ELF, quando si arriva al limite massimo di sopportazione, due sono le cose: o si soccombe o si tira fuori la parte più spietata che si ha.
Yuzo ha puntato sulla seconda. :3
Ovvio, non ha considerato tutte le conseguenze perché è una decisione presa con la lucidità del momento e in maniera molto egoista.
XD ok, fine ciarle, ci tenevo che il concetto fosse chiaro.
E ora…
MINCHIATE!!! XDDDDD

*parte la musichetta da circo: Pepeperepepepere!*

Beeeenvenuti nell’angolino dal titolo: “Trame Delirio: per di qua --->!” ovvero “Come creare tramoni alla ‘ohmygodwowgenius’ e poi rendersi conto che erano una cazzata” XD
Perché, sì, anche Lucciola ha avuto un passato da Trama Delirio – altrimenti non sarebbe stata cominciata nel 2010 e poi abbandonata a sé stessa.
Dovete sapere che il tutto era stato orchestrato per essere una Genzo/Yuzo, ma poi non ho saputo resistere e sono rimasta nel mio ambiente congeniale: la MamoruYuzo resterà SACRA forevah.
Inoltre, la questione familiare non era il 100% del fulcro, ma solo un 40%.
In primis: Yuzo avrebbe dovuto sparare a suo padre, senza ucciderlo, ovviamente, ma con abbastanza acrimonia da portare Baiko a denunciarlo per tentato omicidio. Yuzo finiva in galera dove avrebbe dovuto scontare un decennio, salvo uscire per buona condotta dopo sette anni.
Quindi, tutta la storia era incentrata su Yuzo e il suo iter dietro le sbarre e poi fuori le sbarre.
Ed è stato lì che mi son detta: “Naaa, ragazzi, che stronzata.”
Correggere il tiro è stata l’idea migliore.
Insomma, quando una trama non si incastra perfettamente e/o cozza con i caratteri dei pg, io la chiudo nel cassetto in attesa di avere il giusto espediente per farla quadrare in tutto. In questo caso, ho rimescolato buona parte degli elementi che volevo tenere e buttato via quelli inutili.
Così fila molto di più, ma vi racconterò poi il resto della storia, giusto per farvi ridere un po’! *ridacchia*

Le Canzoni del capitolo:

Questo capitolo è un po’ particolare perché abbiamo un ‘intreccio’ di due canzoni: una che riguarda più il punto di vista emozionale di Baiko, l’altra il punto di vista di Yuzo.

- Roof with a hole (Meat Puppets): Diciamo che è stata questa a farmi stravolgere la trama e a permettere, quindi, che la storia venisse scritta X3.
Immagino che molti di voi non abbiano idea di chi sia questo gruppo e non vi biasimo. XD Fanno Punk Rock, sono americani e, al momento, ancora insieme. ** da giovane, il cantante era un gran bel pezzo di giovanotto, ma la vecchiaia non l’ha aiutato. XD Ad ogni modo, l’album “Too high to die” l’ho sentito talmente tante volte da aver rovinato il CD e questo è tutto dire. Ci sono moltissime loro tracce che ho adorato, ma questa in particolare mi è sempre piaciuta. Penso marchi bene il modo in cui la situazione sia precipitata, arrivando a toccare il fondo. Come si può immaginare, questa è più legata a Baiko anche se la strofa finale, quel ‘la mia testa ha un buco’, è associabile sia a entrambi: il primo a livello oggettivo, e il secondo a livello concettuale (inteso come ‘vuoto’).
In definitiva, posso dire che questa canzone rappresenta l’atmosfera dell’intero capitolo. :D
(piccola nota: il video non è quello originale perché non ne esiste uno :3)

- Colpo di Pistola (Subsonica): questa canzone dei Subsonica io l’avevo totalmente rimossa! °_° Mi è capitata davanti per puro caso (XD e rivederli così giovani, Samuel addirittura con i capelli, mi ha fatto un po’ specie! XDDD).
All’inizio doveva esserci solo Roof with a hole, poi però ho pensato che ci fosse qualcosa che rimarcasse un po’ meglio il concetto dietro il gesto di Yuzo.
Lo ribadisco: Yuzo non si vuole suicidare, si vuole vendicare, che è molto diverso.
La strofa del ritornello, ‘ti farò male più di un colpo di pistola/è appena quello che ti meriti’, indica proprio l’intento vendicativo.


E anche per questo capitolo è tutto, grazie a chi continua a seguirmi! :3

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Capitolo 4
*** Part IV: Melancholic Origami ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part IV: Melancholic Origami -

 

“You would not believe your eyes /
Potresti non credere ai tuoi occhi
if ten million fireflies /
se dieci milioni di lucciole
lit up the world as I fell asleep /
illuminassero il mondo quando mi addormento.
Cause they fill the open air /
Perché loro riempiono l’aria
end leave teardrops everywhere /

e lasciano lacrime ovunque,
you'd think me rude, but I /
penseresti che io sia rude, ma
would just stand and stare /
resterei solo lì a guardarle.




C’era il fruscio dell’erba nell’aria, il colore del cielo terso a riempirgli le iridi e nient’altro.
Nessun clacson cittadino né la vicina con le sue canzoni tradizionali, e dire che le metteva a tutte le ore.
Si tirò a sedere, guardandosi attorno.
Più distanti, vedeva i verdi steli oscillare alla brezza che li cavalcava come onde, mentre d’intorno il prato era stato tosato in maniera attenta e meticolosa, perfetta avrebbe osato dire. Ed era così morbido. Lo tastò, gli parve familiare. Si volse a destra, poi a sinistra; sorrise.
Sì che era familiare: era un campo da calcio.
Dove fosse non se lo chiese, non aveva bisogno di farlo perché non c’era un luogo ben preciso in cui si trovasse, lo sapeva, ricordava cosa era avvenuto e quindi non si interrogò su domande che non avrebbero avuto risposte. Si limitò a stringersi le gambe al petto e a lasciare che il sorriso continuasse a distendergli le labbra in maniera luminosa, come il sole al tramonto che sembrava fermo in un punto preciso dell’orizzonte. Una sfera rossarancio sospesa nel cielo.
C’era pace, lì, gli riempì il petto d’un senso di quiete che non sentiva da un tempo che gli parve lontano millenni. E non sentiva dolore. Né alla testa né al cuore.
- Non avevo dubbi che scegliessi un posto simile. -
Una voce gli si rivolse, e solo in quel momento si accorse di un rumore di passi in avvicinamento.
Yuzo si girò, inquadrando una figura investita dal tramonto. Calzoni al ginocchio, piedi nudi come i suoi, mani affondate nelle tasche e una t-shirt semplice. Lui invece risaltava quasi con magia: candido in mezzo a tutto quel verde.
Rise, ma era una risata di piacere. Appoggiò le mani al suolo e distese le gambe.
«Credo di non aver ancora capito come funzioni, qui, ma devo dire che mi piace.»
Lo sconosciuto ridacchiò, con quel suono familiare e rassicurante. Si fermò, in piedi, accanto a lui. Il mento puntato a fronteggiare la distesa erbosa, folta e infinita.
- Chiariamo: questa forma non l’ho scelta io, me l’hai data tu. Ogni cosa, qui, è frutto delle tue proiezioni mentali. Reale o irreale non hanno più un senso sia esso fisico o logico. -
Yuzo lo ripeté adagio, tornando a fissare l’erba frusciante sotto la sfera rossa che, ora, aveva preso a calare velocemente. Sembrava di vedere un filmato impostato su fast-forward.
«Proiezioni mentali…»
Tutto ciò che per lui era fondamentale, parte integrante della sua esistenza, quasi fossero brandelli della sua stessa pelle, prendevano corpo, divenendo immagini tangibili.
Il calcio, ad esempio, e l’aspetto dello sconosciuto che, ora, si era lasciato cadere al suo fianco: mani nell’erba rasa e gambe incrociate.
«Sono morto?» domandò a bruciapelo, ma l’altro non si scompose.
- No - disse, stringendosi nelle spalle. - Non ancora, almeno. Il tuo cervello sta funzionando normalmente, esegue tutte le funzioni, ma non ti permette di essere cosciente. -
«E cioè sono in coma?»
- Proprio. Fatti dire che hai una pessima mira. Se devi fare un lavoro, devi farlo bene. -
«Ho sempre odiato le armi, non ne avevo mai maneggiata una, prima.»
- E allora perché hai scelto proprio quella? -
A Yuzo venne da sorridere, ma era un’espressione mesta e colpevole. Si guardò la punta dei piedi. «Perché sono un pessimo figlio.»
- E’ ancora troppo presto per fare valutazioni di questo tipo. Le somme vanno tirate sempre alla fine. Vale per tutti, anche per te. -
«Deduco che tu ne abbia viste davvero tante.»
- Abbastanza - ridacchiò l’altro con ironia.
«Come ti chiami?»
Lo sconosciuto si volse a guardarlo e la somiglianza era così impressionante da lasciarlo affascinato.
- Il mio nome è impronunciabile per te, e lo dimenticheresti l’attimo dopo averlo sentito. Chiamami pure con il suo, in fondo, ne porto l’aspetto. Pensa che una volta mi sono trasformato anche in cane - poi ci pensò meglio. - Anzi, più di una volta. -
Yuzo sorrise riuscendo solo in quel momento a comprendere davvero quanto importante e radicato fosse il sentimento che lo legava alla persona di cui l’altro aveva assunto le sembianze. Ci teneva così tanto da volere solo lui accanto.
«Mamoru… si chiama Mamoru.»
L’altro sollevò mento e sguardo al cielo. - Profetico(1) - disse, accennando un sorriso.
«Molto.» Yuzo sorrise a sua volta; lo sguardo rivolto al sole che non accecava mentre colava a picco per far spazio alla sera. Da arancio, il cielo virò rapidamente in violetto, poi indaco, poi blu.
«Dove siamo di preciso?»
- Un po’ qui e un po’ lì. Nella terra di mezzo tra la vita e la morte. -
«Una sala d’attesa.»
Il finto Mamoru gli scoccò un’occhiata ironica. - Manchi di poesia, ragazzo. -
Lui ridacchiò e lo osservò a sua volta, con sincera curiosità.
«Tu cosa saresti?»
- Un accompagnatore o, semplicemente, una compagnia. Non sempre chi arriva qui sa come ci è finito e perché. Il mio compito è far capire loro perché non sono andati avanti o tornati indietro. Sai, lo spirito muore prima del corpo, e quest’ultimo può restare in vita per anni, nonostante lo spirito l’abbia già abbandonato. Chi resta dall’altra parte ad aspettare, però, non può saperlo. -
Yuzo inclinò leggermente il capo. «E’ il mio caso?»
- No, il tuo spirito è ancora al suo posto, per questo sei qui. -
«Se allora sono ‘interamente’ vivo… perché non sono tornato indietro?»
Mamoru assottigliò lo sguardo, il mento un po’ sollevato. Lo fissò attentamente negli occhi. - Sicuro di non saperlo? -
Yuzo scosse il capo.
- A volte, si rimane in bilico perché non si riesce a decidere quale sia la soluzione migliore, se vivere o morire. E, credimi, è davvero un arduo dilemma. Altre volte, invece, si è in cerca. -
«Di cosa?»
- Qualsiasi. Un oggetto, un’emozione, la verità. - Lo sguardo si assottigliò ancora un po’ di più. - Una persona. -
Yuzo spostò il proprio, puntandolo nuovamente lontano, dove ora non riusciva più a distinguere altro che suoni; il buio notturno aveva nascosto l’erba che però continuava a frusciare. Lui rimase ad ascoltarla, così come ascoltava anche Mamoru.
- Spesso si tratta di una ricerca inconscia, che non si comprende fino a che non si è trovato ciò che non si sapeva di stare cercando. -
«Io non ho nulla da cercare» asserì con decisione e una leggera foga.
- Credi? Tutti cercano e, quando l’avrai trovato, lo capirai anche tu. -
Abbozzò un sorriso rassegnato. «Non penso. Quello che cercavo l’ho già perduto.»
- E’ il motivo per cui lo hai fatto? -
«Quello che ho fatto è stato davvero crudele. Nessun figlio dovrebbe mai arrivare a tanto. Io volevo vendicarmi della sua indifferenza, volevo che provasse a sentire sulla sua pelle la privazione di un qualcosa di importante senza potersi ribellare o difendere.» Ma ora, quelle stesse giustificazioni che, nel momento in cui si era portato la pistola alla tempia, erano state lucide come non mai, gli sembrarono solo i rifugi di un bambino che giocava a nascondino. «Lui mi aveva tolto libertà e futuro, io gli ho tolto me stesso. Saremmo stati pari. E invece mi rendo conto di essere stato terribile. A ogni modo, ci eravamo già persi molto prima, il mio gesto è stato solo un modo rude per chiarire la situazione.»
- Anche le cose perdute si trovano, Yuzo, basta solo saperle cercare. -
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.» E quanto lo feriva sentirlo dalla propria voce, forse, nessuno lo sapeva. Nemmeno quella proiezione di Mamoru, lì, accanto a lui, che sembrava essere molto di più di una semplice presenza consolatoria. Lo feriva perché era come ammettere la resa, la loro diversità inconciliabile. «So di avere parte della colpa dei nostri fraintendimenti continui. Partivo prevenuto nei suoi confronti, ero convinto che non mi avrebbe mai ascoltato e così rifuggivo il dialogo quanto più possibile, sicuro di conoscere a priori le sue risposte. Da parte sua, lui non ha mai fatto niente per cambiare questa condizione, si limitava a dirmi che ero un ragazzino. Era una situazione di comodo per entrambi, forse. Poi, quando non era più possibile nascondersi a vicenda e ci trovavamo a parlare, io partivo già all’attacco, caricato dal continuo pensare e ripensare, credere e prevedere le sue mosse. E lui, che non era abituato a questo mio atteggiamento o troppo aggressivo o troppo schivo, reagiva di conseguenza.» Il cielo limpido era ora puntellato da miliardi di stelle. «Non credo si sia mai accorto che c’era qualcosa che non andava, che la situazione non si sarebbe risolta con una semplice sgridata o imposizione. Io non capivo lui, lui non capiva me. Per questo dico che non ci troveremo mai. Non più.»
Mamoru questa volta non replicò, ma lasciò che il canto dei grilli nascosti nell’erba riempisse i loro silenzi.
Yuzo non riusciva a scorgere che sagome confuse nella notte; anche il giovane lì accanto non era che una figura appena delineata, una diversa oscurità. Eppure non aveva paura di restare al buio, anzi, riusciva a sentirsi ugualmente tranquillo, padrone di una serenità che, per certo, nella vita di tutti i giorni non aveva mai avuto. E fu mentre scrutava nelle ombre che vide quel piccolo bagliore apparire e scomparire in un attimo. Si sporse, in direzione dell’erba che si infoltiva, a pochi passi da dove erano seduti. Lo vide di nuovo e sembrava come farsi spazio tra i fili. Quando l’oggetto luminescente emerse dall’intricato groviglio di vegetazione, un largo sorriso gli tese le labbra, facendo snudare i denti.
«Una lucciola!» Yuzo s’alzò, avanzando piano piano sull’erba fresca e morbida sotto i piedi nudi.
Il coleottero si era posato su un filo verde e lui si inginocchiò adagio, senza fare il minimo rumore per non spaventarlo. Con movimenti calibrati al millimetro chiuse le mani a coppa, riuscendo a catturarlo. Lo sentiva zampettare nei palmi.
«Presa!» esclamò entusiasta come un bambino, mentre raggiungeva di nuovo il suo accompagnatore. Si accomodò e incrociò le gambe.
Mamoru appoggiò il viso in una mano, osservandolo con curiosità e un leggero divertimento.
- Solitamente la gente rincorre le farfalle. -
Yuzo sorrise. «Sì, lo so. Tutti restano rapiti dalla loro evidente bellezza, dalle loro ali così variopinte che le rendono leggere ed eleganti, delicate, fatte apposta per essere ammirate, ma ci sono tante altre creature che, a una prima occhiata, possono non risultare altrettanto belle, ma che racchiudono qualcosa di meraviglioso dentro di loro. Una bellezza tutta particolare, che solo in pochi riescono a capire. Come una libellula. Adoro le libellule. Sono flessuose e quelle loro ali così sottili hanno tanti colori. Sono velocissime e quando si posano sui piedi sono così leggere che non le senti nemmeno. Ma hanno un corpo troppo lungo e ali poco particolari per ricevere ammirazione. Così come le falene. Marroncine, notturne, con i corpi cicciosi e poco aggraziate, a chi potrebbero mai piacere? Ma ci sono falene gialle, lo sapevi? E verdi e azzurre e di tantissimi altri colori e sfumature che nessuno crederebbe.» Sorrise. «E poi ci sono le lucciole. Quando non brillano sono dei semplici coleotteri, non hanno niente di bello o speciale… eppure… hanno quel qualcosa tutto loro, nascosto sotto le ali.» Inclinò il capo, leggermente, le mani che si aprivano piano per far comparire il piccolo insetto fermo sul palmo. Yuzo lo guardò con protezione e malinconia. «Quando le vedi volare nella notte sembrano delle piccole stelle. Mi sono sempre sentito simile a loro: una lucciola che può dimostrare d’esser bella, a suo modo, come una farfalla, le basta solo una piccola possibilità. E quella possibilità l’avevo, ma mi è stata negata all’ultimo momento. In fondo, mio padre ha sempre odiato gli insetti.» La coda della lucciola iniziò a brillare piano, quasi con titubanza. «Volevo giocare a calcio e dimostrare… dimostrargli di non essere un perdente come ha sempre creduto che fossi; volevo dimostrargli, nel mio piccolo e con i miei traguardi, di poter essere fiero di me. Ma lui ha sempre pensato in grande e allora… cosa può importargli di una lucciola così piccola?»
Yuzo spinse delicatamente la mano verso l’alto e l’insetto spiccò il volo con un sottile ronzio. Si librò, illuminandosi a intermittenza, mentre lui la osservava salire sempre più su e allontanarsi per tornare nell’erba folta, al sicuro. L’attimo dopo, centinaia di lucciole presero a volare, nascendo tra i fili fruscianti. Uno scialle di stelle sospinto dal vento.
Mamoru osservò il suo sorriso divenire più ampio mentre fissava, come rapito, quel meraviglioso spettacolo.
«Non sono bellissime?»
- Sì, lo sono. -
«Così belle che mi viene da piangere.»

 

“I'd like to make myself believe /
Mi piacerebbe credere
that planet Earth turns slowly /
che la Terra giri lentamente.
It's hard to say that I'd /
È difficile dire se io
rather stay awake when I'm asleep /
resterei sveglio piuttosto che dormire,
cause everything is never as it seems /
perché ogni cosa non è mai come sembra
(when I fall asleep) /
(quando mi addormento)

Owl City - Fireflies

 

§*§

 

“Who is the man I see? /
Chi è l’uomo che vedo?
Where I’m supposed to be? /
Dove dovrei essere?
I lost my heart, I buried it too deep /
Ho perso il mio cuore, l’ho seppellito troppo in profondità
under the iron sea /
sotto il mare di ferro.

 

Lo squillare del telefono riuscì a penetrare la corazza del suo torpore.
Baiko lo sentì giungere da lontano, come un’eco, e poi divenire sempre più vicino a mano a mano che la coscienza prendeva il sopravvento sulle sue facoltà.
Con lei arrivarono anche un dolore continuo a ossa e articolazioni, e dei brividi di freddo.
All’ennesimo squillo, Baiko si svegliò di soprassalto, strozzando un respiro a metà e guardandosi attorno. Si sentì spaesato, sul momento, quasi non riconoscesse l’ingresso della propria casa e non sapesse cosa diavolo ci facesse lì, rannicchiato contro la porta. Poi, come a schiaffeggiarlo affinché si svegliasse del tutto, le immagini e i ricordi del giorno prima gli ripeterono a chiare lettere cosa era avvenuto.
Realizzò d’essersi addormentato per terra, senza nemmeno togliersi le scarpe; gli abiti ancora bagnati addosso. Baiko si sfregò le braccia per allontanare il freddo.
Il telefono squillò per l’ennesima volta e lui si alzò quanto più velocemente poté anche se si sentiva anchilosato e avvertiva i movimenti a rallentatore.
«Pronto?» parlò con voce rauca che non riconobbe come propria.
«Presidente, è ancora a casa? Mi ero preoccupato, sono già le nove passate. Lei è sempre puntuale, di solito.»
Baiko si passò una mano sul viso per scacciare i residui del sonno dagli occhi stanchi. Riconobbe la voce di suo nipote, cinque anni in più di Yuzo e una grande dedizione al lavoro.
«Ah, Shunsuke… sì, sono ancora a Nankatsu…»
Il giovane abbandonò per un attimo il tono formale che di solito usava con lui quando si trovavano in azienda.
«Zio Baiko, ci sono problemi? Sembri strano…»
Lui non seppe che rispondere.
O, meglio, non seppe come pronunciare determinate parole. Gli parve di sentirle accartocciarsi sotto la lingua, impastarsi ancor prima di divenire suono. Era prendere un maggiore contatto con la realtà, perché si dava agli eventi una sorta di accettazione, invece di confutarli: così erano andati i fatti, questo era successo.
«Sì… io…»
«Tu e la zia state bene? E Yuzo-»
«Yuzo è all’ospedale.»
Quello riuscì a dirlo d’un fiato. A conti fatti era una realtà che poteva ferire, sì, ma non uccidere. Molta gente finiva all’ospedale, anche per stupidaggini. Poteva illudersi che fosse così anche per suo figlio, che anche in quel caso fosse una stupidaggine.
«All’ospedale? Che è accaduto?»
Quello, invece, gli risultò molto più ostico.
Come si poteva anche solo sillabare una cosa simile? Quando, davanti ai tuoi occhi, un ragazzo che hai contribuito a mettere al mondo, che ha il tuo sangue, che hai visto nascere, crescere… diciannove anni sotto lo stesso tetto… che fino al giorno prima ti ha chiamato ‘papà’… papà…
Papà.

«Volevi qualcuno che seguisse i tuoi ordini e comandi?! E allora ti dovevi prendere un cane, non fare un figlio!»
«Dopo potrai anche dimenticarti che esisto, tanto non ti sarà difficile, vero papà?»
«Per fortuna ho trovato chi crede in me. E non sei tu!»

Come si poteva rivelare che lui…
«Ha tentato il suicidio.» Baiko non riconobbe, di nuovo, il suono della propria voce. Gli parve metallico, senza alcuna intonazione, distaccato. «E’ in coma.»
Ora non lo poteva più negare.
L’illusione si infranse prima che divenisse nitida e calda, avvolgente, rassicurante.
All’altro capo gli rispose il silenzio e Baiko capì d’averlo sconvolto; non se ne stupì.
«Oggi non verrò in azienda» riprese, come a voler togliere suo nipote da quell’impasse. «Lascio tutto a te. Sono certo che farai un ottimo lavoro.»
Silenzio, ancora per qualche attimo. Poi percepì incertezza.
«S-sì… sì, me ne occuperò io, tu… tu non preoccuparti e… Dio mio… abbraccia… abbraccia la zia Haruko anche da parte mia. Per favore, tienimi informato.»
«Certo, non mancherò.» Shunsuke non poteva sapere che Haruko lo odiava e, in quel momento, mai si sarebbe fatta anche solo toccare da lui, figurarsi abbracciare. Di colpo, avvertì nuovamente l’estraniarsi della propria coscienza dal corpo e dall’ambiente circostante; alieno nel suo stesso spazio. Tutto quello che aveva costruito negli anni, la sua famiglia, la sua stabilità adesso si trovavano in bilico sulla punta di uno spillo.
Il trillare del campanello gli fece chiudere la conversazione.
«Ora devo andare, ti farò sapere» disse; il cordless che veniva riposto sulla pedana e poi passi lenti e trascinati fino alla porta.
Nemmeno si chiese come avessero fatto a superare il cancello.
Quando aprì la soglia, la figura bianca di Kyoshi comparve sull’uscio. «Papà?»
L’uomo aveva un’espressione preoccupata. «Hai lasciato il cancello aperto, Baiko.»
Lui tentò di fare mente locale, ma non aveva ricordi completi di quanto accaduto il giorno prima, solo frammenti in cui scorgeva esclusivamente quello che aveva trovato davanti ai suoi occhi, senza mai voltarsi indietro. «Ah… devo… devo averlo dimenticato.»
«Così come hai dimenticato di togliere le chiavi di casa dalla porta?»
Baiko abbassò lo sguardo e vide il mazzo oscillare nella toppa esterna. Inspirò brevemente, non sapendo che rispondere.
Kyoshi respirò a fondo. Negli occhi c’era preoccupazione equamente divisa: una parte era rivolta a suo nipote e l’altra, invece, era proprio per il genero. Già la sera prima aveva notato quella sorta di apatia nei suoi gesti, nel mutismo che non era dettato da chissà quale ostinazione, ma solo dall’incapacità di formulare una frase qualsiasi. Non aveva mai visto Baiko così disorientato, era sempre stato un uomo tutto d’un pezzo, sicuro di sé. Adesso sembrava uno specchio in pezzi.
La fronte si corrugò ancora di più.
«I tuoi abiti sono bagnati» gli fece notare con calma e Baiko si guardò un attimo, realizzando la cosa solo in quel momento.
«Ah, sì… ieri pioveva e io non avevo l’ombrello.»
Come se spiegare perché non si fosse ancora cambiato dalla sera prima non avesse alcuna importanza, come se spiegare perché fosse tornato a casa a piedi e sotto la pioggia non avesse significato.
«Forse dovrei farmi una doccia» concluse, sollevando nuovamente lo sguardo sul suo ospite. «Ma prego, entra, papà, non restare sulla porta.» Adagio si fece da parte e Kyoshi avanzò, chiudendo l’uscio alle spalle. Lentamente, il nonno materno di Yuzo infilò le ciabatte e vide le impronte d’acqua e fango lungo il pavimento; Baiko indossava ancora le scarpe.
Sì, quell’uomo si stava perdendo.
«Sono venuto a prendere dei ricambi per Haruko. Ha deciso di fermarsi da me per il momento, visto che abito vicino all’ospedale.»
Baiko annuì, spostando lo sguardo al suolo e passando il peso da un piede all’altro. «Sì, certo. Ci mancherebbe.» Gli occhi si fermarono sulla porta aperta dello studio. Da quella posizione, non poteva scorgere l’interno. «Come sta?»
Kyoshi sospirò, affranto. «E’ distrutta. Sarebbe voluta rimanere con Yuzo per tutta la notte, ma le infermiere non gliel’hanno permesso. Praticamente non ha dormito e stamattina è uscita all’alba.»
Baiko si passò una mano nei capelli corti, piegando le labbra verso il basso. «Sarei dovuto rimanere lì con lei. Mi dispiace, ieri… me ne sono andato in quel modo, non avrei dovuto…» Si stava rendendo conto di non essersi comportato affatto come un marito né come un padre. Aveva voltato le spalle alla sua famiglia senza nemmeno accorgersene. Aveva agito come un inetto. Come aveva fatto a dimenticarsi quello che gli avevano sempre insegnato? Come aveva fatto a dimenticarsi di agire da uomo?
La mano del padre di Haruko si poggiò sulla sua spalla, stringendo appena in un modo che voleva fargli comprendere che non c’era nulla di cui vergognarsi, che, forse, proprio quella reazione era stata la più umana che avesse mai potuto avere.
«Non hai di che scusarti, siamo tutti sconvolti.»
Ma Baiko non riusciva ad ammettere a sé stesso come si sentisse veramente, forse perché non riusciva ancora a capirlo e allora si aggrappava ai punti fermi che ancora gli erano rimasti come la disciplina, la compostezza e il sangue freddo. Ma nel suo caso, semplicemente, il sangue non c’era più nelle vene e tutto il resto non erano che pieghe d’un origami: nella carta, simulavano una figura; così lui simulava un distacco che gli faceva credere d’avere tutto sotto controllo quando invece tutto gli era sfuggito di mano.
Lentamente sollevò lo sguardo per riuscire a incrociare quello dell’uomo. Era titubante, aveva quasi paura a chiedere.
«Yuzo…?»
«Haruko mi ha mandato una mail sul cellulare dall’ospedale. Dice che è stabile.»
Lui annuì, deglutendo con uno sforzo.
«Vieni, ti accompagno di sopra, così potrai prendere ciò che le serve.» Si volse, dirigendosi alla scala che portava al piano superiore. Avrebbe preso anche un ricambio per sé; doveva farsi un bagno, non poteva restare ancora con quegli abiti bagnati.
Kyoshi lo fermò a metà della scalinata.
«Baiko, quello che Haruko ha detto-»
«Non preoccuparti, papà. Ha ragione lei. Sappiamo tutti che è così» rispose senza fargli finire la frase e riprese a salire.
Alle sue spalle, Kyoshi lo guardò addolorato. Oltre a essere disorientato, Baiko rifiutava qualsiasi tentativo di conforto, come se non se lo meritasse. Anzi, Baiko rifiutava il dolore stesso, tentando di agire come se la situazione non lo toccasse, ma facendosi carico di ogni colpa perché erano le responsabilità di un padre e non poteva venirne meno. L’uomo si domandò quanto ancora avrebbe resistito in quella condizione di isolamento emozionale, prima di ritrovarsi sommerso da ciò che provava davvero.
Senza aggiungere altro, lo seguì fino alla camera da letto. Baiko cavò una borsa dall’armadio e lasciò che fosse lui a occuparsi degli abiti di Haruko.
«Questa dovrebbe essere abbastanza capiente.»
«Sì, andrà benissimo.»
Kyoshi seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio e gli vide prendere un ricambio: completo grigio e cravatta. Nel suo abbigliamento era riconoscibile il rigore dietro cui aveva costruito ogni cosa. Eppure, era diverso il ricordo che aveva di lui: un ragazzo dall’aria decisa, sì, ma pieno di sogni, che gli chiedeva il permesso di poter uscire con sua figlia. Ora, non c’era più nemmeno la decisione, solo esecuzione pedissequa di gesti e comportamenti, quasi stesse seguendo un libretto delle istruzioni: ‘Cosa fare in caso di…’.
Baiko non era vivo, anche se in piedi.
Adagio, Kyoshi richiuse la borsa e la sollevò. Stentò un sorriso quando gli si rivolse. «Credo di aver preso il necessario, per il momento.»
«Va bene, ti accompagno.»
«No, non ce n’è bisogno, piuttosto… hai già avvertito Chiyo?»
A quella domanda, Baiko abbassò gli occhi al suolo. «No. Stavo pensando di non dirle nulla, per adesso… solo per adesso…»
«D’accordo», Kyoshi annuì, «Haruko mi ha anche detto di riferirti che resterà lei all’ospedale sia il mattino che il pomeriggio, in modo da lasciarti libero di occuparti dell’azienda.» Scosse il capo. «Ovviamente non è certo un’imposizione-»
«Lo so che non vuole vedermi, mi sta bene.» Baiko s’affrettò a dirlo come fosse una scelta accettabile. Erano di nuovo occhi negli occhi.
Kyoshi lo fissò con le sopracciglia aggrottate. «Si tratta di tuo figlio. Devi sentirti libero di andare da lui quando vuoi, anche subito.»
«Per Haruko io sono quello che gli ha messo la pistola tra le mani, aiutandolo a premere il grilletto. Per adesso è meglio se non mi faccio vedere. Ho già fatto abbastanza. Andrò da Yuzo verso sera, così non ci incroceremo.»
Kyoshi non aggiunse altro, ma si limitò ad accennare un gesto col capo. «Allora ci vediamo all’ospedale.» Gli rivolse un ultimo sorriso stentato e lasciò la stanza.
Baiko non lo accompagnò, ma rimase fermo presso il letto, con la camicia asciutta appoggiata sull’avambraccio e il completo appeso alla gruccia. Attese di udire il rumore della porta di casa che veniva chiusa e poi si mosse.
In quel momento era giusto tenersi da parte; la sua presenza non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Haruko lo odiava, gliel’aveva fatto capire chiaramente e quegli occhi… Dio, quegli occhi… non li avrebbe dimenticati tanto presto né sarebbe riuscito ad affrontarli ancora, lasciandosi annientare dalla loro forza.
In quegli occhi rivedeva suo figlio.
Ed era questo a fargli davvero paura.
Vigliaccamente, non era solo per rispettare il dolore di Haruko se accettava di tenersi in disparte, ma anche e soprattutto per non ritrovarsi sopraffatto e giudicato da quelle iridi. Sarebbe stato come ritrovare Yuzo che gli diceva…
…ti odio
Baiko scosse il capo per scacciare quell’eco riaffiorata adagio e s’avventurò per il corridoio. Quando arrivò davanti alla porta chiusa della stanza di suo figlio si fermò. Fissò l’uscio quasi avesse potuto aprirsi da solo.
Da quanto tempo non entrava in quella stanza?
Se lo domandò all’improvviso perché non lo ricordava, non ricordava più com’era fatta. Nella sua mente si composero flash di un aeroplano di legno che scendeva dal soffitto, appeso a un filo, poi pupazzi di peluches e la coperta con sopra l’Arcadia di Harlock.
Le sue memorie si fermavano così indietro nel passato? Quanti anni aveva avuto, Yuzo, allora?
Chissà adesso quanto era cambiata…
La mano s’avvicinò lentamente alla maniglia. Avrebbe dato solo un’occhiata veloce.
…ti odio…
L’eco sembrò rimbalzare fuori dalla sua testa fino ad assumere la consistenza di uno schiaffo che allontanò le dita. Per un attimo, gli parve di avvertire quel rifiuto, quell’invito a non entrare come se fosse stato lo stesso Yuzo a proferirlo.
L’espressione vacua sul viso di Baiko non cambiò. Abbassò lentamente la mano continuando a fissare l’uscio chiuso, serrato.
Tu non puoi passare(2).
E in fondo, non ne aveva proprio alcun diritto.
Fece un passo indietro e si volse, riprendendo a camminare per raggiungere le scale, il piano di sotto e rinchiudersi nel bagno dove, almeno l’acqua, avrebbe cercato di portare via il freddo mortale che sentiva dentro le ossa.

 

“Lines even more unclear /
Contorni sempre più sbiaditi,
I’m not sure I’m even here /
non sono nemmeno sicuro di essere qui.
The more I look, the more I think that I’m /
Più osservo, più penso che ciò che sono
start to disappear /
inizi a sparire.
[---]
Oh, crystal ball hear my song /
Oh, sfera di cristallo ascolta la mia canzone,
I’m fading out, everything I know is wrong /
sto svanendo, tutto quello che so è sbagliato
so put me where I belong /
allora portami nel luogo cui appartengo.

KeaneCrystal ball

 

Vivere di silenzi era molto strano.
Per una persona abituata alle parole continue, al rumore delle esplosioni durante le dimostrazioni dei nuovi articoli bellici, al telefono che squillava ogni momento, restare in silenzio per quasi ventiquattro ore era davvero, davvero strano.
Il suo mondo aveva subito un’implosione in cui ogni cosa si era come annientata, e ora aspettava l’esplosione della rinascita. Ma sapeva che ci sarebbero potuti volere anche mesi, forse anni. Un tempo infinito.
Da che era avvenuto l’incidente, Baiko non aveva spiccicato che pochissime parole con pochissime persone, contabili sulla punta delle dita, e si era circondato di vuoto e solitudine. La casa era rimasta muta, come se la paura dello sparo le avesse strappato via la voce. Nemmeno il telefono aveva più squillato.
Nel mentre che era rimasto seduto al tavolo della cucina, con le mani intrecciate sulla superficie, si era anche domandato quando avrebbe avuto il coraggio di chiamare sua madre per riferirle dell’accaduto. Il problema era che non sapeva come fare, che parole usare. Al solo tentare di formulare una specie di discorso, si dileguavano tutte. Evaporavano.
Così era rimasto a guardarsi le dita, aspettando l’avvicinarsi della sera senza pensare a nulla. Quando era giunto il momento di uscire, s’era fermato davanti alla porta dello studio. Gli occhi erano caduti sulla chiazza di sangue ormai rappresa sul pavimento, sulle impronte che l’avevano sparsa e allargata a dismisura. Era lo stesso che aveva visto sporcare gli abiti dell’amico di suo figlio.
S’era appoggiato contro lo stipite della porta e aveva ringraziato che almeno ci fosse stato quel ciocco di legno a sorreggerlo perché per un attimo si era sentito prosciugare di ogni forza. Quelle erano cose che un padre non dovrebbe mai vedere.
Un brivido lo aveva riscorso e, lentamente, aveva chiuso la porta. Sapeva che non sarebbe bastato quel gesto a nascondere e relegare ciò che era accaduto in un angolo isolato della realtà, ma che ogni sua conseguenza avrebbe aleggiato attorno a lui in ogni istante; la macchia di sangue sarebbe sempre rimasta impressionata nei suoi occhi.
Con la stessa lentezza, perché il suo mondo girava a rallentatore, ormai, era uscito di casa e si era diretto all’ospedale. Aveva preso la macchina, ma aveva mantenuto l’acceleratore fisso sui quaranta.
La velocità, il dinamismo erano concetti legati al ‘vivere’, ma lui non si sentiva davvero un essere vivente; la sua condizione mentale era ancora morta.
Nei pressi dell’ospedale aveva parcheggiato e percorso a piedi l’ultimo tratto.
Un gruppo di ragazzi gli era passato accanto, nel senso contrario al suo. Quello più grosso di tutti aveva cercato di rassicurare una ragazza con i capelli corti che continuava a piangere e tirare su col naso. Tra loro, per un attimo, gli era sembrato di scorgere sia il ragazzo con i capelli ricci che quello con i denti sporgenti, ma non ne era stato sicuro. Solo quando aveva ripreso a guardare avanti a sé e aveva visto Mamoru si era convinto che, sì, quelli erano amici di Yuzo.
Mamoru si era mantenuto un po’ più distante dagli altri, fissando l’asfalto. Nel momento in cui erano passati l’uno di fianco all’altro, il giovane aveva sollevato lo sguardo, incrociando proprio il suo. Baiko l’aveva visto sussultare per un momento, forse spiazzato da chissà quale sentimento contrastante – aveva ipotizzato che anche il ragazzo lo detestasse –, e poi aveva accennato un rigido movimento del capo, in segno di saluto. Lui aveva risposto con un gesto similare.
Era poi entrato nell’ospedale, aveva raggiunto il quarto piano e si era fermato davanti al vetro che affacciava nella stanza. Lungo le scale aveva incrociato Kyoshi che gli aveva sorriso, dicendogli che Haruko era andata a casa proprio poco prima. Lui si era appuntato di tornare sempre a quell’ora.
Adesso, Baiko restava seduto in una delle rigide sedie di plastica che si trovavano nella piccola saletta, fuori alla camera del figlio.
Era rimasto a guardarlo per un tempo indefinito, attraverso i vetri, ma non era entrato. Un po’ perché non ne aveva avuto il coraggio, un po’ perché l’odore di ‘ospedale’ gli faceva venire l’ansia e un po’ perché… non avrebbe saputo cosa fare: che cambiava restare fuori o dentro? Tanto avrebbe solo potuto osservarlo, senza poter fare – o anche ‘riuscire a fare’ – niente.
Le bende bianche coprivano buona parte della testa. Era ancora intubato, ma Kyoshi gli aveva detto che glielo avrebbero tolto il giorno dopo, poiché perfettamente in grado di respirare autonomamente. Le ventiquattro ore che potevano essere considerate critiche in seguito a un simile intervento erano passate e le sue condizioni fisiche erano più che buone.
Però continuava a dormire.
E per quello nessuno dei luminari dell’ospedale era in grado di poter fare nulla.
Baiko seguitava a fissare il profilo di suo figlio, che riusciva comunque a scorgere anche da quella posizione seduta. C’erano dei fili, flebo, attaccati al corpo e al braccio. Si diramavano da sotto alle lenzuola come la bava di ragno che tesseva una tela. Nutrimento, monitoraggio cardiaco.
Yuzo dormiva e non si accorgeva di nulla.
Lui era sveglio e avvertiva il dolore di tutti.
Baiko pensò che alla fine, non importava quando, la vita sapeva sempre come presentarti il conto per le azioni sbagliate. Quello era il suo, da pagare giornalmente, in rate salatissime.
Quando aveva raggiunto la stanza e i suoi occhi si erano posati sulla figura inerme, gli era sembrato di non vederlo da un secolo ed era rimasto a fissarlo con un’espressione che aveva lentamente abbandonato la vacuità mantenuta fino a quel momento. Aveva aggrottato le sopracciglia e schiuso leggermente le labbra, quasi si fosse aspettato che Yuzo avesse potuto parlare da un momento all’altro, girarsi nella sua direzione e guardarlo. Invece non si era mosso nemmeno di un millimetro, sprofondato in un sonno che lo stava tenendo chissà quanto lontano dalla loro realtà.
Un bambino.
No, non un ragazzino, ma proprio un bambino.
In quel momento, lo aveva visto così indifeso che gli era parso davvero di vedere un bambino chiuso nel corpo di un uomo. Perché era un uomo, suo figlio, e questo non aveva più potuto ignorarlo; la sua fisicità alta e solida glielo stava dicendo già da anni, ma lui aveva sempre avuto un pessimo rapporto con i cambiamenti. Soprattutto quelli che non poteva controllare e avvenivano in maniera diversa dalle sue previsioni.
Non riuscendo ad affrontare le sue emozioni in maniera logica e razionale, Baiko aveva distolto lo sguardo e si era seduto.
E non si era più mosso.
La schiena appoggiata alla spalliera, le mani ferme sulle ginocchia. Sembrava quasi dovesse parlare con il Ministro della Difesa in merito alla nuova fornitura di munizioni per la polizia. Anzi, nemmeno con lui era più così formale e rigido.
Il problema era che non sapeva davvero cosa fare, non era stato educato per simili situazioni, non aveva norme o regole cui appellarsi, etichette.
«Il miglior pensiero in queste situazioni è credere che, almeno loro, non stiano soffrendo.»
Quella voce improvvisa gli fece rendere conto di non essere più da solo.
Baiko inquadrò la bassa figura di un uomo che gli dava le spalle e fissava oltre il vetro. Fino a quel momento non era passato nessuno, ma non si sentì infastidito né che il suo spazio venisse violato da una presenza esterna che non conosceva.
«Già» si limitò a rispondere.
«Magari sognano una meravigliosa spiaggia caraibica, oppure una realtà in cui non esistono problemi e tutto va come dovrebbe andare.»
Non lo vedeva in viso, ma gli parve che lo sconosciuto stesse sorridendo. Incredibilmente, venne da sorridere anche a lui provando a figurare un eventuale sogno di Yuzo: una famiglia felice, con un'altra persona al suo posto nel ruolo di padre. L’accenno di sorriso era amaro e affranto al contempo.
«Si spiegherebbe perché non vogliano più svegliarsi» Baiko continuò a osservare l’uomo in pantaloni chiari e polo arancione.
Fu allora che il nuovo arrivato si volse.
«Sì, sì. Proprio così» rise affabile, mostrando a Baiko un viso squadrato con gli occhialetti sul naso e la calvizie incipiente. Sembrava il nonno di una pubblicità di merendine, quello con cui ti metteresti a giocare a shogi sotto al porticato e ad ascoltare racconti sulla Seconda Guerra Mondiale.
«Perché non è dentro a fargli compagnia? Potrebbe parlare con lui. Dicono che riescano a sentire quello che accade loro intorno. O forse non vuole disturbare il suo sogno felice?»
L’educazione verso le persone più anziane gli aveva sempre detto che non si rispondeva mai a una domanda con un’altra domanda, ma quella gli venne del tutto spontanea. Lui non era un tipo molto fisionomista, ma… quell’uomo non l’aveva davvero mai visto.
«Mi perdoni… lei conosce mio figlio?»
Lo sconosciuto non si offese, ma continuò a sorridere con benevolenza. A passo lento e mani dietro la schiena gli si avvicinò.
«Sì e conosco anche lei, signor Morisaki, anche se non di persona. A dire il vero, Yuzo è convinto ch’io sia un semplice agente.» Si sedette lentamente, tirando un po’ su i pantaloni sulle ginocchia. Con cortesia gli porse il biglietto da visita. «Sono Ukyo Tamura, il Presidente della Shimuzu S-Pulse. Abbiamo parlato al telefono.»
«Oh.» In quel momento, Baiko parve prendere contatto con il resto della realtà che aveva inavvertitamente rimosso dalle sue priorità. «Oh! Avevamo appuntamento quest’oggi per la rescissione del contratto… non ho nemmeno incaricato qualcuno di farle una telefonata, mi dispiace-»
«E’ a me che dispiace, signor Morisaki. Alla sua azienda avevano detto che aveva avuto un contrattempo riguardante la salute di suo figlio. Mi ero preoccupato ed ero venuto a sincerarmi delle condizioni del giovane Yuzo. Ho saputo quello che è successo da un suo vicino.» Il sorriso non c’era più, sostituito da un’espressione di profondo quanto sincero rammarico. «Sono io a doverle dire che mi dispiace.»
Baiko sostenne per pochi momenti il suo sguardo, prima di distogliere il proprio, ferito da una sorta di senso di colpa verso l’uomo che gli era accanto. Era stato pessimo nei suoi confronti, veramente odioso, cinico e arrogante. Quando aveva telefonato alla Shimizu S-Pulse, pretendendo di parlare con il presidente, aveva messo in mostra tutta la presunzione di cui era stato capace, facendosi guidare dal suo orgoglio ferito proprio da quel figlio che ora rischiava di non parlargli mai più. Nonostante il comportamento disdicevole, quello stesso presidente si era preso la briga di venire di persona per vedere come stava Yuzo.
Dio, che vergogna.
«A volte, i figli agiscono in determinate maniere proprio perché sono figli e non genitori. E noi, proprio in virtù del fatto di essere genitori, non li capiamo.» Ukyo Tamura aveva ripreso la parola, attirandosi nuovamente il suo sguardo. Lo osservò fissare di fronte a sé, attraverso la lastra di vetro così sottile eppure invalicabile. «Ma io ho sempre pensato che c’è un modo per venirsi incontro, basta solo trovarlo.»
Ne parlava come se sapesse quanto difficile potesse essere il ruolo di padre, perché non tutto andava sempre liscio secondo progetti stabiliti; il treno poteva deragliare in qualunque momento.
«Lei ha figli?»
«Tre e con il più grande non avevamo un rapporto idilliaco. I figli sono i ribelli del futuro, proprio come noi lo siamo stati ai nostri tempi.» Ne parlava al passato e Baiko avvertì un brivido corrergli per tutta la spina dorsale. «Aveva ventisei anni quando è morto. E’ stato per lui che ho deciso di fondare la S-Pulse. Giocava, sa? E aveva sempre desiderato che la città in cui era nato potesse avere una squadra tutta sua in grado di competere con le grandi della J-League.» Con una serenità che lui non credeva sarebbe mai riuscito a eguagliare, nemmeno pallidamente, il presidente gli rivolse lo , circondato da rughe, e il sorriso saggio. «La S-Pulse è stato il modo in cui noi siamo riusciti a venirci incontro. Anche se solo con lo spirito.»
Lui non aveva mai nemmeno tentato di ‘andare incontro’ a Yuzo per cercare di capire quali fossero le sue esigenze, i suoi pensieri e, sì, anche le sue preoccupazioni e paure, perché tanto sapeva cosa passava per la testa di un ‘figlio’; era stato figlio a sua volta molto tempo prima. La loro era una vita facile, se paragonata a quella di un genitore, perché tanto era già tutto stabilito: Yuzo avrebbe finito gli studi, si sarebbe laureato e avrebbe preso il suo posto. Era quello il meglio per lui, era quello ciò di cui un genitore si sarebbe dovuto occupare. Ma pensando con la testa del ‘genitore’, aveva finito col dimenticare cosa significasse davvero essere un ‘figlio’.
Le bolle di sapone, in cui i pensieri di Baiko si erano rinchiusi dal giorno prima, in isolamento, continuarono a esplodere con leggeri ‘puff’, recuperando la giusta locazione e mettendo in moto i vari ingranaggi, alcuni così antichi che aveva finito col dimenticare. L’astronauta solitario che saltava a gravità zero nella sua scatola cranica era atterrato sulla Luna e lasciava le prime impronte. E tra la polvere che si sollevava in quello zampettare gli parve di scorgere, per un tempo brevissimo, un vecchio tavolo da disegno, dischi in vinile e una palla da baseball.
Baiko ricacciò indietro un formicolio sconosciuto che aveva preso a corrergli alla base del collo e dietro l’apparente vacuità dell’espressione. Era forse il principio di una reazione?
«E di cosa dovrei parlargli?» chiese, cercando ancora delle regole, delle indicazioni, un protocollo da seguire. Il sorriso del signor Tamura, la sua espressione benevola, gli parvero le pagine d’un manuale d’emergenza.
«Di tutto. Tutto quello che avrebbe voluto, tutto quello che pensa. Anche mio figlio è rimasto in coma per un lungo tempo e credo di non aver mai parlato tanto con lui come in quei mesi. Lo prenda come una prova generale, un allenamento.»
«Allenamento?»
«Per quando si sveglierà: perché poi, quelle stesse cose, dovrà dirgliele di persona. Non si deve mai aver paura di parlare con i propri figli, altrimenti si finisce col non saper parlare più nemmeno a sé stessi. E se non ci parliamo, non ci ascoltiamo, non ci conosciamo… quanto possiamo sperare di conoscere loro?»
Baiko aveva smesso di parlare con sé stesso da talmente tanto tempo che non sapeva più se lo avesse mai fatto o meno. Quello scavare dentro il proprio ‘io’ per vedere cosa nascondesse, quel dialogare come vecchi amici e chiedere consigli era un qualcosa che lui aveva rimosso in maniera sistematica. ‘Cosa dovrei fare?’ non ricordava di esserselo mai domandato perché tanto la sua strada era già stata stabilita da un’altra persona. E quella persona era suo padre.
Gelò.
Non voleva credere di aver dimenticato o addirittura ignorato sé stesso per tutto questo tempo.
E suo figlio… suo figlio era riuscito a conoscere il proprio ‘io’?
«E se… non si dovesse svegliare?»
Il panico improvviso venne celato con abilità dal suo autocontrollo. Ancora gli obbediva, ma non sapeva per quanto.
«Lei cosa pensa?»
«Che le possibilità sono al cinquanta per cento.»
Ukyo rise. «Questo secondo l’essere uomo, ma il suo essere padre che le dice?»
Diceva troppo, forse. Le parole erano quasi incomprensibili e nascoste dal silenzio imperturbabile che l’essere uomo imponeva come dittatore su tutta la sua persona.
Baiko cercò, scavò, creò un misero spiraglio nelle bolle di sapone. Una esplose la risposta.
«Che vorrei avere una seconda possibilità…»
«Allora agisca come se questa occasione dovesse arrivare già domani e cominci a parlargli, adesso.» Il presidente della S-Pulse si alzò lentamente, portandosi le mani dietro la schiena. «Non è mai troppo tardi» concluse avvicinandosi al vetro.
Baiko si alzò a sua volta, affrettandosi ad aggiungere, come si confaceva a un uomo d’affari come lui: «Allora mi metterò in contatto con lei al più presto per provvedere alla rescissione del contratto. Mi dispiace di essere stato scortese, al telefono-»
«E’ ancora convinto di volerlo rescindere?»
La domanda di Tamura lo lasciò, se non sgomento, profondamente sorpreso. Sul suo viso, Baiko non lesse alcuna incertezza; lo sguardo rassicurante e affettuoso era sempre lì, assieme al sorriso comprensivo.
«Beh, ma… ma mio figlio… lui è-» guardò prima l’uomo, poi il corpo di Yuzo e ancora il presidente della S-Pulse la cui calma non mutò.
«Io non ho fretta, signor Morisaki: ho speranza» e, dicendo questo, puntò lo sguardo al vetro.
Lui continuò a non comprendere. Quei meccanismi così poco lineari gli affaticavano i pensieri e non riusciva a seguirli. Lo facevano sentire stupido e incapace. Baiko aggrottò le sopracciglia.
«Perché?», domandò disorientato, «Perché tiene tanto a mio figlio?»
Ukyo Tamura sospirò, sistemandosi gli occhialetti sul naso. Tornò a rivolgergli quegli occhi che l’avanzare del tempo faceva sembrare più piccoli, ma sempre ridenti.
«Perché, in tutti questi anni, ho imparato a sentirmi un po’ come un padre per ciascuno dei miei ragazzi e anche se Yuzo ha firmato il contratto solo pochi giorni fa, è come se facesse da sempre parte della grande famiglia della Shimizu S-Pulse
Baiko non rispose, ma quel termine lo colpì, afferrandogli il petto e torcendolo adagio. Famiglia.
La grande famiglia della Shimizu S-Pulse.
Era forse per questo che Yuzo aveva scelto di giocare per quella squadra?
«Ci pensi bene, signor Morisaki, ci pensi bene. C’è ancora tempo» e, dicendo questo, accennò un saluto cordiale e se ne andò, lasciandolo nuovamente da solo.
Parlare.
Baiko se lo ripeté come un mantra tentando ancora di scrutare quella piccola schiena un po’ curva per trovare altre indicazioni. Ma Ukyo gli aveva detto tutto quello che era necessario, in quel momento, e lui avrebbe dovuto farselo bastare.
Parlare.
Si girò, lentamente, gli occhi trovarono suo figlio; continuazione di una minuscola parte di sé, nel futuro, che al momento restava immobile, cristallizzata nel tempo.
Parlare.
Quando era stata l’ultima volta che avevano parlato, loro due? O forse c’era da chiedersi se l’avessero mai fatto davvero. Magari Yuzo c’aveva provato e lui si era rifiutato di ascoltare perché avevano pensieri differenti e differenti modi di vedere le cose. Alla fine, per quanto ci girasse attorno, si arrivava sempre alla stessa conclusione: la colpa di tutto era sua.
Ma era davvero in tempo per rimediare, come gli aveva detto il signor Tamura?
Baiko scivolò piano oltre la porta. Il contatto gelido con il metallo della maniglia gli aveva seccato la gola per un attimo.
All’interno c’erano rumori.
Vista dall’esterno, quella stanza gli era sempre sembrata un po’ come una bara di vetro, un luogo perfettamente silenzioso dove nulla avrebbe mai dovuto disturbare il sonno di suo figlio. E invece, ora scopriva che non era così, che c’era vita lì dentro. La macchina del respiratore, l’apparecchio che monitorava il battito cardiaco. Baiko fissò quello strano concerto di ‘beep’ seguendo la linea verde e le sue pieghe che interrompevano periodicamente il tracciato dritto.
Suo figlio era vivo.
Paradossalmente, fu quello a farglielo realizzare: vedere il segno del cuore che batteva. Poi aveva spostato lo sguardo al petto, per scorgere il lento movimento prodotto dal respiro: s’alzava e si abbassava.
Ingoiò a vuoto e avanzò.
L’odore di ospedale era soffocante.
Baiko si fermò a nemmeno un passo di distanza e rimase ritto, accanto al letto, osservando la figura del giovane dall’alto.
Non ricordava più l’ultima volta che erano stati così vicini. Forse il giorno dell’incidente? No, anche allora, come sempre, erano stati distanti; pochi passi, che erano divenuti incolmabili. E adesso che era lì e non riusciva a scorgere i suoi occhi percepì che quella distanza stava divenendo ancora più profonda ed enorme, ma lui… lui poteva… almeno provare…
Parlare.
…sì, parlare… e dire… dire…
«Ciao, Yuzo… sono papà.»

 

“I’m sorry for your pain /
Mi dispiace per il tuo dolore,
I’m sorry for your tears /
mi dispiace per le tue lacrime,
for all the little things I didn’t know /
per tutte le piccole cose che non sapevo,
I’m sorry for the words I didn’t say /
mi dispiace per le parole che non ho detto.

Tommy ReeveI’m sorry

 


[1]: il significato di ‘Mamoru’ è ‘protezione’. In questo caso, il suo nome è visto come ‘profetico’ perché la creatura che fa compagnia a Yuzo in qualche modo ‘protegge’ le persone che incontra.

[2]: XD questo mi sa che Rubysage lo indovinerà senza bisogno di nota!!! E’ una frase tratta dal film “Il Signore degli Anelli” (ammetto di non sapere se c’è anche nel libro perché non l’ho mai letto! Non me ne voglia la Rubyyyy! \O/) XDDDD Avete presente Gandalf vs Balrog?! Ecco XD. In questo caso il Balrog è Baiko! *rotola via* Beh, per un momento ‘epico’, ci voleva una frase altrettanto ‘epica’ XDDD. Non ho scusanti? Ok, non ne ho! *clicca qui per vedere il duello Gandalf vs Balrog*


 

Le canzoni del capitolo:

- Fireflies (Owl City): ammetto che questa canzone non la conoscevo affatto ed è stata davvero una piacevolissima scoperta *_*. Tra l’altro, ho scoperto almeno un altro paio di canzoni di questo cantante che mi sono davvero piaciute, quindi, direi che è stata proprio provvidenziale!
L’ho trovata mentre scrivevo il capitolo. Volevo qualcosa che parlasse di lucciole ed eccomi servita (XD no, ‘noi siam come le lucciole’ non andava per niente bene!), gran botta di culo che tutto il testo ci stesse a meraviglia.
Vi consiglio troppissimo di guardare il video che NON è quello ufficiale, ma merita MOLTO, MOLTO di più! *___* io l’ho trovato bellissimo e spuccio! ** (in particolare dal minuto 1:50 a 2:00. *w*)

- Crystal ball (Keane): questa canzone è stata aggiunta in corsa, prima non c’era. XD Me ne sono ricordata mentre leggevo il capitolo e… XD ahò, mi sono accorta che stava parlando di Baiko.
Vi avverto che quel video mi ha sempre messo talmente tanta tristezza addosso che mi sono sempre, e dico sempre, rifiutata di guardarlo. °_°
Non so, mi verrebbe voglia di entrare nel video per andare ad aiutare il protagonista ç_ç (che è il bravissimo Giovanni Ribisi, tra parentesi!). Verificate anche voi e ditemi se non vi verrebbe la stessa, identica voglia che viene a me! ç_ç

- I’m sorry (Tommy Reeve): anche questa è stata aggiunta all’ultimo momento, sostituendone un’altra che verrà inserita più avanti.
Come per “Fireflies” non la conoscevo, e ammetto che è impossibile trovare una canzone in cui si parli del ‘chiedere scusa’ senza riferimenti all’ammmmmmmore (lei chiede perdono a lui o viceversa). Ovviamente, questa non fa eccezione (XD e ti pare?), MA!, il video mi ha fatto restare così male alla fine che non ve lo immaginate. °_°
Ad ogni modo, il succo del discorso stava benissimo uguale e visto che la canzone mi piaceva (che bello scoprire canzoni che non si conoscevano, yay!), ce l’ho messa. X3



Anche per questo capitolo è tutto, e io continuo a ringraziare le persone che seguono questa storia! :D

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Capitolo 5
*** Part V: The Sand, the Waves, the Sphere ***


Documento senza titolo

Nota Iniziale: Terrence Malick ha vinto la Palma D'oro a Cannes, quest'anno.
Ammetto di essere arrivata tardi a scoprirlo, partendo direttamente da "The Thin Red Line". Dio solo sa quanto amo quel film e quanto ho pianto.
Quest'anno, Malick ha presentato un film basato... sul rapporto padre/figlio. Io non sapevo che stesse lavorando a una nuova sceneggiatura, l'ho scoperto tipo la settimana scorsa, c'era un articolo sul Venerdì di Repubblica. Ho letto un po' di trama e, cazzo!, ci sono delle cose di cui ho parlato anche io. Mi sono emozionata come una cogliona.
Oggi ho visto il trailer - anzi, per la precisione sono le 0:56 del 6 giugno, ora in cui scrivo questa nota - e sento già di amare questo film. Ho percepito la stessa atmosfera che si respira in "The Thin Red Line".
Spero di poterlo vedere presto. So già che piangerò come una fontana.
Ve l'ho detto perché Malick è poesia formato cinema. E io ve lo consiglio. :3
(e poi perché la cosa che lui ha vinto la Palma d'Oro proprio con questo film mi ha fatto troppo stellinare, ecco! XD)



Il lungo sonno della Lucciola
- Part V: The Sand, the Waves, the Sphere -

 

“Fammi entrare nei pensieri per guardare
ogni istante fino a stare male.
Perdermi nei dubbi e nelle tue paure,
per ritrovarci ancora a stare bene insieme.”

 

Era stato terribile.
Terribile.
Baiko non aveva pensato che potesse succedere qualcosa di simile, non l’aveva messo in conto. Ma quante cose, erroneamente, non aveva mai messo in conto e poi gli si erano presentate urlando a gran voce la loro esistenza?
Era stata un’esperienza massacrante, tanto che era uscito dalla stanza arretrando, un passo alla volta, sul viso un’espressione sgomenta, e una volta fuori era fuggito dall’ospedale, emergendo finalmente all’esterno. Aveva respirato a pieni polmoni per un paio di minuti tentando di sedare quello che gli era sembrato il principio di un attacco di panico. Poi, calmatosi, si era diretto alla macchina, si era seduto al lato passeggero e lì era rimasto a rendersi conto dell’ennesima verità: lui non conosceva niente di suo figlio.
All’inizio, quando aveva cominciato a parlargli, sembrava stesse andando tutto bene. Aveva cercato di rompere il suo senso di impotenza raccontandogli semplici banalità, cose di tutti i giorni. Non aveva nemmeno per un istante preso in considerazione di esporgli i suoi pensieri su quanto accaduto, aveva sentito che era troppo presto. Ma dopo i discorsi futili, poche parole tirate via quasi in un elenco monocorde, quando aveva tentato di provare a ricordargli qualcosa che gli piaceva… era rimasto in silenzio.
«Ti ricordi di quando… di quando…» l’aveva ripetuto tre volte, aveva tentato di far affiorare alla mente cose fatte insieme, attimi che avevano condiviso che non fossero solamente i litigi e i rimproveri. Ma la sua mente si era trovata davanti una distesa bianca, infinita, senza forma. Nella sua testa aveva realizzato in maniera brusca e totalizzante di non sapere nulla di Yuzo. Non conosceva i suoi sogni, le sue aspirazioni, non conosceva i suoi gusti, non sapeva che musica ascoltava, che abiti gli piaceva indossare. Non sapeva se avesse o meno una ragazza, non sapeva che materia scolastica preferiva, non… non ricordava alcun momento in cui erano stati felici, non ricordava alcun momento in cui avevano riso insieme, in cui si erano davvero sentiti, indissolubilmente, padre e figlio. Non ricordava nulla. Lui, che aveva contribuito a metterlo al mondo.
Col silenzio intrappolato nella bocca aperta era rimasto a guardare Yuzo con gli occhi spalancati, terrorizzati. Poi era fuggito chiudendosi nell’auto dove continuava a restare immobile, fissando il volante.
Il tramonto, ormai, aveva già ceduto il passo alla sera.
Allora era davvero troppo tardi per lui? Per loro?
Baiko se lo domandò ma nessuno gli rispose e lui seguitò a rimanere come ipnotizzato da ciò che aveva davanti pur senza vederlo.
Come aveva potuto allontanarsi così tanto da non rendersi conto di essere divenuto un estraneo per Yuzo e Yuzo per lui? Come aveva potuto farsi distrarre così tanto dal suo lavoro senza capire cosa stava perdendo?
Come aveva potuto essere così… così… egoista?
E Yuzo?
Si era sentito solo senza un padre vicino che gli desse quel supporto necessario a un ragazzo tanto giovane, nel pieno della crescita?
Ormai era adulto e Baiko aveva perso il treno per vivere con lui e attraverso di lui una seconda giovinezza.
Si passò una mano sul viso, decidendosi a mettere in moto per tornare a casa.
Lungo la strada mantenne lo sguardo fisso in avanti, alle altre vetture, e la sua espressione sembrava intrappolata nella carne perché non subì nemmeno la variazione più piccola. Era fatto di cera. Vedeva la vita degli altri scivolare via e restava immobile, dimentico che anche la sua vita stava scivolando e così quella di Yuzo e in tutto questo tempo le loro vite si erano sempre voltate le spalle.
Parcheggiò nel vialetto di casa e scese, muovendosi in maniera automatica. Chiuse il cancello e si accertò di averlo fatto, non come il giorno prima. Entrò in casa e verificò che togliesse davvero le chiavi dalla toppa. Ricercava certezze microscopiche in gesti futili, ma l’attimo dopo li aveva già dimenticati ritrovandosi punto e capo.
Baiko si guardò attorno, fermo sulla soglia. Osservò, nella semioscurità della casa silenziosa, le forme dei mobili, le pareti, il soffitto, il pavimento. Ruotò gli occhi e la testa captando il luogo in cui aveva vissuto da quando si era sposato. Lo guardò e si rese conto d’essere un estraneo anche lì, non solo nel proprio corpo.
«Che ci faccio io qui?» si domandò, masticando le parole tra le labbra.
Di quella casa non conosceva nulla, in fin dei conti. Non sapeva come si azionasse la lavatrice, non sapeva come Haruko ripartisse il cibo nei ripiani della cucina o dove tenesse gli asciugamani, non sapeva cosa contenesse il ripostiglio. Ci aveva vissuto, ma era come se fosse stato ospite di un albergo per più di vent’anni. Però forse c’era un posto che conosceva a menadito, ed era il suo studio, l’antro dell’orco. Paradossalmente, ora che ci pensava, era anche quello in cui gli altri non entravano mai, quasi non facesse parte della casa. Di tutto il resto, Baiko aveva sprazzi di ricordi. Come della camera di Yuzo.
Adagio sollevò gli occhi alla scala, raggiungendola prima col corpo, mentre la mente faticava ancora a realizzare in tempo i pensieri. Per lui, adesso, le azioni precedevano i ragionamenti.
Salì gli scalini con la stessa lentezza. Una volta sul pianerottolo, si ricordò d’essersi nuovamente dimenticato di togliere le scarpe e così le lasciò proprio lì. Avrebbe recuperato in seguito le ciabatte.
Il suo corpo raggiunse la porta, la stessa che, al mattino, non aveva avuto il coraggio di aprire. Guardò la maniglia, con le mani abbandonate lungo il fianco. Sul momento nemmeno tentò di sollevarne una, temendo che venisse nuovamente scacciata via da quella sensazione che l’aveva già frenato una volta e, a dire il vero, ancora non capiva perché si trovasse un’altra volta lì davanti. Cosa sperava di risolvere? La realtà esistente tra lui e Yuzo non sarebbe cambiata di improvviso solo perché avrebbe varcato una stupida soglia.
…ma quella soglia lo separava dall’ultima briciola di certezza che gli era rimasta di loro due e del loro rapporto. Quella soglia lo separava da quel ricordo sfocato, dall’aeroplano di legno, dalla coperta di Harlock, dal pupazzo di peluche. E lui aveva bisogno di quel frammento di passato per sentirsi ancora parte del presente.
Afferrò la maniglia e già solo il fatto di esserci riuscito gli fece rilasciare un tentennante respiro. La abbassò fino in fondo e poi spinse. La porta si aprì. Il fiato rilasciato venne risucchiato nuovamente nei polmoni e lì si rifugiò, senza avere intenzione di uscire.
Baiko aggrottò le sopracciglia mentre la bocca assumeva una piega verso il basso. Sezionò la camera pezzo per pezzo, e mentre i suoi occhi percorrevano il perimetro da cima a fondo, la testa veniva scossa meccanicamente da un lato e dall’altro.
Di tutto quello che aveva sperato di vedere non c’era più traccia, la stanza dell’unico ricordo che era riuscito a trattenere non esisteva più da chissà quanto tempo. Niente Harlock, niente peluches.
Fotografie, poster, medaglie e coppe in un angolo, libri ovunque, cd, un pallone.
Era la stanza di un diciannovenne non quella di un bambino.
Baiko si sentì spaesato, nel posto sbagliato. Aveva sbagliato porta o forse quello che avrebbe dovuto esserci dietro era cambiato nel tempo in cui si era girato dall’altro lato e non se n’era accorto.
Con passo malfermo avanzò fino a fermarsi al centro della camera e girò su sé stesso come una trottola, guardandosi attorno, cercando ovunque quell’appiglio, quel legame col passato e rifiutandosi di credere di vederlo infranto per sempre.
Quello che aveva detto Tamura non aveva senso nel loro caso?
Possibile che non avessero più tempo? Che lui non avesse una seconda possibilità?
E mentre si poneva tutte quelle domande, seguitava a girare in tondo. I volti sconosciuti delle foto si fondevano e mescolavano agli altri oggetti. Univano i colori, le forme e divenivano ancora più estranei. Lui non riusciva a trovare nulla di familiare in niente, neppure nelle cose che avrebbero dovuto essergli note, come il mobilio.
Aveva davvero perso tutto?
D’un tratto, tra la marea di foto e poster, carpì due ali di legno. Pendevano dal muro.
Baiko si fermò e mentre la stanza continuava a girare attorno a lui, l’ennesima bolla di sapone si ruppe lasciando un ricordo libero di rimbalzare nel cranio.

«Papà, nonno Shuzo mi insegnerà a costruire un aereo di legno!»
«Ma davvero? Allora ascoltalo con attenzione, mi raccomando.»

E quell’aeroplano era proprio lì, adesso, davanti ai suoi occhi. L’uscita dal labirinto era un porticina piccola piccola, ma esisteva ancora.
Con lo stesso passo traballante si avvicinò al giocattolo, lo sfiorò adagio, togliendo via un sottile velo di polvere. Poi lo prese con tutte e due le mani e lo sollevò per guardarlo da ogni angolazione possibile come se avesse potuto rivelargli storie passate di viaggi antichi, in giro per il mondo. Avvertì il viso deformarsi in una smorfia strana. Forse stava sorridendo, ma non avrebbe saputo dirlo con esattezza perché non se ne interessò. In quel momento, riconobbe qualcos’altro e si stupì di non averlo notato subito, appena entrato. Riconobbe un profumo, una colonia che non era la sua. Era quella di Yuzo, era l’odore che, col tempo, si finiva per associare a una persona. Di suo figlio non gli era rimasto che quello, la sensazione d’un profumo. Il suo odore.
Con un respiro più lungo si strinse l’aereo al petto per impedirgli di volare via e si guardò nuovamente intorno. Nonostante avesse trovato un appiglio per sentirsi almeno in misera parte legato al presente, la situazione non era cambiata; gli altri oggetti non gli risultarono di colpo familiari o eco di conoscenza venuta a galla come olio. L’espressione nuova che aveva un po’ variato la sua staticità facciale si era già dissolta, lasciandone una più affranta.
«Cosa siamo stati per tutto questo tempo? Chi siamo stati? Con chi abbiamo parlato? E di cosa?... Perché non l’abbiamo mai fatto tra noi?» Gli oggetti non sapevano rispondere con umane parole, così restarono muti. «Perché ci siamo voltati le spalle?»

 

“Finché sarò per te,
finché sarai per me,
finché il senso di noi resterà.
Ti penserò con me tutte le volte che
con il buio cadrà la notte.”

Marina ReiFammi entrare

 

§*§

 

“Suta al ventru de ogni barca e sura la cràpa de ogni sàss /
Sotto al ventre di ogni barca e sopra la testa di ogni sasso,
sura el rusàri de ogni memoria, ma sura de te resterà gnanca n’pàss /
sopra al rosario di ogni memoria, ma sopra di te non resterà neanche un passo.
Gnanca el suu che te früsta la schèna o la loena che pucia giò i pee /
Neanche il sole che ti frusta la schiena o la luna che si bagna i piedi,
gnanca la spada de ogni tempesta riüssiràn a lassàtt un disègn /
neanche la spada di ogni tempesta riusciranno a lasciarti un segno.

 

Il mare era una tavola infinita, trasparente come non l’aveva mai visto e restava azzurro anche sotto quel cielo dal colore indefinito e senza sole. Era meraviglioso.
L’acqua correva a lambire la sabbia in onde piccole e mormoranti; parlava una lingua preclusa agli uomini, piena di segreti.
Il paesaggio era cambiato in un istante. Lui e Mamoru avevano preso a camminare nell’erba folta. Aveva abbassato gli occhi per un momento e quando li aveva rialzati il mare era apparso alla fine del prato.
Stavano passeggiando da un po’ sulla riva. La sabbia morbida e umida scivolava sulla pelle dei piedi e sotto le piante, che sprofondavano appena. La notte s’era schiarita nel tempo d’un battito di ciglia e adesso poteva dire che fosse giorno, ma il cielo era così strano da essere alba e tramonto insieme; impossibile inquadrarlo.
- Ti piace il mare? -
Un largo sorriso distese le labbra di Yuzo, mentre si fermava puntando lo sguardo in direzione dell’acqua.
«Moltissimo. È uno dei miei luoghi preferiti. Adoro l’aria, l’odore…» Avanzò fino a che le prime, piccole creste delle onde non arrivarono a bagnargli i piedi. Erano tiepide e piacevoli. «…il rumore.» Si girò a guardare Mamoru. «L’acqua ha un bel suono, non credi?»
- Sì. E’ armonioso e rilassante. -
«Ha sempre così tanto da dire, parla con voce nuova ogni volta che tocca riva. Non smette mai.» Cincischiò nella sabbia satura, scavando con l’alluce. «Deve essere frustrante non ricevere risposta.»
- La sabbia ascolta. -
«Ma non aiuta a riempire il silenzio delle troppe parole. Non c’è scambio, è solo un prendere.» Scosse il capo. «E’ molto comodo.»
Mamoru non replicò, ma rimase a osservare la sua schiena. Avvertì la solitudine di chi aveva parlato a lungo con un muro altrettanto silenzioso e alla fine aveva smesso. Di tutto quello che aveva detto, utile o futile, sapeva che nulla era riuscito a riempire, seppur in piccola parte, quel vuoto.
«La prima volta che sono venuto al mare avevo tante di quelle domande che… umphf! Devo essere stato un bambino rompiscatole.»
- Quanti anni avevi? -
«Non facevo nemmeno le elementari.» Yuzo tornò indietro, salendo sulla riva separata dal bagnasciuga da un piccolo dislivello. Si sedette sulla sabbia morbida e anch’essa era tiepida. «Mi ci portò papà.» Si strinse nelle spalle smorzando il sorriso per dargli una sfumatura ironica. «Probabilmente nemmeno se lo ricorda.»
- Non puoi saperlo con certezza. - Mamoru si sedette accanto a lui con un leggero tonfo. - Stai continuando a prevenire i suoi pensieri. -
«Non li sto prevenendo. So per certo che le cose poco importanti le mette da parte. E visto che tutto ciò che non riguarda il suo lavoro è catalogato come ‘poco importante’, allora anche queste piccole cose sono finite nel dimenticatoio.» Abbassò il tono e lo sguardo. Immerse una mano nella sabbia, giocherellando. «Tanto a che servono.»
- Tu le ricordi. Hai memoria per due. -
Yuzo sorrise di nuovo. «Non come vorrei e me ne dispiace. Eravamo veramente felici, allora. Forse l’unico periodo della mia vita in cui eravamo uniti. E io ero troppo piccolo per poter ricordare tutto.»
Di quei momenti aveva sprazzi di risate che riecheggiavano in lontananza e si perdevano nel gorgogliare dell’acqua, aveva gambe lunghe dietro cui correre a nascondersi e braccia che lo afferravano al volo quando si allontanava troppo. Ma come cercava di focalizzare il viso da cui nasceva il suono di quelle risa, arrivava il sole ad abbagliare i ricordi e il volto felice di suo padre seguitava a rimanere un’incognita perduta.
«Ho finito per dimenticare qualcosa anch’io, lo sai?» Yuzo si volse tentando di trovare un risvolto ironico in tutto quello, ma la smorfia che fece uscì affranta. «Non ricordo più come sorride mio padre.»
- Non l’hai dimenticato, Yuzo. Ma solo sommerso con l’espressione che più spesso ti ha mostrato e che ha finito col divenire quella abituale. - Mamoru appoggiò le braccia sulle ginocchia, sporgendosi in avanti. - Questo non significa che tu abbia perduto il suo sorriso. Devi solo scavare per tirarlo fuori. -
«Forse non c’è motivo per darsi tanto da fare. Quel tempo non ci appartiene più, ormai.»
Yuzo sollevò la sabbia osservandola scivolare via dal palmo come da una clessidra, e i granelli che l’abbandonavano non potevano più tornare indietro. Un po’ come loro, dopotutto, e i momenti vissuti insieme.
«Quando venivano al mare, costruivamo ogni volta un castello diverso. È stato lui a insegnarmi come si fa. A costruire illusioni. In fondo, i sogni sono illusioni, no? E sono fatti di sabbia: nascono come qualcosa di semplice e poi si lasciano modellare dai nostri desideri. Crescono, diventano meravigliosi e infine…» Vide la mano affondare veloce tra i granelli. «…infine crollano, con una facilità pari alla difficoltà con cui li abbiamo costruiti. E quando si spezzano, i sogni hanno spigoli vivi, taglienti. Spesso uccidono nell’attimo stesso in cui diventano frammenti di mosaico senza più un disegno. Io non lo sapevo fino a quando non ho visto le mani sanguinare e li ho lasciati lì, abbandonati a loro stessi.»
- E fanno male? -
«Oh, sì. Tanto. Però, sai, Mamoru? Mi piace la sabbia: mi ricorda quello che siamo. Una moltitudine raccolta in un sol luogo, ogni granello è una persona e sono tutti così vicini che basta un niente per unirli… e altrettanto niente per dividerli, perché nei fatti ogni granello è solo, come l’uomo. E silenzioso, come l’uomo. Diceva Shakepeare che ‘gli uomini sono fatti della stessa sostanza dei sogni’. Aveva ragione. Siamo entrambi di sabbia.»
Yuzo sollevò i pugni pieni di rena aprendoli adagio affinché scivolassero via in un filo sottile, e in quel lento cadere, la brezza di mare li prese con sé, spargendoli di nuovo nel resto della spiaggia. Tornavano a essere parte di quel tutto diviso, composto da solitarie unità.
Sulle labbra, aveva il sorriso pieno di atavica meraviglia di chi era in grado di vedere attraverso l’astrattismo di un concetto, tanto da fargli avere una consistenza.
«L’acqua, invece… l’acqua è diversa. Qualsiasi cosa accada, troverà sempre una forma. Non importa cosa cercherà di spezzarla o mutarla, niente la farà cambiare. Né la sabbia né il vento.»
Mamoru lo osservò mentre s’alzava e raggiungeva il bagnasciuga dove il mare corse a lambirgli i piedi.
Yuzo si volse e negli occhi aveva la luminosità del sole infranto sulla superficie delle onde. «Io ho smesso di essere sabbia e allora perché non posso essere acqua?»
Non attese una risposta ma iniziò a camminare verso il mare mentre il livello saliva e le onde divoravano un nuovo pezzo a ogni passo.
Acqua, che era un immenso compatto dalle mille parole, ogni goccia unita all’altra in maniera inscindibile, lo avvolse come un abbraccio primordiale e materno, liquido amniotico e caldo, e quand’anche la sua testa scomparve sotto la superficie, Yuzo si sentì finalmente parte di quel qualcosa chiamabile ‘tutto’.

 

“Akuaduulza akuaduulza quanta akua impienìss questi oecc /
Acqua dolce, acqua dolce, quanta acqua riempie questi occhi
akua negra e senza culpa, akua santa senza resònn /
acqua nera e senza colpa, acqua santa senza ragione.
E passa un bàtell e passa un invernu, e passa una guèra, e passen i pèss, /
E passa un battello e passa un inverno, e passa una guerra, e passano i pesci,
passa el veent che te ròba el mantèll e passa la nèbia che sàra soe i stèll /
passa il vento che ti ruba il mantello e passa la nebbia che rinchiude le stelle.

Davide van de sfroos Akuaduulza

 

§*§

 

Per i successivi due giorni Baiko non ebbe il coraggio di entrare e quindi si limitò a osservare suo figlio dal vetro.
Era la prima volta in tutta la sua vita che si sentiva pessimo. Era sempre stato convinto della propria onestà e capacità di giudizio; aveva uno spiccato senso della responsabilità. Eppure si stava comportando da vigliacco e quel pensiero non riusciva ad abbandonare la sua testa, assieme alla smodata ricerca, nelle sinapsi ancora fredde, dei momenti passati con suo figlio, perché non era possibile che li avesse davvero dimenticati, che la frenesia del lavoro avesse coperto ogni cosa come una colata di cemento. No. Non lo avrebbe mai accettato. I ricordi erano lì, da qualche parte, doveva solo farli venire allo scoperto.
Ed era proprio a quello che stava pensando, seduto nella grande poltrona di pelle all’ultimo piano del palazzo della ‘Golden Gun’. Era il suo primo giorno di lavoro da che tutto era cominciato.
Baiko restava sprofondato nel rivestimento morbido, il gomito sul bracciolo e la mano a sollevare il mento. Faceva oscillare lentamente il girevole da una parte e dall’altra. All’altro capo della scrivania, suo nipote Shunsuke, vice presidente dell’azienda, parlava in merito alle esportazioni delle nove millimetri.
Lui non lo stava ascoltando.
Il cielo, in quella limpida giornata di Agosto, sembrava essere uno spettacolo ben più interessante ai suoi occhi, e in quell’azzurro così carico da sembrare ritoccato al computer volava un aeroplano di legno. «Presidente!»
Baikò sussultò all’improvviso perdendo la presa sulla penna che stava distrattamente rigirando tra le dita. La stilografica attraversò tutta la scrivania finendo nelle mani di Shunsuke.
Baiko guardò prima la penna e poi il nipote con espressione chiaramente smarrita.
«Eh? Scusa… ero distratto…»
Il giovane sospirò. Adagio sistemò nuovamente la penna sul tavolo.
«Questo lo avevo notato, è la terza volta che la chiamo» disse, incrociando le mani sulla superficie. «Non ha ascoltato nulla di quello che le ho detto, vero? Perché non torna a casa, Presidente?» Non c’era rimprovero nella sua proposta, ma sincera preoccupazione.
Baiko si passò una mano sugli occhi, scuotendo il capo. «No, sto bene. Davvero, sono solo un po’ pensieroso.»
Shunsuke abbandonò le formalità, tornando a essere solo suo nipote.
«E Yuzo come sta, zio Baiko?»
C’era un qualcosa di avvilente nel non avere una vera risposta da dare a una simile domanda. Baiko lo avvertiva, ma non poteva evitarlo.
«Come stava ieri. E l’altro ieri. Nessuna novità.»
«Capisco.»
«Senti, potresti riassumermi quanto detto finora? Prometto di stare più attento.» Tentò di cambiare discorso, incapace di affrontarne uno in cui non sapeva davvero cosa dire. Suo nipote sembrò comprendere e si rimise a sfogliare i documenti che aveva davanti.
«I report settimanali forniti della polizia indicano soddisfazione per la 2G9-Star. Secondo i sondaggi a campione sugli agenti, il loro miglior pregio è la maneggevolezza. Rapida da pulire e tenere efficiente. Migliorerebbero la precisione di tiro», ma subito si affrettò ad aggiungere: «I nostri ingegneri, ovviamente, ci stavano già lavorando. Dicono che per Novembre-Dicembre dovrebbero avere il progetto definitivo della nuova 2G9-Star2
Baiko annuì anche se mancava della sua usuale partecipazione. Non commentò oltre se non quel semplice: «Molto bene» quando di solito avrebbe trovato di che discutere, proporre. Ma Shunsuke l’aveva già capito che quello non era il solito presidente.
Il giovane gli passò i fogli che l’uomo prese adagio fingendo di leggerne il contenuto, ma il suo viso tradiva un’espressione distante e disinteressata.
Shunsuke continuò. «Tra cinque giorni ci sarà una riunione importante con i nostri maggiori compratori per presentare i prodotti che metteremo sul mercato a partire dal prossimo anno.»
Ancora un neutro: «Molto bene» seguito dal silenzio; nessuna direttiva a riguardo, nessuna nuova strategia.
«Vuole… che me ne occupi io?» propose il vice presidente con leggera titubanza. Solo allora Baiko sollevò nuovamente lo sguardo su di lui, ripassandogli quei fogli di cui non ricordava più una parola.
«Sì, te ne sarei grato.»
Shunsuke annuì, raccogliendo i documenti nella cartellina.
«E’ tutto?» domandò il presidente e l’altro annuì ancora.
«Sì, signore. Le farò trovare una relazione della prossima riunione sulla scrivania.»
Baiko accennò un sorriso al lato della bocca. «Grazie, Shunsuke. Stai facendo davvero un lavoro encomiabile. Puoi andare.»
«Grazie, signor Presidente», ma quando fu davanti alla porta, la soglia già aperta a metà, si girò un’ultima volta. «Mi dia retta, torni a casa e cerchi di riposare un po’.»
L’accenno di sorriso si dissolse nell’osservare l’uscio che veniva richiuso, lasciandolo completamente nel silenzio.
Andare a casa… per fare cosa?
Per quel luogo era un estraneo e l’unica stanza che sentiva come sua aveva il pavimento ancora sporco del sangue di suo figlio che non aveva il coraggio di vedere.
Andare già all’ospedale avrebbe significato incontrare Haruko ed era fuori discussione e allora dove avrebbe potuto rifugiarsi per non sentirsi totalmente inutile? Paradossalmente, solo lì, alla ‘Golden Gun’, la fonte dei suoi problemi.
Baiko girò la poltrona, fissaando, oltre la vetrata, il cielo di Shizuoka City.
O forse la ‘Golden Gun’ non era stata che il tramite e il mezzo attraverso cui i veri problemi erano venuti fuori?
Problemi come incomunicabilità, distanza, diversità. La ‘Golden Gun’ era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e quel vaso era Yuzo con la sua sopportazione.
Perché non poteva tornare tutto a quell’aeroplano di legno? A quando bastava così poco per capirsi ed essere uniti?
Un semplice gioco.
Era tutto così facile.
Gli occhi si chiusero lentamente e nell’immagine limpida del cielo, Baiko lasciò andare quel ricordo perduto per renderlo più nitido possibile.
A quell’epoca, Yuzo era un bambino cui bastava poco per essere felice e questo, si rese conto, non era cambiato nel tempo. Rivide suo figlio nel giardino della casa tradizionale, disteso con la pancia sul legno, le gambine che ciondolavano in aria e le mani a sorreggere il viso. Lo sguardo fisso a vedere un uomo che lavorava altro legno.
Anche lì c’era odore d’estate; lo percepì d’improvviso invadergli i polmoni.
Quella casa era la sua e quell’uomo era suo padre.
I ricordi racchiusi nelle bolle di sapone vennero liberati dando un nuovo collegamento ai suoi pensieri: l’aereo di legno, la sua vecchia casa.
Il mare.
Baiko aprì gli occhi di scatto all’immagine fluida delle onde e all’odore di salsedine che sembrava raggiungerlo all’ultimo piano di quell’edificio.
Il mare… vicino casa…
Il mare… che a Yuzo piaceva tanto…
In quel momento, Baiko capì di aver recuperato qualcosa di suo figlio, qualcosa che aveva sempre saputo ma solo dimenticato.
Era forse quello il senso delle parole del signor Tamura?
Di slancio abbandonò la poltrona che seguitò a oscillare per il movimento brusco. Prese la giacca e lasciò lo studio senza pensarci oltre; dopotutto un luogo in cui poteva andare ce l’aveva ancora e lo avrebbe raggiunto il prima possibile.

 

Ludovico EinaudiLe Onde (strumentale)

 

Uscire dal traffico di Shizuoka City non era stata un’impresa da poco, ma ora la strada si poteva dire quasi sgombra e il mare brillava d’azzurro e d’oro davanti a lui. Era sempre più vicino, eppure gli sembrava di non arrivare mai.
Baiko non aveva avuto problemi a uscire dall’azienda, in fondo ne era il presidente, non aveva bisogno di dare spiegazioni, però aveva lasciato un appunto per suo nipote: era già molto in pensiero, non gli era sembrato il caso di peggiorare la situazione. Aveva detto di riferire che sarebbe tornato a casa, ma non aveva specificato quale.
Finalmente la striscia blu divenne sconfinata, mentre Baiko guidava adagio l’Audi scura, seguendo il lungomare. C’erano molti posteggi liberi, ma lui ne cercava uno in particolare; l’aveva ricordato durante il tragitto per arrivare a Suruga-ku. Quando individuò il piccolo chiosco di gelati gli sembrò di tornare indietro nel tempo.

«Papà, cos’è quello?»
«E’ il mare.»
«Quello che la maestra ci fa vedere all’asilo? »
«Proprio lui.»
«Ooooh…»

Levò lo sguardo allo specchietto retrovisore e scorse un bambino con le mani e il viso premuti contro il finestrino. Aveva cinque anni e vedeva il mare, da vicino, per la prima volta.
Baiko parcheggiò proprio davanti al chiosco, come allora, e spense il motore.
Rimase immobile, le dita mollemente appoggiate al volante, a fissare l’oceano solo leggermente increspato. Il calore del sole che cominciava a calare, parallelo all’acqua, iniziò a riscaldare l’abitacolo.

«Andiamolo a vedere più vicino, dài!»

«Andiamo.»
Era tutto come allora. Poca gente sulla spiaggia che si andava svuotando. Baiko tolse la giacca con gesti automatici e lo sguardo non lasciava la distesa d’acqua, temendo quasi di perdere anche il flusso dei ricordi. Allentò la cravatta e scese dalla vettura. La brezza di mare portò l’inconfondibile odore di sale e cocco.
Infilò le mani nelle tasche e cominciò a camminare. Scese il piccolo marciapiede che separava la spiaggia dall’asfalto e i piedi affondarono nella sabbia, che si infilò dappertutto.

«Oh! La terra è strana! Sembra quella dei giardinetti!(1)»
«Questa è sabbia, Yuzo, ci si cammina senza scarpe.»

Baiko rimase a fissare le sue scarpe nere e lucide per alcuni momenti, prima di toglierle e lasciarle lì, accanto all’auto, assieme ai calzini.

«È calda! È calda!»

A dire il vero era ancora bollente e Baiko si ritrovò quasi a saltellare sul posto, borbottando quel: «Ahio!». Si arrotolò i pantaloni fino al polpaccio, continuando a sembrare posseduto, e poi si mosse svelto per arrivare al bagnasciuga.
Yuzo sgambettava felice, precedendo i suoi passi in quei ricordi che si fondevano al presente come le onde che nascevano e morivano le une nelle altre.

«Papà! Papà! È tutta acqua! Guarda quanta! Ma non si asciuga?»

Baiko si fermò sulla riva e i piedi trovarono subito refrigerio al calore bollente.

«Com’è fredda! Papà, perché la sabbia è calda e l’acqua è fredda?»
«Lo capirai quando sarai un po’ più grande.»
«E quando sarò grande?»
«Spero il più tardi possibile…»
«Perché? È brutto essere grandi?»
«Non proprio. Potrai fare tante cose, ma altrettante le perderai…»
«Non ho capito…»
«Anche questo lo capirai quando sarai grande.»

Il suo sguardo si perse nell’ipnotico andirivieni dell’acqua.
Aveva davvero detto quelle parole a suo figlio? O forse era stato solo uno scherzo dei suoi ricordi?
Nel mormorio dell’oceano che gli divorava, a ogni ritorno, un po’ di sabbia da sotto le piante, si rese conto di non averlo solo immaginato. Il ricordo era nitido e vivo e lui avrebbe davvero voluto che Yuzo avesse continuato a essere solo un bambino che non aveva altri riferimenti se non lui e le sue gambe, dietro cui andare a nascondersi dalle onde. Ma il tempo non si poteva fermare e anche lui, nonostante fosse già divenuto adulto, aveva finito col perdere molte altre cose.
Sarebbe riuscito a recuperarle almeno in parte?
Baiko se lo chiese prendendo a camminare lungo il bagnasciuga deserto. Solo qualcuno di passaggio lo affiancava, correndo, e poi andava via, scomparendo lungo il confine tra terra e mare.
Altri ricordi, piccoli come granelli si liberarono dalle bolle in cui restavano intrappolati e fluttuanti nella testa. Lo spazio, però, si riduceva sempre di più a mano a mano che ogni cosa tornava al suo posto. Ma quei ricordi portarono un’altra verità: di suo figlio conosceva o ricordava solo quel passato troppo lontano dall’adolescenza e dalla maturità. Chi era diventato Yuzo, nel tempo in cui lui aveva dimenticato e perduto memorie, non lo sapeva. Non ancora.

«Non è mai troppo tardi.»

Il signor Tamura, nonostante avesse perduto il proprio figlio, aveva una fiducia a lui sconosciuta. Forse avrebbe dovuto prendere esempio, ma gli sembrava quasi impossibile.
«Oh, no! E’ crollato di nuovo!»
«Accidenti! È troppo difficile!»
«Non ci riusciremo mai a costruirne uno bello…»
Quel vociare deluso lo strappò ai suoi pensieri e quando sollevò il capo, Baiko vide un gruppetto di tre bambini, poco più avanti, che stavano tentando di costruire un castello di sabbia.
Lui si fermò e rimase a guardarli mentre l’immagine di suo figlio correva avanti, girandosi di tanto in tanto.

«Un castello? Come quello delle favole?»
«Sì, con la sabbia si possono costruire tante cose belle.»
«Davvero? Facciamone uno bellissimo, papà!»

Quanti castelli avevano tirato su, insieme, in quegli anni. Così tanti da riempire una spiaggia intera.
Poi Yuzo aveva cominciato a giocare a calcio e le sue estati erano state interamente dedicate ai campionati. I loro castelli erano stati messi da parte. Lui era divenuto obsoleto e il lavoro era diventata la sua unica e sola preoccupazione.
Baiko aggrottò le sopracciglia facendo sfumare il sorriso che i ricordi gli avevano portato alle labbra; era quindi anche per questo che aveva guardato con avversità al calcio? Perché per colpa sua era stato messo da parte da suo figlio? Perché aveva spezzato la loro tradizione fatta di castelli di sabbia?
Possibile che fosse stato tanto infantile?
«Ehi, signore!»
Uno dei bambini attirò la sua attenzione.
«Tu lo sai come si costruisce un castello?»
Baiko sbatté le palpebre apparendo perplesso. «Sì…»
Gli occhi dei bambini brillarono o, almeno, a lui così parve.
«Allora ci aiuti? Dài, per favore!»
«Sì, sì! Per favore, signore!»
«Noi non lo sappiamo fare!»
Baiko si trovò travolto da quell’entusiasmo e rimase ancora in silenzio non sapendo che rispondere, ma quando l’immagine di suo figlio si unì a quella dei tre bambini, sorrise abbandonando ogni remora e rimboccandosi le maniche della camicia.
«Fatemi spazio.»

 

“All of these lines across my face /
Tutte queste linee sul mio viso
tell you the story of who I am /
raccontano la storia di chi sono
So many stories of where I've been /
Così tante storie di dove sono stato
and how I got to where I am /
e come sono arrivato dove sono

 

Aveva quasi perso memoria della sensazione che si provava nel fare qualcosa di divertente, nel ridere di gusto per una stupidata come gli spruzzi d’acqua improvvisi o la sabbia che sgattaiolava dappertutto; nel mare che tentava di rubare secchielli e palette e nello scattare veloce per riacchiapparli prima che divenisse troppo tardi.
«E ora ci facciamo la porta.» Baiko scavò parte della struttura con attenzione ricavando la sagoma di un ingresso.
La stilografica da quarantamila(2) yen era ormai piena di sabbia e da buttar via, ma lui nemmeno ci fece caso. I bambini erano affascinati.
«Wow! Che castello fantastico!»
«Sei bravissimo, signore!»
Il terzo ridacchiò, portandosi le mani alla bocca. «Il mio papà li fa sempre cadere.»
«Anche il mio! Anche il mio!»
Baiko rise, sedendosi di peso. «Ora potrete insegnarglielo voi come si fanno.» Si passò il dorso della mano sulla fronte, ma era sporco ovunque e si lasciò un segno con la sabbia.
«Sìììì!» risposero in coro, tentando di riempire d’acqua il fossato attorno al castello, ma non era affatto un’impresa facile.

«Papà, la sabbia mi ruba l’acqua!»
«Perché ha sete.»
«Ma è salata! Io non la bevo, bleeeeh!»
«Alla sabbia piace. Beve qualsiasi cosa. L’acqua salata, l’acqua dolce-»
«E la Coca-Cola?»
«Anche.»
«Scommetto che la Coca-Cola le piace di più. Però ha tanta sete, poverina. La prossima volta le porto i succhi di frutta di mamma. A me mi piacciono.»
«Ah, ah, ah! Certo, piccolo. Piaceranno di sicuro anche a lei.»

Era soddisfatto.
Una sensazione che non provava da tempo. Era appagato, rilassato… quasi sereno, anche se non aveva alcun motivo per esserlo. Però in quel momento era come se il tempo fosse sospeso, chiuso in una bolla che lo teneva separato dal presente.
Bolle. Queste sfere erano praticamente ovunque: dentro la sua testa, attorno a lui. La sua realtà era sferica, una forma perfetta ma chiusa oltre la quale non si era mai spinto. Aveva vissuto in un qualcosa di ideale per tenersi lontano da tutto il resto e aveva tentato di costringere suo figlio a fare la stessa cosa. Ma da cosa si era nascosto? Baiko non ricordava più ciò che si celava oltre il perimetro della sua sfera. A dire il vero, erano tante le cose di cui aveva perso memoria.

«Non si deve mai aver paura di parlare con i propri figli, altrimenti si finisce col non saper parlare più nemmeno a sé stessi. E se non ci parliamo, non ci ascoltiamo, non ci conosciamo… quanto possiamo sperare di conoscere loro?»

E lui aveva smesso di ascoltarsi perché aveva delle responsabilità come padre, come marito, come presidente d’azienda; non aveva tempo di badare anche a sé stesso, non c’era spazio per queste cose.

«La strada da perseguire è sempre dritta, disseminata di tappe obbligate. Non dimenticarlo, Baiko, nel cammino di un uomo non c’è posto per le distrazioni né per i sogni. Le radici della nostra famiglia hanno un solo nome: concretezza.»

Quella frase di suo padre emerse come la spuma di mare e Baiko si rese conto d’aver cominciato a chiudersi da quel momento in poi, arrivando a dimenticare chi era stato o avrebbe voluto diventare.
Quante cose aveva perduto, mentre di fronte a lui quei bambini non avevano nemmeno cominciato a capire cosa significava divenire adulti; avevano ancora milioni di sogni a illuminare le loro notti, come un cielo di stelle.
Accennò un sorriso, invidiandoli un po’.
«Bambini! E’ ora di andare, forza!»
Si voltarono tutti e quattro in direzione della strada. Tre donne, vestite in abiti leggeri e svolazzanti dai tenui colori estivi, si erano fermate a metà strada e agitavano le mani per farsi vedere.
«Oh, è arrivata la mamma!»
«Noooo, di già? Che peccato…»
Baiko sorrise. «Forza, obbedite senza fare i capricci. Bisogna sempre ascoltare quello che dice la mamma, intesi?»
I tre annuirono vigorosamente, alzandosi in piedi e ripulendosi alla meglio. La sabbia cadeva dappertutto ma per quanta ne togliessero, altrettanta restava aggrappata ai calzoncini e alle gambine sottili.
«Ciao signore e grazie!» salutarono i due bambini più piccoli, correndo lungo la spiaggia in una gara improvvisata per vedere quale dei due raggiungesse prima la propria madre.
Il terzo, invece, si attardò un pochino guardandolo dall’alto del suo metro e venti. «Signore, ma tu ce li hai i bambini?»
Baiko appoggiò il viso in una mano, allargando il sorriso. «Sì. Uno.»
«Che bello! Allora portalo la prossima volta, così costruiamo un castello ancora più grande! Ciao!»
Nel vederlo andare via e raggiungere i suoi amici, l’uomo pensò che gli mancava la semplicità dell’essere così piccoli. I problemi non erano mai insormontabili, ma paragonabili alla sabbia che lo circondava: si potevano abbattere in un attimo. Per quale motivo, crescendo, la sabbia si trasformava in cemento e il cemento in ferro? Diveniva più facile aggirarli, gli ostacoli, che buttarli a terra. Diveniva più facile fuggire e dimenticare ciò che non faceva comodo ricordare.
Ora, sulla spiaggia lambita dal mare erano rimasti solo lui e il castello.

«Yuzo, cosa ti piacerebbe fare da grande?»

Un’onda si infranse più vicino.
Il piccolo Yuzo, proiettato dagli sprazzi di ricordi che tornavano a galla, era in piedi le mani poggiate sulle ginocchia e la testa un po’ inclinata di lato. Osservava l’opera che insieme avevano costruito.
Baiko aveva dimenticato di avergli posto quella domanda e ne aveva dimenticato anche la riposta.
Gli occhi si allargarono nel fragore di una seconda onda che iniziò ad addentare un angolo del castello. La sabbia perse coerenza e crollò nel punto colpito.

«Io voglio giocare con il pallone. Come quelli che si vedono in tv. A me piace correrci dietro, alla palla. A te piace, papà?»

Yuzo rideva e correva sul bagnasciuga, davanti ai suoi occhi, allontanandosi da lui.

«A me? Deve piacere a te, piccolo.»
«A me piace tantissimo!»
«Allora diventerai un campione!»
«E mi guarderai quando sarò in tv?»
«Ma certo! Anzi, verrò allo stadio, e farò il tifo per te!»

Diventerai un campione.
Verrò allo stadio.
Farò il tifo per te.
Baiko si mise in ginocchio, adagio.
Suo figlio correva felice e la risata si sommò a un’altra, che gli parve sconosciuta perché lui non stava ridendo, non in quel momento. Allungò una mano, ma non riuscì a muoversi. Dal suo corpo si separò la proiezione più giovane di sé stesso, legata a quei momenti sulla sabbia; era quella la risata che aveva sentito. Era lui. Correva dietro Yuzo, lo afferrava e lo prendeva in braccio, alzando spruzzi d’acqua salata, e nella pioggia di gocce scomparvero alla vista, tornando a nascondersi nei ricordi.
Erano stati felici. Tutti e due.
«Io… glielo avevo detto io…»
Baiko tremava da capo a piedi, si afferrò la testa tra le mani, non riuscendo a crederci.
«…gli avevo detto che… che sarebbe stato un campione… che poteva giocare a calcio… glielo avevo detto io… proprio io… come ho potuto, come… dimenticarlo?»
Nell’onda che si arrampicò sui vestiti e sulle mura del castello, facendole crollare, tutto ciò che era ancora rimasto chiuso nelle bolle di sapone esplose all’improvviso all’interno del cranio, allagandogli il cervello. Fu come risorgere dallo stato di morte cerebrale in cui si era confinato, ma faceva talmente male da strappargli il respiro. E l’acqua era ovunque, addosso, negli occhi, nella bocca che sapeva di sale. Distruggeva.
«Glielo avevo detto io! Io!»
Baiko lo gridò stringendo forte i capelli fin quasi a strapparli. L’ennesima onda lo schiaffeggiò come aveva fatto Haruko; cercava la reazione che all’ospedale non aveva avuto perché incapace di comprendere i suoi stessi sentimenti.
Lui si gettò sul castello, tentando di proteggerlo, ma i torrioni si disfacevano sotto le dita, impedendogli di trattenere quello che era stato il simbolo del loro passato insieme, l’unico nel quale erano stati uniti, in cui aveva avuto la fiducia incondizionata di Yuzo. Aveva avuto i suoi sogni stretti nella mano e, come con la sabbia, non era stato in grado di difenderli.
Pianse tutte le lacrime che non era riuscito a versare.
«No! Non puoi portarmelo via! Non voglio! È mio figlio! È mio figlio!»
Ma l’acqua era implacabile e continuò ad andare e venire, strappando ogni cosa dai pugni serrati.

 

“But these stories don’t mean anything /
Ma queste storie non significano nulla
when you’ve got no one to tell them to /
quando non si ha nessuno cui raccontarle.

Brandi CarlileThe Story

 


[1]: nei giardinetti giapponesi, dove spesso vanno i bambini a giocare, c’è sempre un quadrato con la sabbia :D

[2]40'000 YEN: sono circa 340 euro. XD Sarà una Montblanc (\O/ ed è un peccato a Dio rovinare una Montblanc!!!).


Le canzoni del capitolo:

- Fammi entrare (Marina Rei): a me lei è sempre piaciuta molto, ma credo sia una cantautrice moooolto sottovalutata e messa da parte, in favore di oscenità colossali come, che so, Alessandra Amoroso. Questa canzone l’ho scelta all’ultimo momento (XD eh, è diventata abitudine cambiare le canzoni in corsa!), prima ce n’era un’altra che pure mi piaceva moltissimo, “Nessuna certezza” di Tiromancino feat Meg e Elisa. Però questa mi sembrava più ‘forte’, anche a livello di musica, e avevo bisogno di un’atmosfera più inquieta. :D

- Akuaduulza (Davide van de sfroos): ho scoperto Davide van de sfroos con l’ultimo Sanremo, lo ammetto. Mi sono innamorata di “Yanez” e così sono andata a cercare altre sue canzoni. Adoro le canzoni in dialetto *-*. Tra le tante (molte consigliate da Santa Eos75 *sghignazza*) è spuntata questa. Appena l’ho sentita mi son detta: “La userò. E’ troppo bella.”, e infatti eccola qui. :D
Ha un testo veramente bello e malinconico, e la musica è uno spettacolo. Volevo qualcosa che parlasse dell’acqua, visto e considerato anche il pezzo cui fa riferimento, e anche se questa canzone si riferisce al Lago di Como (acqua dolce, appunto), mi sembrava ci stesse bene ugualmente proprio per il senso in generale. Vi consiglio di ascoltare Davide van de sfroos, di cercare altre sue canzoni perché, davvero, quest’ometto è una meravigliosa sorpresa. :)


- Le Onde (Ludovico Einaudi): ma se si parla di onde/mare/acqua/ecc ma vi pare che NON mettevo questa di Einaudi? :D
E’ spettacolare, semplicemente. Lui e Allevi sono una meraviglia per le orecchie. *-*


- The Story (Brandi Carlile): questa canzone non la conoscevo, ma mi è stata consigliata da un’amica (la Ria X3) che l’aveva sentita in una puntata di Grey’s Anatomy (XDDDDDD che io aborrrrro). *-* tant’è, sta canzone mi è piaciuta tantissimo! La voce di Brandi Carlile mi piace molto perché non è pulita, ma ha quella sonorità un po’ sporca quando spara l’acuto che secondo me è proprio bella! **

Noticina estemporanea: Sabato, mentre ero al tabacchi e facevo la fila al banco, davanti a me c’erano un signore con un bambino piccolo che avrà avuto sui tre anni: tra le mani stringeva un aeroplano. :3

E anche per questo capitolo è tutto.
Ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questa storia! :3

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Capitolo 6
*** Part VI: Sagrada Família ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part VI: Sagrada Família -

 

“When I was younger, so much younger than today /
Quando ero giovane, molto più giovane di adesso
I never needed anybody's help in any way /
non avevo mai bisogno dell’aiuto di nessuno, in nessun caso.
But now these days are gone, I'm not so self assured /
Ma ora quei giorni sono andati, non sono così sicuro di me,
now I find I've changed my mind and opened up the doors /
ora scopro di aver cambiato le mie idee e aperto le porte.

 

«Sì, un momento, un momento. Arrivo.»
Il primo pensiero di Chiyo quando aveva sentito il campanello fu che non fosse la domestica di ritorno dalla spesa. Era andata via solo una decina di minuti prima e poi aveva le chiavi. Forse era la giovane Sakuya, per le lezioni di ikebana.
Mentre camminava piano per raggiungere la porta, pensò che Mina avesse nuovamente dimenticato aperto il portone d’ingresso alla proprietà e sospirò rassegnata di quanto svampita fosse quella ragazza.
Ritmico, il ticchettare del bastone sul legno l’accompagnò come sempre, poiché l’anca e l’età non erano più dalla sua, ma non aveva mai fatto in modo che divenisse un peso né per sé né per gli altri. Ogni cosa andava presa con la giusta calma per poter essere affrontata senza farsi battere in partenza; la frenesia e l’ansia accorciavano il tempo.
Quando arrivò all’ingresso, in controluce poté carpire l’ombra di una figura ben più alta di lei. Probabilmente, era quella di un uomo.
Non nascose la sorpresa nel trovarsi davanti suo figlio.
«Baiko?!»
«Ciao, mamma.»
Era fermo, in cima alle scale, con la giacca stretta nella mano e la cravatta sciolta attorno al collo, inoltre i suoi abiti erano bagnati e pieni di sabbia.
«Santo cielo, ma… che ti è successo?»
L’interpellato si grattò una guancia, con imbarazzo. Guardò sua madre da sotto in su, come faceva sempre quando, da bambino, tornava a casa dopo aver combinato qualche guaio.
«Ehm… sono stato al mare.»
Ma alla donna non sfuggì come i suoi occhi apparissero cerchiati e stanchi.
Sul momento si limitò a scuotere il capo, avrebbero avuto tempo per parlare.
«Non credere di poter entrare in casa in queste condizioni, giovanotto. Adesso ti vado a prendere un asciugamano e ti vai a fare un bel bagno; Mina ha passato tutta la mattinata a pulire, se dovesse trovare della sabbia sparsa in giro, le potrebbe venire un colpo.»
Baiko la guardò tornare adagio sui suoi passi, aspettando sul pianerottolo. Gli venne da ridere dei modi che non erano cambiati negli anni e nel ritrovarla ogni volta un po’ più piccola. Tornava di rado in quella casa, ma quello era stato l’unico luogo in cui aveva sentito il bisogno di andare: se davvero voleva iniziare a conoscere suo figlio, allora doveva recuperare le memorie perdute di sé stesso. E poteva trovarle solo lì.

 

“And now my life has changed in, oh!, so many ways /
E ora che la mia vita è cambiata in così tanti modi,
my independence seems to vanish in the haze /
la mia indipendenza sembra svanire nella foschia.
But every now and then I feel so insecure /
Ma a volte mi sento così insicuro,
I know that I just need you like I've never done before /
so che ho bisogno di te come mai prima d’ora.

 

Quando uscì dal bagno si sentì rinato.
Il sale era andato via con l’acqua calda e la pelle aveva perso l’odore del mare in favore di essenze più pungenti e maschili.
Lasciò la stanza, passandosi un asciugamano sui capelli che andavano brizzolandosi con calma e in maniera costante; era ancora giovane nonostante l’avesse quasi dimenticato a causa dei troppi impegni di lavoro, ma questo non significava che il tempo non passasse anche per lui.
Baiko chiuse la porta dietro di sé, camminando per il corridoio silenzioso. Il tessuto leggero dello yukata azzurro scuro lo rinfrescava dalla calura estiva. Erano anni che non ne indossava uno. A dire il vero, ne aveva indossati di rado anche da ragazzo, preferendo uno stile di abbigliamento più occidentale. Ma recuperare le vecchie tradizioni era un po’ come abbeverare le sue radici morenti.
Lasciò scivolare il telo sulle spalle e uscì nell’engawa(1).
Sua madre era inginocchiata a godersi l’arietta piacevole che spirava nel cortile. Lì, sul monte Kuno(2), tra graziosi boschi, faceva meno caldo che sul mare, nonostante fossero a poche centinaia di metri sopra la linea di costa.
Baiko si sedette accanto alla donna, lungo il bordo della veranda. Un piccolo Yuzo sorridente apparve e scomparve correndo per il cortile con un aeroplano di legno tra le mani.
I ricordi si annidavano ovunque, Baiko se ne rese conto solo in quel momento, e lì restavano, aggrappati alle cose, ai luoghi, agli odori e ai colori, a qualsiasi sensazione. Vi si aggrappavano e non scomparivano mai. Erano le persone a farli sparire, smettendo di riviverli; così avveniva il processo della ‘dimenticanza’. Eppure spesso bastava un attimo per riuscire a trovarli di nuovo, srotolarli, come pellicole di un vecchio film.
I ricordi erano un meccanismo strano.
Chiyo stava sistemando i fiori e i rami per la composizione che avrebbe preparato quel pomeriggio assieme a Sakuya, anche se era un po’ indecisa su cosa utilizzare.
«Qui sembra non essere cambiato niente» esordì Baiko, ripensando all’ultima volta che era stato in quella casa. Gli sembrava passata un’eternità.
«Nulla è cambiato, infatti» sorrise la donna distogliendo lo sguardo dai fiori. «Siamo solo diventati tutti un po’ più vecchi.»
«Questo è certo.»
Baiko girò lentamente il capo per abbracciare tutto il cortile fino a fermarsi alla parte opposta dell’engawa dove si trovavano loro. Girato l’angolo della casa, c’era il balcone che conduceva nello studio di suo padre. Non ci metteva piede probabilmente da quando l’uomo era morto; quella stanza era rimasta off limits, ma non perché gli fosse stato impedito di entrarvi. Semplicemente, non aveva mai voluto.
Shuzo era venuto a mancare solo pochi anni prima, Yuzo faceva la prima liceo, e lui, di quel momento, non ricordava più nulla. Non ricordava cosa avesse provato di preciso, se avesse pianto; le immagini di quei momenti si rivelarono di colpo più nebulosi di quanto avesse anche solo potuto immaginare. E lo trovò vergognoso.
La sensazione di ingratitudine si fece spazio sotto al tessuto leggero dello yukata, provocandogli un brivido di fastidio. Allora anche lui, come Yuzo, si era fatto accecare dall’odio e si era vendicato. Nel suo caso, però, la vendetta era stata l’indifferenza, l’estraniarsi, il distacco. Si era disinteressato del tutto della persona che aveva distrutto i suoi, di sogni.
I sogni, già.
Ma quali erano stati?

«Cosa vuoi fare da grande, Baiko-kun?»

La domanda che aveva posto a Yuzo, gli era stata fatta anche a lui, molto, molto tempo prima, ma non riusciva a ricordare da parte di chi. Sospirò, spostando nuovamente lo sguardo al giardino e poi a sua madre. Ci avrebbe pensato dopo, ora aveva altro di cui occuparsi.
«Allora, vuoi spiegarmi cosa è successo?» Chiyo lo anticipò, le mani muovevano con eleganza le peonie. «Non è da te presentarti senza nemmeno fare una telefonata, e per giunta così in disordine. Qualcosa non va, Baiko?»
Nonostante l’età e gli affanni, sua madre gli appariva sempre sottile ed elegante, come da giovane, circondata dalle composizioni rikka shofutai(3) di cui era maestra. E, proprio come in passato, manteneva quell’intuito discreto e attento.
Lui ingoiò a vuoto.
«Sì, più di qualcosa.» Ma le parole sembrarono divenire colla, nella sua bocca, e la stessa difficoltà che aveva avuto con Shunsuke sembrò decuplicarsi perché quella era sua madre e tutto cambiava. D’improvviso si ricordò cosa si provasse a essere figlio e gli si fecero gli occhi lucidi. Distolse lo sguardo, schermandolo con l’asciugamano, mentre fingeva di frizionare i capelli. «Ecco, vedi… si tratta di Yuzo, lui… lui-»
«Mi domandavo quando me lo avresti detto.»
Baiko girò il capo di scatto per osservare Chiyo che, ora, aveva smesso di occuparsi dei fiori ma teneva compostamente le mani sulle gambe e lo guardava a sua volta.
«Tu… lo sapevi?»
«Tra vecchietti ci si intende» rise lei e in quel momento gli divenne tutto più chiaro.
Baiko annuì, passandosi una mano sugli occhi e sbuffando un sorriso.
«Kyoshi.»
«Il padre di Haruko è davvero un brav’uomo e tiene molto a te. Sapeva che me ne avresti parlato di sicuro, per questo mi ha chiesto di aspettare fino a che non l’avessi fatto» spiegò la donna e lui si limitò a continuare ad annuire, ma quando una mano si poggiò sulla sua, tornò a guardare sua madre negli occhi in cui lesse tutta l’apprensione che aveva trattenuto fino a quel momento. Le rughe attorno al viso sembrarono farsi più profonde. «Come sta il mio piccolo Yuzo?»
‘Bene’ non sarebbe stato sbagliato, poiché non era in pericolo di vita, ma non gli parve ugualmente il termine più appropriato.
«Dorme» disse, stringendo le dita sottili e ossute nelle proprie. «Non ci sono novità.»
Chiyo si coprì la bocca con l’altra mano, distogliendo lo sguardo. Sbatté velocemente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che erano arrivate a pungerle gli occhi. Suo nipote era sempre stato un ragazzo solare ed equilibrato, che amava vivere. Non riusciva a credere che fosse arrivato a tanto, che si fosse sentito così perduto e pieno di rabbia da agire in quel modo atroce. Scosse il capo, facendosi padrona di una tenacia che non provava davvero, ma alla quale riuscì ad aggrapparsi per non essere vittima dello sconforto.
«Lui si sveglierà presto, vedrai. È… Yuzo è un ragazzo forte e non… lui non… lui tornerà indietro. Avrete un’altra occasione.»
«Non credo che vorrà darmela, quest’occasione. Mi odia. Mi odia a tal punto da tentare di uccidersi davanti ai miei occhi che… come… come posso sperare che lui voglia darmi una seconda possibilità? Fa male. Mi sento… mi sento inutile! Non posso fare niente! Non posso riprendermi mio figlio! Lui mi odia, Haruko mi odia, ma che razza di padre sono?!»
«Baiko non dire così, tu sei un buon padre-»
«Ah, davvero?! Così bravo che Yuzo ha preferito morire? Così bravo che mia moglie non vuole nemmeno vedermi? Io ho fallito! Non sono riuscito a proteggere la mia famiglia e ora guardaci, siamo… in pezzi.»
«Se ci fosse ancora tuo padre, direbbe-»
«No! Fammi il favore di non nominarlo! Lui e le sue perle di saggezza indiscutibili, per carità! La colpa è anche sua se sono diventato così! ‘Ti insegnerò tutto quello che so’, ‘Impara da me’. Certo! Mi ha insegnato a essere un ottimo manager e un pessimo padre. Ho appreso proprio tutto. Alla lettera.»
«Non essere così duro con lui…»
«Ah, non dovrei?! Chi è stato a dirmi che non c’era spazio per i sogni?!» Gli occhi si riempirono di lacrime di rabbia. Frustrato, Baiko affondò il viso nella mano, per nasconderle. «Ho fatto la stessa cosa con Yuzo. Dannazione. Lo stesso sbaglio.» Aveva il desiderio di distruggere qualcosa. Sfogare in maniera violenta tutto l’odio che aveva assopito con gli anni. Non aveva mai avuto il modo o forse il coraggio di dire a suo padre tutto ciò che pensava veramente; si era lasciato consumare e indurire dalla sua stessa vendetta. Ma quell’indifferenza verso suo padre aveva finito col prendere il sopravvento anche su tutto il resto.
Chiyo esalò un sospiro paziente. Finalmente, dopo anni, avrebbe potuto dire le cose così come stavano e come Shuzo non aveva mai voluto che si sapessero. E poi dicevano che erano le donne a essere creature complicate; non avevano mai incontrato i maschi della famiglia Morisaki, allora.
«Anche tuo padre ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di gioventù. Credi davvero che la sua massima aspirazione fosse dirigere la ‘Golden Gun’?» Agitò una mano. «Sciocchezze.»
«Ma se mi ha sempre ripetuto che l’onore della famiglia veniva prima di ogni altra cosa! Che avrei dovuto portare avanti il nome e l’azienda!»
«Perché era quello che avevano sempre ripetuto a lui. Quando l’ho conosciuto, tuo padre non voleva fare il dirigente» Le venne da sorridere nel ricordare un passato in bianco e nero. «Ma l’intagliatore di legno.»
Baiko balzò in piedi, scendendo dalla veranda. «Il cosa?!»
«Voleva essere un semplice artigiano. Non dovresti aver dimenticato quanto era bravo.»
L’aeroplano di Yuzo volò nella sua testa per posarsi sulle gambe di un uomo in yukata che, seduto proprio in quell’engawa dove si trovava lui, lo lavorava con dedizione.
«Quando tu prendesti il suo posto, alla nascita di Yuzo, lui ebbe modo di potersi dedicare alla sua passione, anche se solo come un semplice hobby. È stato allora che si è reso conto di aver sbagliato.»
Baiko tornò a sedersi adagio. Sembrava un robot difettoso, aveva gli occhi spalancati e la testa che veniva mossa appena, come fosse inceppata.
«Sb-sbagliato?»
«Sì. Nel tornare di nuovo libero da obblighi e doveri, nell’avere attorno il suo nipotino, nel vederlo crescere, correre e sognare, si ricordò di come anche lui un tempo avesse avuto dei sogni, di come dicesse ‘quando io sarò padre, sarà diverso’. Capì d’aver sbagliato con te, ma era troppo tardi. E non aveva il coraggio di dirti quel ‘mi dispiace’ che avrebbe sempre voluto perché temeva che l’avresti frainteso e odiato ancora di più.»
E lui, quello, non l’aveva mai lontanamente sospettato né percepito con l’andare del tempo e degli anni. Molto probabilmente, l’indifferenza l’aveva reso cieco davvero a tutto. Baiko si sentì come un bambino al quale dicevano che Babbo Natale non esisteva. Ma ciò che Chiyo aggiunse seppe distruggere definitivamente ogni certezza gli fosse rimasta del suo rapporto con Shuzo.
«Lui non voleva che fosse Yuzo, un giorno, a prendere il tuo posto. Desiderava che, almeno lui, fosse libero di coltivare i propri sogni, che fosse egli stesso fautore del proprio destino.»
«Perché… non me l’ha mai detto?… Dopo una vita passata a sentirmi dire che le vie erano solo dritte e stabilite, perché-»
«Non voleva ferirti né disorientarti. Confidava nel tuo spirito ribelle; anche tu dicevi che le cose sarebbero state diverse. Ci aveva creduto davvero» sorrise «Era molto orgoglioso dei successi di Yuzo nel calcio, era sicuro che ce l’avrebbe fatta, un giorno.»
Le labbra di Baiko si incurvarono aspramente, mentre si sentiva di nuovo chiuso in trappola. Come al solito, suo padre aveva scelto del suo futuro e anche di quello di suo figlio senza nemmeno interpellarlo.
«E’ forse il suo misero modo di ripulirsi la coscienza?! E adesso dovrei sentirmi in colpa anche per non aver capito le sue intenzioni?! Se solo lui mi avesse parlato con sincerità, una fottutissima volta in tutta la sua vita, invece di ripetere a memoria il libro del Codice d’Onore della Famiglia Morisaki, forse non saremmo mai arrivati a questo punto!»
Chiyo emise un lungo sospiro. «Mi sembra che nemmeno tu sia riuscito a parlare nel giusto modo con Yuzo.»
L’uomo si sentì colpire e affondare. Rilassò le spalle, assieme al fiato che sfuggì sonoramente dalle sue labbra. Accennò un sorriso ironico, che aveva perso del tutto il piglio aggressivo.
«Vorresti forse dirmi che ‘buon sangue non mente’
«Vorrei dirti che avete sbagliato entrambi e che non esiste un solo colpevole contro cui prendersela.»
«Ma se non ho un colpevole, cosa mi resta?» Baiko affondò nuovamente il viso in una mano. «Cosa mi resta, mamma?»
«La speranza, Baiko. Yuzo non è ancora perduto e tu devi credere che lo riavrai indietro. A ogni costo. Non arrenderti.» Allungò le dita per carezzargli il capo. «Lui ti somiglia molto.»
«Oh, no. Yuzo è mille volte migliore di me. Non si è piegato alla mia volontà, ha lottato fino in fondo per I suoi sogni, per sé stesso e la sua libertà. Non ha permesso che qualcun altro decidesse per lui.» Il viso riemerse da dietro le dita che vennero abbandonate in grembo. Accennò un sorriso, questa volta sincero. «E’ più forte.»
«Anche tu eri forte, alla sua età. E ribelle! Tutto il giorno con quella musica americana che tuo padre tanto odiava. Non ascoltavi nemmeno una canzone giapponese!»
«Me lo ricordo. Papà diceva che ero poco nazionalista. E comunque: inglese, mamma, inglese. Non americana. I Beatles erano inglesi.»
«E’ la stessa cosa. Così come quegli altri lì, con quel cantante magro magro e dalla bocca enorme!»
«Mamma! Mick Jagger è un’icona del Rock!»
«Massì, è brutto lo stesso.»
«E comunque, credo che un po’ lo facessi di proposito. Farlo arrabbiare era un modo come un altro per dirgli che esistevo in quanto ‘individuo pensante’ e non come marionetta delle tradizioni di famiglia. Non ha funzionato molto bene…»
«Invece sì, ma sperava che tu mantenessi questo spirito fino in fondo.»
«Umphf. Non ero un granché come pecora nera.» Ci pensò un po’, accompagnato dal cantare dei grilli e delle cicale. «Ti spiace se do un’occhiata alla mia vecchia camera?» - …vorrei ricordare cosa ho lasciato indietro - ed erano tante cose, così tante che non aveva il coraggio di dirle.
«E perché dovrebbe dispiacermi? La tua stanza è rimasta tal quale da quando te ne sei andato. Tuo padre non ha mai voluto che la toccassi, pensava che Yuzo avrebbe potuto trovarvi molte cose interessanti; magari delle passioni comuni.»
Baiko salì sull’engawa, avanzando verso l’ingresso. Sorrideva, anche se con amarezza. «Non credo. Siamo troppo diversi e poi… se davvero buon sangue non mente, anche lui finirà col detestare le cose che piacciono a me solo per farmi dispetto.»
Chiyo lo scortò con lo sguardo fino a che non scomparve nei corridoi di casa. Sotto il carattere severo che aveva necessariamente sviluppato nel tempo, quasi fosse un’arma di difesa, continuava a esserci ancora suo figlio, anzi, stava finalmente tornando allo scoperto, mentre la dura scorza si spaccava e cadeva in pezzi come un guscio vuoto. E più lo guardava, più riusciva a scorgere Yuzo nelle sue espressioni. Sorrise. Era convinta che avessero ancora molto altro in comune.
«Chissà» mormorò tornando a dedicarsi alla sua composizione floreale. «Non si può mai dire.»
Con occhio critico guardò prima il rosso lycoris e poi il giallo e vivace rametto di rengyou. Il sorriso si tese di più nel prendere il secondo. Lo rigirò delicatamente tra le dita, osservando l’intenso colore dei suoi bellissimi fiori.
«Quest’oggi, il tema sarà la speranza(4)

“Help me, get my feet back on the ground /
Aiutami, fammi tornare con i piedi per terra.
Won't you please, please help me? Help me. Help me /
Non vuoi aiutarmi, per favore? Aiutami. Aiutami.

The BeatlesHelp!

*

“Ground Control to Major Tom (10... 9... 8...)/
Torre di controllo a Maggiore Tom (10... 9... 8...),
commencing countdown (7... 6...)/
inizio del conto alla rovescia (7... 6...),
engines on (5... 4...)/
motori accesi (5... 4...),
check ignition (3... 2... 1...)/
controllo dell’iniezione (3... 2... 1...)
and may God's love be with you (Lift-off!)/
e che l’amore di Dio possa essere con te (Decollo!).

 

Aveva attraversato il corridoio con l’intenzione di puntare dritto alla propria camera, ma quando si ritrovò davanti alla porta dello studio di suo padre si fermò.
Baiko guardò a lungo l’uscio chiuso. Suo padre lo lasciava sempre serrato, anche e soprattutto, quando era in casa. Anche per quello, invece, lui teneva la porta del proprio sempre aperta. Un modo come un altro per dire che erano diversi, per contraddirlo quasi fosse stato un bastiancontrario. Ma ora… ora si rendeva conto di quanto, invece, fossero simili. Entrambi avevano compiuto gli stessi identici errori ed entrambi ne avevano pagato le conseguenze.
Lentamente, aprì la porta.
Quella stanza e la sua erano le uniche due camere in stile occidentale dell’intera casa. Suo padre aveva cercato di fondere oriente e occidente nell’arredamento per una questione di abitudine; avendo a che fare con acquirenti esteri, viaggiava spesso e allora, almeno quella stanza, doveva continuare a mantenere un aspetto che si distaccasse dalla sua realtà esclusivamente giapponese. A guardarla adesso, sembrava quasi che suo padre avesse voluto tenerla separata dal resto, come se ‘casa’ e ‘lavoro’ non avessero dovuto mischiarsi. Ma se l’intento era stato quanto mai nobile e giusto, la messa in pratica era stata un vero fallimento. Bastava guardare lui.
Baiko avanzò in direzione della scrivania, guardandosi attorno.
Le tende erano aperte per permettere alla luce di entrare. Suo padre detestava avere la stanza buia, par contro, lui aveva sempre le tende tirate per lavorare meglio al computer. Bastiancontrario, appunto.
Era tutto ordinato e anche se di sicuro ci si entrava almeno una volta al giorno per aprire i vetri e far passare aria, si vedeva che quella stanza non era più stata vissuta dalla morte di Shuzo.
Baiko appoggiò una mano sul legno della superficie, facendo scorrere piano il palmo, mentre girava intorno al tavolo. Da piccolo capitava che si nascondesse sotto la scrivania quando suo padre non c’era e lui voleva far ammattire la domestica, oppure voleva starsene tranquillo a leggere un libro. Lì sotto gli piaceva perché quella era la ‘stanza di papà’ e poiché Shuzo ci si rinchiudeva praticamente per tutto il tempo che era in casa, Baiko pensava che fosse un modo come un altro per sentirlo un po’ più vicino. A saperlo che quella camera, simbolicamente, sarebbe stata la sua rovina, ci si sarebbe tenuto ben alla larga.
Quando sollevò lo sguardo agli oggetti che erano sulla superficie del tavolo, l’occhio gli cadde subito sulla fotografia dalla larga cornice in legno, chiaramente fatta a mano, che campeggiava in uno degli angoli.
Suo padre sorrideva assieme a uno Yuzo delle scuole medie, in divisa da calcio. Dal suo sguardo e dalle labbra curvate verso l’alto trapelavano soddisfazione e orgoglio per il nipote, proprio come gli aveva detto Chiyo. Era felice di ciò che vedeva in Yuzo, di ciò che avrebbe potuto diventare se avesse continuato a impegnarsi. Fosse stato ancora vivo e avesse saputo che aveva vinto il World Youth ed era stato chiamato per giocare in JLeague, avrebbe fatto i salti di gioia, Baiko ne era sicuro.
Guardò suo figlio, la divisa della nazionale e la medaglia al collo, sorrideva come se avesse avuto il mondo intero tra le mani.
Faceva solo le scuole medie, eppure aveva vinto il campionato mondiale juniores. Santo cielo. Allora era bravo davvero.
Lui non l’aveva mai visto giocare, non era mai andato a una sola partita ostentando sempre la scusa del lavoro e della mancanza di tempo per non ammettere di sentirsi messo da parte, mentre vedeva suo figlio crescere e allontanarsi.
Adagio si sedette nella poltrona di suo padre, appoggiando la schiena alla pelle morbida del rivestimento. Fece scivolare la mano su di un bracciolo, nel tentativo di seguire la forma che, in un tempo lontano, aveva lasciato il braccio di Shuzo, mentre l’altro veniva puntellato, col gomito, sul bracciolo opposto.
Se solo loro, tutti e tre loro, non fossero stati così incapaci di comunicare…
«Avresti dovuto dirmelo almeno una volta, papà… avresti dovuto tentare…»
Baiko appoggiò il mento nella mano, ruotando piano il girevole della sedia in un gesto meccanico. A pensarci, si ricordò che anche suo padre lo faceva sempre. Buon sangue non mentiva mai: anche se si era capaci di fare l’impossibile per essere diversi in tutto e per tutto, si finiva sempre con l’avvicinarsi un po’ di più.
Guardò ancora la foto e gli venne da sorridere: era bella.
Perché lui non ne aveva una della sua famiglia sulla scrivania? Né a casa né a lavoro. Il suo tavolo era pieno solo di carte e computer, oggetti che andavano e venivano e non avevano nulla di personale, non davano una storia a chi ci lavorava ore e ore al giorno. Il suo studio era la stanza più anonima della casa. Era finemente arredato, sì, metteva in mostra una pregiata collezione di armi, sì, aveva oggetti di antiquariato orientale e occidentale, ancora sì, ma… di lui, di Baiko Morisaki, della persona che era o era stata, non c’era niente, niente, niente.
Inspirò a fondo, levando lo sguardo al soffitto con una certa rassegnazione. Gli sembrò quasi di dover ricominciare tutto da capo, di avere così tante cose da recuperare da non potercela fare nemmeno con un’altra vita, perché era proprio quello ciò di cui aveva bisogno: una vita nuova e non ne aveva né il tempo né la possibilità.
Fece per alzarsi quando l’occhio gli cadde su di un’altra fotografia, all’altro lato del tavolo. Era più piccola e dai colori sbiaditi. Riconoscere il soggetto di quello scatto lo inchiodò con le mani sulla superficie per alcuni momenti. Poi espirò lentamente, cominciando a ridere.
«Oh, mio Dio…»
Afferrò la cornice.
«Oh, mio Dio!»
Se la portò davanti e rise, rise forte e di gusto.
«Non ci posso credere!»
Un ragazzino delle medie – doveva avere suppergiù la stessa età di Yuzo nella foto con il nonno – una mano dietro la schiena piegata in avanti, l’altra sul ginocchio, il cappellino in testa un po’ sbilenco e lo sguardo fisso dove lo stava aspettando un battitore altrettanto soldo di cacio.
«Ma sono io!»
La divisa della Suruga Gakuen gli parve di non averla mai smessa, mentre, come una folata di vento caldo, gli tornò alla mente quella sensazione di ritrovamento che aveva avvertito quando si trovava all’ospedale assieme al signor Tamura.
Il tavolo da disegno.
I dischi in vinile.
Il baseball.
Aveva smesso di giocare con la fine del liceo, nonostante fosse piuttosto bravo, ma con la scuola si erano chiusi anche i suoi sogni, così la palla e il guantone erano stati riposti su una mensola e prendere polvere.
Baiko sollevò il capo di scatto, ricordandosi che dovevano essere da qualche parte nella sua camera. Si alzò, portando la fotografia con sé senza nemmeno accorgersene. In rapidi passi raggiunse la stanza aprendone la porta di slancio.
La finestra era aperta, le tende oscillavano alla brezza estiva. I poster di Cy Young(5) e Sadaharu Oh(6) si mischiavano a quelli dei Beatles.
Gli sembrò di tornare indietro di venti, trent’anni, mentre i ricordi si animavano tutti e tutti insieme davanti ai suoi occhi. Uno, cinque, dieci ragazzi contemporaneamente si muovevano avanti e indietro per la stanza, velocissimi. Vivevano, crescevano. A guardarli bene, erano sempre la stessa persona, ma solo in età diverse. Era sempre lui.
Baiko sbatté un attimo le palpebre e l’ondata sembrò acquietarsi, dopo averlo passato da parte a parte.
Avanzò piano, poggiando la cornice sul letto e continuandosi a guardare attorno. Il sorriso carico di meraviglia e scoperta infantile tornò a distendergli le labbra nel raggiungere la libreria.
Il guantone con la palla erano lì, su uno dei ripiani, assieme al suo vecchio cappellino dalla visiera ormai logora. Riprenderli in mano gli riportò la sensazione della terra sotto le dita e del sudore sulla fronte; il ruvido del cuoio e il cuore che batteva a mille per non sbagliare il terzo lancio ed eliminare il battitore. La faccia ingrugnata e combattiva di Nakamoto che lo sfidava a fargli il terzo strike apparve e scomparve nella palla che veniva lanciata in aria e poi ripresa nel palmo. Il guantone gli andava stretto, ormai.
Qualcuno urlava, qualcuno rideva, il mister faceva strani segni in codice dalla panchina e lui, un tempo, li conosceva tutti a memoria, mentre ora non ne rammentava nemmeno uno eppure rideva lo stesso. Che importava? Era la sensazione a contare davvero, era avere nuovamente tutti loro in testa con immagini bloccate nel tempo, certo, ma di nuovo vive. Quei ricordi avevano una marea infinita di suoni.
Baiko mise da parte il guantone e la palla e fece scivolare la mano sulla fila infinita di copertine impilate ordinatamente sullo scaffale.
«I miei dischi…»
E ce n’erano talmente tanti che avrebbe potuto far la gioia di un collezionista.
Vinili originali dei The Beatles, Rolling Stones e altri grandi del Rock inglese. Poi Elvis, Crosby Stills Nash & Young, Lou Reed, i Queen e David Bowie. Si fermò su quest’ultimo e cavò un LP dalla fila.
Dio, quante volte l’aveva sentito, fin quasi a consumarlo.
Bowie era un visionario così particolare che non a tutti poteva piacere, ma c’erano canzoni che riuscivano a restarti dentro come se ce le avessero infilate con la forza.
Fece scivolare la mano sulla copertina dagli spigoli un po’ piegati e ingialliti e ridacchiò: il primo lento che aveva ballato con Haruko in una festa scolastica era stato sulle note di Space Oddity; lontano dalla sala, c’erano stati solo loro due e una piccola radiolina. Era stato quello a fargli apprezzare Bowie, gli aveva portato fortuna.
Ripose LP, il sorriso si smorzò.
Non sentiva Haruko da giorni.
Gli mancava da morire e si sentiva un fesso.
Avrebbe dovuto starle vicino invece di tenersi a distanza, nascondendosi dietro la scusa del: ‘è meglio così, tanto mi odia’. La verità era che non era all’altezza di poter sostenere la sua sofferenza se non sapeva affrontare nemmeno la propria, non era all’altezza di poter affrontare il suo sguardo in cui rivedeva Yuzo se non era capace di affrontare Yuzo stesso.
Baiko si passò una mano nei capelli ancora umidi e si volse. In quel momento il cuore sembrò quasi esplodergli dentro nel vedere la strana sagoma coperta da un lenzuolo.
La guardò per un attimo con la bocca semiaperta, mentre una genuina felicità si irradiò dal suo petto per raggiungere ogni parte del corpo, finanche la punta dei piedi.
Baiko la raggiunse velocemente, afferrò i lembi del tessuto e lo tirò via.
Il suo sogno era esattamente come lo aveva lasciato.
«Il mio tecnigrafo!» esultò «Quanto ho lavorato per comprarmelo!»
Si era giocato un’intera estate e l’inverno successivo tra lavoretti di ogni tipo. Era stato il primo anno del liceo. Lui e Haruko erano andati a prenderlo insieme e allora non erano stati che compagni di scuola che si trovavano… molto simpatici.

«Cosa vuoi fare da grande, Baiko-kun?»

Quella domanda, di nuovo, risuonò nella testa dove il vuoto cosmico era stato ormai riempito senza mai divenire saturo. Questa volta, però, la voce che la pronunciava aveva una nota femminile, occhi nocciola e capelli lisci, che ricadevano sulle spalle. Familiare. Come sua moglie.

«Farò l’architetto!»
«L’architetto?»
«Sì! Voglio costruire delle case. Case bellissime e accoglienti in cui le persone possano essere felici di vivere.»
«Beh, ma non pensi che una casa sia solo una casa?»
«Per me è molto di più. Le case sono il seme dei ricordi. Sono le prime cose di cui ognuno ha memoria e che conservano memoria di chi le ha vissute. Possono dire così tanto della persona che le occupa. Sono le più grandi biografie esistenti.»
«Oh… non l’avevo mai vista in questo modo…»
«E poi voglio progettare qualcosa di unico.»
«Ah, ah, ah! Non essere superbo!»
«Non è superbia. Hai mai sentito parlare di Gaudì?»
«Gaudì? Non sembra un nome giapponese.»
«Non lo è, infatti. Antonì Gaudì è spagnolo. È stato uno dei più grandi architetti del mondo. Ha costruito cose meravigliose che nessuno sarebbe in grado di eguagliare! Era un genio! Diceva che ‘la linea retta è la linea degli uomini, quella curva è la linea di Dio’. E io non voglio fermarmi alla linea retta.»
«E poi dici di non essere superbo. Attento, Baiko Morisaki, così rischi di diventare anche presuntuoso. Ah, ah, ah!»
«Naaa, Haruko-chan non hai capito! Sto solo dicendo che voglio che tutta la mia vita sia un’immensa linea curva perché così sarò libero di non avere limiti. Sai, Gaudì ha progettato una chiesa cristiana bellissima. Si chiama ‘Sagrada Família’. Ecco io… anch’io voglio creare qualcosa di altrettanto maestoso e grande e unico. Voglio creare la mia Sagrada Família.»

E in quella linea curva ci si era chiuso, in trappola, in maniera ciclica. Non c’era la libertà di non crearsi limiti, ma limiti che avevano soffocato la libertà. La sfera era divenuta il mausoleo alla sua memoria, non la sua biografia.
Le dita di Baiko scivolarono sulle righe del tecnigrafo dal braccio mobile, sul piano bianco e liscio e si fermarono su una cartellina chiusa. L’aprì e il bozzetto a mano libera della Sagrada Família di Gaudì occhieggiò su carta ruvida e in bianco e nero.
I suoi sogni erano rimasti intrappolati in quelle linee a matita, incomplete come la stessa basilica.
«Io l’avevo costruita, la mia opera unica… e l’ho distrutta…» mormorò, sedendosi sullo sgabello, e lì stette.

 

“Here am I floating /
Sto galleggiando qui,
round my tin can /
attorno al mio barattolo di latta.
Far above the Moon /
Lontano, sopra la Luna,
planet Earth is blue /
il pianeta Terra è blu
and there's nothing I can do /
e non c’è niente ch’io possa fare.

David BowieSpace Oddity

 

«Portasti avanti più di tre lavoretti, quell’anno.»
La voce di sua madre lo sorprese nel momento in cui era stato convinto di essere da solo. Sussultò e si volse. La trovò ferma vicino alla porta, con le mani appoggiate sul bastone.
Baiko accennò un sorriso, richiudendo la cartellina. «Già. Furono i primi lavori. Si rivelarono un’esperienza davvero utile. Macinavo chilometri con la mia bicicletta.»
«Tuo padre non voleva assolutamente che ti distraessi dallo studio.» Claudicante, Chiyo lo raggiunse un passo alla volta.
«Me lo ricordo. Ma questo tecnigrafo era molto importante per me.» Baiko fermò le mani sul ripiano, osservandolo nella sua interezza con amaro rimpianto. Ormai non gli serviva più.
Sua madre appoggiò il bastone al legno del tavolo, e gli mise entrambe le mani sulle spalle.
«La tua opera non è distrutta, Baiko, è solo incompleta, proprio come quella chiesa. E tu puoi ancora continuarla e concluderla.»
Lui scosse il capo con dolenza. Era convinto che a quel punto fosse tutto inutile, stava rincorrendo delle illusioni così come stava facendo con i suoi ricordi. «E come? Non era così che doveva andare…»
«I progetti non sono stabiliti, ma possono cambiare in qualsiasi momento. Lo faceva anche quell’architetto: seguiva i lavori passo passo e li modificava senza affidarsi a un disegno su carta, perché ogni cosa era nella sua testa. Puoi farlo anche tu, niente è perduto.»
Baiko le rivolse un’occhiata ironica. «E tu come-»
«Perché sei mio figlio, devo conoscerle le tue passioni per poterle capire e capirti.»
Lui rise. No, sua madre non era per niente cambiata. La osservò allontanarsi dopo che gli ebbe dato un colpetto sulla spalla.
«Vado a preparare del tè» disse, ma si fermò sulla soglia. «Ah, a proposito di quella vecchia bicicletta. E’ ancora nella casetta degli attrezzi. Tuo padre le ha fatto una manutenzione continua, sperava che un giorno Yuzo potesse tornare a farla pedalare.»
«Cosa?! La-la mia bici?!» Baiko la guardò stralunato. Aveva attraversato infinite volte il paese in sella alla sua bicicletta, l’aveva usata per andare a scuola o per andare ad allenarsi a baseball. Di nascosto, ci era anche andato al mare, pedalando lungo la passeggiata per respirare l’odore piacevole di salsedine. Era stata una specie di compagna di avventure lungo le infinite linee curve della sua giovinezza prima che si chiudessero su loro stesse, come un guscio di lumaca, per assumere una forma sferica, ciclica e dritta. Però sua madre aveva ragione, i progetti potevano cambiare. La sfera, le volute del suo guscio si erano spezzate e ciò che era stato dritto, poteva tornare a curvarsi infinite volte inseguendo l’astratto e non il geometrico.
Lui era la mano, era Gaudì, era il progetto. E non era perduto.

«Non è mai troppo tardi.»

Baiko si alzò velocemente, iniziando a frugare nel suo vecchio armadio. C’erano ancora gli abiti che aveva lasciato lì prima di sposarsi. Era stato sicuro non gli sarebbero più serviti, ma non aveva fatto i conti col destino e i suoi tornanti.
Chiyo lo osservò con perplessità. «Ma… cosa cerchi?»
«La mia tuta, mamma, è ancora qui?» domandò, cavando l’impossibile.
«Beh, sì… è nell’anta centrale…»
Baiko la trovò subito, così come trovò, sotto al letto, anche l’ultimo paio di scarpe da ginnastica che aveva comprato e che potevano vantare la bellezza di più di vent’anni. Svelto si richiuse in bagno e ne uscì qualche minuto dopo, vestito di tutto punto.
«Si può sapere che stai facendo?» Chiyo aveva continuato a seguire i suoi movimenti senza riuscire a comprendere. Gli vide inforcare l’uscita di casa e fece per seguirlo quando notò la fotografia abbandonata sul letto. Sorrise e la portò con sé, muovendosi adagio come gli consentiva la sua anca malridotta. Si affacciò in tempo per vedere il figlio entrare nella casetta degli attrezzi che Shuzo aveva fatto diventare il suo laboratorio personale.
Baiko ne uscì dopo un po’ assieme alla famosa bici. Era in condizioni perfette, suo padre vi aveva cambiato la catena e l’aveva addirittura riverniciata. Gli era bastato darle una gonfiata alle ruote per averla nuovamente pronta per affrontare la strada.
Montò in sella, avvertendo di nuovo gli anni dell’adolescenza formicolare sotto le dita.
«Possiamo berlo più tardi il tè?» domandò, rivolgendo a Chiyo il sorriso solare di chi aveva il mondo intero nelle mani. «Vado a fare un giro!»
Mentre lo vedeva varcare il cancello che delimitava la proprietà, sua madre sorrise. C’erano voluti più di vent’anni e molta fatica, ma Baiko aveva finalmente trovato la sua strada.
«Non preoccuparti, caro» Chiyo si rivolse a Shuzo, stringendo un po’ di più la cornice al petto «saprà rimediare ai suoi errori, vedrai.»

 


[1]ENGAWA: è la classica verandina in legno delle case giapponesi tradizionali (esempi: *clicca qui*, *clicca qui*, *clicca qui*).

[2]MONTE KUNO: è un monte che si trova nel distretto di Suruga-ku, nella Prefettura di Shizuoka, alto 216 metri. E’ molto ripido ed è famoso per il tempio scintoista sito alla sua sommità: il Kunōzan Tōshō-gū.

[3]RIKKA SHOFUTAI: l’arte dell’Ikebana ha diversi stili, più o meno complicati. Il Rikka è lo stile più antico e classico, molto complesso e attualmente poco praticato se non dai grandi maestri nelle occasioni particolari. Esiste il Rikka Shofutai e il Rikka Shimputai. La differenza sta nel fatto che mentre lo Shofutai segue regole e tecniche molto restrittive e rigide, lo Shimputai è più… rilassato. XD
Ho sempre trovato l’Ikebana un’arte meravigliosa, in grado di valorizzare e rendere unici i fiori recisi, naturali, come fossero ancora attaccati alla pianta. E dire che a me non piacciono i fiori recisi, eh, quindi è tutto dire. X3
Ho scelto lo Shofutai, perché comunque la madre di Baiko è più anziana, e quindi vi era un modo di fare ikebana di sicuro differente da quello attuale (inoltre, lo Shimputai è stato introdotto solo nel 1999!) (Esempio di Rikka Shofutai: *clicca qui*)

[4]: Nel linguaggio giapponese dei fiori, il Lycoris (o Higanbana o Red spider Lily) significa ‘abbandono, memorie perdute’, mentre il Rengyou (o Forsythia) significa ‘speranza’. :3 ogni riferimento agli eventi NON è puramente casuale XD (esempio di Rengyou: *clicca qui* *-* io ce l’ho in giardino!; esempio di Lycoris: *clicca qui* °-° sono meravigliosi!).

[5]CY YOUNG & [6]SADAHARU OH: due famosissimi giocatori di Baseball. Ciclone Young è stato uno dei più grandi lanciatori del baseball americano, tanto che vi è un premio per i lanciatori che porta il suo nome. Sadaharu Oh, invece, è stato (in gioventù, ora fa il manager XD) un lanciatore che venne convertito in prima base divenendo uno dei più importanti battitori del baseball giapponese. Ha giocato tutta la sua carriera con i Giants, collezionando 868 home runs! XD


Note extra:

- La Sagrada Família: perché Gaudì era un genio, di quelli veri. Adoro quella chiesa, penso sia la più bella del mondo ed è un peccato che non sia riuscita a completarla lui, di suo pugno. Purtroppo, nonostante verrà ultimata, non sarà mai come Gaudì avrebbe davvero voluto che fosse perché è vero: lui presenziava ai lavori, viveva dentro la chiesa, effettuava cambiamenti in corso d’opera senza più affidarsi ai disegni.
Che peccato. ç_ç.

- Il Tecnigrafo: non so quanto ancora vengano usati dagli architetti moderni, visto che esistono programmi di grafica strafighi che fanno anche l’impossibile. Voglio ancora sognare un po’ che questi bei tavoloni da disegno facciano bella mostra negli studi dei professionisti, pieni di carte e progetti. Ho avuto il piacere di usarne uno quando facevo il quarto anno di liceo, poiché avevo disegno tecnico tra le materie, e l’ho amato tanto. Era un vero piacere disegnare sul tecnigrafo, tanto che mi sarebbe davvero piaciuto poterne avere uno a casa. XD Ma, insomma, sono ingombranti e poi non credo l’avrei più usato XDDDD (Esempio di tecnigrafo: *clicca qui*, il mio però non era così bello XDDDD).

- Perché l’Architetto?: non è la prima volta che uno dei miei personaggi fa l’architetto (chi ha letto la serie original “Stella di Sabbia” si ricorderà di Nicola). Mi piace l’architettura, resto moltissimo a osservare case, chiese e costruzioni varie, se riescono a colpire la mia attenzione (XD e il mio ragazzo ne sa qualcosa, visto che ogni tanto quando siamo a Torino mi metto a fotografare ora questa, ora quella casa! XDDD).
Quando ho dovuto scegliere quale fosse l’aspirazione di Baiko, ho pensato a un omino che viene sempre nell’aula studio dove vado io. E’ un signore sulla cinquantina, armato di album, colori e matite. Sta lì, spalle alla finestra per avere la luce sul foglio, e disegna. Disegna, disegna, disegna. Una volta ho allungato il collo per sbirciare (XP) e stava facendo un bellissimo disegno di quella che sembrava essere una chiesa. Dal modo in cui lavorava, in cui teneva le matite ho subito pensato che fosse un architetto e trovo piacevole star lì a osservare la sua dedizione per ciò che sta facendo (non l’ho mai visto spiccicare parola, non ha occhi che per il foglio). Mi ha fatto un sacco tenerezza! :3
Ecco, quando ho visto lui, ho pensato: “Baiko sarà architetto.”
(XD cosa non si fa pur di non studiare Geologia Applicata!)


Le canzoni del capitolo:

- Help! (The Beatles): perché Baiko ama i Beatles e visto che da questo capitolo comincia la discesa (con il precedente avevamo raggiunto un culmine, un picco), allora le loro sonorità allegre e dinamiche mi sembravano quelle più adatte. E poi il testo era perfetto! :D

- Space Oddity (David Bowie): Bowie o lo ami o lo odi, le vie di mezzo non esistono. Space Oddity sapeva ricreare la meraviglia della scoperta – riscoperta, in questo caso – lasciando però, nel finale, una certa amarezza. E poi adoravo il conto alla rovescia della parte iniziale, è come se fosse il countdown finale di Baiko, gli ultimi passi per arrivare finalmente ad affrontare le cose lasciate alle spalle (lo studio di suo padre, la propria camera, il baseball, il tavolo da disegno).
Infine, si parla di astronauti e a cosa era stato paragonato fin dall’inizio il cervello di Baiko? :3
(Il video linkato non è quello originale, ma una seconda versione che a me, personalmente, piace di più! :D)


Ok, anche per questo capitolo è davvero tutto!
Al momento sono a 8/11 capitoli, sto lavorando al 9 ma ci vuole tempo. Cercherò di non saltare nessun aggiornamento, in caso contrario vi avviserò.

Ringrazio tutte le persone che stanno seguendo questa storia! :D

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Capitolo 7
*** Part VII: Curveball ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part VII: Curveball(1) -

 

“I’ve been sitting in the darkness /
Sono stato seduto nell’oscurità,
but the sunlight’s creeping in /
ma la luce del sole sta iniziando ad entrare.
Now the ice is slowly melting /
Ora il ghiaccio si sta sciogliendo lentamente,
in my soul and in my skin /
nella mia anima e sulla mia pelle.
All the good times my friend /
E tutti i bei tempi, amico mio,
are coming around again /
stanno tornando di nuovo.

 

Le ruote macinavano l’asfalto quasi stessero volando e le gambe pedalavano come non avessero mai smesso di farlo per tutti quegli anni. Dopo si sarebbe sentito a pezzi, poco ma sicuro, ma in quel momento non gliene importava niente.
Baiko aveva l’aria d’Agosto che gli correva lungo il viso e si sentiva rinato.
Filtrava tra i capelli, faceva svolazzare il collo della t-shirt, e il paesaggio circostante fluiva nell’irraggiungibile punto di fuga.
Quando era arrivato con la macchina non ci aveva fatto caso, troppo concentrato a riprendersi per presentarsi davanti sua madre, ma ora gli occhi godevano del panorama.
Le case lungo la strada alberata che portavano alla villa di famiglia si erano modificate. Alcune erano state abbattute e costruite da capo, avevano colori brillanti nel verde e marrone di foglie e tronchi, altre erano sempre le stesse e altre totalmente nuove, postume.
La bottega di stoffe del vecchio Kikuchi-san era ancora al suo posto, con l’insegna scritta a mano, ma l’uomo non era più sulla soglia. C’era una donna di mezz’età, però, in cui riconobbe la figlia, Momoka, un tempo Momo-chan. L’immagine della bambina con le treccine si sovrappose al presente.
Sorrise e tirò dritto.
I ricordi presero il sopravvento sull’attuale, e ogni cosa sembrò trasfigurare in ciò che era stato.
I ciliegi, ora pieni di foglie, tornarono a essere in fiore. I signori lungo la strada tornarono bambini con le divise scolastiche. Le auto divennero più rare e dai modelli fuori commercio. Verso la sommità del monte, si intravvedevano le strutture del Tempio Toshogu, tra le fronde di nikko(2) e mizunara(3) che frusciavano immutate. E l’aria aveva l’odore inconfondibile della campagna.
Baiko raddrizzò la schiena, tolse le mani dal manubrio e lasciò la bici libera di andare da sola lungo la strada sgombra. Era bello vedere che l’urbanizzazione non era arrivata fin lassù in maniera invadente. Era bello riuscire a riconoscere alla perfezione ogni singolo angolo, magari un po’ modificato, e riuscire a sovrapporci l’immagine di ciò che era stato. Era bello non vedere grattacieli e cemento, non vedere colletti bianchi che riempivano le strade e si muovevano a sciami. Era bello non sentire il telefono squillare a ogni piè sospinto. Era bello non doversi preoccupare dei bilanci di fine mese, delle azioni in borsa, dei prodotti per la nuova stagione, delle vendite. Era bello non sentire il ratatatà della pistola mitragliatrice 2G9-UziStyle, il kaboom del mortaio 2G60-Sugihara&Kreeck, il pam-pam-pam della 2G9-Star.
Lì, gli unici rumori erano lo ssssshhhhh delle foglie, il cip-cip acuto degli uccelli e il clank della catena a ogni pedalata; suoni così sommessi e in coro perfetto che sembravano essere una ventata d’ossigeno per il suo cervello.
Il sorriso si distese ancora di più; chiuse gli occhi e sollevò il viso, smettendo addirittura di pedalare. La bicicletta continuava a vivere di vita propria. Anche lei sembrava felice d’esser tornata in pista, come i vecchi tempi, e pareva avesse voluto condurlo fino all’infinito.
Baiko ridacchiò, ripensando alle gare a chi arrivava primo a scuola, alle salite sollevato dal sellino e tirate fino allo stremo. E alle scapicollanti discese.
Aprì lentamente gli occhi.
«Oh, merda!»
Baiko si ritrovò proprio una ‘scapicollante discesa’ davanti; era quella che portava giù, in direzione del mare. La famosa Scavezzacollo. E l’aveva dimenticata.
Si gettò con entrambe le mani per afferrare il manubrio e anche se tentava in tutti i modi di frenare, la bici non ne voleva affatto sapere.
«Ora mi sfracelloooo!» ululò, perdendo il controllo del suo piccolo mezzo e finendo nella cunetta, al lato della strada. La ruota posteriore della bicicletta impennò e tutto quello che Baiko vide fu il mondo che si capovolgeva e poi il giallo e verde in un miscuglio inscindibile. Per fortuna, l’impatto fu quanto di più morbido avesse mai osato sperare. Oltre la strada, c’erano alcuni campi coltivati e lui, per miracolo, era finito in una montagnola di erba e fieno.
Baiko si trovò, con gambe e braccia spalancate, a fissare il cielo azzurro sopra la sua testa, mentre nel petto il cuore batteva tachicardico. Fece respiri brevi e veloci, realizzando che, no, per grazia di qualche Dio non si era sfracellato, ma aveva fatto un tuffo che gli sarebbe valso un applauso da parte di tutti i suoi amici: quante volte si erano cappottati, quante. Impossibili da contare, non sarebbero bastate le dita dei piedi e delle mani messe insieme.
«Goro, questo sarebbe stato almeno da otto pieno» mormorò, rivolgendosi a quello che un tempo era stato il suo migliore amico, dall’elementari fino a tutta l’adolescenza; il ricevitore della Suruga Gakuen.
Uno strano verso gli uscì dalle labbra, strozzato e incerto, e poi si fece più concreto e forte, fino a che non si ritrovò a ridere a piena bocca e con tanto di lacrime agli occhi, mentre tentava di emergere da quel cuscino improvvisato. Sembrava uno scarafaggio finito a zampe all’aria. A fatica, tra le risate, si rotolò su di un fianco, sputacchiando fili di fieno e togliendo erba dai capelli.
«Ommamma» borbottò, sedendosi sui talloni e poggiando le mani sulle gambe. Adagio si guardò attorno, dove le cicale continuavano a frinire e le fronde a frusciare, quiete. «Per fortuna non mi ha visto nessuno. Che figura di merda.»
Lentamente si rimise in piedi, uscendo con un po’ di fatica, data la sua mancanza di allenamento, dal groviglio d’erba per tornare di nuovo sulla strada. Si ripulì alla meglio e poi andò a recuperare la bicicletta, coricata di lato e abbandonata un po’ più avanti.
Baiko l’alzò, per verificare i danni, e s’accorse che la ruota anteriore aveva preso una bella ammaccatura, con tanto di raggi piegati.
«Accidenti» cincischiò con le parole. Quella sarebbe dovuta passare a suo figlio, Shuzo aveva fatto tanto per tenerla in ordine e lui non poteva essere da meno. «Vorrà dire che sarò io a sistemarti, che ne dici?» La bici non rispose, se non con un cigolio quando provò a far girare la ruota. «Torniamocene a casa, campionessa, ne abbiamo combinate abbastanza per oggi.»
Come quando era giovane, e gli capitava di forare, si caricò il mezzo sulla spalla e si volse. Guardando la strada dalla quale era venuto, spalancò la bocca e poi si spalmò una mano sulla faccia.
«E chi se la ricordava così in pendenza, questa salita?!»
Anni fa, non sarebbe stato un problema, ma ormai non era più un ragazzino: altri due e avrebbe compiuto mezzo secolo. Mezzo secolo era tanto, soprattutto se si aveva smesso di fare attività sportiva da venti-trent’anni.
Passandosi una mano sulla fronte e preparandosi ad affrontare la calura di quel pomeriggio, Baiko iniziò a incamminarsi. Piano piano, avrebbe risalito la china.

 

“I’ve been thinking reminiscing /
Ho pensato alle riminescenze
of better nights and better days /
di notti migliori e migliori giorni,
hiding in a refuge /
nascondendomi in un rifugio
of memories I’ve made /
di memorie che ho costruito.
I got a feeling within /
C’è un sentimento in me.
It’s coming around again /
Sta tornando di nuovo.

 

Dopo mezz’ora che stava camminando, Baiko si fermò, appoggiando la bicicletta al suolo.
Ma quanti diavolo di chilometri aveva percorso?!
A piedi erano tutt’altra cosa e non aveva portato nemmeno una borraccia. Con quel caldo, poi.
Si guardò attorno, appoggiato al sellino. In lontananza, dove gli alberi non arrivavano a coprire, l’asfalto tremolava sotto il sole. E lui era madido di sudore. La salita lo aveva sfiancato del tutto e nemmeno voleva pensare come si sarebbe sentito il giorno dopo.
Tirando un ultimo, profondo respiro, si caricò nuovamente la bicicletta per riprendere la marcia.
In lontananza sentì il rumore d’un motore e il bussare di un clacson. Ecco qui, adesso poteva dirsi al completo, con la fortuna che aveva, minimo minimo si sarebbe trovato il cretino di turno a prenderlo per i fondelli.
«Ehi, amico. Abbiamo forato?»
Come volevasi.
Baiko scosse il capo, accennando un sorriso. Fino a pochi giorni prima si sarebbe girato sprezzante, dicendone quattro a chi si permetteva di prenderlo in giro. Fino a pochi giorni prima non avrebbe accettato l’aiuto di nessuno, perché non ne aveva affatto bisogno. Ma quei giorni erano finiti.
«Peggio. Molto peggio» disse, mettendo giù la bici per girarsi verso lo sconosciuto.
Affacciato al finestrino del Land Cruiser nero, c’era un uomo dalla faccia tonda e piena, con calvizie incipiente e il sorriso simpatico.
Si fissarono per un attimo, preda ambedue di un fortissimo senso di déjà-vu. Baiko vide sovrapporsi, su quello stesso viso, una maschera da baseball. Strabuzzò gli occhi.
«Goro?!»
«Baiko?!»
L’uomo, che si rivelò essere una sorta di armadio a muro, scese in fretta dal fuoristrada, gridando come un forsennato.
«Ommioddio! Baiko! Baiko Morisaki! Per tutte le brache di mio nonno! Fatti abbracciare!» Lo afferrò di forza, stringendolo in una morsa da anaconda. Gliel’avevano sempre detto tutti che aveva sbagliato sport: avrebbe dovuto dedicarsi alla lotta libera, invece che al baseball.
Baiko si trovò quasi sollevato da terra, ma non ci fece nemmeno caso.
«Goro Nishiguchi! Non ci posso credere!» e non ci credeva ancora, nonostante ne stesse stringendo la mole mastodontica. Era felice come un bambino. E rideva. «Dio, Goro! Vecchia Montagna
«Porca Prugna! Non mi chiamavano così dai tempi del liceo!» L’uomo sciolse la presa dandogli vigorose manate sulle spalle. «Ma fatti vedere! Che mi prendano dieci colpi tutti insieme! Sei proprio tu! E quanti anni sono che non ci vediamo?! Mi sembra passata un’eternità!» continuò  a sciorinare l’energumeno, rigirandolo nemmeno fosse stato un fuscello. «Guarda qui! Quasi cinquant’anni e sembri sempre un ragazzino! Fanculo quanto ti invidio! Io ho perso quasi tutti i capelli!»
«Beh, quello che hai perso l’hai messo in chili.» Baiko inarcò un sopracciglio, usando la sua pancia prominente come un punching-ball.
«Naaaa! Ma quali chili?! Questi sono ‘muscoli rilassati’, vecchio mio, ‘muscoli rilassati’
«Certo, come no!» lo prese in giro Baiko «Magari sotto la ciccia ci sono anche quelli.»
Goro gli circondò il collo con il braccio possente e gli spettinò i capelli.
Lui continuava a ridere pensando a quanto fortuito fosse stato quell’incontro, inaspettato e proprio nel momento del maggiore bisogno. Il destino agiva sempre a modo suo, proprio come la famosa linea curva: girava, saliva, scendeva, si ripiegava su sé stesso e poi si apriva in maniera inattesa, ma ogni cosa sembrava sempre avere un suo perché, anche in quel caso.
«Ma fammi vedere, che hai combinato? Non è il tuo scassone di bici, quello?!»
Goro aveva adocchiato il povero mezzo ammaccato, rimanendo di sasso nel vedere che fosse ancora in grado di camminare.
«Proprio lei.» Baiko si inorgoglì mostrando il cimelio, ma subito si sgonfiò. «Anche se mi ci sono cappottato.»
Nishiguchi sbottò a ridere sonoramente dandosi una manata. «Non mi dire! Ti sei arrotolato sulla Scavezzacollo
«Quella salita è sempre stata la nostra più grande sfida.» Baiko scosse il capo, grattandosi la nuca. «Le cadute che ci abbiamo preso…»
«…le bici distrutte…»
«…le ossa rotte…»
«…e le cazziate dei nostri genitori.»
Entrambi agitarono lentamente una mano, aggrottando le sopracciglia e stringendo le labbra.
Baiko ricordò sua madre e suo padre che gliene urlavano di ogni affinché non facesse lo spericolato lungo quella discesa, ma tanto era giovane e le parole, a quell’età, entravano e uscivano più facilmente di quanto restavano.
«Ma mai come quelle del coach Kitakami!» Goro sollevò le mani, mentre lui rivedeva per un attimo il volto sempre ingrugnato del mister. Così come allora, gli venne naturale fargli il verso.
«‘E allora?! Non sperate di battere la fiacca! Doveste rompervi le ossa, vi farò battere le palle con le stampelle!’»
Scoppiarono a ridere tutte e due, ripensando al buon vecchio allenatore; un tipo burbero, ma in gamba. Li aveva sempre allenati con passione e dedizione, nonostante l’avessero fatto dannare più di una volta.
D’un tratto la grande e tozza mano di Goro si poggiò sulla sua spalla. Sorrideva felice.
«E’ bello rivederti. Davvero. Credevo che il tuo vecchio t’avesse seppellito nell’azienda. Non ti si vedeva mai da queste parti.»
Lui sbuffò un sorriso, annuendo adagio e spostando al suolo lo sguardo. «Diciamo che sono risorto da poco.»
«Ah, ma allora ti ha incastrato davvero nella dirigenza della ‘Golden Gun’. Pensavo fossi riuscito a diventare architetto…»
Baiko si strinse nelle spalle, levando nuovamente lo sguardo su di lui. L’espressione un po’ rassegnata. «E invece.»
L’altro annuì, ma non perse tempo a pungolarlo col gomito e sollevare furbescamente le sopracciglia. Sul viso un sorriso a trentadue denti. «E dimmi, te la sei poi sposata la graziosa Sagara?!»
Lui non rispose, ma si limitò a sollevare la mano, affinché l’amico vedesse la fede. Goro sbottò a ridere di nuovo.
«Oddio! Che romantico del cazzo!»
«Ma senti chi parla! Non eri tu quello che in terza liceo fece recapitare il fascio di rose rosse a tale Miyuki Soshino, del club di pallavolo?!»
Nishiguchi sospirò. «Eh, sì. Ma non è andata un granché, mi ha mollato che ero all’università. In compenso, ho trovato una mogliettina che è una cuoca formidabile!»
Stavolta fu il turno di Baiko di ridere forte, dandogli una manata sulla pancia. «Lo vedo!»
«Ah, ah. Molto spiritoso, vecchietto.»
Lui si poggiò contro la portiera del fuoristrada, sghignazzando ancora un po’ prima di chiedere: «Tu, invece? Cosa fai di bello?»
Goro gli si fece di fianco, sedendosi sul seggiolino del guidatore. «L’armatore. Il mio vecchio m’ha lasciato un po’ di navi di cui mi sto prendendo cura. ‘Trasporti Marittimi Nishiguchi, sempre sulla cresta dell’onda’!» declamò, dandosi un tono. «Alcune sono attraccate al porto di Shimizu-ku, in attesa di caricare. Per questo ne ho approfittato per fare un salto a Suruga-ku. Ci vengo praticamente tutte le estati, a mia moglie piace e anche a me.»
Baiko sollevò lo sguardo alle fronde, tirando un profondo sospiro. In fondo, era sempre piaciuto anche a lui, nonostante non ci tornasse mai, ma i motivi che l’avevano tenuto lontano erano stati diversi e avevano prevaricato ogni altra cosa. L’odio e il rancore a volte erano impossibili da battere senza la giusta motivazione. «Fai bene. E’ bello qui, e l’aria è buona.»
«Già. Pensa che mia figlia ha voluto che le comprassi una casetta, per venirci quando nascerà la mia prima nipotina.»
Baiko si girò di scatto, con tanto d’occhi. «Stai già per diventare nonno?!»
«Oh, sì!» Goro si dondolò in avanti, sembrava al settimo cielo. Lo guardò con occhi adoranti che lo fecero sorridere. «Mi sono sposato presto, io. A ventisei anni avevo già una figlia!» Ne parlava carico di orgoglio e felicità. Amava la sua famiglia, i suoi figli e la sua futura nipote. Probabilmente più di quanto lui avesse dimostrato di amare la propria, di famiglia. Eppure la amava con ogni fibra del suo essere. Amava Haruko esattamente come il primo giorno e amava Yuzo, perché era suo figlio, era una parte di sé, una creatura che lui aveva contribuito a creare. Era il suo futuro. Ma aveva sempre dato per scontato la loro presenza, il loro rispetto e il loro affetto, senza dare nulla in cambio, senza dimostrare davvero quanto contassero per lui. Anzi, ferendoli.
«Mentre il mio secondo figlio» continuava Goro e lui invidiò quella sua felicità, quel suo equilibrio. «Fa la prima liceo e vuole diventare a tutti i costi allenatore di una squadra di calcio!»
A quella frase, Baiko si fece più attento. Il calcio. Anche il figlio di Goro.
«Sai, lui non è molto portato a giocare, ma ha un intuito che, porca miseria!, vede cose che io non mi sogno nemmeno! Che poi, capirai quanto ne capisco, io, di calcio. Lo sai che per me c’è e ci sarà sempre e solo il baseball» rise l’omone, dandogli una sonora pacca sulla spalla. «Ma, a proposito! Congratulazioni!»
«Eh? Di cosa?»
«Ma come ‘di cosa’?! Per il World Youth! Ho visto tuo figlio! Porca Prugna! Lui sì che è bravo, cazzo! Devi esserne davvero orgoglioso!»
Baiko incassò il colpo cercando in tutti i modi possibili di non sembrare a disagio. La cosa che più riuscì a ferirlo, però, fu pensare che, in definitiva, tutti avessero visto giocare suo figlio, tranne lui. Era il solo a ignorare le sue capacità e se ne vergognò.
«Già…» stentò un sorriso, passandosi una mano dietro la nuca. «Molto orgoglioso.»
«Ci credo!» l’ennesima pacca divertita. «Non ti dico le risate quando l’ho visto! Eravamo io e mio figlio. Mi aveva convinto a vedere insieme qualche partita, e un tratto dicono la formazione. Ti giuro che non avevo minimamente pensato a te, quando ho letto ‘Morisaki’. Ero convinto che almeno il tuo ragazzo avesse seguito le sane orme paterne e si fosse dedicato al baseball! E invece, appena lo hanno inquadrato, sono saltato su a urlare: ‘Cazzo! Che Zeus mi fulmini se quello non è Baiko!’. Per un attimo ho creduto davvero t’avessero mummificato e tirato fuori all’occorrenza!»
Baiko rise, trovando una sorta di consolazione nella somiglianza, almeno fisica, che c’era tra lui e Yuzo. Una magra, magra consolazione di qualcosa che potesse tenerli uniti.
«Quando mio figlio ha scoperto che conoscevo il padre di uno di quei ragazzi voleva mangiarmi per non averglielo detto prima! E vallo a sapere, dico io!» agitò una mano. «Ma, ehi! Non mi hai ancora detto come mai sei da queste parti. Azienda chiusa per ferie?» scherzò.
Lui scosse il capo cercando di trovare una scusa qualunque. «Ah, no, ecco… sono qui per caso… ero passato a trovare mia madre.»
«Beh, sappi che allora è proprio destino.»
Baiko apparve perplesso. «In che senso?»
«Oh, sì sì. E’ stato puro destino se noi ci siamo incontrati proprio adesso e sai perché? Perché tu verrai con me per andare a giocare a baseball!» esclamò, sfregandosi allegramente le mani.
«Cosa?! Ma… ma sono anni che non gioco… i-io non-»
«Ah! Niente lamentele! D’estate mi vedo sempre con alcuni della vecchia squadra, era proprio da loro che stavo andando: al vecchio campetto dietro la scuola.»
Questo gli sembrò ancora più assurdo. «Il vecchio campetto esiste ancora?!»
«Certo che sì! E finché dura me lo voglio godere. Sembra quasi di tornare indietro nel tempo.»
E Baiko quella sensazione che tutto scorresse al contrario stava proprio adesso imparando a conoscerla, continuava a formicolargli sotto la pelle delle braccia, delle gambe; nel petto, dentro al cuore.
«Ma non ricordo nemmeno più come si lancia una palla!»
«Non dire cazzate, è come andare in bicicletta! Una volta imparato, puoi cappottarti quanto vuoi, ma lo saprai sempre fare!»
Baiko inarcò un sopracciglio con ironia. «Lo ricordavo diverso, il detto.»
«Oh, quante storie! Vedrai che appena ti rimetterai il guantone, saprai esattamente cosa fare!» concluse Goro senza nemmeno dargli il tempo di replicare, non avrebbe mai voluto un ‘no’ come risposta. Afferrò la bici e la caricò con facilità nel capiente portabagagli del Land Cruiser, che tanto aveva spazio sufficiente per mettercene tre.
Baiko si rassegnò e salì al lato passeggero. In un attimo, erano già sulla strada che conduceva al campetto.

 

“(It’s coming around again) /
(Sta tornando di nuovo)
We’ve been so long waiting /
Abbiamo aspettato così a lungo
for the all time high /
per i bei tempi.
We got a damn good reason /
Avevamo una dannata buona ragione
to put your troubles aside /
per mettere da parte i tuoi problemi.
And all your winter sorrows /
E tutti i rimpianti dell’inverno
hang ‘em out to dry /
mettili ad asciugare.
Throw it away /
Buttali via,
gotta throw it away /
devi buttarli via
All the colourful days my friend /
Tutti i giorni luminosi, amico mio,
are coming around again /
stanno tornando di nuovo.

 

«Non è una buona idea. Non sono più bravo come una volta.»
Baiko cercava di giustificarsi in tutti i modi sperando che Goro cambiasse idea, ma Vecchia Montagna continuava a mantenere fede al suo soprannome, sembrando inamovibile.
«Ma chissene frega, Baiko! Siamo tutti invecchiati e schiappe! Il bello è stare insieme. Una volta provato non vorrai smettere.»
Lui sorrise, decidendo di arrendersi tanto sapeva che non l’avrebbe mai spuntata. Appoggiò il viso nella mano, il gomito sul finestrino aperto.
«E allora, sentiamo, chi sono i temerari?»
«Buona parte della vecchia combriccola, e qualcuno delle scuole vicine. C’è anche il capitano.»
Baiko raddrizzò la testa, mostrando un sorriso entusiasta.
«Davvero?! Lui sì che era bravo! Se non sbaglio si era iscritto alla Waseda University che aveva una fortissima squadra di baseball.»
Goro fece una smorfia mesta. «Vedo che non lo sai. Matsuda non gioca più. Ha avuto una grave lesione al ginocchio che lo ha lasciato zoppo.»
Per lui quella fu una specie di doccia fredda. Aveva sempre visto nel capitano il vero prototipo del campione. Era un battitore eccezionale, di quelli nati per fare solo ed esclusivamente sport. Un giorno, era stato sicuro, il suo nome sarebbe apparso nella Hall of Fame del Baseball. E invece Goro aveva stroncato quelle che erano sempre state le sue convinzioni, con un colpo netto e preciso.
Il destino non solo era strano, ma anche terribilmente infame.
«E adesso? Cosa fa?»
Nishiguchi esibì un sorriso sereno. «Non si è arreso, non l’avrebbe mai fatto. Ti ricordi, no, che tipo era.»
«Testardo e tenace. Un vero leader.»
«Proprio così. E’ diventato allenatore di una squadra di bambini.»
Baiko sgranò gli occhi. «Bambini?! Non una squadra di serie?»
«Proprio bambini. Piccoli marmocchietti urlanti, con guantoni e maschere più grandi di loro, che corrono per tutto il campo. Ti ricordano nulla?»
«Naaa, non saprei. Non sono mai stato un marmocchio, io.» Poi scoppiò a ridere ripensando a quando aveva per la prima volta indossato un guantone. Si era ritrovato con quella mano enorme ed era rimasto a fissarlo affascinato. Faceva le elementari.
Goro lo pungolò col gomito mentre la vettura continuava a filare tra il verde e le case. «Ma ti ricordi dei nomignoli assurdi che ci eravamo dati al liceo?!»
Baiko si portò una mano al viso. «Oh, per carità! Erano così ridicoli che non so come diavolo ci siano venuti in mente!»
«Veramente fu tutta un’idea del capitano!»
«Che fu quello cui andò meglio, perché tanto lo chiamavamo ‘Il Capitano’!» ci tenne a sottolineare puntandogli contro il dito. «E anche tu! Vecchia Montagna te lo portavi dietro dalle medie!»
«Beh, se è per quello anche a te andò bene! Braccio di Ferro non era affatto male! Che doveva dire, allora, Mezzacanna?!»
«Oddio! Mezzacanna! Ma c’è anche lui al campetto?!»
«Certo che sì… ed è rimasto una mezza canna!»
Stavolta risero sonoramente entrambi nel ricordare il loro piccolo catcher: era sempre stato il più basso della squadra, ma come saltava lui, per prendere anche le palle impossibili, nessuno mai. In quel momento, l’edificio scolastico comparve davanti a loro, circondato dal cancello.
Baiko lo vide assumere un colore seppia e modificarsi a mano a mano che si avvicinavano. Era tornato identico a come lo ricordava. I ragazzi in divisa e cappello si muovevano veloci, le ragazze parlottavano ridendo compite e nascondendo i sorrisi dietro le mani. Poi arrivavano loro. Lui, Vecchia Montagna, Mezzacanna, Slider, Flip Flap, Cicogna, Bento, V90. Smontavano al volo dalle bici ed entravano giusto in tempo nel cortile, prima che il vecchio custode chiudesse i cancelli che, no, non erano affatto automatici come quelli di adesso.
Era tutto un altro mondo.
Goro posteggiò il fuoristrada nel parcheggio esterno. Aprì il portabagagli e tirò fuori la borsa con dentro tutta la sua attrezzatura tra maschera, pettorina e schinieri. Sulla testa si calcò un consunto cappellino con il simbolo dei Giants.
«Andiamo, vecchiaccio!» esclamò, passandogli rudemente un braccio attorno al collo. «Non ti sembra già di ritornare bambino? Non la senti l’adrenalina? Cazzo! La prima volta me la stavo facendo nei pantaloni per l’emozione!»
Baiko rise, lasciandosi trascinare – che tanto non aveva scelta – all’interno del cortile. Le cose erano decisamente cambiate, modernizzate. E anche l’edificio era stato ristrutturato e migliorato. Visto che erano nel pieno delle vacanze estive non c’erano studenti, ma vari inservienti. Quest’ultimi salutarono Goro comunicandogli che i soliti erano già arrivati e si trovavano al vecchio campo.
«Alla fine della fiera» spiegò il colosso «hanno costruito un diamante molto più bello per i ragazzi. Così, in estate, che tanto non ci viene nessuno, ci lasciano usare quello piccolo in cui giocavamo noi. In fondo, per la maggior parte siamo ex-allievi e i ragazzi ci vedono come delle celebrità.» Si grattò dietro la nuca. «Ti confesso che a volte mi imbarazzo un po’: quelli ci conoscono tutti per nome.»
«Ma scherzi? Non eravamo poi tutto questo granché…»
«Ehi, ehi! Ti ricordo che i campioni di Suruga eravamo noi!»
«Sì, ma non siamo mai andati al Campionato Nazionale.»
Goro gli arruffò i capelli, indispettito. «E con questo?! Non essere sempre così fiscale, ferraccio arrugginito! Lo eri da moccioso e lo sei ancora, ma fatti dire che sei peggiorato, Baiko Morisaki!»
Lui ridacchiò, senza smentire. Anche se molto più entusiasta di quanto fosse adesso, fin da bambino aveva sempre teso a restare con i piedi per terra, quando si trattava del baseball. Nella sua testa, era un modo per spronarsi, ma con l’andare del tempo si era trasformato in cinismo acuto. Per fortuna che non era infettivo né trasmissibile attraverso i geni.
«Ehi, Goro!» quella voce un po’ nasale e acuta si attirò la loro attenzione, nemmeno si erano accorti di essere arrivati nel famoso e tanto amato vecchio campo. «Era ora che muovessi il tuo culone flaccido, che cavolo! Nemmeno ti fossi fatto a piedi la… fottuta miseria
Baiko si vide arrivare, a tutta velocità, un omino sul metro e sessanta. Gli vide spiccare un salto da grillo e se lo ritrovò addosso, preso al volo.
«Braccio di ferro! Braccio di ferro Baiko! Non ci credo! Non ci credo!» sciorinò, preda di una euforia così genuina e al limite della commozione.
«Mezzacanna! Hai ancora le molle nelle gambe!» rise lui, dandogli affettuose pacche sulla schiena.
«Mamma mia quanto tempo è passato! Quasi non ci speravo che un giorno ci saremmo ritrovati proprio tutti insieme!» Wataru Yasunaga, detto Mezzacanna, sciolse la presa mostrandogli un sorriso che la vecchiaia aveva un po’ sdentato. I fondi di bottiglia ancora sul naso e la cordicella per tener ben fermi gli occhiali attorno alla testa.
Goro tornò a passargli un braccio attorno al collo, rivolgendosi anche agli altri che avevano interrotto il riscaldamento e li fissavano chi già col sorriso stampato sulle labbra e chi che stava ancora realizzando.
«Indovinate un po’ chi ho raccolto dopo una ruzzolata dalla Scavezzacollo
Baiko li riconobbe tutti, erano proprio il suo vecchio gruppetto, quello che arrivava sempre insieme a scuola, rumorosi sulle loro biciclette un po’ ammaccate dalle troppe cadute. Chi era ingrassato, chi aveva perso i capelli, adesso erano un allegro gruppo di cinquantenni con tanta di quella energia da far vergognare un adolescente. E anche lui, dentro di sé, aveva ripreso a sentire quella carica, quella giovinezza che aveva soffocato con le sue stesse mani. Goro aveva avuto ragione: il tempo era davvero tornato indietro, ed era una sensazione fantastica.
«Ma guarda guarda chi è tornato all’ovile.»
Quel tono pungente, sempre sarcastico, ma con una nota divertita gli arrivò alle spalle, facendolo girare. L’aveva riconosciuto subito e anche se non era stato della Suruga Gakuen, ma della sua avversaria storica, si trovava lì, con loro e gli faceva davvero piacere rivederlo.
«Nakamoto!»
Tra lui e Aki Nakamoto vi era sempre stata una sana rivalità, fatta di battutine, occhiate di sfida e profondo rispetto. Era il battitore della Ago Academy.
Baiko allungò la mano verso di lui che venne stretta prontamente, in una presa salda.
«Sei tornato tra i comuni mortali, Mr. President?» scherzò Aki con un sopracciglio inarcato.
«E’ stato un caso. Così come è stato un caso che io abbia incontrato Goro» sorrise Baiko. «E tu come stai?»
«Se tralasciamo qualche reumatismo e la cervicale, direi bene. Sappi che le tue 9-Star sono veramente notevoli.» Vedendolo perplesso, Aki continuò. «Ho un’agenzia di sicurezza e vigilanza. I nostri fornitori di armi trattano le 2G. Complimenti.»
«Oh, davvero? Qualora dovessero esserci problemi, fammi sapere, mi raccomando.» La sua professionalità si inseriva in automatico appena si parlava dell’azienda. Era un meccanismo che gli si era aggrappato addosso negli anni, divenendo quasi una seconda pelle. Poi, tra le teste che gli erano attorno, scorse un uomo appoggiato a un bastone, che restava più lontano, nei pressi di una panchina in legno un po’ rudimentale. Lo sguardo di Baiko assunse una sfumatura agrodolce nell’accenno di sorriso. Diede una pacca sulla spalla al suo vecchio avversario e si defilò, avvicinandosi alla figura alta, dalla schiena dritta e il capellino sulla testa. Gli sorrideva di rimando, entrambe le mani poggiate sulla testa del sostegno.
«Capitano» salutò abbracciandolo con affetto.
Matsuda era più grande di loro di un anno, eppure sembrava molto più vecchio dei suoi quarantanove. Baiko si sentì stringere con vigore.
«Morisaki. Ancora ti cappotti sulla Scavezzacollo?» Lo prese in giro il suo ex-capitano.
«Lasciamo perdere. Mi ero dimenticato di quella discesa e me ne sono ricordato solo quando era troppo tardi» ammise lui con sincerità, sciogliendo l’abbraccio. «In questi giorni non ci sto molto con la testa.» Però non ne voleva parlare e Matsuda sembrò comprenderlo, mantenendo il discorso sul vago.
«Quando i problemi sono grandi, anche camminare diventa difficile.» Con fatica si accomodò sulla panchina. Baiko colse il riferimento alla sua condizione e si sedette accanto a lui.
«Goro me l’ha detto. Mi dispiace Matsuda, deve essere stato difficile per te, che amavi così tanto questo sport.»
Il Capitano si strinse nelle spalle facendo una smorfia. La gamba zoppa distesa, perché tenerla piegata era stancante e doloroso.
«Abbastanza. Quando è il tuo corpo a tirarti il bidone, ti rimane l’amaro di non avere nessuno con cui prendersela.»
«Quando è successo?»
«Ero ancora all’università.» Ed era tanto, tanto tempo prima. Quasi una vita intera vissuta con la consapevolezza dei propri sogni spezzati. Eppure, sul viso di Matsuda, Baiko non lesse nessuna emozione negativa; né sofferenza né dolore o amarezza, rancore. Era incredibilmente sereno, anche quando gli rivolse quell’espressione sorridente. «Ma sono stato fortunato ad aver avuto il coach vicino. Aveva sempre le parole giuste per ogni cosa.»
«Il coach? Parli del nostro coach? Kitakami?»
«Proprio lui. Non avrebbe mai abbandonato nessuno dei suoi ragazzi. Mi disse che: ‘non importa quanto lunga e tortuosa possa essere la strada del Destino, l’importante è avere delle buone scarpe’
Che era un po’ come dire ‘resisti’, ‘se hai la passione, non mollare’, ‘non arrenderti’. E Matsuda non si era arreso.
Le parole del coach rimbalzarono nella testa di Baiko come un’eco. Anche lui avrebbe dovuto continuare a lottare e sperare. Avrebbe dovuto fare l’impossibile per avvicinarsi a suo figlio, infilare le buone scarpe e andare avanti per poterlo ritrovare lungo quella dannatissima strada.
«Adesso alleno dei bambini e… questo gruppo strampalato di vecchietti incartapecoriti!» riprese il Capitano, indicando come gli altri corressero per il diamante, ben più scoordinati di quando erano stati ragazzi, ma ugualmente attivi e vivaci. A Baiko parvero un insieme di scimmie scappate dallo zoo, dove Goro era il gorilla.
«Uno come te avrebbe potuto puntare alle categorie superiori, come mai proprio dei bambini?» domandò, ridacchiando e tornando a guardare il suo interlocutore. Quest’ultimo tirò un profondo sospiro soddisfatto.
«Perché non avevo voglia di occuparmi di giocatori già formati. Volevo essere io a formarli, volevo che apprendessero bene cosa significhi dedicarsi a uno sport, la passione che lo anima ed esalta ognuno di noi.»
Quella stessa passione di cui Matsuda parlava, di sicuro doveva essere quella che ardeva anche in Yuzo, verso il calcio. E lui aveva fatto di tutto per spegnerla senza vedere la nobiltà e la forza che portava con sé. Sentendo parlare il Capitano, Baiko si rese conto d’esser stato meschino con suo figlio, e cieco, perché non aveva riconosciuto quello spirito vivo, nonostante l’avesse provato egli stesso in prima persona.
«Magari un giorno, uno dei miei allievi diventerà un campione e voglio essere io colui che gli avrà indicato la giusta via da percorrere.»
Baiko sorrise con ammirazione alla sua forza interiore, alla sua integrità e fedeltà alla propria passione che continuava a bruciare più forte che mai.
Avrebbe voluto parlare con lui ancora un po’, ma la loro conversazione venne interrotta da un oggetto che gli piombò addosso: Goro gli aveva appena tirato un guantone.
«E allora? Vuoi stare ancora lì a battere la fiacca? Non ti ho mica portato per fare salotto, eh!» sghignazzò Vecchia Montagna. «Diglielo pure tu, Capitano
Baiko rigirò il guantone alzando gli occhi al cielo. «Ma credo che il mio braccio si sia arrugginito, ormai!»
Matsuda gli diede un colpetto sulla schiena, spronandolo. «Forza Morisaki, non puoi saperlo mica se non provi. Fammi un po’ vedere.» Gli tastò bicipite e tricipite esibendo una smorfia positivamente sorpresa. «Ah, ma allora ti sei dato da fare. Stai a vedere che non ti sei rammollito del tutto.»
Baiko scosse il capo, alzandosi in piedi e calzando il guantone. «Quella non è palestra, ma rinculo: provo la buona parte delle armi leggere che produco.»
Goro sbottò a ridere dandosi una manata sulla pancia. «Bel modo di farsi i muscoli! Dai sparatutto, andiamo a goderci un po’ dei vecchi tempi.» Gli lanciò la palla e lui non riuscì a trattenerla; era difficile doversi riabituare dopo tutti quegli anni.
Lui sospirò, chinandosi a raccoglierla. «Appunto, come volevasi dimostrare.»
«Ehi, Morisaki, abbiamo perso il braccio di ferro?» pungolò Nakamoto con sarcasmo e lui non era mai stato il tipo da lasciar cadere una sfida, anche se così velata. Diversamente da suo figlio, che nella calma aveva preso da Haruko, lui era un fottutissimo guerrafondaio.
Strinse con forza la pallina, passandola con un gesto secco e deciso alla mano che indossava il guantone. Adagio si diresse verso il monte di lancio, rivolgendo un’occhiata sbilenca e un mezzo sorriso al suo avversario. Nakamoto lo seguì con lo sguardo, battendo appena la testa della mazza al suolo.
Una volta in postazione, Baiko attese che Goro raggiungesse la casa base per chiamare il lancio.
Su tutti i colori calò ancora la patina seppiata: lui indossava la divisa bianca e arancione della Suruga Gakuen mentre Nakamoto aveva quella rossa e bianca della Ago Academy. Tutt’intorno, il vociare concitato degli spettatori. Da qualche parte, doveva esserci anche una ragazzina con i capelli sulle spalle che faceva il tifo solamente per lui.
Da sotto al guantone, Vecchia Montagna mise giù due dita.
Palla curva.
Il sorriso gli si accentuò.
«Preparati Nakamoto, questi sono tre strike.»

 

“I got someone waiting for me /
So che c’è qualcuno che mi sta aspettando;
it’s been so long time since we met /
è passato così tanto tempo da quando ci siamo conosciuti,
and I may not be your salvation but I’ll offer nonetheless /
e posso non essere la tua salvezza, ma te l’offrirò comunque.
And if like me you wonna take that chance /
E se tu, come me, vuoi prendere questa opportunità,
it’s coming around again /
sta tornando di nuovo.

 

Era uscito già da alcune ore e di Baiko ancora nessuna traccia.
Per quanto Chiyo cercasse di concentrarsi sulla composizione di ikebana che stava portando avanti con la sua allieva, non riusciva a non lanciare occhiate rapide all’orologio appeso alla parete della stanza. Era un po’ preoccupata. Al suo arrivo, suo figlio gli era sembrato così smarrito da non avere più una direzione, era arrabbiato e frustrato. Poi qualcosa le era parso essersi risvegliato in lui ed era uscito di corsa, per andare in bicicletta.
Sospirò, ma perché non aveva avuto una graziosa femminuccia?
Il campanello trillò all’improvviso, facendole finalmente tirare un respiro più rilassato. Tornando padrona di una calma e un equilibrio perfetti per completare la sua composizione, diede disposizioni alla domestica. Quest’ultima aprì la porta nel momento stesso in cui la sua padrona parlò.
«Mina, se è quello scellerato di mio figlio, pieno di terra e Dio sa cos’altro, digli che è pregato di scomparire nel bagno per farsi una doccia prima di presentarsi da me. Grazie.»
Fermo sulla soglia, pieno di terra e Dio sapeva cos’altro, i capelli spettinati e una mano dietro la nuca, Baiko esibì un sorriso stentato alla giovane che, invece, nascose una risatina nella manica dello yukata.
Nel frattempo, sul piccolo tavolino davanti agli occhi divertiti della signora Chiyo e di una affascinata Sakuya, i rengyou oscillavano al vento d’estate.

 

“I can feel a change of fortune /
Riesco a sentire un cambiamento nel destino
no more riding on my love /
non ci saranno più difficoltà, amore mio.
Feel the weight is off my shoulders /
Sento che il peso viene sollevato dalle mie spalle,
as my feet become unstuck /
così come i miei piedi non sono più imprigionati.
And all the good times on which we do depend /
E tutti i bei tempi dai quali dipendiamo
are coming around again /
stanno tornando di nuovo.

Simon WebbeComing around again

 


[1]CURVEBALL: la ‘palla curva’ è un tipo di lancio che si effettua nel baseball.

[2]NIKKO, [3]MIZUNARA: sono due tipi di alberi che crescono sul monte Kuno, rispettivamente l’Abies homolepis e il Quercus crispula Blume (XD un abete e una quercia, in termini spicci).


Le auto de “Il lungo sonno della Lucciola”:

- Land Cruiser: per un omone come Goro, ci voleva un macchinone a misura sua! X3 (*clicca qui*)

Come 'capire' il nome delle armi (XD):

Sì, può sembrare una cosa banale, per me, perché la storia l'ho scritta io, però i nomi delle armi citate non sono stati inventati a caso XD.
Prendiamo come esempio la 2G9-Star: "2G" = Golden Gun = G. G. = 2G; "9" = il numero, subito dopo "2G", rappresenta il calibro dei proiettili (9 = nove millimetri); "Star" = è il 'nome proprio' dell'arma, alcune portano il nome dell'invetore (2G60 - Sugihara&Kreeck).
E' una scemenza, in fin dei conti, però mi sembrava giusto farvi capire come funzionavano XD.


Le canzoni del capitolo:

- Coming around again (Simon Webbe): sì, una sola canzone, sì, di un ex-Blue.
XD fatevi la croce, perché a me Simon Webbe piace un sacco e quindi ci farà compagnia almeno un altro paio di volte!
Sinceramente, a me i Blue non sono mai piaciuti (XD ero per i BSB, io!), però devo ammettere che quando si sono sciolti e Webbe è venuto fuori da solista, è stata una graditissima e piacevole sorpresa. Già era piacevole lui perché… insomma… è un gran bel pezzo di gnocco! XD E poi io e i moretti andiamo d’accordo *sghignazza tantissimo*.
Trovo che le sue canzoni siano così rilassanti e che riescano a dare una carica energetica, una voglia di sorridere alla vita davvero molto forti. Questa canzone in particolare, ogni volta che mi capita di sentirla mentre cammino per Napoli, mi fa sempre sorridere e mi mette di buon umore.
Sia musicalmente che a livello di testo riesce a trasmettere proprio tutto quello che volevo per questo capitolo! :3
Dategli una possibilità, a questo Bluette (XD), perché credo che la meriti! :3 (da parte mia, vi consiglio tutto l’album “Grace”, perché è davvero bello!)

Note Finali:
Sì, ammetto che mi sono molto dedicata esclusivamente a Baiko e al suo mondo, in questi ultimi due capitoli. Mi serviva per rendere il personaggio il più possibile a 360° e per permettergli di iniziare un nuovo capitolo della sua vita e del suo rapporto con Yuzo. Insomma, non volevo che le cose andassero troppo di fretta, questa è una storia lenta (XD me lo dico da me), e anche i personaggi lentamente evolvono. E comunque, fuori dal seminato non ci vado mai per caso! X3
Dal prossimo capitolo si ritorna nuovamente a Nankatsu! **
Ringrazio di cuore tutti coloro che continuano a seguire questa storia. :D

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Capitolo 8
*** Part VIII: Voulez-vous? This is Hope ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part VIII: Voulez-vous? This is Hope -

 

Baiko legò l’ultimo fermo sul tettuccio dell’A5 grigia e si portò le mani ai fianchi, osservando il lavoro con soddisfazione. La bici era stata caricata un po’ alla buona, poiché la vettura non era dotata di portapacchi, ma per il breve tratto che avrebbe dovuto percorrere per tornare a Nankatsu andava più che bene.
«Sei sicuro di non voler restare qui, per oggi?» Chiyo era in piedi accanto all’auto a osservare le manovre del figlio.
«No, mamma. Devo andare da Yuzo e ho ancora delle cose da fare.»
La donna sorrise. S’avvicinò adagio e gli poggiò la mano sul braccio, attirandosi il suo sguardo. «Cerca di parlare anche con Haruko, ha bisogno di te…»
«Non so quanto voglia avere a che fare con me, per adesso» Baiko accennò un sorriso affranto. «Forse è ancora troppo presto per presentarsi davanti a lei. Ma ci proverò. Al massimo mi sbatterà la porta in faccia.» Si sporse e le diede un affettuoso bacio sulla fronte. «Se vuoi che ti venga a prendere per portarti da Yuzo, basta che tu mi faccia una telefonata. Va bene?»
Chiyo scosse il capo. «Non preoccuparti, ci penserà l’autista, tu… credo che avrai dei giorni impegnati.» Anche se non sapeva bene cosa avrebbe fatto suo figlio, sapeva che non sarebbe più rimasto immobile ad aspettare che qualcosa avvenisse. «Piuttosto, vedi di mangiare. Scommetto che sono giorni che non tocchi cibo.»
Baiko si passò una mano dietro la nuca, provando a stemperare l’imbarazzo. «Ma no, mamma. Qualcosa l’ho mangiata…»
«Qualcosa
«…di precotto.»
La donna sospirò, tornando a scuotere il capo. «Sei sempre stato negato in cucina. In economia domestica eri un disastro.»
«Beh, peggio di così non posso fare.»
Chiyo inarcò un sopracciglio, stringendo gli occhi, le rughe si accentuarono. «Non hai mai cucinato in quest’ultimi trent’anni circa.»
«Posso sempre imparare, no? A cinquant’anni diventerò un cuoco provetto, sta’ a vedere.» Doveva recuperare. Tutto ciò che aveva dato per scontato e di cui non si era mai curato, anche le cose più banali come la gestione di una casa. La loro casa. Non voleva più essere un estraneo là dentro. Se quella dimora avrebbe dovuto rappresentare la loro biografia – sua, di Yuzo e di Haruko –, allora non voleva essere un semplice nome di passaggio che aveva ‘alloggiato’ lì, ma non l’aveva mai vissuta.
Baiko diede un ultimo abbraccio a sua madre e quest’ultima sospirò ancora una volta, ma era più serena di quando suo figlio si era presentato davanti alla porta con quell’aria stravolta e stanca. Adesso sembrava più forte, paradossalmente più sicuro anche se di sicuro non c’era nulla. Adesso aveva una nuova direzione da seguire.
«Fai attenzione lungo la strada.» si raccomandò e poi lo lasciò andare.
«Se ci dovessero essere delle novità, ti chiamerò subito.»
«Ah! Ancora un attimo!»
Chiyo lo fermò che stava per salire in macchina. La osservò fare cenno a Mina che avanzò svelta reggendo il vaso con la composizione rikka shofutai. La donna la prese dalle mani della domestica e gliela porse. Con un sorriso affettuoso si raccomandò: «Portala al mio Yuzo, va bene?»
Baiko ricambiò il sorriso. «Certo, mamma. Ne sarà felice. Gli è sempre piaciuto vederti lavorare con le piante.» Con cura sistemò il vaso nel sedile davanti, fermandolo in modo che non cadesse o si inclinasse.
Infine, salì in macchina e, in poche manovre, lasciò la tenuta di famiglia diretto a Nankatsu.
Faceva caldo, ma non aveva acceso l’aria condizionata: voleva godersi il vento che filtrava dal finestrino aperto, come ai vecchi tempi. Quando era piccolo, e d’estate usciva con i suoi genitori per andare a trovare qualche parente sparso nella Prefettura, adorava sentire l’aria sulla faccia, che spettinava i capelli. Dopo si ritrovava tutto in disordine, ma non gli importava. Negli anni che avevano preceduto il diploma del liceo, non gli era mai importato del rigore e della disciplina, anzi, se poteva abbattere le regole di suo padre lo faceva, per ribellione.
Sorrise, sentendo il vento insinuarsi tra i capelli per agitarli a suo piacere. Sorrise nell’avvertire l’aria che gli mordicchiava le orecchie e il lato della guancia. Sorrise nel tentare di opporre resistenza con le dita della mano aperta, fuori dal finestrino, che sembrava volesse catturare il vento all’interno del palmo. Davanti a lui, la strada correva veloce e tranquilla, con il sole che iniziava a planare verso Ovest e il mare che scompariva alle spalle. C’erano solo i rumori della sua auto e di quelle circostanti, nella corsia opposta. C’era il rumore dell’aria che entrava dal finestrino.
Voleva un po’ di musica.
Baiko adocchiò la radio incorporata alla plancia con sguardo critico. L’aveva mai accesa prima? Sul momento non se lo ricordò. Di solito, quando al mattino andava in azienda, la sua mente era già presa dallo stilare un resoconto giornaliero di quello che avrebbe dovuto fare. Il telegiornale lo seguiva esclusivamente la sera quando rientrava a casa e quell’auto l’aveva da pochi anni.
Arricciò le labbra in una smorfia.
A conti fatti, no, non l’aveva mai accesa.
Baiko pigiò un paio di tasti alla cieca e la musica partì, da una stazione a caso. Musica giapponese. Qualcuno cantava di un amore perduto, con vocina di zucchero.
La smorfia si accentuò.
«Lagna» decretò cambiando stazione.
«Lagna» decretò ancora quando un’altra canzonetta arrivò alle sue orecchie.
«Lagna. Lagna. Lagna» sbuffò. «Perdio! Possibile che non ci sia una stazione che faccia musica degna di questo nome?!»
D’un tratto una melodia familiare, uscita da sogni a cavallo degli anni ’70 e ’80 gli fece fermare la mano e distendere il sorriso.
«Ora sì.»
Si rilassò contro lo schienale muovendo a tempo il piede che era leggermente appoggiato sulla frizione, le dita tamburellavano sul bordo del volante e la sua testa teneva il ritmo.
«And here we go again, we know the start, we know the end. Masters of the sceeeene. We’ve done it all before and now we’re back to get some more. You know what I meeeeaaan!»
Non canticchiava da anni. Impossibile che avesse chiuso fuori anche una cosa così banale e quotidiana, a volte talmente scontata da farla senza nemmeno rendersene conto. C’era chi lo faceva sotto la doccia, mentre era supermercato, mentre guidava, appunto, ma lui non aveva avuto tempo. La testa persa in cose pratiche, concrete e imminenti.
Sorrise, scuotendo il capo.
Non vedeva l’ora di arrivare a casa e cominciare a recuperare quello che aveva stupidamente lasciato che gli passasse accanto, con indifferenza. Aveva un’improvvisa fame di conoscenza, di voglia di sapere; curioso, come quando da ragazzino perdeva le ore a studiare un edificio più particolare, un ponte, un tempio. Guardò il vaso con il rengyou lì accanto e mentre la radio continuava a domandargli quel ‘Vuoi? Vuoi?’, con insistenza e durezza, dentro di sé sembrava quasi voler ruggire quel: ‘sì, certo che voglio!’.
Agire senza rimpianti.
Riprendersi tutto ciò che aveva lasciato andare.
Riprendersi il tempo perduto.
Riprendersi Yuzo.
Fece scivolare l’auto nel cancello in maniera silenziosa.
La serranda del garage era chiusa e lui nemmeno l’aprì. Scese dall’Audi e la prima cosa che fece fu di liberare la bici dall’imbracatura che la teneva ancorata al tettuccio. A spalla la portò nel giardino dietro casa e l’appoggiò contro il muro dell’abitazione: le avrebbe dedicato tutte le attenzioni per rimetterla a nuovo.
Baiko annuì con un sorriso e si diresse nuovamente alla macchina. Con delicatezza prese il vaso che le aveva dato sua madre e si avviò all’ingresso. Le chiavi tintinnarono mentre le ripescava dalla tasca di quel paio di pantaloni terribilmente old-fashioned. Era un miracolo che gli entrassero ancora… un po’ risicati, aveva dovuto ammettere con un piglio infastidito – “Ho la pancetta? Quando l’ho messa?!” –, ma si era dovuto accontentare.
Entrò, l’odore di chiuso e estraneità lo investì facendogli storcere il naso. Doveva cominciare a trovare un punto di incontro con quella casa, con ogni stanza, ogni stipo. Scoprire quale fosse il posto di tutte le cose che gli stavano intorno. Doveva cominciare a viverla, perché voleva scrivere, in quelle mura, parte della sua storia.
Chiuse l’uscio sui propri passi, adagio, e appoggiò il vaso sul mobile accanto all’ingresso.
Baiko guardò le scale e stavolta fu la mente a muoversi prima del corpo, proiettata già in cima, sul pianerottolo, ad aspettare che le ossa la seguissero trascinando pelle e muscoli. E quando furono di nuovo insieme, gli occhi si puntarono sulla porta chiusa della stanza di Yuzo.
La guardò a lungo, da quella distanza, prima di avvicinarsi, e anche quando l’ebbe a un passo rimase fermo per un breve ma intenso momento in cui sembrò raccogliere tutto il coraggio – quello vero – e tutta la determinazione. Afferrò la maniglia e l’odio, per la seconda volta, non lo respinse. Entrò e richiuse la porta in maniera decisa, ma senza sbatterla. L’accompagnò con precisione e rimase fermo lì, appoggiato con la schiena alla superficie.
L’aeroplano di legno occhieggiava sul davanzale in attesa di spiccare il volo e tutto il resto era rimasto invariato, come il senso di estraneità a quel mondo, ma stavolta non si sentiva spaesato o a disagio; non cadeva dalle nuvole, ma aveva accettato la realtà, l’aveva capita e fatta sua ed era pronto ad affrontarla.
Guardò il letto, il pallone al suolo, le foto attaccate al muro vicino alle medaglie, guardò la scrivania e tutto ciò che era rimasto abbandonato su di essa, guardò i libri, i cd ordinati, la console con i videogame.
«Noi avevamo cominciato bene ma ci siamo persi per strada» iniziò, lasciando la porta per avanzare di qualche passo. Baiko parlava alle mura, alla presenza di Yuzo che in quella stanza era rimasta appiccicata ovunque; quello era il capitolo di suo figlio nella biografia della casa. «So bene di avere la maggior parte della colpa e di non averti reso le cose facili, ma io… non sono disposto a gettare la spugna.» Raggiunse il davanzale, e sfiorò l’aeroplano, accennando un sorriso. «Noi siamo ancora in tempo. Io sono ancora in tempo per recuperare tutto quello che ho perso di te, delle tue conquiste e delle tue sconfitte. Questa volta farò anche l’impossibile per non sprecare un solo attimo, quindi, ricominciamo da capo…» si girò, appoggiandosi di spalle al davanzale e annuendo adagio. Negli occhi brillava una luce nuova e sulle labbra un sorriso sincero. «Ciao, Yuzo, sono papà… e voglio conoscerti meglio.»

 

“Voulez-vous? /
Vuoi?
Take it now or leave it /
Prendere o lasciare.
Now it’s all we get /
Ora è tutto ciò che abbiamo;
nothing promises, no regrets /
nessuna promessa né rimpianti.
Voulez-vous? /
Vuoi?
Ain’t no big decision /
Nessuna grande decisione;
you know what to do /
sai cosa fare
la question c’est voulez-vous /
la questione è: ‘vuoi’?.
Voulez-vous? /
Vuoi?

Abba - Voulez-vous?

 

*

“Today /
Oggi
there is nothing left to say /
non c’è niente da dire.

We all know that /
Tutti sappiamo
just a word can brake us into pieces /
come una sola parola possa romperci in pezzi
so as we cannot forget /
tanto da non poter dimenticare.

 

La mattina di Haruko iniziava alle sei.
Ma non si poteva dire che avesse veramente una fine. Diciamo che le sei era l’orario in cui si alzava dal letto, però era già sveglia da molto. A volte non sentiva nemmeno il bisogno di dormire perché tanto c’era Yuzo che dormiva anche per lei. Altre volte – la maggior parte – non ci riusciva. Semplicemente, chiudeva gli occhi e le immagini di quello che era accaduto le scorrevano dietro le palpebre serrate nemmeno fossero state gli schermi di un cinema.
Riusciva ad addormentarsi solo quando era davvero esausta. Crollava in un sonno senza sogni che considerava benedetto, ma alle sei la sveglia suonava di nuovo e lei tornava a essere parte della realtà. Una realtà che, giorno dopo giorno, si faceva più difficile da sopportare.
L’idea di perdere suo figlio la lacerava un po’ alla volta, in maniera continua come un filo di lana che veniva tirato lentamente; si vedevano le maglie saltare una ad una. Ma Haruko cercava di non pensarci e di concentrarsi solo sulle azioni stabilite che scandivano la giornata fino a che non raggiungeva l’ospedale.
Si alzava, preparava la colazione per Kyoshi, si lavava, si vestiva e usciva di casa alle sette. L’orario delle visite iniziava alle sette e mezza. Un quarto d’ora per arrivare in ospedale e un altro quarto d’ora d’attesa fuori dalla stanza fino a che l’infermiera non le diceva che poteva accomodarsi.
Allora, una volta dentro, accanto a Yuzo a tenergli la mano, il tempo si fermava, indifferente a tutto il mondo che restava fuori. Sarebbe potuta venire giù anche l’Apocalisse e lei non si sarebbe mossa. Mai. Per nessun motivo. Doveva restare a vegliare il suo sonno e ad aspettare che finalmente riaprisse gli occhi.
Suo padre le portava il pranzo che consumavano nella piccola saletta dalla quale poteva sempre controllare, attraverso i vetri, che suo figlio stesse bene. La veglia e l’isolamento riprendevano dopo pranzo, anche se non si interrompevano mai davvero, fino a che, alle diciotto, non suonava il ‘gong’. Il suo orario di visite terminava e non perché lo volesse, ma perché sapeva che a quell’ora giungeva Baiko.
Anche lui era un abitudinario, rispettava sempre gli orari, quindi alle diciotto precise avrebbe fatto la sua comparsa oltre le porte dell’ascensore. Per questo lei lasciava la stanza cinque minuti prima.
Non voleva incontrarlo. Non voleva vederlo. Non voleva nemmeno ascoltarlo.
Nessuna delle sue giustificazioni, nessuno dei suoi ‘mi dispiace’ – qualora si fosse degnato di dirne uno – sarebbero mai bastati per perdonarlo di quello che aveva fatto, di aver messo suo figlio con le spalle al muro, di averlo portato a un simile livello di esasperazione, di aver distrutto i suoi sogni e la loro famiglia. Di averlo lasciato lì, in bilico, con l’ansia di sapere che sarebbe bastato un niente per farlo cadere.
Per sempre.
E lei non voleva.
Anche quel giorno, Haruko si alzò alle sei e alle sette fu fuori di casa. Alle sette e un quarto si sedette nella sedia in plastica davanti alla stanza e alle sette e mezza l’infermiera le disse che poteva accomodarsi.
«Oggi è una bella giornata.» Aveva il sorriso sulle labbra, mentre apriva le tende affinché nella camera entrasse la tenue luce del sole nascente. «Gli esperti parlavano di trentaquattro gradi. Meno male che qui dentro si sta freschi, vero?»
Haruko raggiunse il letto e si accomodò nella sedia lì accanto. Come ogni giorno, cercò  la mano di suo figlio e la prese tra le sue. Quella di Yuzo era molto più grande, con dita lunghe non troppo ossute. Ormai la conosceva a memoria per tutto il tempo in cui restava a carezzarla con amore.
«Il nonno ha detto che passerà nel pomeriggio per venirti a salutare. Sai, aveva un po’ di lavoretti da fare. Mi sta sostituendo nelle faccende domestiche. Dovresti vederlo, è un bravo casalingo» ridacchiò, guardando gli occhi chiusi di suo figlio.
Lei non aveva tempo né voglia di occuparsi di altro se non di Yuzo, anche se a conti fatti non doveva fare nulla oltre restargli vicino, ed era su quello, ormai, che aveva costruito tutta la sua giornata: sulle attese. Aspettava di vedergli aprire gli occhi e la speranza non abbandonava il suo viso, perché senza di essa non avrebbe avuto nient’altro a tenerla in piedi, a farla svegliare ogni giorno, a farle buttar giù un pasto frugale. Senza la speranza, Haruko si sarebbe consumata, immobile. Il tempo non avrebbe avuto più un senso perché non ci sarebbe stata l’attesa di un miracolo a scandire i secondi.
Senza la speranza, sarebbe morta in maniera lenta e inesorabile.

 

“Leather, covers, broken glasses, playing music and the /
Pelle, coperte, vetri rotti, musica che suona e
rain, airplanes, morbid phrases turning into dust /
pioggia, aeroplani, frasi morbose che diventano polvere.

Spinning around, swimming, jumping /
Spingendo, nuotando, saltando
in a world of sounds /
in un mondo di suoni
you are always in my favourite dreams /
sei sempre nei miei sogni migliori
lovely, tender and proud /
amabile, tenero e orgoglioso.
You may be /
Potresti essere
running around searching, looking for something /
alla ricerca di qualcosa
to find while I’m still here waiting for you /
da trovare mentre io continuo a rimanere qui ad aspettarti.
Do you see me at all my sweet love? /
Puoi vedermi mio dolce amore?

L’AuraToday

 

*

 

“You say ‘yes’, I say ‘no’ /
Tu dici ‘sì’, io dico ‘no’.
You say ‘stop’ and I say ‘go go go’ /
Tu dici ‘fermati’ e io dico ‘andiamo, andiamo, andiamo’.

 

Kyoshi lasciò il supermercato che erano le cinque passate da un po’.
Una volta fuori, mise mano al foglietto su cui aveva annotato tutte le commissioni da fare. Con gioia scoprì di aver finito e che quindi poteva andare all’ospedale da suo nipote. In cuor suo sperava ardentemente ci fossero novità, ma visto che non aveva ricevuto nessuna notizia da Haruko si rassegnò all’idea di trovarsi alla fine di una giornata come le altre.
Prima di andare da Yuzo, però, sarebbe passato da Baiko.
Era davvero molto preoccupato per lui. Le ultime volte che lo aveva incrociato all’ospedale lo aveva visto ancora perduto, come una barca alla deriva, vele sgonfie, abbandonata dal vento. Voleva accertarsi che stesse bene, per quanto bene fosse un termine davvero relativo nel suo caso.
A passo lento si incamminò in direzione della villetta che non era troppo lontana dal supermercato. In quel momento, sentì il cellulare agitarsi nel taschino della camicia e lui inforcò gli occhialetti che aveva appesi al collo per leggere sul display.
Era Chiyo.
All’insaputa di Baiko, alla fine, le aveva detto tutto e la donna non aveva fatto passare giorno senza telefonargli per avere informazioni.
«Obaa-chan(1)» rispose l’uomo in tono scherzoso.
«Buonasera a te, ojii-chan(2)
Gli sembrò che fosse di buon umore.
«Come stai?»
«Ah, beh, a parte la solita anca malmessa, non posso lamentarmi. Tu, Kyoshi, tutto bene? Come sta Yuzo?»
L’uomo si fermò all’attraversamento pedonale oltre il quale vi era il quartiere residenziale dove viveva suo nipote.
«Non sono ancora andato in ospedale. Ho appena fatto un po’ di spesa. Però credo non ci siano novità. Haruko non mi ha fatto sapere nulla.»
Sentì Chiyo sospirare pesantemente all’altro lato. «Sì, capisco.»
Anche lui mantenne un tono grave per quanto avesse tentato di stemperarlo.
«Stavo andando da Baiko. Volevo vedere come stava.»
Diversamente da quanto si sarebbe aspettato, la donna gli parlò con tranquillità e anche allegria.
«Oh, non preoccuparti per lui. Ora sta bene.»
Kyoshi si fermò all’altra parte dell’attraversamento, visibilmente stupito.
«In che senso? E’ successo qualcosa?»
«Oggi è venuto qui, a casa, per parlarmi di quello che è accaduto.»
E già questo gli fece distendere un largo sorriso, che rimase nascosto sotto i baffi e la barba. Era stato sicuro che l’avrebbe fatto, che avrebbe preso il coraggio e sarebbe andato da lei per dirle la verità.
«Quando me lo sono trovato davanti, ho visto in lui un uomo che aveva appena toccato il fondo, proprio come mi avevi detto, ma… che non era più così distaccato verso gli eventi. Forse aveva già cominciato a risalire.»
Kyoshi sospirò sollevato, riprendendo a camminare nel calore più tiepido e sopportabile del pomeriggio.
«Allora posso dire di aver avuto ugualmente una buona notizia, oggi.»
«Oh, ma non è tutto» rise Chiyo. «Abbiamo parlato un po’ e poi… di colpo ha preso la bici ed è uscito per fare un giro. Ha trovato i suoi vecchi amici, ha giocato a baseball…»
Mentre lei parlava, Kyoshi sorrideva divertito e sollevato. Baiko aveva rotto il guscio, aveva trovato la forza di alzare la testa e tornare a essere vivo.

«Sagara-san, vorrei chiedervi il permesso di poter frequentare vostra figlia Haruko.»
«Tu… se non sbaglio sei il figlio di Shuzo Morisaki.»
«Sì, signore.»
«E non pensi che sia un po’ presto per simili formalità? Hai solo sedici anni…»
«Beh, visto e considerato che non cambierò idea, perché aspettare?»

«Quando è andato via aveva l’aria di chi sapeva esattamente cosa doveva fare. Sono sicura che ora le cose andranno meglio.»
Kyoshi girò attorno a una casa, scorgendo finalmente la villa in lontananza. «Meno male. In tutti questi anni, era diventato sempre più chiuso e inflessibile. Finalmente possiamo sperare che tutto cambi.»
«E Haruko? Lei come sta?»
Il sospiro che emise fu già una chiara risposta per Chiyo.
«E’ molto stanca. Passa tutto il giorno all’ospedale e quando è a casa non fa che aspettare l’arrivo del nuovo giorno per poter tornare da Yuzo. Le manca il sostegno di Baiko, ma al tempo stesso non vuole nemmeno sentirlo nominare. Ogni volta che ci provo si infuria.»
«Anche questo cambierà, ojii-chan, dobbiamo pazientare.»
«Lo spero» emise un sonoro sbuffo, lisciando la barba candida. «Se solo riuscissero a parlare, forse qualcosa, adesso, si smuoverebbe. Anche se temo la reazione di Haruko. L’ultima volta che si sono trovati faccia a faccia è stato straziante.»
«Kyoshi, l’incidente era appena avvenuto; Haruko era piena di rabbia e dolore, mentre Baiko era smarrito e senza certezze. Avevano bisogno di tempo.»
L’uomo si fermò sul limitare del perimetro della villetta. Appoggiò la busta al suolo e mise via gli occhialetti.
«Forse hai ragione tu. E alla fine a noi non resta che rimanere in disparte.»
«Già e poi sono grandi e vaccinati mentre noi siamo dei vecchietti. Tutto ciò di cui dobbiamo occuparci è del nostro nipotino. I nonni servono a questo.»
Alla risata di Chiyo si unì la sua.
«Va bene, obaa-chan. Ti terrò informata.» salutò Kyoshi e Chiyo, prima di chiudere, gli raccomandò ancora una volta di stare tranquillo perché l’onda di marea stava cominciando a ritirarsi e i granchi sarebbero di nuovo spuntati da sotto la sabbia.
L’uomo ripose il telefono nel taschino, afferrò la busta della spesa e avanzò. Arrivato davanti al cancello fece per bussare, ma il suono di una musica lo fermò che aveva quasi il dito sul tasto del citofono.
Kyoshi allungò il collo per scorgere tra le sbarre della cancellata ma sembrava tutto tranquillo e non vi erano finestre aperte, sulla facciata anteriore. Camminò lungo il perimetro, seguendo quelli che gli sembravano i Beatles. Col naso all’insù si fermò al confine con la villetta limitrofa osservando il lato dove affacciava la stanza di Yuzo ed era proprio da lì, dalla finestra aperta, che arrivava la musica; da quella stanza, che era l’ingresso al mondo di suo nipote di cui Baiko non aveva mai fatto parte. Varcare quella soglia, entrare nel suo rifugio, era come fare un passo avanti per poterlo finalmente raggiungere, quel mondo, e Baiko ne aveva ancora di passi sulla sua strada.
Kyoshi sorrise. Sì, non c’era davvero più motivo di preoccuparsi per lui.
Lentamente tornò indietro, dirigendosi alla fermata del bus che lo avrebbe portato all’ospedale.

 

“I say ‘high’, you say ‘low’ /
Io dico ‘alto’, tu dici ‘basso’.
You say ‘why?’ and I say ‘I don't know’ /
Tu dici ‘perché?’ e io dico ‘non lo so’.

 

La sorpresa della scoperta gli scavò dentro, rimestandogli le viscere come zolle di terra prima di un rinvaso: mescolavano, rendevano omogeneo, pronto per accogliere la pianta e favorirne la crescita; un nido.
E quello che stava scoprendo gli aveva tracciato un sorriso sempre più ampio e incredulo.
Baiko era partito dalla musica, anche se aveva desiderato avere mille occhi e mille mani per vedere e toccare contemporaneamente in ogni parte di quella stanza. Aveva preso a scorrere col dito la fila di cd ordinati su una piccola mensola posta sopra la scrivania, parlando da solo, parlando agli oggetti. Parlando a Yuzo, alla sua presenza rimasta nella camera e dentro di lui: forse l’avrebbe sentito.
Era rimasto felicemente sorpreso nello scorgere, tra nomi e titoli a lui sconosciuti – i Nirvache? –, ‘Imagine’ di John Lennon.
«Album fantastico, quello!»
Ma quando, subito accanto, erano spuntate le raccolte dei Beatles si era scoperto emozionato: avevano qualcosa in comune. Qualcosa di recente e non affondato in ricordi passati. Qualcosa di tangibile e concreto.
L’emozione aveva raggiunto gli occhi quando si era trovato davanti a David Bowie.
«E’ incredibile…» aveva bofonchiato prendendo uno dei cd e guardando la copertina che si vedeva essere stata usata, aperta e sfogliata chissà quante volte. «…io questo ce l’ho in vinile!»
Non aveva saputo se ridere o piangere e nel dubbio aveva fatto entrambe le cose senza sentirsi un cretino.
«Se sapessi che piacciono anche a me, forse prenderesti a odiarli.» Ma diversamente da quello che aveva creduto quando si trovava a Suruga-ku, si era reso conto che no, Yuzo non l’avrebbe fatto. L’infantile di famiglia era lui e per fortuna suo figlio aveva preso da Haruko.
Con decisione aveva afferrato una delle raccolte dei Beatles e aveva acceso il portatile di Yuzo.
Nessuna password.
Il ragazzo sapeva che tanto loro non avrebbero messo mano nelle sue cose e quindi non aveva motivo di nascondersi. Baiko aveva sospirato: chissà se sarebbe stato ancora dello stesso parere.
Come sfondo del desktop, l’uomo si era trovato davanti la foto di diploma di suo figlio e dei suoi amici.
In quel momento s’era ricordato di non avergli detto nessuna parola affettuosa o di incoraggiamento, nessun complimento. Anzi. Era stato convinto che così l’avrebbe spronato a dare sempre il massimo, a spingere fino in fondo. E invece non aveva fatto altro che distruggerlo. Colpo di scure, l’albero cade.
Aveva osservato i volti sorridenti di ragazzi e ragazze a lui sconosciuti.
O forse no.
Forse avevano iniziato a divenire già più familiari nel momento in cui era rimasto a guardarli uno per uno.
Aveva riconosciuto il ragazzo con i ricci. Quello con i denti a coniglio. Il ragazzo alto e spesso che aveva consolato la ragazza con i capelli corti all’uscita dall’ospedale. La ragazza stessa.
Aveva riconosciuto Mamoru.
Circondava con un braccio il collo di suo figlio sollevando il diploma e sorridendo in camera. Yuzo faceva altrettanto: diploma al cielo, felicità nelle labbra che non celavano i denti e si era ritrovato a sorridere anche lui, di riflesso, come fosse stato il fotografo dietro l’obiettivo.
Aveva fatto partire il cd e la musica s’era diffusa in tutta la stanza affinché scacciasse il silenzio delle cose.
Poi era passato ai libri.
Si era ricordato che Yuzo gli aveva detto di stare studiando, ma non Economia.
Aveva guardato i volumi aperti sulla scrivania ma quando aveva letto ‘Letteratura Straniera’, ‘Storia della Letteratura Giapponese’ aveva iniziato a urlare, portandosi le mani nei capelli.
«Ommioddio! Un intellettualoide!»
Quella era stata l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da Yuzo: gli piaceva la letteratura, la parola scritta. Aveva sollevato lo sguardo ai libri che occupavano l’intera scaffalatura osservandoli con occhi diversi e cominciando a capire perché ce ne fossero così tanti, in particolare stranieri, riscoprendo un altro elemento che li vedeva più vicini: entrambi peccavano di spirito nazionalistico, anche se Yuzo un po’ meno di lui, e non ascoltavano musica giapponese.
Baiko era avanzato nei pressi della libreria, aveva sfiorato le costine dei volumi che erano passati nelle mani di suo figlio e in quel momento un’idea gli aveva attraversato la mente: avrebbe potuto leggergli qualcosa. Non lo faceva da un tempo che risaliva alla coperta con l’Arcadia e ai peluche. Di solito era sempre stata Haruko a leggergli le favole prima di dormire, lui preferiva ascoltare.
Baiko aveva guardato il letto, sul quale si erano materializzati tutti e tre.
C’era sua moglie che leggeva, mimando con la voce e cambiando le intonazioni a seconda dei personaggi.
C’era lui che restava all’altro capo del letto.
C’era Yuzo che, sdraiato al centro, tra loro due, ascoltava con gli occhioni spalancati, attenti, per non perdersi nemmeno una parola.
Il suo amore per le storie esisteva già allora, come quello per il calcio, e lui aveva permesso che venisse seppellito da strade fasulle. Ma tutto poteva cambiare, anche quando sembrava impossibile, e se lui stava cambiando: perché non poter sperare di vedere cambiato anche tutto il resto? Sperare di vedere di nuovo gli occhi di suo figlio vigili e attenti, pronti per ascoltare una nuova storia? Una storia come la loro, ad esempio, quella di un padre pentito e di un figlio addormentato. Il finale l’avrebbero potuto inventare assieme.
L’immagine di loro tre si era dissolta e lui aveva indugiato, davanti alla libreria, cercando la copertina più consunta, che sapeva di vissuto e che, quindi, Yuzo doveva aver amato particolarmente, e gli era parso che fosse proprio quella con il bordo blu e giallo chiaro; quella col disegno di un veliero.
Baiko aveva preso il volume e l’aveva rigirato tra le mani, prima di iniziare a sfogliarlo. Post-it e bigliettini erano fermi tra le pagine e alcuni passaggi erano stati sottolineati, come se avessero avuto un qualche significato particolare. Lui aveva sorriso e l’aveva messo da parte, appoggiandolo sulla scrivania, accanto al computer.
Si era poi guardato intorno e l’angolo dedicato ai premi calcistici aveva subito accalappiato i suoi occhi. Quello sport, che era stato l’inizio del loro dividersi, adesso era lì a dirgli di avvicinarsi, di conoscerlo meglio perché apparteneva a suo figlio e non poteva rifuggirlo.
Baiko si era fatto dappresso con le mani nelle tasche, sporgendo il viso per leggere le scritte sull’oro di quei dobloni ornati da lunghi nastri.
Campione nazionale. Campione del mondo under sedici. Campione del mondo under venti.
Aveva sentito la pelle delle braccia incresparsi in un brivido che gli era corso lungo tutta la schiena. Un brivido che aveva riconosciuto essere di orgoglio ed emozione per quei riconoscimenti. Attorno, foto delle formazioni, da quelle scolastiche alle varie nazionali, e altri scatti nei momenti più disparati, attimi delle partite, attimi di relax. Sguardo serio, concentrato, oppure sorrisi che nascevano dal cuore e sembravano gridargli la gioia che provava in quello che faceva, nello stare in campo a pestare l’erba rada come fosse l’unico mondo in cui avrebbe potuto vivere.
«Ti rivedrò sorridere così.»
E non era stata un’ipotesi o una domanda a una fotografia immobile, quanto un’affermazione, una certezza. Lui avrebbe visto Yuzo sorridere ancora perché aveva speranza e non era troppo tardi. Perché aveva smesso di credere che lo fosse.
Nell’ultimo ripiano in basso, Baiko aveva afferrato degli album fotografici un po’ più vecchi, visto che ormai i rullini non si usavano praticamente quasi più, e si era diretto alla finestra dove stava tutt’ora.
Seduto sul davanzale, con la musica che scivolava dal computer, sfogliava attimi di felicità.
«Santo cielo, quanto è pagliaccio questo tuo amico?!» sbottò a un tratto guardando l’ennesima foto in cui Ryo Ishizaki faceva le smorfie. «Sembra una scimmia!» e si mise a ridere da solo. Poi altri ragazzi che avevano indossato la maglia della squadra scolastica e quella della nazionale assieme a Yuzo; tanti piccoli campioni aveva il Liceo Nankatsu, accidenti. Quello con i ricci era impegnato in una gara assieme a quello con i denti sporgenti a chi mangiava più ramen; le bocche piene e le bacchette che tiravano via altri spaghetti dalle ciotole. Il gigantone si lanciava in piscina sorprendendo le ragazze, ferme sul bordo, con gli spruzzi. Suo figlio e una delle manager impegnati in chissà che lavoro tra fogli di carta, colori e colla.
«Siete davvero un bel gruppo. Anche io ne avevo uno così, te ne dovrò parlare.» ridacchiò girando pagina dove altre foto, altri sorrisi e altre smorfie scorsero davanti ai suoi occhi. Le labbra avevano assunto di nuovo una piega affettuosa.
«Loro vengono spesso a trovarti, lo sai? Ti vogliono bene» disse, ripensando alle volte che li aveva incrociati anche se loro ignoravano chi fosse. Gli unici a sapere che lui era il padre-mostro erano Mamoru, quello con i ricci e quello con i denti sporgenti, di cui aveva addirittura imparato i nomi: Teppei e Hajime. Stava diventando bravo.
«E senti… ma c’è la tua ragazza tra queste? No perché non ci credo proprio che non ne hai una. Un bel giovanotto, sportivo, campione del mondo: devi avere la ragazza. Che cavolo, sei mio figlio!»
Le uniche donne che comparivano con maggiore frequenza negli scatti erano le tre manager della squadra di calcio, ed erano davvero graziose. In particolare, quella che sembrava essere la più piccola aveva sempre un sorriso solare, scherzava con tutti e spesso lei e Yuzo erano ritratti assieme.
«Sarà mica questa qui? Se fosse è davvero carina.» Ma non ne aveva la certezza, anche perché in nessuno scatto erano da soli. Di solito c’erano sempre gli altri compagni, soprattutto Mamoru. Baiko pensò solo in quel momento che il ragazzo potesse essere non un amico qualunque, ma il miglior amico di suo figlio. Prima non ci aveva fatto caso, ma il giovane gli era accanto quasi il novanta per cento delle volte. Anche nelle foto in cui c’era la ragazza graziosa. Ragazza che Yuzo non sembrava osservare con lo sguardo da innamorato. Perché le persone che si amano si guardano in maniera diversa, come se si accarezzassero con gli occhi quando le mani non possono farlo. Le iridi cercano le parole che la bocca non dice scavando nello sguardo. E ridono in maniera diversa, gli innamorati, tra loro, come se non ci fosse un domani, come se l’altro debba ricevere solo i sorrisi migliori.
Lui lo conosceva bene, perché ci era passato con Haruko, sapeva cosa fosse l’amore. Era mostrare la stessa espressione pur facendola apparire totalmente diversa perché dipendeva dalla persona cui era rivolta.
Ecco, proprio come Yuzo guardava…
Guardava…
Baiko ebbe un sussulto e rizzò la schiena nemmeno gli avessero dato una scudisciata dritto nella spina dorsale.
Lo sguardo adorante che sembrava voler donare il mondo intero era proprio sotto i suoi occhi, c’era stato per tutto il tempo che aveva sfogliato quegli album e non se n’era mai accorto.
Svelto afferrò gli altri volumi, guardando, cercando, confrontando.
E tutto questo non fece altro che confermare la sua impressione.
Proprio come Yuzo guardava Mamoru.
«Oh.»
Sbottò, allarmato e con il volto in fiamme.
«Oh! Oh! Oh!»
Baiko richiuse subito tutto facendo mente locale e tentando di capire quello che aveva appena scoperto. Si passò una mano nei capelli e l’altra al fianco, camminando per la stanza con gli occhi spalancati. La mano coprì il volto e poi si tuffò di nuovo tra i capelli. Girò in tondo e infine si fermò davanti alla scrivania.
«Ok, ho visto troppo!» rise nervosamente. Un troppo che non aveva sospettato. Ma proprio per niente. «Ne… ne riparliamo un’altra volta, vuoi?... niente panico… niente panico…» Girava sul posto come una trottola, mentre cercava di trovare il modo in cui poter, spudoramente, cambiare argomento. Si sentiva in imbarazzo nemmeno avesse avuto Yuzo di fronte, che glielo diceva a chiare lettere; che gli diceva che lui, in realtà…
«Ah! Ma vediamo cos’hai nell’armadio, come ti vesti! Non ne ho idea!»
Aprì le ante e, sul momento, non riuscì a vedere che forme e colori avessero gli abiti. Rivedeva il modo in cui Yuzo guardava Mamoru. Un modo complice, che era rivolto solo a lui e a nessun altro.
Non doveva pensarci, non era ancora pronto per farlo, per approfondire, per capire fino in fondo e comprendere le conseguenze che avrebbe comportato. Perché ci sarebbero state ed erano inevitabili.
Baiko sbatté velocemente le palpebre un paio di volte, sciogliendo quei sorrisi esclusivi nei colori dei jeans e pantaloni che aveva davanti. Camicie eleganti, altre più sportive. Jeans larghissimi che gli fecero inarcare un sopracciglio.
«Ma quanto cavolo è basso il cavallo di questi pantaloni?!» esclamò, guardando poi quello che lui stava indossando, rimediato tra i suoi abiti della giovinezza: perfetto stile anni ’70/’80. «Certo che la moda è proprio cambiata, eh.» Poi ripensò al suo guardaroba attuale; vide i completi in giacca e cravatta appesi alle grucce, colori grigi, scuri, sobri. E tutti uguali. Il suo rigore chiuso nella sfera. Accennò un sorriso sbilenco, tornando a guardare i jeans modello baggy(3) di Yuzo. «Credo proprio di dover andare a fare un po’ di shopping.» Richiuse adagio le ante dell’armadio e sospirò. «Se mi sentisse tua madre!»
L’occhio cercò le lancette sull’orologio da polso. Era ora di andare in ospedale e avrebbe dovuto cambiarsi per non sembrare un nostalgico dei figli dei fiori.
«Beh…» Adagio spense il computer e afferrò il libro che avrebbe portato con sé. I Beatles tacquero di colpo, mentre si dirigeva piano verso la porta. Con un’ultima lunga occhiata si guardò intorno, abbracciando quel mondo che ora gli sembrava un po’ meno straniero e sconosciuto. «…come prima volta non è andata male-male, non credi? Devo apprendere ancora un sacco di cose, ma… questa strada mi piace.» Sorrise, la mano sulla maniglia e il corpo già per metà fuori dalla stanza. «Ci vediamo tra poco, figliolo, e potremo parlare un po’ faccia a faccia.» Adagio si chiuse la porta alle spalle.
Le foto appese alla parete oscillarono leggermente alla piccola corrente d’aria, in un saluto frusciante.

 

“You say ‘goodbye’ and I say ‘hello’ /
Tu dici ‘addio’ e io dico ‘ciao’.
Hello, hello /
Ciao, ciao.
I don’t know why you say ‘goodbye’, I say ‘hello’ /
Non so perché tu dici ‘addio’, io dico ‘ciao’.

The BeatlesHello Goodbye

                                                                                                                                                                                    
*

“Everybody needs a little time away”, I heard her say, “from each other” /
“Tutti hanno bisogno di stare un po’ di tempo lontani”, l’ho sentita dire, “l’uno dall’altra.”
“Even lovers need a holyday far away from each other” /
“Anche gli innamorati hanno bisogno di una vacanza lontani l’uno dall’altra.”

 

La giornata era trascorsa uguale alle altre, spegnendo, assieme a ogni tramonto, le sue speranze quotidiane.
Haruko era rimasta sempre accanto a Yuzo, uscendo solo quando erano passate le infermiere per i controlli e quando erano venuti gli amici di suo figlio. Non trascorreva giorno senza che un gruppetto di loro non facesse un salto in ospedale.
Hajime e Teppei c’erano sempre, non avevano ancora iniziato i ritiri nelle rispettive squadre, mentre gli altri si alternavano. Mamoru, invece, faceva la spola tra Nankatsu e Yokohama: partiva la mattina per tornare la sera. Come terminava gli allenamenti, si metteva sul primo treno. Haruko se lo vedeva arrivare, armato di borsone, direttamente dalla stazione. Di solito preferiva presentarsi da solo, ma quando arrivava insieme agli altri se ne stava sempre più in disparte, con le braccia conserte a guardare oltre il vetro e a non spiccicare parola.
Haruko si era accorta di come parlasse solo quando erano da soli.
Mamoru era un bravo ragazzo ed era ferito, proprio come lei; lo vedeva, lo capiva, Yuzo lo avevano trovato insieme e Mamoru, anche se parlava poco o non lo dava a vedere, non se ne faceva capace.
Haruko capiva anche questo, nemmeno lei era in grado di accettarlo e così, semplicemente, ci passava sopra, concentrandosi solo sulla speranza del domani.
«Ho fatto prima possibile.»
Haruko si volse a incrociare lo sguardo di Kyoshi che era appena entrato nella camera.
«Ciao, papà.»
L’uomo appoggiò la busta vicino alla porta e avanzò, bianco anche lui nel bianco della stanza e delle lenzuola, per fare una carezza affettuosa al viso del nipote.
«E allora? Niente nemmeno oggi?»
Haruko scosse il capo; la mano di Yuzo ancora tra le sue.
Kyoshi si sedette al suo fianco, sforzandosi ugualmente di mostrarle un sorriso fiducioso. «Vedrai che domani andrà meglio.»
Una nota affranta sfuggì al sospiro di Haruko. Lo sguardo di nuovo al figlio. «Sì, domani. Quanti ancora ne dovrò aspettare?»
La donna avvertì il tocco gentile di suo padre attorno alle spalle. La scosse un po’ e nel folto della sua barba, ora candida, lei aveva sempre saputo trovare tutti i sorrisi del mondo.
«Lo so che è difficile, ma non possiamo fare altro. Non arrendiamoci.»
Haruko annuì, dando una veloce occhiata all’orologio. Mancavano dieci minuti alle sei e ogni volta l’idea di doversi separare da Yuzo le spezzava il cuore in due.
«Ho parlato con Chiyo, prima. Ha detto che Baiko-»
«Non voglio saperlo.»
Il tono era cambiato in un attimo, divenendo gelido. Haruko si era irrigidita. Con un gesto deciso e incollerito si liberò dall’abbraccio di suo padre.
Quest’ultimo non demorse, aggrottando le sopracciglia.
«Haruko, è tuo marito. Non potrai evitarlo per sempre.»
«Non mi interessa!» la donna s’alzò in piedi, allontanando malamente la sedia che strisciò sul pavimento. «E’ per colpa sua se mio figlio è in queste condizioni, lo capisci? È per colpa sua se rischio di perderlo per sempre! Non devi nominarmelo! Non voglio!» Animata dalla fretta afferrò la borsa e lasciò la stanza senza dare modo a Kyoshi di fermarla o replicare, tanto non l’avrebbe ascoltato.
Baiko le aveva fatto troppo male in un solo momento e anche se le loro strade, le loro vite si erano incrociate più di trent’anni prima non poteva perdonarlo, non ci riusciva.
Non voleva incontrarlo. Non voleva vederlo. Non voleva nemmeno ascoltarlo.
Eppure…
Eppure quando al mattino si svegliava, quando restava ore e ore accanto a Yuzo, quando la sera non riusciva a dormire per la paura di veder vanificare le attese e svanire le speranze… era la sua mano sulla spalla, che desiderava di avvertire. Quella mano grande e dalle dita lunghe, non troppo ossute.
Voleva percepire il tono sicuro della sua voce che le diceva che sarebbe andato tutto bene.
E potergli credere.
Haruko bofonchiò stizzita e con gli occhi leggermente lucidi davanti alle porte chiuse dell’ascensore occupato. Non aveva voglia di aspettare; se si fosse fermata si sarebbe messa a piangere, lo sapeva, così s’avviò per le scale, scendendole velocemente, lo sguardo fisso a terra, la testa persa in mille pensieri.
Urtò qualcuno e per poco non perse l’equilibrio, ma venne afferrata per un braccio, in modo che non cadesse.
«Ah! Mi dispiace…»
«No, colpa mia. Non guardavo dove-»
Riconobbe la sua voce all’istante, sollevando lo sguardo. In quello di Baiko lesse la stessa sorpresa e smarrimento, come se entrambi non fossero stati preparati a trovarsi di nuovo l’uno di fronte all’altra.
Nei brevi istanti in cui rimasero a fissarsi senza dire nulla, ad Haruko non sfuggì nessuno dei suoi cambiamenti. Perché era cambiato, Baiko, per lei non c’erano dubbi, le era bastata un’occhiata. Ventidue anni di matrimonio sapevano insegnare più di quanto ci si poteva immaginare, senza nemmeno rendersene conto. Nei suoi occhi non lesse più la severità cui aveva finito per abituarsi, non c’era distacco, c’era timore – forse nei suoi confronti – c’erano calore e vita… qualcosa di nuovo e vecchio al tempo stesso, qualcosa che era già appartenuto al suo sguardo e poi era scomparso. Qualcosa che le fece desiderare ancora, più di prima il suo tocco, il suo sostegno. Ma c’era anche il rancore, questa volta dentro di lei, e non avrebbe ceduto il passo tanto facilmente.
Quando Baiko fece per parlare, Haruko si liberò dalla sua presa con uno strattone deciso. Le sopracciglia si aggrottarono sullo sguardo risentito, mentre l’altro rimaneva in silenzio. L’intento di dirle qualcosa frenato di colpo, dietro il suo gesto.
Haruko gli rivolse un’ultima occhiata feroce e ricominciò a scendere le scale.
Baiko la guardò, fissò la sua schiena allontanarsi svelta. Come aveva creduto, lei non voleva nemmeno che lo toccasse e il suo odio, com’era accaduto quando aveva tentato di entrare nella stanza di Yuzo, aveva assunto una consistenza tale da avvolgerla come un mantello. Ma lui si era ripromesso che non avrebbe più rifuggito gli ostacoli, a costo di sfracellarcisi contro, a costo di distruggerli a mani nude sarebbero tornati a essere null’altro che fragile sabbia.
Le corse dietro, raggiungendola sul pianerottolo. Rapidamente poggiò il vaso sul davanzale della grande finestra che illuminava quella parte di scale e le afferrò il braccio, impedendole di fuggire.
«Aspetta, Haruko-»
«Non voglio ascoltarti!»
«Fammi almeno parlare…»
Haruko lo trafisse con lo stesso sguardo che gli aveva rivolto l’ultima volta che si erano trovati di fronte. «Ah, vuoi parlare? Adesso vuoi parlare? Sai quante volte Yuzo avrebbe voluto farlo con te ma non ti è mai importato nulla?! Lo sai?! Bene, allora vai a parlare con tuo figlio, ora, e senti che cosa si prova perché lui non ti risponderà, hai capito? Non ti risponderà…» l’odio si sciolse nelle lacrime che le riempirono gli occhi e nelle labbra strette, tremanti.
Baiko non nascose il dolore per quelle parole né la consapevolezza di quanto fossero vere. Sapeva che avrebbe parlato al vento, che Yuzo non gli avrebbe detto nulla, forse non l’avrebbe nemmeno sentito, ma lui voleva almeno sperare che in un modo o nell’altro le sue parole riuscissero a raggiungerlo, ovunque si fosse trovato, e fargli compagnia.
«Non risponde nemmeno a me… io gli parlo, ma lui… lui…»
Haruko si coprì la bocca con la mano per trattenere un singhiozzo mentre le lacrime venivano giù implacabili. Anche per quello non avrebbe voluto parlare con lui, perché dopo la rabbia sarebbe crollata.
La stretta di Baiko al suo braccio si fece più dolce e leggera, si diramò lungo la schiena e si fece abbraccio, solido, protettivo, accogliente. Il suo petto divenne il rifugio in cui fin dall’incidente avrebbe voluto rinchiudersi, trovando sostegno in quel profumo familiare.
Si aggrappò alla sua camicia, priva dell’ordine imposto dalla cravatta e dall’austerità della giacca e pianse tra astio e dolore, odio e amore. Perché per quanto egli fosse la causa, solo lì, nascosta dentro di lui, riusciva a trovare tutta la speranza di cui aveva bisogno per affrontare le attese.
«Lo so.»
Baiko appoggiò le labbra sui suoi capelli. Le mani scivolavano lungo la schiena di Haruko, cullavano. «Non sono stato un buon padre in questi anni ed è ingiusto che ora anche tu stia pagando per i miei errori. E lo so… lo so che Yuzo non mi risponderà ma io gli parlerò lo stesso, davvero. Gli parlerò…» chiuse gli occhi, respirando il suo profumo. «E aspetterò il suo risveglio.»
Haruko si passò alla buona la mano sugli occhi allontanandosi da lui di qualche passo, l’abbraccio ormai sciolto. Lo guardò negli occhi, stringendo il manico della borsa.
«Avresti… avresti dovuto farlo quando ne avevi l’occasione, quando non era tardi e adesso… io non posso perdonarti, non posso… non ci riesco…»
Odio e amore.
Baiko accennò un sorriso sincero. «So anche questo e non ti chiederò di farlo.»
Lei titubò, guardandolo attentamente. «Stai… imparando a vivere senza di me?»
«Detta così, suona quasi come se non dovessi più-» si interruppe all’improvviso, come se fosse la cosa più naturale da fare.
Come se non dovessi più tornare a casa.
Forse perché negli occhi di Haruko lesse uno sguardo che non smentiva tale ipotesi, uno sguardo che non sapeva come dare il colpo di grazia alla bestia in agonia. E la bestia era lui, lo era sempre stato.
Sospirò, il sorriso si fece mesto, ferito in maniera talmente evidente anche se Baiko fece di tutto per nasconderlo.
«…siamo già a questo punto?» abbassò lo sguardo al suolo e si passò lentamente una mano dietro la nuca. Non poteva pensare di poter perdere anche lei. La vita stava diventando troppo crudele nella sua vendetta.
Haruko si toccò nervosamente l’orecchino. «Non lo so a che punto siamo né so a che punto voglio arrivare…» ci aveva pensato in quei giorni, nei momenti in cui il silenzio cadeva nella stanza di Yuzo o quando la notte non riusciva a prendere sonno. Se il suo odio era tanto forte, non importava quanto fosse l’amore: insieme non potevano restare, non avrebbe avuto senso. Se Yuzo fosse morto o rimasto addormentato per sempre, avrebbero finito col rinfacciarsi di tutto,
in maniera atroce, e lei non era pronta per poter sopportare altra sofferenza. «Forse è troppo tardi.»
Ma Baiko, a quelle parole, sollevò nuovamente il capo e sorrideva, questa volta con serenità. Allungò una mano per sfiorarle la guancia.
«Anche io credevo che lo fosse, per tutto. Ma qualcuno mi ha fatto capire che non è mai troppo tardi.» Nel profondo dei suoi occhi scuri, Haruko lesse fiducia. «Per questo vado a parlare con mio figlio.»
Un po’ titubante le si avvicinò per baciarle la fronte e lei non si ritrasse, ma chiuse leggermente gli occhi per concentrarsi solo sul tocco delle sue labbra.
Era da tanto che non avvertiva simile affetto nei suoi gesti. Da troppo erano divenuti meccanici, freddi. Ma adesso tutto sembrava essere tornato indietro, come se gli ultimi anni di piombo non fossero mai esistiti.
«Sappi che non mi arrenderò» disse infine Baiko, lasciandola andare. Ma nei suoi occhi, Haruko non lesse lo spirito di rivalsa e vendetta che era solito animare il suo animo combattivo, eppure era sicura, questo sì, che avrebbe fatto di tutto per tenerla con sé. Anche in quello, capì che Baiko era profondamente cambiato.
Haruko lo vide volgerle le spalle e avvicinarsi al davanzale della finestra per prendere un vaso. Pensò subito fosse una composizione di Chiyo. Poi lo vide allontanarsi lungo la scalinata. Lei non disse nulla, limitandosi a guardare ancora nella sua direzione prima di scendere le scale dalla parte opposta.
Odio e amore.

 

“And after all that's been said and done /
E dopo tutto quello che è stato detto e fatto
you're just a part of me I can't let go /
sei la parte di me che non posso lasciare andare”

 

Stringeva convulsamente il vaso perché era quanto di più reale gli fosse rimasto, al momento.
Mentre camminava per raggiungere la stanza di Yuzo, Baiko pensava all’irrealtà di quell’incontro inaspettato.
Gli era sembrato che tutto si saldasse e disfacesse contemporaneamente. Haruko gli aveva mostrato come il loro legame si fosse sfilacciato e stesse scomparendo. Ma lui l’aveva stretta tra le braccia, l’aveva consolata… come poteva pensare di perdere lei proprio adesso che era sulla strada per ritrovare suo figlio?
Divorzio.
La sola idea riusciva a farlo ridere per la sua assurdità, ma quest’ultima stava cominciando a diventare sempre più reale, tangibile. Temibile.
Baiko strinse il vaso ancora di più col rischio quasi di mandarlo in frantumi. Non avrebbe mollato, come per Yuzo avrebbe lottato per non perdere anche lei, perché insieme sarebbero dovuti tornare a essere la famiglia che un tempo, molto lontano, erano stati.
Si fermò di colpo prima di entrare nella stanza, prendendo un profondo respiro. Rilassò i muscoli, cercò di distendere i nervi, voleva essere tranquillo per parlare a Yuzo con calma.
Quando aprì la porta non si sorprese di trovare Kyoshi seduto su una sedia.
L’uomo si volse e dal viso un po’ preoccupato sembrava aspettarsi qualcun altro. Appena si accorse che era lui, distese un sorriso.
«Baiko. Sei arrivato prima del solito.»
L’interpellato notò solo allora che mancava qualche minuto alle sei.
«Buonasera, papà.»
«Oh, che bei fiori!»
Baiko sorrise, raggiungendo il mobile accanto al letto. «Sono un regalo di mia madre.» Poi si rivolse a Yuzo, facendo quello che Kyoshi non si sarebbe mai aspettato e che lo lasciò piacevolmente sorpreso. «Hai sentito, figliolo? Sono per te, da parte della nonna.» Baiko sorrideva mentre poggiava la composizione sul mobile. «Un bellissimo rengyou con l’augurio che tu possa andare a trovarla presto.»
Il sorriso di Kyoshi si addolcì da sotto i baffi folti. «E’ stato davvero un bel pensiero, sono sicuro che gli piacerebbe molto.»
«Sì, anch’io.» Baiko tolse la piccola borsa da netbook che pendeva da una spalla e la appoggiò alla spalliera della sedia accanto all’uomo, la stessa che pochi minuti prima era stata occupata da Haruko.
«Senti… per caso, mentre venivi qui, hai incontrato mia figlia? E' andata via giusto qualche minuto fa…»
Kyoshi l’aveva presa un po’ alla larga, ma Baiko comprese essere quello il motivo dello sguardo preoccupato appena era entrato. Ora che ci pensava, Haruko le era sembrata nervosa quando si erano scontrati sulle scale, ma poi la sorpresa di averla lì l’aveva distratto da tutto il resto. Inspirò a fondo, tendendo le labbra in una smorfia divertita che cercava di stemperare l’ansia per le sue parole.
«Sì. Ci siamo incontrati.»
«Oh...»
«Non mi ha preso a sberle come l’ultima volta, stai tranquillo papà.»
E la notizia fece effettivamente tirare un sospiro di sollievo all’uomo. «Potrei considerarlo un buon inizio. Che è successo?»
«Di certo non ha fatto i salti di gioia né vuole saperne di perdonarmi. Ci vuole tempo per queste cose…»
«Eh, è una gran testarda. Io ho tentato di parlare con lei e farla ragionare, ma-»
«Papà, davvero, non preoccuparti. Va tutto bene. Le cose si sistemeranno con calma, un po’ alla volta… bisogna saper aspettare.»
Kyoshi si lasciò sfuggire una breve risata. «Ultimamente sembra diventato sempre più difficile.»
«Lo so.»
Il padre di Haruko si alzò lentamente, sgranchendo adagio le ginocchia un po’ scricchiolanti. «Allora io vado. Nella fretta, mia figlia ha dimenticato la busta con la spesa.»
«Prenditi cura di lei, papà. Ci vediamo presto.»
«Certo, figliolo. Ciao, nipotino.»
Baiko rimase a fissare l’uscio che si chiudeva e la sua figura che scompariva oltre i vetri. Inspirò.
«Non biasimarmi se gli ho mentito. Il nonno si preoccupa già abbastanza, non mi andava di dargli altri pensieri.» Si volse di nuovo, gli occhi in direzione del viso di Yuzo, su quei tratti familiari in cui ritrovava parte delle linee del proprio volto e parte quelle di Haruko. Inclinò leggermente il capo. «E tu che dici? Riuscirò a tenerla stretta? A tenere stretto anche te?» ma la domanda rimase senza risposta, nemmeno un cenno minuscolo, un filo di speranza. Niente.
Baiko si alzò, quasi per istinto. Si avvicinò un po’ di più al letto, appoggiandosi al bordo sollevato. Osservò le palpebre chiuse, le labbra strette ma rilassate, l’espressione sopita e distesa. Le bende dell’operazione gli mettevano i brividi e lui non sapeva spiegarsi bene il perché; forse lo terrorizzava l’idea che gli avessero inciso la testa, l’osso, fino ad arrivare al cervello. Il solo pensiero che avessero toccato una parte così preziosa di suo figlio gli metteva angoscia e paura.
Sfiorò le bende in un gesto svelto e incerto. La mano si era mossa da sola e sembrava quasi avesse paura di essere più concreta. Ritentò, e il tocco divenne una carezza. Il palmo e le dita si poggiarono appena sulla fronte e poi seguirono la curva del cranio. Nemmeno si chiese da quanto tempo non toccasse suo figlio, da quanto non gli rivolgesse un gesto così affettuoso e gratuito. Non se lo chiese, perché la risposta avrebbe potuto spaventarlo e minare gravemente quella strana sicurezza che era riuscito a ricomporre.
Sorrise nel sentire il calore di Yuzo sotto le dita.
«La mamma ha ragione, fa davvero male non avere risposta, ma vedrò di abituarmi, in fondo, non posso fare altro. Chissà quante volte è toccato a te abituarti a una situazione odiosa, insopportabile.»
Tirando un profondo sospiro tornò a sedersi, assumendo un’aria più rilassata e un po’ complice. La negatività, i ricordi spiacevoli, le recriminazioni voleva lasciarsele alle spalle, pensare solo al buono che non aveva mai visto né cercato. Voleva costruire, non demolire.
«Allora, cominciamo col dire che è stata una giornata impegnativa e che da oggi si cambia. Si cambia tutto. Ti mostrerò un papà che non avresti minimamente sospettato e in cambio io cercherò di conoscere te, di capire cosa ho lasciato indietro e cosa sei diventato, mentre ero troppo impegnato a non vederti crescere. Per prima cosa: ho rovistato nella tua stanza!» Ridacchiò, sollevando le mani, come per difendersi. «Oh! Lo so che non si spia, ma avevo un bel po’ di notizie arretrate da recuperare, va bene? Chiamala ‘terapia d’urto’! Ho visto le tue foto, spulciato tra i libri… ascoltato i cd. Ti piacciono i Beatles, eh? Questo lo hai preso da me, ah-ah! È nella genetica. E Bowie… ti piace Bowie ed è più di quanto avessi mai sperato.» Il sorriso si addolcì, assumendo una sfumatura malinconica. «Mi… mi ha fatto uno strano effetto scoprire che abbiamo dei gusti in comune. È stato bello. Era continuità, da me a te, pur senza saperlo.» Baiko scosse il capo, cambiando posizione sulla sedia. «E cos’è ‘sta storia che sei un letterato, mh? Li ho visti i libri, avresti potuto dirmelo-… No, hai ragione, a che sarebbe servito? Tanto non ti avrei ascoltato.» Era difficile riuscire a controllare la negatività dei pensieri e della consapevolezza d’esser stato un padre orribile; ogni tanto salivano a galla e cercavano di afferrarlo, per farlo sprofondare di nuovo nello sconforto, nel rimorso. Ma lui stava imparando a non lasciarsi trascinare, a reagire. A combattere. Scrollò le spalle, mettendo mano alla borsa del netbook. «Ti ho portato una cosa. L’ho preso dalla tua libreria. Hai un sacco di volumi ma questo aveva segni e sottolineature… deve piacerti molto, così ho pensato di leggertelo. Lo so, la mamma era molto più brava di me, ma dovrai accontentarti del sottoscritto.» Baiko infilò gli occhiali da vista e sollevò il tomo, leggendo in tono solenne: «‘La grande Trilogia del Mare: Ai confini della Terra’, di William Golding.» Sfogliò le pagine adagio, sentendo il ruvido della carta sotto i polpastrelli e immaginando Yuzo fare altrettanto, magari con maggiore avidità di sapere. «Libro Primo: ‘Riti di Passaggio’. Capitolo Uno: ‘Riverito Padrino, con queste parole do inizio al diario che mi sono impegnato a tenere per voi…’»
Fuori dalla stanza, tra il muro e il vetro, un giovane con il borsone sulla spalla rimaneva, non visto, ad ascoltare le sue parole.

 

“Hold me now /
Abbracciami adesso.
It’s hard for me to say ‘I’m sorry’ /
È difficile per me dire ‘mi dispiace’.

ChicagoHard to say ‘I’m sorry’

 


[1]OBAA-CHAN, [2]OJII-CHAN: letteralmente ‘nonnina’ e ‘nonnino’. X3

[3]BAGGY: sono i jeans con il cavallo bassissimo. XD Molto alla rapper/hiphopper! *-* Io li amo! X3 Ce li ho, sono La Comodità.


Le auto de "Il lungo sonno della Lucciola":

- Audi A5: sono stata un po' indecisa tra la A6 e la A5. Volevo una bella berlina, elegante, da uomo d'affari. Alla fine ho scelto la A5 :3 (*clicca qui*)


Le canzoni del capitolo:

- Voulez-vous? (Abba): ma perché gli Abba sono gli Abba, andiamo! XD E ammetto che questa è la mia preferita tra le loro canzoni! *-* Ci voleva qualcosa di più grintoso, no?! X3

- Today (L’Aura): ammetto che Haruko è sempre avvolta da un’aura molto drama anche perché, insomma, credo sia normale nella sua situazione. E questa canzone calzava a pennello. Ammetto di averne visti due di video ispirati a “Today”; ho messo quello ufficiale perché mi sembrava il più adatto, però ci tenevo a linkarvi anche l’altro (*-* realizzato a Torino! E’ stato bello riconoscere i luoghi!): *cliccameeee, tanto tanto intenZamente* La cosa bella è che sono tutte fotografie, scattate e montate in modo da sembrare un video. :D io trovo che sia bellissimo!

- Hello Goodbye (The Beatles): X3 non potevo non mettere ancora i Beatlesini! HelloGoodbye fa riferimento all’inversione di ruoli in cui Baiko e Yuzo si sono ritrovati. Prima era Yuzo a cercare il dialogo e a ritrovarsi solo porte chiuse, adesso è tutto il contrario. Baiko dice ‘Hello’ e Yuzo risponde ‘Goodbye’ :3

- Hard to say ‘I’m sorry’ (Chicago): Anche qui non ho usato il video originale! XD Anche perché ammetto che questo mi piace di più *-* Adoro gli animaletti! Canzone adattissima al momento di ‘pausa’? ‘Riflessione’? Haruko l’ha buttata lì, per il resto chi lo sa.
Mi domando se vi siate mai accorti che Baiko non ha mai detto, fino ad ora, le due famosissime paroline magiche: “Mi dispiace” :3 Per una persona così orgogliosa, anche se consapevole dei propri errori, resta sempre molto difficile da dire. Ce la farà?



Ringraziando come sempre tutte le persone che continuano a seguire questa storia, volevo annunciarvi *parappapàààà* che i capitoli saranno 12 (conteggio definitivo XD). Il prossimo è quasi terminato e gli altri sono tutti in scrittura compulsiva, quindi, *-* penso (e lo dico piano piano!) che non ci saranno aggiornamenti rallentati! YAY per me! *w* (anzi, se finisco prima del previsto, vi troverete gli aggiornamenti accelerati! XDDD).

:D ci ritroviamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 9
*** Part IX: Your photos, your life... your strength ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part IX: Your photos, your life… your strength -

 

“Verrà il tempo in cui trascorrerò le ore
all’ombra di un cielo di stelle.
Aspetterò in silenzio,
al tramonto,
la luce del tuo sguardo”

 

Aprì gli occhi di scatto e il cielo dal colore indecifrabile gli apparve immutato.
Il cielo senza sole, il mormorio del mare, l’odore di salsedine.
Non si mosse, ma rimase a guardare la volta infinita.
La sensazione di catarsi, completezza totale e leggerezza era durata solo per un attimo. Gli era sembrato di perdersi in essa, quando si era trovato avvolto dall’acqua.
Anche quella, quindi, era stata una proiezione mentale.
«Sono ancora qui.»
- Ci sei andato vicino. -
Yuzo girò il volto, rimanendo sdraiato. Trovò subito la figura di Mamoru al suo fianco, le braccia appoggiate sulle ginocchia piegate e gli occhi puntati verso il mare.
«A cosa?»
- Per un attimo, sei andato oltre. Dal quale non saresti più potuto tornare. - si volse a cercare i suoi occhi e sul viso aveva un’espressione seria ma non di rimprovero. Voleva che comprendesse bene cosa significasse attraversare la linea, era un viaggio a senso unico in cui non si poteva cambiare idea. - Il tuo spirito stava per morire. Si sarebbe separato dal corpo. Questa spiaggia sarebbe scomparsa e così anche io. -
A quell’affermazione Yuzo si accigliò. L’idea di perdere la sua presenza, perdere Mamoru, anche se non era quello vero, gli metteva addosso un’agitazione che, fino a qualche attimo prima, non aveva provato. Lo avrebbe perso anche così, sottoforma di illusione, e si sentì improvvisamente solo.
La figura stemperò l’aria severa, accennando un sorriso. - Ma qualcosa ti ha trattenuto all’ultimo momento. Hai cambiato idea. -
«Come posso aver cambiato idea se non sapevo nemmeno quello che stava accadendo?»
- Allora deve essere stato il tuo inconscio ad aver agito d’istinto. Forse quella situazione gli ha inavvertitamente ricordato qualcosa, anche se non te ne sei reso conto. Oppure deve aver risposto a qualche stimolo. - Mamoru distese le gambe, appoggiando i palmi nella sabbia. Il profilo nuovamente puntato al mare.
Solo in quel momento Yuzo sembrò come ravvedersi di qualcosa.
«Uno stimolo…» fece eco. Deciso si tirò a sedere e si toccò la fronte. Per un attimo, solo un attimo, talmente piccolo da essere veloce come un pensiero, aveva sentito un calore intenso alla testa. Un calore anomalo che, dalla fronte, si era irradiato su tutto il cranio come lo scorrere di una carezza.
- Non è detto che la prossima volta sarai così fortunato da fermarti per tempo. Quindi, fai attenzione: è una decisione di cui devi essere sicuro e non ritrovartici nel mezzo, trascinato dalla corrente. -
La creatura aveva di nuovo l’espressione seria, quasi temesse potesse andarsene sul serio.
A Yuzo parve illusorio, ma sorrise sentendosi importante per lui. Sapeva non fosse il vero Mamoru, ma era bello immaginare che l’originale potesse dire le stesse cose con lo stesso tono.
«Ho capito» disse, poi si guardò gli abiti e scherzò. «Ma non sono bagnati.»
L’altro comprese il suo tentativo di allentare la tensione del discorso e magari cambiarlo, parlare d’altro, così sbuffò un sorriso dandogli una leggera pacca sulla spalla.

 

“Sarò felice solo se potrò restarti accanto,
sarò felice solo se…
…se i miei occhi stanchi
avranno ancora voglia di guardare,
se le mie braccia
avranno ancora forza per… per stringerti.”

Marina ReiVerrà il tempo

 

§*§

 

“Do you know where you’re going to? /
Lo sai dove stai andando?
Do you like the things that life is showing you? /
Ti piacciono le cose che la vita ti sta mostrando?
Where are you going to? /
Dove stai andando?
Do you know? /
Lo sai?

 

La casa l’accolse con il solito silenzio serale di cui non si era mai accorta.
I suoi genitori avevano fatto una scelta molto forte nel volersi trasferire a Nankatsu dopo che si era sposata, per poterle restare vicino, visto che non era la sua città, e offrirle sostegno e compagnia. Lei era originaria di Suruga-ku, proprio come Baiko.
Baiko
Aveva percorso in fretta la strada per tornare dall’ospedale, senza mai guardarsi indietro, ma i suoi occhi erano rimasti sulle scale di quel pianerottolo assieme alle mani e alle parole, galleggianti nell’aria che avevano respirato.
Le parole sapevano essere più pesanti delle montagne e lei, anche senza essere stata esplicita, anche se aveva solo ipotizzato aveva detto parole che potevano sfondare muri, figurarsi il cuore. Lo sentiva poltiglia, da qualche parte, colante lungo le costole che chiudevano la cassa toracica.

«Non posso perdonarti.»
«Non lo so a che punto siamo né so a che punto voglio arrivare…»
«Forse è già troppo tardi.»

Baiko.
Il suo nome le rimbombava ancora nella testa nonostante lo avesse lasciato indietro, lontano. Nonostante lo avesse ferito e ferito sé stessa ancora di più. Nonostante tutto, il suo nome non se n’era mai andato.
Haruko fece scivolare la borsa all’angolo dell’ingresso, dirigendosi nel salotto che si apriva proprio davanti ai suoi occhi.
Era una casa piccola, una villetta per due, massimo tre persone. E ora che sua madre era morta, forse era troppo grande per Kyoshi, ma l’uomo non si era mai lamentato della solitudine; sapeva di non essere solo davvero, non con suo nipote così vicino. Haruko pensò a tutte le volte che lui e Yuzo uscivano insieme e andavano in giro per librerie. Tornavano sempre pieni di acquisti, leggevano i volumi, se li scambiavano, condividevano le impressioni.
Le labbra le si distesero adagio nell’avvicinarsi alla portafinestra che si apriva sul giardino dietro alla villetta, ma quel sorriso avvizzì come un fiore lasciato senz’acqua. Sfumò. Ripiegò i lati. Li capovolse. Origami di carne.
Probabilmente, Baiko nemmeno lo sapeva. Non sapeva che suo figlio amava la lettura. E come poteva? Sempre intrappolato in quella stanza scura e grigia.
Aprì il vetro, e l’aria d’Agosto corse verso di lei per entrare e portare l’odore dell’estate e dei fiori, di cibo delizioso che qualcuno nel quartiere stava cucinando. Portare il canto delle cicale e i rumori della città.
Baiko.
Lui aveva smesso di vedere e sentire. Per tutti gli anni che si erano susseguiti, aveva ignorato la vita che gli girava intorno; ignorato loro.
Fino a quel momento.
Haruko rivide il dolore negli occhi sempre distanti e indifferenti. Rivide il cambiamento nella staticità del volto, nel calore dei gesti, nelle parole che, diversamente dalle sue, volevo rassicurare. Sicurezza disperata che non tutto fosse perduto, ma si potesse recuperare.
Baiko.
Si appoggiò allo stipite, le dita che ruotavano la fede all’anulare, la sfilavano dolcemente e poi la rimettevano al suo posto.
Si può recuperare, Baiko?
Avanti e indietro. Più lontana dal dito, ancora un po’…
Possiamo recuperare?
…fino a toglierla del tutto.
Haruko abbassò lo sguardo, aprì e chiuse la mano un paio di volte, avvertendola libera dal cerchietto che era sempre rimasto con lei, anche quando lavava i piatti.
Si sentì nuda, come se le avessero tolto ogni vestito, come se le avessero strappato anche la pelle. Erano solo ossa nell’afa d’Agosto, cadevano come bastoncini di Shangai mossi male, il loro rumore le ricordò il ticchettare della pioggia sulle canne di una tettoia improvvisata, ad aspettare un autobus che non voleva arrivare.

«Haruko…»

La freschezza di quel bacio nascosto nei ricordi bruciò i resti del suo cuore.
Siamo davvero in tempo?
Le chiavi girarono d’improvviso nella toppa e la porta si aprì.
In fretta, Haruko asciugò le lacrime; anch’esse bruciavano, nonostante la brezza serale.
«Sono a casa.»
«Sei già tornato, papà? Potevi restare ancora un po’ con Yuzo…»
Lo disse cercando di nascondere il tono incerto.
«Lo so, ma hai dimenticato la spesa.»
Kyoshi si fece avanti, avvicinandosi al tavolo dove appoggiò la busta. Con la coda dell’occhio la vide armeggiare con le dita che, alla rinfusa, infilarono nuovamente la fede all’anulare. Lui si fermò con la mano a mezz’aria e le sopracciglia aggrottate; la osservò con attenzione.
«Haruko, stai-»
«Va tutto bene papà» disse, sforzando un sorriso, ma lei non era brava a nascondere i suoi veri sentimenti. «Non preoccuparti. Adesso preparo la cena…» afferrò la busta e si mosse per raggiungere la cucina.
Kyoshi rimase fermo accanto al tavolo. Anche Baiko gli aveva detto che andava tutto bene, che non doveva preoccuparsi. E invece comprese che era l’esatto contrario.
«Gli hai detto che vuoi il divorzio?»
Haruko si fermò di colpo, senza voltarsi. Suo padre non era mai stato così diretto, aveva sempre cercato le parole più dolci per dire le cose, soprattutto quelle che facevano male.
Inspirò a fondo e guardò l’anello. La pelle e i vestiti di nuovo al loro posto, la sensazione di nudità e di annientamento rinchiuse nei battiti ansiosi del cuore.
«Non so ancora quello che voglio, non so… se è più possibile averlo.»
«Qualunque cosa tu voglia, non è buttando ciò che hai che potrai ottenerla.»
Haruko si sentì ferire dal tono severo che aveva usato, quasi di rimprovero, come fosse ancora una bambina.
«E che cos’è che avrei, adesso?! La mia famiglia-»
«Ti sembra distrutta, certo. Tre pezzi. Tu, Baiko e Yuzo. Tutti vicini. E i cocci si possono ancora mettere insieme, ma non ci riuscirai mai se vorrai usare il rancore come collante. Diventerete polvere e dopo avrai davvero perso tutto.»
Lei abbassò il capo, seguitando a dargli le spalle.

«…Haruko, forse non diventerò mai un giocatore di baseball e nemmeno un architetto, però… se potessi scegliere di avere un’unica cosa nella mia vita, io sceglierei te.»

- Baiko… -

 

“Do you know what you’re hoping for? /
Lo sai cosa stai sperando?
When you look behind you, there’s no open doors /
Quando ti guardi indietro, non ci sono porte aperte.
What are you hoping for? /
Che cosa stai aspettando?
Do you know? /
Lo sai?

Diana RossDo you know where you’re going to?

 

*

“I just know your life's gonna change /
So solo che la tua vita sta per cambiare.
Gonna get a little better /
Vivila un po’ meglio
even on the darkest day /
perfino nel giorno più nero.

 

Il suo stomaco diede segni di cedimento non appena mise piede in casa.
Gorgogliò in maniera minacciosa e questo gli ricordò che, se voleva venire a compromessi anche con quella casa, era ora che iniziasse a prenderne la giusta confidenza. La cosa migliore era partire dalle basi e le basi si chiamavano: cucina e fornelli.
Baiko appoggiò la borsa del netbook sul mobiletto dell’ingresso, tanto l’avrebbe portata con sé anche il giorno dopo, per continuare a leggere il libro. E gli stava piacendo, non l’avrebbe mai detto. Eppure, forse la cosa che lo aveva lasciato più sorpreso era che comprendeva benissimo perché suo figlio avesse sottolineato certi passaggi o determinate frasi. Se gli avessero detto di farlo, lui avrebbe messo in evidenza le stesse. Addirittura la loro ‘sensibilità’ sembrava essere simile.
Quante cose ancora esistevano in grado di unirli, di renderli più vicini? Quante cose nascoste dentro di loro, di cui forse non erano nemmeno a conoscenza…
Baiko se l’era domandato lungo il tragitto per tornare a casa, immerso in una sorta di ‘stato di grazia’ e sospensione. Una sensazione diversa da quella che aveva provato pochi giorni prima. Nel momento in cui Yuzo si era ribellato in maniera definitiva alla sua autorità, aveva sentito la propria testa persa in una sorta di vuoto cosmico; l’astronauta, si ricordò. Un astronauta perduto nello spazio a gravità zero, dove non esisteva niente, dove non c’era una direzione verso cui muoversi. C’era solo una stasi indesiderata che non si poteva interrompere. Ora, la sospensione era totalmente diversa. Era sentirsi immersi in una pienezza così densa da galleggiare: lui galleggiava nella conoscenza di suo figlio. Lui galleggiava in Yuzo, nel suo mondo. Prima c’era stato il nulla, adesso c’era il tutto. E il tutto era una meravigliosa compagnia.
La cucina lo accolse in una sorta di silenzio guardingo. Se i mobili, gli stipetti, il tavolo e le sedie, le posate, i piatti e tutti gli oggetti lì presenti – mura, soffitto e pavimento compresi – fossero stati dotati di bocca, avrebbero detto: ‘Chi sei? Non ti conosciamo’.
«Ooook, casa» batté con forza le mani, sfregandole tra loro, «vediamo cosa mi offri e cosa sono in grado di fare!»
Baiko iniziò ad aprire gli stipetti e il frigorifero alla ricerca di ingredienti per poter creare qualcosa di commestibile.
Riso, spaghetti di riso, verdure varie, bonito, soia…
«Yakisoba!» esclamò in un tono che assomigliava molto a un ‘eureka!’. Era un piatto semplice, ricordava sua madre le infinite volte che li aveva preparati quando era piccolo e anche Haruko, le mani che maneggiavano con destrezza i coltelli da cucina, il grembiulino colorato e il sorriso sulle labbra. Ricordò il modo in cui tirava i capelli dietro l’orecchio e sentì le proprie labbra arricciarsi con malinconia. Probabilmente non avrebbe più potuto godere di quelle piccole cose che aveva sempre dato per scontate.
Scosse il capo, scacciando dalla mente la sola idea del divorzio – che parola orribile! Avrebbero dovuto cancellarla dal dizionario! – e si concentrò sul suo tentativo di cena.
Con decisione afferrò il pacco di spaghetti di riso dal ripiano, appoggiandoli poi sul tavolo. Dal frigo cavò cavolo, carote, cipolla verde e il filetto di maiale. Guardò l’insieme degli ingredienti che avrebbe dovuto usare con espressione convinta e soddisfatta: tutti sarebbero stati in grado di preparare degli spaghetti yakisoba, anche un bambino! Poteva ben sperare di cominciare con il piede giusto per recuperare le sue carenze in economia domestica.
«Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità» affermò solennemente e si rimboccò le maniche della camicia.
Per prima cosa iniziò dalle verdure. Avrebbe dovuto tagliare le foglie di cavolo e la cipolla verde, infine sminuzzare un aglio. Niente di così complicato, certo, ma quando i suoi occhi si fermarono sul set di coltelli, ingoiò a vuoto: non aveva mai pensato potessero essere così grandi… e affilati.
«Chissà se Haruko ha mai pensato di usarli come arma…» si domandò, osservando con attenzione la lama lucida e larga. Quante volte aveva rischiato la vita e non se n’era mai accorto? Avrebbe dovuto imparare a non contraddirla, in futuro. Sempre se avesse voluto dargli una seconda opportunità.
Con attenzione, Baiko si mise a tagliare il cavolo e la cipolla, stupendosi di sé stesso: non se la cavava male, certo la cipolla non era perfetta e il cavolo sembrava fosse stato mandato al massacro, ma insomma, l’importante non era l’aspetto quanto il risultato. L’aglio volò dappertutto quando tentò di sminuzzarlo: sul viso, sugli abiti, per terra, sul ripiano. C’era più aglio in tutto il resto della cucina che sul tagliere. E lui si appuntò che avrebbe dovuto usare un grembiule, la prossima volta.
Fu quando passò alle carote che Baiko iniziò a capire che, forse, non sarebbe stato così facile come gli era sembrato fino a quel momento.
Insomma, tagliare qualcosa di morbido come poteva essere il cavolo era una cosa, tentare di affettare qualcosa di più duro era tutt’altra.
La lama gli sfilò per tre volte e altrettante rischiò di affettarsi le dita invece della carota.
«Oh, merda!» sbottò alla quarta, il coltello che veniva letteralmente lanciato sul ripiano prima che potesse lasciarci una falange. Inspirò a fondo, le nocche appoggiate sul tavolo e lo sguardo fisso alla carota mezza tagliuzzata.
«Seee, fettine ‘alla julienne’. Uguali.» Batté le mani e le sfregò, prendendo una decisione. «D’accordo, niente carota. Sperimentiamo una variante che si chiamerà: Yakisoba alla Baiko
La piastra stava già riscaldandosi sul fuoco. Alla fine il difficile poteva dire d’averlo già fatto, ora si trattava solo di mischiare il tutto.
Mise gli spaghetti sulla piastra, premendoli da un lato e dall’altro.
«Ah! Visto?! Lo so fare! Non sono poi così incapace, no?» Si guardò attorno, quasi aspettandosi di avere l’approvazione dalla cucina in persona. «E ora, il maiale.»
Il filetto di maiale prese a friggere allegramente su un filo di olio di sesamo, riempiendo la stanza con il suo odore invitante. Adesso poteva passare alla preparazione della salsa yakisoba. Guardò le bottiglie dei vari ingredienti con occhio critico. Non aveva idea delle proporzioni, ma alla fine a lui erano sempre piaciute le cose molto saporite. Riempì un’intera ciotola di salsa oyster, soia e sakè, amalgamandole con estrema facilità.
Sì, stava andando alla grande! Certo, c’erano voluti trent’anni prima che si mettesse ai fornelli, però alla fine qualcosa di economia domestica l’aveva imparata, nonostante fosse sempre stato un disastro a scuola.
Al maiale e agli spaghetti, Baiko aggiunse le verdure, mischiò il tutto e decise finalmente di aggiungere il tocco finale, ovvero la salsa. Poteva già pregustarsi la sua prima cena preparata interamente da sé stesso. Un evento che aveva del miracoloso e che avrebbe potuto raccontare, ridendo, quando tutto quello sarebbe finito. Certo, non aveva messo in conto che non si sarebbe conclusa nel verso da lui sperato fino a quel momento. Tutto precipitò quando aggiunse la famosa salsa. Bastò una goccia caduta all’esterno, la padella leggermente più spostata, la fiamma viva e libera.
Prese fuoco. D’improvviso. L’alcool del sakè diede l’effetto di un flambé impazzito che divampò in tutta la piastra. Baiko fece un balzo all’indietro giusto in tempo per non scottarsi.
«Fuoco! Fuocofuoco! Brucia!» girò in tondo non sapendo che fare, mentre le fiamme ballavano la hula all’interno della pentola. Prima provò a soffiarci sopra, ma senza alcun risultato, poi afferrò il primo strofinaccio che gli capitò sottomano, colpendo la povera padella come fosse stata posseduta dal demonio, ma tutto ciò che ottenne fu di mandare a fuoco anche lo straccio.
«E spegniti, dannazione!» masticò, dopo averlo gettato in terra e averlo pestato. In quel balletto improvvisato, agguantò il coperchio e lo lanciò quasi sulla piastra, riuscendo a coprirla in modo da estinguere anche quel principio di incendio.
Tirò un pesante sospiro.
«Doveva pur esserci un motivo per cui facessi così schifo in economia domestica.»
Spense il fornello e provò a sbirciare quello che restava della cena. Gli spaghetti e le verdure gli apparvero bruciacchiati, ma con l’ultimo moto d’orgoglio che gli era rimasto gonfiò il petto.
«Chi può dirlo! Magari sono ottimi!» si convinse. Afferrò le bacchette e pescò alcuni spaghetti. Li masticò a lungo, nel silenzio di tomba che era calato nella stanza. Li passò a un lato all’altro della bocca, mentre una ruga di disappunto iniziava a piegarsi sulla fronte e all’angolo delle labbra. Baiko tentò di resistere strenuamente, perché non aveva mai tollerato la sconfitta, ma alla fine non gli restò che cedere.
Sputò tutto nel cestino della spazzatura.
«Bleaaaaah, ma è disgustoso! Dio mio!» disse, dopo aver buttato giù d’un sorso un intero bicchiere di acqua: non solo sapevano di bruciato, ma erano sakè allo stato puro.
Baiko guardò la sua opera d’arte malriuscita e poi, con la coda dell’occhio, scrutò le condizioni terribili in cui aveva ridotto la cucina.
«Credo di dover partire da qualcosa di ancora più semplice» ammise a sé stesso e, con fare sconsolato, aprì a caso uno degli stipetti. Tra le tante scatole, una, più nascosta, attirò la sua attenzione. Sulla confezione faceva capolino il disegno di un timido e candido fiocco di mais.
Inspirò a fondo; l’orgoglio buttato nel secchio della spazzatura assieme al suo aborto di spaghetti.
«E vada per i pop-corn.»

 

“So, is this how it goes? /
Allora, è in questo modo che va?
Think you’ve come this far with nothing to show /
Pensi di venire qui da così lontano senza niente da mostrare?
That ain’t so, no /
Non è così, no.
You don’t see where you are /
Non vedi dove sei
and if you don’t look back you’ll never know /
e se non ti guardi indietro non lo saprai mai.

 

Baiko afferrò la ciotola dei pop-corn, stringendola sotto al braccio, mentre con l’altra mano affondava nei fiocchi candidi.
Fin da quando era tornato da Suruga, sapeva di dover fare una cosa e a quella era fermamente deciso a dedicare l’intera serata.
Entrò nel salotto, percependolo quasi come fosse una zona neutrale, appoggiò i pop-corn sul tavolino e si avvicinò al televisore; nel mobiletto erano raccolti, in maniera ordinata, i dvd delle partite di suo figlio. Ringraziò mentalmente l’accortezza di Haruko nell’averli conservati tutti; era davvero una madre magnifica e se Yuzo era un ragazzo così a modo lo doveva solo a lei, non certo a sé stesso che come padre era stato un vero fiasco.
Si sedette a terra, di peso, lamentando dolori ovunque e non volle nemmeno immaginare in che modo non sarebbe riuscito ad alzarsi dal letto il giorno successivo.
«Ci ho dato troppo dentro con quella bici…» borbottò e anche con il baseball; iniziava a sentire il braccio talmente stanco da sembrare un’appendice morta. Lo ruotò a vuoto, massaggiando la spalla, ma non avvertì nessun sollievo.
Baiko aprì le ante del  mobiletto basso e le costine delle custodie comparvero tutte affiancate. Su ciascuna era scritto l’anno del campionato di riferimento. Partivano dal 2000. Oddio, il 2000. Yuzo aveva avuto solo otto anni. Ne erano passati undici da allora, ma la differenza era abissale. Suo figlio era un uomo, che sapeva cosa voleva dalla vita, e l’idea di poter recuperare qualcosa di lui così lontana, di poterlo vedere di nuovo bambino come non fosse ancora cresciuto, gli allargò un sorriso caldo sull’espressione carica di affetto e protezione.
Prese il primo dvd, rigirandolo tra le mani, sulla copertina nera erano elencate tutte le partite presenti nel disco. Stava per alzarsi quando si accorse che dietro la fila c’erano degli album. Baiko tirò fuori tutti i dvd per poterli prendere.
Cominciò a sfogliarne uno e il sorriso si fece nostalgico: erano gli album di famiglia.
Le prime foto in bianco e nero mostrarono panoramiche di Suruga-ku, della sua casa e dei suoi genitori.
Shuzo Morisaki apparve in kimono tradizionale con sguardo gelido e impersonale in quella foto che lo ritraeva assieme a lui e a sua madre. Era così autoritaria, la sua espressione, che anche quella di Baiko, nel fissarla, si fece seria.
Passò oltre e altri scatti più recenti lo videro ventenne nei coloratissimi anni ’80, assieme ad Haruko. Lei sorrideva, luminosa come il sole, mentre lui nascondeva i denti dietro le labbra leggermente piegate. Sul proprio viso, Baiko lesse l’avvicinarsi di quella severità che era propria di Shuzo e con l’andare degli anni e delle fotografie divenne sempre più evidente.
Foto della ‘Golden Gun’ quando c’era ancora suo padre alla dirigenza; lui e i suoi completi scuri sempre eleganti e professionali, tutti uguali e anonimi, rigorosi.
La severità che si rafforzava e stonava così tanto accanto alla bellezza di Haruko da fargli aggrottare le sopracciglia e sospirare. Cozzavano come il giorno e la notte, lei il fiore e lui la spina.
«Come hai fatto a sopportarmi per tutti questi anni?» domandò al viso di lei che sorrideva felice come se tutto il resto fosse irrilevante e il suo distacco, la sua indifferenza non sembravano pesarle.
Poi il respiro gli si fermò al centro del petto all’improvviso, come se l’aria lì attorno fosse finita di colpo, lasciandolo a metà.
«Oddio…» gli occhi gli punsero senza dargli tregua e sentì il naso pizzicare, l’emozione costiparsi tutta in un punto senza trovare una via di fuga.
Nella foto c’era Haruko, bella oltre ogni dire, che, tra le braccia, stringeva un fagottino con i pugnetti stretti e l’espressione sonnacchiosa.
«…quanto eri piccolo…» esalò, le dita che carezzavano la superficie liscia della fotografia quasi avessero potuto sentire il calore della morbidezza di quel corpo che, ricordò, era stato in grado di reggere con un braccio solo.

«Sorridi, mammina, che vi faccio una foto!»
«Ma non siamo presentabili!»
«Siete bellissimi, non fare storie.»
«Va bene, ma solo una, eh! Ho la faccia di uno zombie e poi… guardalo! Sbadiglia, il nostro cucciolo! Anche lui è stanco, siamo appena usciti dall’ospedale.»
«Ok, ok. Una sola, donna polemica.»
Click.
«E ora la nanna, vero piccolino?»
«Ha sbadigliato di nuovo! Capisci già tutto, non è così? Sei un ometto sveglio. Sogni d’oro, Yuzo, sei a casa.»

Come faceva un corpo così piccolo a crescere così tanto?
Se lo chiese, ma non seppe rispondersi perché non c’erano vere risposte a simili domande. Forse nemmeno si volevano conoscere sul serio, erano interrogativi volanti che nascevano e morivano nell’elettricità delle sinapsi, erano un modo per non rimanere muti davanti a simili meraviglie.
I mesi e poi gli anni passarono nel susseguirsi degli scatti. Gli occhi assonnati e sonnacchiosi divennero vispi e attenti. Occhi come quelli di Haruko, puri, e che sorridevano in maniera naturale.
Tre mesi. Cinque mesi. Un anno.
Yuzo cresceva in fretta, stretto tra le braccia di sua madre o dei nonni.
Shuzo aveva perso tutta la sua austerità e sembrava avere almeno dieci anni di meno, Kyoshi non aveva ancora i capelli bianchi e Leticia, la madre di Haruko, era ancora viva.
Yuzo gattonava ma lo scatto successivo era già in piedi, che correva dietro a una palla. E sorrideva, sempre.
E lui, quei momenti, li ricordava tutti. Le frasi dette, le situazioni, addirittura le stagioni. Erano tutti lì, nella sua testa, con una nitidezza che lo sconvolse. Sapeva tutto di quelle foto perché le aveva scattate in prima persona, anche per questo non compariva mai in nessuna immagine: era dietro la macchina fotografica, ma si rese conto di non avere alcuna foto con suo figlio. Nemmeno una dove fossero insieme, dove sorridevano, solo loro due. Come se non fosse mai esistito. Dopo i sette anni, poi, era scomparso anche come fotografo.
Il suo sorriso felice si smorzò lentamente fino a dissolversi in una smorfia scoraggiata.
Possibile che non ce ne fosse nemmeno una? Una sola tutta per loro dove restavano vicini e sorridenti. Felici?
D’improvviso, Baiko tese le labbra e aggrottò le sopracciglia, con decisione.
«E va bene, vorrà dire che quanto ti sveglierai ne faremo un sacco, di foto. Tutte quelle che abbiamo saltato in questi anni, le recupereremo da adesso in poi, vedrai, Yuzo.»
Annuì con fermezza, guardando a lungo e con affetto il sorriso di suo figlio nell’ultima immagine dell’album. Aveva quindici anni e vestiva con orgoglio la divisa del liceo Nankatsu, dopo aver passato brillantemente i test di ammissione.
In maniera ordinata, Baiko mise di nuovo a posto le fotografie, dedicandosi esclusivamente ai dvd.
Finalmente lo avrebbe visto giocare.
Con un po’ di emozione, infilò il primo disco e tornò al divano per godersi in pace la partita.
Il campo da calcio apparve con una panoramica ripresa dall’alto degli spalti. C’era gente, ma non abbastanza per occupare tutti i posti.
Erano più che altro genitori, famiglie, amici venuti a vedere i piccoli campioni.
Il cameraman improvvisato fece una panoramica dei volti al suo fianco e, tra signore sconosciute, riconobbe Haruko.
«Forza, Haruko-san, un bel sorriso per i posteri» disse, allegra, una voce di donna, probabilmente colei che stava anche effettuando le riprese. Sua moglie non se lo fece ripetere, sorrise solare e salutò con la mano.
Lui sorrise di rimando all’allegria che emanava il suo volto, più giovane, e con la permanente ad arricciarle i capelli. Li aveva portati così per tutti gli anni ’80 e ’90 e solo con l’affacciarsi del 2000 era ritornata al suo liscio naturale. Per lui non faceva differenza, era bellissima lo stesso.
Le voci di sottofondo accompagnarono le immagini che tornarono ad essere quelle del campo.
«Oh, sono così emozionata! È la prima volta che vedo giocare mio figlio.»
«Vedrai, Haruko-san, sono tutti così carini!»
«Certe volte mi verrebbe voglia di andare alla panchina per abbracciarli e riempirli di coccole!»
Baiko inarcò un sopracciglio, scuotendo il capo nell’udire quelle tipiche smancerie da femmine. Afferrò i pop-corn e se ne cacciò un paio in bocca, intromettendosi nel discorso.
«Meno chiacchiere, signore mie, e passiamo ai fatti!»
Quasi l’avessero sentito, i bambini fecero compostamente la loro entrata in campo, in fila, tutti ordinati per raggiungere le rispettive panchine.
«Eccoli! Eccoli! Oh, ma guardate che pulcini!» L’occhio della videocamera zoomò freneticamente sulla panchina e tra tutti i visi dei campioni in erba, lo vide. L’aria felice, la divisa della Mizukoshi, si sistemava i guanti in maniera meticolosa, guardandoli come fossero stati la cosa più bella del mondo.
Baiko masticò lentamente il fiocchetto di mais, addolcendo lo sguardo. Per un attimo l’immagine di un bambino con il guantone da baseball si sovrappose a Yuzo: la stessa espressione.
«Cielo… il mio ometto…»
Gli squittii delle mamme scomparvero e le sue orecchie non sentirono più nulla se non un unico suono, cupo, ripetuto in maniera ritmica.
Tum.
Tum.
Tum.
Rimbombava, veniva da dentro di lui, dalla cassa toracica.
Tum.
Tum.
Tum.
Baiko si portò una mano al petto. Il cuore aveva un suono così forte. Copriva ogni cosa.
Sullo schermo, Yuzo sorrideva, si interessava al mondo circostante, ascoltava con attenzione il mister che parlava e poi annuiva alle disposizioni che gli venivano impartite.
L’incontro non era ancora iniziato, ma lui poteva percepirlo distintamente quel battito fiero, quel senso di invincibilità e forza indistruttibili. Era orgoglio. Yuzo aveva solo pochi anni e cominciava appena a muovere i primi passi nel mondo del calcio e anche se non sapeva quale sarebbe stato l’esito di quella partita, che avesse vinto o perso, lui era profondamente orgoglioso di suo figlio.

 

“Cos you think that you’ve been living, just treading water /
Perché pensi d’aver vissuto, restando appena a galla
and waiting in the wings for the show to begin /
e aspettando dietro le quinte che lo show iniziasse.
But I always see you searching /
Ma ti ho sempre visto alla ricerca,
as you try that bit harder /
come ci provassi un po’ più duramente
getting closer, oh yeah, to the life you’re imagining /
ad avvicinarti, oh sì, alla vita che stai immaginando.

 

Alla fine avevano perso davvero, anzi, erano stati proprio stracciati, ma lui non aveva smesso un attimo di sorridere divertito.
I loro avversari erano stati quelli della scuola elementare più prestigiosa di Nankatsu, la Shutetsu, e… «Ma non è Mamoru, quello lì?!» aveva domandato, riconoscendo, nel vivace ragazzino con i capelli lunghi, l’amico di suo figlio. E poi Hajime e Teppei, il colosso che era un armadio già da piccolo. Le partite si erano succedute, le divise cambiate, Yuzo era cresciuto un po’ di più a ogni incontro e non solo fisicamente.
A Baiko sembrò che imparasse sempre qualcosa da ogni sconfitta, da ogni goal preso. Forse, soprattutto per questo, per il modo in cui sapeva sempre alzare la testa, era riuscito ad arrivare in Nazionale e poi nella J-League.
La forza di suo figlio andava oltre ciò che aveva immaginato.
Ma non era un qualcosa di palese o plateale, non come quel mentecatto abbronzato, psicopatico e sadico che gli aveva volutamente tirato una pallonata in faccia – «Ma chi diavolo è quel moccioso?! E’ fallo, arbitro, cazzo! E’ da espellere! E pure rinchiudere!» aveva cominciato a urlare facendo volare la ciotola e spargendo tutti i pop-corn –. La forza di Yuzo era qualcosa di calmo, che passava inosservata a chi non sapeva guardare, era un qualcosa che restava sempre nascosto dietro al sorriso spensierato e vivo, dietro alla meticolosità con cui, sempre, aveva continuato a mettersi i guanti prima di entrare in campo, dietro allo sguardo concentrato ed esclusivo con cui li guardava. Yuzo aveva una forza costante che non esplodeva, ma che comunque, alla fine di ogni partita, si rafforzava.
Baiko l’aveva scrutato con attenzione, seguito ogni suo movimento o espressione per quanto gli fosse stato possibile ogni volta che veniva inquadrato, cercava di capirlo dai gesti, dai modi con cui guidava la difesa, dalla sicurezza che aumentava a ogni partita.
Gli aveva visto vestire la stessa divisa di Mamoru, all’ultimo anno delle elementari, e poi alle medie e poi ancora al liceo. L’aveva visto giocare con lui, fianco a fianco, dalla stessa parte, assieme a quei ragazzi che ora animavano le fotografie della sua camera.
Aveva urlato, sbraitato, applaudito e riso, si era emozionato e arrabbiato. Non solo per suo figlio, ma per tutti loro che erano cresciuti assieme a lui e si erano fatti ragazzi e poi uomini.
L’avevano chiamata la Generazione D’oro del calcio giapponese, ma per Baiko erano diventati molto di più che semplici calciatori. Erano gli amici di suo figlio, erano i compagni di viaggio che Yuzo aveva scelto di avere accanto nella sua crescita e meritavano tutto il rispetto che non aveva mai voluto dargli.
Gli occhi di Baiko si fermarono su Yuzo e Mamoru che, insieme, abbandonavano il campo. Il terzino aveva aspettato suo figlio e, appena lo aveva avuto vicino, gli aveva prima spettinato scherzosamente i capelli, poi gli aveva passato il braccio attorno al collo, allontanandosi verso l’uscita. Lui, che aveva colto ma non approfondito quel qualcosa che sembrava esserci tra loro, li guardò con occhi diversi.
«Datemi tempo» disse, con tono colpevole, «posso affrontarlo, davvero, ho solo bisogno di ancora un po’ di tempo.»
La ripresa si interruppe sul loro sorriso ignaro, prima di passare al video successivo.

 

“(Just wanna live) /
(Voglio solo vivere)
No worries, no worries /
Nessun problema, nessun problema.
(Don’t wanna die) /
(Non voglio morire)
No worries, no worries /
Nessun problema, nessun problema.
(Fight through the low’s) /
(Combattere attraverso le avversità)
Say it for me, say it for me /
Dillo per me, dillo per me.
(And take all the high’s) /
(E prendere tutto il meglio)
We all need somebody /
Tutti abbiamo bisogno di qualcuno.

Simon Webbe No worries

*

Mae guardò distrattamente l’orologio appeso al muro mentre finiva di preparare la cena.
Quando sentì il rumore della porta, lasciò tutto quello che stava facendo e si affacciò al corridoio, visibilmente felice.
«Mamoru, final-… oh, caro sei tu.»
Taikan Izawa inarcò ironicamente un sopracciglio, esibendo un sorriso offeso. «Beh, non merito lo stesso entusiasmo di mio figlio?»
Lei ridacchiò. «Finiscila! Sei troppo vecchio per fare il bambino.»
«Ma senti!»
«Su, su. Non essere polemico.» Gli scoccò un bacio sulla guancia. «Bentornato.»
«Umphf. Vedrò di accontentarmi. Piuttosto, perché quest’impazienza?» Dopo essersi tolto le scarpe e aver appoggiato le chiavi della macchina nel piccolo vassoio accanto all’ingresso, tornarono entrambi in cucina.
Mae sospirò. «Mah, niente in particolare, solo che non è ancora tornato…»
Taikan si avvicinò alle calde e invitanti polpettine di pollo appena fritte, allungando distrattamente una mano per fregarne una, ma lo schiaffetto ammonitore lo colpì con la velocità di un fulmine costringendolo alla ritirata repentina e strategica.
«Ahio!»
«Non provarci. Conoscendoti, te le mangeresti tutte in men che non si dica. Aspettiamo Mamoru.»
Taikan grugnì di nuovo, incassando il collo nelle spalle come un bambino dispettoso, poi si rilassò, appoggiandosi al mobile e preparando mentalmente una nuova tattica per riuscire a sgraffignare almeno una polpettina. Era divenuta una questione di principio.
«Vedrai che arriverà presto, lo sai che va direttamente all’ospedale quando torna da Yokohama.»
Mae sospirò di nuovo, il viso appoggiato in una mano, le labbra strette e il nasino all’insù. Aveva i capelli acconciati con un taglio corto che lei ci teneva a ricordare fosse ‘alla moda e non da vecchia signora!’, dopotutto, lavorando in salone di bellezza doveva sempre essere impeccabile.
«Sono molto preoccupata. Mamoru non l’ha presa bene. Te ne sei accorto? È diventato così taciturno e sempre di cattivo umore…» Con disinvoltura allontanò la ciotola con le polpettine dal raggio d’azione di suo marito che arricciò leggermente le labbra, contrariato.
Taikan si sistemò la bassa coda di cavallo che si ostinava a portare nonostante l’età cercasse in tutti i modi di ricordargli di aver superato i quarantacinque. Tirò su i rettangolari occhiali da vista e si fece più vicino a sua moglie, allungando il braccio sul ripiano e fingendo di essersi solo appoggiato.
«Cerca di capirlo, stiamo parlando di Yuzo. E’ il suo migliore amico, si conoscono da che erano bambini. Senza contare che è stato lui a trovarlo, insieme alla madre del ragazzo.»
Mae sospirò per l’ennesima volta, scuotendo il capo con espressione afflitta. «Non voglio nemmeno immaginare cosa deve aver provato Haruko. Sono passata all’ospedale un paio di giorni fa, e aveva un’aria così distrutta… Non riesco ancora a crederci che Yuzo abbia fatto una cosa simile. Lo conosciamo da anni, l’hai visto anche tu che ragazzo d’oro sia!»
«Già…» in quel momento, entrambi si disinteressarono a tutto il resto, alle tattiche per rubare una polpetta, alle futilità. Anche se, soprattutto in presenza di Mamoru, tendevano a mantenere un tono più leggero, tutta la faccenda aveva colpito anche loro. Consideravano Yuzo come uno di famiglia, ormai, un ‘figlio acquisito’. «E del padre? Si sa niente?»
Mae arricciò le labbra e inarcò un sopracciglio. «Mah, io non l’ho mai visto. Né alle partite né alle manifestazioni scolastiche» e quando l’aveva chiesto a Mamoru, lui aveva liquidato l’argomento in due parole.
A Taikan era sempre suonato molto strano che il padre di Yuzo fosse così disinteressato a suo figlio. Dopotutto, era sia un campione nazionale che mondiale. Ma doveva ammettere che nemmeno lui l’aveva mai visto.
«Mh… deve essere una persona davvero molto severa.»
«Sicuro. Poi, mi ha detto la mamma di Hajime che, a quanto pare, Haruko non vuole sentirne parlare. Non credo tiri una buona aria…» il capo venne scosso lentamente e con dolenza. «Ci mancava anche questa.»
«Brutta storia.»
«Sì…»
L’improvviso rumore della porta d’ingresso che veniva nuovamente aperta interruppe la loro conversazione, facendola virare nuovamente su toni più leggeri quando sentirono la voce di Mamoru.
«Sono a casa.»
«Ah! Tesoro!»
A Mae bastò quell’attimo di distrazione, perché la mano lesta di Taikan riuscisse ad allungarsi fino alla ciotola, pescare una polpettina e portarsela alla bocca. Quando si rigirò, la donna lo vide con le labbra strette, una guancia gonfia e l’espressione di chi si stava trattenendo fino allo stremo per non sbottare a ridere. Mae ridusse gli occhi a due fessure sottilissime, valorizzate dal mascara e dalle ciglia finte messe ad arte. Inspirò a fondo, espirando poi con la pesantezza di un bufalo.
«Taikan» scandì lentamente il suo nome, mostrandogli le unghie lunghe abbellite con complesse nail art. L’uomo finse un’espressione innocente. «Vedi di correre perché se ti metto le mani addosso, ti faccio a strisce!»
Non se lo fece ripetere: Taikan sgattaiolò via masticando la famosa polpettina e tentando di non strozzarsi con le risate. Sbucò nel corridoio, dove Mamoru aveva appena poggiato a terra il borsone.
«Figlio, salva il tuo vecchio!» si nascose dietro di lui, prendendolo per le spalle e usandolo a mo’ di scudo.
Mae spuntò nella scia, le mani sollevate e pronte a colpire. «Ah! Ma bravo! Mandi avanti tuo figlio?! Quanto coraggio!»
Mamoru rimase immobile, preso tra i due fuochi, e con l’espressione di chi non aveva idea di dove fosse finito.
«Ma… che diavolo state facendo?!»
«Tua madre vuole scorticarmi vivo!» esclamò Taikan.
«Tuo padre s’è fregato una delle polpettine che ti avevo preparato con tanto amore!» si difese Mae.
E nessuno dei due che gli desse modo di dire qualcosa.
«Sappi che sono buonissime, tesoro, ma con un po’ di salsa di soia sarebbero perfette!»
«Non c’è bisogno che me lo dica tu! Lo so anche da me e-… oh!» Mae perse il piglio aggressivo, portandosi una mano alla bocca stretta. «Ho dimenticato di comprare la salsa! È finita! Valla a prendere, mangione!» ordinò, puntando severamente l’indice contro suo marito.
Per tutta risposta, lui le fece una linguaccia.
Incastrato in quel botta e risposta, al terzino non restò che sospirare e affondare il viso in una mano. «Povero me, ma come devo fare con voi?» masticò, chiedendolo più a sé stesso che a loro. «Papà smetti di fare i dispetti alla mamma, e tu, mamma, smetti di rincorrere papà con le unghie sguainate. A comprare la salsa ci vado io.»
Mae si crucciò, portandosi le mani al viso. «Ma no, tesoro, sei appena arrivato…»
«Tanto è qui vicino e poi ho voglia di fare due passi.» per fortuna che non si era ancora tolto le scarpe. Si volse, afferrando la maniglia, quando fu il padre a fermarlo, questa volta.
«E Yuzo? Sei andato a trovarlo; come sta?»
Mamoru non si volse, ma Taikan non ebbe bisogno di vederlo in faccia per capire che il tono era cambiato, e in maniera drastica. Asettico, freddo, distante.
«Come sempre.»
Il rumore della porta che si chiudeva sui suoi passi tagliò l’aria, rimbombando nel silenzio.
Mae e Taikan rimasero a fissare per qualche momento l’uscio chiuso, prima di scambiarsi uno sguardo affranto.

 

“It's ok. It's ok. It's ok /
Va bene. Va bene. Va bene.
Seasons are changing /
Le stagioni stanno cambiando,
and waves are crashing /
e le onde si stanno infrangendo, /
and stars are falling all for us /
e le stelle stanno cadendo per noi. /
Days grow longer and nights grow shorter /
I giorni diventano più lunghi e le notti più corte.
I can show you I'll be the one /
Posso mostrarti che sarò l’unico per te.

 

Quei due erano un disastro, Mamoru si era rassegnato fin da quando aveva capito che fossero irrecuperabili, ovvero in prima elementare. I suoi genitori erano proprio senza speranza, eppure forse era stato proprio questo loro atteggiamento sopra le righe, quel non prendere sul serio sé stessi o ciò che li circondava a renderli così aperti al mondo. Così felici e soddisfatti.
Mamoru affondò le mani nelle tasche jeans che gli arrivavano al ginocchio, guardandosi i piedi. Procedevano un passo dietro l’altro.
A loro non aveva detto che, in verità, aveva sentito il bisogno di prendere aria, come se tutta quella che respirava non fosse sufficiente. Voleva sentirne di continuo scorrere sopra la pelle con quel tenue venticello, quasi potesse togliere la sensazione di ospedale che gli si aggrappava addosso ogni volta che andava da Yuzo.
E non cambiava nulla.
Quando si trovava a Yokohama viveva con la costante attesa che il telefono potesse squillare all’improvviso, che qualcuno gli dicesse ‘È sveglio!’, che venisse finalmente spezzata quella cupola immobile che era calata su tutti loro quasi fosse stata la bara di Biancaneve. Ma non c’erano Sette Nani ad aspettare, perché anche loro erano finiti rinchiusi tra le pareti di quella scatola di cristallo e il tempo non esisteva più, non aveva senso. Mamoru aveva smesso di percepirlo.
Quando poi rientrava a Nankatsu, c’era un’altra speranza ad animare i suoi passi, gesti e pensieri: quella di affacciarsi nella stanza e trovare aperti i suoi occhi.
Puntualmente le sue attese venivano deluse e Yuzo continuava a rimanere addormentato ignaro di tutte le persone che soffrivano attorno a lui e che aspettavano il suo ritorno. Forse, se solo avesse saputo quanto male faceva, si sarebbe svegliato subito. Ma lui ignorava ogni cosa, sordo a tutto, e il solo pensiero gli fece tirare un basso respiro inquieto, frustrato. Le labbra tese, il sopracciglio inarcato sull’espressione improvvisamente aspra. Arrabbiata.
Non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Hajime e Teppei che più volte gli avevano chiesto se andava tutto bene. Ci sarebbe stata solo una persona con cui avrebbe affrontato il discorso. A lui e solo a lui avrebbe detto ogni cosa, ogni pensiero, visto che era il responsabile di tutto. E non gli importava se non avesse ascoltato, gli avrebbe parlato lo stesso e poi, quando finalmente si sarebbe risvegliato, glielo avrebbe ripetuto ancora perché non poteva pensare di poterla passare tanto liscia dopo quello che aveva fatto.
Mamoru spinse con troppo vigore la porta del supermarket aperto ventiquattro ore, tanto da attirarsi gli sguardi dei pochi avventori che, come lui, erano andati a comprare l’ingrediente dell’ultimo minuto.
Il terzino ignorò tutto e tutti e si diresse a passo spedito verso gli scaffali dove sapeva avrebbe trovato la salsa di soia.
Con la mente ripensò al signor Morisaki.
Era arrabbiato anche con lui.
Lo rivide mentre restava seduto a leggere per il figlio e le labbra si deformarono in una smorfia.
Che pensava? Che sarebbe bastato? Che sarebbe stato sufficiente? No che non lo era! Non poteva credere di diventare il padre modello e premuroso tutto a un tratto e solo dopo che il figlio aveva agito di forza. Niente di quello che avrebbe fatto gli avrebbe riportato indietro Yuzo!
Senza nemmeno perder tempo a scegliere agguantò una bottiglietta e si avviò alla cassa. Con un gesto brusco la sbatté letteralmente davanti al povero commesso occhialuto che sobbalzò.
Mamoru non ci fece caso. Non guardava niente. Gli occhi fermi su punti morti, ombre di oggetti, qualcosa di inutile. Pagò e se ne andò senza rispondere al saluto del cassiere che fu ben lieto di vederlo uscire.
Fuori dalle porte a vetro del supermarket, il terzino si fermò, alzando lo sguardo al cielo. Erano le nove di sera e si era fatto quasi scuro del tutto, restava quel buio tenue, che non era notte, non ancora.
L’espressione imbronciata era divenuta una parte di lui, aggrappata alla carne del viso come una maschera che si era fusa alla pelle. Impossibile da tirare via.
Non avrebbe mai potuto perdonarlo per quello.
Mamoru lo realizzò fissando una piccola stella che cercava di brillare nell’avvicendarsi della sera, ma ancora non sapeva chi, dei due, non avrebbe perdonato. Se il padre o il figlio. Forse entrambi.
Tornò a infilare le mani nelle tasche dei jeans, mentre la busta oscillava appesa al polso. Urtava ritmicamente contro la gamba mentre camminava; testa bassa, questa volta a seguire il marciapiede.
Poi, d’un tratto, sentì il primo fuoco.
Si levò scoppiettante, lasciando un alone colorato nel cielo; si festeggiava, in qualche quartiere più lontano. Ne seguirono altri, a ripetizione, così veloci che esplodevano mentre i precedenti illuminavano ancora il cielo.
Mamoru si irrigidì di colpo, stringendo i pugni nelle tasche. Ogni fibra del proprio corpo era tesa nell’isolare l’udito, nell’escludere quei suoni, quegli… quegli… scoppi… quei… quei…
Dieci, cento, mille colpi di pistola.
Sentì il sapore del sangue scivolargli nella bocca per il modo spasmodico con cui stava serrando i denti, digrignandoli. Nemmeno si era accorto che, ora, le mani stringevano la testa, tentavano di tappare le orecchie.
Nei suoi timpani, davanti alle retine il tamburo continuava a girare e ogni scatto era un colpo che esplodeva nel sangue.

«…che hai fatto?... Oddio, che hai fatto?!... che hai fatto… che hai fatto…»

La propria voce si rincorreva con quell’inflessione angosciante di cantilena.
Mamoru barcollò fino a raggiungere il muro più vicino contro il quale appoggiarsi.
I fuochi d’artificio continuavano a colorare il mondo, con la loro allegria, ignari di tutto il resto e lui si ritrovò a guardarsi le dita - inutile turarsi le orecchie quando i rumori nascevano da dentro la propria testa -: tremavano e lui non era in grado di fermarle, così come non riusciva a fermare le lacrime che scendevano lungo le guance senza controllo.
Strinse gli occhi, nascondendo il viso in quelle stesse mani che sapevano mostrare, molto più di quanto lui era in grado di nascondere, la sua paura. Ora vedeva solo lenzuola bianche e tubi.
«Perché mi hai fatto questo?... Perché?»

 

“Cuz you're my, you're my, my true love, my whole heart /
Perché tu sei il mio, sei il mio, il mio vero amore, il mio intero cuore;
please don't throw that away /
per favore, non buttarlo via.
Cuz I'm here for you /
Perché sono qui per te.
Please don't walk away /
Per favore, non andartene,
please tell me you'll stay, stay /
per favore, dimmi che resterai, resta.

The Red Jumpsuit Arrapatus  - Your guardian angel


Nota estemporanea:

XD il padre di Mamoru DEVE e sottolineo DEVE avere i capelli lunghi come il figliolo. Deve. E’ tradizione XD glieli ho sempre fatti così! Ormai non ce lo so più vedere senza codillo.
Giusto per la cronaca, visto che il suo lavoro non viene menzionato ma io gliene ho trovato uno ugualmente: Taikan ha un’agenzia di Grafica Pubblicitaria! :D

Cazzatina random:

Questo è il video che ho usato per vedere come si preparavano gli spaghetti yakisoba (XD): *clicca qui*


Le canzone del capitolo:

- Verrà il tempo (Marina Rei): Questa canzone l’ho scoperta totalmente per caso, mentre cercavo “Fammi entrare” (che è stata usata nel capitolo 5). Mi devo ripetere: Marina Rei è troppo sottovalutata come cantante. Questa canzone è davvero molto bella e poi crea un’atmosfera così sospesa che mi piaceva molto. L’ho trovata adatta al momento! :D

- Do you know where you’re going to? (Diana Ross): Diana Ross non avrebbe nemmeno bisogno di presentazioni XD. Questa canzone è stupenda e mi sembrava perfetta per sottolineare lo smarrimento e l’indecisione di Haruko!

- No Worries (Simon Webbe): Va beh XD. Signore mie, spero vivamente che abbiate messo preventivamente un catino sopra al pc per raccogliere la sbavicchia. No?! AHI AHI AHI! XDDDD
Sbavicchiamenti a parte, ‘sto giovinotto è bravo e continuo a dire che le sue canzoni riescono a ricreare ad hoc l’atmosfera di speranza e ‘risalita’ di cui ho bisogno. Ci farà compagnia almeno un’altra volta quindi, tranquille, gli sbavicchiamenti non sono finiti XDDDD.

- Your guardian angel (The Red Jumpsuit Arrapatus): Se avessi visto prima il video, senza ascoltare la canzone, non avrei dato mezza lira bucata a questo gruppo. Via! Il cantante sembra quello dei Trokkioli (XD Tokio Hotel)! Però, per fortuna, ho sentito PRIMA la canzone. E la canzone… m’è piaciuta! XD Pure parecchio. Mi piacciono quelle in cui si fa un uso più melodico della chitarra, invece che darci dentro di brutto (XD che, ovviamente, non mi dispiace!). Ripeto, avessi visto prima loro, ci sarei passata sopra con il rullo compressore XDDDD.

:D e anche per questo capitolo e tutto. Ringrazio tutti coloro che hanno deciso di seguire questa storia :)
Finalmente posso iniziare il countdown: -3 X3

 

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Capitolo 10
*** Part X: Running into your world ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part X: Running into your world -

 

Il suo risveglio fu segnato dall’incontro inaspettato con il pavimento: era caduto dal divano.
Aveva passato la nottata a guardare le partite e la stanchezza l’aveva colto senza dargli scampo.
«Ahia» mugugnò faccia a terra, ma come tentò di muoversi il dolore si diramò in tutto il corpo. «Oh-oh.» Ogni singolo muscolo sembrò essere entrato in sciopero e si ostinava a non rispondere ai suoi comandi. «Oh. Oh.» ripeté, con maggiore convinzione.
Ecco quello che succedeva a fare il giovincello quando si era a un passo dal mezzo secolo: corpo bloccato e muscoli kaputt.
«Ma bene. E adesso?!» Baiko alzò la testa alla ricerca di un appiglio e di un modo per rimettersi in piedi, ma sembrava molto più facile dirlo che farlo. L’oggetto più vicino, che poteva offrirgli un minimo di solidità, era il divano. Sospirò. «Vediamo di recuperare un briciolo di dignità.»
Alzarsi fu un concerto di ‘ahi’ vergognosi che lo accompagnarono durante il suo lento trascinarsi verso il bagno per farsi una doccia. Si era addormentato vestito e sentì proprio la necessità del massaggio rilassante dell’acqua sui muscoli. Dopo un po’ gli sembrò addirittura che riuscisse ad attenuare il dolore.
«Dio mio, mi sento un relitto» bofonchiò mentre, stretto nell’accappatoio e con un asciugamano appoggiato sulla testa, raggiungeva la camera da letto. «E tu, figliolo, ti sei mai sentito come se ti avessero camminato addosso in centomila? Scommetto di no, sei atletico tu, mica come quel rammollito del tuo vecchio.»
Aprì l’armadio, mentre frizionava i capelli, e solo in quel momento, nel ritrovarsi davanti l’ordinata sequenza di completi giacca/pantalone, si ricordò della necessità di andare a fare shopping.
«Mh», un sopracciglio saettò verso l’alto, «Ho trovato un modo per trascorrere la mattinata.»

 

“I still don't know what I was waiting for /
Non so ancora cosa stessi aspettando
and my time was running wild /

e il mio tempo stava scorrendo selvaggio.
A million dead-end streets /
Un milione di vicoli ciechi.
Every time I thought I'd got it made /
Ogni volta che pensavo di avercela fatta
it seemed the taste /

sembrava che il sapore
was not so sweet /

non fosse così dolce.

 

Per un tipo come lui, che negli anni era divenuto metodico e abitudinario, tanto da comprare gli abiti in un solo negozio di sartoria, dover andare a fare shopping si presentava come una tragedia greca.
Soprattutto capire quale fosse la moda del momento, visto che lui era sempre andato sul sicuro – con giacca e cravatta non si sbagliava mai! –. L’ultima volta che aveva avuto una vaga idea di come si vestisse la gente era stato negli anni ’80 e – almeno quello l’aveva capito – adesso la moda era cambiata in maniera radicale.
Trovarsi da solo, quindi, in quel grande magazzino, senza sapere da dove iniziare gli apparve… frustrante. Troppo tempo passato a essere un Mr. President, come diceva Nakamoto, e aveva perso in toto il contatto con la realtà comune.
Baiko lo capì mentre restava impalato al centro del negozio a guardarsi intorno nel suo completo scuro talmente elegante da attirarsi l’occhiata di metà dei presenti.
«Mi… mi scusi.» Finalmente, miracolosa, la vocina gentile di una commessa sembrò piovere dal cielo. «Posso aiutarla?»
Il sorriso che Baiko le rivolse la fece arrossire fino alla punta delle orecchie.
«Sì. Vorrei rifarmi il guardaroba, ma…», si volse a destra e poi a sinistra, «non so da che parte iniziare.»
La giovane parve titubare, scrutandolo con attenzione. Aggrottò le sopracciglia.
«Ecco, io… non vorrei sembrarle scortese, ma… è sicuro di essere nel posto giusto?»
«Beh…» oddio! Aveva sbagliato negozio?! Baiko cercò di non andare nel panico. «…qui vendete abbigliamento maschile e-»
«Sì, sì! Non intendevo questo. Ecco io… volevo dire…» la giovane indicò gli abiti che stava indossando «…quello è un Hasakura?» che tradotto stava per: ‘quell’abito costa quanto il mio stipendio! Qui non abbiamo niente che possa avvicinarsi a quella cifra!’.
Baiko si grattò il sopracciglio. «Sì. Sì, lo è. In effetti il mio armadio non offriva altro…»
La commessa apparve ancora più sconvolta. Lui cercò di sorridere.
«E’ per questo che voglio rinnovare il guardaroba. Sa, ho un figlio di diciannove anni e vorrei non pensasse di avere un vecchietto come padre.»
Stavolta, la giovane non trattenne una risatina divertita che però si premurò di nascondere nella mano.
«Credo di aver capito» disse, rivolgendogli un sorriso comprensivo e facendosi da parte. «Prego, mi segua. Ci penserò io.»
E in effetti ci pensò veramente lei. A tutto. Lo rimise a nuovo, svecchiando il suo abbigliamento troppo sobrio. Il completo di sartoria venne eclissato in una delle buste degli acquisti e al suo posto indossò polo e jeans.
Baiko si ricordò che l’ultima volta che ne aveva indossato un paio erano stati ancora a zampa di elefante, il che la diceva parecchio lunga.
«Ma davvero non si portano più?» aveva domandato con tanto d’occhi.
«Beh, di certo non come quelli originali, ma qualche modello sporadico ancora resiste.»
Lui aveva inarcato un sopracciglio. «Diavolo, come passa il tempo.»
Lei aveva riso. Di sicuro doveva esser convinta che fosse uno sprovveduto, vissuto nascosto sotto una campana di vetro per interi decenni. E non avrebbe sbagliato, se ne rendeva conto anche da solo.
Baiko si fermò sulla soglia del grande magazzino, le mani che reggevano almeno quattro buste enormi. La giovane commessa lo aveva accompagnato all’uscita.
«La ringrazio per il suo aiuto e la sua cortesia. Penso di aver cominciato a capire come destreggiarmi in questi… tempi moderni.»
Lei fece un inchino, sorridendo. «Dovere, è il mio lavoro. Vedrà che ora nessuno potrà dire che sembra un vecchietto», poi si sporse: «In verità non lo sembrava nemmeno prima.»
Fu lui a ridere, questa volta. «Suona come un complimento.»
«Lo è. Suo figlio è molto fortunato ad avere un padre come lei. Non tutti sarebbero disposti a cambiare per far piacere ai propri figli.»
Ma Baiko scosse il capo. «Il fortunato sono io» disse, accennando un inchino e lasciando il negozio.
«Torni a trovarci!»
Certo che ci sarebbe tornato! E poi la giovane era stata gentilissima a consigliargli un buon negozio sportivo, che lui non sapeva nemmeno dove andare.
Lo raggiunse a piedi. No, niente auto. Doveva imparare a orientarsi in quella città. Ci viveva da anni ma non la conosceva affatto mentre Yuzo, probabilmente, avrebbe saputo elencargli tutte le strade in ordine alfabetico. Ci mise un po’, ma finalmente riuscì a raggiungere il mega store della Nike. Entrò e il fresco dell’aria condizionata gli diede un piacevole senso di refrigerio.
Il suo sguardo vagò alla ricerca delle scarpe: occupavano l’enorme parete di fondo. A passo lento le raggiunse.
Ce n’erano così tante, modelli, colori, ma a lui ne serviva solo un paio.
«Salve!» esclamò sorridente un giovane commesso comparso dal nulla. «Cerca qualcosa in particolare?»
Lui si portò una mano al mento.
«Sì, in effetti devo affrontare una strada molto tortuosa, piena di salite e discese. A volte penso che mi toccherà correre e in definitiva avrò molto da camminare, quindi» lo guardò con un sorriso divertito «saprebbe consigliarmi delle buone scarpe

 

“Ch-ch-ch-ch-Changes /
C-c-c-c-cambiamenti
(Turn and face the stranger) /

(Voltati e affronta lo straniero)
Ch-ch-Changes /

C-c-cambiamenti
Don't want to be a richer man /

Non voglio essere un uomo ricco
Ch-ch-ch-ch-Changes /

C-c-c-c-cambiamenti
(Turn and face the stranger) /

(Voltati e affronta lo straniero)
Ch-ch-Changes /

C-c-cambiamenti
Just gonna have to be a different man /

Devo solo essere un uomo diverso
Time may change me /

Il tempo può cambiarmi,
but I can't trace time /

ma non posso inseguire il tempo.

David BowieChanges

 

*

«‘Ebbene, ora torno al mio diario, fino alla mesta cerimonia di oggi pomeriggio.’ / ‘Ah, il diario. Non scordate di includervi, Mister Talbot, che, checché possa dirsi dei passeggeri, per quel che riguarda il mio equipaggio ed i miei ufficiali, questa nave è una nave felice!’(1)»
Fece passare qualche attimo di silenzio e poi annuì adagio.
Nella camera d’ospedale di Yuzo si sentiva solo il ritmico beep delle macchine.
«Bello stronzo, il Capitano Anderson» fu il commento di Baiko. «Non ho ragione? Io gli avrei spaccato la faccia.»
Immaginò suo figlio rispondergli qualcosa di molto più diplomatico; non era aggressivo come lui e gli venne da sorridere mentre richiudeva il tomo da cui spuntava il segnalibro.
«Meglio interrompere qui, prima che arrivino le infermiere a cacciarmi a pedate» scherzò.
Il sole si era già nascosto dietro le montagne a Ovest e il cielo s’avventurava in direzione della sera, colorandosi di viola e indaco. Nelle varie case, le famiglie erano già da un po’ riunite per cenare tutte insieme davanti alla tv e a un bel piatto fresco.
Baiko ripose il volume nella borsa, rilassandosi contro lo schienale della sedia. Il capo reclinato all’indietro e gli occhi chiusi. La mano aveva cercato e stretto quella di suo figlio per tentare di stabilire un contatto che non fosse solo a parole, non era detto che lo sentisse, ma il calore della sua pelle, forse, avrebbe potuto raggiungerlo e dirgli che non era mai da solo, ovunque si fosse trovato in quel momento. Una sorta di faro, che potesse indicargli la strada per tornare indietro.
«Oggi sono andato in giro per negozi.» Spezzò il silenzio con quella frase, parlando sempre a occhi chiusi. «Se non avessi trovato una commessa tanto gentile e disponibile penso che non avrei saputo nemmeno dove mettere le mani. La moda è così diversa da quella cui ero abituato… Non pensavo di poter imparare anche da una cosa così futile come lo shopping, eppure credo d’aver ricevuto una lezione importante.» Distese le gambe lunghe, incrociando i piedi e facendoli oscillare lentamente, quasi dondolandosi. «Ho imparato che il tempo non aspetta nessuno e anche se ci piacerebbe tornare indietro non si può. Non è possibile vivere nel passato. E se non si impara come destreggiarsi nel presente, allora si finisce col fermarsi. E chi si ferma è veramente perduto.» Aprì leggermente le palpebre, guardando suo figlio di sottecchi; sorrise appena. «Non sono riuscito a stare al tuo passo, sono rimasto indietro e ho capito di essermi perso solo quando hai deciso di esserti stancato di aspettare che ti raggiungessi.» Gli occhi si chiusero ancora. «Hai fatto bene, a mandarmi al diavolo, solo… non c’era un altro modo? Uno qualunque, che potesse farmi altrettanto male ma che non ti riducesse così? Perché non è un giusto prezzo, questo, non è giusto che per farmi ritrovare ti sia dovuto perdere tu. A volte ci penso, ma non riesco a ottenere una risposta, un’alternativa; bisognava arrivare a tanto… Ero proprio senza speranza.»
Sbuffò un sorriso molto autoironico. In quel momento, la porta della stanza si aprì e lui acquisì una postura più composta, girandosi a guardare l’infermiera affacciata oltre l’uscio.
«Signor Morisaki, è ora» lo avvertì, ricordandogli che non poteva restare oltre.
«Sì, vado subito. Grazie.»
Il tempo era scaduto, come ogni sera.
«Certo che sono davvero fiscali queste infermiere; spaccano il secondo. Avranno un orologio svizzero al posto del cuore. Pensa che ieri, una di loro mi ha detto: ‘non dovrebbe attardarsi così, si ricordi che il paziente deve riposare’ Al che mi è venuto spontaneo risponderle: ‘Più di così?!’. Avrebbe voluto incenerirmi, era palese» ridacchiò, alzandosi adagio e caricandosi la borsa sulla spalla. Mise a posto la sedia e tornò accanto a suo figlio. Si appoggiò un ultimo momento alla sbarra di sicurezza al lato del letto. «Stasera lavorerò alla mia vecchia bicicletta. Nonno Shuzo l’aveva tenuta da parte per te, perché potessi ereditarla: perfetto stile anni ’70. È modernariato, eh! Mica le trovi più così in giro e non provare a ridere. Io e lei ne abbiamo passate tante assieme e anche per questo le devo dare una sistemata: l’altro giorno abbiamo avuto un ‘piccolo incidente’ e le ho piegato un paio di raggi, ma vedrai che tornerà come nuova per quando ti sarai svegliato, così potrò presentartela. Sono sicuro che te ne innamorerai come è capitato a me. E’ un cimelio. Trattalo con cura.» Gli strizzò l’occhio con complicità, poi assunse una postura ben dritta e pronta a lasciare quella camera e l’intero ospedale. Baiko osservò per qualche attimo ancora il viso di suo figlio. «Forse dovrei augurarti un buon riposo, eppure… io vorrei che dormissi così male da svegliarti per la disperazione. Vorrei che aprissi gli occhi e che tornassi da noi… Alla mamma manchi tanto e… e anche a me; nonostante ti abbia ignorato per tutto questo tempo resterai sempre una parte di me. Quindi, svegliati presto.»
Fece scivolare via le dita dalla sua mano e lasciò la stanza evitando di guardarsi indietro per non rimanere ferito dal suo silenzio.

 

§*§

 

“All of my life I've tried so hard /
Per tutta la mia vita ho provato così duramente
doing my best with what I had /
a fare del mio meglio con quello che avevo,
nothing much happened all the same /
Ma non è successo niente lo stesso.

Something about me stood apart /
Qualcosa di me era come separato,
a whisper of hope that seemed to fail /
un sussurro di speranza che sembrava mancare.
Maybe I'm born right out of my time /
Forse sono nato in un’epoca sbagliata,
breaking my life in two /
spezzando in due la mia vita.

 

- Ti sei mai pentito di quello che hai fatto? -
Mamoru glielo domandò all’improvviso, in un momento in cui non stavano parlando, ma si limitavano ad ascoltare il mormorio del mare, il respiro del vento e il proprio. Erano ancora seduti uno accanto all’altro e Yuzo non si sarebbe mai stancato di restare così, senza pensare, ma il suo accompagnatore voleva a tutti i costi che lo facesse, che ragionasse sulle cose che gli erano sfuggite o che non aveva voluto vedere, sulle cose che reputava irrecuperabili o di cui si vergognava.
Sulle cose come quella.
Yuzo lo aveva capito, anche se Mamoru era molto bravo a porre con totale naturalezza determinati quesiti che minavano le sue certezze, le scavavano, e le mettevano a nudo, dimostrando quanto fossero fragili.
Il vero Mamoru sarebbe stato più diretto e gliene avrebbe dette di tutti i colori.
«Non ci ho ancora pensato.»
- Ora puoi. -
Il suo interlocutore gli rivolse un sorriso divertito sulla faccia da schiaffi cui riuscì a sottrarsi a fatica, sorridendo a sua volta, di resa.
«Non lo so. In quel momento non ho pensato a niente. Non ho pensato alle conseguenze, non ho pensato a mia madre, non ho pensato ai miei amici né a-» si volse, fermò la frase in quegli occhi scuri che ora erano quelli del suo migliore amico. No, non aveva pensato neanche a lui. «Ho pensato solo a me. Solo a papà. In quel momento, il mondo intero eravamo nient’altro che noi due. Sono… sono stato egoista. Se adesso dovessi pensare alla mamma o ai miei amici, direi di essere pentito perché non vorrei mai essere la causa della loro sofferenza. Ma, d’altra parte, se dovessi pensare a mio padre… non lo so. Volevo che soffrisse, volevo così tanto fargli del male…» Nelle iridi scure, la rabbia e il rancore brillarono per una frazione di secondo come scintille d’un fuoco d’artificio; poi si spensero. «E il brutto è che una parte di me lo desidera ancora, anche se sa di essere stata terribile.»
- E a loro, agli altri, pensi mai a come stiano adesso? -
«Non voglio farlo.»
- Devi, invece. -
«Perché?»
- Perché ti servirà per scegliere. -
Quella scoperta lo fece rabbrividire in maniera impercettibile, ma non abbastanza per gli occhi del suo accompagnatore; lui vedeva ogni cosa, sempre.
«Scegliere?»
- Se andare avanti o tornare indietro. -
«Non posso… restare qui in eterno?» tentò, accennando un sorriso, ma l’altro mantenne la sua imperturbabilità e quella serietà che lo contraddistingueva quando gli parlava di cose importanti. Lo conosceva relativamente da pochissimo tempo, una manciata di eternità, eppure sapeva già capire i suoi atteggiamenti, quasi lo avesse avuto accanto fin da bambino.
- Il concetto di eternità non è lo stesso tra reale e irreale. Il tempo che noi abbiamo passato qui, non corrisponde a quello vissuto dal tuo corpo. Se continui ad aspettare, potresti non avere più un corpo in cui tornare. Quindi devi pensare, Yuzo, pensare. Con attenzione. Pensa a tua madre. Cosa immagini di lei? -
Distolse lo sguardo, sentendosi colpevole. «Che devo averle spezzato il cuore. Mi ha sostenuto fino alla fine e io… in quel modo l’ho colpita alle spalle. L’ho ferita, non solo papà…» scosse il capo e la bocca assunse un sapore aspro.
- E del tuo amico Mamoru, invece? -
Lì, improvvisamente si mise a ridere, scuotendo il capo con maggiore vigore.
«Che mi starà odiando.» Rideva ma gli veniva da piangere, lo sentiva negli occhi e nella piega delle labbra che era curvata verso l’alto, ma amara. «Sono sicuro che è così arrabbiato che se potesse mi prenderebbe a sberle da qui all’eternità.»
- Devi tenere molto a lui se mi hai dato finanche il suo aspetto. -
«Sì. Molto è riduttivo.» Si passò una mano sugli occhi. «E’ stato un sostegno. La sicurezza che io non ho mai avuto. E dire che non siamo stati amici da subito. Ad occhi estranei, Mamoru può apparire un po’ presuntuoso e arrogante, troppo sicuro di sé. Ma quando riesci a diventare suo amico… farebbe di tutto per te. È generoso e protettivo. Grazie a lui ho capito cosa significa amare qualcuno in ogni sua parte, pregi e difetti.»
- Ma non glielo hai detto. -
Il capo venne scosso ancora, con dolenza e un mezzo sorriso ironico sbuffato. «Non posso.»
- Perché? -
«Perché è una cosa troppo grande. Cambierebbe tutto, anche se non lo vogliamo. Cambierebbe per forza di cose e non perché lui non mi accetterebbe, ma perché dire ‘mi piacciono gli uomini’ e dire ‘mi piaci tu’ sono due cose diverse. Non voglio perderlo.» Agitò severamente un indice in direzione del finto Mamoru, tentando di sdrammatizzare quel discorso che era riuscito a ferirlo comunque, perché lo trascinava a viva forza fuori da quell’universo irreale e perfetto, in cui ogni cosa era calma e tranquilla, in cui nulla più faceva male, per avvicinarlo di nuovo alla realtà. La stessa che aveva provato a lasciarsi alle spalle ma che sapeva ferirlo perché non sapeva come affrontarla davvero e quale fosse il vero sentimento che provava nei suoi confronti. Tra odio, rimorso, dolore, amore non sapeva che scegliere. Ignorò il fatto di non udire più l’eco della speranza. «L’amore è una gran fregatura. Non potevamo odiarci tutti? Sarebbe stato più facile. Non avremmo mai provato il senso di colpa.»
- Se tornassi indietro potresti rivederlo e rivedere tua madre. –
Sottile, ma deciso; Mamoru gli riempiva il petto di aghi ad ogni parola. E di dubbi.
«Rivedrei anche mio padre…» sulla bilancia pendevano piatti che si eguagliavano. Non sapeva affrontarlo, non poteva, non ci riusciva. Non ci era riuscito in tutti quegli anni, come avrebbe potuto ora e dopo quello che era accaduto? «Posso… posso pensarci ancora un po’?»
Il giovane sembrò capirlo, perché smise di forzare. Anche per quello avvertì la sua presenza come una specie di agrodolce benedizione.
- Certo che puoi. Ma prima che faccia sera dovrai darmi una risposta. -
«Ma se non c’è il sole, come faccio a-»
- Lo saprai. -
Il suo essere criptico riusciva sempre a convincerlo, e Yuzo non sapeva dirsi perché.
Avrebbe saputo quando sarebbe giunta la sera. Gli aveva detto così e lui non ne ebbe dubbi. Allora avrebbe dovuto sfruttare al meglio quell’infinitesimo di pace, prima che di vederlo spezzato per sempre da ciò che non avrebbe voluto fare.
«Ti dispiace se mi appoggio a te?»
- No. - sorrise l’altro, e lui cambiò posizione, spostandosi parallelamente alla striscia di mare; la schiena che toccava la spalla di Mamoru e la testa che veniva reclinata all’indietro per cercare la morbidezza dei suoi capelli.
«Noi ci sedevamo spesso così» sorrise, e l’immagine del fiume e loro due sulla riva prima che la tempesta divenisse un ciclone incontrollabile apparve e scomparve nell’infrangersi leggero di un’onda.
- Davvero? -
«Mh…»
Ma la creatura doveva saperlo già, perché gli passò un braccio intorno al petto, proprio come faceva sempre il vero Mamoru. Il calore era lo stesso dei suoi ricordi.
Chiuse le palpebre, aggrottando le sopracciglia.
«Scegliere… mi fa paura.»
- Non devi averne. -
«Tu… resterai qui con me?»
Avvertì le dita scivolare sui suoi occhi, la testa appoggiarsi contro la sua e un sussurro a carezzargli la guancia.
- Fino alla fine. -

 

“Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Now that I've really got a chance /
Ora che ho davvero una possibilità.
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Everything's falling into place /
Ogni cosa sta tornando a posto
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Seeing my past to let it go /
Guardo al mio passato per lasciarlo andare.
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Only for you I don't regret /
Solo per te non ho il rimpianto
that I was Thursday's child /
d’esser stato fuori luogo. 

Sometimes I cried my heart to sleep /
 A volte ho pianto il mio cuore fino ad addormentarlo.
Shuffling days and lonesome nights /
Giorni confuse e notti solitarie
Sometimes my courage fell to my feet /
A volte mi è mancato il coraggio.

Lucky old sun is in my sky /
Il vecchio sole fortunato è nel mio cielo
Nothing prepared me for your smile /
Nessuno mi aveva preparato al tuo sorriso,
lighting the darkness of my soul /
sta illuminando l’oscurità della mia anima.
Innocence in your arms /
Innocenza nelle tue braccia.

David BowieThursday’s Child

 

§*§

 

“Well we know where we’re goin’ /
Bene, sappiamo dove stiamo andando,
but we don’t know where we’ve been /
ma non sappiamo dove siamo stati.
And we know what we’re knowin’ /
E sappiamo quello che sappiamo,
but we can’t say what we’ve seen /
ma non possiamo dire cosa abbiamo visto.
And we’re not little children /
E non siamo dei bambini
and we know what we want /
e sappiamo cosa vogliamo
and the future is certain /
e il futuro è certo,
give us time to work it out /
dateci il tempo per riuscirci.

 

La sveglia suonò alle cinque ed ebbe quasi l’istinto di gettarla lontano, ma si comportò da uomo e la spense.
Aveva fatto di nuovo un orario improponibile tra il riparare la bici, cucinare qualcosa di commestibile e continuare a vedere le partite di suo figlio. Però si sarebbe alzato lo stesso, nonostante fosse andato a dormire nemmeno quattro ore prima. Lo avrebbe fatto perché quel giorno aveva un programma speciale da seguire.
Baiko si tirò a sedere e aveva la faccia del sonno, i capelli spettinati e la barba che in piena ricrescita. Una meraviglia.
Si schiaffeggiò per riprendersi il più rapidamente possibile e abbandonò il letto senza protestare.
I pantaloncini e la t-shirt erano fermi sulla sedia, pronti per essere indossati; le scarpe da ginnastica, invece, restavano riposte all’ingresso.
Li guardò con decisione, attraverso la penombra della stanza, quasi avessero potuto parlargli – e se l’avessero fatto, poco ma sicuro gli avrebbero urlato contro un ‘ridicolo!’ di chiarissima comprensione –.
Li afferrò e se ne andò in bagno. Dieci minuti dopo la porta di casa veniva richiusa alle sue spalle.
Fuori l’aria era frizzante al punto giusto. L’afa d’Agosto non era ancora arrivata a scacciare il fresco che la sera aveva calato su tutta Nankatsu. Il sole stava ancora pisolando dietro i monti.
Baiko si fermò fuori dal cancello, guardandosi attorno: non c’era nessuno. La città era ancora addormentata e passava solo, sporadica, qualche vettura. Era tutto così silenzioso che riusciva addirittura a sentire i rumori delle strade più lontane, che portavano al centro.
Quindi era in questo modo che Yuzo iniziava le sue giornate, con quel silenzio e quella calma. Il programma che aveva trovato appuntato alla mensola sopra la scrivania di suo figlio diceva: ‘corsa mattutina fino alla collinetta del Parco Hikarigaoka per vedere l’alba’. C’era addirittura tracciato il percorso da seguire e lui se l’era studiato per bene, la sera prima, in modo da impararlo a memoria.
Baiko infilò le cuffiette del lettore mp3 di suo figlio e fece partire la musica, restando fermo con le mani ai fianchi. Ora erano solo lui e la strada che si stendeva sgombra, davanti ai suoi occhi.
Ruotò la testa, avvertendo lo scricchiolare del collo, sollevò le braccia snodando le spalle. Prese il tempo della batteria con tutto il corpo e finalmente iniziò a correre.
A dire il vero, sentiva le gambe ancora un po’ intontite dal troppo lavoro fatto quando era andato a trovare sua madre. Non era proprio più abituato a simili attività, ma sarebbe riuscito a portare a termine quella tratta a ogni costo. Aveva detto a Yuzo che non si sarebbe mai arreso e lui era sempre stato un tipo di parola.
Mentre correva, osservando la città attorno a lui, pensò che non si era mai alzato così presto per allenarsi quando giocava a baseball. Chissà, magari era anche per quello che non erano mai andati oltre il Campionato Regionale. Se ci avessero messo maggiore impegno, forse…
Yuzo, invece, prendeva seriamente il calcio, aveva quella passione in più che era riuscito a farlo arrivare in alto.
Lui gli aveva sempre ripetuto che i Morisaki non mollavano mai, non si accontentavano, spingevano fino allo stremo e suo figlio, senza far rumore, non era venuto meno a nessuna delle sue raccomandazioni. Nel calcio, Yuzo metteva tutto sé stesso e solo allora si rese conto di come lui, invece, non ne avesse rispettata nemmeno una di quelle regole. Aveva mollato il suo sogno, si era accontentato di dirigere la ‘Golden Gun’, non aveva lottato per ciò in cui credeva davvero. Per anni aveva torchiato suo figlio, mentre lui era stato bravo solo a parlare e nient’altro.
L’amaro gli rovinò il palato, mentre scuoteva la testa: l’ennesimo fallimento da aggiungere alla lunga lista.
Ma non doveva recriminare su quelli che erano stati i suoi sbagli, erano troppi e lo sapeva, doveva concentrarsi solo sul presente, sul ricostruire, modificare il progetto e renderlo davvero unico; c’era sempre tempo per rispettare i propositi di famiglia.
Baiko tornò a sorridere, mantenendo l’andatura.
Adagio, la città iniziava a svegliarsi. Lui si guardò attorno, ma non riconobbe quella zona di Nankatsu. Oddio, non che le altre le conoscesse chissà quanto meglio, visto che non era mai andato in giro da turista o anche semplicemente per farsi una passeggiata. Le villette si susseguivano ordinate lungo la strada, giardini curati, staccionate bianche o marroni che sembravano verniciate di fresco e muriccioli di mattoni. Cespugli di rose e mimose giapponesi esplodevano con colori carichi dai giardini; alcuni erano così grandi che uscivano leggermente sulla strada. Lui passò accanto ai fiori già sbocciati sui cui petali scorse le prime api al lavoro. Per quanto non apprezzasse particolarmente gli insetti, soprattutto quelli dotati di pungiglione, gli venne da sorridere e non seppe spiegarsi perché.

 

“We’re on a road to nowhere /
Siamo sulla strada che non porta da nessuna parte.
Come on inside /
Entraci.
Takin’ that ride to nowhere /
Intraprendendo quel viaggio che non porta da nessuna parte,
we’ll take that ride /
prenderemo quel viaggio.


I’m feelin’ okay this mornin’ /
 Mi sento bene questa mattina.
And you know /
E tu lo sai,
we’re on the road to Paradise /
siamo sulla strada per il Paradiso.
Here we go, here we go /
Andiamo, andiamo.

 

Si fermò nel mezzo del nulla, ansimando per prendere fiato.
Ma quanto ancora era lontano il parco?!
Baiko non ne aveva idea, sapeva solo che lì, su quella stradina un po’ sterrata, c’erano solo lui e le sponde del fiume.
Il primo pensiero che gli era venuto in mente, nel vederlo, era stato: «Nankatsu ha un fiume? Davvero?!», lui lo vedeva per la prima volta. Poi si era guardato attorno, il quartiere residenziale con le villette era scomparso lasciando posto ad alte palazzine di periferia. Ma adesso, anche queste si presentavano a una certa distanza e lui non aveva che il rumore dell’acqua a fargli compagnia.
Tolse le cuffiette, appoggiandosi con le mani sulle ginocchia.
«Dannazione, sono troppo vecchio per queste cose!» esclamò a voce alta, inarcando un sopracciglio.
Per sua fortuna, c’era una fontanella poco distante e la conquistò in un attimo. Il fresco dell’acqua sulla pelle e lungo la gola lo fece rinascere. Assunse nuovamente una stazione eretta, portandosi le mani ai fianchi e respirando frequentemente per recuperare. Lo sguardo vagò alla strada che si era lasciato alle spalle e a quella che avrebbe ancora dovuto percorrere. Del parco nemmeno l’ombra remota in lontananza.
«E tu fai questo tutte le mattine?» domandò, passandosi una mano sulla fronte. «Tanto di cappello, figlio mio.»
E così aveva scoperto un’altra caratteristica da associare a Yuzo: la perseveranza(2). Se cominciava una cosa, la portava a termine con costanza e continuità. Si era prefisso di correre ogni mattina prima di andare a scuola? E allora lo avrebbe fatto, senza farsi vincere dalla pigrizia. Questa era Passione, con la lettera maiuscola.
Baiko inspirò a fondo guardando la lunga strada che si perdeva davanti a lui. «In marcia.»
E in marcia si mise: infatti camminò, che di correre non se ne parlava proprio.
A passo svelto si mosse seguendo il fiume e godendo dall’aria umida e dell’odore di terra bagnata. Era un mormorio rilassante e se Yuzo lo sceglieva come suo percorso abituale doveva piacergli in modo particolare.
Una libellula gli volò davanti, andando a nascondersi nell’erba alta. A quell’ora non c’era ancora nessuno lì, non sembrava una strada particolarmente trafficata. In alto, il cielo iniziava a schiarirsi.
Baiko lo guardò un po’ accigliato: doveva muoversi o non sarebbe mai arrivato in tempo a destinazione. Così aumentò il passo.
Vide il fiume allontanarsi dalla strada per cambiare percorso e immergersi in direzione delle campagne. Al suo posto comparvero distese di grano altissimo che nascondevano ciò che si celava dietro di loro. Poi, spuntò il campo da calcio.
Quando lo vide, Baiko rallentò fino a fermarsi. Era la prima volta che ne vedeva uno da vicino. A lui non era mai interessato, aveva sempre avuto il baseball, e inoltre la sua scuola non aveva nemmeno una squadra. Lo fissò dall’alto, mentre la brezza ancora fresca gli carezzava il viso e i capelli. Era perfettamente calato nel verde e solo le strisce bianche spiccavano, assieme alle porte.
Chissà se Yuzo ci aveva mai giocato lì, proprio in quel campo.
Se lo domandò, avvicinandosi piano alle scalette che portavano giù, indeciso sul da farsi. Voleva vederlo meglio, iniziare a prendere confidenza con quel luogo che era il posto dove Yuzo aveva deciso di stare fino a che il fisico gliel’avrebbe permesso, però si sentiva inopportuno, come se stesse invadendo uno spazio privato, il più intimo. Nemmeno verso la camera di suo figlio si era sentito tanto insicuro; lì era stato cacciato, o almeno così gli era sembrato, mentre adesso gli pareva quasi di violare un luogo sacro verso il quale aveva sempre avuto parole di disprezzo. Si sentiva ipocrita, ma anche quello faceva parte della sua ricerca, del capire sempre di più, fino in fondo, suo figlio.
Tirò un profondo sospiro e si decise a scendere. Avanzò uno scalino alla volta, adagio, e più la distanza diminuiva, più il campo gli appariva nitido. La sua reale estensione, il colore dell’erba, il modo in cui era tagliata e curata, la consistenza dei pali e la rete.
Baiko mise piede sull’erba che fece un suono piacevole sotto le suole. Camminò piano in direzione della porta, continuando a guardarsi attorno con attenzione, quasi avesse paura di disturbare. Chi o cosa lo sapeva solo lui, visto che non c’era nessuno, nemmeno un’anima solitaria. Alle sei del mattino era un po’ difficile sperare di trovare qualcuno; forse, giusto un tipo come suo figlio.
Sorrise nel raggiungere finalmente l’area di rigore. Quello che era il regno di Yuzo. Solo allora si fermò, osservando interamente la porta. Toccò il legno del palo, avvertendo il ruvido dove era stato più spesso colpito dalle pallonate. Yuzo ci si doveva essere appoggiato infinite volte, mentre dava disposizioni alla difesa.
Baiko si mise a cavallo della linea di porta e si girò; ora poteva vedere l’intero campo dal punto di vista di suo figlio.
Beh, a esser grande era grande. Un po’ gli ricordava l’estensione del diamante, anche se quest’ultimo era più vasto. Appoggiandosi al legno socchiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni; il vociare confuso dei tifosi che aveva sentito nei video visti a casa iniziò a farsi spazio nel silenzio assieme alle grida concitate degli altri giocatori che correvano da una parte all’altra. Era questo il mondo in cui Yuzo viveva, per cui aveva lottato fino all’ultimo e non si era piegato. Il calore che avvertiva era lo stesso di quando lui si trovava sul monte di lancio, l’adrenalina anche. Il lanciatore era sul dischetto dei nove metri, mentre lui si trovava al posto del battitore.
Il sorriso divenne divertito, mentre si allargava fino a snudare i denti. Allora, suo figlio era un hitter.
Erano sempre stati più vicini di quanto entrambi avessero mai creduto o anche solo pensato. Molto, molto di più.
Baiko riaprì gli occhi e il campo era ancora deserto. I cori si dissolsero, assieme ai fischi dell’arbitro e alle grida dei compagni. Si volse, alla propria destra, e all’altro capo della porta gli parve di vederlo: Yuzo era appoggiato al palo, proprio come lui, e indossava una divisa nera e bianca, con uno stemmino arancione e blu ricamato sul petto(3), poco più sopra del cuore. Lo vide girarsi nella sua direzione e sorridergli, prima di dissolversi nella bruma del mattino che, rada, sostava sull’erba.
«E’ qui che vorresti essere, vero?» gli domandò, ma non c’era nessuno a rispondergli se non la foschia. «E’ qui che tornerai. Ne sono sicuro.» perché i Morisaki non si arrendevano mai.
E, a pensarci, si ricordò di avere anche lui una cosa fare e poco tempo a disposizione, ma non si sarebbe arreso. Le gambe sembravano essersi un po’ riprese e anche il fiatone, ormai, era scomparso.
«Gambe in spalla!» si disse, prima di lasciarsi alle spalle il campo da calcio e riprendere a correre.

 

“Maybe you wonder where you are /
Forse fantastichi su dove ti trovi.
I don’t care /
Non mi importa.
Here is where time is on our side /
Qui è dove il tempo è dalla tua parte.
Take you there... take you there /
Raggiungilo… raggiungilo.

 

«Dai, nonno, che sei solo!»
Gli urlò un ragazzino in bici che consegnava i giornali, scoppiando a ridere.
Baiko sentì il fuoco avvamparlo come un tizzone.
«Nonno?! A chi?!» gli urlò di rimando, agitando minacciosamente un pugno in aria.
Ora sì che cominciava a incontrare un po’ più di vita.
Il percorso l’aveva riportato in un quartiere abitato e non sapeva nemmeno dove diavolo fosse o quanti chilometri avesse percorso, sapeva solo che alla fine di quella giornata si sarebbe trovato ancora una volta morto di stanchezza.
Ma anche quello era un modo per sentirsi più vivi; percepire il proprio corpo sottosforzo e poi trovarlo stremato mentre si riprendeva lentamente. Sentire tutti i muscoli in movimento e contrazione, i tendini che si allungavano, la pelle che si increspava per il venticello più fresco o che avvertiva il calore del sole, i capelli che la brezza smuoveva, il sudore sulla fronte.
Baiko era sicuro di voler ritrovare in ogni minima cosa il senso di quella vita che aveva lasciato scorrere per troppi anni nell’indifferenza; attraverso essa avrebbe recuperato anche suo figlio. E sentiva di essere sulla strada giusta, aveva scoperto così tante cose di lui, la maggior parte delle quali non le aveva minimamente sospettate. A tal proposito, le fotografie di Yuzo e Mamoru, insieme, gli scorsero davanti agli occhi d’improvviso, facendolo sospirare.
Sì, quella era la più… la più… difficile da assimilare. Cioè, non proprio difficile… ma che richiedeva un po’ più di tempo. E poi, chissà, magari si era sbagliato. Non poteva dire d’averle guardate con attenzione, quindi poteva aver frainteso…
Baiko si batté una mano sul viso, scuotendo il capo.
- Frainteso un cazzo. - azzeccò il paragone, prendendosi a pugni la testa per scacciare orride immagini da porno-gay di serie zeta.
«Basta! Sarò in grado di affrontarlo! Ce la posso fare!» esclamò, con le mani strette, e svoltando a un incrocio.
Un fioraio lo seguì con gli occhi senza dire una parola, allungando leggermente il collo. «I pazzi…» sospirò infine, tornando al suo lavoro.
Nel frattempo, Baiko era riuscito finalmente a scorgere l’ingresso del Parco Hikarigaoka.
Sul viso gli si disegnò l’espressione più estatica che avesse potuto fare: ce l’aveva quasi fatta! Mancava poco!
Spostò lo sguardo al cielo e il chiarore preannunciava l’alba ormai imminente.
«Oh, merda!» sbottò, aumentando il passo e spingendo fino all’ultimo per dare fondo a tutte le energie rimastegli.
Divorò l’asfalto che lo separava dall’ingresso in un attimo e si inerpicò per il sentiero che conduceva alla collinetta, e non era un sentiero qualunque. Per chiudere in bellezza e per far comunque onore ai suoi vecchi tempi, non poteva che esserci una sana salita. Certo, non era irta e infida come la Scavezzacollo, ma poteva essere considerata la sua sorellina minore.
Baikò tirò giù tutte le volgarità di cui era a conoscenza quando si ritrovò quasi ad arrampicarsi, tenendosi aggrappato al corrimano in legno del sentiero. Quella era la volta buona che gli sarebbe venuto un infarto, poi pensò che se non gli era venuto il giorno in cui Yuzo si era sparato, non poteva certo venirgli per una simile stronzata. Così digrignò i denti e continuò, un occhio alla cima della salita, un altro al cielo: la luce dorata stava per lambire la sommità delle montagne a Est e nella sua testa pulsava il sangue e il suono della batteria che proveniva dalle cuffie.
Raggiungere il pianale fu una liberazione.
Baiko si trascinò fino al bordo del belvedere e si lasciò cadere al suolo come una medusa spiaggiata sotto il solleone. Le cuffiette scivolarono dalle orecchie.
«Sono… morto…» biascicò con la bocca pastosa e il respiro talmente affannato che anche parlare gli risultò difficile, se non impossibile. «…spero… spero che ne… valga davvero… davvero la pena… figliolo…»
Perché se Yuzo si faceva quella sfacchinata tutte le mattine solo per vedere l’alba, allora doveva essere minimo minimo uno spettacolo immenso.
Baiko fece forza con le braccia, forse l’unica parte del corpo in cui gli era rimasta un po’ di energia, e si tirò a sedere. Le gambe distese, l’aria sfatta e le mani al suolo per reggersi e non crollare.
Solo allora, timidamente, il sole cominciò a fare capolino colorando di oro intenso i profili montuosi che affiancavano il Fuji-san. L’indaco della sera morente si dissolse nel rosa dell’alba e nel giallo che brillava attorno all’astro in ascesa.
C’erano solo lui e il bosco e il silenzio che si interrompeva nei rumori della natura, vicini, e in quelli ovattati della città, che lì giungevano quasi come un’eco piacevole. La foschia si sollevava adagio, come una coperta che veniva tolta alle prime luci del mattino perché era ora di svegliarsi.
Quando il primo arco di sole spuntò, lo accecò per un attimo; anche se la sua luce non era affatto forte, a lui parve sfavillare, ma non smise di fissarlo magicamente rapito da quello spettacolo di riverberi che cominciavano a traboccare dagli argini delle montagne: una colata di oro che si riversava su Nankatsu.
«Sì, ne valeva la pena…» disse con un sorriso.
E, vaffanculo!, ce l’aveva fatta.
Ce l’aveva fatta davvero!
Aveva corso senza arrendersi; anche se si era sentito distrutto, era arrivato sulla cima. Non aveva mollato. Per la prima volta si sentì davvero un Morisaki.
Non era mai troppo tardi.
Non lo era mai, mai, mai.
E lui poteva finalmente esultare.
La sua risata si levò nel silenzio del parco assieme al sole.

 

“There’s a city in my mind /
C’è una città nella mia mente,
come along and take that ride /
vieni e intraprendi il viaggio.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

And it’s very far away /
Ed è molto lontana,
but it’s growing day by day /
ma sta crescendo giorno dopo giorno.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

They can tell you what to do /
Loro possono dirti cosa fare,
but they’ll make a fool of you /
ma ti prenderanno in giro.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

Talking HeadsRoad to nowhere

 

*

Nankatsu si era svegliata del tutto.
Baiko era rimasto a godersi il sorgere del sole in piena tranquillità. Aveva atteso che emergesse completamente da dietro le montagne e poi si era alzato, per tornare a casa.
Le gambe gli facevano un male cane, ma stava recuperando più velocemente dei giorni precedenti, voleva dire che il suo corpo si stava di nuovo abituando a fare attività sportiva. Certo, passare da uno stato di rilassamento totale a uno di stress estremo era stato un po’ eccessivo, ma alla fine era stato come non avere scelta. E non se ne pentiva neanche un po’.
Il fresco della mattina si era asciugato nei raggi del sole che, nonostante fossero solo le otto passate da pochi minuti, picchiavano sulle teste degli abitanti che correvano a prendere l’autobus o la metro, e che affollavano le strade per andare a lavorare.
Baiko li osservava mentre camminava a passo svelto lungo il marciapiede. La gente gli passava attorno, quasi non esistesse, ognuno preso dal proprio piccolo mondo che girava in un senso unico ed esclusivo, diverso da quello degli altri. Anche il suo mondo girava in maniera diversa e forse l’unica differenza che aveva col resto di quelle persone che seguitavano a correre verso le loro destinazioni era che ne fosse consapevole.
D’un tratto un rumore di clacson riuscì a penetrare la musica delle cuffiette che stava indossando e che gli faceva compagnia nella sua passeggiata di ritorno. Più avanti, al centro della strada, le macchine si stavano leggermente impilando, suscitando le prime proteste degli automobilisti.
Baiko allungò il collo per vedere cosa stesse accadendo e scorse un’auto ferma e il proprietario che sbraitava in parte al telefono e in parte con chi gli stava dietro e non poteva passare.
«Ma che ne so! Questa stronza si è piantata e non vuole saperne di ripartire!» lo sentì sbraitare dopo essersi avvicinato al marciapiede. «Sì, sì… farò tardi… ma che ne so, cazzo! Il tempo che arrivi il carro attrezzi. ‘Mitsubishi mi stupisci’(4), eccerto! Funzioni come un culo! Certo che mi stupisco!» I clacson strombazzarono ancora e l’uomo si girò di scatto, inferocito come una iena. La bassa coda di cavallo oscillò al movimento stizzito. «Non parte, idiota! N-o-n p-a-r-t-e! Devo farti un disegno? Piantala di suonare! Anche io devo andare a lavoro, che credi?!» poi scosse il capo, chiudendo la conversazione telefonica.
«Le serve una mano?»
Il proprietario dell’auto lo guardò con un sopracciglio inarcato, sembrava quasi avesse voluto morderlo tanto era arrabbiato, ma alla fine sospirò e agitò una mano. «No, amico. Questa s’è piantata. Non fa nemmeno contatto.»
«Possiamo provare a spingerla a lato, così almeno la smetteranno di sbraitare in quel modo.» Baiko indicò la fila di auto che si allungava sempre di più, mentre qualcuno prendeva a superarli lentamente dicendone di tutti i colori.
L’altro ruotò gli occhi con noia alla valanga di insulti che gli arrivarono alle spalle e poi sbuffò. «E sia, credo che lei abbia ragione. Vediamo di toglierla da qui.»
Si posizionarono ognuno alle rispettive portiere anteriori e iniziarono a spingere fino a che la Mitsubishi non si mosse, vincendo l’attrito.
Gli altri automobilisti fecero loro un sarcastico applauso per essersi tolti dai piedi. Baiko accennò un divertito sorriso di sufficienza, mentre il proprietario dell’auto, invece, non sembrava disposto a restarsene in silenzio.
«Grazie, eh! Avreste anche potuto scendere voi a dare una mano, grand’uomini!» gesticolò animatamente, sbuffando dietro alle vetture che avevano ripreso a muoversi più velocemente, snellendo il traffico. «Ugha chaka, ugha chaka. Volere clava. Tsk! Trogloditi.»
«La mattina sono tutti di pessimo umore. Non se la prenda.» Gli sorrise Baiko, appoggiandosi alla portiera aperta. Lo sconosciuto con codino – a occhio e croce forse doveva essere leggermente più giovane di lui – sospirò, facendo il giro per raggiungerlo.
«Non lo metto in dubbio, ma questa città sta diventando ogni giorno più invivibile. Dove diavolo è la tranquilla Nankatsu che conoscevo io, mi dico.»
«Sarà che siamo noi quelli fuori moda, ma non è poi così male se si capisce come prenderla.»
Il suo interlocutore ridacchiò. «Mi piacerebbe capire come si fa.»
«Papà! Ma che diavolo hai combinato?»
Una terza voce si unì a loro e quando Baiko vide che era Mamoru, quel Mamoru, si irrigidì sentendosi improvvisamente a disagio, più che altro per lo sguardo pesante con cui il giovane lo stava fissando. Era ghiaccio. Un lastrone alto cinquanta metri e spesso dieci. E la cosa più assurda in tutta quella situazione era che lui, tra tutte le migliaia di persone che popolavano la città… aveva aiutato proprio suo padre.
«Ah! Figliolo! Per fortuna che non ti dovevo accompagnare in stazione, non ci saresti mai arrivato: la macchina è andata. Meno male che questo signore-»
«Buongiorno, signor Morisaki.»
Mamoru lo sibilò con un tono così tagliente che se avesse potuto farlo a pezzi, non sarebbero rimaste che fettine sottilissime di lui.
Baiko tirò un sorriso, accennando col capo. Mamoru non smise di fissarlo.
Taikan spostò velocemente lo sguardo da suo figlio allo sconosciuto, realizzando solo in quel momento le parole di Mamoru.
«Lei è il padre di Yuzo?!» esclamò, l’espressione spiazzata.
«Sì.»
«Oh! Per la miseria, io… io non lo sapevo, non avevo idea! Che maleducato! Sono Taikan Izawa.» Si giustificò, seriamente mortificato per non averlo riconosciuto. Allungò una mano che Baiko strinse con cortesia. «Mi perdoni, è che non l’avevo mai vista…»
«No, non si preoccupi. Anche io non sapevo che fosse il padre di uno degli amici di Yuzo.»
«Tsk. Che novità.»
Baiko incassò la stilettata di Mamoru senza replicare; nei suoi occhi lesse uno sguardo accusatorio.
«Mamoru!» tuonò Taikan, minaccioso, e il giovane sembrò comprendere il monito. Distolse lo sguardo con fastidio pur mantenendo le labbra arricciate.
Il signor Izawa tornò a rivolgersi a Baiko. «Mi dispiace molto per Yuzo. Ci sono novità?»
Lui si strinse nelle spalle, trovandosi a disagio a parlare in presenza del terzino, visibilmente astioso. Se avesse potuto, quel ragazzo sarebbe esploso ed era solo per la presenza del padre che cercava di contenersi, ma non sapeva fino a che punto ne sarebbe stato capace.
«Non al momento. Si mantiene stabile…»
«Avrebbe potuto star bene» di nuovo, tono tagliente e occhi gelidi. «Avrebbe potuto essere a Shimizu per realizzare i suoi sogni. È felice di quello che ha fatto?!»
Per la seconda volta, Baiko incassò e Taikan lo precedette prima che potesse anche solo tentare di replicare.
«Mamoru! Che modi sono questi?! Scusati immediatamente!»
«No, signor  Izawa, lasci stare» -…ha ragione lui…- «non importa…»
«Sì, invece!» era irremovibile e furente. «Datti una mossa e scusati. Adesso.»
Baiko vide il giovane tacere con orgoglio e stringere con rabbia il manico del borsone. Percepiva in maniera tangibile tutto il suo rancore. Lo odiava in un modo diverso rispetto ad Haruko: quello era l’odio solido e sordo di una madre, questo era l’odio feroce e cieco di chi… di chi amava e non aveva scampo. O, almeno, a Baiko così parve. Forse era solo frutto della suggestione. Forse le cose che aveva capito o creduto di capire lo stavano portando a vedere comportamenti che non esistevano. Non avrebbe saputo dirlo.
«Avanti!» Taikan incalzò, spazientito, il proprio figlio e quest’ultimo fu costretto a capitolare.
«Mi scusi» sibilò d’un fiato; senza attendere nemmeno una replica volse le spalle a entrambi e se ne andò a passo svelto. In un attimo scomparve nel via vai del marciapiede. A nulla valsero i richiami del padre.
«Mamoru! Mamoru, per la miseria! Accidenti che dannata testaccia! Tutto sua madre! Ah, ma stasera mi sentirà eccome» sospirò, passandosi una mano sulla fronte in un gesto stizzito. «Lo perdoni, signor Morisaki, di solito non si comporta così ma quello che è successo a Yuzo lo ha stravolto. Sono mortificato.»
Lui scosse il capo, il sorriso si fece più sincero e rilassato, anche se mesto.
«Va tutto bene, davvero, non importa. Sono molto amici, è normale. Per favore, finga che non sia successo nulla e non lo rimproveri.»
Taikan lo osservò ma non seppe che rispondere. A dire il vero era sorpreso perché non era affatto così che aveva pensato che fosse il padre di Yuzo. Era convinto che si sarebbe trovato davanti un uomo più intransigente e severo, e invece… Dopotutto anche lui ne sarebbe uscito sventrato se suo figlio avesse fatto la stessa cosa. Si poteva esser forti quanto si voleva, ma a tutto c’era un limite.
«Sta arrivando il suo carro attrezzi.»
Baiko indicò il furgoncino che procedeva spedito nel traffico e aveva già messo la freccia per accostare.
Taikan gli sorrise. «La ringrazio dell’aiuto. È stato un piacere conoscerla. Sono sicuro che Yuzo si riprenderà presto.»
«Lo credo anche io. Buona giornata.»
Fece un accenno di inchino e se ne andò, lasciando che i pedoni inghiottissero anche lui come era stato con Mamoru.
Rimasto fermo presso la Mitsubishi, Taikan lo seguì con gli occhi fino a che non scomparve.

 

“When you try your best but you don't succeed /
Quando fai del tuo meglio, ma non hai successo.
When you get what you want but not what you need /
Quando hai ciò che vuoi, ma non ciò di cui hai bisogno.
When you feel so tired but you can't sleep /
Quando ti senti stanco ma non puoi dormire.
Stuck in reverse /
Bloccato in un porblema.

 

Baiko camminò a passo deciso fino a casa.
Non era stata sua intenzione camminare quasi di fretta eppure, appena richiuse la porta di ingresso alle spalle, avvertì la necessità di essere tornato in quel posto il prima possibile. E non per nascondersi.
Mamoru gli aveva mostrato forza e convinzione, attraverso gli sguardi di odio, che l’avevano colpito a tal punto da desiderare di capire se ciò che aveva intuito fosse vero. Tanto poteva tergiversare e illudersi quanto voleva, la realtà avrebbe continuato a rimanere la stessa e allora poteva anche smetterla di tenerla a distanza, non sarebbe mai cambiata.
Qual era la reale genesi dietro la rabbia dell’amico di suo figlio? Davvero era solo frutto dell’amicizia, oppure…
La scala che portava al piano di sopra restava immobile quasi lo stesse aspettando e Baiko si ritrovò a salire i gradini senza nemmeno accorgersene.
Aprì la porta della stanza di Yuzo con una confidenza che sembrava appartenere ad anni di pratica, come se conoscesse quel luogo da una vita e non da una manciata di giorni.
Gli album di fotografie erano lì, dove li aveva lasciati, doveva solo sfogliarli e capire.
Capire la verità e accettarla per quella che era, perché apparteneva alla vita di suo figlio.
Ne prese alcuni e si appoggiò al davanzale della finestra per avere tutta la luce del mattino sempre più luminosa e calda.
Li aprì, osservò. Si soffermò a lungo su ogni singolo scatto, su ogni singolo sguardo o gesto.
Chissà se Yuzo si era mai accorto di come Mamoru cercasse costantemente il contatto fisico con lui. In ogni foto in cui erano insieme, il terzino o lo abbracciava o gli cingeva il collo o gli toccava la spalla, il braccio, la gamba, gli spettinava i capelli. Mamoru lo toccava, anche se in maniera discreta, sembrava quasi volesse inconsciamente sottolineare un senso di possesso, proprietà.
Lui è mio.
Mentre Yuzo… eh, Yuzo. Il suo sguardo non poteva mentirgli in nessun modo, ormai. Troppo evidente per lui che era suo padre. Baiko sospirò.
«Io non avevo mai capito niente di te. Mai. Ti ho proprio messo a dura prova.»
Stranamente, nonostante all’inizio la sola idea l’avesse spaventato a morte, in quel momento fu un sorriso quello che gli tese le labbra. Un sorriso comprensivo, di affetto. Paterno.
«Non ho mai pensato che potessi essere omosessuale. Sul serio. Tua madre dovrà rassegnarsi al fatto che non diventerà mai nonna, e anche io.» Inspirò a fondo, sollevando il capo per appoggiarlo contro il muro. Il soffitto entrò nel suo raggio visivo. «Ci pensi? Sarai l’ultimo Morisaki di questo ramo della famiglia, è una grande responsabilità, dovrai chiudere in bellezza.» Rise sottilmente, tornando a guardare la fotografie. Chissà se Mamoru lo sapeva. A una prima occhiata sembravano entrambi all’oscuro dei sentimenti dell’altro. «E’ normale che mi disprezzi così tanto, allora» concluse, richiudendo l’album.
Fu nel rimetterlo a posto che una fotografia cadde dall’ultima pagina. Baiko la raccolse per posarla, ma girando le pagine  dall’inizio alla fine si accorse che non c’era nessuno spazio vuoto. Forse era stata messa dietro un’altra foto.
L’uomo la girò e riconobbe sé stesso, un piccolo Yuzo e un castello di sabbia. Nessuno dei due stava guardando in camera, troppo presi da quello che stavano facendo, da quello che insieme stavano costruendo. Doveva avergliela scattata Haruko di nascosto perché non la ricordava affatto.
Un frammento di memoria in cui erano stati felici.
Gli parve d’aver trovato un tesoro inestimabile.
«L'hai... conservata per tutto questo tempo?» anche Yuzo, ben prima di lui, aveva tentato di tenere stretto ciò che restava di 'loro', per non perderlo del tutto. Adesso stava a lui continuare a lottare e a tener vivo il ricordo affinché un giorno avessero potuto finalmente condividerlo, insieme, nello stesso attimo. «Questa finisce in cornice» decretò, preda dell’entusiasmo. Rapidamente lasciò la stanza e scese in fretta le scale per recuperare un portaritratti. Ricordava di averne uno nello studio che sembrava proprio fare al caso suo.
Afferrò la maniglia…
Senza pensare, troppo felice.
…fece scorrere l’anta.
La penombra delle tende chiuse, l’odore della polvere da sparo paradossalmente ancora sospesa nell’aria, il sangue rappreso, le armi che incombevano ovunque.
Ti odio.
Il rumore dello sparo.
Baiko si bloccò, preda di un terrore che gli gelò i piedi, le caviglie, le ginocchia. Rivisse la scena in una sequenza folgorante. L’entusiasmo sciolto nell’acido, il sorriso annientato, la sicurezza che si sgretolava come sabbia essiccata dal sole. E panico.
Panico ovunque, sotto la pelle, dentro i suoi occhi, nei globuli rossi, nei rantoli d’aria che cercava di far entrare nei polmoni.
Richiuse lentissimamente quella porta girandole le spalle. Vi si appoggiò contro e poi scivolò piano fino a sedersi al suolo. D’improvviso si rese conto che quella stanza era divenuta anche per lui l’antro dell’orco, sconosciuta. E gli faceva paura.
Inspirò, la testa cercò sostegno nella mano e una consapevolezza si fece spazio nel diradarsi del panico: per ogni passo avanti che faceva, un muro si ergeva a sbarrargli la strada.

 

“And the tears come streaming down your face /
E le lacrime scendono sul tuo viso.
When you lose something you can't replace /
Quando perdi qualcosa che non puoi sostituire,
when you love someone but it goes to waste /
quando ami qualcuno ma va tutto sprecato,
could it be worse? /
potrebbe andare peggio?

ColdplayFix you

 


[1]: citazione da ‘La Grande Trilogia del Mare, Ai Confini della Terra – Libro I: Riti di passaggio, Capitolo GAMMA’. :3 i miei amori cosmici.

[2]: il significato del nome ‘Baiko’ è ‘fiore di pruno’. I giapponesi ne ammirano la sua resistenza al freddo ed è quindi visto come un simbolo di perseveranza nell’affrontare le avversità. :3 Un’altra piccola cosa che padre e figlio hanno in comune.

[3]: è la divisa della Shimizu S-Pulse della stagione corrente, 2010-2011. :3 (Dopo un inizio di campionato turbolento a causa dello tsunami, finalmente i bambini stanno recuperando ç_ç. Ancora un pochino e recuperano addirittura il Jubilo! Speriamo! *_* Nel frattempo, sorpresona: i Marinos sono secondi in classifica!!! YAY! *-*)

[4]: XD essendo un pubblicitario, ci voleva la citazione ‘spottosa’! ‘Mitsubishi mi stupisci’ era la battuta di un vecchissimo spot XD che dovete assssssolutamente vedere: *clicca qui*


 

Le canzoni del capitolo:

- Changes (David Bowie): non era in programma, lo giuro solennemente. Il problema è che mi sono ritrovata con una canzone mancante e ho praticamente passato giorni interi a cercare quella più adatta. Poi alla fine mi sono detta: “Ma andiamo a pescare qualcosa da Bowie”. XD Ed ecco ‘Changes’. Bowie ha sempre la soluzione a tutto! X3 Ho scelto quel video perché… *-* trovo che Bowie sia fighissimo lì! *squee*

- Thursday’s Child (David Bowie): a differenza di ‘Changes’, questa era perfettamente in programma. :3
E’ bellissima, e il testo mi piaceva molto perché si avvicinava tantissimo a Yuzo e al suo modo di sentirsi fuori luogo con suo padre, di aver lottato per cercare di non essere invisibile ai suoi occhi, fallendo. Mentre con Mamoru le cose sono diverse, perché lui è l’unica persona con cui si è sempre sentito perfetto così com’era.

- Road to nowhere (Talking Heads): questa canzone l’ho scoperta per caso, mentre guardavo uno spot e me  ne sono innamorata all’istante, tanto da andarmela a cercare. *-* Fortuna ha voluto che non solo il testo fosse perfetto, ma che anche la musica mettesse una carica addosso da calzare a pennello a Baiko durante la sua corsa. Asoltatela, ne vale davvero la pena! *_*

-  Fix you (Coldplay): ammetto che non sono una delle mie band preferite e tra le canzoni che più apprezzo non c’è “Fix you”, però è innegabile che ci stesse bene per questo momento XD.

 

Incredibile ma vero, anche per questo capitolo è tutto!
Ringrazio di cuore chi continua a seguire questa storia, ormai siamo a pochi passi dalla conclusione. :)
Forse il capitolo 11 non arriverà puntuale lunedì prossimo, perché è ancora in fase di stesura, ma di sicuro arriverà nel corso della settimana :D
Il countdown continua: -2! :D

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Capitolo 11
*** Part XI: The Oni's fall ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part XI: The (1)Oni’s fall -

 

“Anda ya /
Vai ora,
(ten cuidao’) /
(stai attento)
y no me digas que no puedes más /
e non dirmi che non puoi più.
(relaja) /
(rilassati)
 Mentira /
Menti.
Anda /
Vai,
(ten cuidao’) /
(stai attento)
que no te toque la fatalidad /
che non ti tocchi il destino.
(relaja) /
(rilassati)
Camina /
Cammina.

 

«Bene. Arriva sempre nella vita di ogni uomo il momento in cui bisogna affrontare anche te» Baiko aveva le mani ai fianchi e il tono solenne. «Confido che andremo d’accordo, siamo entrambi adulti e troveremo un modo per venirci incontro. Io non ti vorrei utilizzare, sia chiaro, ma è una necessità. Cerca di capirmi: devo fare il bucato!»
L’oblò della lavatrice lo guardava con condiscendenza, come si fa con i pazzi.
Baiko sospirò; di fianco, i panni abbandonati nella cesta sembravano supplicarlo di lasciarli sporchi, ma lui, ormai, era deciso. Anche quello era un modo per vivere la propria casa; le mura della lavanderia avrebbero registrato in maniera invisibile le lotte con la lavatrice.
Senza indugiare oltre, l’uomo si inginocchiò, iniziando a infilare gli abiti nel cestello.
Il tempo era passato così velocemente, tra le cose da fare, che gli era sembrato fosse trascorsa una vita intera, e invece non erano che nove giorni da che Yuzo era entrato in coma. Baiko li segnava sul calendario per non perdere il contatto con la realtà e vivere il più possibile tutte le ventiquattro ore di ogni singolo giorno. Trascorreva buona parte del tempo nella stanza del figlio, sia quella di casa che dell’ospedale, vivendo tra le sue cose, la sua musica, i suoi libri. Ascoltava quotidianamente più CD diversi e aveva fatto in modo che la corsa mattutina per vedere l’alba divenisse anche una sua abitudine, aveva studiato percorsi alternativi che avrebbe mostrato a Yuzo e aveva iniziato a conoscere di più Nankatsu.
Al pomeriggio si presentava all’ospedale un minuto prima ogni giorno, per riuscire a incontrare Haruko e poter scambiare con lei almeno due parole, dimostrandole in quel modo di non essere disposto ad arrendersi. Certo, non era semplice perché lei restava sempre sulle sue, ma nemmeno lo allontanava con disprezzo. Poteva essere un buon compromesso da cui partire.
Baiko richiuse con forza l’oblò che, sulle prime, non aveva voluto saperne.
Forse l’aveva riempita troppo? Si era domandato in un guizzo riflessivo, ma poi aveva agitato una mano riuscendo a vincere la reticenza dello sportello.
«Naaaa!»
Lì accanto c’erano flaconi e scatole di tutti i tipi: per i capi bianchi, per i colorati, per i neri. Diede un’occhiata attraverso il vetro per valutare, effettivamente, cosa avesse messo dentro la lavatrice: c’era un po’ di tutto e allora tanto valeva fare un mix anche dei detersivi; che male avrebbero potuto fare? Aprì le varie confezioni versando mezzo misurino di ciascuno.
«Ammorbidente?» Si strinse nelle spalle. «Massì, melius abundare quam deficere!» e via, anche mezzo tappo di ammorbidente nella mischia di colori e profumi. Richiuse il tutto e poi rimase a fissare tasti e manopole. Oh, beh, quella era un po’ la parte facile: bastava premere a caso, qualcosa avrebbe finito con l’accendersi, prima o poi. Con disinvoltura pigiò ora questo, ora quel bottone, girando le manopole ‘a intuito’.
«Uno-due-tre… e questo a che serve? Boh, mettiamolo al massimo. E questo? 600… 800… sarà la potenza. E quest’altra? Ma non bastava una sola per tutto?! Perché non li fanno un po’ più semplici questi affari? Che so, a prova di maschio?! 30… 90… ah, sì! La temperatura. Mh, trenta è troppo basso, ma novanta è troppo alto… in medio stat virtus. Santi latini, hanno sempre una soluzione a tutto.» Scelse sessanta gradi e non se ne parlò più.
La lavatrice cominciò a rullare e poi il fruscio dell’acqua gli disse che stava caricando.
Baiko incrociò le braccia al petto. Si sentiva soddisfatto.
«Oh, tutto qui? E io che pensavo fosse più difficile!» caricare una lavatrice non era poi l’impresa titanica che aveva sempre creduto. Annuì con convinzione e lasciò la lavanderia, per dirigersi in cucina dove avrebbe iniziato a pensare a cosa avrebbe potuto cucinare per pranzo. Da che aveva scoperto che su YouTube si potevano trovare anche i video di ricette, gli incidenti in cucina – pasti che prendevano fuoco, condimenti eccessivi – si erano ridotti ai minimi storici. Certo, aveva ancora qualche problema con i coltelli, ma insomma, se andava piano piano riusciva anche a non affettarsi le dita. Quel giorno si era messo in testa di voler tentare le okonomiyaki. A Yuzo piacevano tanto e lui avrebbe potuto cucinargliele una volta. Di sicuro, suo figlio sapeva farle meglio di lui, anche perché a quanto pareva era molto più autosufficiente. L’aveva scoperto guardando le famose fotografie; ne aveva trovata una dove, assieme al colosso – Shingo? Sì, Shingo –, l’aveva visto impegnato ai fornelli e, a giudicare dall’aspetto, quello che avevano preparato doveva essere anche ottimo. Mentre di sé si era reso conto di essere più incapace di quello che dava a vedere. Doveva rimediare.
Seduto al tavolo, Baiko sgranocchiava grissini mentre guardava video su video, annotava gli ingredienti che gli sarebbero serviti e si domandava perché diavolo, fatto dagli altri, sembrava sempre tutto così semplice.
Forse perché lo era.
Ogni cosa era semplice, anche se a lui appariva complessa come un cubo di Rubik. Il tutto stava nel modo in cui ci si poneva per affrontarla, per viverla. Non esistevano scelte difficili, anzi, non c’era niente di più facile che scegliere. Era dire ‘sì/no’, era dire ‘lo faccio/non lo faccio’, era dire ‘questo/quello’. Di davvero difficile, c’erano le conseguenze, perché potevano portare gioia, ma anche dolore e paura. Paura di sbagliare e trovarsi a soffrire come un cane, ad esempio. Ma era pur vero che se non si sceglieva, non si poteva nemmeno dire di vivere, perché la vita era una scelta quotidiana.
E lui? Aveva altro da scegliere?
Mentre guardava mani agili ed esperte rigirare una bella okonomiyaki che sfrigolava sulla piastra, Baiko non seppe rispondersi. Era convinto di aver ormai preso tutte le decisioni importanti della sua vita, non gli restava altro da fare che continuare a passare attraverso le conseguenze, qualunque esse sarebbero state, da lì in avanti.
Baiko sospirò, guardando il video successivo. Usavano tutti metodi differenti e lui cercava quello più adatto al suo livello di ‘principiante’. Stiracchiò le braccia e allungò le gambe sotto al tavolo che fecero uno strano ‘sploch’ appena toccarono di nuovo terra. E cos’era quella cosa in cui aveva appena affondato i piedi?
Spalancò gli occhi, aggrappandosi al tavolo e restando per un attimo immobile. Tastò adagio un altro paio di volte. Puff, sploch, sploch.
La testa saettò sotto al ripiano e quella enorme, strisciante, mostruosa e morbida massa di schiuma si avvicinava sempre di più, minacciosa. Si gonfiava, cresceva bolla dopo bolla.
Baiko balzò in piedi, rischiando di scivolare sull’acqua saponata che ormai si era infilata in buona parte della cucina. La schiuma la seguiva più lentamente. Con gli occhi cercò di capire da dove venisse, ma la risposta era chiara: dalla lavanderia.
«La lavatrice!» sbottò, girando attorno al tavolo senza perdere tempo. La suola della ciabatta prese il volo sull’effetto acqua-soap-planning e lui per un pelo non si ritrovò spalmato a terra, ma aggrappato allo stipite della porta. La ciabatta era stata fagocitata dalla schiuma, più avanti, che adesso gli arrivava al ginocchio.
«Bastarda! Maledetta bastarda!» ringhiò, tentando di farsi largo e camminando su un piede solo. «Avevamo un accordo, noi due! Giuro che ti spacco quel fottuto oblò! Te lo spacco in mille pezzi!»
In quel momento, con la schiuma che gli si era appiccicata ai vestiti, alle braccia e pure ai capelli – non si domandò nemmeno per un attimo come diavolo avesse fatto a volare fin lì – il citofono trillò, bloccandolo a metà del corridoio a cavallo tra il desiderio di ignorare chiunque lo stesse cercando e fuggire da quel mostro che sembrava uscito da ‘Blob – il fluido che uccide’(2).
Optò per la seconda ipotesi, ma in misura meno drastica. Recuperando una sorta di contegno, si precipitò, saltellando sull’unica ciabatta rimastagli, fino alla porta. L’aprì di uno spiraglio, facendo emergere giusto la testa, ripulita alla buona.
«Sì?»
«Baiko?»
«Ah! Papà!» - Oh. Merda. -
Kyoshi era fermo fuori dal cancelletto chiuso da dove lo guardava con un sopracciglio inarcato e l’aria dubbiosa. «Va tutto bene… figliolo…?»
Baiko mostrò un sorriso di plastica. «Sì! Tutto benissimo, papà. E tu?»
«Bene… ehm… mi apri?»
- Finito! Sono un uomo finito! - «…sssssì! Certo.»
Il meccanismo scattò in un attimo e Kyoshi entrò, avanzando lungo il vialetto. Sul volto aveva il solito sorriso cordiale che spuntava da sotto i baffi. Era passato per fargli un saluto ma, soprattutto, per provare a parlargli di Haruko. Da quando aveva scoperto che sua figlia voleva divorziare era rimasto spesso a osservarli, quando si trovavano insieme. A volte si illudeva che fosse tutto normale, e magari a occhi esterni tale sarebbe parso, ma lui sapeva che non era così. Eppure nessuno aveva più tirato in ballo l’argomento, almeno non con lui. Sapeva che non avrebbe dovuto intromettersi, ma non poteva restare a guardare mentre finivano con il distruggersi lentamente a vicenda. Haruko non lo odiava davvero, di questo era certo, così come era certo che Baiko non avrebbe mai smesso di amare sua figlia. Per questo, aveva deciso di provare a parlarne direttamente con lui. Solo che, una volta sulle scale, inarcò un sopracciglio nel vedere il genero che seguitava a restare solo con la testa oltre la porta, senza aprirla o farsi avanti.
«E allora, come mai da queste parti, papà?»
L’uomo si strinse nelle spalle, mantenendosi sul vago. «Passavo.»
Un silenzio imbarazzato cadde tra loro. Baiko non si mosse e Kyoshi tossicchiò.
«Ti ho… disturbato?»
«Sì! Cioè no!» il rumore della lavatrice diveniva sempre più gorgogliato e forte alle spalle dell'uomo più giovane. Quest’ultimo tirò il sorriso fino allo stremo sperando di riuscire a convincerlo. Per tutti gli Dei, non poteva fargli vedere il casino che aveva combinato, sarebbe stato troppo imbarazzante! «Stavo dedicandomi alle pulizie!»
«Ah, bene! Hai bisogno di aiuto?»
«No!» s’affrettò a rispondere, forse un po’ troppo bruscamente vista l’espressione perplessa che fece Kyoshi. «No, non ce n’è bisogno, papà. Non voglio farti stancare, con questo caldo poi…»
Ma quella bolla di sapone che volò oltre le loro teste lasciò entrambi in silenzio, di nuovo. Spuntò da dietro Baiko e fluttuò nell’aria per qualche momento prima di esplodere. Suocero e genero si guardarono a lungo.
«Stai… per caso facendo la lavatrice?» domandò il primo, il secondo tentò un’ultima volta di sorridere prima di capitolare definitivamente chinando il capo. Sputtanato in un attimo.
«Sì… e sta vincendo» affermò con mestizia.
Kyoshi rise. «Mi fai accomodare?»
Baiko aprì di più la porta, ma il suo corpo seguitava a coprire la visuale del corridoio, però i pezzi di schiuma che aveva attaccati al calcagno si videro benissimo.
«Non spaventarti, non sta succedendo la Terza Guerra Mondiale, anche se può dare quell’impressione.» Lentamente si spostò e il padre di Haruko sgranò gli occhi nel vedere l’enorme massa spumosa che continuava a gonfiarsi.
«Ossanti Numi!»
«La lavatrice è impazzita.»
«Lo vedo!»
Il padrone di casa si fece da parte per permettere all’uomo di entrare.
«Bisogna spegnerla subito!»
«E’ quello che stavo per fare… ma prima bisogna riuscire a guadare quella muraglia di sapone.»
Kyoshi ridacchiò, togliendosi le scarpe; i propositi di parlare di cose più importanti messi da parte, almeno per il momento. «Di’ la verità, è meglio lavorare in azienda che occuparsi delle faccende domestiche, vero?»
«Già» rise l’altro di rimando quando, d’improvviso, la smorfia allegra scivolò via dalle sue labbra. Baiko si fermò nel mezzo del corridoio. «…l’azienda…» boccheggiò, gli occhi che divenivano enormi. «…l’azienda!»
Il padre di Haruko avanzò di qualche altro passo, ma poi si fermò e lo guardò con perplessità. Quel momento di silenzio, tra loro, si dilatò in maniera infinita e l’unico rumore udibile fu solo quello della lavatrice impazzita e della schiuma che lievitava felice.
Poi. Esplose il panico.
«L’azienda! I clienti! La riunione!» Baiko sprofondò le mani nei capelli. «Oddio! Era per oggi! L’ho dimenticata! Ma come ho potuto?!»
L’espressione di Kyoshi era ancora più sgomenta, non sapeva se essere divertito dalla lavatrice o sconvolto perché Baiko, proprio Baiko, si era dimenticato di una riunione di lavoro. Nell’indecisione, scoppiò a ridere.
«Non preoccuparti della casa. Penso io alla lavatrice, tu vai a cambiarti.»
«Sì, papà! Grazie, papà!» corse, per quanto possibile e senza cadere, per arrivare alle scale. «Maddove ho la testa?! Shunsuke sarà una belva!» Si cambiò alla velocità della luce, pescando alla rinfusa un completo qualunque dall’armadio, calzini spaiati e cravatta che non riuscì ad annodare ma si avvolse disordinatamente attorno al collo a mo’ di foulard.
Nel frattempo, Kyoshi era riuscito a domare la lavatrice che aveva finito di fare il rodeo.
«Mi raccomando, va’ piano sulla strada» gli disse, quando lo vide scapicollarsi al piano di sotto, saltare la schiuma, afferrare le chiavi e infilarsi il primo paio di scarpe accanto alla porta che gli capitò sottomano. E la valigetta?! Dove l’aveva messa?!
«Ok, stai tranquillo. Te l’ho già detto grazie
«Sì, sì. Me lo hai detto. Buon lavoro.» Kyoshi aspettò che si richiudesse la porta alle spalle prima di ridacchiare. «Ma si sarà accorto di essersi messo le scarpe da ginnastica?»

 

“Dicen que los hombres no se miden por las veces que se caen sino por las que se levantan /
Si dice che gli uomini non si misurino per le volte che cadono, ma per quelle che si rialzano.
Tú no tengas miedo a aprender a comenzar otra vez aunque el hecho de hacerlo espanta /
Tu non hai paura di imparare a ricominciare un’altra volta, sebbene il farlo ti spaventi.
Viste escucha el dicho: en esta vida todo es sacrificio y tu misión es tu salvación /
Ascolta il detto: in questa vita tutto è sacrificio e la tua missione è la tua salvezza.

 

«Le scarpe da ginnasticaaaaah!»
Baiko lo ululò quando ormai era già sulla strada che portava a Shizuoka City.
«Ecco perché erano così comode!»
Le aveva indossate senza nemmeno accorgersene. Adesso sì che sarebbe sembrato un presidente credibile, come no.
Mentre scivolava nel poco traffico, perché ormai erano già tutti al lavoro a quell’ora, si mise a fare l’equilibrista: con una mano guidava, con l’altra cercava di infilare la camicia nei pantaloni, con un occhio guardava la strada e con l’altro si guardava nello specchietto per capire quale sarebbe dovuta essere la mossa successiva per rendersi presentabile. A complicare la situazione, il cellulare prese a suonare. Lui era passato al colletto della camicia e alla cravatta, sempre da annodare con una mano sola e con un lembo tra le labbra. Mollando il volante riuscì a prendere il telefono e a rispondere, tenendolo tra spalla e orecchio.
«Profto?»
«Presidente?!» il tono di Shunsuke gli fece capire che era a un passo da una crisi di nervi. «Ma dov’è?! Doveva essere qui un’ora fa! Gli acquirenti sono arrivati, la riunione doveva già essere cominciata!»
«Fto arrifando! Fono fulla ftrada! Foi inifiate!»
«Cosa?! La sento male, ma che è successo? Che devo dire ai clienti?!»
Baiko sputò il lembo di stoffa decidendo che l’avrebbe annodata una volta arrivato a destinazione.
«Digli che mi è impazzita la lavatrice!»
All’altro capo, Shunsuke divenne cinereo. «La… lavat-… Presidente? Presidente?!»
Ma Baiko aveva già riagganciato.

 

“Se que es difícil el paso no puedes perder. Detrás yo no te quiero ver /
So che è difficile, non puoi perdere il passo. Non voglio vederti indietro.
Camina, que te pasa? /
Cammina, che ti succede?

 

Percorse il tratto nel più breve tempo possibile con l’acceleratore costantemente a tavoletta, tanto che fu sicuro che, presto, gli sarebbe arrivato il più alto multone della storia. Magari anche con i complimenti della stradale.
Baiko inchiodò, parcheggiando davanti all’ingresso della ‘Golden Gun’ e occupando ben tre posti auto. Scese di corsa e non chiuse la macchina.
Aveva la cravatta ancora sciolta, la camicia in disordine e i capelli sconvolti. Per fortuna che erano corti.
Salì le scale che portavano all’ingresso dove il portiere dell’edificio lo guardò prima con severità e poi con due occhi tondi come biglie appena lo riconobbe.
«Ti spiacerebbe spostarla?» Baiko gli lanciò le chiavi.
L'interpellato non riuscì nemmeno a rispondergli e si limitò a guardarlo entrare in tutta fretta nell’edificio. Attraverso i vetri, lo vide letteralmente correre per l’atrio, farsi in scivolata l’ultimo tratto e fermare col piede le porte dell’ascensore. Scosse il capo, sbattendo le palpebre velocemente. No, quello doveva esserselo immaginato di sicuro. Dentro l’atrio, però, nessuno avrebbe dimenticato quel: «Fermaaaa!» belluino che, in confronto, ‘L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente’ sarebbe sembrato il vagito di un neonato. Ma, più di tutti, non l’avrebbe dimenticato l’addetto dell’ascensore che si era visto arrivare la sua figura in corsa quando ormai le porte si stavano già chiudendo. Così come non avrebbe dimenticato quella scarpa da ginnastica blu e arancione spuntata all’improvviso da sotto un completo di Ermenegildo Zegna.
E dell’aspetto del presidente che dire stravolto era fargli un complimento?
No, non avrebbe dimenticato neanche quello, così come nessuno, presente in quell’ascensore, avrebbe dimenticato i successivi momenti di pura irrealtà.
«Per un pelo!» sbuffò Baiko, una volta dentro. Esibì un sorriso smagliante che terrorizzò tutti, e tentò per l’ennesima volta di annodarsi la cravatta, alla cieca. «Scusate l’entrata poco ortodossa.»
«B-buongiorno, Presidente.»
«Buongiorno…»
«Buongiorno, signore.»
«Si… si figuri, signor Presidente…» tentennò l’usciere «A che piano la porto?»
«Al solito… mavvedi se questa maledetta-!» continuò a litigare con la cravatta sotto le occhiate perplesse dei dipendenti che non ebbero il coraggio di far volare una mosca. Baiko si guardò attorno, poi inarcò un sopracciglio, contrariato. «Certo che si potrebbe far mettere uno specchio qui dentro.»
«Sì, signore.»
«Certo, Presidente. »
«Ha ragione.»
«Assolutamente.»
Baiko sospirò. Rinunciò alla cravatta e la eclissò alla rinfusa nella tasca della giacca. L’orologio gli disse che aveva un'ora di ritardo. Non ne aveva mai fatto in tutta la sua vita lavorativa. Nemmeno una volta. E non aveva nemmeno letto la relazione che gli aveva preparato suo nipote, ignorava chi sarebbe stato presente e ignorava quale fosse l’ordine del giorno. Tamburellò nervosamente il piede al suolo, facendo un po’ mente locale: andava a una riunione impreparato, in ritardo, con le scarpe da ginnastica e senza cravatta. Un disastro.
Eppure, perché invece di arrabbiarsi stava… sorridendo?
Il ‘plin’ indicò il raggiungimento del piano. Le porte si aprirono e lui si defilò.
«Buona giornata» augurò. Cosa che non faceva mai.
«Grazie signore, altrettanto.»
«Grazie, signor Presidente.»
«Anche a lei…»
Baiko si volse un’ultima volta, facendoli restare sull’attenti e con i fiati trattenuti.
«Non c’è bisogno che siate così rigidi. Rilassatevi. Non mordo mica.»
Alle sue spalle, le porte si richiusero sulle facce sgomente dei poveri dipendenti che erano convinti di aver appena vissuto in un episodio de ‘Ai confini della realtà’.

 

“Yo lo presentí. Para ganar hay que saber /
Io lo presagivo. Per guadagnare devi sapere
por donde tienes que salir /
per dove devi uscire,
si tienes que moverte por casualidad /
se devi muoverti a caso.

 

Gli ultimi metri li percorse nemmeno stesse gareggiando per i cento metri piani.
Vedeva la porta della sala riunioni farsi sempre più vicina e non accennò a rallentare.
Fu anche per questo che entrò spalancando la porta e facendo sobbalzare i presenti. I clienti, tra cui anche il Ministro della Difesa e il Capo della Polizia, restavano seduti al tavolo ovale con le espressioni sorprese di chi non si sarebbe aspettato quell’ingresso di prepotenza. Shunsuke, invece, restava in piedi accanto al tabellone delle proiezioni dove stava spiegando le caratteristiche dei nuovi proiettili calibro nove che avrebbero lanciato sul mercato. Se di primo acchito il suo sguardo si era illuminato, dopo che l’aveva guardato meglio, aveva spalancato talmente tanto la bocca da farsi quasi cadere la mascella.
«Scusate il ritardo!» esclamò lui candidamente, riprendendo fiato e agitando una mano. «Prego, continuate. Non fate caso a me» come se fosse facile: in mezzo a tutti quei colletti inamidati e in perfetto ordine, tutti notarono le sue scarpe e quella coda di cravatta che spuntava dalla tasca.
Baiko richiuse piano piano la porta; con un cenno lasciò intendere a suo nipote di andare avanti, mentre lui raggiungeva il proprio posto all’estremità dell’ovale.
Il giovane tossicchiò e tentò di recuperare l’attenzione di tutti, riprendendo il filo del discorso.
«…e quindi, dicevamo, la testa rinforzata dei proiettili da nove millimetri…»
Baiko si sedette e iniziò a sfogliare la relazione di sintesi che tutti avevano davanti. Con fare distratto buttò un occhio a chi gli stava accanto per capire a che pagina erano arrivati quando il Ministro della Difesa, alla sua destra, si sporse parlando a voce bassa per non disturbare ulteriormente la riunione.
«Tutto bene, Presidente? Ti stavamo dando per disperso…»
Baiko cercò di sistemarsi alla meglio, ma tanto era irrecuperabile. «Ammetto di esser stato sulla buona strada.» Sorrise, riuscendo a pescare la pagina giusta. «Lo vuole un consiglio?» aggiunse, tastando alla cieca nelle tasche. Aveva dimenticato gli occhiali da vicino. Fanculo alla presbiopia!
Il Ministro Tada, nonostante avesse venti anni in più, si fece attento e interessato, il viso poggiato in una mano e gli occhi che saettavano di tanto in tanto verso Shunsuke.
«Non provi a fare una lavatrice senza la supervisione di chi ne sa più di lei: perché se penserà che riempirla come un uovo dimezzerà i tempi e che abbondare col detersivo pulirà meglio, si ritroverà la casa fagocitata da una massa di schiuma impazzita che le farà dimenticare di avere una riunione di lavoro e le farà mettere le scarpe da ginnastica sotto un completo scuro.»
Il Ministro tossì con forza per coprire la risata che gli esplose tra le labbra all’improvviso e che si attirò le occhiate fugaci delle altre teste di serie e quella rassegnata di Shunsuke, consapevole di stare parlando a vuoto.

 

“Síguelo, fatígate, suda, avanza, lucha, sacrifícate /
Inseguilo, stancati, suda, avanza, lotta, sacrificati.
Tu sabes que la vida es dura, pero si no te apuras la puedes perder /
Sai che la vita è dura, però se non ti affretti la puoi perdere.


L’aereo impiegò sei secondi circa per effettuare la virata e poi allontanarsi seguendo una linea retta.
O, almeno, lui tanti ne contò mentre restava a osservare come, fuori dalla finestra, il tempo continuasse a scorrere mentre lì dentro sembrava immobile, chiuso in trappola.
La sfera.
Era stato convinto di essersene liberato, d’aver spezzato la ciclicità della sua strada e invece sentiva di essere ancora bloccato in limiti chiusi dove il tempo si rincorreva nelle ore trascorse nelle parole di Shunsuke, nelle domande dei clienti, nei fogli che aveva girato meccanicamente, nel click-click della penna che aveva fatto scattare a vuoto infinite volte.
Non aveva ascoltato mezza parola, non ne era nemmeno interessato. Di sicuro l’aereo in virata era uno spettacolo più edificante.
Si stava annoiando.
Fino a una settimana prima non si sarebbe mai sognato di pensare una cosa simile. Era il suo lavoro, era imperdonabile che si distraesse così. Ma era imperdonabile anche l’essersi dimenticato di una riunione e l’essere arrivato in ritardo.
Tante cose erano imperdonabili, ma lui non poteva farci niente: si stava annoiando.
Percepiva il tempo, di fuori, che scorreva e quello che lui, dentro, rinchiuso, stava sprecando.
Abbassò per un attimo lo sguardo sugli istogrammi colorati che riempivano la pagina: si erano a mano a mano trasformati nello scorcio di una strada, palazzi, lampioni e un risciò portato a braccia. Sorrise. Non aveva più disegnato per anni ed era stato convinto d’aver perso la mano. Invece aveva scarabocchiato come se non avesse mai smesso di farlo, trovandosi a suo agio con la penna come fosse stata una micromina.
Gli occhi si spostarono sulla figura di suo nipote valutandone impegno e serietà. Per fortuna che c’era stato lui. Aveva fatto un lavoro perfetto, la relazione era precisa fin nei minimi dettagli, così come le slide che accompagnavano le sue spiegazioni. L’aveva caricato all’improvviso di responsabilità ed era stato impeccabile. A lui sì che piaceva quello che faceva.
Gli venne da sorridere.
- Almeno uno, in famiglia. -
Tornò a guardare gli istogrammi corredati di finestre che si perdevano nella prospettiva di un punto di fuga immaginario.
E a lui?
A lui faceva schifo.
Anche quello non l’aveva mai ammesso a voce alta, nonostante ne fosse sempre stato consapevole.
Quell’azienda era stata una maledizione per suo padre, per lui e per suo figlio. Un fardello enorme che nessuno dei tre aveva mai voluto. Ma lui, ormai, a cinquant’anni non poteva di certo uscire fuori dai binari e deragliare.
O virare?
Come l’aereo fuori dalla finestra. Curvare la linea, spezzare la sfera.
Strappò uno dei fogli della relazione dalla spirale. Il rumore sottile della carta attirò l’attenzione del Ministro Tada che, con perplessità, osservò i suoi movimenti.
Baiko ne ripiegò i lati con cura e attenzione fino a formare un triangolo, poi un altro, poi lo ripiegò a metà.
Di sfere in cui si era rinchiuso ce n’erano tante, come una matriosca, quella affettiva era solo una, la prima, quella più vicina alla sua persona, e ogni sfera racchiudeva un limite oltre cui non era mai andato. Ora era rimasta quella che lo separava dalla libertà vera e propria, definitiva. E non sembrava più così difficile mandarle in pezzi, anzi. Bastava fare una scelta, l’ultima davvero importante a essergli rimasta. Significava stravolgere tutto, terminare il progetto, significava ripiegare ancora la carta fino a renderla davvero un aereo. Un aeroplanino.
«E quindi, come potete vedere da quest’ultimo grafico, le prestazioni dei nostri mortai sono aumentate del venti per cento, pur mantenendo bassi i costi di produzione e vendita.» Shunsuke terminò la frase con soddisfazione, ma quando si volse e vide quell’aereo di carta completare un paio di volute nell’aria prima di precipitare al suolo in maniera elegante, non riuscì a fare altro che seguirlo con gli occhi.
Una volta alzato lo sguardo, scorse suo zio che sorrideva felice come un bambino cui avevano appena regalato il gioco più bello del secolo e a lui non rimase che esibire un tiratissimo sorriso di circostanza, mentre sentiva la vena sul collo pulsargli con insistenza.
«Domande?» Nessuno fiatò. «Bene, direi che possiamo chiudere qui per oggi e aggiornarci al mese prossimo per eventuali novità. Grazie per essere intervenuti.» Shunsuke si profuse in un rigido inchino mentre gli acquirenti si alzavano a propria volta per lasciare la sala.
«Un’ultima cosa, Presidente.» Isamu Tada si sporse verso Baiko, parlando in tono più basso. «Devo ammettere che oggi mi sei sembrato davvero diverso dal solito, ma se devo essere sincero, non t’avevo mai visto così bene.»
L’interpellato sorrise, accompagnando il politico alla porta.
«In effetti, non sono mai stato meglio.»
«Vedo, vedo»
«Shunsuke, accompagna i nostri ospiti all’uscita della ‘Golden Gun’. Così, nel tragitto, potrai rispondere a eventuali domande.»
«Certo, Presidente.» Il giovane fece un rigido cenno del capo e attese che i clienti fossero tutti usciti prima di sussurrare quel teso: «Devo parlarti.»
Baiko sorrise, dandogli una pacca sulla spalla. «Anch’io. Ti aspetto in ufficio.»
L’ultima sfera era andata in frantumi.

 

“Pasa, todo pasa. El tiempo en el reloj solo se atrasa /
Passa, tutto passa. Si attarda solo il tempo nell’orologio.
Rasa. Hoy que pasa? La fuerza de voluntad es la que traza /
Fai tabula rasa. Oggi che succede? E’ la forza di volontà quella che trascina.

 

Raggiunse l’ufficio adagio, camminando con le mani nelle tasche dei pantaloni e guardando, forse per la prima volta, ciò che lo circondava con la dovuta attenzione. In passato, aveva sempre percorso quei corridoi di fretta, conversando al cellulare o con il dipendente di turno; gli occhi che vedevano già al giorno successivo. Adesso, invece, voleva camminare con calma, non c’era più bisogno di correre e forse non ce n’era mai stato.
Il corridoio era tappezzato di foto in bianco e nero in cui era raccontata la storia della ‘Golden Gun’. I Morisaki che vi erano rimasti intrappolati come lui erano quelli che non sorridevano, ma puntavano l’obiettivo con sguardo severo e inflessibile. Rimase stupito nell’accorgersi che quelli sorridenti erano meno del previsto.
«Troppi sognatori in famiglia» affermò ai loro volti bloccati nel tempo. Si fermò quando vide sé stesso e suo padre e nessuno dei due sorrideva.
«Quanta allegria, papà» sghignazzò, ma nella foto successiva c’era davvero chi sorrideva con orgoglio. Ricordò che, all’epoca, Shunsuke era stato appena promosso Vice Presidente.
Riprese a camminare e sentiva un senso di leggerezza che partiva da sotto le piante dei piedi, risaliva le gambe, faceva fluttuare stomaco, polmoni, cuore e cervello.
«Buondì, miss Chiba» salutò la sua segretaria personale e la donna si alzò subito, profondendosi in un inchino reverenziale. Lo guardò di sottecchi e sbatté le palpebre, però non si azzardò a dire nulla.
«Buongiorno a lei, signor Presidente.»
«Sto aspettando mio nipote. Quando arriva, gli dica pure di entrare senza farsi annunciare.»
«Sì, signore. »
Baiko aprì la porta e vi si appoggiò di schiena, entrando all’indietro. «Ah, miss Chiba, sempre efficiente. Ma che avrei fatto senza di lei?»
La segretaria arrossì fino alla punta dei capelli. Il presidente non le aveva mai rivolto un complimento. Anzi, era sempre stata convinta che non si ricordasse nemmeno che faccia avesse. «G-grazie, signore.»
Lui, nel frattempo, aveva richiuso la porta alle proprie spalle e lì stette, appoggiato al legno, fissando l’ufficio.
Era enorme e spoglio. Di fronte c’era la scrivania illuminata dalla vetrata posta dietro la grande poltrona. A destra vi erano divano e poltroncine dove di solito intratteneva i clienti con un bicchiere di liquore; il mobile bar costeggiava la parte bassa della parete mentre in alto, in bella mostra contro il muro, era stato sapientemente collocato il modello della prima arma prodotta dalla ‘Golden Gun’, risalente al 1663.
Baiko osservò tutto con calma e attenzione prima di iniziare a muoversi. Si avvicinò alla scrivania e guardò la relazione che Shunsuke gli aveva preparato in vista della riunione. Sospirò, abbozzando un sorriso colpevole, poi si avvicinò all’imponente vetrata che occupava buona parte del muro. Il cielo limpido invadeva la quasi totalità del suo campo visivo e gli parve ancora più infinito di quello che era. Lui, lì dentro, poteva solo credere di poterlo toccare perché in realtà sarebbe sempre stato troppo lontano; limiti inarrivabili. E non ne aveva più paura.
Sorrise con un profondo senso di liberazione e si diresse al divano, fece scivolare adagio la mano sulla pelle del rivestimento e infine raggiunse il mobile. Osservò per un lungo momento l’archibugio calibro diciotto, Morisaki Gōruden, perfettamente conservato tanto da sembrare appena uscito dalla fabbrica, e infine fece scorrere la mano lungo il bordo della teca in cui era chiuso. Trovò il piccolo bottone nascosto. La parte di muro contro cui era poggiata la teca si schiuse con un leggero ‘tac’; dietro di sé celava la cassaforte.
Baiko digitò il codice e lo sportello in ferro si aprì. Al suo interno vi erano tutta una serie di carte e CD Rom. I progetti delle armi già in commercio, i prototipi, e quelli ancora da realizzare. I contratti.
Una cartellina blu.
Lui prese proprio quella e chiuse la cassaforte per tornare alla scrivania. Si accomodò nella poltrona che per anni era stata il suo scranno del potere e appoggiò con un leggero tonfo la cartella sulla lucida superficie. Quando la aprì, i documenti erano presenti in triplice copia da compilare e firmare. Non li aveva più toccati da che erano stati stilati, circa sei anni prima. Li rilesse un’ultima volta e poi afferrò la stilografica dal supporto sulla scrivania.
Il primo nome che scrisse, per tre volte e senza indugio, fu quello di suo nipote.
Shunsuke Morisaki. La grafia perfetta e leggibile.
Poi scorse il foglio fino alla fine e guardò lo spazio bianco. Lì, su quella invisibile linea vuota, avrebbe lasciato morire trent’anni di vita.
La soddisfazione si fece più evidente nella piega delle labbra.
Poco male, ne aveva ancora altri cinquanta da vivere al meglio.
Baiko Morisaki.
Lo firmò una, due, tre volte.
I vincoli abbattuti, le sfere in mille pezzi, il cielo infinito e migliaia di linee curve.
Posò la penna e chiuse la cartellina. Si rilassò contro lo schienale della poltrona, il gomito puntellato su un bracciolo, avambraccio disteso sull’altro. La fece ruotare da un lato e dall’altro ancora una volta, mentre continuava a sorridere. Libero.
«Se ne sono andati» esordì Shunsuke, varcando la soglia dell’ufficio come una furia. Il tono teso e i gesti che cercavano di contenere il nervosismo, con pessimi risultati.
«Oh, bene. E’ stata un successo, no? I clienti mi sembravano soddisfatti.»
Shunsuke sbatté meccanicamente le palpebre, strozzando quel: «Un successo?!». Disperato, si portò due dita alla fronte per massaggiarla e prendere ampi respiri.
«Posso essere franco?»
«Certam-»
«Che diavolo ti è preso?!» abbaiò inferocito e con gli occhi che stavano per schizzare fuori dalle orbite. «Vada per le scarpe da ginnastica, l’abbigliamento fuori posto e la barba sfatta, ma non hai ascoltato niente di quello che è stato detto!»
«Sì, lo ammetto, ero un po’ distratto.»
«Un po’?!» Shunsuke sembrava sull’orlo delle lacrime. «Zio, ti sei messo a fare aeroplanini di carta!»
«Oh, sì! Volavano che era un piacere!»
«Oddio… ma si può sapere che ti sta succedendo? Tu… tu eri… uno squalo! Un incantatore di serpenti! Te li saresti mangiati a colazione, pranzo e cena! Li avresti convinti a comprare qualsiasi cosa da te, qualsiasi! Saresti stato capace di vendere armi perfino a Gandhi!»
Baiko gongolò drizzando la schiena. «Davvero? Oh, grazie. Questo è il più bel complimento che abbia ricevuto negli ultimi trent’anni.»
Peccato che Shunsuke non fosse altrettanto soddisfatto. Espirò lungamente e scosse il capo.
«Io… io capisco che stai passando un momento molto difficile per quello che è successo a Yuzo, ma hai la responsabilità di questa azienda e delle centinaia di persone che ci lavorano e… e non…» ma nell’osservare il sorriso calmo e tranquillo di suo zio, Shunsuke comprese che era inutile continuare. Sospirò con forza e si appoggiò allo schienale della poltrona posta dal suo lato di scrivania.
«Io ci penso, infatti.» Baiko si alzò adagio. «Perché non ti siedi? Però non lì. Qui.» Si fece da parte, portandosi alle spalle del suo scranno.
«La tua poltrona?» Shunsuke lo guardava con aria rassegnata e sopracciglia aggrottate.
«Sì! E’ comoda, sai? Provala.»
L’altro sospirò, obbedendo passivamente. Oramai non sapeva più come far fronte alle sue stramberie. Si trascinò spalle basse fino a lui e si sedette come gli era stato chiesto.
Baiko si appoggiò di schiena alla scrivania, lì accanto. L’espressione sorridente.
«E allora? Avevo ragione?»
«Ssssì» sospirò Shunsuke con condiscendenza.
«E’ tua.»
«Vuoi cambiare arredamento?»
Baiko rise, scosse il capo. «No, no. Volevo dire che… che è tua. L’intero ufficio lo è.»
«Allora ti vuoi trasferire in un’altra stanza?»
Suo nipote continuava a non capire e non poteva biasimarlo. Lui gli poggiò una mano sulla spalla, assumendo un’espressione seriosa, ma ugualmente serena.
«Ti lascio questa poltrona, l’ufficio… l’intera azienda. La ‘Golden Gun’ è tua. Io mi ritiro»
Shunsuke lo guardò con perplessità, ma appena comprese il significato delle sue parole spalancò insieme occhi e bocca. Tentò di balzare in piedi, ma Baiko lo costrinse a rimanere seduto.
«Ma-ma-ma c-c-che stai dicendo?! La ‘Golden Gun’ spetta a Yuzo! è lui che-»
«Se Yuzo ha tentato il suicidio è stato proprio a causa della ‘Golden Gun’. Volevo costringerlo a prendere a tutti i costi il mio posto e lui si è ribellato con ogni mezzo, capisci? È stata colpa mia.» Spostò lo sguardo all’esterno. «Lui non c’entrava nulla con tutto questo, così come non c’entravo io anni fa, ma quando mio padre mi obbligò a divenire il presidente io non mi ribellai. Non ero abbastanza forte per farlo.» Baiko tornò a guardarlo. «E adesso mi sono reso conto che mettere Yuzo a capo dell’azienda sarebbe stato ingiusto anche per te. Ti saresti accontentato di rimanere in eterno il Vice Presidente? Dopo tutto quello che hai sempre fatto per la ‘Golden Gun’
«E’… è il mio ruolo…»
«I ruoli possono cambiare. E sono sicuro che te la caverai alla grande. Lo hai già dimostrato, quest’oggi, trattando praticamente da solo con tutti i nostri maggiori clienti. A te è sempre piaciuto lavorare qui, hai la passione che serve per rendere ancora più prospera quest’azienda. Non potrei affidare la ‘Golden Gun’ in mani migliori.»
«Ma… ma ho ancora un sacco da imparare-»
«E’ ovvio che ti aiuterò, se avrai bisogno di me. Potrai chiedermi tutto quello che vorrai.» Gli diede un paio di colpetti affettuosi e si allontanò dalla scrivania. «In quella cartellina troverai gli atti di passaggio già firmati. Serve solo la convalida del notaio, niente che una telefonata e dieci minuti non possano risolvere.» E, detto questo, girò attorno al tavolo per camminare in direzione dell’uscita.
«Zio, ma… fai sul serio?» Shunsuke non poteva crederci, eppure la firma era lì, nera su bianco.
Baiko si limitò a sorridere. «Fossi in te, mi terrei stretta Chiba-san. È una segretaria fantastica.»
«E che farai adesso?»
Baiko si fermò, rimanendo a osservare la maniglia davanti a lui per un istante. Vi fece scivolare sopra le dita, prima di stringerla in maniera salda.
Stava voltando le spalle a tutto, gli era rimasta solo una cosa.
«Avanzo un sogno di gioventù.»
Il rumore della porta che si chiudeva sui suoi passi assomigliò al vetro di una sfera che andava in frantumi, liberando l’aria al suo interno. E quell’aria era lui. Era fuori, ormai poteva dirlo. Era fuori dalla ‘Golden Gun’, fuori da quella vita non sua, dal rigore imposto, dai completi scuri, dalle armi. Fuori dai binari stabiliti e dalle vie dritte per dedicarsi solo a quelle curve che aveva sempre avuto nella mente.
Pescò la cravatta arrotolata da dentro la tasca e la buttò nel primo cestino che incontrò senza nemmeno pensarci. Tolse la giacca e se la risvoltò sulla spalla.
Per la seconda volta, l’usciere dell’ascensore si vide fermare le porte da un piede in scarpa da ginnastica.
«Non prendermi per rompiscatole» scherzò Baiko al sempre più sconvolto dipendente che non seppe che rispondere, soprattutto a quel ‘grazie mille’, con tanto di pacca sulla spalla, quando arrivarono al pianterreno e il presidente lasciò l’ascensore. Gli sembrava così… felice. Forse doveva aver concluso un affare molto importante, ma il giovane non poteva nemmeno immaginare che fosse quello della vita.
E dire che quella stessa mattina, Baiko era stato convinto di non avere più scelte importanti da compiere, ma si era sbagliato perché ogni scelta era importante e non si era mai troppo vecchi per ricominciare da capo.
Non era mai troppo tardi.
Era divenuto il suo mantra e Baiko si rese conto di quanto l’avesse fatto suo solo mentre avanzava per l’atrio, osservando alcuni dei suoi dipendenti, uomini e donne, che entravano e uscivano, rispondevano al telefono, parlavano con probabili clienti al banco delle informazioni, discutevano tra loro delle scelte da prendere nei propri ambiti di competenza. Ognuno lavorava al cento per cento delle proprie possibilità e con molti dei presenti non aveva mai scambiato mezza parola. Anche per quello non era mai troppo tardi.
Passò tra loro che lo salutarono ossequiosamente e con un certo timore. Rispose a ognuno con un sorriso e nessuno nascose la perplessità nel vederlo così affabile.
Baiko si fermò sulla porta a vetri che lo separava dalla libertà e si guardò indietro. La testa ruotò adagio, mentre gli occhi correvano lungo l’ultima immagine che avrebbe conservato di quel luogo. Gli altri si fermarono a loro volta, non sapendo che aspettarsi.
E in effetti, quello, non se lo aspettarono affatto.
«Grazie per tutto il lavoro che avete svolto fino a oggi. La ‘Golden Gun’ non sarebbe dov’è ora senza ognuno di voi. Continuate così.»
Furono le sue ultime parole come presidente e dopo varcò finalmente le porte dell’edificio.
Fuori l’aria gli sembrò avere un odore diverso.
La inspirò a pieni polmoni, sentendoli gonfiarsi per incamerarne quanta più possibile, e poi espirò insieme a un enorme senso di leggerezza. Scese le scale che il sole non picchiava più forte sulla sua testa e lui capì come, in quel poco tempo che gli rimaneva prima di andare all’ospedale, avesse una miriade di cose da fare e non ne avrebbe rimandata nessuna. Perché era il momento di andare avanti, premere sull’acceleratore e sfondare gli ultimi ostacoli rimasti sulla strada.
Tutto doveva tornare sabbia, anche il dolore.

 

“Viste, no era fácil comprender la vida /
Visto, non era facile capire la vita,
pero cambie tu pila pa’ que te pusieras en fase, no te me rindas más /
però cambia la tua pila perché ti possano mettere in fase, non arrenderti più.
No quiero verte más con esos lamentos /
Non voglio più vederti con questi lamenti
Si te sirvió eso es que entonces valió la pena /
Se questo ti è servito allora ne è valsa la pena
Y si valió la pena entonces ya no más llantos, no más condena /
E se ne è valsa la pena allora niente più lacrime né condanna.
Hoy rompemos tú y yo esa cadena que te abrasa /
Oggi, tu e io, rompiamo questa catena che ti brucia.

OrishasCamina

 

*

“I am unwritten, can't read my mind, I'm undefined /
Sono qualcosa di non scritto, non posso leggere la mia mente, sono indefinito
I'm just beginning, the pen's in my hand, ending unplanned /
Sono appena all’inizio, la penna è nella mia mano, la fine non è stata programmata.

 

La sua prima tappa, sulla via del ritorno in direzione Nankatsu, non fu casa, ma un negozio di articoli sportivi.
Entrò con sicurezza e si guardò attorno, come sapesse esattamente dove andare e cosa comprare. Adocchiò le mazze da baseball in un angolo e le raggiunse in pochi passi. Ce ne erano un’infinità di modelli, materiali e colori. Ne prese un paio. Simulò la battuta, scartò una delle due e ne provò una terza.
Uno dei commessi rimase a guardarlo. Lo aveva individuato fin da quando aveva messo piede lì dentro, scrutandolo con una certa curiosità. Era convinto che un riccastro come quello avrebbe puntato le mazze da golf, e invece. Gli si avvicinò adagio, studiando il modo esperto con cui valutava la leggerezza, il rinforzo della testa.
«Salve, posso-»
«Voglio questa.» Baiko gli porse una Mizuno di legno. «E mi servirebbero anche un guanto da lanciatore e delle palline.»
«S-subito.»
Il commesso obbedì al suo tono severo e deciso senza replicare. I suoi colleghi lo videro correre come un topolino per tutto il locale rovistando tra gli scaffali e prendendo ora questo ora quel guantone e scatole di palline. Riversò ogni cosa sul banco principale dove Baiko restava in attesa e iniziò a parlare a raffica delle caratteristiche, delle marche e della qualità. Ebbe l’impressione che lo strano compratore non lo ascoltasse nemmeno per mezzo secondo, infatti prendeva e posava quelli che lui suggeriva essere i migliori.
Baiko li provò tutti, valutò la durezza della pelle, l’elasticità. Sembrò approvarne uno della Rawlings.
«Ah, sì! Quello è un ottimo modello. Presenta del-»
Pawn. Fu il rumore secco che la pallina fece una volta che Baiko l’ebbe lanciata nel guantone per stimarne la presa. Il commesso comprese che avrebbe fatto meglio a tacere, che tanto quell’uomo ne capiva molto più di lui.
«Lo prendo» decise, pagò in contanti e con la stessa risolutezza con cui era entrato se ne andò, lasciandosi alle spalle il giovane che ancora si domandava chi potesse essere quel tipo così autoritario.
Una volta in macchina, Baiko guidò fino a casa senza fermarsi oltre.
Appena mise piede nella villetta si accorse subito che non c’era nemmeno più una bollicina di schiuma. Kyoshi aveva ripulito tutto da cima a fondo e lui si appuntò che avrebbe dovuto assolutamente ringraziarlo. A dirla tutta, un po’ gli dispiacque che, di lì a poco, tutto sarebbe stato di nuovo a soqquadro, ma era così che doveva andare; che lui voleva che andasse.
Appoggiò la busta con gli acquisti vicino alle scarpe e andò in cucina. Ne tornò con un secchio pieno di acqua saponata e una grossa spugna. Erano alcune delle armi con cui avrebbe sconfitto l’orco.
Baiko si fermò davanti alla porta chiusa del suo studio per un lungo momento. Dall’altra parte c’erano mostri schierati per intimorirlo, terrorizzarlo, farlo sentire in colpa e ucciderlo in maniera lenta. Ma lui non era più la persona di un tempo, che preferiva ignorare ciò che si estendeva oltre la sua sfera di perfezione.
Era un Morisaki e i Morisaki non mollavano mai.
«Vero, Yuzo?»
Cercò un’ultima scintilla di coraggio in suo figlio, che da quell’orco nascosto dietro la porta era stato ridotto in fin di vita in un letto d’ospedale.
Lasciò al suolo il secchio e afferrò le maniglie delle ante scorrevoli. Inspirò e le spalancò con un gesto secco.
Il mostro aprì le fauci piene di oscurità, le zanne erano di ferro, colavano bava rosso sangue e l’alito puzzava di polvere da sparo.
Il panico si aggrappò alle viscere di Baiko, facendolo piegare leggermente in avanti, mentre avvertiva calore e nausea rivoltargli l’esofago. Represse con stoicismo il desiderio di vomitare, ricacciandolo indietro, ingoiandolo.
«Non mi fai paura…» biascicò, il palato amaro, l’incarnato pallido. «Non me ne fai neanche un po’.»
Il panico scivolò nelle gambe affinché cedessero ma lui si oppose, rimanendo in piedi.
Un passo alla volta, forzò la paura che gli ordinava di restare immobile, divenendo sordo.
Avrebbe distrutto quell’orco pezzo dopo pezzo a cominciare dall’ombra che riempiva la sua bocca.
Girò attorno alla grande scrivania e raggiunse la finestra. Le spesse tende scure erano tirate, come sempre, così come il giorno in cui Yuzo aveva urlato il suo ultimo ‘basta’.
Baiko le afferrò e con tutta la forza che aveva le strappò dai supporti. Gli anelli saltarono in una scoppiettante sequenza e la luce dilagò all’interno come un’onda che frantumava la diga. Gli parve quasi di sentire un grido che si spegneva in lontananza, soffocato dal suo liberato nello sforzo.
Guardò per la prima volta, attraverso i vetri, il cortile anteriore, la siepe che costeggiava il perimetro di casa e le abitazioni vicine. Sorrise, il panico iniziò a mutare in adrenalina e questa volta non lo represse.
«Fuori uno.»
Disse, girandosi a osservare lo studio inondato di luce dopo tanto tempo. Si rese conto solo allora di averne rimosso completamente i veri colori; con la luce artificiale erano sempre stati falsati. Ora tutto aveva un aspetto diverso e faceva già meno paura.
Venne il turno della bava rappresa.
Baiko andò a prendere il secchio e la spugna. Avrebbe ripulito ogni traccia del sangue di suo figlio per estirpare il dolore da quella casa. Lo avrebbe conservato lui, dentro di sé, lo avrebbe conservato Haruko. Sarebbe bastato. Osservò la chiazza più grande dall’alto. Era lì da nove giorni e aveva assunto un color mattone; del rosso scuro e vivo era rimasto solo il ricordo. Non sembrava più nemmeno sangue.
Baiko si inginocchiò e seguì con gli occhi le impronte che l’avevano sparso ovunque, tracciando confusi percorsi. Infine iniziò a ripulire. Raschiò, strofinò, risciacquò. Diede fondo a tutto il suo olio di gomito per cancellarne ogni goccia. Dal pavimento, dalla scrivania, dalla cornetta del telefono. Quella stanza sarebbe rinata e avrebbe avuto una seconda possibilità di tornare nuovamente a essere parte della casa e non un posto sconosciuto. Era quasi un riabilitare anche sé stesso e riuscire a essere parte integrante della loro famiglia.
Quando ebbe terminato, Baiko si passò un braccio sulla fronte e osservò il risultato.
Il sangue non c’era più, il mostro aveva perduto un altro pezzo.
«Fuori due.»
Adesso sarebbe arrivata la parte più complessa: le sue zanne di ferro. Sarebbe stata anche la parte più divertente e rumorosa, dopotutto.
Baiko tornò all’ingresso e dalla busta degli acquisti recuperò la mazza e le palline. I mostri si combattevano ad armi pari, forza contro forza, e a mali estremi, estremi rimedi.
Con agilità, salì in piedi sulla scrivania scelta insindacabilmente come zona di battuta. Prese una palla e si guardò attorno. I denti erano schierati davanti a lui, messi in mostra in teche di vetro o appesi al muro.
Fallo! Avanti fallo, se ne hai il coraggio!
Sembravano digrignare ma non avevano mai capito che se c’era una cosa che non era mai mancata nella sua famiglia, quella era proprio il coraggio.
«Ed ecco Sadaharu Oh pronto a ricevere il primo lancio di Hideo Nomo.»
La pallina volò in aria, la mazza venne caricata. Nella ricaduta, il contatto fu perfetto. Il missile attraversò l’intera teca frantumando i vetri come fossero stati strati di carta di riso.
«E’ un home run!» esultò Baiko, le braccia al cielo, la risata nelle labbra. Il concerto di vetri faceva musica rock.
E poi altri contenitori, altre pistole che cadevano le une sulle altre nella pioggia tagliente, altre risate e telecronache improvvisate.
Joe di Maggio centrò la Colt, la Mauser e la Ruger appese sulla cappa del camino, Babe Ruth fracassò il ripiano dove riposavano cimeli della seconda guerra mondiale, Sadaharu Oh incrementò in maniera esponenziale il suo già spropositato numero di fuoricampo. Nessuna pistola si salvò dalla sua furia, dalla rabbia, dal dolore e dalla gioia di essere tornato libero dopo tanto tempo.
Quando terminò le palline aveva il fiatone e un mezzo sorriso soddisfatto. Dominò dall’alto le macerie di quei denti aguzzi sparsi a terra che non facevano più alcuna paura. Saltò giù e con un colpo di mazza sgomberò l’intera scrivania, buttando in mezzo ai cadaveri di quella carneficina di ferro anche il monitor del computer, il telefono e le migliaia di incartamenti che si sparsero come fruscianti coriandoli.
Lasciò la stanza per pochi minuti e quando tornò aveva una foto nella mano. Dai frammenti di vetro recuperò la famosa cornice che, miracolosamente, si era salvata dalla sua furia incontrollabile. Tolse l’immagine in cui erano ritratti lui e suo padre nel giorno in cui aveva ereditato il fardello della ‘Golden Gun’ e ci mise quella in cui, con Yuzo, costruivano un castello di sabbia.
Al centro del tavolo e puntata verso la luce faceva un figurone. Adesso quella stanza aveva finalmente qualcosa di lui, di Baiko Morisaki.
«Fuori tre.»
Il colpo finale sarebbe stato molto più semplice da infliggere e dopo dell’orco non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo.
Il suo alito pestilenziale, l'odore fetido di polvere pirica era ancora pungente, ma fu sufficiente che Baiko spalancasse la vetrata perché il profumo d’Agosto e di vita lo annientasse, strappandolo da quella stanza e quella casa. Solo allora lui poté affermare d’aver messo alle strette il suo peggior nemico: il fantasma di sé stesso. La vita nuova riprendeva da lì in maniera definitiva e senza alcun ripensamento. Indietro non si tornava ma gli errori si potevano riparare nel presente e nel futuro.
«Fuori quattro.»
Baiko appoggiò da un lato la mazza da baseball e lasciò la stanza per concedersi una breve doccia.
La giornata non era ancora finita.

 

“Staring at the blank page before you /
Stavo fissando la pagina Bianca prima che tu
open up the dirty window /
aprissi la finestra sporca
let the sun illuminate the words that you could not find /
e lasciassi che il sole illuminasse le parole che non potevi trovare.

 

Sostituì il completo scuro con un più comodo jeans e una leggera camicia di lino a maniche corte. Incredibilmente si era abituato subito alla comodità di quell’abbigliamento casual.
Recuperò un sacchetto di carta dalla cucina e poi tornò nello studio. Ormai era una stanza qualunque e non più uno spauracchio soffocante e inavvicinabile. Certo, c’era un tremendo disordine, ma se ne sarebbe occupato una volta rientrato a casa. Doveva andare da suo figlio, ma prima avrebbe dovuto sbarazzarsi del cuore morto del vecchio mostro. Cercò tra i vetri il cadavere della Smith&Wesson 15 special. La trovò sotto altri pezzi di metallo e la infilò nella busta. Uscì in corridoio, afferrò la borsa al cui interno c’era il solito libro e un lettore mp3, che la sera prima aveva caricato personalmente, e prese il guantone. In previsione del fatto che sarebbe dovuto uscire nuovamente, aveva lasciato l’auto posteggiata fuori dal cancello, ma quando la raggiunse, qualcun altro sembrò raggiungere lui.
«Morisaki-san…»
La vicina di casa gli si fece d’appresso a piccoli passi. Era quella che metteva sempre le odiose canzoni tradizionali.
«Ah, Hakage-san. Mi dica, c’è qualche problema?»
La donna titubò rivolgendo occhiate fugaci alla casa. «Beh, ecco. Mi domandavo se fosse tutto a posto, sa, prima ho sentito degli strani rumori…»
«Ah, quelli!» Baiko sorrise e aprì lo sportello dell’Audi. «Mi perdoni per il trambusto, spero di non averla disturbata. Stavo facendo le pulizie e ho accidentalmente rotto qualche vetro. Non sono molto pratico in queste cose.»
«Oh, si figuri, mi scusi lei, non volevo essere indiscreta, ma mi ero un po’ preoccupata…» a dirla tutta avrebbe voluto indagare di più. Stavano succedendo cose strane là dentro, da un po' di tempo. Prima gli spari, poi il silenzio, poi quella musica straniera sempre a tutto volume, ora i vetri che andavano in pezzi. Sì, qualcosa di davvero molto, molto strano. Ma Baiko non le diede modo di domandare oltre.
«Non deve. Oggi è una bellissima giornata» concluse, salendo in macchina mentre la signora Hakage non riusciva a non guardalo in un misto di perplessità e sospetto. Lei non poteva capire quanto, davvero, quella giornata fosse fantastica per lui. «Arrivederci»
«Sì, arrivederci. E mi saluti sua moglie…»
«Certo, non mancherò…» – Se riesco a vederla, oggi. –
Sapeva già che sarebbe arrivato in ospedale più tardi del solito, ma c’erano cose che non potevano più aspettare, anche Haruko rientrava tra queste ma ci avrebbe pensato al suo ritorno, ora doveva assolutamente raggiungere il mare.
Ci mise più del previsto, ma non si stupì. L’orario non era dei migliori e si ritrovò imbottigliato nel traffico serale post-lavoro. Si fece compagnia con della buona musica e non si fece prendere dalla frenesia di arrivare a destinazione. Anche il traffico aveva una sua piacevolezza di fondo nascosta nell’incrementarsi dell’attesa verso la propria meta, e poi si consolò pensando che, al ritorno, non avrebbe avuto problemi.
Quando arrivò, parcheggiò non molto lontano da dove aveva sempre portato Yuzo da bambino. Da quel lato c’erano dei frangiflutti artificiali composti da enormi blocchi di roccia su cui la gente si fermava a pescare. A quell’ora, però, non c’era più nessuno e Baiko li raggiunse indisturbato. Riuscì ad arrampicarsi con un po’ di fatica, stando sempre attendo a non perdere la presa sul guantone e sul sacchetto. Una volta in cima, si fermò ritto e fiero ad ascoltare il costante rumore del mare e a vedere i suoi flutti in moto perpetuo che si infrangevano conto la base degli scogli. C’era un buon odore di sale e il suo corpo si opponeva allo spirare della brezza che lo carezzava quasi con affetto. Sembrava avesse voluto incoraggiarlo.
Estrasse la Smith&Wesson e la smontò con un piccolo cacciavite che aveva portato da casa. Infilò i vari pezzi nelle tasche dei jeans, poi calzò il guantone. Il primo oggetto che estrasse fu il tamburo con tutti i proiettili ancora all’interno. Ne mancava solo uno.
«Questo è per mio figlio! Perché l’hai fatto crescere senza di me e lo hai reso infelice!»
Caricò la spinta con la gamba e l’oggetto venne lanciato in mare come una palla veloce. Bastò un attimo affinché scomparisse tra le onde con un leggero ‘pluff’.
«Questo è per mia moglie!» si ritrovò la canna tra le dita. «Perché l’hai fatta soffrire tanto da spezzarle il cuore!»
Il lancio fu uno slider che fendette l’aria come un missile e poi venne inghiottito dalle acque.
L’ultimo pezzo era il calcio. Baiko lo rigirò nel palmo, guardandolo con disprezzo e rivalsa.
«Questo… questo è per me. Perché mi hai quasi distrutto la vita, ma finalmente mi sono svegliato!»
Come una palla curva, l’oggetto abbandonò la sua mano per sempre.
Baiko rimase di nuovo a guardare i flutti che non avevano variato il loro moto e oscillavano calmi, indifferenti a quell’addio che ora era consumato del tutto.
Addio al passato, a una vita di obblighi e costrizioni, addio agli errori e alle loro conseguenze, addio al lavoro, a una pelle morta. Addio al vecchio sé stesso. Addio all’orco.

 

“Reaching for something in the distance /
Cerchi di prendere qualcosa in lontananza,
so close you can almost taste it /
sei così vicino che puoi quasi sentirne il sapore.
Release your inhibitions /
Abbandona le tue inibizioni.

 

Suo marito non era venuto o, meglio, non si era presentato in anticipo come al solito.
Haruko aveva continuato a ripensarci mentre ritirava il bucato. Si era addirittura attardata, sperando di incrociarlo almeno all’uscita dall’ospedale, ma nulla.
«Papà arriverà un po’ più tardi, tesoro. Oggi aveva un’importante riunione di lavoro» aveva spiegato a Yuzo, secondo quanto riferitole da Kyoshi; nel racconto era stato compreso anche l’aneddoto della lavatrice impazzita. Non era riuscita a mantenere un atteggiamento inflessibile e si era messa a ridere.
Baiko era sempre stato così maldestro nelle cose di casa, che pensarlo addirittura alle prese con il bucato le aveva instillato una voglia terribile di assistere alla sua lotta con la schiuma.
Non vederlo arrivare l’aveva… delusa.
Aveva cominciato ad abituarsi a quella specie di ‘ritrovo familiare’ perché lì, all’ospedale, era l’unico momento in cui finalmente si riunivano tutti e tre nella stessa stanza, raccolti. Prima dell’incidente, si ritrovavano insieme solo per cena, ma l’aria era sempre satura di silenzi ostili e parole calibrate al millimetro. La tensione poteva essere afferrata con le bacchette, come una polpetta di granchio. Ora, invece, a volte calava il silenzio, sì, ma era carico solo di attese, mentre le parole uscivano spontanee e naturali. Rilassate.
Inoltre, Haruko si era accorta di come Baiko avesse cominciato a presentarsi un po’ prima ogni giorno. Aveva spezzato la sua indole abitudinaria, i suoi ritmi, per restare con loro. E lei non poteva fingere di non percepire il modo in cui l’atmosfera cambiasse quando si trovavano tutti insieme. Si sentiva più forte, più sicura. Più fiduciosa. L’attesa per il domani perdeva parte delle sue paure anche se rimaneva la frustrazione per una situazione che seguitava a mantenersi stabile, quasi bloccata nel tempo e nello spazio.
E più i giorni passavano, meno speranze c’erano che Yuzo si risvegliasse. Su quello i medici erano stati chiari e ogni volta che ci pensava, che un giorno moriva, le veniva da piangere.
Le era capitato anche mentre si trovava all’ospedale, un pomeriggio, ma Baiko le aveva preso saldamente la mano.
«Yuzo non è un tipo di persona che si arrende facilmente» le aveva detto «Ora lo so. Non mollerà nemmeno questa volta.» La sicurezza che aveva letto nel suo sguardo era stata tale da farle ingoiare con forza le lacrime. Per tutto il tempo che erano rimasti insieme, lui non le aveva più lasciato la mano.
Haruko sospirò nel ripensare a quel momento, scontrandolo con l’intenzione di divorziare che ancora le restava annidata in un angolo del cuore e combatteva strenuamente per non essere scacciata per sempre. L’idea che avrebbe potuto perdere suo figlio non scompariva solo perché Baiko stava cambiando. Non avrebbe nemmeno saputo dire fino a che punto suo marito si sarebbe spinto.
Non sapeva che fare, non lo sapeva proprio.
Con un secondo sospiro, più pesante, rientrò in casa appoggiando al suolo la cesta con i panni asciutti.
Il campanello trillò in quel momento. Pensò fosse suo padre di ritorno dal supermercato; doveva essersi dimenticato le chiavi.
Rimase ferma sulla porta e visibilmente sorpresa nello scoprire che l’ospite, invece, era Baiko.
«Ciao» esordì quest’ultimo, aveva le mani dietro la schiena.
Lei non riuscì a replicare subito, non si aspettava di vederlo, soprattutto non a casa di suo padre.
«Ciao...»
«Ehm… ho fatto un po’ tardi, oggi. Sai, riunione…» continuò l’uomo, spostando il peso da un piede all’altro.
«Sì, papà me lo ha detto.»
«Già…»
«E mi ha anche detto della lavatrice.»
«Ah, davvero?!»
Baiko tirò fino all’estremo un imbarazzatissimo sorriso, mentre lei tossicchiava per non ridere. Haruko pensò che fosse… così buffo.
«Incidente di percorso. La prossima volta non farò danni. Credo.»
«Vuoi entrare?» quella proposta sorprese entrambi per motivi diversi.
Baiko non pensava glielo avrebbe mai chiesto e Haruko non credeva avesse potuto farlo con così tanta naturalezza. L’aveva detto quasi in automatico ma si rese conto che ci teneva. Teneva che lui rispondesse…
«No! No, io… stavo andando da Yuzo. Ero passato solo per salutarti e…» da dietro la schiena, l’uomo le porse un enorme mazzo di gigli bianchi che la lasciò di sasso. «Fiori. Ehm… li ho visti mentre tornavo e… sono ancora i tuoi preferiti, vero?»
«…sì.»
Haruko prese il dono con entrambe le mani.
«Grazie, sono… sono bellissimi…»
Baiko sorrise facendo un passo indietro per toglierla dall’imbarazzo, ma lei seguitò a rimanere immobile sull’uscio con quel fascio bianco puro dall’intenso profumo. Quell’essenza si portò via, mischiandola alla brezza, più di trent’anni del loro tempo, spogliandolo della stupida maturità, che li intestardiva e induriva, per lasciare solo due adolescenti, una festa scolastica e un giglio messo tra i capelli. Space Oddity.
«Allora… io vado.»
La sua voce la riportò al presente, dove regnava l’indecisione.
Lei annuì, mordicchiandosi nervosamente l’interno della guancia e lo osservò andare via, voltarle le spalle, senza sapere, ancora una volta, cosa avrebbe davvero voluto fare.
«Ah! Già che sono qui, te lo dico…» Baiko si fermò che era nei pressi della macchina. Haruko drizzò la schiena non sapendo che aspettarsi, ma sperando in qualunque cosa. «…ho lasciato l’azienda. »
Il sorriso rilassato con cui lo disse la spiazzò forse più della notizia in sé.
«C-cosa?!»
«Sì, a Shunsuke. Se ne occuperà lui. E’ bravissimo, mi chiedo perché non ci abbia pensato prima.» L’uomo si grattò un sopracciglio, ridendo di sé stesso. «Temo di essere un po’ tardo.»
Haruko non replicò, ma lo scortò con gli occhi fino a che l’Audi non scomparve.
Dopo non le rimasero che i gigli e la sensazione che la parte tenace del suo cuore, quella che custodiva il rancore, stesse lentamente soffocando.

 

“Feel the rain on your skin /
Senti la pioggia sulla tua pelle
No one else can feel it for you /
Nessun altro può sentirla per te,
only you can let it in /
solo tu puoi lasciarla entrare.
No one else, no one else /
Nessun altro, nessun altro
can speak the words on your lips /
può dire le parole sulle tue labbra.

 

Era stato difficile, per lui, non provare a offrirle il suo abbraccio, ma farsi addirittura indietro.
Non voleva farle pressioni, ma cercare di essere una presenza costante seppur discreta. Anche per quello non le aveva detto nulla di sdolcinato o da filmone strappalacrime, nonostante avesse avuto quel ‘Ti amo’ vagante nella bocca per tutto il tempo che l’aveva avuta davanti. A suo modo glielo aveva confessato in ogni gesto o sguardo, ma sapeva che non sarebbe stato sufficiente.
Parcheggiò l’auto all’esterno dell’ospedale e percorse a piedi il viale che portava all’ingresso.
Aveva fatto davvero tardi e il tramonto era già finito da un po’. Chissà la faccia delle infermiere nel vederlo arrivare a quell’ora, di sicuro gli avrebbero detto di non provare a fare il furbo per rimanere di più. Ridacchiò, salendo a due a due gli ultimi scalini, ma quando raggiunse il corridoio, rallentò il passo.
Suo figlio non era da solo.
Riconobbe subito la figura che uscì dalla stanza di Yuzo. La vide trascinarsi fuori e appoggiarsi stancamente al vetro. Per un attimo pensò a quanto fortuita fosse quella coincidenza, perché anche lui rientrava tra le cose che avrebbe dovuto affrontare definitivamente per completare la sua opera. Il vecchio Baiko avrebbe rifuggito il confronto o si sarebbe mantenuto sul vago, fingendo di non sapere come stavano le cose. Ma il vecchio Baiko era morto e sepolto e lui rilassò le spalle, aumentò il passo e respirò a fondo pronto per parlare con il giovane Mamoru.

 

“Drench yourself in words unspoken /
Bagnati con le parole che non hai ditto,
live your life with arms wide open /
vivi la tua vita a braccia aperte.
Today is where your book begins /
Oggi è dove comincia il tuo libro.
The rest is still unwritten /
Il resto non è ancora stato scritto.

Natasha BedingfieldUnwritten

 


[1]ONI: sono i Demoni/Orchi nel folklore giapponese.

[2]: E' un film del 1988 remake di una serie televisiva, "Blob - Fluido mortale", del 1958. :D Fa così vintage!


*musichetta da circo: Pepeperepepepere!*

Angolino del: “Trame Delirio, per di qua ---->” – ovvero: “Come creare tramoni alla ‘ohmygodwowgenius’ e poi rendersi conto che erano una cazzata”  (II e ultima parte).

Perché, ovviamente, non era mica finita lì.
Voi ve lo credevate, eh??? Ma, come suolsi dire: non c’è mai fine al peggio. Quindi, ecco che vi narro come sarebbe dovuta andare la storia, prima che capissi che era una vaccata! XD
Eravamo rimasti che Yuzo finiva in galera, denunciato dal proprio padre per tentato omicidio.
Nel gabbio, Yuzo taglia i ponti con tutte le persone che stanno fuori: con gli amici, sua madre. L’unico che non riesce a scrollarsi di dosso, nonostante ci provi, è Genzo. Diciamo pure che Genzo aveva, in quella storia, il ruolo che il finto Mamoru ha in questa. XD (come riciclare i personaggi, W l’Ecologia!).
Dopo sette anni (non in Tibet), Yuzo esce per buona condotta. Fuori dal carcere trova Genzo ad aspettarlo perché la sua famiglia conosceva il direttore, quindi, anche se Yuzo si rifiutava di avere visite, Genzo sapeva tutto di quello che gli succedeva dietro le sbarre. Il Grande Fratello je fa na’ pippa.
Insomma, dopo un po’ di proteste, Yuzo accetta di farsi accompagnare da Genzo a mo’ di Cicerone Taxi Driver. Il portierone amburghese (pare il galletto XD) lo porta a casa, dove Yuzo scopre che è stava venduta a un’altra famiglia e che la sua, di famiglia, non esiste più perché i suoi genitori hanno divorziato poco dopo che lui era finito in carcere. Dopodiché, vanno insieme al vecchio campo lungo il fiume dove Yuzo incontra Mamoru. Anche in questa storia loro erano migliori amici (e basta! XD Era una Genzo/Yuzo, ve l’avevo detto). Un po’ di commozione, pacche sulle spalle, piangiamo tutti in coro eccetera eccetera. Terza tappa, la ‘Golden Gun’.
Yuzo ci va per poter sfanculare in via definitiva suo padre e ‘…dirgli una volta per tutte ciò che penso di lui!’ (cit.). Qui, ci ritroviamo un Baiko che è l’ombra dell’uomo rigido che era stato un tempo, ma mentre nella presente storia si riscatta eccome, nella vecchia versione sarebbe dovuto rimanere un fallito ad libitum. Nonostante tutto, Baiko si scusa con Yuzo per essere stato un genitore vergognoso (si mette addirittura in ginocchio), ma Yuzo – che dopo sette anni di galera è diventato simpatico quanto una spina nel culo – gli risponde teneramente: “E sticazzi? Vaffanculo e addio.” (è la versione ridotta XD).
Il viaggio giunge alla sua ultima tappa, e cioè le campagne lontane dalla città dove vi era la casa dei nonni materni, locus amoenus in cui la madre di Yuzo si è ritirata a vivere dopo il divorzio, conducendo una vita da disperata anima in pena. Riappacifichescion madre e figlio, fazzoletti che si sprecano e retorica a profusione.
La storia si conclude con Yuzo che abbraccia la vita dell’allegro contadino assieme al nonno.
Beh, che vi aspettavate?! Dopo sette anni pretendevate che Yuzo ritornasse a giocare a calcio?!
Naaaaaaa! XD
Grazie a Dio, il mio Neurone Gigetto è tornato prima dalla sua vacanza, rendendosi conto che questa era una enorme vaccata. XD

Si conclude così la Trama Delirio, signore e signori. Spero che vi siate divertiti e abbiate capito quanto io, sotto sotto, sia terribilmente pericolosa, se mi ci metto di impegno! X3



Le canzoni del capitolo:

- Camina (Orishas): se non li conoscevate... conoscevateli! *si sente molto Vulvia* XDDD Premesso che non sono una grandissima amante del rap in generale, loro li adoro. E fanno rap cubano. LOL. Viva le contraddizioni XD
Li seguo dal loro primo disco, ed anche questa è una cosa molto rara perché di solito vado molto a canzoni e non a gruppi/cantante, ma loro mi piacciono tantissimo e fanno delle bellissime canzoni. Questa ci stava bene, come testo e come musicalità. L’intero capitolo è basato sul ‘dinamismo’ e quindi c’era bisogno di qualcosa che tenesse alto il ritmo! ;D

- Unwritten (Natasha Bedingfield): perché, semplicemente, è perfetta! :3 Mi riesce a trasmettere il senso di libertà che vorrei voi coglieste in Baiko, nelle sue scelte e nel suo modo di uccidere il mostro che per anni ha avuto dentro di sé.
Per non parlare del video! LOL! Questa è la versione US, perché la versione ufficiale è diversa, e, giuro, non l’avevo mai visto ma quando mi son trovata davanti il palazzone squadrato, lei che entra dentro l’ascensore e oltre le porte, la libertà, ho pensato: “Minchia! Ci fosse stato anche il mare sembrava di vedere scene del capitolo!” XD



Temevo di non farcela e invece, anche questa volta, sono stata puntuale! *-* Non merito un applauso?! *-*
Manca davvero poco per completare il capitolo 12, ve lo farò avere appena lo terminerò, il che significa che può anche arrivare prima di Lunedì prossimo! :D
Ringrazio tutte le persone che, costantemente, hanno continuato a seguire questa storia fino a ora.
Ormai ci siamo davvero.
-1 :D

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Capitolo 12
*** Part XII: The men who sold the world ***


Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part XII: The men who sold the world -

 

La prima cosa che i suoi occhi videro, non appena si aprirono, fu quel puntino isolato, perduto nel cielo sempre senza sole. Tremolava di un bagliore deciso, che nonostante minacciasse di spegnersi da un momento all’altro, continuava a rimanere lì, testardo.
Una stella.
«E’ sera.»
Proprio come il finto Mamoru gli aveva detto, se n’era reso conto da solo.
- Sì. È arrivato il momento. -
La creatura fece scivolare via il braccio e anche se il gesto fu lento e gentile, il significato non cambiò: era ora di andare.
Yuzo abbandonò la spalla, contro cui era rimasto appoggiato, controvoglia. Gli parve che il tempo si fosse rallentato ulteriormente. Il cielo era bloccato su quella stella, il mare aveva smesso di mormorare le sue onde, la brezza era scomparsa. La fissità, l’artificialità dell’illusione in cui si era rinchiuso gli divenne tanto evidente da infastidirlo. Gli venne voglia di sfondare a suon di pugni quel mondo di cartone.
Si alzò, ripulendo i calzoncini dalla sabbia, e Mamoru fece altrettanto. Si ritrovarono uno di fronte all’altro, ma mentre il suo accompagnatore non aveva alcun timore a guardarlo dritto negli occhi, lui il suo sguardo lo faceva vagare tra i granelli di sabbia che carezzavano i loro piedi.
- Cosa hai scelto? -
Non rispose.
- Non c’è più tempo, Yuzo. - incalzò Mamoru con calma. - Non hai ancora capito cosa stavi cercando? -
«Ti ho già detto che non ho nulla da cercare» rispose, un po’ brusco. Odiava essere messo alle strette, aveva bisogno di spazio e tempo e invece, seppur in maniera più dolce, la creatura lo stava chiudendo all’angolo, proprio come aveva fatto suo padre.
Mamoru accennò uno strano sorriso che lui non vide.
- Hai almeno pensato a quello che vuoi davvero? -
«Sì.»
Certo che ci aveva pensato, aveva pensato alle conseguenze e si era risolto che avrebbe scelto ciò che avrebbe fatto meno soffrire le persone a cui teneva. Solo che era troppo difficile e si era reso conto che ci sarebbe sempre stato dolore, qualunque fosse stata la sua decisione.
Mamoru non gli diede tregua.
- Allora? - Silenzio, ancora. - Yuzo. -
Questa volta, il tono deciso con cui venne proferito il suo nome lo costrinse ad alzare lo sguardo.
Quello di Mamoru era scuro come il mare più profondo, in cui la luce non arrivava più e il blu diveniva nero. - Vuoi andare… - gli vide girare il viso verso la tavola d’acqua infinita. Andare oltre. Morire. -…o vuoi tornare? - gli occhi di nuovo nei suoi. Tornare a casa. Vivere.
Delle due l’una, non esistevano più vie di mezzo.
Yuzo guardò il mare, il fluire delle onde che si era cristallizzato nel fermarsi dell’illusione. Non avanzavano, le creste non si infrangevano.
«Non posso sperare che le persone cambino dall’alba al tramonto. Dentro di loro, resteranno sempre le stesse. Certo, per un po’ ci si potrà illudere che le cose siano diverse, ma poi tutto finirà col tornare come prima. E tornerà il dolore. Se invece si andasse avanti, partendo da qui, il dolore passerebbe, con il tempo. Passerà.» lo guardò, l’espressione di Mamoru era indecifrabile. «Io vado.»
La verità era che aveva una paura fottuta di entrambe le cose.
L’altro non replicò, ma lo scrutò talmente in profondità che Yuzo lo sentì come entrare in lui, attraverso gli occhi, e scavargli il petto. Per la prima volta ne ebbe timore.
Poi, Mamoru sbatté le palpebre e sollevò il mento, spezzando il filo di tensione che si era creato.
- Sei sicuro? -
«Solo gli sciocchi non hanno dubbi» provò a scherzare e la creatura gli concesse un sorriso leggero.
- E sia, dunque. Allora non ti resta che salutare. -
«Dobbiamo già separarci?»
- No, io non stavo parlando di me. - ma si corresse. - Volevo dire, dovrai salutare anche me, ma alla fine. Ora devi andare e salutare loro. -
Il panico dilagò negli occhi di Yuzo come una macchia d’olio nell’acqua.
«Loro? Loro chi? Di che parli?!»
- Le persone a cui tieni di più. È la prassi. Abbandonerai per un po’ questo altrove per tornare nel tuo mondo fisico, ma ricorda: loro non ti vedranno. -
«Ma… ma io non-»
Il finto stupore sul viso del suo interlocutore era odioso. - Qualcosa non va? Mi sembravi deciso fino a un attimo prima, perché ora vacilli? -
Yuzo indietreggiò di un passo. Si sentì di nuovo messo alle strette e in questi casi agiva sempre in maniera impulsiva.
«No, io… certo che sono deciso! Ma mi stai mentendo! Non è affatto la prassi!»
- Io non mento - tuonò Mamoru, secco. Poi addolcì il tono in maniera ironica. - Non mi credi? -
Sì, lui non mentiva. Di solito. Yuzo lo sapeva che in quel caso, però, gli stava rifilando una balla, ma non ebbe il coraggio di insistere.
«Che succederebbe se… se io non volessi farlo?»
La creatura si strinse nelle spalle. - Niente, oggettivamente, ma c’è il rischio che tu possa pentirtene per l’eternità. E quando parlo di eternità non scherzo. Una volta dall’altra parte, il tuo tempo diventerà eterno e non potrai più fare nulla se sarai attanagliato dai rimorsi. Rimarrai infelice per sempre. -
Quelle parole sembrarono convincerlo. Mamoru sapeva benissimo come piegare le sue reticenze.
Afflosciò le spalle in segno di resa.
«Che devo fare?»
L’altro sciolse un sorriso più dolce, e questa volta sincero. Recuperò quel passo di distanza che Yuzo aveva messo tra loro e gli sfiorò una guancia affinché il giovane alzasse di nuovo lo sguardo su di lui.
- Dovrai solo chiudere gli occhi, al resto penserà il tuo cuore. Sarà lui a portarti dalle persone che, più di tutti, desideri salutare. - Yuzo annuì. - Noi ci troveremo alla fine del viaggio. -
Ma lui aveva paura di sapere cosa lo avrebbe aspettato una volta che il tempo e l’opportunità di rivedere tutti fosse terminato.

 

“(Grace, grace) /
(Grazia, grazia)
Reaching out, looking for some way to escape the crowd /
Allungando la mano, cercando un modo per scappare dalla massa,
you whispered words that I’ve been searching for /
hai sussurrato le parole che stavo cercando.
Somehow you answered my call /
In qualche modo hai risposto alla mia chiamata.
Reaching out I feel I’m rising up /
Allungando la mano, sento che sto risalendo.

 

A Yuzo bastò chiudere gli occhi un momento per ritrovarsi altrove nell’attimo in cui li riaprì. E quell’altrove non era sconosciuto o una sua proiezione mentale. Quella era Nankatsu e quella era la casa dei suoi nonni materni.
L’immagine di nonno Kyoshi, seduto nel piccolo giardino dietro casa magari intento a leggere proprio un volume che gli aveva prestato lui, gli fece desiderare di poter scappare via. Fuggire a gambe levate. E se era così terrorizzato anche senza averlo ancora visto, figurarsi dopo.
Ad ogni modo, non poteva tornare indietro, ma solo andare avanti. Percorrere l’ultima tratta di quel viaggio e dire addio.
Avanzò con passo incerto all’interno del cortile anteriore. Diversamente da casa sua che era recintata da siepi e muretto, con cancello automatico e quant’altro, quella del nonno aveva una bassa staccionata che delimitava il giardino posto sul retro e un piccolo cancelletto che l’uomo chiudeva solo la sera, infatti lo trovò socchiuso. Yuzo scivolò all’interno, camminando sull’erba accuratamente tagliata e rendendosi conto di come i suoi passi non producessero il minimo rumore. Inspirò a fondo prima di girare attorno alla casa e poi espirò lungamente, come sollevato, quando vide che suo nonno non c’era. Non sapeva perché il suo cuore l’avesse portato proprio lì, ma continuò a camminare.
La vetrata che introduceva nel salotto era aperta, nell’oscillare della tenda sul principio della sera, e lì ebbe le risposte che stava cercando. E che lo uccisero con la peggiore delle armi a disposizione: il senso di colpa.
Seduta al tavolo, c’era sua madre. Aveva gli occhi fissi su di un fascio di gigli, unica nota chiara nella semioscurità.
Yuzo rimase a guardarla da lontano, realizzando la sua presenza così vicina. Si rese conto che gli era mancata più di quanto avrebbe mai creduto. E anche se avvertiva il cuore perforato da spine, percepì un calore intenso affievolire il dolore.
Si avvicinò; lei non sentì i suoi passi, guardava i fiori toccandone i petali con gli occhi, occhi stanchi, addolorati, mentre le mani restavano ferme sulla superficie del legno.
Yuzo le si sedette di fronte. Sorrise.
«Ciao, mamma.»
Haruko non rispose, fuori un grillo aveva già iniziato a cantare. Lui la rivide candida come quei gigli in giorni d’estate simili a quelli, ma perduti in memorie lontane. Fece scivolare la mano sulla superficie, poggiandola su quella della donna.
«Chi te li ha regalati? Sono belli. Sei bella, mamma.»
Negli occhi di Haruko qualcosa si smosse e le dita sussultarono. Sollevò lo sguardo, improvvisamente lucido di lacrime, e schiuse le labbra.
Lo guardava, ma non lo vedeva.
«Finirà presto, te lo prometto. E questo dolore… lo porterò via con me.»
Lui sorrise ancora e chiuse gli occhi, lasciandola ai gigli e al canto dei grilli.

 

“Suddenly, I’m up on the surface now where I can see /
All’improvviso, sono sulla superficie, ora, dove posso vedere
and picture the person who I need to be /
e immaginare la persona che ho bisogno di essere,
and I know, yes I know I can make it /
e so, sì lo so che posso farlo.
See me now, I’m slowly rising up /
Guardami ora, sto lentamente risalendo.

 

Il fischio d’un treno gli disse che era altrove e riaprì le palpebre.
Gente seduta o in piedi era silenziosamente attorno a lui. Chi leggeva il giornale, chi ascoltava la musica. Un vagone della metropolitana.
Chi poteva mai aver raggiunto?
«Sì, sono in metro.»
Quella voce provenne nitida, lì accanto, familiare. Amata.
Yuzo restò come ghiacciato sul posto, convinto di non aver la forza per fare nient’altro se non restare immobile. Eppure, più ascoltava quella voce, più la necessità di girarsi diveniva vera, reale, e il suo corpo non era che una marionetta nelle mani di quel desiderio.
«Sì mamma, il viaggio è andato bene. Ci vediamo più tardi. Ciao.»
La punta del piede, il frammento di gamba, risalire lungo il ginocchio e poi la coscia, il fianco, il braccio, il profilo del petto, la spalla. La persona che gli era accanto entrava lentamente nel suo campo visivo. I capelli scuri erano raccolti in una mezza coda legata alla buona che lasciava scoperta la linea del viso e la direzione dello sguardo fisso sul cellulare, ora chiuso.
Sospirò il suo nome con la stessa meraviglia con cui si evocano le cose preziose.
«Mamoru…»
Quello vero.
Gli parve di non vederlo da un tempo infinito per quanto, in qualche modo, fosse rimasto accanto a lui da che quel sonno era iniziato, ma le sensazioni che stava provando erano differenti. C’era una quiete piacevole, nel suo cuore, quando si trovava con la creatura che ne aveva assunto le sembianze. Adesso, invece, sentiva quello stesso cuore battere così forte da fargli male. Esplodere. Gli spilli conficcati più a fondo nella carne, fino alla testa. Sorrise d’estasi mentre affogava nella consapevolezza che il loro ultimo incontro sarebbe stato un addio.
«…sei proprio tu…»
Mamoru non lo udì; la spalla poggiata contro il palo di ferro che correva accanto a dove era seduto, il viso inclinato verso il basso e fili corvini, che sfuggivano alla coda spettinata, scivolavano lungo la tempia e poi restavano a oscillare nel vuoto ai movimenti del treno.
Aveva la bellezza incantatrice dei miraggi.
Yuzo abbassò lo sguardo, notando il borsone giacente tra i piede. Il sorriso assunse una nota entusiasta.
«Sei tornato da Yokohama? Deve essere bellissima in questo periodo. E come stanno andando gli allenamenti? Guarda che Marzo arriva in fretta, vedi di impegnarti, ma cerca di non fare sempre di testa tua.» La sua risata si infranse contro il silenzio del suo profilo.
Gli occhi di Mamoru erano sempre lì, ancorati su quel telefono, sembrava aspettassero qualche chiamata importante e invece, a scrutarli a fondo, non osservavano nulla; il suo sguardo passava attraverso le cose e restava chiuso in spazi mentali invalicabili. Era talmente perso che sobbalzò quando il treno si fermò alla stazione, avvisando i passeggeri. In fretta afferrò il bagaglio e lasciò il mezzo.
Yuzo gli tenne dietro, camminando al suo fianco. Nel via vai frenetico della gente, gli sembrò esistessero solo loro due.
«Come mai non sei tornato a casa? Non sei stanco per il viaggio?» addolcì il tono, valutando il passo deciso con cui il suo migliore amico camminava. «Dov’è che stai andando?»
All’esterno della metropolitana il cielo era viola e indaco. Il tramonto era morto in un’agonia di rosso e arancio di cui non c’era più traccia. La loro pelle venne baciata dal suo ultimo fiato, caldo di scirocco. Era brezza piacevole che stemperava la calura del giorno.
Yuzo capì quanto gli fosse mancato parlare con lui solo in quel momento, mentre gli restava accanto. Certo, c’era stata la creatura misteriosa e senza nome, ma non era la stessa cosa. Avrebbe voluto parlare con Mamoru in eterno, ma poi si ricordò che aveva scelto di andare avanti, perché tornare avrebbe fatto troppo male, in futuro. Così cercò un particolare inutile cui aggrapparsi, per non sentirsi già morire prima d’aver completato quell’addio. Lo trovò nel suo gesto di spegnere il cellulare ed eclissarlo nella tasca dei jeans.
«Non dovresti spegnerlo e se ti cercassero? Che direbbe la ragazza con cui devi vederti?» Sorrideva, ma il solo pensiero lo feriva, anche se non ne aveva alcun diritto. «Lo so che hai un appuntamento. Sono sempre stato bravo a indovinare quando si tratta di te…» sospirò, rassegnazione sul viso, ma non smise di sorridere. «Sì, sono sempre stato bravo.»
Si fermarono entrambi davanti a un attraversamento pedonale illuminato di rosso. Mamoru si sciolse i capelli con un gesto deciso. Sul volto, persisteva un’espressione triste che continuava a guardare le cose pur non vedendole.
Yuzo inclinò leggermente il capo.
L’attraversamento divenne verde.
«Perché quella faccia? Non puoi presentarti a un appuntamento galante con quell’espressione mogia, altrimenti la ragazza penserà che ti scoccia la sua compagnia.» Rise. «E vedi di trattarla bene, quante volte t’avrò detto che non si gioca con i sentimenti altrui?» lo ammonì bonariamente, agitando l’indice. Come nulla fosse. Come se Mamoru potesse davvero vederlo e arrabbiarsi per quel tono da saputello che lo mandava in bestia perché gli seccava dover ammettere che aveva ragione. Illusione. In qualsiasi altrove sarebbe andato, le illusioni sarebbero sempre rimaste con lui.
Proprio in quel momento il giocatore dei Marinos si fermò all’improvviso e Yuzo si volse, arrestandosi qualche passo più avanti. Mamoru aveva lo sguardo sollevato e fisso in avanti. A lui parve che il piglio severo si sciogliesse in una malinconia che gli spezzò il cuore. Quell’espressione non gliel’aveva mai vista, quella smorfia che trasmetteva dolore nonostante fermezza.
«Siamo arrivati?» domandò, leggermente titubante, e tornò a guardare al lato opposto.
La struttura dell’ospedale gli spezzò il cuore a metà, rivelando una matrice intricata di spine.
Il suo ex-compagno di scuola lo superò; aveva ripreso a camminare. I passi più veloci di prima cui lui si accodò, con qualche attimo di ritardo. Non disse più nulla, non l’interrogò. Lo seguì in silenzio all’interno dell’edificio, tra corsie semideserte a quell’ora e infermiere vestite di bianco che passavano loro accanto, accennando saluti con il capo. L’odore dei medicinali gli provocò una vertigine.
Vide Mamoru percorrere quasi di corsa gli ultimi metri, fino a fermarsi davanti a un vetro. L’aspettativa sul suo volto scemò e si spense nell’ennesima attesa delusa.
Sulle prime non ebbe il coraggio di raggiungerlo, mentre l’altro rimaneva lì, immobile, a guardare oltre quella barriera trasparente. Lo osservò a distanza, convinto che sarebbe rimasto inchiodato in quel punto, ma di nuovo, come quando si era trovato in metropolitana, il suo corpo divenne marionetta di una forza non sua che muoveva i fili. E li muoveva bene, anche se avvertiva i piedi pesanti. Le due metà del suo cuore erano tornate a fargli male. Non erano morte nell’attimo stesso in cui si erano separate, ma avevano raddoppiato il dolore. Aveva una sensazione. La sentiva strisciare. E questa sensazione gli sussurrava a chiare lettere il nome della persona che Mamoru stava contemplando con tanta afflizione. Il nome di chi si nascondeva al di là del vetro.
Raggiunse l’amico, lo affiancò.
E si volse.
Gli occhi divorarono sé stesso, il proprio corpo immoto in quel tripudio di lenzuola bianche e pareti candide, di tubi e flebo che nutrivano. Aveva gli occhi chiusi.
«Stai ancora dormendo…»
Mamoru lo disse con un tormento che lo pugnalò alle spalle, proprio come lui aveva pugnalato tutti loro. Le lacrime gli salirono agli occhi e non sapeva se fosse per la vista del proprio guscio vuoto, per la sofferenza che avvertiva provenire dal suo migliore amico o perché Mamoru fosse andato da lui ancor prima di tornare a casa. Da lui. Lui soltanto.
Fece per allungare una mano sul vetro, quando l’altro si mosse, entrando piano nella stanza. Lui lo seguì prima con gli occhi e poi col resto di sé. Sgusciò all’interno, avanzando con passo lento e misurato. Si fermò all’altro lato del letto guardando il proprio corpo con la gola arida e i brividi.
Mamoru lanciò il borsone accanto alla porta e il tonfo che fece fu così secco da farlo sussultare. Sul viso del giocatore dei Marinos c’era ora un’espressione gelida e distaccata. Arrabbiata.
Lo vide avvicinarsi al letto, le mani nelle tasche, e guardarlo dall’alto. Torreggiava sul suo corpo come il corvo sulla carcassa di una preda. Poi, si appoggiò alla sbarra laterale.
«Per una volta ti trovo da solo, senza tuo nonno o tua madre. Bene, così possiamo finalmente parlare, noi due.» Aveva un tono sprezzante, carico di rancore.
Yuzo si rese conto, per la seconda volta, di non aver mai visto nemmeno quella di espressione.
«Non aspettarti carinerie o parole di conforto perché da me non ne avrai.» Si sporse, il viso minaccioso che si avvicinava al suo, e la voce si trasformò in sibilo. «Stronzo. Bastardo. Vigliacco. Idiota. Che diavolo ti è saltato in mente?! Che fine ha fatto il tuo coraggio?! Te lo sei giocato a carte insieme all’intelligenza, imbecille?!»
Yuzo sorrise, nonostante le parole. Anzi, forse proprio in virtù di esse. Chissà da quanto tempo Mamoru le aveva tenute chiuse dentro di sé, in attesa di potergliele sputare contro e sfogarsi. Lo capì dal modo in cui il viso era contrito, dal rossore che gli aveva colorato le guance, da come stringeva il manico della sbarra tanto da tremare.
«Hai… hai una seppur vaga idea di quanto io sia incazzato?! Credo proprio di no, altrimenti ti saresti svegliato da un pezzo. Beh, sappi che sono così furente che se non fossi in un letto di ospedale ti cambierei i connotati a forza di sberle!» Mamoru prese fiato, inspirando a fondo. Si guardò intorno e si costrinse ad abbassare la voce o avrebbe fatto accorrere le infermiere. «Ti rendi conto di quanto stiano soffrendo i tuoi genitori? Tua madre è piantonata qui ogni singolo giorno ad aspettare un miracolo e anche tuo padre… sì, proprio tuo padre, Yuzo, la persona che tanto detesti, viene per restarti accanto!»
Quella notizia lo stilettò al ventre. Incassò il colpo, indurendo l’espressione. Non doveva dargli importanza, sapeva che tanto si sarebbe trattato solo di un’altra, fottuta illusione, perché le persone non cambiavano, non cambiavano mai.
«E ti rendi… ti rendi conto di quanto noi, tutti noi, i tuoi amici, stiamo soffrendo nel sapere di non poterti avere più nella nostra vita?» La rabbia era scemata, si era ritirata come l’onda sulla battigia. La presa attorno alla sbarra aveva perso di forza fin tanto da sciogliersi. Il viso di Mamoru aveva abbandonato il piglio contrito e rancoroso, lasciando solo un’espressione di resa, sconfitta. «Ti rendi conto di quanto stia soffrendo io?... no, tu non lo sai… non lo sai.» Lo vide ingoiare con sforzo, gli occhi lucidi, all’improvviso. Il giovane distolse lo sguardo e si portò una mano alla fronte. «Scusa.»
Yuzo si sentì annegare nella sua rassegnazione, nel suo dolore che era denso, colloso, ci si restava invischiati e bruciava come sale su ferite impossibili da rimarginare.
«Vai via, Mamoru… vai via non restare qui…» Lo supplicò, ma l’altro rimase. Era così frustrante non essere uditi.
Il terzino riprese il controllo e tornò a sollevare lo sguardo. Guardò il braccio del portiere, disteso lungo il fianco, rosa contro bianco. Fece scivolare le dita lungo la pelle, fino a prendergli la mano e Yuzo strozzò un respiro a metà; avvertì di netto il suo calore che lo carezzava adagio, con dolcezza, tanto che si guardò la propria mano, ma era fatta di niente mentre quella che Mamoru stava altresì stringendo era reale. La sua parte reale. Come nella matematica dei numeri complessi. Lui era la parte immaginaria.
«Perché hai fatto una cosa così stupida? Proprio tu… che sei sempre stato quello più misurato tra noi, quello più calmo. Perché non ne hai parlato con me? Avremmo potuto trovare insieme una soluzione, una qualsiasi… Io non ti avrei mai lasciato affondare. Perché non l’hai fatto?» Il terzino continuava ad avere gli occhi fissi su quelle dita strette nelle proprie, aspettava davvero delle risposte e Yuzo si sporse, s’avvicinò al letto e stavolta fu lui ad afferrare con forza le sbarre di sicurezza. Così vicini, ma distanti anni luce.
«I-io… io volevo…»
«Non dire bugie.»
Yuzo sussultò. Che l’avesse sentito?
Mamoru sollevò lo sguardo sul viso addormentato, le sopracciglia ancora aggrottate, ma questa volta stava sorridendo. «Tanto lo so che sarebbero la tua risposta. Vero?» Stancamente, si sporse di nuovo. «Credevo davvero di conoscere cosa nascondessi dentro di te. Sul serio, lo credevo.»
«Ma è così! Tu sei quello che mi conosce meglio!» la sua voce si fece accorata, mentre le mani stringevano ancora più forte. «Meglio di chiunque altro, Mamoru!»
«Non era abbastanza.»
Dagli occhi neri, una lacrima precipitò in caduta libera lungo la guancia e Yuzo tacque, affogando in essa. La presa che si scioglieva, priva di forza.
Mamoru scrollò le spalle e iniziò a ridere, ma quella risata faceva male. «Lo sai? Sto diventando pazzo. Sempre più spesso mi ritrovo a parlare da solo. E ho paura degli scoppi. Non riesco più a vedere un film d’azione né i fuochi d’artificio. Ogni volta che sento uno sparo… penso a te… e non respiro più. Te l’ho detto, sto diventando pazzo. Te ne parlo così, magari, ti senti almeno un po’ in colpa e decidi di tornare.»
Più vicino al suo viso, il giovane gli sfiorò la fronte dove le bende venivano cambiate giornalmente. Ci voleva tempo affinché le ferite rimarginassero del tutto, ma i segni non se ne sarebbero più andati. Al massimo sarebbero stati camuffati, nascosti, e seppure gli occhi degli altri non li avrebbero visti, lui avrebbe sempre saputo che sarebbero stati lì.
Yuzo percepì il contatto con le sue dita che ora toccavano dove le fasciature non riuscivano a coprire. Il sorriso di Mamoru non si mosse.
«Deve essere davvero un bel sogno, eh, Yuzo? Altrimenti ti saresti già svegliato da tempo. Ma non puoi dormire per sempre… abbiamo ancora un sacco di cose da fare, da vedere… da vivere… quindi, torna presto.» Si avvicinò ancora, tanto che il portiere avvertì il suo respiro contro la palle, il calore delle labbra sulla fronte e l’umido delle lacrime piene di dolore. «Impazzirò del tutto se non lo farai.»
Un brivido lo attraversò da capo a piedi; in ogni parte dello spirito sentì quel vibrare gelido che arrivò a pungergli gli occhi nel vederlo chino su di lui, fronte contro fronte, e nuove lacrime nei begli occhi neri ora serrati.
Gli venne da piangere e si toccò la fronte, proprio lì, dove avvertiva la sua presenza.
«Non volevo… farti questo… non volevo…» ma le sue parole avevano un suono che non poteva raggiungerlo e rimasero lì, sospese nella sua realtà solitaria.
Mamoru deglutì a fatica e tornò ad alzarsi, passandosi poi il dorso della mano sul viso. «Ci vediamo domani, ok?» attese per un attimo quella risposta che non arrivò e infine lasciò finalmente la sua mano, con estrema lentezza e cura. Prese il borsone, uscì dalla stanza, fermandosi ancora un momento a osservare il corpo di Yuzo dal vetro.
Lo spirito del portiere gli tenne dietro, quasi rincorrendolo.
«Perché non torni?» sospirò Mamoru ed era a pezzi. Il cuore era un mosaico scomposto di tasselli abbandonati. Appoggiò la fronte contro il vetro. «Perché?…»
Yuzo si fermò alle sue spalle, guardando quella schiena che gli era sempre sembrata solida e forte, incrollabile. Mamoru era sempre stato sicuro di sé e delle sue azioni. Non l’aveva mai visto così, sembrava non avere più una direzione, sembrava aver perso l’ago della propria bussola. Ed era tutta colpa sua.
Le due metà del suo cuore si frantumarono in altre decine di pezzi, così tanti che non avrebbe più saputo rimetterli insieme.
«Perdonami…»
Sussurrò, facendo scivolare le mani attorno al suo corpo, la testa appoggiata sulla spalla.
Mamoru sussultò, sollevando il capo di scatto. Una sensazione forte di calore sul ventre e la spalla. Una sensazione familiare, come se qualcuno lo stesse abbracciando. Poteva quasi avvertire la presenza d’un corpo dietro di sé. Esalò un respiro strozzato mentre gli occhi tornavano sulla figura distesa nel letto.
Appoggiò una mano sull’addome, dove avvertiva quel tepore piacevole.
«Yuzo…»
«Sono qui…» ma il portiere sapeva di non essere un’entità fisica e tangibile. Lui era spirito, una proiezione mentale, e poteva essere semplicemente avvertito, come una sensazione diversa, ma niente di più. «…guardami, sono qui.»

 

“You give me grace /
Mi dai la grazia,
in a world that doesn’t sleep at all /
in un mondo che non dorme del tutto.
You give me grace /
Mi dai la grazia,
it’s a place I’ve never been before /
è un posto dove non sono mai stato prima.
You give me grace /
Mi dai la grazia
and in all of the confusion you’re the peace in my soul /
e in tutta la confusione, tu sei la pace nella mia anima,
that’s why I will never really be alone /
ed è per questo che non sarò mai davvero da solo.

Well yeah, these are difficult times /
Bene, sì, sono tempi difficili,
these are difficult days /
sono giorni difficili,
but I know we can face it /
ma so che possiamo affrontarli.
Ours are difficult lives /
Le nostre sono vite difficili,
in a difficult place /
in un posto difficile.
Oh you give me grace to say when I got it wrong /
Oh, mi dai grazia di ammettere quando sbaglio,
the grace and the will to carry on /
la grazia e la volontà di andare avanti.
Reaching out I feel I’m rising up /
Allungando la mano sento che sto risalendo.

Simon WebbeGrace

 

«Ciao.»
Quella voce fece sobbalzare entrambi.
Mamoru si volse di scatto alla propria destra, mentre Yuzo scioglieva l’abbraccio. Le reazioni furono diverse, i sentimenti che le mossero anche.
«Signor Morisaki!» Mamoru si sentì come preso alla sprovvista. Si passò velocemente una mano sugli occhi per riprendere il controllo, e proferì quel glaciale. «Salve.»
Yuzo, invece, aveva avuto la sensazione di morire davvero. Inchiodato sul posto. Lo stomaco ritorto, la testa che pulsava velocemente e con forza; aveva freddo, un freddo di cui non riuscì a liberarsi. Era paura. Paura di rivederlo, di leggere la disapprovazione nei suoi occhi, il rancore, il disprezzo. Di avere la conferma che le persone non possono cambiare mai per davvero. Ma tutto ciò che i suoi occhi videro fu un uomo in abiti così informali che, sul momento, non gliel’avevano fatto riconoscere.
«Papà...», lo squadrò da capo a piedi, «ma… dov’è la tua… la tua cravatta e… e la giacca e… quelli sono… jeans? Hai la barba…»
L’uomo aveva un’espressione accogliente che non aveva mai visto in lui. Si rivolse al giocatore dei Marinos, accennando un sorriso – un sorriso –.
«Eri passato a salutarlo?»
«Sì. Sì, io… io stavo andando-»
«Ah! Ma resta!» Baiko s’affrettò a fermarlo, gesticolando animatamente. «Resta qualche altro minuto, Mamoru.»
Di nuovo, entrambi lo guardarono come se lo vedessero per la prima volta.
«Ma… come fai a sapere il suo nome? A te… non è mai importato niente dei miei amici…» Yuzo era confuso.
Mamoru, invece, non si sarebbe mai aspettato che potesse trattenerlo, non dopo quello che era successo. Spostò lo sguardo dall’uomo al vetro e poi di nuovo all’uomo. Avrebbe voluto rifiutare con il solito modo scostante, oppure approfittare del fatto che erano da soli, questa volta, e sputargli contro tutte le sue colpe. Invece, non fece nessuna delle due cose. «D’accordo.»
Baiko si mostrò entusiasta e gli indicò le sedie che costeggiavano il muro, proprio lì accanto. Si sedettero ai capi opposti ed erano visibilmente a disagio, chi per un motivo e chi per un altro. Yuzo, da parte sua, continuava a non credere a quello che stava vedendo, eppure i suoi occhi non mentivano. Si avvicinò di un passo, mantenendosi più distante.
Fu suo padre a rompere il silenzio. Vide il borsone di Mamoru ed esordì: «E… e tu dove giochi?»
«Yokohama.»
«Ah! Yokohama! E’ una città così… così vitale, tecnologica. Ci sono stato varie volte, per lavoro.»
Il portiere era sconvolto: suo padre parlava dei propri affari con un ragazzo che nemmeno conosceva?!
«Quindi tu sei con i… i Marinos, giusto?»
Quello era il colmo: suo padre parlava di calcio? Ma se lo aveva sempre detestato!
La stretta allo stomaco non si allentò, ma sembrò assuefarsi a quella strana ansia, ignorandola completamente. Era troppo preso da loro, in quel momento, da quel dialogo surreale.
«Sì.» Anche Mamoru era perplesso, guardava il padre del suo migliore amico di sottecchi. «E lei… è venuto per leggergli qualcosa?»
«Oh, no! Quest’oggi musica!» Baiko mostrò il lettore mp3.
«Capisco.»
L’uomo gli parve diverso. A dire il vero, non era la prima volta che lo incontrava all’ospedale. Sapeva che lui andava di sera mentre la signora Haruko restava lì tutta la mattina e il pomeriggio ed era già da un po’ che gli era sembrato… strano. Anche quando se l’era trovato davanti dopo che aveva aiutato suo padre. Gli era parso così lontano dalla persona che era stata prima dell’incidente; le maschere della severità e del rigore si erano come dissolte, solo che lui era stato reso cieco dalla rabbia repressa che non aveva saputo controllare. Strinse le ginocchia nelle mani.
«Hai parlato un po’ con lui?-»
«Signor Morisaki, sono davvero dispiaciuto per quello che le ho detto, l’altro giorno» lo interruppe parlando d’un fiato senza guardarlo negli occhi. «Mio padre mi ha riferito che lei, nonostante tutto, ha preso le mie parti. Sappia che un po’ mi ha comunque rimproverato. Me lo meritavo.»
Yuzo si fece di colpo più attento: di che parlavano? Che era successo?
«Non preoccuparti.» Baiko scosse il capo, l’aria di tranquillità che lo circondava sembrava infrangibile e pareva quasi espandersi per avvolgere chi gli stava intorno. «Non hai bisogno di scusarti, in fondo, è la verità. Se Yuzo ha agito in un determinato modo è solo a causa mia, ne sono consapevole.» Sospirò, girandosi a guardare il vetro e la sagoma del figlio che si riusciva a intravvedere. «Io non l’ho ascoltato quando avrei dovuto farlo, ma ho continuato a tirare dritto seguendo le mie convinzioni, nemmeno fossi stato uno schiacciasassi. Ero così sordo e cieco che… che non mi ero accorto di non conoscere niente di lui.» abbassò lo sguardo sul lettore musicale che rigirava tra le mani. «Per la prima volta, dopo anni, che sono entrato nella sua camera… ho capito che gli unici ricordi che avevo di Yuzo erano quelli in cui era un bambino che correva sulla sabbia e rideva… Non conoscevo la sua vita, non conoscevo i suoi gusti, ignoravo i suoi sogni e le sue aspirazioni. Certo, mi aveva parlato del calcio, ma non lo avevo ascoltato. Non l’ho ascoltato per così tanti tempo che abbiamo finito col divenire due estranei.»
Yuzo si rifiutava di credere a quello che stava sentendo. Si rifiutava. Doveva esserci qualche distorsione nella realtà, magari proprio ad opera della strana figura che gli aveva fatto compagnia. Suo padre non era tipo da dire certe cose, con un estraneo per giunta. Non poteva essere così… Anche quella era un’illusione, illusione che le persone potessero cambiare, ma suo padre non era mai cambiato in tutti gli anni che lui aveva provato a parlargli, a capirlo e farsi capire.
«Che padre di merda.» Baiko si mise a ridere, volgendosi a guardare Mamoru.
Ridere.
Le labbra aperte, curvate verso l’alto, i denti snudati, il naso arricciato.
Era come guardarsi allo specchio.
In quella smorfia allegra, in quell’esternazione della felicità, loro si assomigliavano davvero tanto come gli avevano sempre ripetuto.

«Ti prendo! Ti prendo!»

«E’ così che dite voi giovani, vero? Siete un po’ più sboccati di com’ero io alla vostra età, ma in fondo il concetto non cambia. Ho dovuto aspettare che lui arrivasse allo stremo della sua sopportazione perché mi svegliassi e mi rendessi conto di quanto avevo perso e stavo ancora perdendo.» Baiko si illuminò. «Lo sai che abbiamo quasi gli stessi gusti musicali? Certo, quelli che ruttano nel microfono glieli lascio più che volentieri, ma… ma ci piacciono le stesse canzoni dei Beatles.» Sul volto un’espressione estatica. «E Bowie… mio figlio ascolta Bowie e io non lo sapevo. Io, invece, ho scoperto che mi piacciono i Nirvana.»
«I Nirvana?! Papà! Ti sei ascoltato i miei CD?!» Per Yuzo quella fu la riprova che quell’uomo non era suo padre, non poteva esserlo. Suo padre era…
«Sono stato uno stupido idiota. Ma voglio rimediare. Sto cercando di fare tutto quello che mi è possibile per cercare di recuperare il tempo perduto; non è detto che io ci riesca, ma non sono disposto a cedere.» L’uomo sorrise al giovane al suo fianco. «…tu che ne pensi?»
Mamoru non rispose subito, ma d’improvviso si rese conto che per quanto fosse stato arrabbiato con lui, ora sentiva che qualcosa era definitivamente cambiato. «Dico che a Yuzo verrà un colpo quando la vedrà.»
Baiko sbottò a ridere di cuore, grattandosi la nuca. «Oddio, sì. Credo proprio di sì. Lo lascerò sconvolto, tanto che penserà d’esser finito nel posto sbagliato.»
Mamoru rise con lui. Erano giorni che non lo faceva, che non rideva davvero, e ora gli veniva una voglia disperata di piangere che non riusciva a spiegarsi, era così contraddittoria.
Baiko lo osservò passarsi più volte le mani sugli occhi per cercare di nascondere le lacrime e camuffare il rossore. Non aveva più dubbi, che in parte erano già stati fugati dalle fotografie che aveva trovato in camera di Yuzo, ma ora poteva dire d’essere certo al cento per cento che il sentimento di suo figlio era reciproco. Tempo fa non l’avrebbe mai detto d’esser così sensibile e attento. Sorrise con affetto.
«Tieni molto a lui» esordì, attirandosi lo sguardo del giovane, che arrossì visibilmente, cercando rifugio nei capelli lunghi.
«Sì, signore.»
L’uomo appoggiò il viso in una mano. «Ne sono felice. Per fortuna Yuzo ha trovato degli ottimi amici. Credo che sia grazie a voi se è riuscito a sopportarmi fino ad ora. Grazie a te.»
Mamoru era a disagio, si vedeva. Lo sguardo vagava per il pavimento. Non doveva mai aver affrontato quel discorso con nessuno. Probabilmente, pensò Baiko, nemmeno con i suoi genitori. Accentuò il sorriso. C’era sempre una prima volta.
«Ami mio figlio, non è così?»
Il terzino balzò in piedi come se gli avessero appena infilzato il sedere con un forcone, l’espressione incredula, ma mai quanto quella di Yuzo, che, invece, era di totale sgomento.
«Papà! Ma che diavolo stai dicendo, sei impazzito?! Mamoru, dannazione, digli qualcosa!»
Ma le labbra di Mamoru s’aprirono e chiusero un paio di volte, senza emettere suono. Abbassò lo sguardo e serrò i pugni lungo i fianchi.
Yuzo si volse lentamente verso di lui.
«Mamoru…» lo guardò come lo vedesse per la prima volta. I pezzi del suo cuore si sciolsero per tornare una pasta compatta e gli spilli abbandonati non si mescolarono più con il sangue.
«Sì.»
Negli occhi, il terzino aveva un’espressione colpevole.
«Perché non glielo hai mai detto?» Baiko mantenne un tono tranquillo e calmo, sereno, che confuse entrambi.
«Come facevo?! Mi avrebbe odiato a morte!»
«Beh non puoi saperlo se non provi.»
«Papà ha ragione!» Yuzo si intromise anche se non poteva essere udito, il fatto che avesse appoggiato suo padre passò in secondo piano. «E poi non ti avrei mai odiato, ma… ma come ti viene in mente una cosa simile?!» Il suo spirito era un crogiolo di emozioni che si dibattevano come anguille, attorcigliandosi tra loro.
«Diglielo quando si sveglierà.» continuò Baiko. «Non esitare, rischi di perdere l’attimo e poi… potresti rimpiangerlo per tutta la vita.»
Il rimpianto. Yuzo pensò alle parole del suo accompagnatore: anche lui avrebbe finito col rimpiangere in eterno il rifiuto di salutarli. E forse, solo adesso, cominciava a capire perché quell’essere avesse insistito tanto, fino ad arrivare a mentire, purché lui li incontrasse ancora, un’ultima volta.
Mamoru scrutò l’uomo con uno strano timore. «Non… non è disgustato o… contrario?»
«No, oh no. Affatto.» Baiko sbuffò un sorriso. «Poco prima che Yuzo si sparasse gli avevo detto che ci sarebbe mancato solo che lui fosse stato un deviato... Avrà pensato che ero un mostro. Da quando sto rischiando di perderlo, mi sono ritrovato a rivedere tutte le mie priorità e ho capito che l’unica cosa davvero importante, per me, è riaverlo indietro. Non mi importa del resto, lui è e resterà mio figlio, non cambia nulla. Gli voglio bene per quello che è.» Incrociò le mani sulle gambe, tornando a sorridere. «Promettimi che glielo dirai, Mamoru.»
«E… e se…»
«Non sono i ‘se’ a mandare avanti il mondo. Fidati di me: andrà bene.»
Yuzo lo guardò senza riconoscerlo o, forse, vedendolo per la prima volta. «Tu… tu lo sai. Sai che anche io sono come lui. E non ti arrabbi?» Era sconvolto.
Quante cose erano cambiate dal momento in cui aveva chiuso gli occhi. Ma lui sapeva… era sempre stato fermamente convinto che le persone non potessero cambiare in maniera così radicale, arrivare a stravolgere sé stessi tanto in profondità.
«Che ti è successo, papà?» gli domandò, non riuscendo a capire chi avesse di fronte adesso; una persona diversa o forse… forse solo quella che era stata un tempo, prima di chiudersi in un’austerità invalicabile.
Mamoru annuì piano alle parole di Baiko. «Glielo prometto.»
L’uomo sorrise con un certo sollievo, alzandosi di slancio. «E’ l’ora del jukebox!» esclamò, passando accanto al giovane. Affettuosamente gli strinse la spalla e lo superò per entrare nella stanza dove riposava suo figlio.
Yuzo non lo seguì subito, ma rimase accanto al suo ex-compagno di scuola. Lo osservava con dolcezza, rimanendo sulla linea del suo sguardo, anche se gli passava attraverso.
«Me lo dirai davvero? Guarda che ci conto.»
Mamoru aveva un leggero sorriso; lo superò e tornò a fermarsi presso il vetro, osservando Baiko che parlava animatamente con suo figlio, mentre lo spirito di quest’ultimo decise che era arrivato il momento di ascoltarlo.
Piano entrò nella stanza, camminando a passo lento. Si portò davanti a lui, per poterlo osservare meglio.
«…e visto che ti ho dato anche una mano con chi-sai-tu», stava dicendo l’uomo, «appena ti sveglierai mi dovrai un favore, quindi ce ne andremo a vedere la partita dei Giants.» Lo vide sfregarsi furbescamente le mani e lui non riuscì a trattenere una risata.
«Sei… un patito di baseball? E da quando?»
«Ehi, ehi, non ridere, ok? Tu non lo sai, ma io giocavo da giovane, ero il miglior lanciatore del liceo. Lo sai come mi chiamavano?!»
Il portiere si avvicinò al bordo e si sedette sul letto. «No, come?»
«Braccio di ferro!»
Yuzo rise più forte. «Braccio di ferro?!»
«Braccio di ferro, sissignore! Non ero niente male» si gongolò l’uomo, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale della sedia. Aggrottò le sopracciglia mentre l’espressione si faceva mesta. «Avrei potuto continuare, ma… ma un giorno, dopo il diploma, tuo nonno mi disse che il tempo dei giochi era finito. Ti ricorda niente?»
Yuzo abbassò lo sguardo. «Quindi… anche tu…»
«A volte, quando ci si sente vittima delle scelte dei propri genitori si pensa sempre: ‘Ah! Non farò mai una cosa simile a mio figlio! Io sarò diverso’. E anch’io lo dissi, tanto tempo fa. Chissà che succede poi quando le situazioni, le frasi, le ingiustizie si ripresentano tal quali. Ci dimentichiamo troppo facilmente di quello che diciamo, dovremmo pensarci di più.» Baiko fece scivolare le braccia, disincrociandole. «Io avevo dimenticato tutto di me e non avevo mai conosciuto te. Un vero spreco…» sollevò lo sguardo con decisione e un sorriso più convinto; gli prese una mano e Yuzo avvertì quel calore familiare di quando era piccolo e, con quelle stesse mani, suo padre lo prendeva in braccio. Aveva sempre avuto un tocco rassicurante.

«Ti prendo! Ti prendo!»

La sabbia sotto i piedi, il sole negli occhi, il mare nelle orecchie. Due braccia che lo afferrano e lo sollevano nel suono di risate che però non era più riuscito a vedere. Ma ora quel viso era riemerso dai ricordi sommersi dalle incomprensioni. Era tornato in superficie, e il suo sorriso era come se non se ne fosse mai andato, una memoria che si sapeva già di avere, annidata da qualche parte troppo in profondità per essere tirata fuori. Il suo sorriso era lì. Lo aveva trovato.
Se stava davvero cercando qualcosa, forse era proprio quello.
«…ma possiamo cambiare tutto! Possiamo recuperare quel tempo che ci siamo negati. Che io ti ho negato! Certo non possiamo tornare indietro, ma possiamo sempre andare avanti e quello che ci siamo lasciati alle spalle ce lo racconteremo perché non vada perduto.» Si sporse verso il suo corpo, sistemando meglio la sedia e prendendogli la mano con entrambe le sue. «Ad esempio, comincio io. Ecco, vediamo, oggi… oggi sono andato al mare, dove ti portavo sempre quando eri piccolo. Te lo ricordi?»
Andare avanti.
Avevano addirittura ripreso a parlare la stessa lingua.
Andare avanti e non tornare indietro.
Andare.
Morire.
Yuzo continuò a sorridere. «Certo che me lo ricordo.»
«Sono andato lì, con la Smith&Wesson. La 15 Special.» Baiko spostò lo sguardo sulle dita immobili di suo figlio, racchiuse tra i suoi palmi. «L’ho smontata interamente e l’ho lanciata dagli scogli. Pezzo per pezzo.»
«Ma papà, era la tua preferita!»
«Lo so che non è molto Natura Friendly, ma… dovevo farlo. Al mare sono legati i ricordi più belli che ho con te… volevo che divorasse anche i peggiori.» L’uomo inspirò a fondo, negli occhi aveva uno sguardo sereno. «Niente più armi in casa. Domani mi disferò anche delle altre, ma prometto di non gettarle a mare, questa volta!»
Yuzo era titubante. Era sempre stato convinto che gli piacessero e che facesse il suo lavoro perché amava farlo, ma forse, alla fine, nemmeno lui conosceva davvero suo padre. E quel pensiero lo sconvolse. Lui, proprio lui che aveva tanto sindacato sui suoi comportamenti, che si era sentito vittima della sua ottusità… era stato ottuso a sua volta.
«Dopotutto, non ne ho più bisogno perché oggi ho lasciato l’azienda.»
«Cosa… hai fatto?!»
Baiko sorrideva e questo lo confuse più di quanto non fosse già.
«Eh, sì. L’ho lasciata a tuo cugino Shunsuke. Ha sempre messo passione in quello che faceva perché amava lavorare lì, io, invece… la vuoi sapere la verità?» si avvicinò, le sopracciglia aggrottate e anche Yuzo si sporse. «L’ho sempre odiata.»
«Eh?!»
«Anche io sono stato costretto a lavorarci, nonostante non lo volessi. La ‘Golden Gun’ è stata la tomba dei miei sogni per anni e anni, lì dentro ho seppellito me stesso, sotto la polvere da sparo e il piombo. Ma… penso che i sogni siano un po’ come le fenici e in fondo al cuore non muoiano mai. Per questo ho deciso di iscrivermi all’università… un’altra volta. Voglio finalmente fare quello che ho sempre desiderato e cioè l’architetto.»
«Davvero?! Volevi fare l’architetto?!» Yuzo se ne scoprì fortemente entusiasta e la sua fantasia corse più veloce del tempo, immaginando l’uomo dietro un grande tecnigrafo a disegnare case, magari proprio in quello studio sempre dominato dalla penombra delle tende pesanti, tirate dietro la scrivania. Avrebbero dovuto toglierle e lasciare che la luce entrasse prepotentemente per illuminare fogli e disegni, squadre, matite. Ridacchiò, sarebbe stato un disordinato cosmico, ne era sicuro, e in quella convinzione sentì gli occhi farsi lucidi e qualcosa graffiare dall’interno del suo cuore di nuovo integro per venire allo scoperto.
«Non lo sapevo… io non ti conoscevo… Parlami ancora un po’ di te, papà…»
Come se l’avesse sentito, Baiko si riscosse. Anche lui era rimasto a osservare suo figlio per alcuni momenti, ma il silenzio che cadeva quando taceva gli pesava come una macigno. Lo schiacciava nemmeno l’avesse avuto sulle spalle. Così, s’animò, lasciando la mano di Yuzo per prendere il lettore mp3.
«Allora, quest’oggi niente lettura. Anche se vorrei davvero sapere se quel Talbot del libro ha un debole per il Primo Tenente.»
Yuzo arrossì fino alla punta delle orecchie. «Oddio, papà, mi stai leggendo Golding?! Ma quel libro è pieno di hint slash!»
«Secondo me, il Primo Tenente ci starebbe!»
«Ossignore, cosa devo sentire.»
«Ma lo scopriremo un’altra volta. Guarda cosa ho portato?» Baiko srotolò il filo delle cuffiette, mettendone una Yuzo che avvertì il contatto al proprio orecchio e le dita di suo padre sulla guancia che lo carezzarono con affetto, come quando era piccolo. Ricordò anche quello. Era meraviglioso. «Ho scelto le canzoni che ho preferito dai tuoi CD. Abbiamo gusti molto simili, lo sapevi? E ce n’era una che volevo ascoltare con te… ho visto che è la tua preferita, l’hai scritta un po’ ovunque. Sui libri, sui quaderni... lo sai che anche io lo facevo? Scarabocchiare sui libri, intendo. Tuo nonno si arrabbiava un sacco per questo.»
«Papà, a parte che entrare nella camera di un figlio diciannovenne è come ritrovarsi in un campo minato, ma ti sei messo anche a spulciare tra i miei libri?» scosse il capo, non era veramente arrabbiato, più che altro divertito. E commosso. Suo padre stava davvero cercando di recuperare il tempo perduto, voleva davvero conoscerlo. E non era l’illusione di un momento passeggero; era sicuro che quello non sarebbe cambiato e che niente sarebbe più tornato indietro. Il dolore avrebbe avuto una fine. Sarebbe passato, come era stato sicuro. Ma si ricordò che lui non ne avrebbe fatto parte, perché era lì solo per dire addio e dopo sarebbe scomparso, lasciando le illusioni a loro, questa volta.
Baiko fece partire la musica, prendendogli nuovamente la mano, e le note della canzone arrivarono all’orecchio di Yuzo, che poggiò interamente la mano sulle sue. Il cuore, fermo nello stomaco, continuava ad avere qualcosa che lo graffiava, che voleva uscire. Si sarebbe spezzato di nuovo.
«Oh, sì… questa la adoro…» mormorò.
Aveva preso la scelta sbagliata?
«E’ anche la mia preferita» confessò l’uomo e si mise a canticchiarla.
Fuori dalla stanza, Mamoru era rimasto a osservare il lungo monologo portato avanti dal padre di Yuzo. Come sapevano cambiare le cose, in maniera così profonda da stravolgere un’intera esistenza. Le vite delle persone erano tutte collegate, come una fragile catena. Bastava rompere un anello e tanti altri avrebbero potuto rompersi di riflesso, per le semplici vibrazioni. La loro catena aveva un anello spezzato, ma non ancora rotto del tutto, mentre loro… loro erano in bilico: se Yuzo fosse morto, si sarebbero frantumati con lui.
«Mamoru?»
Il giocatore dei Marinos si volse, notando la figura della signora Haruko. Le fece un inchino. «Buonasera.»
La donna appariva stanca, eppure lesse serenità nei suoi occhi.
«Ero sicura fossi tu. Sei appena tornato?»
«Sì, poco fa, e sono passato a trovarlo. » Il giovane sbuffò un sorriso, tornando a guardare oltre il vetro. «Abbiamo avuto tutti la stessa idea.»
Anche Haruko si volse e non nascose la sorpresa, non tanto per la presenza di suo marito – sapeva che l’avrebbe trovato ancora lì – quanto per tutto il resto.
«Ma che sta… facendo?»
Il sorriso di Mamoru si allargò. «Gli sta cantando una canzone, l’avrebbe mai detto?»
«No…», gli occhi della donna si inumidirono per l’emozione, «…no, non l’avrei mai detto.»
Ma le cose, ormai, non erano più come prima, inutile negarlo, però era una sensazione piacevole. La stessa che l’aveva condotta all’ospedale, quella sera. Quando quel pomeriggio Baiko l’aveva raggiunta a casa e le aveva dato quel fascio di gigli non aveva sentito nessun sentimento astioso. Sorpresa, tanta, e incertezza. E voglia di tornare di nuovo uniti, tutti e tre, insieme. Il rancore era morto, soffocato da qualcosa di molto più forte: l’amore per la sua famiglia.
«We passed upon the stairs, we spoke of was and when. Although I wasn’t there, he said I was his friend. Which came as some surprise, I spoke into his eyes: ‘I thought you died alone, a long long time ago…’»
Si misero a canticchiare entrambi, sembravano una coppia di vecchi amici che non si vedevano da tempo e avevano un sacco da raccontarsi.
«Oh, no. Not me. I never lost control. You’re face to face with the man who sold the world.»
Avevano tanto da ricordare e condividere, ancora. Perché non l’avevano mai fatto prima? Perché non avevano mai cercato di parlare o ascoltare. A muso duro avevano sempre portato avanti le proprie convinzioni, con una testardaggine che li rendeva davvero padre e figlio.
Yuzo era stato disposto ad andarsene via di casa per non tornare più.
Baiko aveva confuso autorità con tirannide.
Senz’armi, s’erano già uccisi a vicenda nello sciogliersi del tempo.
In quei versi trovarono così tanto di loro che si sentirono come se qualcuno avesse sventrato i loro toraci per cavarne i cuori. C’era sangue dappertutto e il loro sangue era lo stesso, stessa radice, stessa origine.
«I laughed and shoock his hand, and made my way back home. I searched for form and land, for years and years I roamed. I gazed a gazely stare at all the millions here. We must have died alone, a long long time ago…»
La voce di Baiko si incrinò e si fece più incerta nel realizzare che suo figlio sarebbe potuto restare lì, immobile e silenzioso, con gli occhi chiusi per anni interi, che non avrebbe potuto rimediare a tutti i suoi errori né avrebbero potuto recuperare il tempo perso, e imparare a conoscersi per quello che erano. Non avrebbe mai potuto chiedergli scusa. Non avrebbe mai potuto vederlo giocare. Non avrebbe mai potuto vederlo sorridere, parlare delle stupide ‘cose da uomini’ o qualsiasi altra cretinata che un padre avrebbe potuto fare con un figlio.
Non avrebbe potuto dirgli quanto era orgoglioso di lui.
Aveva sempre forzato sé stesso a non pensarci, a credere che non fosse mai troppo tardi, a infondere sicurezza ad Haruko, ma ora, quella stessa sicurezza, la sentiva camminare su gambe malferme. Lo sconforto aveva trovato un modo per fare breccia dentro la sua corazza, e tirarlo a fondo.
«Who knows? Not me. We never lost control. You’re face to face with the man who sold the world.(1)»
Strinse la sua mano con forza, negli occhi la disperazione rifluì come un’onda di burrasca, divorandone serenità e sgretolando tutta la forza d’animo. La bocca assunse una piega sofferente sul finire della musica che, straziante, suonava ancora nelle cuffiette.
«Mi dispiace…» Ricurvo su quelle dita chiuse nelle sue mani, pianse come se non gli fosse rimasto nient’altro che quello: lacrime. «Mi dispiace, Yuzo, mi dispiace! Perdonami, sono stato cieco e sordo! Un fottuto mulo! Torna indietro… dammi un’altra possibilità… una sola…»
«Anche a me… anche a me dispiace da morire.» Il portiere appoggiò il viso nella sua spalla. Adesso sì, sarebbe potuto morire all’istante. Lo sentiva. Il cuore annientato, squarciato da quella sensazione graffiante che aveva continuato a grattarlo dall'interno. Si scuoiava e mutava la pelle, per permettere alla consapevolezza di ciò che aveva sempre cercato di uscire fuori e fargli capire di averlo proprio lì, contro il suo spirito. Era suo padre. L’aveva cercato così tanto da dimenticarsene, persi entrambi dietro parole che non avevano più senso, persi dietro la testardaggine, dietro il non sapersi ascoltare. Pianse talmente forte che era convinto che stavolta l’avrebbero udito. «Ho fatto una cosa orribile che un figlio non dovrebbe mai fare! Sono arrivato anche a desiderare che sparissi! Mi dispiace, papà!»
Avrebbe voluto abbracciarlo stretto, dirgli che gli era mancato in tutti quegli anni e che… che avevano tutto il tempo del mondo per recuperare, ma il suo tempo stava finendo. Era una certezza terribile che sentiva in ogni parte dello spirito, talmente stanco da essere divenuto pesante come pietra.
- Così, alla fine sei riuscito a trovarlo. -
Era la voce di Mamoru pur senza esserla. Yuzo sollevò il viso, scorgendo la figura familiare della creatura senza nome che gli era rimasta accanto fin dall’inizio. Sorrideva, tenendo le mani nelle tasche.
- Come ti dissi, le cose perdute si trovano sempre, basta solo saperle cercare. -
Era venuto a prenderlo, ne era certo, e d’improvviso capì che non voleva andarsene, che non voleva lasciare la sua famiglia e Mamoru, la sua vita. Voleva tornare indietro per andare avanti.
«Io… io…»
La creatura sorrise ancora, e in quegli occhi neri c’era un calore così forte che se ne sentì avvolgere, interamente, come un abbraccio protettivo.
- E’ il momento di svegliarsi, lucciola. Vivi il tuo tempo senza avere paura. -
Yuzo spalancò gli occhi, alzandosi in piedi; fece per raggiungerlo, ma lo spazio della stanza sembrò dilatarsi all’infinito e la figura nota e sconosciuta al contempo farsi lontana. Il portiere allungò una mano verso di lui.
«Ma io… io non ti ho… non ti ho…»
…ringraziato.
La frase morì nel nero che sciolse i colori e le immagini, negli occhi che si chiudevano, nel corpo che cadeva verso un suolo invisibile, nella leggerezza che lo spinse in alto come nel ventre del mare.
E la superficie aveva frammenti di luce che smerigliavano il mondo.

«Ti prego… ti prego…»
La voce di Baiko era un filo sottile. Non aveva mai supplicato nessuno, ma se gli avesse permesso di riavere suo figlio, si sarebbe messo anche in ginocchio. Non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui, non sarebbe mai riuscito a superare lo strazio interiore. Era proprio vero: l’importanza delle persone si riconosceva nel momento in cui si rischiava di vedersele strappate di mano, per questo continuava a stringere quella di Yuzo con tutta la forza che aveva, per impedire che gli sfuggisse via.
«…’iants…»
Baiko sussultò. La sua schiena venne percorsa da un brivido che gli fece alzare la testa di scatto e strozzare il respiro.
Due occhi nocciola, lì, davanti a lui, lo stavano guardando.
«…’iants… i… Giants… quando… li… vediamo?» Yuzo lo guardava, gli stava parlando, anche se con estrema fatica, trascinando le parole. «…però… vieni… allo… stadio…»
Yuzo gli stava sorridendo.
Yuzo era sveglio.
E lo aveva ascoltato.
Baiko ingoiò le lacrime, deformando le labbra nel sorriso peggiore e più vero di tutta la sua vita.
«Ma certo! Certo che ci andiamo! È ovvio! E faremo… faremo il tifo sfegatato! Peggio degli ultrà!»
«Non… montarti la… testa… Braccio… di ferro…» Yuzo gorgogliò una risata, prendendolo in giro, e Baiko rise con lui, e pianse ancora, senza riuscire a fermarsi.
«Yuzo!» Haruko apparve dal nulla, spalancando la porta della stanza. Quasi correndo, la donna raggiunse entrambi  e si appoggiò alla spalla di Baiko per cercare sostegno perché sentiva il proprio corpo nelle mani dell’adrenalina; era acido, scioglieva la tensione, scioglieva ogni cosa e le faceva credere d’esser fatta di gelatina. Il miracolo che aveva atteso per giorni, con costanza e pazienza, era proprio davanti ai suoi occhi.
«…mamma…»
La donna lo accarezzò subito e per lui fu così bello riuscire a sentire di nuovo il suo tocco affettuoso sul viso, così familiare; un ricordo che sarebbe sempre rimasto con lui, come traccia indelebile nel suo cervello e nel suo corpo.
«Ciao… ciao, tesoro. Tesoro mio…» Yuzo la vide asciugarsi gli occhi alla meglio e poi rivolgersi a suo padre. «Vado a chiamare le infermiere.»
Attese che avesse lasciato la stanza prima di attirarsi l’attenzione di Baiko. Nella testa si rincorreva l’eco delle parole ovattate che l’avevano raggiunto e la musica e la certezza che lui era lì, vicino, e non gli avrebbe più voltato le spalle.
«…papà…»
«Mi dispiace! Mi sono comportato male, non ti ho mai ascoltato e ho solo preteso. Ma ti prometto che cambierò, devi credermi! Sono stato un pessimo padre, io-»
«…non sei… pessimo… no… ti ho… mai detto… che… ti voglio… bene?»
Baiko strozzò in gola tutte le parole che avrebbe voluto dirgli in quel momento, parole di scuse e autoaccuse, ma le lacrime erano molto più forti della sua volontà di trattenerle. Abbracciò suo figlio e diede libero sfogo alle ansie e alle paure accumulate in quei giorni, alle attese interminabili e al senso di colpa.
«Temevo d’averti perduto!» disse, mentre Yuzo sorrideva e pensava che suo padre era sempre stato un uomo che si sarebbe fatto ammazzare prima di piangere davanti a qualcuno. Ma ora sapeva farlo senza provarne vergogna. Ebbe la strana sicurezza che fosse profondamente cambiato e l’uomo di ferro che era stato un tempo non sarebbe più tornato a tormentare le loro vite. A fatica, riuscì a sollevare una mano per poterlo toccare.
«Le cose… perdute… si trovano… basta solo… saperle cercare… E noi… noi ci siamo trovati.»
Continuò a sorridere, mentre la memoria di ciò che aveva vissuto diveniva sempre più labile e lontana. Nemmeno ricordò più chi gliele avesse pronunciate, quelle parole. Ma doveva essere stato qualcuno di speciale.
Lentamente girò il capo e le sue iridi trovarono Mamoru, oltre il vetro, con le mani appoggiate sulla superficie, gli occhi spalancati e rossi: non sapeva se ridere di gioia o piangere per lo stesso motivo.
Lui agitò piano una mano, in segno di saluto e l’altro fece lo stesso. Nel suo sguardo lesse qualcosa che non riuscì a comprendere e le lacrime gli apparvero come parole sconosciute. Osservandole tracciare scie lucide lungo le guance, Yuzo comprese che avrebbe dovuto parlargli. Parlargli a ogni costo, perché il tempo non aspettava nessuno e fintanto che avesse continuato a camminare su quella Terra, avrebbe dovuto dire a Mamoru che avrebbe voluto lui al suo fianco, e nessun altro, per trovare la giusta strada nel rumore dei suoi passi.

 

*§*§*

 

Nell’aria anche quell’estate c’era odore di gigli e bucato appena steso.
Le cicale cantavano aggrappate a un tronco non troppo lontano e quasi coprivano il tinnire del ghiaccio nel bicchiere.
Sventolare di lenzuola candide su fili di ferro e fuggire di note musicali dalla vetrata aperta del terrazzo che portava in giardino. Tracciavano una scia sonora che arrivava in ogni angolo della casa. Più smorzata, accarezzava la lavatrice silenziosa e i coltelli da cucina a riposo. Scivolava sulla superficie liscia del tecnigrafo posto accanto alla vetrata dello studio e attorno alla cornice di uno scatto, appeso sulla cappa del camino, in cui era immortalata la Facciata della Natività della Sagrada Família; sulla scrivania, accanto a un castello di sabbia, un’altra foto ritraeva i tre sorridenti turisti con l’immensa basilica alle spalle.
E la musica non aveva confini, arrivava ovunque. Si sedeva su scarpe da ginnastica parcheggiate all’ingresso e poi saliva le scale, infilandosi sotto le porte per uscire dalle finestre; le ali di legno di un aeroplano divennero il giusto trampolino. Dal salotto, le note nascevano da un vecchio stereo, reperto di modernariato come la bici parcheggiata nel giardino; sul piatto, il disco continuava a girare sotto lo sguardo vigile dei Suruga no Tou-chan, nella loro divisa nera e arancione, che sorridevano fieri tra mazze da baseball e guantoni. In mezzo a loro, la coppa del secondo posto conquistata al Campionato Dilettantistico Senior e negli occhi la sicurezza di chi, l’anno dopo, avrebbe raggiunto il gradino più alto del podio.
«E con questo, ho finito!»
Baiko sbatté letteralmente il libro di Fisica sul tavolo da giardino, facendo tremare tutti gli altri oggetti presenti sullo stesso, compreso il bicchiere.
«Maledetta fisica! Non l’ho mai sopportata, nemmeno quando ero al liceo!»
«Papà, smettila di lamentarti, ricorda che non diventerai architetto se non passi quest’esame.» Yuzo era uscito in giardino con il borsone caricato sulla spalla. L’uomo arricciò le labbra, mettendo il broncio.
«Lo so anch’io.» Poi si girò verso Haruko che stava finendo di stendere il bucato. «Hai sentito? Mi fa la predica! A me! Che sono suo padre! Non c’è più religione a questo mondo.»
«Te la fa perché ti lamenti troppo, caro.»
L’uomo si trovò due contro uno e abbandonò la contesa, con uno sbuffo. «Giocate sleale.»
«Avresti dovuto scegliere l’università per la terza età» scherzò Haruko, nascondendo la risata nella mano.
«Ehi! Sono ancora nella seconda!»
Yuzo non si premurò di mantenere un certo contegno e rise apertamente, quando il suonare d’un clacson attirò la sua attenzione.
«E’ arrivato Mamoru!» Corse a dare un bacio affettuoso a sua madre e una pacca sulla spalla del padre che ricambiò con un colpetto leggero sulla mano. «Ci vediamo tra due giorni a Shimizu-ku, allora. Non dimenticate che la partita è alle sette.»
«E tu non scordarti che abbiamo l’aereo alle dieci di Venerdì mattina!»
«E chi se lo scorda, papà?!» ridacchiò Yuzo prima di scomparire dietro il muro di casa per raggiungere Mamoru che lo aspettava davanti al cancello della villetta.
Rimasti soli, Baiko distese le gambe e reclinò il capo all’indietro; le braccia penzolavano fuori dalla sedia e gli occhi godevano del cielo infinito.
«Yakitori e oyako donburi(2)
«Cosa, tesoro?»
«Yakitori e oyako donburi, per stasera, che ne pensi?»
«D’accordo. Ricorda che abbiamo gli Izawa a cena.»
«Proprio per quello l’ho proposto.»
Haruko assottigliò lo sguardo in un’espressione furba mentre stendeva gli asciugamani. «Cucini tu, vero?»
Lui rise e lentamente assunse una postura più composta, prima di alzarsi. «Sissignora.»
Sotto la supervisione di sua moglie, era diventato un cuoco provetto, ma non aveva mai abbassato la guardia contro gli affilatissimi coltelli.
Baiko si mosse per rientrare in casa e andare a ispezionare la cucina per verificare che avesse tutti gli ingredienti, quando il disco passò alla canzone successiva, distogliendolo dai suoi propositi.
Agilmente, l’uomo raggiunse lo stereo e girò al massimo la manopola del volume. Le note di Space Oddity riempirono non solo l’interno della casa, ma volarono fuori, librandosi nell’infinità dello spazio.
Haruko lasciò perdere il bucato ancora da stendere e corse per andare ad abbassare.
«Ehi, che fai? I vicini-»
«Lascia che si lamentino.» Baiko la prese per un polso e l’attirò a sé. Pur senza luci colorate, l’intera stanza era divenuta una sala da ballo. «Dovrebbero ringraziarmi», le sussurrò all’orecchio, «almeno gli faccio sentire un po’ di musica come si deve.»
Lei ridacchiò, nascondendo il viso nella sua spalla. «Che dispettoso.»
«Non ho ragione, forse?» Baiko la fece piroettare nello scorrere delle note e poi la strinse di nuovo. Haruko sospirò d’estasi, lasciandosi condurre. «Di’, te la ricordi questa?»
«La festa scolastica. Eravamo due ragazzini allora.»
«Dovrei portarti a ballare, è da parecchio che non lo faccio.»
«A quest’età? Non siamo un po’ troppo vecchi?»
«Affatto, chi l’ha detto? Ho letto che la vera vita comincia a cinquant’anni.»
«Oh, quindi noi siamo giovani?»
«Giovanissimi, signora Morisaki.»
E la musica andava, mentre i visi immortalati nelle foto proteggevano, sorridenti, il loro bacio senza tempo che sapeva toccare le stelle.

 

“Though I'm past /
Nonostante sia lontano
one hundred thousand miles /
centinaia di migliaia di miglia,
I'm feeling very still /
mi sento molto tranquillo
and I think my spaceship knows which way to go /
e penso che la mia astronave sappia quale sia la via da prendere.
Tell my wife I love her very much /
Dite a mia moglie che l’amo tanto,
she knows /
lei lo sa.

David BowieSpace Oddity

 

«Allora, quando partite?»
Yuzo stiracchiò le braccia in avanti, fino a tamburellare il cruscotto con le dita.
«Il prossimo week-end. Papà non sta più nella pelle e nemmeno io» ruotò la testa fino a catturare il profilo di Mamoru. «Starò via tre giorni, vedi di fare il bravo.» Gli venne da ridere per il modo in cui il ragazzo mise il broncio.
«Tsk. Io sono bravissimo, che credi?»
«Mh, sarà. Penso che dovrò affidarmi alla supervisione di Hajime e Teppei.»
Il terzino tentò di spettinargli i capelli, ma lui si difese continuando a sghignazzare.
«Piantala, scemo!»
Yuzo gli concesse una tregua. «Perché non sei voluto venire? Papà si era già gasato all’idea di poterti istruire sulla ‘musica come si deve’
«Davvero?! Mi dispiace di aver infranto i suoi sogni di gloria, ma non mi sarei mai permesso di intromettermi tra voi e il concerto di David Bowie.»
«Ma quale intrometterti? Non essere ridicolo!»
Mamoru si volse a guardarlo per un attimo, prima di tornare a fissare la strada che li portava sempre più lontani da Nankatsu.
«Lo sai quello che voglio dire» affermò, camuffando la serietà con il sorriso, e lui non rispose perché, sì, in cuor suo aveva capito.
Con lo sguardo rivolto al finestrino, Yuzo ripensò a ogni momento di quell’anno appena trascorso, avvertendo quasi la sensazione che la sua vita fosse ripartita da zero nell’istante in cui aveva riaperto gli occhi. Ma certe cose si era obbligato a non dimenticarle mai, come monito per il futuro in cui non avrebbe più commesso gli stessi errori.
Ripensò alla realtà stravolta che si era trovato davanti e a come aveva finalmente cominciato a conoscere suo padre e a farsi conoscere da lui. Avevano parlato e continuavano a parlare di tutto. Certo, non sempre condividevano lo stesso punto di vista, ma era fantastico sapere di poter contare sulla sua presenza e i suoi consigli. In nessun momento di quel ritrovarsi si erano più sentiti degli estranei.
Ripensò alla visita, pochi giorni dopo il suo risveglio, che aveva ricevuto da parte del signor Tamura e del signor Inoki. In quell’occasione, oltre a svelargli la sua vera identità di Presidente della Shimizu S-Pulse, l’uomo gli aveva anche consegnato la nuova divisa.
«Perché la nostra famiglia ti sta aspettando» gli aveva sorriso il Presidente.
Ripensò alla riabilitazione, all’impegno messo ogni singolo giorno e alla gioia immensa che aveva provato nel rimettere, finalmente, piede in campo. Dalla sua prima partita in J-League, i suoi genitori non mancavano mai, nemmeno quando giocava in trasferta.
Ripensò alla presenza di Mamoru che, come in quel momento, era sempre rimasta al suo fianco; ripensò alla sua assurda dichiarazione e al fatto che fosse stato proprio suo padre a dirgli di darsi una mossa.
Yuzo inspirò adagio, trattenendo un risolino.
«Ti va se ci fermiamo al mare?»
«Al mare?»
«Sì.»
«Ok» il terzino acconsentì, carezzandogli una tempia dove i capelli, portati più lunghi, coprivano i segni d’un incubo lontano.
Nel sentire le sue dita, Yuzo si volse rispondendo con calore al suo sorriso.
L’autostrada infilzava tremolante l’orizzonte. Stranamente sgombra a quell’ora, era un lungo serpente rettilineo che si crogiolava al sole calante. Non c’era più la calura asfissiante, ma l’asfalto sembrava ugualmente bruciare, mentre assumeva la sfumatura arancione del meriggio.
Raggiunsero senza difficoltà la zona di Suruga, e Yuzo guidò Mamoru verso quella vecchia spiaggia che sarebbe rimasta indelebile nel suo cuore, prima che nella testa.
Parcheggiarono in uno dei tanti posteggi liberi che il sole volgeva lento verso Ovest.
Yuzo inspirò a fondo l’odore di salsedine trasportato dal vento e si liberò delle scarpe, una volta sceso dalla macchina, affondando i piedi nella sabbia morbidissima e tiepida. Sorrise a quella sensazione di piacevole e ruvido sprofondare. I granelli scorrevano tra le dita, sul dorso e sotto la pianta. Alcuni gli facevano il solletico.
Camminando lentamente, si fermò a pochi metri dal bagnasciuga e sollevò lo sguardo alle onde che scivolavano sulla battigia e poi si ritraevano, timide, all’interno della massa liquida e compatta. Quel fruscio era ipnotico e malinconico, familiare, ma non sapeva spiegarsi in che misura lo fosse.
Due braccia gli cinsero la vita e un mento s’appoggiò sulla sua spalla. Una scia di capelli neri entrò nel campo visivo della coda dell’occhio. Nonostante il caldo, la presenza di Mamoru contro di lui era fresca.
«A cosa pensi?»
«Al tempo.»
«Ehi, siamo filosofici.»
«Oggi è un anno.»
Mamoru non rispose subito, ma si limitò a stringerlo di più.
«Ti ho odiato.»
Yuzo rise. «Lo so. Me lo hai già detto» assieme a una infinita sequela di insulti che ancora ricordava.
«Ribadisco il concetto, così non lo dimentichi.»
«Non lo dimenticherò» accondiscese, poi si volse per incrociare il suo profilo puntato verso il mare. «Non ricordo praticamente nulla di quello che è accaduto mentre ero in coma, però di una cosa sono sicuro…» Mamoru lo guardò. «…sei sempre rimasto con me.»
Era l’unica certezza che sentiva di avere. Davvero, del suo lungo sonno aveva rimosso ogni memoria, quasi non avesse mai chiuso gli occhi, a parte un’unica e intensa sensazione: non era stato da solo. Per tutto il tempo, qualcuno gli era rimasto accanto, in quello stallo spaziotemporale che doveva esistere tra la vita e  la morte. Una presenza rassicurante e familiare, amata. E l’unica persona che riusciva a dargli tali sensazioni lo stava abbracciando proprio in quel momento, respirando contro il suo viso.
Mamoru sorrise, mettendo a nudo i denti bianchi. «Davvero?»
«Sì.»
«Allora siamo destinati, mh?» gli sfregò il naso contro la guancia e Yuzo rise.
«Direi proprio di sì!»
«Ti amo.»
La serietà del tono lo colpì, ma lo stupore divenne sorriso, perché Mamoru non sapeva quanto ancora lo emozionasse sentirglielo dire. Gli ricordava, ogni istante, il perché fosse felice di essere vivo.
«Anch’io.»
La brezza portò l’odore dolce del mare e lui ne abbracciò la vastità infinita con lo sguardo.
La sabbia correva, scomparendo sotto la spuma candida delle piccole onde, e gli venne nuovamente da ridere mentre, chissà perché, d’improvviso una strana associazione di idee lo fece sentire acqua e non un granello di sabbia solitario nella triste moltitudine. Non seppe spiegarsi il motivo di quel pensiero, ma lo percepì come la più meravigliosa delle certezze.
Con un gesto deciso si liberò dalla stretta di Mamoru per correre verso il mare.
«Qualcosa non va?» domandò il giovane, ma la risposta del portiere fu una risata. Il terzino inarcò un sopracciglio, allargando le braccia. «Yuzo?!»
«Sei ancora lì?» senza fermasi, l’interpellato si sfilò la maglia, lasciandola nella sabbia. «Sei lento, Izawa!»
«Cosa?! Lento io?!» protestò Mamoru tra l’interdetto e il divertito. Non riusciva a capire cosa diamine gli fosse preso, ma dopotutto non era importante; ciò che contava, per lui, era poterlo avere lì, felice, e vivo. Il resto era spuma sulla cresta delle onde.
La sabbia accolse anche la sua t-shirt e nell’aria disperse quel: «Maledizione, sono pazzo di te!», prima di tuffarsi.
I capelli neri dispersero gocce di cristallo nel tramonto e le braccia afferrarono l’amato tirandolo a fondo per poi riemergere insieme, ridere senza ritegno e senso e tornare a giocare, tra baci e vento, tra spruzzi e sale. E l’acqua era il cuore delle loro risate, le onde la voce e loro una parte indivisibile del tutto.
Poco lontana, una lucciola restava ferma su un castello di sabbia abbandonato; aspettava la morte del sole per illuminare la sera.

“I, I will be King/
Io, io sarò Re
and you, you will be Queen/
e tu, tu sarai Regina.
Though nothing will drive them away /
Sebbene nulla li porterà via,
we can beat them, just for one day /
possiamo batterli, solo per un giorno.
We can be Heroes, just for one day /
Noi possiamo essere eroi, solo per un giorno.

And you, you can be mean /
E tu, tu puoi essere mediocre
and I, I'll drink all the time/

e io, io berrò tutto il tempo
'Cause we're lovers, and that is a fact/
Perché siamo amanti, e questo è un fatto
Yes we're lovers, and that is that/
Sì, siamo amanti, ed è così

Though nothing, will keep us together /

Sebbene nulla ci terrà insieme,
we could steal time /
possiamo rubare il tempo
just for one day/

solo per un giorno.
We can be Heroes, forever and ever/
Possiamo essere Eroi sempre e per sempre.
What d'you say?/
Che ne dici?

I, I wish you could swim/

Io, io desidero che tu possa nuotare,
like the dolphins, like dolphins can swim/
come i delfini, come nuotano i delfini.
Though nothing /
Sebbene niente,
nothing will keep us together /
niente potrà tenerci insieme,
we can beat them, forever and ever /
possiamo batterli, per sempre e ancora.
Oh, we can be Heroes/
Oh, possiamo essere Eroi,
just for one day/
solo per un giorno.

I, I will be King /

Io, io sarò Re
and you, you will be Queen /
E tu, tu sarai Regina.
Though nothing will drive them away /
Sebbene niente li porterà via,
we can be Heroes, just for one day /
noi possiamo essere Eroi, solo per un giorno.
We can be us, just for one day /
Noi possiamo essere noi, solo per un giorno.

I, I can remember (I remember) /
Io, io posso ricordare (ricordo).
Standing, by the wall (by the wall) /
In piedi, presso il Muro (presso il Muro).
And the guns shot above our heads (over our heads) /
E le pistole sparavano sopra le nostre teste
And we kissed /
E ci baciammo
as though nothing could fall (nothing could fall) /
come se nulla potesse accadere (come se nulla potesse accadere).
And the shame was on the other side /
E la vergogna era dall’altra parte.
Oh we can beat them, forever and ever /
Oh, noi possiamo batterli, per sempre e ancora.
Then we could be Heroes /
Allora potremmo essere Eroi
just for one day /
solo per un giorno.

We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.
Just for one day /
Solo per un giorno.
We can be Heroes /
Possiamo essere Eroi.

We're nothing, and nothing will help us /

Siamo niente e niente potrà aiutarci
Maybe we're lying /

Forse stiamo mentendo
then you better not stay /
e allora sarebbe meglio che non restassi,
but we could be safer /
ma potremmo essere al sicuro
just for one day /
solo per un giorno.

Oh-oh-oh-ohh, oh-oh-oh-ohh,
just for one day /

solo per un giorno.

David BowieHeroes


[1]: “Passammo sulle scale, parlammo del più e del meno. Nonostante non fossi lì, lui disse che ero suo amico, il che mi sorprese. Parlai ai suoi occhi: ‘Pensavo fossi morto solo, molto molto tempo fa.’ / ‘Oh, no. Non io. Non ho mai perso il controllo. Sei di fronte all’Uomo che vendette il Mondo’ / Io risi e gli strinsi la mano, e tornai a casa. Ho cercato una forma e una terra, per anni e anni ho vagato. / Fissai con intensità tutti i milioni che sono qui. Dobbiamo essere morti da soli, molto molto tempo fa. / Chi lo sa? Non io. Non ho mai perso il controllo. Sei di fronte all’Uomo che vendette il Mondo.”

[2]YAKITORI – OYAKO DONBURI: sono due pietanze della cucina giapponese. Gli Yakitori sono spiedini di pollo, mentre lo oyako donburi è composto da riso, pollo e uova, cipolle verdi e salsa. *-* fanno venire l’acquolina. (XD ho scelto lo oyaku donburi perché… XD perché ho letto che significa letteralmente ‘genitori e figli’ LOL!)


 

Fine


Curiosità:

- Per il personaggio di Baiko mi sono ispirata a un attore giapponese. Non tanto per l’aspetto in sé, quanto per l’aria di autorità che emana. E, sì, anche per l’età XD.
L’attore è Masaya Kato. (*clicca qui*) :3

- In merito alla figura sconosciuta che fa compagnia a Yuzo durante il suo sonno, chi ha letto in particolare una mia storia originale forse potrà farsi un’idea su chi possa essere davvero. :3
Per tutti gli altri… lasciate libera la vostra fantasia! X3

- “Suruga no Tou-chan” significa “i Paparini di Suruga” X3


 

Le canzone del capitolo:

- Grace (Simon Webbe): XD va beh, non s’era capito che mi piace Webbe, eh? LOL. “Grace” è una gran bella canzone, come tutte quelle dell’album omonimo e, come sempre nello stile di questo Bluette,: c’è una sorta di rivalsa, risalita, nelle sue canzoni, di rivincita e rinascita. Di ‘tutto andrà bene’. :3 è bella.

- The man who sold the world (David Bowie): La Amo. Punto. E’ la mia canzone preferita di Bowie. L’ho conosciuta come cover fatta dai Nirvana (*clicca qui*) e per quanto Kurt Cobain resterà sempre Kurt Cobain, nessuno potrà eguagliare la versione originale di questa canzone, cantata da Bowie (altre cover degne di nota sono quella di Midge Ure – che secondo me è la migliore: *clicca qui* - e quella di Lulu - *clicca qui*). E’ come se assumesse un significato totalmente differente e io la apprezzo di più quando è la voce del Duca Bianco a darle vita (versione originale: *clicca qui*).
E’ stata la canzone che volevo utilizzare fin dall’inizio, che mi ha ispirato in un sacco di momenti durante la stesura e che, quando la ascoltavo e pensavo al dialogo surreale tra Yuzo e Baiko, mi ha commosso in maniera profonda. Quando poi ho cercato informazioni sulla canzone stessa, mi sono trovata davanti a un’intervista fatta a Bowie, in cui gli chiedevano proprio di “The man who sold the world”. La risposta del Duca fu: “Quel brano ha sempre esemplificato per me come ci si sente quando si è giovani e quando c'è un pezzo di te stesso che non hai ancora sistemato. Hai questa grande ricerca, questo grande bisogno di scoprire chi sei davvero” (fonte: www.velvetgoldmine.it).
:D Più di così, cos’altro chiedere? E’ perfetta.

- Space Oddity (David Bowie): ri-citarla mi sembrava d’obbligo! X3

- Heroes (David Bowie): sono stata molto combattuta se inserirla o meno. Forse il testo non è azzeccatissimo nella sua totalità, ma la sentivo incredibilmente adatta a livello di musica per chiudere la storia. E poi… Bowie è Bowie, è come il nero: sta bene con tutto XD



Note Finali:

E’ finita.
E pensare che è venuta più lunga di quanto avessi preventivato.
E’ stato un lavoro lungo e laborioso, molto complesso a livello di stesura, molto snervante, ma anche appagante, da un certo punto di vista. Forse mi ha un po’ fatta uscire di testa, ma son contenta di averla scritta. :3
Arrivata alla fine, come sempre, vorrei ringraziare tutte le persone che hanno seguito questa storia, che si sono sentiti affini ai personaggi e hanno trovato, nelle loro debolezze e forza, un po’ di sé stessi.
Ringrazio chi ha deciso di recensire (Sissi149 – Ti giuro! Elementia da Settembre! Giuro! Croce sul cuore! XD –, Hellister, Rubysage, Releuse e Sveva90 su EFP; Wywh e Kara - ripeto anche a te: Elementia da Settembre! XD - su ELF) e ringrazio preventivamente chi deciderà di farlo in futuro.
Ringrazio chi ha messo questa storia tra le preferite e chi ha preferito rimanere un lettore ninja (non mordooooo, lo giuro ç_ç, non dovete aver paura di me! Io sono come Baiko: abbaio, ma ho il cuore puccio *-*). X3
Spero di ritrovarvi ancora alla prossima storia. :D

Il Re è morto.
Viva il Re.

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