Choose - I will live my life

di TittaH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter one ***
Capitolo 2: *** Chapter two ***
Capitolo 3: *** Chapter three ***
Capitolo 4: *** Chapter four ***
Capitolo 5: *** Chapter five ***
Capitolo 6: *** Chapter six ***



Capitolo 1
*** Chapter one ***


 Chapter one
 
 
 
Inscatolare la propria vita fa sempre un certo effetto.
Con l’aiuto di mia mamma sto buttando via quello che non serve e riempiendo borse e zaini di cd, dvd, libri e peluches.
Ho più bisogno di tutto ciò che di vestiti o cibo.
Cambiare vita è sempre stato il mio sogno, sin da bambina; sognavo l’America, volevo andare a New York ed esaudire i miei desideri che in Italia non avrebbero mai preso forma.
Mentre mi rigiro tra le mani la targa da collezione che riporta la Statua della Libertà e il numero di targa delle auto più antiche, non mi accorgo di urtare la pila di diari segreti in cui c’è tutta la mia infanzia e parte della mia adolescenza.
Uno cade e si apre e, non so se è il fato o pura casualità, davanti ai miei occhi compare una vecchia pagina ingiallita che riporta la scritta: ‘Live your dreams, no matter what!
Avevo diciassette anni quando l’ho scritto e mi rendo conto di come il tempo è cambiato, di come sono cresciuta e cosa sono diventata.
Ho venticinque anni adesso, mi sono laureata in Lingue e Letterature straniere col massimo dei voti, ho vinto alcuni premi per delle poesie che ho scritto e ho frequentato corsi di fotografia, la mia passione dopo la musica.
La musica, la mia migliore amica, la mia compagna di viaggi, la mia religione, il mio tutto.
Non avrei mai preso il coraggio di andare dalla mia famiglia e dire ‘Vado in America!’ se non ci fosse stata Lei; il mio sogno, infatti, è quello di andare nella Grande Mela e diventare l’assistente di qualche rock band sfrenata che mi faccia impazzire, ma che mi faccia sentire realizzata, che mi faccia capire che non ho perso anni a studiare per nulla.
Persa nei miei pensieri, non mi accorgo che mia madre mi sta chiamando già da un bel pezzo.
“Dimmi.” le rispondo, finalmente.
Lei mi guarda, apprensiva e con gli occhi pieni di commozione, e dice: “Sei cresciuta troppo velocemente e mi dispiace che l’unica figlia femmina che ho debba andar via e così lontano poi! Ma non intralcerò la tua strada, anzi, ti auguro tutto il meglio e voglio che ti senta soddisfatta della tua nuova vita.”
Non ci abbracciamo ora, non ci guardiamo neanche in faccia perché sappiamo entrambe che non andrei mai più via di qui se solo vedessi le lacrime sul suo viso.
Finiamo di sistemare la mia valigia, piena zeppa di vestiti per ogni stagione ed occasione, e ci dirigiamo in cucina, dove mi aspettano tutti.
Prima di chiudere la porta della mia camera la osservo e la trovo incredibilmente spoglia e vuota: niente più poster sui muri, niente più mensole piene di musica e vita, niente più letti pieni di peluches e cuscini.
Niente.
Per un attimo mi accorgo del vuoto che sto lasciando nella vita dei miei familiari, ma la mia vita ha bisogno di essere vissuta, così mi chiudo la porta alle spalle e vado a salutare i miei parenti.
Faccio prima il giro dei miei quattro fratelloni che mi abbracciano e mi baciano come non hanno mai fatto in venticinque anni di vita, prendendo da ognuno qualcosa che possa farmi ricordare di loro.
Michele, il primogenito, mi regala la sua collanina azzurra fatta di perline di legno- che adoro da sempre- e mi dice di trattarla bene; Domenico, il secondo fratello a cui sono molto legata, mi regala un album di foto delle mie nipotine che ha scattato lui stesso e non mi dice nulla, perché con lo sguardo ci siam già capiti; Tommaso è il terzo fratello, la metà del mio cuore, il mio amico di viaggi- ne abbiamo fatti tanti insieme- mi regala una cornice elettronica con tutte le nostre foto dentro e mi dice “Ti aspetto per un altro viaggio insieme.”.
Poi tocca al più piccolo, Alessandro, che ha solo diciannove anni e già vede una parte di sé allontanarsi. Non mi regala niente, anzi vuole che gli faccia una promessa.
“Tornerai, non è vero?”
Me lo chiede fissando la punta delle sue amate Converse e gli trema la voce. Gli scompiglio i capelli, lo stringo a me e rispondo: “Prima o poi, promesso.”
Ci stacchiamo e corro fra le braccia dei miei genitori che si sono già sciolti in lacrime e non riescono a parlare, ma con i loro sguardi e il loro calore hanno già detto tutto quello che volevano dire.
Tra nonni, cugini, zii e parenti vari, arrivo a stringere al mio petto le mie due piccole nipotine che mi regalano i loro piccoli peluches.
“Grazie amori miei.” dico baciando la fronte ad entrambe e decido che è meglio andar via o potrei disfare le valigie e mandare a puttane il sogno di una vita.
Con l’aiuto di mio padre carico le valigie e le borse in macchina e stiamo per dirigerci all’aeroporto, ma un paio di urla ci fermano.
Mi volto e ci sono tutti i miei amici che agitano braccia e gambe pur di salutarmi.
“Un attimo solo.” chiedo a mio padre, che annuisce, e scendo dall’auto raggiungendo la mia compagnia.
Mi stringono tutti e poi noto la mia migliore amica che piange come una fontana; vado verso di lei, l’abbraccio e le sussurro:  “Non sto andando via per sempre e lo sai. Tornerò fra qualche anno e non ci perderemo di vista. Ti voglio bene!”
La sento singhiozzare un ‘Anch’io’ e mi fiondo tra le braccia del mio migliore amico, Matteo, che mi dice: “Non dimenticarti di noi quando sarai famosa e fatti sentire, pirla!”
Scoppio a ridere e gli bacio una guancia, perdendomi poi in un abbraccio di gruppo che comprende trenta persone.
Riemergo dalla folla e torno all’auto, mandando un bacio volante a tutti che mi guardano con orgoglio.
L’auto parte e non mi volto, bensì piango sentendo la mano grande e calda di mio padre carezzare il dorso della mia.
“Coraggio.” mi dice e io annuisco piano col capo, poggiando la fronte sul finestrino e guardando la strada scorrere sotto di me.
Sorrido.
Vivrò il mio sogno.

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Capitolo 2
*** Chapter two ***


 Volevo ringraziare le mie fidate lettrici e volevo specificare che rispetto alla mia precedente long-fic, questa è più leggera e parla di me e di quello che voglio essere.
I nomi usati dei fratelli e del migliore amico sono i reali nomi dei miei fratelli e del mio migliore amico; il mio nome e cognome li ho cambiati perché erano troppo lunghi e il cognome è quello del mio best friend. Se esiste una persona che si chiama come la protagonista della storia, non era mia intenzione offendere o altro.
Preciso che non scrivo a scopo di lucro, i fatti accaduti non sono reali- ma spero che in un futuro si avverino- e le persone citate sono frutto della mia fantasia e/o della mia vita vera.

 


Chapter two

 
 
Una corsa incredibile, un fischio disumano e poco femminile ed eccomi in taxi.
Alla guida c’è un uomo sulla trentina che continua a fare discorsi e domande che io non seguo perché son troppo eccitata all’idea di essere in America.
Il suono dei clacson mi stordisce e così le grida dei bambini che corrono inseguiti da un cinese col grembiulino bianco; rido tra me e me pensando a cosa avranno potuto combinare.
Il tassista mi avvisa che sono arrivata a destinazione e mi sveglia dal leggero torpore per via del maledetto fuso orario.
E’ mattina inoltrata qui e fa un caldo boia per essere solo Marzo.
Per fortuna indosso dei pantaloncini di jeans chiaro, una canotta grigia e le mie fidate Vans nere; sotto braccio una borsa enorme nera piena zeppa di qualsiasi cosa, tra cui iPood e cellulare.
Prendo quest’ultimo e dopo aver ricaricato la scheda internazionale mando un SMS ai miei amici per avvisarli del mio arrivo.
Nel frattempo sono dentro un hotel a tre stelle- che a me sembra averne molte di più, ma si sa che qui sembra tutto così diverso- e osservo ogni cosa intorno a me: la moquet color crema con un leggero corridoio in stoffa rossa stile red carpet, i mobili in legno massiccio e rose intarsiate, i divani e le poltrone singole in pelle color cammello e i lucenti lampadari fatti di piccoli Swarovski.
Mi avvicino alla hall, trascinandomi dietro la mia valigia enorme e le mie borse a mano- con uno zaino in spalla- e attendo che la receptionist mi dia l’attenzione che merito.
“Buongiorno.” dico, cercando di farmi almeno guardare.
La tipa si volta con superiorità e mi fissa con un’aria che non saprei descrivere.
“In cosa posso esserle utile?” mi domanda sorvolando sui convenevoli e sulla buona educazione.
Inclino la testa ed estraggo dalla borsa un foglio che dovrebbe essere la prenotazione fatta su internet.
“Avrei prenotato una camera singola per un mese, con probabilità di prolungamento del soggiorno, a nome di Anna Fiore.” affermo col mio perfetto inglese e mostrandole la prenotazione.
Digita qualcosa sul suo computer e poi si rivolge a me con un mezzo ghigno sul viso e una chiave magnetica tra le mani.
“La sua camera è la 304. La sveglia di solito è alle sette e trenta in punto, ma se vuole può rimuoverla. La donna delle pulizie passa per le dieci, ma può mandarla via, e il servizio in camera lo può richiedere digitando il numero 3 sul telefono in dotazione dell’hotel. Il pagamento può effettuarlo prima di abbandonare la sede definitivamente. Le auguro un buon soggiorno e la ringrazio per aver scelto il nostro albergo.”
Non ascolto propriamente tutto quello che è abituata- o forzata- a dire, soprattutto perché ha quella espressione ‘base’ sul volto che mi ispira violenza per quanto è ipocrita.
Mi limito a ringraziare e salutare, prendendo la mia chiave, e raggiungo la mia stanza senza l’uso dell’ascensore, dato che voglio perdere qualche chilo.
Passo silenziosamente la tessera nell’apposito congegno ed entro nella mia futura ‘casa’, sorprendendomi  e non poco: i muri sono di un dorato alquanto accecante, con piccole fasce di carta da parati bordeaux in tinta con la moquette; il letto a baldacchino è pieno di cuscini in stile impero e veli pieni di brillantini argentati e i mobili sono chiari, come a dare un tocco di luce alla stanza, in legno molto lavorato e raffinato.
Al lato del letto c’è un piccolo comodino, identico all’armadio a muro, sul quale è posata una lampada in vetro soffiato e seta e un telefono fisso che subito stacco.
Non voglio disturbi e non voglio rinchiudermi in stanza a mangiare.
Prendo la mia borsa azzurra e marrone ed estraggo i regali dei miei fratelli, mettendoli al posto del telefono, che sposto nel cassetto vuoto, e svuoto la mia valigia mettendo da parte il cambio per almeno due giorni.
Prendo un paio di leggins grigi e una maglia smanicata leggermente lunga a stampe nere, le Converse nere e la biancheria e mi fiondo sotto la doccia.
Mi spalmo il bagnoschiuma ai frutti di bosco su tutto il corpo e sento la tensione abbandonarmi, come la schiuma che finisce nello scarico nel momento esatto in cui passa l’acqua tiepida.
Mi lascio avvolgere da un accappatoio bianco e soffice come lo zucchero filato e mi guardo allo specchio.
Nonostante le occhiaie, la faccia sbattuta e la stanchezza, mi trovo carina e mi sento bene.
Sarà l’effetto America!” dico tra me e me, prima di indossare culottes e reggiseno bianchi.
Finisco di vestirmi e mi lego i capelli leggermente ricci e scuri- per via della tintura- in una coda alta, fermando qualche ciocca ribelle con dei fermagli neri.
Passo un po’ di copri occhiaie sotto gli occhi e un velo di mascara sulle ciglia.
Niente lucidalabbra perché li odio, una spruzzata di deodorante e sono fuori, sempre in compagnia della mia amata borsa nera che farebbe un baffo a Mary Poppins.
Mi addentro nelle strade enormi e affollate della Città, in cerca di uno Starbucks- avevo promesso a me stessa che sarei andata in uno Starbucks il prima possibile- e cerco di capirci qualcosa dall’iPhone che ho tra le mani.
Dovrebbe esserci uno proprio qui vicino…” sussurro tra me e me in italiano, girando l’angolo e trovandomi la grossa insegna verde e luccicosa.
Sono di fronte all’ingresso quando sento in lontananza una ragazza urlare a quello che dovrebbe essere il suo ex: “Shut the fuck up, motherfucker!” e mi scende una lacrima dall’emozione.
Cazzo sono in America!” affermo, nella mia lingua, catturando la lacrima con l’indice smaltato di nero.
Entro e mi siedo su uno sgabello, tra tante altre persone che avranno ordinato o che come me stanno attendendo di farlo- dato che dietro il banco non c’è nessuno-, e ne approfitto per chiamare casa.
Mamma! Sì sono a New York, sono arrivata circa un’ora fa e ora sono nella casa dei miei sogni. Sì, mamma, Starbucks! Un semplice caffè con un po’ di latte e una spruzzatina di cannella. Appena chiudo con te lo dico al barista che è uscito in questo preciso istante. Mamma!!! Cioè, io sono appena arrivata dall’altra parte del mondo e tu mi chiedi se il barista è carino?
Mia madre è sempre la solita, non cambia mai. Avrà pure cinquantacinque anni ma è giovanissima dentro.
Rido alla sua battuta e mi fingo scandalizzata, ma soprattutto stralunata quando vedo il moretto dietro al banco sorridere nella mia direzione, neanche capisse quello che sto dicendo.
Va bene, mamma, ora devo proprio chiudere. Saluta tutti, ci sentiamo. Baci, bye!”
Attacco la telefonata e lascio che il mio iPhone si perda tra la miriade di roba assurda che mi porto dietro.
Il ragazzo si avvicina verso di me, dopo aver servito gli altri clienti che si allontanano, e io faccio per chiedergli un caffè, ma questi mi allunga un bicchiere lungo di cartone contenente del liquido scuro un po’ macchiato con della cannella.
Strabuzzo gli occhi, com’è possibile?
Non volevi del caffèllatte con la cannella?” mi domanda in italiano.
Certo, ma… Un momento! Sei italiano ed hai origliato la mia conversazione!
Mi sorride e io perdo la mia forza, perché il sorriso italiano è qualcosa che ti smorza dentro, ti sviscera completamente e mi sta facendo sentire a casa per un attimo.
E’ bello, moro, coi capelli corvini leggermente rasati ai lati e degli occhi di un nocciola che più nocciola non si può. Le labbra sottili ancora stirate in un sorriso mimano qualcosa, ma io non ascolto troppo presa dalla finezza delle sue mani.
Allora?!
Mi riprendo dai miei pensieri e, ingoiando un sorso della mia bevanda, gli chiedo: “Puoi ripetere, per favore?
Lui ride forte e pulisce il banco con uno straccio bagnaticcio.
Come ti chiami?” ripete non perdendo quella piega sul volto e io annuisco, finendo il mio bicchierone di caffè americano- che, tra parentesi, non è così schifoso come dicono.
Anna, Anna Fiore. Tu?
Stefano, Stefano Butera.
Ci stringiamo la mano e io distolgo lo sguardo imbarazzata.
Allungo una banconota che ho, precedentemente, scambiato alla banca ma Stefano mi blocca.
Offre la casa!
Sbuffo, scuotendo il capo.
Ho sempre odiato la parola ‘offrire’, perché mi da il senso di dover poi restituire il favore e io tutto voglio tranne che avere debiti con qualcuno.
D’accordo.” concedo dopo la sua insistenza. “Ma un giorno ripagherò il favore.” affermo sicura, mentre lo vedo ridacchiare tra sé e sé.
Avrò una scusa in più per rivederti.
Altro sorrisone e io mi appoggio alla maniglia della porta, che nel frattempo ho raggiunto, pur di non cadere.
Sento le gambe mollicce e non è un buon segno.
Allora ciao, Stefano.” lo saluto sorvolando il suo chiaro invito implicito.
Ciao Anna.
Chiudo la porta di Starbucks, recuperando l’iPhone per accedere a Google Maps, e faccio un giro turistico accompagnata da un nuovo sorriso italiano tra i pensieri.



Il ragazzo citato, ahimè, non esiste e non lo conosco, ma il cognome è quello di una ragazza che avevo su FB qualche mese fa, ma che ora non ho più O.o
Pooooi, i discorsi col font corsivo sono e saranno sempre discorsi in italiano, mentre i discorsi senza alcun font sono in inglese.

Allora, che ne dite? Cosa succederà tra Anna e Stefano? Cosa centrano e come entreranno i Mars?
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vale la pena di continuare.

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Capitolo 3
*** Chapter three ***


 Chapter three
 

 

Dicono che quando sei lontano dalla tua famiglia l’unico momento in cui ti senti realmente solo è la notte, perché per tutta la giornata cerchi di tenerti impegnato per non pensare, ma la notte quando ti rinchiudi nel tuo mondo sale la malinconia.
Stamattina dopo l’incontro con Stefano ho fatto un giro, mi son persa in un piccolo quartiere malfamato, ho visto qualche writer, qualche rapper, qualche prostituta e qualche Echelon.
Già, c’erano anche loro e stavano incollando dei volantini che raffiguravano loro tre sorridenti e una scritta accanto ai loro volti: Mars Night this Saturday in New York.
Mi sono brillati gli occhi e ho sorriso esageratamente, prendendo un volantino dalle mani di una ragazzina bassa e cicciotta con i capelli arancioni e biondi.
Ci siamo scambiate uno sguardo di intesa e giuro che lei ha capito tutto.
Ho riposto il foglietto nella borsa e ho ritrovato la via di casa, dirigendomi in hotel.
La solita receptionist altezzosa mi sorride finta ed io ricambio.
Non so perché le sto antipatica, ma lei lo è a pelle per me.
Vado a passo spedito in stanza e mi tolgo gli abiti per una doccia. Cavolo quanto si suda sotto il sole americano!
Dopo il mio quarto d’ora di relax, mi dirigo nella hall per prendermi qualcosa da mangiare e opto per un piatto di verdure miste e un po’ di carne. Spero sia carne di maiale o almeno pollo, perché altri tipi non ne mangio.
Non ci faccio molto caso, ma divoro tutto nel mio tavolo solitario accanto alla finestra.
Osservo il mondo fuori e noto che è tutto come mi aspettavo: caotico, pieno di smog e rumore, enorme.
Tutto qui, in America, sembra troppo grande, così tanto da farmi sentire ancora più piccola.
Bevo un sorso d’acqua naturale e mi stiracchio un po’ sulla sedia, sentendo l’impellente bisogno di una sigaretta.
Mi metto in piedi e vado fuori dalla porta principale, poggiandomi al muro e aspiro rumorosamente buttando fuori il fumo quasi sbuffando.
Finalmente qui posso fumare senza che nessuno mi minacci di dirlo a mio padre o senza le mie amiche a rompermi.
E’ anche vero che ho problemi abbastanza seri alla tiroide, ma non è mai morto nessuno. O sì?
Ci faccio poco caso e butto a terra il mozzicone, schiacciandolo con la scarpa.
Rientro e salgo in stanza, dove faccio un breve resoconto della giornata col cellulare e lo invio a mio fratello e alla mia best, che so passeranno parola evitandomi di scrivere a tutti la stessa cosa.
Mi addormento senza neanche rendermene conto e mi sveglio quando ormai fuori è buio.
Le otto di sera!
Il fuso orario mi ha stordito e la caoticità della città ha contribuito ad indebolirmi.
Mi affaccio alla finestra della mia camera e sento un buco nello stomaco. Non è fame, ma consapevolezza.
Sì, sono consapevole di essere dove volevo ma di voler essere nel luogo dal quale volevo scappare.
Mi manca casa, di già, e mi chiedo se resisterò qui da sola, in un albergo.
Da ragazza, quando sognavo questo momento, mi son sempre chiesta come avrei fatto senza una casa, senza un lavoro e senza nessuno al mio fianco, ma rimandavo le paranoie ad altra data; ora quella data è qui, sotto i miei occhi e dentro la mia testa, e mi sento come quando da bambina mi perdevo nel supermercato e piangevo, credendo che non sarei mai più tornata a casa.
La differenza è che non sono in un supermercato e che non c’è mamma o papà che all’improvviso mi stringono a loro.
Ricaccio indietro le lacrime e cerco la Luna dietro i vetri chiari, ma non la trovo.
Possibile che i grattacieli sono così alti e luminosi da oscurare una Luce così bella e forte?
Le lacrime che non volevo versare scorrono imperterrite sul mio volto e prendo a stringere un peluche a caso su quel letto disfatto.
Singhiozzo, sapendo che questa è la prima di una lunga serie di crisi, e penso che voglio tornare a casa, ma c’è un pensiero fisso a tormentarmi e a farsi spazio nella mia mente affollata: Stefano.





Mattino inoltrato, apro gli occhi e mi rendo conto di essere vestita come ieri pomeriggio e di essere abbracciata a quello strano elefantino di peluche.
Sorrido e vado in bagno a darmi una sistemata, dato le lacrime che mi hanno fatto diventare gli occhi fastidiosamente appiccicaticci e le guance nere di rimmel colato.
Una volta vestita- jeans chiaro, maglia bianca e gilet nero, Converse bianche e nere e borsa enorme- e pettinato i miei capelli, che restano sciolti, scendo al piano di sotto con l’intenzione di fare colazione ma una lampadina si accende sulla mia testa.
Sorpasso la sala da pranzo e la hall ed esco dirigendomi al bar del sorriso italiano.
Ormai la strada la so a memoria, dato che è dietro l’angolo, e lo saluto dopo essermi accomodata su uno sgabello.
E’ stranamente vuoto oggi, ma sarà per l’ora- che è quella di punta- e per il fatto che io abbia dormito troppo per i loro standard e troppo poco per i miei.
Anna!” mi saluta Stefano con un raggiante sorriso stampato sul volto.
Stefano. Il solito, grazie.” dico, rispondendo al sorriso.
C’è uno strano ed imbarazzante minuto di silenzio che viene interrotto dalla sua voce calda che mi chiede: “Come mai qui?
Sapevo di dover rispondere a quella domanda, che prima o poi mi sarebbe stata posta, e sapevo che lui si aspettava storie strappalacrime o robe simili.
Rido.
Voglio realizzare i miei sogni, tutto qui.
Lo trovo stranamente impassibile, o almeno per nulla sorpreso, e mi porge il bicchiere che lascio un po’ sul banco a raffreddare.
E quali sarebbero, se posso permettermi?
Annuisco leggermente e pianto i miei occhi nei suoi.
Piccolo brivido e una spruzzata di rossore sulle mia guance, ma nascondo il tutto dietro l’enorme fondo del bicchiere.
Bevo e mi sento riscaldata fin dentro alle viscere e so che non è il caffè.
Ora come ora il mio sogno più grande è trovare un lavoro con il quale permettermi una casa, dato che sul punto ‘amici’ sono avvantaggiata, italiano!
Mi rincuora sentirlo ridere di gusto alla mia allusione, ma poi torna serio e si appoggia su un gomito fissandomi.
Quale lavoro vorresti fare?
Poggio il bicchiere sul banco e sospiro, piano.
Uno qualsiasi come lavoretto part-time, ma il mio sogno più grande è quello di lavorare nel mondo della musica come assistente.
Annuisce e si volta per prendere un bicchierino in vetro colmo d’acqua.
E tu?” domando. Mi guarda leggermente incuriosito. “Perché sei fuggito dall’Italia?
Si siede su un elettrodomestico- che non colgo bene cosa sia- e sorride, scrollando le spalle con noncuranza.
Avevo bisogno di un diversivo alla mia vita, di un modo per scacciar via la noia e di un posto in cui essere me stesso senza influenze o giudizi.
Me lo dice come se fossi un’amica di sempre e non una semplice sconosciuta quale sono.
E come hai ottenuto il tuo primo lavoro?” gli chiedo come a voler prendere spunto per il mio futuro.
Esattamente come te!” risponde non risparmiandosi un sorrisone che mi scioglie. “Appena arrivato sono entrato in questo Starbucks e c’era un ragazzo dietro al banco. Non era italiano, ma comunque prendemmo subito confidenza. Una sera uscimmo insieme e mi propose di dargli una mano al bar e io ovviamente accettai, così potei comprarmi la mia prima piccola casa. Poi un giorno mi chiese di andare a festeggiare con lui, ma rifiutai perché stavo poco bene; avevo un presentimento e non mi andava di uscire.
Nel giro di un paio d’ore venni a sapere che il mio amico era stato investito e aveva perso la vita. Il bar è mio da allora e nonostante siano passati sette anni, sento molto la sua mancanza.

Mi commuovo leggermente e mi pento di avergli fatto quella domanda, ma quando provo a scusarmi lui scuote il capo e io rinuncio.
Fa così male all’inizio? Stare lontano da casa, intendo.
Gli porgo quella semplice domanda con un filo di voce e lo vedo annuire.
Non sono mai stato legato alla mia famiglia e alla mia terra e avevo pochi amici, ma andare via all’improvviso e ricominciare da zero fa male. Per un periodo sono andato da uno psicologo, ma poi ho smesso e ho preso a fidarmi di Zecke, il mio amico che è morto. Ora ci sei tu, però…
Lascia in sospeso la frase, forse per tatto o per farmi pensare alla lontananza- non so!-. ma poi ricomincia a parlare e io sorrido.
Verresti stasera con me? Ti faccio conoscere qualcuno così da risparmiarti tante sedute da uno psicologo.
Ridiamo di gusto e mi trovo costretta ad accettare, anche perché così posso sdebitarmi e ripagargli per quello che inconsciamente- o forse no- sta facendo per me.
D’accordo!
Mi regala uno dei suoi splendidi sorrisi ed un pensiero, tanto fuori luogo quanto affrettato, prende forma nella mia testa.
Ho trovato sollievo in un paio di occhi chiari ed un sorriso che sa di casa.

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Capitolo 4
*** Chapter four ***


 Chapter four


Da bambina ero la classica sfigata con la quale nessuno voleva parlare; ero lo zimbello della classe per via dei fondi di bottiglia rosa che portavo sul visino piccolo e scarno e due dentoni da coniglio leggermente sporgenti. Mi vergognavo di me stessa e non avevo amici per questo.
Passavo i pomeriggi a studiare a casa e ciò non guastava la mia media scolastica, ma a parte quella non avevo altro.
I miei migliori amici erano un diario, una penna e la musica, oltre che ad una valanga di libri che divoravo in due giorni.
Mia mamma mi stava col fiato sul collo e mio padre si lamentava perché non uscivo mai; la gente era buona solo a criticare ed io mi chiudevo ancora di più in me stessa e nel mio mondo.
A dodici anni pesavo ventisette chili ed ero alta un metro e cinquantacinque, quindi immaginate quanto fossi invisibile.
La mia insegnante delle elementari mi rimproverava per questo, diceva che dovevo mangiare o sarei caduta in anoressia, senza sapere che c’ero già dentro da un paio di anni.
Con lei ho intrapreso un corso di musica e ho cominciato a vedere qualcosa di diverso in me stessa, qualcosa di speciale, così mi sono data da fare, mi sono rimboccata le maniche e ho cominciato a mettere da parte scrittura e lettura per uscire.
Mi fece fare amicizia con due ragazze, una delle quali divenne la mia migliore amica- con la quale ho rotto tutti i rapporti dopo sette anni- e cominciai ad allargare il gruppo per sole donne, però.
Avevo una sorta di paura dei maschi da bambina; non mi avvicinavo a loro e loro non si avvicinavano a me perché ‘Sei un castoro, una mazza da scopa, una quattr’occhi!’
Meno male che c’erano le mie amiche a difendermi e a farmi sentire speciale, altrimenti non sarei qui in questo momento.
Un giorno, però, un bambino si sedette accanto a me- avevo quattordici anni e pesavo trentotto chili- e cominciò a parlarmi. Mi disse quanto gli facevano schifo i suoi amici che pensavano solo alle auto e alle gonne delle ragazzine, mi disse quanto fossero deficienti le persone che non capivano che una persona non doveva giudicarne un’altra solo per un paio di occhiali e mi disse che voleva essere mio amico.
Mi brillarono gli occhi e accettai quel gesto di buon grado, scoprendo per la prima volta l’amore.
Sì, mi innamorai perdutamente di lui ma lui non corrispondeva e scappò.
Da quel giorno però ricominciai a mangiare, cominciai ad uscire anche con ragazzi più grandi di me, dato le stupide liti con le mie coetanee.
Ricordo ancora la prima uscita di gruppo con i ‘grandi’: passai il pomeriggio a mollo nella vasca, mi pettinai i capelli per non so quanto tempo e stesi un velo di lucidalabbra sulle piccole labbra che tremavano dalla paura, come le mie gambe.
Ero terrorizzata all’idea di dover risultare antipatica o piccola rispetto a loro- senza sapere che quella prima uscita fu la prima di una lunghissima serie conclusasi con il mio viaggio in America.
Ero terrorizzata proprio come in questo momento.
Tra mezz’ora Stefano mi farà uno squillo e io lo raggiungerò davanti al suo bar ed io devo ancora scegliere cosa devo indossare!
E’ da quando mi ha invitata stamattina che passo dal bagno al letto e dal letto al bagno per sistemarmi al meglio; non ho neanche mangiato presa com’ero tra ceretta, pinzette per le sopracciglia, piastra e trucchi.
Mi fisso allo specchio, ancora in lingerie, e osservo come il mio corpo è cambiato insieme al mio carattere:  le mie gambe sono lunghe e leggermente abbronzate per via della lampada e della carnagione cioccolato di mia madre- dalla quale ho preso questa particolarità, oltre che delle leggere malattie- ma coperte da piccole smagliature bianche di cui mi vergogno, i miei fianchi sono leggermente coperti da delle maniglie dell’amore molto simpatiche, a detta dei miei amici, i miei capelli sono ormai lunghi e lisci e neri, non più corti e ricci e di un castano chiaro tendente al biondiccio che odiavo; gli occhi, sempre grandi e di un marrone intenso,  non sono più nascosti dagli occhialoni rosa ma sono lasciati liberi dalle lenti a contatto, il che mostra il mio naso reso perfetto dalla chirurgia plastica- dato che avevo una gobbetta perché portai gli occhiali per sedici anni.
Non sono una di quelle ragazze belle da mozzare il fiato, ma mi trovo carina dopo tanti anni persi a fare corsi di autostima con la mia prof di psicologia del liceo.
Non ne avevo molta e non mi fidavo di nessuno che non fossi io, tanto che non avrei mai accettato un invito come quello di Stefano, ma l’Anna bambina e adolescente è stata sepolta sotto strati e strati di corazza dura e rigida che si romperà quando e se lo dirò io, lasciando spazio ad un’Anna donna che stasera si divertirà dopo tanto tempo e farà nuove amicizie.
Mi do un’ultima occhiata allo specchio, rimandando i ricordi ad un altro momento, e mi fiondo in valigia dove pesco un vestitino rosa corallo con delle orchidee disegnate che partono dal seno e finiscono trasversali sul lato opposto della gonna, che arriva al di sopra del ginocchio; ai piedi dei sandali alti bianchi, che riprendono il fiore, e una pochette a mano dello stesso colore delle scarpe.
Stendo un leggero strato di fondotinta adatto alla mia pelle, un velo di ombretto rosa sugli occhi, accentuati dalla matita scura all’interno della palpebra, e una passata di mascara per allungare le ciglia.
Un po’ di profumo e sento il cellulare vibrare.
Stefano arrivo!” dico soltanto, aprendo la telefonata e chiudendola senza dargli tempo di ribattere e corro a mettermi un filo di burro cacao ai lamponi e metto nella borsettina minuscola il cellulare, le sigarette e dei fazzolettini per qualsiasi evenienza.
Fuori fa leggermente caldo, quindi non prendo alcuna giacca o copri spalla e mi fiondo fuori dalla camera, cedendo distrattamente e velocemente la chiave della stanza alla receptionist che mi osserva col suo solito sguardo.
Cammino sicura di me, cercando di non pensare a che genere di amici abbia Stefano, e arrivo davanti a Starbucks trovandolo in compagnia di tre ragazzi e due ragazze.
“Ciao!” dico loro agitando nervosamente una mano in aria.
“Anna!” mi chiama Stefano, donandomi un bacio sulla guancia che mi fa arrossire leggermente. “Hai fatto presto.” mi fa notare e io annuisco.
I ragazzi mi guardano dalla testa ai piedi ed io faccio segno a Stefano di presentarmeli.
“Giusto, allora lei è Anna, è italiana come me e starà qui per… Quanto tempo resti?”
Io alzo le spalle metto su un broncio di disappunto.
“Non lo so, vorrei starci tutta la vita magari.” dico sorridendo.
“Bene, più tempo per conoscerci.” mi dice un ragazzo con dei capelli chiari e lisci e degli occhi grigi da far paura.
E’ bellissimo e credo di potermi prendere una sbandata seria per lui. La sua stretta di mano è leggera, ma convincente, e le sue mani sono lisce, curate e dalle unghie perfettamente tagliate.
Il suo sorriso è uno dei più splendenti che abbia mai visto e la sua voce è soave ma profonda.
E’ un misto di contraddizioni chiuso in un paio di jeans stretti, maglia bianca e un paio di Vans a scacchi.
Il mio tipo!
“Jordan, molto lieto.” Altro sorriso, altro infarto.
Chi mi stringe la mano ora è un tipo tutto hip hop dagli occhi scuri e i cornrows sulla testa, che tiene la mano ad una ragazza stile punk, con una gonna nera piena di toppe rosse, le calze a rete, gli anfibi scuri e una maglia rossa ridotta quasi a brandelli.
I suoi capelli sono pieni di trecce colorate e dread sparsi ed ha una narice perforata da un cerchio sottile e chiaro, come i suoi occhi.
‘Gli opposti si attraggono!’ penso, sorridendo.
“Io sono Brian e lei è Rayanne, la mia ragazza.”
“Piacere mio!” dico, prima di presentarmi all’ultima coppia di ragazzi che sembrano i più normali: lui è alto, muscoloso, coi capelli rasati e gli occhi verdi; lei è mediamente alta, con i capelli biondo cenere talmente lunghi da poter competere con Raperonzolo e gli occhi che sembrano due pietre lucenti.
Entrambi hanno dei jeans e delle Converse simili, con la differenza che lui ha una camicia bianca a righe grigie, come le scarpe, e lei ha una canotta nera a manica corta.
“Io sono Sharon e lui è Kyle lo stupido del gruppo.”
Rido alla battuta e lo sento bofonchiare un ’Ci sento ancora, ti lascio stronzetta.’
Lei ride di gusto e si baciano, così come i due tipi alternativi.
Sento Stefano stringermi la vita con un braccio e avvampo d’imbarazzo, mentre lancio un’occhiata a Jordan che mi sembra non avere problemi a star solo.
Arriviamo in una specie di ristorante barra pub barra quello che volete e ci sediamo; io sono tra Jordan e il mio compaesano. Che sogno!
“Allora, Anna, quanti anni hai?” mi chiede Rayanne.
“Venticinque, ventisei il mese prossimo.”
Tutti sorridono ed esclamano ‘Party!’, ma io scuoto il capo.
“Non ho soldi, ho un albergo da pagare e ho bisogno di un lavoro. Niente festa!”
Kyle mi guarda male.
“La festa, baby, la organizziamo noi, tu devi solo farti bella.” mi dice ed io mi alzo, alzando con me il mio bicchiere di vodka, gridando un po’: “Io sono già bella, ragazzo!”
Silenzio totale e poi una risata incredibile scoppia nella sala.
“Dove alloggi?” domanda Stefano.
“Hotel Paradise!”
“Hotel Paradise?!” mi chiede, nuovamente, sconvolto.
“Yep!” annuisco fintamente contenta.
“Ma fa schifo e la receptionist è una riccona del cazzo!” dice Sharon, scatenando le mie risa.
“Oh lo so, ed è per questo che voglio un lavoro e voglio scappare da quella cogliona al più presto.”
“Vieni a stare da me e ti aiuto io col lavoro.”
Silenzio.
Tutti guardiamo Stefano.
Mi ha realmente chiesto di andare a vivere con lui? A me? Ad una sconosciuta?
Fisso i miei occhi in quelli di Jordan e sembra quasi come se stessi cercando una specie di permesso che lui mi da.
“Ha ragione!” dice. “Stai da lui, ti trova un lavoro e appena puoi compri casa.”
Guardo stranita anche lui.
Le due ragazze mi inducono con lo sguardo ad accettare e Rayanne- che amo già!- mi fa segno di scoparmelo di nascosto da Brian.
Io rido e stringo la mano a Stefano.
“D’accordo, domani mi ‘trasferisco’ da te, ma poi appena posso ti pago e sloggio. Va bene, amico?
Scuote energicamente la mia mano e accetta.
Okay, amica!
Gli altri non capiscono del tutto, ma si limitano a ridere e a raddoppiare il giro di vodka lime.
L’ultima cosa che ricordo è che mi sono messa in piedi sulla sedia ed ho urlato: “Io amo New York!”, scatenando l’ilarità generale.

 
 




La prima parte- quella dei ricordi- sono i miei reali ricordi.
La descrizione allo specchio è quello che vorrei essere, ma le smagliature e le maniglie dell’amore- gobbetta sul naso compresa ce li ho davvero adesso.
Pooooi, i nomi degli amici sono quelli dei personaggi di ‘My So-Called Life’ ma i caratteri e le caratteristiche non sono quelle vere; Rayanne in parte. <3
Beh, vi ringrazio tutte per tutto e vi prego di dirmi cosa ne pensate.
Bacioni,
TittaH.

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Capitolo 5
*** Chapter five ***


 Chapter five


Mi sveglio in un letto che non conosco, con ancora il vestitino dell’altra sera, e la nausea mi coglie impreparata.
Velocemente mi metto in piedi ma un giramento di testa mi fa cadere sul pavimento ed è lì che vomito tutto l’alcool ingerito la sera prima.
Merda!” impreco, mentre mi alzo e corro in bagno per pulire il pasticcio che ho combinato; mi guardo allo specchio e noto il trucco sbavato e i capelli arruffati.
Prendo uno straccio bagnato e ripulisco il pavimento alla bene e meglio, laverò più tardi.
Mi siedo sul letto e cerco di capire dove sono, ma non c’è nulla di familiare.
Un letto singolo tutto sfatto, per via del casino che combino quando dormo, un armadio semplice, uno specchio all’interno di esso e una finestra che da sulla strada affollata a rumorosa.
Ai piedi del letto delle valigie e delle borse: le mie.
Come diavolo sono arrivate fin qui?
Rimando le domande a più tardi e, dopo aver preso un cambio, mi chiudo in bagno udendo un po’ di confusione al piano di sotto.
Mi faccio una doccia veloce, che spazza via la mia sbronza, e lascio i capelli bagnati in modo da farli ritornare ricci naturali; mi strucco accuratamente e stendo un velo di crema rigenerante sul viso ancora tirato dal sonno.
Cazzo, ho dormito con le lenti a contatto!
Me le sfilo, le disinfetto e le rimetto nella scatolina, sciacquandomi gli occhi con la soluzione apposita.
Già so che mi verrà un mal di testa atroce, quindi metto i miei occhiali neri da riposo.
Con una tuta cobalto, leggera e comoda, e i capelli- ancora bagnati- raccolti in uno strano chignon malfatto, scendo al piano di sotto e sono tutti lì che mi fissano sorridenti.
“Buongiorno Anna!” esclamano in coro ed io mi limito a premermi due dita sulle tempie che pulsano e fanno male.
“C’è un aspirina, qualcosa- qualsiasi cosa!- che faccia smettere alla mia cazzo di testa di battere peggio di una puttana?”
Quando non sto bene sono molto fine e delicata, ma credo di essermi guadagnata la simpatia di Rayanne, dato che è l’unica che ride alla mia battuta.
“Bella questa, Anna, davvero.” riesce a dire tra le risate e le lacrime agli occhi.
Gli altri la guardano esasperati.
Ecco qua.
Stefano mi porge un bicchiere d’acqua ed una pastiglia che prendo in fretta.
Mi metto a sedere e addento un biscotto al cioccolato, che posso mangiare dato che è passato il quarto d’ora che devo aspettare ogni mattina per via della compressa che prendo per la disfunzione tiroidea.
“Come mai tutti qui? Non avete una casa vostra?” domando con ancora la bocca piena.
“E’ qui che restiamo quando ci ubriachiamo…” comincia Brian ridendo, seguito dalla sua ragazza.
“…ed è Steve a farci da autista, dato che è astemio!” continua Brian ed io chiedo chi caspita sia ‘sto Steve adesso.
“Stefano!” rispondono in coro le ragazze ed io scoppio a ridere.
“Steve!” lo prendo in giro, pizzicandogli una guancia.
Lui alza gli occhi al cielo e si scansa, non nascondendo un sorrisino divertito.
“Non chiamarmi mai così, okay?”
Annuisco.
“D’accordo, Steve!”
E tutti ridono.
Tra tutti però, mi manca una risata: la sua.
“Dove… Ehm, dov’è Jordan?”
Si ammutoliscono neanche avessi detto chissà cosa e mi preoccupo.
“Gli è successo qualcosa?” chiedo, ma loro guardano fisso alle mie spalle.
Mi volto e lui è dietro di me con un’aria colpevole in volto.
“Ci lasciate soli?” dice agli altri che in meno di due secondi si volatilizzano mentre io mormoro tra me e me: “Cosa diamine ho combinato ieri?!
Jordan si siede di fronte a me e beve un sorso di succo d’ananas, prima di fissare le sue iridi grigie nelle mie color cioccolato fondente.
“Per quanto riguarda ieri sera…”
Lo blocco.
“Non ricordo nulla.” ammetto in un sussurro, trovando incredibilmente interessanti i disegni colorati sulla scatola dei biscotti.
“Beh, ecco… Tu… Tu mi hai detto che- che ti piaccio ed io…”
Sgrano gli occhi e lo guardo: rosso in viso, imbarazzatissimo- forse più di me- e tremendamente bello.
“Devi perdonarmi, Jordan, io non bevevo da molto e la felicità di essere qui da appena tre giorni ed avere casa, amici e presto spero un lavoro mi ha emozionato troppo.”
Mi fissa colpevole ed io mi affretto ad aggiungere: “Ma non sto dicendo che non mi piaci, eh, anzi… Io…”
“Sono gay, Anna!”
I miei pensieri si fermano ed è come se fossi senza fiato.
Dovevo immaginarlo considerato che è stupendo e non ha una fidanzata.
Do voce ai miei pensieri- maledettamente in inglese- e lui ride.
“Mi dispiace averti deluso, ma se fossi stato etero saremmo già finiti a letto.”
Bene, piaccio ad un omosessuale ed è fottutamente strano.
“Non sono delusa, solo… Sorpresa! Cazzo, sei gay!!!” urlo alla fine buttandomi tra le sue braccia.
Lui, dapprima rigido ed impacciato, mi stringe a sé e ride sommessamente.
“Deduco che adori gli omosessuali!”
“Adoro?” dico. “Io vi amo, vi venero e vi stimo. Ho combattuto tutte le vostre battaglie appoggiandovi e sostenendovi, nonostante io sia etero. Da piccola ho baciato una ragazza che mi piaceva e credevo di essere bisessuale e non mi sarebbe dispiaciuto, ma gli uomini… Beh, sai perché piacciono!”
Ridiamo assieme e resto così tra le sue braccia, finché non vengono gli altri e giuro di vedere un briciolo di gelosia negli occhi di Stefano.
Mi avvicino a lui e gli schiocco un bacio sulla guancia, arrossendo.
Per cos’era?”domanda imbarazzato.
Perché sei mio amico ora, perché ho altri amici, perché mi hai trovato una sistemazione, perché mi hai portato le valigie a casa tua, perché non hai approfittato di me stanotte nonostante fossi ubriaca marcia e perché so che sarai fondamentale nella mia vita!
Stefano, a sua volta, mi regala un bacio e questa volta sono io a domandargli il perché.
Lui sorride.
Per le belle parole, per la fiducia che riponi in me nonostante tu sia diffidente al massimo e per il fatto che sei semplicemente italiana.
Non so come faccia a sapere che io sono diffidente e non sono sicura che sia stato lui a portare le valigie, ma tra compaesani ci capiamo e ci prendiamo subito.
Sono felice di averlo trovato.
“Allora!” esclama Rayanne. “Andiamo a fare un giro ‘sole donne’ per le vie di New York?”
Io e Sharon improvvisiamo un urletto da cheerleader e i ragazzi scuotono il capo, disperati.
Jordan mi osserva divertito.
“Ohi.” dico avvicinandomi. “Vieni con noi, no?”
“Sole donne!” mi ricorda ed io cerco lo sguardo delle ragazze per chiedere consenso.
Loro annuiscono ed io mando loro un bacio.
“Sei sempre il benvenuto, Jordie.”
Ho il vizio di abbreviare i nomi di tutti quelli che conosco e regalare nomignoli carini, non posso farci niente.
Mi preparo per uscire e lasciamo i tre uomini soli a casa per un torneo di Xbox.

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Capitolo 6
*** Chapter six ***


Chapter six





E’ passata una settimana, ma ancora non trovo lavoro.
Stefano si ostina a dire che devo lavorare con lui al caffè, ma non voglio perché sarebbe come ospitarmi a casa sua gratis- come d’altronde sta facendo.
Non ho nemmeno i soldi per comprarmi le sigarette e sono nervosissima; poi non ho potuto vedere i miei amati Mars in concerto sabato, sempre per la stessa questione.
Non ho detto nulla né a Stefano, né agli altri, per non sembrare una morta di fame o una pazza.
E’ una settimana che non faccio altro che svegliarmi, occuparmi dei pasti principali per Stefano, delle cene con gli amici e dei mestieri in casa. Ogni tanto gli do una mano col bar e gli ho pagato tutti i caffellatte arretrati. E’ il mio modo per ringraziarlo e per fargli capire quanto gli sono riconoscente.
Sto spolverando un po’ i mobiletti, perdendomi in foto di grandi città italiane, di bimbi ormai cresciuti e di ricordi mai sbiaditi.
Ne prendo una tra le mani e osservo per bene ogni dettaglio: c’è uno Stefano, che poteva avere diciotto anni e nemmeno, sorridente; ha i capelli un po’ più lunghi, gli occhi stretti in due fessure e i pollici alzati come a voler dire ‘Giorno memorabile!’. Come sfondo riconosco il cielo italiano, limpido e chiaro, con delle spruzzatine qua e là, e il Colosseo.
Roma.
Quanti ricordi porta quella città.
Quanti…
Non faccio in tempo a rimettere la cornice dov’era che sento il cellulare squillare e ‘Night of the Hunter’ si impadronisce della stanza.
Jordan.
“Baby, che succede?”
“Dì pure che sono un genio!”
La sua voce mi arriva forte e chiara all’orecchio e spalanco gli occhi, mettendomi una mano davanti alla bocca.
Non può essere!
“Sul serio, Jordie? Davvero?”
“Cominci domani come aiutante in uno studio fotografico.”
Credo che Jordan ora sia sordo, perché il mio urlo di gioia non sono riuscita a trattenerlo.
Lo sento ridere e comincio a saltare per casa, improvvisando un ballo della vittoria alquanto buffo e imbarazzante.
“Ti adoro, Jordie, tanto! GRAZIE!” gli schiocco un bacio e lo sento ricambiare.
“A stasera, bellezza!”
Attacco la telefonata e mi fermo a pensare.
In sette giorni ho fatto quello che in tanti anni riuscivo solo a sognare; in sette giorni sono stata in grado di abbattere ogni mio limite e essere finalmente me stessa.
Sorrido, rincuorata, e avverto amici e familiari dei miei progressi.
Non chiamo spesso casa, anzi non chiamo spesso, ma mi limito a degli sms perché sentire le loro voci o vederli in webcam mi farebbe star male.
Invio tutto a tutti e prendo la borsa per scappare da Stefano e brindare con un Frappuccino caldo.




“Allora, signorina Anna Fiore, mi parli di lei.” chiede un signore paffuto con dei folti baffi chiari e due occhi simpatici.
E’ leggermente pelato, con i denti un po’ irregolari e un sorriso dolce e paterno.
“Beh, signor Wallas ho quasi ventisei anni, sono italiana, pazza per la musica e per la fotografia, laureata e diplomata col massimo dei voti rispettivamente in Lingue e Letterature Straniere e Scienze Umane e sono qui perché voglio lavorare nel mondo della musica, ma non perdere il mio amore per l’arte della fotografia. Ho seguito alcuni corsi in Italia e vinto dei premi e diplomi di merito per alcune mie foto e… Mi dia del tu, la prego!”
Al signor Wallas scappa un sorriso, ma osserva il mio curriculum molto interessato e annuendo ad ogni mia parola.
“Jordan mi aveva detto tutto e già avevo un pensiero positivo su di te, ma adesso devo dire che ne ho uno ottimo. Assunta a tempo pieno!”
Reprimo l’istinto di saltargli al collo e mi limito ad un’energica stretta di mano con tanto di sorriso a settantadue denti.
“Puoi cominciare subito se vuoi, Anna.”
“Sarebbe un vero piacere, signor Wallas.” dico convinta.
Lui mi fissa serio e temo di aver sbagliato qualcosa.
Si avvicina a me e mette la sua mano grande sulla mia spalla esile, si addolcisce.
“Ti do del tu ma tu fa’ lo stesso, Anna.”
Sorrido ancora e rido leggermente.
“Hai ragione Jhon, scusami. E grazie mille, non te ne pentirai.”
Mi accompagna in uno stanzino ordinato, pulito e profumato e mi fa mettere la divisa dello studio- essendo uno di quelli professionali- che comprende un pantalone scuro, una maglia rossa con la targhetta identica all’insegna del locale e poi mi dirigo alla mia postazione: una scrivania piena di fogli bianchi, un Mac nuovo di zecca e un bicchiere colmo di penne e matite di ogni tipo e colore.
Mi siedo e Jhon mi dice di aprire la cartella dove ha appuntato gli impegni di oggi; eseguo gli ordini e scorro la pagina fino a trovare il giorno odierno.
Il primo appuntamento è un certo Burner James che deve fare un servizio fotografico per un book; aspirante modello.
Niente male come lavoro!” mi concedo di dire in italiano e attendo l’arrivo, preparandomi ad aiutare in tutto ciò che posso e devo.
Certo sarebbe stato grandioso poter fotografare e sfoggiare il mio talento, ma avrei dovuto procedere per gradi e conquistare la sua stima e la sua fiducia.
Arriva James e non è affatto un signore, ma un ragazzo tutto infiocchettato dalla pelle d’ebano e un sorriso alla Chuck Bass di Gossip Girl.
Lo ricevo, avviso Jhon e lo faccio accomodare nella sala d’aspetto.
Il mio capo lo chiama e lo fa mettere davanti ad un telo bianco con uno sgabello nel centro.
“Anna, allora, tu sposti le luci e mi passi gli obbiettivi che mi servono. Poi gli sistemi quel ciuffo di capelli che gli copre l’occhio e mi suggerisci un paio di pose che potrebbero piacere alle donne.”
Sorrido imbarazzata ed impacciata, ma mi avvicino al ragazzo e gli arruffo un po’ il ciuffo e sistemandogli la cravatta come a farla sembrare malfatta e sistemo la luce verso il basso; passo l’obbiettivo che Jhon mi dice  e comincia a scattare cominciando a ‘sparare pose’.
“Sporgiti un po’ in avanti, sì, benissimo! Ora poggia il mento sulla mano sinistra e accavalla le game, un po’ di meno… No, un po’ più sciolto, non sorridere, più serio. Perfetto!”
Osservo ogni minimo gesto e ogni minima espressione e mi esce spontaneo dire: “Morditi le labbra, indurisci lo sguardo e gioca con la cravatta.”
Jhon mi fissa e poi mi concede la sua macchina fotografica.
“Sorprendimi!” dice e io, titubante, l’afferro e scatto improvvisamente.
James sorride sghembo e io immortalo quel momento.
Il capo è soddisfatto e dopo una cinquantina di scatti Jhon mi ferma e lascia andare James.
Lo vedo sparire nella sala rossa e noto che il modello ammicca prima di uscire dallo studio.
Scuoto il capo, pensando a Stefano.
Jhon esce dalla sala e, sistemando alcune cose, dice: “Questo sabato andrò a stare per una settimana da mio figlio che sta poco bene, a Los Angeles, quindi ti occuperai tu di tutti gli appuntamenti.”
Sgrano gli occhi e lui se ne accorge; infatti, mi guarda come a voler dire‘Stai tranquilla, sei brava.’ e cerco de crederci.
“Segna per sabato pomeriggio il ritiro del book per Burner e poi manda in stampa questa roba e cerca di contattare Evelyn per il materiale appuntato sul foglio. Grazie!”
Prendo appunti mentalmente e passo in rassegna le cose da chiedere ad Evelyn, cerco il suo numero e la informo subito, poi vado in sala stampa e premo qualche pulsante qua e là senza poi tanta sicurezza e poi ritorno alla mia postazione computer.
Apro la pagina degli appuntamenti di sabato e scrivo nome, cognome e commissione, ma proprio mentre sto per chiudere un cognome salta alla mente.
Non può essere…


 

 
Mi scuso per il ritardo, ma tra estate, problemi di salute, problemi personali, problemi di cuore, inizio della scuola e blocco dello scrittore, non avevo tempo e voglia.
Spero mi perdoniate e spero seguirete ancora la mia storia.
N.B: Non ho idea di cosa faccia realmente  l’assistente di un fotografo, ma da me fanno così e ho immaginato così anche in America.
Cosa mi dite? Vi piace ancora la storia? Che cognome ci sarà scritto tra gli appuntamenti?
Alla prossima,
TittaH.
P.I.A.

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