Somewhere in my mind. di Maggie_Lullaby (/viewuser.php?uid=64424)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. ***
Autore:
Maggie_Lullaby
Rating:
Arancione.
Ambientazione:
è ambientata nella sesta stagione. Benché il secondo
episodio sia già passato JJ non se n'è andata.
Personaggi:
un po' tutti, Spencer Reid, Nuovo Personaggio.
Disclaimer:
i personaggi, ad eccezione di quelli da me creati, non mi
appartengono ma bensì a Jeff Davis. Criminal Minds appartiene
alla CBS. Questa storia non è stata scritta a scopi di lucro.
Somewhere
in my mind.
A
Ornella, perché non doveva finire così.
Ad
Arianna e Sebastiano, perché non hanno più una madre.
A
chiunque ha perso qualcuno, che quel qualcuno abbia scelto o meno di
morire.
Temere
l'amore è temere la vita, e chi teme la vita è già
morto per tre quarti.
{Bertrand
Russell}
Sede
di Quantico; Virginia.
“Reid,
è la decima volta che ti chiamo, per favore, richiamami
appena senti il messaggio. Se
non avrò tue notizie entro mezzogiorno verrò a casa tua
a controllare che vada tutto bene. Ovunque tu sia, accendi questo
dannato telefono!”, ruggì Derek Morgan nella cornetta
del telefono dell'ufficio, riattaccandolo rabbiosamente e passandosi
una mano sul viso, stancamente.
Nella
sede dell'Analisi Comportamentale di Quantico, quel giorno, andava
tutto nel migliore dei modi: non c'erano casi urgenti e gli agenti
del B.A.U. approfittavano di simile situazione per rimettersi in pari
con i rapporti degli ultimi omicidi seguiti e le scartoffie che
riempivano le loro scrivanie.
Tutti
gli agenti, meno che Reid.
Morgan
lanciò un'occhiata al proprio cellulare per controllare se
fosse arrivato qualche messaggio e, non vedendone, si alzò
dalla propria scrivania per raggiungere Emily Prentiss nell'angolo
relax, dove si stava versando un caffè.
“Reid
ti ha detto che oggi non sarebbe venuto?”, domandò più
bruscamente di quanto sarebbe voluto essere.
“Come..?
No. Non mi è arrivato nessun messaggio. Come mai?”,
domandò la donna, alzando un sopracciglio prima di rispondere
per via del tono del collega.
“Non
noti nulla? Lui non c'è. L'ho chiamato almeno una decina di
volta, sia a casa che al cellulare: non risponde. Ho una brutta
sensazione”, spiegò Morgan, lanciando ad intermittenza
un'occhiata al proprio orologio da polso.
“È
deformazione professionale”, disse Emily. “Vedrai che
starà benissimo, non gli sarà suonata la sveglia”.
“Sai
benissimo che tiene sempre il cellulare acceso, Prentiss”,
ringhiò Derek, mentre l'ansia che covava dentro di sé
cresceva.
“Si
sarà scaricato mentre dormiva”, provò la mora,
ora con meno convinzione di prima.
I
due rimasero in silenzio a guardarsi negli occhi, innervositi.
“Perché
deve sempre accadere
qualcosa anche nelle giornate più tranquille in questo
ufficio?!”, sbottò Emily, sbattendo con forza la tazza
di caffè sul ripiano del piccolo bar e camminando a grandi
passi verso l'ufficio del loro capo-sezione, l'Agente Speciale
Supervisore Aaron Hotchner.
Bussò
due volte alla porta chiusa, tamburellando il piede destro sul
pavimento in linoleum scuro mentre Morgan la raggiungeva.
“Avanti”,
disse la voce profonda di Hotch da dietro la porta. Emily la spalancò
ed entrò, piazzandosi davanti alla scrivania del collega
affiancata da Morgan.
“Qualcosa
non va?”, domandò Aaron, confuso dalle espressioni dei
due agenti.
“Reid
ti ha per caso avvertito che oggi non sarebbe venuto?”, domandò
Derek, velocemente.
“No,
ve l'avrei riferito. Non è venuto?”, domandò
Hotch, mentre lasciava cadere sul fascicolo su cui stava lavorando la
propria penna e alzandosi.
“No.
L'ho chiamato e non risponde. Se devo essere sincero, sono un po'
preoccupato”, ammise Morgan, nervosamente. “Non è
da lui non avvertire che non sarebbe venuto, lo sai bene”.
Hotch
gli fece cenno di aspettare, prese in mano la cornetta del telefono e
digitò il numero di casa di Spencer Reid.
Dopo
qualche secondo riattaccò.
“Non
risponde. Cosa vuoi fare, Morgan?”, domandò, una nuova
espressione sul viso.
“Vorrei
andare a controllare a casa sua. Solo accertarmi che vada tutto
bene”, spiegò il nero, gesticolando con le mani. Le
ipotesi di un incidente domestico non erano del tutto da scartare,
dopotutto, Reid viveva solo.
Hotch
meditò qualche secondo.
“Non
abbiamo casi, Hotch, ti prego. Non sono tranquillo”. Derek e
Aaron si guardarono negli occhi per parecchi istanti.
“Se
c'è qualcosa che non va, chiamaci”, gli intimò.
“Lo
farò.”, assicurò Derek. “Torno presto”.
E uscì dallo studio sotto lo sguardo meditabondo del
capo-sezione.
Emily
lo osservò qualche secondo.
“Va
tutto bene?”, domandò.
“Morgan
ha ragione: non è da Reid non dire nulla”.
**
Man
mano che guidava verso la casa di Reid la sensazione di occlusione
che stringeva lo stomaco di Morgan si acuiva sempre di più. I
pensieri dei più improbabili incidenti domestici gli
attraversavano la mente a una velocità allarmante. Provò
a richiamare il giovane amico ancora una volta, sia al numero di casa
che la cellulare, senza ricevere risposta se non quella della
segreteria telefonica.
“Dove
diavolo ti sei cacciato, ragazzino?”, domandò,
sbottando, superando una vecchia auto scura preso dalla foga.
Per
un misero decimo di secondo pensò anche a un S.I. che l'aveva
preso in ostaggio, prima di darsi dello stupido. Emily aveva ragione,
quella era
deformazione professionale.
Parcheggiò
davanti al condominio in cui viveva Spencer, entrando nel piccolo
cortile del palazzo per poi entrare in un piccolo ingresso; salì
le scale sino al quarto piano, lì dove abitava l'amico, e
inizio a bussare alla porta, alternando con delle suonate al
campanello.
“Reid?
Ci sei? Va tutto bene, ragazzino?”, domandò ad alta
voce, senza ricevere alcuna risposta. Si abbassò al livello
della serratura per controllare se riuscisse a vedere quel che
accadeva dentro casa.
L'idea
di buttare giù la porta a calci non lo attraeva
particolarmente, specialmente se in seguito sarebbe venuto a galla
che, tutto sommato, era vero che il cellulare si era scaricato e la
sveglia non squillata e il giovane stava semplicemente dormendo
beatamente.
Aspettò
due minuti davanti alla porta chiusa, sperando di udire i passi di
Reid raggiungere la porta, aprirla, e dirgli che non era suonata la
sveglia e se gli concedeva qualche minuto sarebbero potuti andare al
lavoro insieme.
Speranze
vane.
“Okay,
ragazzino, la responsabilità è la tua”, mormorò
tra sé Morgan, prima di fare un respiro profondo e buttare giù
la porta con un potente calcio. La superficie in legno cadde a terra
rovinosamente, e il rumore che provocò risuonò lungo le
scale per un po'.
Derek
portò istintivamente una mano alla pistola che teneva alla
cinta, per ogni evenienza, ed entrò in casa.
L'appartamento
di Reid era un trilocale che si apriva sul grosso salotto in cui vi
era un divano, una poltrona, un piccolo televisore e le pareti
stracolme di librerie piene di libri. Ovunque, vi erano libri e
collezioni di CD di musica classica. In particolar modo, spiccava il
nome di Beethoven sulle copertine dei dischi.
Seguì
il corridoio e si affacciò sulla cucina. Era intatta, pulita,
l'unica cosa vagamente fuori posto era un cartone di latte ancora
pieno, ma nulla di più.
Morgan
proseguì la strada, controllando tutte le stanza, chiamando
l'amico ad alta voce. Anche
se ormai era sicuro che non si trovasse in casa.
Per
ultima, entrò nella camera di Reid. Il letto era stato
rifatto, nulla lasciava presumere che ci fosse qualcosa che non
andava. Oltre al fatto che il proprietario della casa non si trovava
da nessuna parte.
Morgan
si diede un'occhiata in giro, preda dell'ansia più totale.
Dovette
fare qualche respiro profondo prima di calmarsi.
Prese
il cellulare mentre le gambe gli tremavano per la preoccupazione.
“Hotch.
È scomparso”.
Continua...
Okay.
Ci riprovo, e questa volta finirò questa fanfiction, costi
quel che costi! Anzi, scusatemi se non ho finito la fic precedente ma
mancavo assolutamente di immaginazione e ispirazione.
Con
questa, invece, è tutta un'altra storia. Il secondo capitolo è
già bello che pronto e lo pubblicherò tra qualche
giorno e il terzo capitolo credo lo scriverò 'sta notte. So
già quasi tutto quel che deve accadere, quindi le possibilità
che io non finisca questa storia sono assai poche, per vostra
sfortuna. ;)
Scherzi
a parte, spero che questa storia vi piaccia, mi sono impegnata molto
anche se trovo che sia troppo dialogata. Trovate così anche
voi? Fatemi sapere se questo primo capitolo vi è piaciuto,
oppure se non vi è piaciuto affatto. Le critiche sono sempre
ben apprezzate. :D
Un
bacio, a presto!
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. ***
Wow,
non mi aspettavo addirittura cinque recensioni, grazie! *-*
Dunque,
in questo capitolo capiremo già qual'è il segreto
tenuto nascosto da Spencer... Spero vi piaccia! L'idea mi attraeva
molto...
Il
prossimo capitolo è pronto e dovrei pubblicare il 15
Gennaio, in tal modo da portarmi avanti anche con il quarto capitolo,
e magari il quinto. I capitoli non sono eccessivamente lunghi ma non
voglio scrivere decine di pagine poiché impiegherei troppo
tempo tra un aggiornamento e l'altro.
Beh,
vi lascio al capitolo, io vado a scrivere il primo capitolo di
un'altra long su Criminal Minds che mi è appena venuta in
mente... *o*
Capitolo
2.
“A
casa sua non troveremo niente. È pulita, non vi sono segni di
difesa. Se qualcuno ha preso Reid, deve averlo reso innocuo oppure
l'ha fatto fuori casa”, spiegò Morgan, gli occhi scuri
che riflettevano l'ansia dipinta su tutto il suo viso.
Sembrava
che stesse accadendo tutto di nuovo, come con Raphael.
“C'era
la sua auto nel parcheggio?”, domandò Rossi, toccandosi
il mento, pensieroso.
“No”,
rispose Derek. “Non c'è niente che faccia presumere che
Reid abbia passato a casa il week-end”.
JJ
si mise una mano su una bocca, tentando di fare dei respiri profondi
per riprendere il controllo di sé stessa. Non poteva credere
che Spencer fosse sparito di sua volontà senza dire nulla a
nessuno, e men che mai riusciva a pensare che un altro S.I. l'avesse
preso in ostaggio. Non Spencer. Non di nuovo.
“Qualcuno
di voi sa che impegni avesse per questo fine settimana?”,
domandò Hotch, seriamente, il volto rigato da profonde righe
di spossatezza.
Erano
riuniti in sala riunioni, con loro c'era anche Garcia, ma vedere
comunque la sedia di Reid vuota dava a tutti un segno di disagio.
“A
me ha detto solo che venerdì sera sarebbe andato a un
concerto, non so che altri programmi avesse”, spiegò JJ,
cercando di mantenere il tono di voce fermo e professionale.
“Che
concerto? Dove?”, chiese Rossi.
“Al
John F. Kennedy Center for the Performing Arts.
Un concerto di... Bach, mi sembra”, spiegò la bionda.
“Iniziamo
da lì, controlliamo se qualcuno l'ha visto, se il suo
biglietto è stato segnato”, disse Hotch alzandosi. “È
palese che non assumeremo nuovi casi finché non troveremo
Reid, ma vi prego di mantenere un'aria discreta su questa faccenda.
Non voglio che l'intero dipartimento si metta in allarme finché
non abbiamo la certezza che sia effettivamente scomparso. Garcia?”.
“Sì,
signore?”, domandò l'eccentrica informatica, scattando
sull'attenti mentre afferrava una penna pronta a scrivere qualunque
cose le chiedesse il suo capo.
“Voglio
che chiami tutti gli ospedali di Washington, che contatti tutte le
stazioni di polizia, le concessionarie - voglio sapere dov'è
finita la sua auto – anche... gli obitori”. Un senso di
gelo calò nella stanza non appena venne pronunciata
quest'ultima parola.
“Hotch...”,
lo richiamò Emily, con tono predicatorio.
“Bisogna
essere sicuri di tutto, Prentiss. Non voglio avere incertezze.
Garcia, sei ancora qui? Morgan, Emily, voi due venite con me al John
F. Kennedy Center for the Performing Arts;
JJ aiuta Garcia, è un lavoro lungo; Rossi tu contatta la
clinica della madre, voglio sapere se le è successo qualcosa e
se Reid sia partito per questo motivo. Mettiamoci al lavoro”,
concluse Aaron, dopo aver dettato gli ordini velocemente.
In
simultaneo tutta la squadra si alzò per svolgere i propri
compiti.
**
Il
John
F. Kennedy Center for the Performing Arts
era uno dei più grandi teatri di tutta Washington D.C e
considerato uno dei patrimoni culturali della Virginia.* Il fatto che
Reid frequentasse un luogo simile non stupì nessuno dei membri
del Bureau: conoscevano tutti la passione che provava il collega per
la musica classica.
“Il
venerdì ha suonato qui la National Simphony Orchestra**”,
disse Emily, notando il cartellone che avvisava l'evento passato
attaccato vicino all'ingresso del teatro.
“Roba
grossa, non è uno spettacolo che si vede tutti i giorni”,
mormorò Morgan. Per quanto non lo affascinasse la musica
classica conosceva molto bene la fama di questa Orchestra,
considerata dai critici una delle migliori degli Stati Uniti.
“Ovviamente
Reid avrà voluto assistere”, disse Prentiss, con un
mezzo sorriso mentre immaginava il giovane genio emozionarsi a un
simile evento.
Hotch,
alla guida, parcheggiò nel primo posto libero che trovò
più vicino all'ingresso e scese dall'auto, estraendo dalla
tasca il proprio distintivo e una foto che aveva recuperato dagli
archivi di Spencer.
Il
cellulare di Morgan squillò e l'agente rispose al secondo
squillo.
“Rossi?”.
“La
clinica dice che Reid non si è visto e che la madre gode di
ottima salute. Mi sono preso la libertà di controllare i
movimenti della sua carta di credito: l'ultima spesa che ha fatto è
stata il venerdì sera, tardi, al Nora Restaurant”,
spiegò David Rossi.
“Al
Nora Restaurant? Però, si tratta bene il ragazzino. Grazie
mille, Rossi, noi stiamo per entrare”, riattaccò prima
che il collega più anziano potesse aggiungere qualcos'altro.
“Rossi dice che non è successo nulla a Diana, Reid non è
a Las Vegas e l'ultima volta che ha usato la carta di credito è
stata venerdì sera, sul tardi, probabilmente dopo il
concerto”, riferì a Emily e Hotch, che lo fissavano
speranzosi.
A
quelle parole la donna scrollò le spalle e si incamminò
a grandi passi verso l'ingresso, lasciando indietro i due colleghi.
“Non
so davvero dove sia finito”, disse Derek, stremato.
“Vedrai
che lo troveremo. Abbiamo solo bisogno di tempo”.
“Hotch,
se l'ha preso un S.I. sai benissimo cosa dicono le statistiche!”.
“Lo
so, solo una piccola percentuale viene ritrovata dopo le
ventiquattr'ore passate dal sequestro, e se Reid è stato
rapito il sabato sono quasi passati tre giorni. Ma Spencer è
in gamba, Morgan, ha già vissuto questa esperienza, sa come
deve comportarsi”.
Derek
annuì stancamente e si incamminò dietro ad Emily,
seguito dal capo-sezione.
L'ingresso
del teatro era spazioso, molto illuminato e decorato con sfarzo. Un
tipico luogo frequentato da persone con molto denaro. Probabilmente
lo stesso Presidente aveva camminato su quel pavimento decine e
decine di volte.
Prentiss
stava parlando con un inserviente, il distintivo ancora aperto in
mano. Faceva dei gesti nervosi, evidentemente non stava gestendo bene
la situazione. Per un secondo Hotch fu tentato dal desiderio di
richiamarla e mandarla in ufficio.
“...molta
gente, qui, non so dirle...”, stava dicendo l'inserviente, un
uomo sulla quarantina, tarchiato, con due spessi baffi a manubrio.
“Dovrei vedere una foto”.
Hotch
gliela mostrò insieme al distintivo.
L'impiegato
socchiuse gli occhi per vedere meglio la foto, avvicinando il viso
all'immagine.
“Oh,
Spencer! Sì, certo che mi ricordo di quel ragazzo, abbiamo
passato mezz'ora a parlare solo dei messaggi subliminali, un paio di
settimane fa”, disse. “Io però non l'ho visto
venerdì, ma non c'è da stupirsi, era pieno di gente e
io ho lavorato a lungo nell'ala nord del teatro”.
“Lo
conosce?”, domandò Morgan.
“Certo!
Ormai viene qui frequentemente da almeno tre anni!”.
L'inserviente sorrise. “Io non so dirvi se venerdì ci
fosse o meno, dovreste chiedere però ad Alison Juliet”.
“Alison
Juliet... e poi?”, fece Emily, segnandosi il nome.
“Patricks.
Alison Juliet Patricks. È una delle violiniste. Beh, diciamo
la violinista della National
Simphony Orchestra. Dovreste trovarla nell'auditorium, oggi è
giornata di prove, lo spettacolo inizia solo questa sera”.
Hotch
lo ringraziò con un cenno del capo, e si allontanò
mentre Emily afferrava il cellulare e chiamava Garcia.
“Dimmi
tutto, zuccherino”, disse l'informatica dopo pochissimi
squilli.
“Dovresti
farmi un controllo per un nome: Alison Juliet Patricks. È una
violinista qui al teatro”.
“Dammi
due secondi, tesoro”, disse la rossa, mentre in sottofondo
risuonava la voce leggera di JJ, evidentemente al telefono, e un
pigiare di tasti. “Eccola qui, figlia di un avvocato e
un'infermiera, ceto medio, ha due fratelli minore, Louis e Neil. Si è
diplomata a diciotto anni, a diciannove anni a concluso gli studi al
conservatorio ed è entrata a soli vent'anni nell'Orchestra di
Washington. Ha iniziato a suonare il violino a tre anni. Questa
ragazza è una piccola Mozart al femminile, rovesciato al
violino!”, spiegò Garcia, mentre le informazioni
sfilavano sotto i suoi occhi. “Ha ventisette anni e viva alla
Seventh Avenue, 118. Ma chi è questa? Una sospettata? Ha la
fedina immacolata”.
“No,
solo una conoscente di Reid, probabilmente. Voglio solo fare dei
controlli su chiunque sia stato vicino a Spencer nelle ultime
cinquantadue ore”, ringhiò Emily. “Voi avete
qualche novità?”.
“Nulla,
grazie al cielo, dagli obitori. Abbiamo iniziato da quelli. Stiamo
per finire gli ultimi, poi passeremo agli ospedali, vi chiameremo non
appena sapremo qualcosa”.
“Grazie,
Garcia. A dopo”, riattaccò e infilò il cellulare
nella tasca della giacca nera che indossava, poi, dopo aver fatto
qualche respiro profondo, si avviò lungo le scale che
portavano sino all'auditorium.
Hotch
e Morgan aspettavano sotto al palco, le braccia incrociate mentre una
guardia di sicurezza li scrutava dall'alto verso il basso.
Nel
frattempo l'Orchestra stava suonando una melodia meravigliosa. Un
susseguirsi di alti e bassi, una melodia che poteva assomigliare al
suono delle onde del mare e al fruscio delle foglie in autunno.
Almeno una ventina di violini suonavano in contemporanea la stessa,
meravigliosa, melodia, mentre il direttore d'orchestra muoveva la
propria bacchetta per guidarli con una tale armonia che sembrava
fossero un tutt'uno.
Poi,
improvvisamente, il suono dei violini calò e solo uno continuò
a mantenere il volume precedente, ma cambiando totalmente melodia,
rendendola più complicata quanto più bella.
Il
violino solista era suonato da una ragazza alta e magra, i lunghi
capelli biondi stretti in una coda dietro la testa, gli occhi chiusi,
il volto affilato ma bellissimo.
“Siamo
dell'FBI”, ripeté questa volta Morgan con voce più
alta, da far fermare il direttore d'orchestra e di conseguenza tutti
i violinisti. La violinista solista aprì gli occhi, mostrando
due bellissime pozze azzurre.
“Zinque
minuti di pauza”, disse l'orchestratore, con un brusco cenno
della mano, voltandosi poi verso i tre agenti con espressione
allibita. “Mai interrompere azzolo di violino! È una
coza vergognoza!”.
Dall'accento
si capiva chiaramente che era russo. Era piuttosto basso, dal fisico
scheletrico e una calvizia incipiente, gli occhi erano scuri e in
quel momento trasparivano rabbia in ogni modo possibile.
“Siamo
qui per vedere una persona”, disse Aaron, cercando di mantenere
un tono calmo, si avvicinò alle scale che portavano al di
sopra del palco sotto lo sguardo sempre più rabbioso della
guardia di sicurezza. Emily e Derek lo raggiunsero poco dopo.
Il
capo-sezione mostrò la foto di Spencer al direttore
d'orchestra.
“Riconosce
questo ragazzo?”, domandò.
“Zpenzer?
Ma certo! Un ragazzo molto intelligente!”, si rallegrò
l'uomo.
Morgan
si chiese come mai lì sembravano conoscere tutti Reid.
“Era
qui allo spettacolo di venerdì sera?”, continuò
Hotch.
“Zuppongo
di zì, agente, zì, come quazi ogni volta che ci
ezibiamo qui a Washington, d'altronde. Io però non l'ho vizto
venerdì, ma ero molto impegnato, un violinizta zi era
infortunato qualche minuto prima dello spettacolo e mi zono dovuto
occupare di lui. Dovete chiedere
a Alizon Juliet, però. Lei di certo za. Alizon?”, urlò
l'ultima parola in direzione delle
quinte.
Qualche
attimo dopo apparve la ragazza, un'espressione seria sul viso, quasi
angosciata, e tra le mani teneva una bottiglietta d'acqua che
stringeva troppo forte.
“Alizon,
cara, credo che quezti agente debbano farti delle domande zu
Zpenzer”, spiegò, appoggiando amorevolmente una mano
sulla spalla esile della ragazza, prima di allontanarsi.
“Siete
i colleghi di Spencer?”, domandò la ragazza dopo qualche
secondo di silenzio. Aveva una voce flautata, armoniosa, simile in un
certo senso al suono dei violini.
“Sì”,
rispose Morgan.
“Sta
bene?”, chiese ancora Alison Juliet, passando con lo sguardo su
ognuno di loro.
I
tre esitarono.
“Non
lo sappiamo”, disse infine Aaron.
La
ragazza annuì piano, deglutendo rumorosamente.
“È...
è scomparso davvero, allora?”, domandò
lentamente, mentre stringeva ancora più forte la presa alla
bottiglietta d'acqua.
Morgan
e Prentiss si scambiarono un'occhiata allibita, chiedendosi chi mai
fosse quella ragazza.
“Non
lo sappiamo”, ripeté Hotchner. “Lei perché
pensa che sia...”.
“Scomparso?
Non riesco a rintracciarlo da quasi tre giorni. Non è normale.
Dovevamo vederci sabato mattina a colazione, ma non si è
visto. L'ho chiamato, ma non risponde né al telefono di casa
né al cellulare. Casa sua è deserta. Ho chiamato
ovunque per sapere dove fosse finito. Se non si fosse fatto sentire
entro le sei di oggi sarei venuta da voi a controllare”, spiegò
la giovane violinista, scostandosi una ciocca di capelli dal viso.
“Quando
è stata l'ultima volta che l'ha visto?”, domandò
Hotch.
“Venerdì
sera, dopo cena. Mi ha portato a casa e mi ha detto che ci saremmo
visti il mattino dopo. Poi se n'è andato”.
“Era
in auto?”.
“Sì”.
Calò
il silenzio, mentre la carnagione della ragazza sfumava e diventava
man mano sempre più pallida.
“Mi
scusi, ma chi è lei?”, sbottò Morgan.
Alison
Juliet voltò lo sguardo verso di lei, guardandolo con i suoi
grandi occhi chiari.
“Sono
la fidanzata”, mormorò, alzando lentamente la mano
sinistra. All'anulare splendeva un anello d'oro bianco, con un
diamante che splendeva al centro. Un anello di fidanzamento.
Continua...
Anello
di fidanzamento:
http://www.modaevviva.com/fashion/wp-content/uploads/2006/12/engagement_tiffany_ring.jpg
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. ***
Capitolo
3.
Alison
Juliet si sedette sulla sedie che le veniva indicata da Hotch, la
schiena rigida, gli occhi umidi, le labbra serrate in una smorfia
preoccupata e il viso pallido.
“Allora”,
esordì Hotch, seduto dall'altra parte della scrivania. “Ci
racconti... dall'inizio”.
Dietro
di loro, chi in piedi, chi seduto, c'era il resto della squadra,
tutti consci dell'ultima informazione data loro dalla ragazza.
Alison
fece un respiro profondo, congiungendo le mani sulle gambe, prima di
iniziare a parlare.
“Venerdì
è stato come sempre: Spencer mi aveva avvertito che sarebbe
tornato nel pomeriggio dopo il vostro ultimo caso. Io avrei avuto il
concerto, quella sera, quindi gli dissi di venire. È rimasto
per tutto il tempo dietro le quinte, non ha preso un biglietto dato
che l'avevo invitato io ad assistere”, iniziò la bionda.
“Come
si comportava?”, chiese Hotch.
“Era
felice. Tranquillissimo. Non sembrava minimamente preoccupato... o
spaventato. Era il solito Spencer. Era contento di aver risolto il
caso. Il concerto è finito alle undici, come sempre. Era il
nostro quarto anniversario”, ripensò alla serata con un
lievissimo sorriso pensando alla sorpresa che le aveva fatto Reid:
aveva completamente riempito i sedili posteriori della propria
macchina di rose rosse per lei: i suoi fiori preferiti.
“Quarto?”,
deglutì JJ ad alta voce.
Alison
Juliet si voltò verso di lei.
“Sì,
quarto”. Poi si rivoltò verso Hotch.
“Siamo
andati a mangiare al Nora Restaurant, ci siamo andati per ogni nostro
anniversario, è una sorta di tradizione, dopodiché
abbiamo fatto una passeggiata in centro, preso un gelato, e tornati a
casa verso le due. Mi ha accompagnato lui, era serenissimo, ve lo
posso assicurare”.
“Cosa
ti ha detto?”, domandò Rossi. “Le ultime parole
che ti ha detto?”.
Alison
arrossì.
“Ci
vediamo domani mattina, tesoro. Ti amo”, balbettò
imbarazzata. Era una persona riservata, in particolar modo nei
confronti di Spencer. Riferire una simile frase alla squadra che per
lui era quasi una famiglia, dopo tutto quello che avevano fatto per
tenerglielo nascosto, le pareva tanto strano quanto imbarazzante.
Calò
un minuto di silenzio.
“Ma
lui non si è fatto vedere”, continuò Hotch,
invogliandola a continuare.
“No.
Avevamo appuntamento alle nove in un bar vicino a casa mia, si chiama
'Ariana', se volete controllare, vado lì quasi tutte le
mattine. Ho aspettato tre quarti d'ora. L'ho chiamato a casa, al
cellulare. Quando ho visto che non rispondeva ho pensato che avesse
cambiato idea, oppure gli fosse venuto un attacco di panico, non
so...”, la voce le si abbassò di qualche tono man mano
che parlava. Si asciugò velocemente una lacrima sfuggitale
dagli occhi.
Aaron
finse di non averla vista.
“Come
mai un attacco di panico?”.
“Beh,
avevamo accordato quella colazione per parlare principalmente del
matrimonio: cappella, invitati, le partecipazioni, fiori... Ogni
cosa. Conoscete Spencer, sapete com'è fatto esattamente quanto
me. Ho creduto che non se la sentisse, quel giorno. Gli ho anche
lasciato dei messaggi in segreteria... Gli ho detto che non importava
se non voleva parlarne quel giorno. Dopo, però, mi sono...
Arrabbiata, gli ho detto che per lo meno non doveva fare il vigliacco
e dirmelo che non voleva parlare del matrimonio. Gli ho detto che non
doveva illudere una ragazza chiedendole di sposarla per poi
cancellare tutto”, man mano che parlava dagli occhi di Alison
scivolavano lacrime cristalline che le rigavano il bel viso. “Mi
sono comportata come un'idiota.”
“Era
arrabbiata, non si deve sentire colpevole, chiunque si sarebbe
comportato esattamente come lei”, la interruppe Emily, sentendo
il tono della ragazza che man mano si faceva sempre più
incerto, rotto dal pianto.
Alison
annuì, piano, asciugandosi di nuovo le lacrime e facendo dei
respiri profondi.
“Ho
iniziato a preoccuparmi per davvero quella sera: Spencer non è
il tipo da non lasciare nemmeno un messaggio per avvertirmi... di
qualsiasi cosa, qualunque fossero le sue idee. L'ho richiamato decine
di volte, ed ogni volta scattava la segreteria telefonica. Ho
telefonato alla clinica di Diana, per sapere se fosse andato lì,
ma mi hanno detto che non c'era. La domenica mattina sono andata a
controllare a casa sua...”.
“Ha
una copia delle chiavi?”, domandò Hotch.
“Beh,
sì... Stiamo per andare a vivere ufficialmente insieme, ma da
un anno a questa parte passiamo spesso intere settimane solo a casa
sua, o a casa mia, quindi io ho una copia delle sue chiavi di casa, e
lui delle mie”, spiegò Alison Juliet, un po' stupita per
la domanda ma senza approfondire.
Rossi
e Morgan, che sino a quel momento erano rimasti in un angolo con le
braccia incrociate in silenzio, si scambiarono una profonda occhiata.
Per
un po' Derek aveva pensato che quella ragazza si fingesse la
fidanzata di Reid, presa chissà quale strana ossessione nei
confronti del giovane, ma man mano che sentiva il racconto non poteva
che dire a sé stesso che era stato solo un grande idiota a
pensarlo. Era ovvio che Alison fosse la promessa sposa di Reid...
solo non voleva crederci.
Perché
non gliel'aveva detto? Perché per quattro lunghi anni aveva
taciuto sul fatto di avere una ragazza? E perché non gli aveva
detto che si stava per sposare?
Lui, Reid, che gli aveva raccontato il suo bacio con Layla
confusamente, che gli aveva chiesto se mai avesse dovuto richiamarla.
Man
mano che ripensava a quei momenti si rese conto che Reid, invece, gli
aveva fatto delle domande riguardanti alle ragazze.
“Morgan”,
disse Spencer, una tazza di caffè in mano che stringeva quasi
compulsivamente. Era notte, si trovavano sul jet, sulla strada di
ritorno per Washington dopo un caso a New York.
“Sì,
ragazzino?”, chiese Derek, sfilandosi le cuffie con cui stava
ascoltando la musica.
“Posso...
chiederti un consiglio?”, balbettò rosso in viso,
cercando di nascondere gli occhi con una ciocca di capelli.
“Dimmi,
ti ascolto”, fece Morgan.
“Tu...
Ecco... Come sorprenderesti una ragazza? Una cosa... speciale, per
un'occasione particolare”, disse Reid, con la voce roca e
nervosa.
Morgan
lo squadrò dall'alto verso il basso.
“Cosa
mi nascondi, stallone?”, domandò ridendo, facendo
avvampare il genio.
“Niente!”,
esclamò con voce acuta.
Derek
rise, smettendo quando vide JJ rigirarsi nel sonno, probabilmente
infastidita dal rumore.
“Per
rispondere alla tua domanda: dipende dalla ragazza”.
“Lei
è... semplice, dolce, amante della musica, dei posti caldi,
divertente, spiritosa, odia il cioccolato in qualsiasi sua forma e
dimensione e sapore, ama i libri di Stephen King, nonostante abbia
paura poi a vedere i film, ed è...”, iniziò ad
elencare Spencer, con voce sognante.
“Frena,
ragazzo! Ne so abbastanza”, gli fece un occhiolino.
“Un'occasione speciale? Beh, hai detto che le piacciono i posti
caldi, no? Un viaggio in qualche isola caraibica non sarebbe male
come idea. Come mai?”. L'occhiata che fece Morgan non
prometteva nulla di nuovo.
“Niente”.
“Forza
Reid, a me puoi dirlo!”.
“Niente!”.
Un
mese dopo si era preso cinque giorni di ferie. Non disse mai a
nessuno il motivo, e il resto della squadra non volle indagare,
pensavano avesse bisogno di una pausa: dopo la storia di Owen era
piuttosto stressato. L'unica cosa che sapevano era che dopo quei
cinque giorni di vacanza, Reid sembrava felice, veramente felice.
“Ha
idea di dove potrebbe essere?”.
“Io...?
No. Assolutamente no. Ma voi credete che sia sparito di propria
volontà?!”. Alison Juliet era scioccata. Non poteva
credere che la squadra del suo fidanzato riuscisse a pensare che se
ne sarebbe andato senza dire nulla; lei stessa si dava della stupida
per averlo pensato, e per aver aspettato tanto a lungo prima di
denunciare la sua scomparsa, loro più che altri avrebbero
dovuto sapere cosa sarebbe potuto accadere.
La
verità era che sperare che Reid fosse andato via di propria
volontà e non preso in ostaggio da qualche S.I. era molto più
facile.
“Stiamo
ancora valutando le...”, iniziò Hotch.
“È
impossibile, lo sapete! Spencer non lo farebbe mai!”.
“Signorina...”.
“Niente
signorina!”, si alzò in piedi, furente. “Se volete
perdere tempo invece che cercarlo per davvero, benissimo! Mi
rivolgerò alla polizia”.
“Non
stiamo dicendo che non lo cercheremo”, la interruppe Rossi.
“Solo che dobbiamo fare ogni tipo di ipotesi”.
Alison
lo squadrò, lo sguardo pieno di rabbia furente.
“Evidentemente”,
riprese Hotch, e nella sua voce c'era rassegnazione quanto, in un
certo senso, anche delusione, “lei conosce Reid meglio di noi,
dal punto di vista privato, quindi le chiedo di collaborare alle
indagini”.
“Qualsiasi
cosa”, annuì Alison, velocemente.
“Benissimo,
riuniamoci in sala riunioni per discutere un po' sul da farsi”,
disse Hotch.
“Posso...
Posso avere cinque minuti, per favore?”, chiese la giovane
violinista, mormorando. Aaron la guardò e vide che gli occhi,
man mano le si stavano sempre più offuscando dalle lacrime.
“Naturalmente”,
disse.
Alison
uscì dalla stanza, cercando di convincersi a non mettersi a
correre. Raggiunse il bagno che aveva visto mentre arrivava lì
e si chiuse in quello delle donne, lasciandosi scivolare lungo la
parete sino a terra, senza più riuscire a controllare il
pianto.
Era
sempre stata una ragazza sensibile, dolce quanto facilmente
impressionabile, e la paura di perdere il ragazzo che amava, l'uomo
che avrebbe voluto accanto per il resto della vita la mandava
completamente fuori di testa.
Seppellì
il capo tra le braccia, contando dentro di sé sino a dieci.
Quando
si alzò, aveva le ginocchia tremanti; si avvicinò al
rubinetto e lo aprì, sciacquandosi il viso con forza,
eliminando ogni traccia di lacrime. Si aiutò con un fazzoletto
a pulirsi il viso dalla traccia di mascara colato sotto gli occhi
chiari.
Fece
un respiro profondo e uscì dal bagno con una nuova
espressione, fredda, determinata. Entrò in sala riunioni sotto
lo sguardo attenti di tutti.
“Da
dove cominciamo?”, domandò.
Continua...
Sette
recensioni, oh! *o*
Okay,
terzo capitolo, spero vi sia piaciuto benché non dica molto:
iniziamo soltanto a capire un po' il personaggio controverso di
Alison Juliet, dolce e sensibile, eppure dura e forte quando si
tratta del suo Spencer e di una primissima occhiata delle
reazioni differenti della squadra. Nei prossimi capitoli vedremo una
vera facciata e veri scontri tra i vari agenti del B.A.U e la
violinista.
Spero
vi sia piaciuto anche questo capitolo! <3
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. ***
Capitolo
4.
Alison
si sedette su una sedia, rigida, gli occhi ridotti a fessure,
cercando di nascondere dentro di sé la frustrazione, e non
riuscendoci, probabilmente.
“Ci
dica i vostri amici comuni, alcune persone di cui le ha parlato Reid
in qualche maniera: magari con cui ha avuto un diverbio, anche di
poco conto, e tutti i suoi ex che lei ha lasciato”, spiegò
seccamente Morgan mentre Penelope Garcia, con il suo fedele portatile
sotto mano, era pronta ad appuntarsi tutti i nomi dati dalla ragazza
per fare ricerche approfondite.
“Di
amici comuni? Beh, abbiamo decine di amici, ma ne frequentiamo spesso
soltanto quattro: Mike Oswool, Jeremy Sure, Amaranta Tennynson e Nina
Rockset. Vi posso assicurare che non potrebbero mai fare male a
qualcuno, tra l'altro Spencer non ha mai avuto alcun problema con
nessuno di loro, a meno che non consideriate diverbio una discussione
di due minuti con Mike su chi dovesse pagare il conto di una cena. Ed
è stato più di un anno fa. Non mi ha mai detto di
litigi particolari... Solo di un piccolo scontro qualche mese fa, se
ben ricordo, con un uomo che l'ha tamponato con la macchina...”,
iniziò Alison, cercando di ricordare tutto ciò che le
aveva detto il suo ragazzo su simili argomenti.
“Ne
parlò anche a me”, la interruppe Morgan. “Se non
sbaglio poi risolsero, giusto?”.
“Esattamente.
Hanno trovato un compromesso e non ci sono stati problemi. Il nome
l'avrò segnato in agenda in casa, per l'assicurazione...”.
“Suoi
ex?”, chiese Rossi. Garcia, al suo fianco, trascriveva al
computer ogni dettaglio.
Alison
Juliet si morse il labbro inferiore.
“Signorina?”,
insistette Hotch, guardandola con un'occhiata penetrante.
“Max.
Maximilian Lucas. Seriamente, lui è sempre stato comprensivo,
nell'ultimo periodo, poi...”, balbettò Alison.
Emily
alzò le sopracciglia.
“Dove
abita il signor Lucas”, chiese.
Alison
aveva gli occhi spalancati dal panico.
“Max
non lo farebbe mai”, disse, mangiandosi le parole dall'ansia.
“Se
non ce lo dice lei, lo troveremo noi, quindi può cortesemente
risponderci?”, domandò seccamente Morgan, guardandola di
traverso.
“1517
Chensinton Road”, sussurrò la bionda violinista. “Ma
sul serio, lui non lo farebbe
mai. Non potrebbe, non ne sarebbe capace”.
“Dicono
tutti così. Guarda caso, sono esattamente questi 'incapaci'
che compiono le stragi”, sbottò Derek.
“Ma
voi non capite. Lo conosco da quando abbiamo dodici anni, siamo stati
insieme sei anni, non ci siamo quasi mai persi di vista, è una
persona a posto che ama giocare a golf ed odia la cioccolata”,
disse Alison Juliet con voce stridula.
“Odia
la cioccolata? Questo per me fa di lui già il primo sospettato
possibile”, disse Garcia con una smorfia, attirando su di sé
le occhiate di tutti i presenti.
La
ventisettenne si alzò, passandosi una mano tra i capelli che
aveva racchiuso in una cosa disordinata, camminando nervosamente
avanti e indietro per la stanza.
“Ci
parli di Maximilian Lucas”, chiese Rossi, e dalla voce
traspariva chiaramente che il suo non era un invito, ma un ordine.
“Non
c'è niente da
dire”, ribatté Alison Juliet, fulminandolo con
un'occhiataccia che avrebbe paralizzato chiunque e che lo fece
rabbrividire. “Ci siamo messi insieme a quindici
anni, a ventidue anni mi chiese di sposarlo. Rifiutai, il più
gentilmente possibile, e ci lasciammo. Ma siamo rimasti amici, grandi
amici, ve lo assicuro. L'anno dopo conobbi Spencer, avevo ventitré
anni e Max è stato il primo a sapere della nostra relazione.
Frequentava altre donne, era felice, non ce l'aveva con me, ne
abbiamo parlato”.
La
squadra si lanciò delle occhiate.
“Quando
è stata l'ultima volta che ha sentito Maximilian?”,
chiese Emily.
“Un
mese fa”, deglutì Alison Juliet, consapevole di essere
arrivata a un punto di non ritorno. Era pienamente convinta
dell'innocenza del suo ex ragazzo, nonostante tutto.
“Un
po' tanto per essere questi due grandi amici che dice di essere”,
sbottò Morgan, guardando la ragazza più male che poté.
“Abbiamo
litigato”, snocciolò la violinista, guardando solamente
il bell'uomo di colore.
“Oh,
e su quale motivo?”, chiese questi, con occhiata strafottente.
Alison
abbassò il capo.
“Per
il matrimonio”, sussurrò.
“Era
geloso?”, chiese Hotch, dopo aver intimato a Morgan di stare
zitto.
“Geloso?
Sì, probabilmente. È stato il primo a cui l'ho detto,
gli ho chiesto di farmi da testimone...”.
“Posso
dirle che è stata priva di qualsiasi tatto?”, ringhiò
Derek. JJ lo richiamò allibita, non poteva credere a quello
che il suo collega stava dicendo.
“Eravamo
solo due ragazzi!”, strillò Alison Juliet, piena di
furia. “Due stupidi ragazzini che credevano nell'amore eterno
trovato da adolescenti! Era finita da cinque anni ed eravamo migliori
amici, cosa potevo pensare?! Max non mi ha mai
rinfacciato
il fatto che io l'abbia lasciato. MAI. Quindi non venga a farmi
lezioni di morale quando non conosce affatto né me né
tanto meno Maximilian quindi ora, per l'amor di Dio, se ne stia
zitto!”.
Morgan
ridusse gli occhi a fessure mentre la ragazza gli urlava contro tutto
ciò che non era riuscita a tenere dentro di sé. Quelle
urla non gli fecero il minimo effetto, non gli interessava se quella
ragazzina lo odiava, l'unica cosa che gli interessava era riportare
Reid a casa, ovunque egli fosse. Quella Alison Juliet stava soltanto
intralciando le loro indagini con tutti i suoi balbettii e le sue
stupide considerazioni da fidanzatina spaventata.
“Calmiamoci,
per favore”, disse seccamente Hotch, guardando prima la
musicista e poi il collega ed amico. “Max ha minacciato lei
oppure Reid, in qualche modo?”.
“No”,
rispose bruscamente lei. “Mi ha detto solamente che ero una
stupida, che non capiva perché avessi deciso di sposare Reid e
non lui. Ma non penso che lo pensasse veramente, era semplicemente
ferito nell'orgoglio, probabilmente. Abbiamo discusso; eravamo a casa
mia. È tornato Spencer, allarmato dalle urla che aveva sentito
sin dall'atrio, è entrato e ha visto me e Max. E' intervenuto,
Maximilian quando l'ha visto gli ha detto 'trattala bene' e se n'è
andato. Non ci siamo più sentiti”.
“Garcia...”,
iniziò Rossi.
“Come
fatto, vi porterò tutto appena possibile”, disse la
rossa eccentrica, uscendo velocemente dalla sala riunioni.
“Alison
Juliet, lei, io e Rossi andremo a casa di Maximilian Lucas. Prentiss,
JJ e Morgan, voi invece andate a casa della signorina Patricks”.
Hotch temette una nuova onda di furia della ragazza, ma questa si
limitò soltanto a prendere le chiavi di casa dalla borsa e a
sbatterle sul tavolo ovale con forza. “C'è l'allarme, la
combinazione è 468”, sibilò.
Prentiss
le prese e annuì.
“Se
avete bisogno, ci sentiamo al telefono”, disse Rossi, guardando
i colleghi.
“Non
ce ne sarà bisogno”, rispose Alison Juliet, le gambe che
le tremavano visibilmente. “Stiamo solo perdendo tempo”.
Nessuno
osò ribattere a quest'ultima affermazione.
Continua...
Ecco
un nuovo capitolo. Come vi avevo anticipato non sono eccessivamente
lunghi ma contengono il, come dire, “stretto necessario”.
Abbiamo
visto il primo diverbio tra Morgan e Alison Juliet, e nei prossimi
vedremo i vari “schieramenti” della squadra.
Questa
fic dovrebbe avere approssimativamente undici capitoli.
Ci
vediamo mercoeldì,
penso, con il prossimo capitolo. Ma forse posterò prima il
prologo di una nuova fic, sempre su tema Criminal Minds, intitolata
Hauntress che farà
parte di una “trilogia”, se così possiamo
chiamarla. Certo, sempre che vi faccia piacere! ;D Si ora ho scritto
già sei capitoli, e sto per iniziare il settimo, quindi...
Boh, ditemi voi. (:
<3
Uh,
grazie per le 8
recensioni!
Davvero! *O* <3
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. ***
Capitolo
5.
Alison
Juliet salì i gradini in legno che conducevano alla porta di
casa di Maximilian e si fermò davanti alla soglia, guardando
con aria affranta sia Rossi che Hotch, per poi suonare il
campanello. Era inutile discutere ancora, aveva replicato quella loro
scelta per tutto il tragitto sino a lì.
“Sì?”,
chiese una voce maschile dall'altra parte della porta, il tono era
rilassato, pacato.
“Max,
sono io, Alison”, disse con tono incerto la bionda violinista,
mordendosi un labbro per il nervosismo.
La
porta si aprì dopo appena due secondi. Sulla soglia c'era un
uomo decisamente molto alto, dagli occhi blu e i capelli neri corti,
vestito con un paio di jeans e una t-shirt chiara.
Prima
di parlare guardò meravigliato la ragazza che le stava davanti
e poi i due uomini che la accompagnavano.
“Alison...”,
disse lui, guardando Hotch e David. “Che succede?”.
“Possiamo
entrare e parlare, per favore?”, chiese la giovane donna,
torturandosi le mani mentre gli occhi le si velavano di lacrime.
Maximilian
Lucas si spostò facendoli entrare, con espressione sempre più
confusa. Casa sua era un quadrilocale, nonostante vivesse solo, ben
arredato e dall'aria sobria e pulita.
Il
proprietario fece loro strada e li fece accomodare in salotto; Alison
Juliet si sedette, la testa tra le mani, mentre Rossi l'affiancava,
serio e composto, Hotch invece rimase in piedi.
“Signor
Lucas, sono l'Agente Speciale Supervisore Aaron Hotchner, dell'FBI, e
lui è il mio collega, l'Agente Speciale David Rossi”,
fece le presentazioni Hotch sotto lo sguardo allibito e sorpreso di
Max quando venne nominata la parola FBI.
“Piacere
di conoscervi”, disse Max, anche se da come l'aveva formulata
sembrava più una domanda che un'affermazione. “Cosa
succede?”.
Alison
tirò su la testa e lo guardò.
“Max,
Spencer è scomparso”, balbettò lei, preda
dell'ansia, mettendosi un pugno sulla bocca per non far vedere che un
labbro aveva iniziato a tremarle per il pianto imminente.
L'uomo
aprì lievemente la bocca, strabuzzando gli occhi.
“Se
l'è filata?!”, esclamò, esplodendo in un impeto
di rabbia.
“Cosa...?
No! No, Max, no! Io... io credo che l'abbiano... preso”.
L'ultima parola per Alison Juliet fu terribile da pronunciare, non
riusciva ancora a capacitarsi di ciò che stava succedendo.
“È
stato rapito?”, mormorò allibito Maximilian, cercando un
appoggio e trovandolo su una madia a muro. Aveva bisogno di un
momento.
La
ragazza annuì velocemente.
“Loro
sono due colleghi di Spencer...”, sussurrò, “vorrebbero
farti qualche domanda”.
L'espressione
dell'uomo mutò velocemente.
“In
che senso?”.
“Dove
si trovava sabato, alle due del mattino?”, iniziò Rossi,
parlando per la prima volta.
“Mi
state interrogando?”, sputò l'ultima parola.
Gli
occhi di Alison si ridussero a fessure.
“Maximilian,
ti prego”, lo supplicò,
gli occhi che erano due pozzi di ghiaccio.
“È
solo per questo che sei venuta, allora, non per scusarti, no, ma per
far interrogare il tuo migliore amico sul rapimento del tuo ragazzo”.
Le sue parole, intrise di veleno, la ferivano peggio di lame
affilate.
“Non
intendo rispondere.”, dichiarò Max, incrociando le
braccia. “Ora, fuori da casa mia”.
“Torneremo
con un mandato, se sarà necessario”, lo minacciò
Rossi.
Alison
Juliet si alzò, ergendosi con tutta la sua bellezza, e prima
che chiunque potesse dire o fare qualcosa tirò uno schiaffo
sulla guancia del suo ex ragazzo. Il suono di quel gesto sembrò
risuonare nella stanza per un paio di secondi.
“Maximilian,
Spencer potrebbe essere stato rapito,
in questo stesso istante potrebbe trovarsi in guai seri,
potrebbe...”, chiuse gli occhi per un secondo. “E tu non
vuoi rispondere a qualche semplice domanda solo per il tuo stupido
orgoglio?!”, continuò senza completare la frase
precedente.
Hotch
strabuzzò lievemente gli occhi, credeva di aver più o
meno fatto il profilo a quella ragazza, ma evidentemente sbagliava.
Credeva fosse una giovane donna innocente e piuttosto debole
caratterialmente, e invece dentro di sé covava un lato di sé
forte e sicuro di sé, che aveva già tirato fuori prima
con Derek Morgan. Iniziò a capire cosa doveva aver affascinato
Reid di lei, era indubbiamente una bella donna, condividevano lo
stesso gusto per la musica classica, e possedeva un carattere niente
male.
Anche
se aveva cercato di non darlo a vedere il fatto che Reid si stesse
per sposare e il fatto che non l'avesse detto a nessuno l'aveva in
una qualche maniera offeso. Si era reso conto, nell'ultimo mese e
mezzo, che Reid era più entusiasta del solito, partecipava ai
casi con più attivismo del solito e a volte, invece, si
chiudeva in sé stesso a pensare, ovviamente con la testa
altrove.
Aveva
pensato a una ragazza nella sua vita, ma non avrebbe mai creduto che
in realtà il suo comportamento fosse dovuto al fatto che
suddetta ragazza avesse accettato di sposarlo.
Si
riscosse dai suoi pensieri quando vide Max annuire e sedersi su una
poltrona mentre Alison tornava al proprio posto accanto a Rossi.
“Sabato
alle due del mattino ero qui a casa con una donna”, disse
l'uomo, rispondendo alla parola di qualche minuto prima. “Si
chiama Elizabeth Kay, residente nella villa qui accanto, al numero
1519. Può confermare”.
Rossi
annuì.
“Ha
mai avuto particolari dissapori con Spencer Reid?”, continuò.
“No.
Siamo andati piuttosto daccordo, non siamo amiconi – e non
potremmo mai esserlo – ma non ci odiamo. Quando Alison mi ha
detto del matrimonio”, le lanciò un'occhiata profonda,
“ero arrabbiato con lei, non con Reid. Lui la ama e basta, non
gliene faccio una colpa”.
Alison
scoppiò a piangere, singhiozzando, seppellendo la testa tra le
mani, cercando di soffocare il pianto sul nascere. Rossi le rivolse
un'occhiata compassionevole e le batté dolcemente una mano
sulla schiena chinata. Sapeva bene cosa significasse perdere, o nel
suo caso aver paura di perdere, una persona cara.
Hotch
annuì comprensivo e continuò a fargli qualche domanda
pressoché di routine, aveva il sospetto, e, lo sapeva, sarebbe
stato presto confermato, che non fosse lui l'S.I che stavano
cercando.
Quando
gli suonò il cellulare fece loro cenno di scusarli e si chiuse
in cucina a parlare.
“Sì?”,
chiese.
“La
casa di Alison Juliet è pulita”, disse la voce di
Prentiss, dall'altra parte del telefono. “Lucida. È un
trilocale comodo, accogliente, non sfarzoso. Abbiamo trovato alcuni
vestiti di Reid in un armadio: non mentiva, vivono più o meno
assieme”.
“Non
avevo dubbi al riguardo”, disse Hotch.
“Voi
avete qualche novità?”, chiese la mora.
“Lucas
è pulito, ha un alibi”, confermò i dubbi della
donna l'Agente Supervisore.
Emily
sospirò sconfitta.
“Ed
ora cosa facciamo, si può sapere?”.
Continua...
Eccomi
di nuovo! Questo capitolo è veramente breve, ma dal prossimo
si dovrebbe entrare
nel vivo della storia e finalmente tra il sesto e il settimo capitolo
capirete dove si trova Reid! :D
Grazie
mille per le recensioni, siete meravigliose! *o*
A
mercoledì
con il prossimo capitolo di questa fic e di Hauntress.
A tal proposito, vorrei pubblicizzare questa nuova mia fiction sempre
con tema Criminal Minds che ho appena iniziato a postare, qui trovate
il link → http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=645314&i=1.
Mi
piacerebbe sapere cosa ne pensate! (:
A
presto! <3
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6. ***
Capitolo
6.
Alison
Juliet varcò per prima le porte a vetri dell'open-space, il
passo pesante e il respiro affannato. Si sentiva come un animale in
gabbia, e non sapeva quanto tempo sarebbe passato prime di perdere
completamente le staffe: lo schiaffo che aveva tirato a Maximilian e
lo sfogo con Morgan non erano altro che assaggi della furia che,
piano, alimentata dal nervosismo, stava crescendo dentro di lei.
Si
diresse subito verso la sala riunioni sotto lo sguardo sotto lo
sguardo di tutti i presenti della sala; la voce si era sparsa e ora
tutti sapevano chi fosse. Ad attenderla c'erano JJ, Emily, Morgan e
Garcia, che stavano parlando intorno al tavolo, le espressioni
stanche ma determinate.
Lanciò
un'occhiata fuori dalla finestra: il sole era calato da un pezzo e le
uniche luci che provenivano dall'esterno erano quelle dei lampioni.
“Tutto
bene?”, osò chiedere JJ, con tono materno. Si sentiva in
dovere di difenderla, non sapeva bene spiegarsi il motivo, forse
perché quella ragazza era importante per il suo Spence, il
ragazzo dolce che per lei era come un fratello.
Alison
Juliet scosse il capo con forza, serrando gli occhi.
Hotch
e Rossi entrarono nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“L'alibi
di Maximilian è stato confermato”, disse Hotch.
Emily
si abbandonò completamente sulla sedia, appoggiandosi sullo
schienale.
“Quindi
non abbiamo niente”, fece Morgan, strabuzzando gli occhi.
Le
ginocchia di Alison Juliet cominciarono a tremare e si aggrappò
con forza a una sedia per non cadere. Era vero, non avevano nulla tra
le mani, non potevano avere idea di dove fosse finito Reid, che cosa
gli fosse accaduto, perché non fosse con loro a sparare una
delle sue statistiche, una delle tante.
“Dobbiamo
riordinare le idee”, disse Rossi, ottenendo dei cenni d'assenso
da parte di tutti i presenti.
“Ti
posso parlare?”, domandò Morgan, alzandosi
improvvisamente, voltandosi verso Alison Juliet.
“Morgan”,
lo richiamò severamente Rossi, inarcando un sopracciglio.
Derek
lo ignorò e si alzò, seguito dalla bionda violinista,
la quale teneva lo sguardo alto, pronta ad affrontare qualsiasi cosa
Morgan le dicesse.
Lo
seguì lungo un corridoio ed entrò in un piccolo studio,
sentendo la porta chiudersi alle spalle.
“C'è
qualcosa che non ci stai dicendo?”, domandò Morgan,
seccamente. Alison Juliet si voltò a guardarlo: aveva le
braccia incrociate al petto e gli occhi scuri ridotti a fessure.
“Come,
scusa?”, domandò, strabuzzando i propri azzurri.
“Stai
per caso nascondendo qualche altro ex presa da chissà quale
strano istinto di protezione?”, ripeté il bell'uomo di
colore, digrignando i denti.
“Come
puoi anche solo pensare una
cosa simile?!”, si alterò subito la ragazza, muovendo
concitatamente le mani. A quel gesto Morgan sentì una stretta
al cuore: gli ricordava tanto Reid.
Si
passò una mano sul viso, stancamente.
Rimasero
in silenzio per parecchi minuti.
“Senti,
so che non ti vado particolarmente a genio”, iniziò lei.
“Ma non riesco a capire come ti possa anche solo pensare che io
stia proteggendo qualcuno”.
Morgan
fece una risata senza gioia.
“Perché
non mi ha mai detto niente di voi?”, domandò poi, con
tono strozzato.
Alison
Juliet sospirò.
“Credo
vorrebbe dirtelo lui”.
“Non
mi interessa”, sbottò Derek. “Io... ho bisogno di
sapere”.
Alison
Juliet lo guardò.
“Quando
è cominciata”, iniziò, “per lui era un
periodo difficile, terribilmente. Ci frequentavamo, ma... non era
nulla di serio. Spencer non voleva dirvi nulla, sai com'è
fatto: così riservato. In quel periodo, poi, credeva che mi
avreste ritenuto una distrazione per ciò che stava
affrontando”.
Morgan
non aveva bisogno che gli dicesse di che periodo buio stava
affrontando Reid: si erano fidanzati quattro anni prima, più o
meno ai tempi di Raphael, il peggior incubo del giovane genio.
“Poi
la nostra storia si è evoluta, e prima che ce ne rendessimo
conto era già passato un anno. Reid aveva già passato
la sua crisi, era diventato il ragazzo che aveva nascosto durante il
suo brutto periodo... Dopo Tobias”, serrò i pugni non
appena pronunciò quel nome. “Abbiamo pensato seriamente
a dirvelo allora, ma... Spencer aveva paura. Ne abbiamo discusso, ma
lui mi disse che rendere la nostra storia così concreta, così
ufficiale, avrebbe potuto ferirci”.
Morgan
abbassò il capo.
“Mi
disse che stava vivendo un sogno e che dirvelo sarebbe stato come
svegliarsi”. La voce di Alison Juliet si incrinò,
ricordando quelle parole che le si erano stampate in testa da anni.
“Non
pensavamo che saremmo arrivati a parlare di matrimonio, a quei tempi.
Quando mi chiese di sposarlo, una delle prime cose che mi disse fu
che era ora di presentarmi la sua famiglia”, lo guardò,
“sapevo che non si riferiva a sua madre”.
Morgan
la ascoltò in silenzio.
“Reid
disse... Ci aveva invitati a mangiare fuori questo venerdì”,
ricordò poi
“Sarei
dovuta esserci anch'io, sì”, annuì lei, annuendo,
intuendo la domanda del collega del fidanzato.
“Grazie”,
disse lui, poi.
Alison
Juliet non rispose.
“Riportalo
a casa”, sussurrò infine.
Quando
tornarono in sala riunioni trovarono tutti esattamente come li
avevano lasciati: privi di idee e di punti da trattare. Si erano
fatte quasi le due del mattino e, oltre a loro, la sede di Quantico
era vuota.
“Alison
Juliet”, la chiamò Hotch improvvisamente vedendola
massaggiarsi le tempie come se avesse mal di testa mentre si
risiedeva. Da quel pomeriggio aveva smesso di darle dal lei. “Forse
è meglio se vai a casa”
“No,
sto bene”, disse lei, alzando il capo di scatto.
“Se
scopriamo qualcosa ti chiameremo”, la rassicurò Emily.
“No,
no, voglio stare qui con voi: non è giusto che io mi riposi
mentre voi lavorate. E ora come ora non riuscirei a chiudere occhio”,
ribatté lei.
“Per
favore, vai a casa, anche per poche ore, schiarisciti le idee e poi
torna qui. Ognuno di noi ha bisogno di riposo, faremo dei turni”,
le disse Rossi.
Alison
Juliet lo guardò con un'occhiata più profonda.
“Adesso
non puoi aiutarci, vai a casa e riposati quanto puoi, a mente fresca
potrebbe venirti in mente qualcosa che sin ora ti è sfuggito”,
insistette la mora.
“Per
favore”, aggiunse, vedendo che la bionda non sembrava essere
propensa ad ascoltarla.
Alison
Juliet sospirò sconfitta.
“Ci
vediamo tra poco”, disse. “Torno presto”.
Afferrò
la borsa e la giacca e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
JJ
la seguì con lo sguardo finché non sparì dietro
la superficie in legno: pensò che già ciò che
stavano provando loro, come colleghi, amici, quasi una famiglia di
Reid, ciò che stava provando lei non poteva essere nemmeno
paragonabile.
Alison
Juliet parcheggiò la propria Audi nell'apposito garage e uscì,
barcollando, dall'auto. Durante il tragitto in auto si era lasciata
andare a un pianto liberatorio e dopo venti minuti credeva di aver
finito le lacrime. Sino a quel momento.
Aprì
con le chiavi il cancelletto del condominio in cui viveva e salì
con l'ascensore sino al sesto piano, dove era situato il suo
appartamento.
Sbadigliò
barcollante, infilando le chiavi nella seccatura della porta, quando
notò ai suoi piedi, sopra lo zerbino, una busta.
Si
chinò a raccoglierla, chiedendosi come mai fosse stata
consegnata lì e non lasciata in portineria.
Mentre
entrava in camera, disattivato l'allarme e chiudeva a chiave la porta
le lanciò un'occhiata; era una comune busta bianca
rettangolare bianca con una sola scritta: il suo nome.
Con
una strana sensazione di occlusione allo stomaco la aprì
piano, una smorfia sul bel viso affilato. Lesse le poche righe della
lettera, scritte al computer, con il cuore che aumentava i battiti
man mano che andava avanti. Quando arrivò all'ultima riga si
mise una mano sulla bocca per non urlare.
Continua...
Scusate
il ritardo per il capitolo. >.<
Spero
vi sia piaciuto e grazie mille per le sei recensioni *O*
Non
so quando posterò nuovamente, comunque abbastanza presto.
Spero, comunque. :D
A
presto!
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Capitolo 7 *** Capitolo 7. ***
Capitolo
7.
È
tutta colpa tua. È tutta colpa della tua bellezza. È
tutta colpa dei tuoi occhi che non mi hanno mai guardato come fanno
con lui. È tutta colpa dell'anello che porti al dito. È
tutta colpa tua se sta soffrendo. Non lo rivedrai mai più.
Rossi
rilesse la lettera per l'ennesima volta, sentendo lo stomaco che si
contorceva quando arrivò all'ultima frase.
Alison
Juliet era seduta su una sedia, tremante, un bicchiere d'acqua in
mano; ogni suo tentativo di mantenere la situazione, che sino a quel
momento aveva funzionato, si era rovinosamente distrutto e non
riusciva a dire una parola da quando era arrivata in ufficio.
Il
resto della squadra tentava di non pensare al peggio, anche se ormai
risultava difficile. Quelle fatidiche cinque parole risuonavano nella
testa di tutti come in un fastidiosissimo eco.
“Aspettate”,
esordì Emily, dopo aver afferrato la lettera in mano e riletta
un'altra volta ancora. “Si contraddice”.
L'attenzione
si spostò tutta su di lui, un debole barlume di speranza che
illuminava loro il cuore.
“Guardate”,
disse, appoggiando il foglio sul tavolo rotondo. “il tempo dei
verbi cambia: prima ha scritto 'non mi hanno mai guardato come fanno
con lui' e 'è tutta colpa tua se sta soffrendo'; ma poi
dice non lo rivedrai mai più”, guardò tutti negli
occhi. “Credo che Reid sia ancora vivo”.
A
quell'ultima parola Alison Juliet trattenne il fiato rumorosamente,
come se le facesse male addirittura sperare.
Hotch
annuì convinto, dandosi dello stupido per non averci pensato
prima: colpa del sonno.
“Questo
restringe il campo”, iniziò, con nuova determinazione,
velocemente.
“Deve
essere qualcuno che conosci”, continuò Morgan,
voltandosi verso Alison Juliet, tamburellando le dita sul tavolo
nervosamente.
Alison
Juliet riemerse dalle mani in cui aveva sepolto il viso.
“Vi
ho detto tutto”, mormorò con voce rotta. “Non ho
rifiutato ragazzi da anni”.
“Nessuno
ti ha mai detto di essere interessato a te? Qualcuno che conosci e
magari vedi abitualmente?”, domandò JJ.
“No”,
scosse il capo la violinista. “No”.
“Hai
mai ricevuto dei regali da presunti sconosciuti? Bracciali, fiori,
gioielli?”.
La
bionda rimase in silenzio qualche secondo.
“Ricevo
spesso dei fiori”, spiegò. “Ma... tutte le
musiciste ne ricevano, non c'è nulla di strano!”.
“Non
hai idea di chi te li possa aver lasciati?”, domandò
Rossi.
Alison
Juliet scosse il capo.
“Solo
alcuni si firmano. Sono semplici spettatori che a volte se apprezzano
la musica regalano dei fiori”.
“Hai
tenuto i biglietti?”, chiese Hotch.
“Solo
alcuni”, ribatté la ragazza. “Sono a casa mia”.
“Emily,
vai a prendere questi biglietti. Dove li tieni?”.
“Nel
mio comodino”.
La
mora annuì e uscì dalla sala riunioni con passo veloce,
scattante, il cuore che batteva a mille.
“Questi
fiori dove ti sono recapitati?”, fece ancora Rossi.
“Alcuni
assistenti li raccolgono appena dopo lo spettacolo e li portano nei
camerini”, rispose Alison Juliet.
“Quest'uomo
è un egocentrico, un narcisista, dovrà per forza averti
lasciato un biglietto con una firma: un'iniziale, un soprannome...”,
rifletté ad alta voce Morgan, camminando lungo la stanca. “Ti
viene in mente un biglietto simile”.
Alison
Juliet dovette pensare qualche secondo.
“Ogni
volta che mi mandano dei fiori, c'è qualcuno che si firma con
la lettera 'E'”, disse.
“Conosci
qualcuno che ha un soprannome o un nome che comincia con questa
lettera?”, continuò Morgan, quasi pressandola.
“Non
devi farti prendere dall'ansia”, chiarì Rossi, cercando
di calmarla, vedendola in ansia e porgendole un foglio e una penna.
“Scrivi qui tutte le persone che ti vengono in mente che
corrispondono a queste credenziali”.
La
ragazza annuì piano, prendendo tra le mani tremanti la penna:
dopo un paio di minuti aveva scritto cinque nomi.
“Garcia...”,
disse Derek.
“Consideralo
già fatto. Scaverò nelle loro vite peggio delle termiti
nel legno”, disse la rossa eccentrica, prendendo il foglio e
uscendo quasi di corsa dall'aula riunioni per arrivare nel suo covo.
Hotch,
Rossi e Morgan si guardarono attentamente.
“Quest'uomo
deve avere tra i trentacinque e i quarantacinque anni, bianco, è
un uomo egocentrico”, disse Morgan, iniziando a stilare un
profilo.
“Deve
avere un lavoro modesto, che non riesce a gratificarlo
professionalmente e questo non fa altro che aumentare la sua rabbia”,
continuò Aaron.
“Con
te probabilmente si comporta gentilmente, fa qualsiasi cosa tu gli
chieda, ma con gli altri è arrogante, presuntuoso, incolpa gli
altri per le proprie colpe”, fece Rossi, rivolgendosi
direttamente alla violinista.
“Avrà
sicuramente delle denunce di stalking sulla sua fedina penale e forse
avrà anche passato qualche anno in carcere per stupro”,
proseguì Hotch.
“Oh,
mio Dio”, proruppe lei. “È...”.
“Edward
Jacobs!”, strillò Garcia, la quale aveva seguito il
discorso tramite cellulare, rubando il nome di bocca alla ragazza,
prorompendo nella stanza.
Continua...
Questo
capitolo è molto breve, mi spiace, credo che il prossimo sarà
più lungo. Ho iniziato a scriverlo su carta e devo ancora
concluderlo e copiarlo al pc.
Ci
avviciniamo alla fine, credo che manchino due capitoli circa alla
fine...
Grazie
mille per il supporto! <3
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Capitolo 8 *** Capitolo Otto. ***
Imploro
perdono. Giuro. Scusate, scusate, scusate, scusate.
Non era mia intenzione postare così
tardi.
Vi chiedo sinceramente scusa.
Alla
fine le l'ho fatta a scrivere questo capitolo, alleluia! Dovrebbe
essere il terzultimo di questa fic... penso, o il quartultimo.
Vedremo! Il prossimo capitolo fosse l'ultima cosa che faccio lo
posterò tra circa una settimana, oppure il tempo potrebbe un
pochino allungarsi di un'altra settimana dato che parto di nuovo...
Comunque entro due settimane dovrei postare il nono capitolo.
Scusate
ancora. Spero che questo capitolo vi piaccia. ♥
Capitolo
8.
“L'inserviente?!”,
esclamò Emily, alla guida di un SUV scuro, con un'espressione
scioccata sul viso mentre rievocava nella propria mente il momento in
cui aveva parlato con Edward Jacobs, il giorno prima, e le aveva
raccontato con tutta tranquillità del suo ultimo –
presunto – incontro con Reid.
La
squadra era divisa in due macchine scure, tutti indossavano un
giubbotto proiettile e le pistole nella fondina, pronte all'uso.
Alison
Juliet era rimasta a Quantico e, quando erano usciti, l'avevano vista
seduta sulla sedia della scrivania di Reid, le mani sul volto in un
gesto stanco e disperato. Sembrava quasi stesse pregando che
trovassero il suo ragazzo vivo, e che si sentisse terribilmente in
colpa per non essersi resa conto prima delle attenzioni che Edward
Jacobs le rivolgeva.
Emily
inchiodò davanti all'entrata del teatro John
F. Kennedy Center for the Performing Arts e uscì sbattendo la
portiera, imitata dal resto della squadra; Morgan, Hotch e Rossi, i
quali si trovavano sull'altro SUV, scesero pochi istanti dopo.
Morgan
si mise davanti alla porta e fece un respiro profondo, prima di
entrare abbassando la maniglia – la porta era aperta.
L'atrio
del teatro era semibuio, e illuminato solo da una piccola luce che
rifletteva le loro ombre sulle pareti.
“Edward
Jacobs?”, chiamò ad alta voce Hotch, la mano appoggiata
sulla pistola.
Aspettarono
qualche secondo, in silenzio, i loro cuori che battevano
all'impazzata e il respiro pesante.
“Edward
Jacobs, FBI!”, gridò Morgan, con quanto fiato aveva in
corpo.
Le
luci sopra le loro teste si accesero all'improvviso e dalla penombra
di un angolo uscì la figura tarchiata dell'inserviente, tra le
mani uno straccio grigio.
“Che
cosa diavolo sta succedendo?!”, domandò con tono
stridulo. L'intera squadra si voltò verso di lui.
“Mani
dietro la testa”, ordinò Rossi, guardandolo con
un'occhiata profonda.
“...Che
cosa?”, balbettò Jacobs, nervoso.
“Mani
dietro la testa, ho detto!”, gridò di nuovo l'agente
FBI.
Morgan
si avvicinò lentamente a Edward da dietro le spalle e gli
prese le mani, ammanettandole.
“Edward
Jacobs, è in arresto per il sequestro di Spencer Reid.
Qualunque cosa dica potrebbe essere utilizzata contro di lei in
tribunale. Può chiedere la presenza di un avvocato, se non può
permettersene uno gliene verrà assegnato uno di ufficio”,
recitò Emily Prentiss, osservandolo con un'occhiata assassina.
“Che
cosa state dicendo?!”, ringhiò l'inserviente, cercando
di divincolarsi. “Io non ho fatto niente!”. Il tono con
cui disse l'ultima frase a JJ parve tremendamente falso.
“Vedremo
sino a che punto”, sbottò Morgan, spingendolo verso
l'uscita.
Hotch
seguì la scena tenendo sempre alta la pistola e la riabbassò
solo quando vide Edward Jacobs varcare la porta d'uscita.
Aveva
l'orribile presentimento che quell'uomo non avrebbe ceduto molto
facilmente alle loro domande.
**
Morgan
sbatté un pugno sul tavolo, facendolo tremare, gli occhietti
acquosi di Jacobs puntati su di lui.
«Non
te lo chiederò di nuovo, dimmi dove si trova Reid!»,
urlò Derek, l'espressione minacciosa di chi non scherza.
«Ed
io non so più come dirglielo: io. Non. Lo. So.», sillabò
l'inserviente, ricambiando lo sguardo verso Morgan.
Morgan
si morse la lingua per non doversi mettere a urlare. Voltò le
spalle all'interrogato e uscì dalla sala interrogatori,
sbattendosi la porta alle spalle.
All'uscita
trovò il resto della squadra, tutti con la medesima
espressione spaurita, chi cercava di nasconderlo e chi meno.
In
mezzo a loro, c'era Alison Juliet.
«Niente?»,
domandò. Non stava più piangendo, sembrava aver finito
le lacrime, ora la sua voce era decisa, secca.
«Niente».
La
bionda fece un gran respiro.
«Fate
provare a me», enunciò nel silenzio improvviso.
«Come?
No. Non hai una preparazione, non sai cosa fare, non puoi»,
rifiutò categoricamente Morgan.
«Lui
vuole me. Posso fargli dire dove si trova Spencer, ho un'idea.
Fidatevi.», li guardò tutti negli occhi, uno ad uno. «Vi
prego».
Hotch
e Rossi si scambiarono un'occhiata.
«Che
idea sarebbe?», domandò poi quest'ultimo.
**
David
aprì la porta con forza, sbattendola, una mano serrata intorno
a un braccio di Alison. La ragazza stava facendo una smorfia, e
questa si accentuò ancor di più quando Rossi la fece
sedere a malo modo sulla sedia davanti a Edward Jacobs.
Edward,
al contrario, sorrideva improvvisamente alla vista della ragazza e
cercò di lamentarsi sentendola gemere.
«Cinque
minuti.», ringhiò David, guardando la bionda negli occhi
per poi uscire dalla porta con passo pesante.
«Alison...»,
sospirò Edward, gli occhi che gli brillavano. «Cosa ci
fai qui?».
La
ragazza alzò gli occhi su di lui.
«Che
cosa ci fai tu, qui,
piuttosto»,
commentò acidamente. Edward si strinse nelle spalle udendo
quel tono e abbassò il cavo.
Alison
scosse la testa e disegnò sul viso una nuova espressione.
«Scusami»,
sussurrò, melodica. «Sono...
stanca, spaventata. Mi accusano di una colpa assurda».
Jacobs
corrugò la fronte, incuriosito.
«Dicono
che ho rapito Spencer»,
sbottò. «Io,
ti rendi conto?! Perché mai dovrei fare una cosa del genere?».
«Ti
accusano di che cosa?!»,
esclamò Edward, sbalordito. «Ma
non è possibile!».
«È
quello che dico anch'io! Come potrei fare una cosa del genere, per
quanto mi piacerebbe che spariss-». Si zittì
all'improvviso, abbassando la testa.
Edward
la fissò confuso.
«Hai
detto... hai detto che ti piacerebbe se lui... sparisse?».
Nascondeva a stento la gioia.
Alison
Juliet si guardò intorno per la stanza, alla ricerca di
qualche telecamera. Non trovandone, proseguì.
«Sì»,
confessò, mordendosi il labbro inferiore. «Vorrei che
sparisse dalla mia vita una volta per tutte».
Edward
era perplesso, continuava a fissarla come se non credesse alle
proprie orecchie.
«Ma...
ma tu lo ami, voi vi
sposerete»,
pronunciò l'ultima parola come uno sputo.
La
bionda lo fissò, inarcando un sopracciglio.
«Ho
rotto il fidanzamento qualche giorno fa, Ed. Venerdì sera, per
la precisione».
«Ma
non è possibile,
voi vi stavate baciando,
e abbracciando, e lui
ti ha portato fuori a cena...», balbettò l'uomo.
«Come
mi ha riaccompagnato a casa l'ho lasciato», ammise lei. «Non
potevo più continuare a fingere».
«Io...
io non capisco, Alison».
La
giovane donna fece un sospiro, guardando velocemente alle proprie
spalle.
«Non
ho molto tempo, hai sentito quell'agente dell'FBI, mi sono stati
concessi solo cinque minuti. Ho rotto con Spencer, perché non
potevo più mentire a me stessa... né a lui. La verità,
è che in lui ho cercato un sostituto, qualcuno che sostituisse
il vuoto che ho dentro di me per non poter avere l'uomo che
desidero». Lo prese per mano, accarezzandogli il palmo. «Tu».
«Io?!».
«Tu.
So di averti trattato sempre con diffidenza, ma pensavo che standoti
lontana avrei smesso di provare per te ciò che in realtà
ancora provo: amore.
Sei sempre stato così gentile, con me, così delicato,
buono, generoso... Ma sapevo di non poteri avere, di non essere
abbastanza per te. Così ho ripiegato su Spencer, che sembrava
pronto ad accogliermi tra le sue braccia. È stato così
per anni, ma non potevo sposarlo con la consapevolezza di amare un
altro, non potevo. L'ho lasciato... e ora dicono che sia scomparso,
mi accusano di essere stata io a sequestrarlo. Ma non sono stata io,
lo giuro».
Lo
fissò negli occhi. Sembrava che Jacobs stesse per scoppiare a
piangere per la gioia.
«Ho
saputo che anche tu sei sospettato, quindi mi sono detta... hanno
sbagliato su di me, ma può anche darsi che... Ed, io non ti
sto accusando di niente, ma... sei stato tu, non è vero? A
prendere Reid?».
Ci
furono degli attimi dei secondi durante i quali sia Alison che
l'intera squadra all'esterno della sala interrogatori trattennero il
fiato.
Poi,
Jacobs annuì.
«Sì,
sono stato io».
Alison
Juliet riprese a respirare, cercando di non mostrarsi sollevata.
«Tu...
tu mi ami?».
Di
nuovo, Jacobs annuì.
La
ragazza fece un gran sorriso.
«Confessa»,
lo supplicò.
Edward
spalancò gli occhi.
«Cosa?!
No!».
«Ti
prego.», lo supplicò
la violinista, stringendo più forte la sua mano. «Se
confessi, se dici dove si trova, diranno che hai collaborato e ti
abbrevieranno la pena, uscirai prima di prigione e se ancora mi
vorrai potremo passare il resto delle nostre vite insieme».
Jacobs
non parlò.
«Se
vado in prigione io... non so quando mi faranno uscire. Spencer
potrebbe essere ancora vivo, l'accusa per ora è solo di
rapimento, ma se mai lo ritrovassero morto si trasformerebbe in
accusa di omicidio e potrei passare il resto della mia vita in
prigione...».
«È
ancora vivo».
Alison
sentì un enorme peso lasciarle il petto.
«Ti
prego, confessa e dì dove si trova, fallo per me... fallo per
noi».
Jacobs
rimase ancora qualche istante in silenzio.
«Fattoria
Turner, poco distante dal ponte Cartage. È lì».
Alison
sorrise ancora di più.
«Grazie».
Rossi
irruppe in quel secondo, trascinandola fuori dalla sala.
«Geniale»,
commentò, congratulandosi con lei.
Alison
sorrise. Spencer era vivo. Sapeva dove si trovava. Sarebbe andato
tutto bene.
«Andiamo
a prenderlo».
Continua...
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