Tre letti

di Chiara_93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Tre letti

 

Capitolo 1

 

Hrrrrronf. Crrrrrooonf.

Hermione pensò a come avrebbe potuto traslitterare, in un ipotetico fumetto, il disgustoso russare di Ron, steso a pancia all'aria accanto a lei. Poi si rese conto che era un'idea stupida.

Tirò violentemente a sé le coperte, tanto Ron non si sarebbe accorto di niente nemmeno se avessero sparato con un cannone.

 

Forse era lei a sbagliare tutto. Era lei ad andare troppo piano. Pretendeva troppo.

Era la donna a dover rispettare i tempi dell'uomo, non il contrario.

Ma no. Cazzo, no. Due minuti era davvero troppo poco. Neppure il tempo di togliersi la maglietta.

Si ricordò del Ron coraggioso e impavido dei bei tempi, quando erano nella tenda, in fuga da Voldemort. Oh, allora le era sembrato così virile e forte, ironico e saldo, vispo e simpatico. Ron dai capelli color pomodoro, Ron che sdrammatizzava sempre. Allora pensava che stessero per morire da un momento all'altro, che dovessero vivere ogni secondo come se fosse l'ultimo, che dovessero godere reciprocamente l'una dell'altro come in un folle conto alla rovescia, verso la catastrofe finale. Alla fine, non l'avevano fatto. Mentre Harry rimuginava sugli Horcrux, sordo ai bisogni della carne, Hermione e Ron si erano appartati con la scusa di cercare dell'acqua. Sul greto di un fiume gallese, appartati fra due rocce, ci erano arrivati vicini. Ma Hermione aveva pensato che, se dovevano farlo, doveva essere in un altro modo, non così forzatamente. Allora credeva ancora al romanticismo.

 

Poi Voldemort era morto e si erano messi insieme per davvero.

 

Eccolo, ora, Ron.

Un perdigiorno sfaccendato, vagabondo, che passava le serate in alcoliche rimpatriate di ex-Grifondoro al Paiolo Magico.

Una voce arrogante che la sgridava perché il sugo faceva schifo, il risotto sapeva di merda, le sue camice non erano stirate, i pavimenti non brillavano e i piatti sporchi erano impilati sullo sgocciolatoio.

Un battifiacca disoccupato che criticava le scelte lavorative della compagna, perché il lavoro nella Magistratura Magica le toglieva tempo alle faccende domestiche.

Una mano serpentina che le sfilava banconote dal borsellino per giocarsele a carte e poi la schiaffeggiava – per il momento solo moralmente – perché spendeva troppo in scarpe, vestiti e acconciature.

Hermione stringeva i denti, e sopportava anche quello. Ma dove non riusciva a tenere a freno la sua ira era a letto. Lì Ron dava il peggio di sé. Attendeva i giorni del ciclo come una benedizione, per salvarsi da quella vergogna notturna. Una breve tregua di cinque giorni, poi Ron entrava in camera da letto già senza pantaloni.

Era un culo peloso che russava come un contrabbasso scordato accanto a lei, fiero del suo bel lavoretto appena una mezz'oretta prima. Si poteva capire una volta. Due. Finanche tre. Ma non ogni santa notte. Ron farfugliò qualcosa nel sonno. La cosa più schifosa era che si addormentava, come se non gliene fregasse niente del rancore di Hermione, dei suoi rimpianti, delle occasioni sprecate, del problema negato. Si addormentava come un bambino, esausto. E prendeva a russare, pacifico. Russava, nudo, senza mutande, i suoi flosci quattordici centimetri all'aria.

 

 

Hermione ricordava ancora la prima volta. La sua prima volta. L'umiliazione, il luridume, la lunga doccia gelida per sciacquare via quella collosa melma biancastra dal suo petto. L'ossessivo passare e ripassare rabbiosamente la spugna sul suo sterno, come se fosse macchiato di qualcosa di invisibile che non se ne veniva.

Ricordava l'orrore che aveva provato quando si era sentita schizzata. Aveva sperato che non fosse niente, che fosse solo una sua sensazione, poi Ron le era franato addosso, bello contento, ansimante. Non le aveva detto niente. Si era trascinato al suo cuscino e si era addormentato.

 

Aveva sperato che quello fosse stato un incidente dovuto alla tensione, all'ansia della prima volta. Ma anche le seconda era stata identica. E la terza. Alla quarta, fulmineo, Ron era entrato dentro di lei, che era completamente secca, impreparata. Il dolore era stato lancinante, lungo, lacerante, al punto da farla piangere. Mentre lei si ricacciava indietro le lacrime, il responsabile di quello scempio si accasciava sull'altro lato del materasso.

 

Ora che la via era “aperta”, la floscia e grassoccia appendice di carne di Ron poteva infilarsi all'interno di Hermione, che non provava il benché minimo piacere. Anzi. A volte l'attrito le provocava ancora dolore. E poi, c'era il disgusto, l'orrore, lo schifo di sentirsi zuppa del seme di quell'uomo senza aver avuto nemmeno un briciolo del suino piacere che Ron doveva provare, almeno a giudicare dai soffocati rantoli di eccitazione che emetteva.

 

Invidiava Ginny che segretamente le raccontava di come Harry riuscisse facilmente a farla venire anche tre o quattro volte, anche con la lingua o con le mani. In cambio, lei assecondava le sue piccole e innocenti perversioni: tacchi a spillo, lingerie di pizzo nero, calze nere, stivali al ginocchio. Ad Hermione sarebbe piaciuto tantissimo poter giocare un po' con Ron, stimolare qualche fantasia sessuale, immettere qualche emozione in quello sterile sfregamento di mucose. Ma niente.

Ron non aveva neanche idea di tutto ciò. L'unico uso erotico che dava alle sue mani lo testimoniavano i giornalini porno che ad Hermione capitava di raccattare in giro per casa, pudicamente nascosti sotto pile di vecchi libri di scuola.

 

Schrrrraawwwwfkkkk... per un glorioso istante, Hermione sperò che Ron si soffocasse da solo con un bolo di saliva, poi deglutì e tornò a russare come prima.

 

Depressa, Hermione si rivoltò su un fianco, cercando di ignorare i rumori corporei di Ron.

Pensò, con uno strale di nostalgia, a come la sua vita, da aperta e piena di opportunità che le era sembrata all'indomani della morte di Voldemort, era diventata un tunnel nero fatto di mutande sporche, piatti sudici, nottate d'angoscia.

 

Non era giusto. Non era giusto. Niente era giusto. Nulla era giusto, in quella vita.

Brrrrraaaaaffffschkkkrrr.

Angolo autrice

Ok, questa è la mia prima fanfiction: l'idea mi è venuta leggendo Harry Potter 7 e guardando le due parti del film.
Secondo i miei piani, questa storia avrà cinque o sei capitoli, in cui la vita di Hermione... diciamo che cambierà un po' da quella che conduce ora, anche grazie ad un personaggio di ritorno, biondo e stupendo.

Recensite in gran massa! :-) 

PS: A tutte le fan di Ron, perdonatemi per aver straziato il vostro mito. Ma era necessario per la causa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

«Guardie, conducete via l'imputato» ordinò Hermione con uno stizzoso gesto della mano, assisa dietro il suo scranno. Si strinse la toga nera al petto: faceva freddo. Il riscaldamento era fuori uso da anni, le aveva detto un rugoso impiegato che si portava una stufetta da casa.

Due robusti uscieri del tribunale si chinarono sull'untuoso ometto seduto nella gabbia degli accusati, e lo trascinarono fuori dall'aula attraverso una porticina di servizio.

 

Ecco dov'era finita, lei e il suo 110 e lode in Magisprudenza con bacio accademico.

Giudice di pace in una succursale distaccata del Ministero, in un buco dimenticato da Dio e dagli uomini nel bel mezzo della Scozia. Un posto così noioso e monotono da rendere addirittura interessante il caso che aveva appena risolto: un distillatore abusivo di Whisky Incendiario Ogden Stravecchio contraffatto, con l'unico guaio che la mistura superalcolica che preparava nel sottoscala di casa sua provocava uno sgradevole eritema verdastro che odorava di escrementi rancidi, che aveva costretto i guaritori del San Mungo a nebulizzare innumerevoli bidoni di Super Deodorante della Strega Clelia per le corsie del Reparto Intossicati.

 

Lo scadente avvocato d'ufficio dell'omino non aveva nemmeno tentato di difenderlo, limitandosi ad appellarsi alla clemenza della corte. Per niente mossa a pietà, Hermione aveva comminato al tizio una multa con i fiocchi e tre anni di interdizione da qualsiasi locale in cui servissero altro che non acqua di rubinetto e succo di zucca.

 

Mentre firmava e timbrava a casaccio le carte processuali – che le leggesse o meno era indifferente –, pensò ad Harry, che era appena diventato il più giovane Caposquadra di sempre nel Dipartimento Auror dopo aver sventato da solo il maldestro tentativo da parte di un potente mago oscuro sudamericano di soggiogare tutti i lupi mannari della Gran Bretagna. E lui non aveva nemmeno la laurea. Non si era fatto il culo per cinque anni su libroni ammuffiti come lei.

Pensò a Neville Paciock, che aveva vinto una borsa di studio e ora insegnava Erbologia Est-Asiatica come professore associato all'Università di Harvard.

Pensò a Luna Lovegood, assunta in pianta stabile da una TV babbana italiana, per la quale svolgeva il ruolo di sceneggiatrice di un programma chiamato – così diceva l'entusiastico bigliettino che aveva mandato per Natale – Voyager, che ne apprezzava molto la fantasia in fatto di bestie immaginarie e teorie cospirazioniste.

Pensò a Calì Patil, che pur essendo una perfetta oca aveva sfondato al Dipartimento delle Pubbliche Relazioni grazie alla sua “bella presenza” e ora si godeva la sua insignificante vita di mezzobusto del Ministero, che approfittava della sua quarta di reggiseno in bella mostra per distogliere i cittadini dai ricorrenti annunci di aumenti delle tasse.

 

Lei, Hermione, la prima del corso per sei anni di seguito, era ridotta a dirimere su questioni di liquore taroccato.

 

«Cancelliere, introduca la prossima causa» bofonchiò. Il cancelliere, un vecchietto minuto, curvo, rugoso, canuto, con due occhiali ad oblò spessi quanto vetri da saldatura, si chinò sul suo librone.

«In nome del Ministero della Magia...» gracidò, «Compare davanti a questa corte il signor... ehm... il signor Drago Lucius Malfoy». Prima ancora che Hermione potesse elaborare quel che aveva appena sentito, una voce calda, piena, strafottente risuonò nell'aula semivuota.

«Draco, Draco, mi chiamo Draco, vecchia talpa. Capisco che il giudice è bella, ma vacci piano – alla tua età, poi! – o diventerai più cieco di quanto non lo sia già» disse Draco Malfoy, avanzando tracotante fra i banchi del tribunale.

 

Hermione sobbalzò sul suo scranno, battendo le ginocchia contro la tavola di ciliegio. Strizzò gli occhi, non credendo a quel che vedeva. Eppure era proprio lui, Draco: alto, biondo, affilato come una lancia. Indossava un elegante giacca nera, camicia grigia e pantaloni cenere.

«Ehm... l'imputato mantenga un... ehm... mantenga un contegno verso la corte!» esclamò Hermione, sistemandosi sulla sedia. Era proprio Draco, lo stesso Draco di tutti quegli anni. Quando Hermione lo rimproverò, sorrise maliziosamente. Si sedette da solo al banco degli imputati.

 

Ma che ci faceva lì? Niente di più facile da scoprirsi: «Di cosa è accusato l'imputato?». Il cancelliere si prostrò sul suo registro, il naso aquilino a contatto con la carta umida: «È accusato di: abigeato o furto di bestiame, nello specifico numero tredici pollame vario, numero quindici conigli, numero otto...». Malfoy, vagamente sorpreso, levò una mano.

«Sta leggendo il verbale del caso di ieri sera, emerito cretino!» esclamò Hermione, riferendosi ad un processo ad un ladro di galline del giorno precedente. Il cancelliere la guardò male di soppiatto, risentito per l'epiteto, e squittì: «Oh mi scusi, mi scusi! Ecco: è accusato di: possesso non registrato di scopa modificata in contravvenzione al decreto legge numero 456/bis promulgato in addì 7 giugno anno domini 1895, ...».

«Sì, sì, ho capito, in buona sostanza, cosa dice questa legge?» incalzò Hermione, sbuffando di noia. Il cancelliere la fulminò con lo sguardo, offeso, e materializzò da una fessura della sua scrivania un rotolo di pergamena e scandì con una lentezza esasperante: «Chiunque possegga un manico di scopa ovvero un mezzo di locomozione aerodinamico composto da: a) manico b) coda di saggina più eventuali parti aggiuntive quali alettoni e lo sottoponga a modifiche sostanziali ovvero a interventi meccanici ovvero a migliorie che ne modificano la funzionalità senza il previo consenso dell'azienda produttrice è punito con una multa di galeoni trenta ovvero con la reclusione ai lavori forzati da anni tre ad anni ventinove da scontarsi in una cava di materiale edile ovvero in una miniera di carbone, così è stabilito».

 

L'avvocato di ufficio, un tizio sulla trentina dall'aria timida, affetto da una calvizie galoppante, si alzò in piedi e gridò: «L'imputato si rimette alla grazia del collegio giudicante!». Malfoy lo strattonò giù: «Stai zitto, pecorone, mi difendo da solo, se non ti dispiace. E poi, vedi di limarti le orecchie... sono sicuro che le ultime quattro eclissi solari siano state colpa tua». L'avvocato arrossì e si portò una mano al lato della testa, accarezzandosi le orecchie a sventola.

 

Hermione, suo malgrado, rise. Diede un'occhiata veloce al verbale della polizia: Draco era stato fermato a mezz'aria mentre era in viaggio verso il suo castello di montagna, ecco perché era lì in Scozia: al controllo del mezzo di trasporto, erano emerse delle irregolarità.

Malfoy era accusato di aver truccato una scopa da corsa, rifletté: la pena sarebbe stata comunque leggera. Fosse stato un altro processo, si sarebbe sicuramente ricusata perché conosceva l'imputato, ma visto che era un'accusa così lieve... e poi, vedeva il sarcasmo negli occhi di Draco, vedeva il suo sordo divertimento, il suo sorrisetto ironico. Che situazione, dicevano quegli occhietti socchiusi. Sette anni di inimicizia, e siamo qui. Hermione sapeva cosa stava pensando il suo antico avversario: ora mi condannerà al massimo della pena solo per vendicarsi.

«Come si dichiara l'imputato?» questionò, sgranchendosi.

 

Draco si alzò, sorrise: «Colpevole, ma è stato un delitto passionale, vostro onore».

«Cosa? Con una scopa? Dove te la sei... come... Malfoy?». Il cancelliere si allungò sulla sua sedia, fissando a palpebre strette l'accusato.

«Signor presidente, il mio cliente dev'essere assolto in quanto chiaramente incapace di intendere e di volere» intervenne l'avvocato difensore.

«Beota, ti vuoi stare zitto? Vai a far vento alle pale eoliche con quelle tue parabole, ché se ce ne fossero di più, come te, avremmo già risolto da un pezzo il problema delle rinnovabili» lo zittì Malfoy.

 

Hermione rise di nuovo, coprendosi la bocca con la mano: l'immagine dell'avvocato che sbatteva le orecchie come un elefante era troppo simpatica. Draco le inviò un sorrisetto di comprensione. Quella fredda aula di tribunale non era più tanto grigia. I capelli biondi di Draco irradiavano una luce nuova e calda.

 

Si sforzò di rimanere seria.

«Quindi l'imputato si dichiara colpevole?»

«Sì»

«Di tutte le accuse?»

«Tutte le accuse, compresa quella di aver fatto ridere per la prima volta da sei mesi il presidente della corte» rispose Draco. Hermione arrossì e si scostò all'indietro i ricci capelli castani. Si vedeva così chiaramente che era infelice? Era così lampante? Lo si poteva leggere sul suo volto? O era solo Draco che la capiva così al volo?

 

«Vista la confessione dell'imputato, la corte condanna il suddetto ad una multa di trenta galeoni. L'udienza è tolta. L'imputato intende fare appello?» sentenziò Hermione, battendo debolmente il martelletto.

«Sì, vostro onore: l'imputato appellerà la sentenza al bar del tribunale, dalle ore 13 alle ore 13:30, e spera che il qui presente giudice sarà presente per inasprire la sua condanna davanti ad una tazza di caffè» replicò Malfoy con un sorrisetto.

 

«Guardie, conducete via l'imputato» ripeté stancamente Hermione. Gli uscieri sollevarono Draco, che non oppose resistenza se non per un sommesso: «Ma su di te ci hanno provato la Pozione Oliante, o sono io che ti arrapo?».

 

Non appena Draco uscì dall'aula, questa sprofondò nello stesso grigiore di prima. Fredda. Diroccata. Cadente. Noiosa. Hermione cercò di ricordare i capelli biondi di Malfoy, il suo sguardo perspicace. Decise che, in fin dei conti, ci sarebbe andata, al bar. Almeno solo per sorridere un altro po'. Solo per ricordare i bei tempi, quando il futuro le sembrava roseo.

 

«Compare davanti a questa corte il signor Wolfgang Wilfrid Ebersbacher, accusato di: possesso non dichiarato di ovino appartenente alla specie Capra hircus nella propria camera da letto...» tornò a borbottare il cancelliere
 

Angolo autrice

Ok, questo è il 2° capitolo.
Credo che i capitoli, in tutto saranno sei o sette, perché devo dividerli altrimenti diventano troppo lunghi. Già questo è un bel papiro, ma non potevo suddividerlo e non volevo accorciarlo. Ditemelo se risulta troppo prolisso, thanks.

Questo cap. è un po', come dire, "giudiziario", però a me è piaciuto scriverlo.
Daccapo: sono graditissime recensioni, specie se colme di critiche! Cavillate pure.

Tranquilli, nel prossimo capitolo entreremo nel vivo dell'azione romantica! :-)

Ringrazio le due recensioni del Cap. 1, che mi hanno resa felicissima: grazie!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

«Sai chi ho incontrato oggi, al lavoro?» chiese Hermione, rimestando fra i suoi spaghetti, senza appetito.

Ron si passò la forchetta fra i denti con un rumore stridente, come unghie sulla lavagna, e scosse la testa. «Non me ne frega niente di chi hai incontrato. Mi frega che questo sugo è uno schifo». Hermione non disse niente. Strinse la posata con più forza, ma non disse niente. Era abituata agli sprezzanti commenti del compagno. Qualche giorno, si riproponeva, avrebbe detto “Bene, fammelo vedere tu, come si fa un sugo decente”. Cosa si credeva, di aver trovato il rimpiazzo della madre, con cui poteva, però, anche andare a letto? Credeva che si sarebbe rassegnata a fare la brava casalinga? E, anche ammettendo che si fosse chiusa in cucina, chi avrebbe portato uno stipendio a casa? Non certo lui, che aveva passato tutta la giornata a bighellonare per Diagon Alley.

Ron succhiò gli spaghetti dai rebbi della forchetta, schizzando sugo dappertutto: sulla sua canottiera piena di macchie giallastre di sudore, sulla tovaglia e per terra. Hermione fremette di rabbia e ingoiò anche quel rospo.

 

«Granger» la salutò Draco, impassibile come al solito. Erano al bancone del piccolo bar del tribunale. Era ora di pranzo, e molti impiegati ed avvocati stavano facendo uno spuntino, chi con un tramezzino, chi con una merendina. Nel complesso, era un ambiente caldo, fumoso e accogliente, tutto coperto da vecchio legno di ciliegio: muri, pavimenti, infissi.

«Allora, Malfoy, premetto che questo incontro è a titolo puramente professionale» esordì Hermione.

«Non sei cambiata, Granger. Scarpe da ginnastica, jeans, dolcevita» notò lui, passandosi una mano nei suoi capelli biondi. Hermione non poté fare a meno di notare quanto fossero ben curati, lustri, tenuti corti e lisci. Li paragonò brevemente all'incolto e arruffato cespuglio rosso di Ron, incrostato di forfora e luridume.

«Nemmeno tu. Pieno di te come un otre di vino» rispose la donna. Per qualche ragione, si pentì di non essersi truccata meglio, di non essersi messa orecchini più belli. Aveva un paio di scarpe con i tacchi alti, a casa, perché non si era messa quelle? E anche una gonna corta, un bel tailleur.

«Tagliente come al solito, Granger. Non ti è ancora passata quell'abitudine di mascherare gli apprezzamenti da insulti» fischiettò Draco, prendendo il suo cappuccino macchiato e agitando con il cucchiaino. Hermione avvampò e si affrettò a negare: «Cosa stai dicendo? Sta' zitto». Valutò che fosse meglio deviare da quel pericoloso filo del discorso: «Piuttosto, parliamo di te. L'ultima volta che ci siamo visti, stavi fuggendo da Hogwarts». Draco si strinse nelle spalle: «Ho ritenuto opportuno abbandonare il campo prima della rissa finale. Ho sentito che San Potter ora fa l'accalappiacani per il Ministero».

«Sarebbe interessante sapere cosa fai tu» lo aggredì Hermione. Non riusciva ad indignarsi, ad offendersi. Sapeva che Draco era il male, era un voltagabbana, la voleva manipolare di certo, ma non riusciva a detestarlo. Quegli occhi e quel mezzo sorriso la stregavano come due pinte di Amortentia.

 

«Ron, perché non usciamo assieme, una di queste sere? È da tanto che non...» azzardò Hermione.

«No» la freddò lui, stravaccato in poltrona davanti alla TV. Stava guardando un mediocre varietà con molte ballerine nude e un presentatore insulso. Hermione – com'era ovvio che fosse – stava lavando a mano i piatti, nel lavello della cucina.

«Perché no?»

«Ho detto no, ed è no. Tu ti fermi a parlare, a chiacchierare, a pettegolare» rispose con astio l'uomo. Ad Hermione sarebbe piaciuto tantissimo dirgli che era lui, quello che trovava pali ad ogni passo: amici di chissà quale nottata brava assieme, squallide signorine bulgare che conosceva per vie traverse, grotteschi stregoni irlandesi dai denti giallastri che puzzavano di liquore già alle dieci di mattina. Ma tacque. Tacque perché il tono di voce di Ron non ammetteva repliche.

Dieci minuti di silenzio dopo, lui parlò di nuovo. Con tono imperioso, domandò: «Che c'è di dolce?». Sapeva benissimo che non c'era niente di dolce: voleva solo un pretesto per litigare.

«Niente» disse a denti stretti Hermione, passando la spugna sul bordo scheggiato di un piatto fondo. Ron l'aveva fatto cadere con una gomitata, e aveva dato la colpa ad Hermione perché “muoveva il tavolo”.

«Come sarebbe a dire niente? Perché cazzo non fai la spesa?» strepitò dalla sua poltrona.

Con tutta la calma di cui fu capace, Hermione sibilò: «Potresti anche andarci tu, a fare la spesa, un giorno o l'altro. Io la mattina lavoro». Voleva aggiungere “e tu invece no”, ma si astenne per non adirarlo.

«E allora? Che me ne frega? È la decima volta che ti dico che voglio qualcosa di dolce, e in questa cazzo di casa non c'è mai niente, vergognati» la insultò. Hermione si morse un labbro per non rispondergli a tono. «E visto che tu non capisci un cazzo, stasera me ne esco per i cazzi miei».

 

«Quindi sei diventata un giudice» disse in tono amabile Draco. Hermione annuì, ammirandone la figura virile, alta e slanciata. La giacca nera metteva in risalto il fisico atletico di Draco: non era un marcantonio, ma era snello e muscoloso. Il pomo d'Adamo gli rimbalzava nel collo sottile.

«Io, invece, sono nel settore affaristico. Lavoro per una holding tedesca come analista presso la Gringott» spiegò, serafico. Hermione non riusciva a decifrarne il volto. Era marmoreo, statuario. Ma anche così dannatamente affascinante. Così diverso dai larghi e rozzi lineamenti campagnoli di Ron. Chissà cosa passava nel cervello nascosto dietro quella pallida maschera di distacco.

«Niente di illegale, eh, Malfoy?» lo stuzzicò lei.

«Assolutamente. Sono poco più di un passacarte» assicurò Draco con un affabile cenno del capo. Hermione tentò ridicolmente di atteggiarsi quanto più poteva: ma il dolcevita stroncava sul nascere ogni speranza di mettere in risalto il suo magro seno. Si riavviò i capelli con un discreto gesto della mano sinistra. Malfoy, naturalmente, lo notò. E sorrise lievemente, divertito. Dannazione, pensò Hermione, sto facendo il suo gioco. Ma, francamente, non le importava.

 

«Esco» annunciò brutalmente Ron quella sera, andando in camera da letto. I suoi passi pesanti risuonavano per la casa. Non si era nemmeno fatto la doccia.

«Dove vai?» chiese Hermione, che stava leggendo sul divano l'ultimo numero della Rivista giuridica. Doveva tenersi aggiornata sulle nuove leggi, se mai fosse stato bandito il concorso per le magistrature superiori.

«Saranno cazzi miei?» rispose Ron. Adorava quella parola. La diceva sempre più spesso.

«Quando torni?» chiese Hermione, sforzandosi di non pensare al bruciante senso di disgusto nello stomaco. Disgusto per Ron, disgusto per quella casa, disgusto per sé stessa che non riusciva a mettere la parola basta a quella farsa. E in nome di che? In nome di un'amicizia lunga sette anni. Ma Ron era cambiato. Doveva trovare la forza. In qualche modo.

«Non mi aspettare. Tanto, se ci sto o non ci sto non fai comunque un cazzo» punse. Lo sentì che si spruzzava abbondantemente, da capo a piedi, di profumo, forse per celare l'olezzo di sudore marcio. Un profumo forte, dolciastro, irritante.

 

Da dove si trovava Hermione, riusciva benissimo ad annusare il delicato dopobarba di Draco, sempre perfettamente rasato. Un dopobarba morbido, discreto, misterioso.

«Quindi ti sei sposata, Granger?» la buttò lì, distrattamente, Draco. Indicò l'anello d'oro bianco al dito di Hermione. Lei sorrise: «No. Conviviamo soltanto».

«Weasley, eh?»

«Azzeccato»

«Come ti trovi con lui?» indagò Malfoy. Oh, Hermione sapeva che Draco era perfettamente a conoscenza della sua desolante vita coniugale, delle sue umiliazioni quotidiane, di quanti rospi aveva ingoiato, e del sordo ribollire dei suoi visceri. Sapeva che lui sapeva, che aveva saputo dal primo momento in cui era entrato in quell'aula di tribunale.

«Benissimo. Ron è un bravo compagno» mentì sfacciatamente Hermione. Draco annuì, ma entrambi sapevano che lo faceva solo per finta. Lei sentì il cuore battere forte: poteva confidarsi? Poteva farlo? O stava solo dando il fianco ad un nemico subdolo e suadente?

 

Hermione camminò scalza fino al letto matrimoniale che condividevano. Cautamente, si infilò dalla sua parte. Esaminò con un brivido di disgusto il cuscino di Ron, umidiccio della sua bava, quindi lo coprì con il lenzuolo.

Si stese, annoiata. Ron stava finendo di vestirsi. Si abbottonò una camicia a quadri rossi e bianchi che non riusciva a nascondere il ciuffo di peli sul petto, si tirò su un paio di rozzi pantaloni marroni e si infilò un paio di lerce scarpe da ginnastica, tutte inzaccherate di terriccio secco.

Senza dir niente, senza chiedere il permesso, Ron sgambettò fino all'attaccapanni a cui la compagna aveva appeso la borsetta. Hermione lo sentì trafficare con due cerniere: quella della borsa, e quella del borsellino.

«Cosa stai facendo?». Nessuna risposta. «Ron, cosa stai facendo?» disse un po' più forte. «Ron, stai prendendo i miei soldi?» accusò Hermione, mettendosi a sedere. Ancora nessuna risposta. «Ron, quanto hai preso? Ron! Ron!» chiamò lei. Ron rientrò in camera, ignorandola. «Ron, Ron, guardami, Ron, perché prendi i miei soldi? Che devi...?». Senza degnarla di uno sguardo né di un fiato, l'uomo andò dritto al comodino, e aprì il secondo cassetto. Con una fitta di orrore, Hermione si ricordò che era quello in cui teneva i preservativi – che usava prima che lei iniziasse a prendere la pillola anticoncezionale. Ron si fece sgusciare in tasca una scatola di Durex. La voce incrinata dal terrore, Hermione balbettò: «Ron, dove stai andando? A cosa ti servono i...? Ron! Ron, torna indietro, Ron, no, devi dirmi dove stai...?». Ma Ron era già uscito dal portone, sbattendoselo dietro con violenza, furibondo come se la compagna avesse violato chissà quale suo diritto.

Ron va a puttane. Ron va a puttane, si ripeté Hermione, cercando di capacitarsene. E ci va con i miei soldi. Un velo di torpore si impadronì del suo cervello. Ron andava a puttane, e non cercava nemmeno di nasconderlo.

 

«Granger, tu dove abiti?»

«Londra» disse lei. «Presumo tu stia ancora nel castello dei Malfoy». Draco fece segno di no.

«Ho un appartamento a Londra anch'io. Sai, per la Gringott. E poi quel castello è troppo gotico. Ai miei clienti non ispira fiducia». Draco sorseggiò il suo cappuccino, metodicamente. Si controllò l'orologio, rassicurato, e riprese a parlare.

«Hai un gufo, Granger?». Strana domanda.

«Sì. Trinciamignoli» disse timidamente Hermione. Draco rise, per la prima volta. Una risata armonica, come una cascata d'acqua, una risata bianca e splendente. Trinciamignoli era un bel gufo austriaco, famigerato per la sua passione di azzannare il ditino delle sue vittime. Un regalo di Ron, quando ancora ne faceva.

«Be', se mai vuoi scrivermi... questo è il mio biglietto da visita. Ora devo andare. Ho un affare da cinquanta milioni di galeoni, e se lo salto, salta anche il debito pubblico di questa nazione. Arrivederci, Granger, mi ha fatto piacere rivederti» si congedò, dando ad Hermione un rettangolino di plastica con il suo indirizzo.

«Non ti scriverò» tentò di dire Hermione. Draco, già sulla via per l'uscita, si voltò per un istante e le sorrise, senza dire altro, lasciandola a rigirarsi in mano il bigliettino, e a tentare di sbrogliare la matassa dei suoi sentimenti.

 

Rimase stesa sul letto per diverse ore, scioccata. Poteva sopportare tutti i soprusi di questo mondo. Poteva sopportare che Ron le avesse tolto le gioie del sesso. Poteva sopportare di essere insultata da un nullafacente perché lavorava troppo. Ma non poteva sopportare quello. Non poteva sopportare che l'uomo a cui aveva promesso amore la tradisse con chissà quale mignotta, senza neanche fare lo sforzo di nasconderlo.

Non pianse. No. Perché non c'era niente di cui piangere. Hermione rimase sdraiata, gli occhi ciechi che fissavano il soffitto beige, stordita. Ma non pianse nemmeno una lacrima. Sentiva un sordo odio torcerle le budella, squarciarle il fegato, arrampicarsi per l'esofago.

Si alzò. A piedi scalzi, andò verso la porta. Calciò via rabbiosamente le sudicie infradito di Ron. Andò in corridoio. Per pura curiosità, controllò quanto avesse rubato. Cinquanta galeoni. Forse non era solo una, forse erano diverse battone. Magari pagava per sé e per eventuali “amici”, termine che ormai si applicava a tutta una categoria di squallidi figuri, a cui Ron assomigliava sempre più.

Marciò spedita verso il salotto. Girò con uno scatto di rabbia la foto incorniciata che aveva sul bel mobile di quercia, la foto che si erano scattati anni prima, ad Hogwarts, lei e Ron che ridevano felici. Aprì uno dei cassetti del mobile. Prese il primo foglio di carta che le capitò fra le mani, la prima penna Bic che trovò, mezza scarica. Stese ben bene il foglio bianco sul tavolino dal piano di cristallo. Morse la punta della penna, poi l'appoggiò sulla carta bianca.

Quando ebbe finito, si limitò a chiamare: «Trinciamignoli!».

Angolo Autrice
Lo so, lo so, vi state chiedendo: "Ma quanto è stronzo Ron?". Risposta: assai. Mannaggia, quanto sono cattiva. Su, Ronald, lo so che sei migliore del tuo alter ego della mia fanfiction! U_U

Di nuovo, per la terza volta, sono apprezzate le recensioni, anche (e specie se) critiche.



 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 

Se ne pentì quasi subito.

Mentre guardava Trinciamignoli che volava via nella notte, sbattendo fieramente le ali, Hermione avvertì l'impulso di richiamarlo indietro, riprendersi quella lettera scritta in fretta e furia e stracciarla, incenerirla, farla sparire dalla faccia della Terra, nascondere al mondo intero che fosse mai esistita. Avrebbe dovuto scrivere ad Harry. Sì, Harry che stravedeva per Ron, il più adatto per capirlo. Ma che stava pensando?

Doveva scrivere a Ginny: i panni sporchi si lavano in famiglia, i Weasley dovevano sapere. Certo, così mamma Weasley, la matrona, si sarebbe schierata dalla parte del suo ciccino bello.

Ma non fece niente. Sia perché il gufo era già lontano e volteggiava fra i camini di Londra, sia perché non sapeva più nemmeno lei cosa volesse, e per una volta decise di non essere razionale, di affidarsi al suo istinto.

 

Trinciamignoli sparì nella notte londinese, mai veramente buia per via dell'inquinamento luminoso, mai veramente silenziosa per il chiasso giù in strada e il sordo brusio che proveniva dal centro.

Hermione si era trasferita in quel quartiere periferico della City dopo la laurea in Magisprudenza. Allora le era sembrato un gran bel posto per vivere: un condominio tranquillo, una vita agiata, la consapevolezza di essere in uno dei centri nevralgici dell'umanità, dove tutto era a portata di mano, tutto sembrava possibile. All'epoca era giovane, appena uscita dall'adolescenza, piena di speranze. Ora le sue speranze volavano fra gli artigli di un gufo austriaco, diretto ad un attico dall'altra parte della metropoli.

 

Si chiese cosa avrebbe fatto, quando avesse visto un pennuto entrargli in casa.

Probabilmente, avrebbe sorriso e annuito, confermando a sé stesso la propria perspicacia e il proprio charme. O forse, Draco aveva qualcuna accanto, che gli avrebbe chiesto chi era questa Hermione che mandava confuse lettere scritte con una grafia incerta e tremula nel bel mezzo della notte. Avrebbe rovinato anche un'altra storia, oltre alla sua?

 

Senza sapere cosa fare, tornò mogia mogia in camera da letto. Guardò la canottiera incatramata di sudore, gettata a terra da Ron – che in quel momento, probabilmente, si era già dato festosamente ai bagordi in qualche osteria malfamata di Notturn Alley – e pensò che era meglio metterla nel bucato sporco. Poi si disse, perché diavolo dovrei lavare quello schifo di canottiera? Perché cazzo dovrei prendermi questa briga?, e lasciò perdere. La scavalcò – facendo ben attenzione a non sfiorarla neanche con un lembo di pelle – e si sedette sul letto.

 

Accoccolata contro il cuscino a tormentarsi l'unghia dell'alluce, Hermione si rese conto che non poteva più andare avanti così. Aveva sopportato fin troppo. Basta, decise: questo poneva fine alla loro relazione, certamente. Nessuna coppia può sopravvivere se lui va a bagasce. Sì, ma come avrebbe fatto? Si immaginò una scena orribile: Ron che si ritirava verso le tre o le quattro come suo solito, trovava la porta chiusa, urlava, faceva una scenata, si dimenava, batteva i pugni, faceva saltare la porta dai cardini, sopraffaceva Hermione con uno Schiantesimo – ah, quanto si dispiacque di aver perso anni a ficcare in testa a quello zuccone magie d'attacco –, la pestava selvaggiamente, la fracassava contro i muri, le strappava i capelli, la prendeva a randellate finché lei non esalava un soffio di resa e, le mani grondanti del sangue del suo povero corpo martoriato, le intimava: «E ora vai a fare il sugo», con uno sputo sprezzante.

 

No. Non sarebbe andata così. Hermione aprì il primo cassetto del suo comodino. Prese la sua bacchetta, la strinse, sentì quant'era fredda.

Era legittima difesa. Era legittimo impedire a Ron di rientrare sotto il tetto coniugale. L'avrebbe cacciato. Sì, ne era sicura: lo avrebbe mandato via, gli avrebbe detto: è finita, vai via, sparisci. Avrebbe chiamato la Magipolizia. Lo avrebbe atteso al varco, bacchetta spianata. Avrebbe ricoperto di incantesimi la porta, per non farlo entrare. Lo avrebbe respinto con una fattura. Ron avrebbe reagito, certo. Uno dei suoi formidabili attacchi di rabbia, avrebbe dato battaglia. Ma le avrebbe reso le cose più semplici. Lo avrebbe fatto arrestare per violenza. Lo immaginò che veniva condotto via, trascinato a forza, in catene, si voltava e con sguardo folle urlava: «Tornerò! Tornerò!».

 

Sentì dei passi sul pianerottolo. Poi qualcuno che si strusciava i piedi sullo zerbino. Terrorizzata, il cuore in gola, Hermione balzò giù dal letto, a piedi nudi. Corse fino all'ingresso, bacchetta alla mano. “Stupeficium”, “Petrificus Totalus”, “Incarceramus” si appuntò mentalmente. Qualcuno suonò il campanello.

Era Ron che aveva intercettato il gufo, e ora tornava per fargliela pagare.

Anzi no, non aveva intercettato il gufo, aveva dimenticato qualcosa, ma gliel'avrebbe fatta pagare ugualmente, perché avrebbe dovuto ricordargli di prendere quella cosa.

Magari era solo stanco e voleva violentemente accoppiarsi con lei.

Un secondo scampanellio, più lungo. Ron aveva le chiavi, pensò Hermione. Strisciò fino allo spioncino, temendo che la porta le volasse contro. Alzò il dischetto di plastica, e avvicinò cautamente l'occhio destro.

 

Con uno scatto di sollievo, abbassò la maniglia.

«Draco» disse, sollevata.

Draco Malfoy, in un elegante cappotto nero, era sulla soglia di casa sua. Non mostrò reazioni degne di nota. Increspò leggermente un sopracciglio quando vide Hermione in pigiama, sfatta dalla tensione.

«I signori hanno chiamato?» chiese, impassibile. Una ridda di pensieri esplose nella mente di Hermione: devo mandarlo via, se Ron viene ci ammazza entrambi; anzi no, in due ci si difende meglio, lo arruolo alla barricata; scappiamo assieme, lasciamo la casa vuota.

«Draco, entra, ma... hai già ricevuto la mia lettera?». Hermione si scostò, lasciandolo passare. Il giovane si portò all'interno con un singolo, lungo, calcolato passo delle sue scarpe scamosciate.

«In effetti. Il gufo sembrava piuttosto stremato» disse lui con un pizzico di saccenza.

«Ma... perché sei qui? A quest'ora della notte?»

«La premiata ditta Malfoy va molto fiera del suo servizio rapido ventiquattr'ore su ventiquattro» scandì Draco con aria professionale. In altre occasioni, più liete, avrebbe riso. Ma quello non era un momento lieto.

«Lui è qui?» chiese, serio. Hermione scosse il capo: «Ha... ha preso dei soldi dal mio... borsellino e ha preso anche i preservativi e se ne è andato... credo... credo sia andato a...».

«Ho capito, non c'è bisogno che tu dica altro» tagliò corto Draco, con un guizzo di sensibilità. Poi tornò freddo come al solito. Hermione accarezzò con lo sguardo i suoi lineamenti ascetici, puntuti, affilati. Non si poteva definire l'uomo più bello della Terra, certo – quel pallore grigiastro gli dava un'aria malaticcia –, ma aveva un che di affascinante. Forse era il suo atteggiamento sicuro di sé fino all'arroganza.

 

«Vieni in salotto, dai, non rimanere qua in piedi» lo invitò stancamente Hermione, portandolo sul divano. Sul tavolino c'era ancora la penna con cui aveva scritto quel confuso messaggio.

Draco, Ron è impazzito, credo sia andato fuori di testa

Non so a chi altri rivolgermi, ti prego, se puoi, rispondimi

Hermione

 

Draco tirò fuori da una tasca del lussuoso cappotto nero il fogliettino appallottolato, lo srotolò e lesse le parole vergate dalla mano malferma di Hermione. Effettivamente, pensò lei, non era un granché, come opera letteraria. Probabilmente non andava bene per un romanzo epistolario. Pensò proprio così. Poi si rese conto che era un'idea stupida.

«Credi che sia... aperte virgolette “sia andato fuori di testa” chiuse virgolette?» domandò Draco, tranquillo.

«Sì, credo di sì, perché... oh, è una storia lunga...» iniziò Hermione, scuotendo la mano come a dire che comunque non era importante.

«No. Dimmi. Ho tempo» disse piano Draco, con la sua voce limpida e bassa. Si chinò verso Hermione, e le prese le mani. Il tocco con quella pelle gelida fece rabbrividire la ragazza, che istintivamente si ritrasse. Ma poi, decise di no. Decise di lasciarsi andare. Decise di rimanere fra le fredde dita di Draco, di tentare.

 

Fu come se avessero aperto il canale di una diga il cui bacino era sul punto di tracimare da tempo, e andava solo gonfiandosi. Un impetuoso torrente di parole, ricordi, frammenti di memorie che Hermione rovesciò addosso a Draco. Gli parlò della laurea sudata, del lavoro e del fatto che non si vedevano promozioni in giro, gli parlò di Ron che aveva rinunciato a cercarsi un mestiere, gli parlò di tutti i soldi di lei che quello lì si era bevuto al Paiolo Magico, gli parlò degli schiaffi morali quotidiani, gli parlò del sugo che faceva sempre più schifo e delle mutande che erano sempre più sporche, gli parlò della doccia, gli parlò – all'inizio con imbarazzo, poi con più scioltezza – delle disastrose nottate in cui lui la montava come una pecora... gli parlò come un fiume in piena per più di mezz'ora, senza fermarsi, senza quasi prendere fiato. Non pianse, né recriminò. Si limitò a parlare, solo a parlare, a fare quello che non faceva da anni. Parlare. Raccontare. Sfogarsi.

 

Draco rimase impassibile, ad ascoltare. Mentre Hermione sfogava tutto quello che avrebbe voluto dire da tre anni a quella parte, si chiedeva se dietro quella cortina di distacco ci fosse davvero un cuore che batteva, se non stesse parlando ad un muro.

 

Ad un certo punto, Draco si alzò. Si tolse il cappotto, lasciandolo sul divano e rimanendo in camicia nera.

«Ti faccio un caffè» disse con fare sicuro. Hermione era a circa tre quarti della sua storia. Si fermò a metà di una parola (“incontentab...”), e attese in silenzio, riorganizzando le proprie idee, che Draco tornasse dalla cucina (chiaramente sapeva dove mettere le mani, a differenza di Ron che non riusciva nemmeno a spegnere i fornelli) con una caffettiera e due tazzine colme di caldo e rinvigorente caffè nero.

«Ecco. Bevi, ti aiuterà». Erano le tre e mezza del mattino. Un caffè caldo era quello che ci voleva, per una notte di insonnia.

Hermione riprese a parlare, più lentamente, aggiungendo più dettagli. Ogni tanto, Draco le versava un'altra tazzina.

 

Terminò alle quattro, la voce roca.

«... e poi ha preso i preservativi e si è tirato la porta dietro, mi ha lasciata, senza dire una parola, capisci? Se ne è andato, se ne è andato senza dire niente, io gli dicevo, lo supplicavo, e lui non rispondeva, non diceva niente!» si lagnò. Tacque. Sentì di aver esaurito la sua storia.

Draco annuì. Le cinse le spalle con un braccio. Hermione sentì che quello era giusto, quello era bello, quello era la cosa migliore che potesse capitargli. La strinse a sé, al suo corpo sottile e scattante.

 

«Hermione» disse soltanto. Era la prima volta che la chiamava per nome.

«Devi lasciarlo». Facile a dirsi, pensò lei. E come me lo levo di torno, dopo?

«Non posso. Non posso, Draco, non posso, lui tornerà, lui...».

«... lui non ti merita. Lui è un viziato, lui è un idiota che pensa che tu sia la sua serva» completò Draco. Una singola, solitaria lacrima solcò la guancia di Hermione. Draco la asciugò con il dorso della mano, delicatamente. Non scostò la mano. No. La usò per guidare la testa di Hermione verso la sua. La sospinse, la condusse, la portò verso le sue fredde, sottili labbra bianche.

 

Si baciarono a lungo.

Molto a lungo. Forse per minuti interi. Fu come un incantesimo. Hermione non riusciva a ragionare, a rendersi conto dell'enormità di quel che stava facendo.

Fu solo quando si separarono, parecchio tempo dopo, che si portò la mano alla bocca e disse: «Draco. Cosa abbiamo fatto?». Lo disse con calma.

«Niente, abbiamo fatto. Niente. Per adesso». Draco le si avventò contro, abbracciandola, stringendola e lei si lasciò andare, si lasciò stringere e possedere dal giovane biondino, si lasciò naufragare fra le sue esili braccia.

 

Quella notte, non accadde nulla di definitivo.

Draco non pretese nulla da Hermione, la seguì fin dove lei aveva voglia di spingersi. Continuarono a baciarsi, ad accarezzarsi il volto a vicenda. Draco non insinuò la mano sotto la maglietta di Hermione come avrebbe fatto Ron. Non la scaraventò sul letto per ingropparla, come avrebbe fatto un animale quale lui era.

No. Si limitarono ad un lunghissimo, appassionato bacio, in silenzio.

 

Si staccarono che albeggiava. Al di là del balcone, il cielo era tinteggiato di rosa chiaro, e faceva molto freddo. L'aria era immobile, morta, come era nelle ore che precedono il sorgere del sole, una nuova giornata.

 

«Erano anni che volevo farlo» fu la prima cosa che Draco disse.

«Erano... no, è solo da ieri che voglio farlo» replicò Hermione. Aveva odiato quel delicato visino sottile, bianco candido, da nobile scandinavo. Ora lo amava.

Aveva amato quel largo faccione spruzzato di lentiggini, da zotico irlandese. Ora lo odiava.

 

Draco fece per dire qualcosa.

Poi si interruppe. Anche Hermione l'aveva sentito. Qualcuno, o per meglio dire qualcosa, si stava inerpicando per le scale del condominio, incespicando ad ogni gradino, rovinando a terra. E ridendo. Rideva follemente, rideva quando ruzzolava, e rotolava giù per la rampa di scale, rideva quando sbatteva per terra con il rumore che farebbe un sacco di patate. Rideva, una risata alcolica, folle, una risata da ubriaco marcio.

 

«Herm... Hermione...! Hermione... apri questa cazzo di... ihihihi... apri questa cazzo di porta, Hermione... hic!.... apri che io... ihihihihi... ahaha... apri che io credo di aver perso le chiavi... hic!...».
 

Ron era tornato.


Angolo autrice
Ecco il capitolo 4, scodellato di prima mattina dalla sottoscritta, in treno.
È venuta fuori un mattoncino piuttosto lunghetto, quindi perdonatemi. PS: Come sempre, le recensioni sono più che gradite, vista la mia inesperienza. (È la mia prima FF in assoluto, quindi sono una novizia del genere...)

-Chiara

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 

«Herm... apri, apri, Hermione.. hic!». Congelata, Hermione sentì Ron che batteva furiosamente. Poi sentì un suono strusciante, come se qualcosa si fosse spiaccicato e spalmato contro il legno del portone. Con un brivido di paura, capì che era Ron. Era tanto sbronzo da non riconoscere neppure la porta chiusa, e ci si era schiantato contro.

«È lui... ha bevuto, non lo aveva mai fatto... oddio, oddio... devi andartene... puoi Smaterializzarti sul balcone...!» farfugliò Hermione, nel panico più assoluto, all'indirizzo di Draco.

Ron non si era mai ubriacato prima d'allora. Non sapeva come avrebbe reagito. Mentre rifletteva velocemente su come risolvere quella situazione, come rimettere tutto a posto, Ron diede un pugno alla maniglia.

«Apri questa... aprila!... ho... ho perso le chiavi, forse me le hanno... hic!». Poi riprese a bussare come un forsennato, ridendo di qualcosa che poteva capire solo lui.

 

Draco rimase immobile, seduto al suo posto.

«Non ho paura di lui» asserì, «Non ho paura di un Weasley sobrio, e figuriamoci se ho paura di un Weasley ubriaco».

«Ma devi andartene, se lui ti scopre qui, mi ammazza» lo supplicò Hermione, alzandosi e torcendosi le mani. «Oh! Apri, cazzo, apri, apriii!!!» ululò Ron da dietro la porta, tempestandola di pugni. Fu allora, quando nessuno gli aprì, che disse quello che non avrebbe mai dovuto dire: «Apri, troia, o ti ammazzo se non apri... hic!» e riprese a ridere sonoramente. Bang, bang, bang, pugni sulla porta, e ora anche boom, boom, boom, calci. E risate. Risate terrificanti.

 

Hermione non riuscì a trattenere un gridolino di paura. Dalla nota di follia nella sua voce, e da quelle risate da maniaco, intuì che lo avrebbe fatto per davvero, non era in sé, e anche se lo fosse stato, probabilmente non mancava molto prima che iniziasse a usare le mani. Pensò di chiamare la Magipolizia, oppure di Smaterializzarsi e lasciare la casa alla mercé di Ron.

Draco si levò pacatamente in piedi, ed infilò una mano nel suo cappotto, lasciato sul cuscino del divano. Trasse la sua lunga bacchetta di biancospino da una tasca, e la soppesò.

«No, Draco, per carità, non lo fare!» squittì Hermione. Draco la guardò, serio, gelido: «Capisci che lui non può rimanere con te, vero? Lui se ne deve andare. Ora. Lo capisci, vero?» scandì, convinto. Ron continuava a picchiare sul legno della porta, come un martello pneumatico, reso sordo dall'alcol al dolore alla mano, che sicuramente doveva pur provare.

 

Hermione capiva. Capiva che il ragazzo rosso e simpatico che aveva creduto di amare era stato divorato dal suo stesso egoismo, e ora era diventato un mostro.

Capiva, ma esitava a dare il suo assenso. Esitava perché, in cuor suo, ancora sperava, fievolmente, che un briciolo del vecchio Ron si fosse salvato. Un briciolo del simpatico rosso fosse ancora vivo. Una scintilla che, per miracolo, potesse riaccendere quei meccanismi arrugginiti dall'ozio e dalla presunzione. Un effimero frammento del Ron dei tempi della tenda, del Ron del bacio nella Camera dei Segreti.

Fino a quel momento. Fino a quelle parole. Fino a quel momento.

«Capisco» disse soltanto, distrutta.

 

Draco annuì e marciò spedito verso la porta. «Stai indietro. Se prova ad entrare, lo Schianto» disse, con un gesto della mano. Hermione rimase in corridoio, reggendosi ad un termosifone.

«Hermione, apri questa cazzo ti porta o... hic!... o ihihihi... o la butto giù e poi ti... la porta... e poi ti ammazzo, capito?» berciò Ron. Draco, alto, magro, sottile, camminò fino alla maniglia e, con uno scatto secco che fece tremare Hermione dalla testa ai piedi, la abbassò.

«Alla buon'ora!» sbraitò Ron, nell'oscurità del pianerottolo. «Cosa cazzo stavi...». Draco accese la luce. Ron rimase muto.

 

Anche Hermione rimase muta, pietrificata dal terrore. Il suo cuore perse un colpo. Quello che aveva a tre metri non era più Ron. Fece un passo indietro, orripilata. Anche Draco, suo malgrado, sobbalzò.

Ron, Ron, dov'era finito? Chi era quel mostro che stava sulla porta?

 

Piegato dall'alcol, curvo, i capelli stravolti, gli occhi strabici iniettati di sangue, malfermo sulle gambe divaricate e assurdamente divergenti, il volto coperto di rossetto, la camicia aperta, i peli del petto che ballonzolavano, senza cintura. La bottiglia di liquore nella mano destra, che sciabordava ad ogni movimento. E la puzza, la puzza, la puzza era la cosa più schifosa che Hermione potesse immaginare. Ron puzzava di liquore, di whisky stantio, di gin andato a male, di sherry di infima qualità, e puzzava anche di bile, di vomito, sicuramente aveva già rimesso un paio di volte, per strada, e le macchie verdognole sui pantaloni dicevano che si era anche vomitato addosso. Il fetore arrivava fino ad Hermione, fortissimo.

 

Quello che aveva davanti non era più Ron Weasley. Le tremavano le gambe, non riusciva a fermarle, le tremavano incontrollabilmente.

Era un terribile simulacro, un'imitazione da film dell'orrore, una folle parodia, un incubo.

Era un essere umano gretto, miserabile, sporco, repulsivo, fetido. Patetico. Patetico.
 

«E tu chi... hic!... chi cazzo sei?» biascicò Ron. Non riconobbe neppure Draco: il nemico giurato di tanti anni, e non lo riconobbe.

«Dove... dove cazzo sta... la... dove hai... hai visto Hermione...?» farfugliò, agitando la bottiglia di liquore a mo' di indice e schizzando un po' del contenuto sullo zerbino. Draco disse, con voce chiara e limpida: «Vai via, pagliaccio».

Ron non capì.

«Herm... Hermio... Hermione! Vieni, vieni... sto qua... sono tornato!» abbaiò, agitando confusamente le braccia, come se volesse farsi vedere da una lunga distanza. Il liquore volò dappertutto.

«Ti ho detto di andare via» ordinò Draco, perentorio, puntando la bacchetta contro il petto di Ron. Figurarsi se si rendeva conto di quel che gli stava succedendo attorno.

«Ahò, ma vaffanculo, sto... hic... Hermione, vieni che questo qui non mi fa passare!» chiamò Ron, supplicante, poi cambiò improvvisamente tono, con una repentinità da far venire la pelle d'oca ad Hermione: «Troia, vuoi venire...? E tu, tu, ti vuoi levare dalle... argh!». Fece per gettarsi contro la persona di Draco.

«Stupeficium!» esclamò quello, secco.

 

Un lampo rosso, e Ron fu scagliato all'indietro, andandosi a sfracellare contro la porta metallica dell'ascensore, dall'altra parte del pianerottolo. Si afflosciò al suolo con un bonk sordo, un suono stridente, misero, a gambe larghe. La bottiglia di liquore si frantumò in mille pezzi contro la parete, lasciando una macchia rossastra che colava giù come sangue.

 

Ormai tutto sembrava un incubo, per Hermione. Ron a terra, che rideva, la bottiglia a pezzi, il liquore sul muro, Draco che camminava contro Ron, ehi aspetta cosa stava facendo, Draco che gli puntava la bacchetta alla gola, no, Draco, non lo fare!, Draco che sibilava: «Vattene, Weasley. Fai schifo, verme». Hermione corse sul pianerottolo, scalza.

«Draco!» esclamò, disperata.

 

Ron non era svenuto, ma era stato paralizzato dall'incantesimo e dalla botta: «Herm... Hermione aiutami a rial... Hermione... Hermione... Hermione vieni... non mi... hic... rialzaaarghhh» grugnì, dimenandosi per cercare di rimettersi in piedi. Le gambe scivolavano sul lucido pavimento di travertino come gli zoccoli di un cavallo azzoppato che non riesce più a sollevarsi, non riuscivano a sostenerlo. Quando si avvide di non potersi rialzare da solo, Ron iniziò a piangere. Fu una cosa allucinante, terribile, che fece gelare il sangue nelle vene sia ad Hermione che a Draco.

 

Piangeva come un bambino, perché non riusciva a levarsi in piedi, «Hermione, aiutami, ti prego!», piangeva, si lagnava, cercava una mano che lo aiutasse a sollevarsi, chiamava Hermione in suo soccorso, «Harry... Harry, vieni a prendermi... Harry eccoti!», scambiava Malfoy per Harry, piangeva e le lacrime gli solcavano il viso arrossato dall'alcol. Era un pianto surreale, abominevole, che fece rizzare i capelli di Hermione. Rabbrividì, e fece un passo indietro. Ron che piangeva lì, raggomitolato come una larva, invece di fargli pietà o disgusto, o risultargli persino ridicolo, no, era semplicemente spaventoso.

 

Ron ebbe un brivido, aprì la bocca, poi un altro brivido, e Draco fece appena in tempo ad indietreggiare prima che Ron desse di stomaco. Due conati, puzzolenti, schifosi, dritto sul proprio petto nudo. Un rivolo di vomito gli scorreva sotto il labbro, sul mento, sotto la cruda e impietosa luce gialla della lampadina del pianerottolo

Ricominciò a piangere, a chiedere aiuto, a chiamare soccorso perché si era sporcato e non poteva pulirsi. Poi tutto si fece più confuso, ed Hermione non riuscì più a distinguere le singole parole nella marea di sillabe, suoni raspanti e gorgoglii che Ron emetteva. Le parve di cogliere «Mamma... Harry... Hermione... Ginny... porta...», ma forse era solo una sua impressione. Poi smise del tutto di parlare. Rimase lì a piangere e ad agitare le gambe come una bestia moribonda, scosso da singhiozzi e da tremiti.

 

Per la prima volta a memoria di Hermione, il volto di Malfoy non era freddo e impassibile. Era stravolto dal disgusto. Evitando le chiazze di vomito, si avvicinò di nuovo a Ron. Gli infilò la bacchetta sotto la gola e, senza che Hermione fiatasse, sibilò feroce: «Morfeo». Ron chinò il capo, ebbe un ultimo singhiozzo, e prese a russare.

Hermione, devastata, si lasciò cadere sullo zerbino bagnato di liquore.



 

Angolo autrice
Be', che dire. Questo è il 5° capitolo. L'ho scritto in un'unica tirata, senza fermarmi, dando ascolto al mio istinto.

So che molti di voi si aspettavano un duello, un confronto fra Draco e Ron, ma... ho deciso così. Mi è sembrato più sincero.
Lascio a voi i commenti. So solo una cosa. A me il "mio" Ron ha destato solo una grandissima pena.
Il 6° e il 7° nonché ultimo capitolo sono in preparazione.

PS: Recensioni gradite.
PPS: L'incantesimo "Morfeo" per far addormentare è di mia invenzione: non so se esista un equivalente "canonico" (cioè dai libri), se sì, fatemelo notare così lo cambio.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

Dovevano essere passati pochi secondi quando Hermione riprese conoscenza. Draco stava passando in rassegna il pianerottolo, con la bacchetta spianata, per cancellare le tracce della scena da incubo che vi si era appena svolta.

«Tergeo» e asciugò la macchia di liquore sul muro.

«Tergeo» e aspirò piccole chiazze di vomito qua e là.

«Evanesco» e fece sparire i cocci della bottiglia.

 

Tremante, scossa, nauseata, ancora incapace di discernere fra realtà e follia, Hermione si rialzò, appoggiandosi alla porta di casa sua. Di casa loro, la corresse una vocina perfida nella sua testa. Tua e di quell'altro che sta là davanti all'ascensore.

Cercò di non guardare in quella direzione, ma non poté evitare di cogliere uno scorcio di Ron stravaccato a gambe aperte, gettato come un pupazzo contro le porte metalliche, un rivolo di bava dalla bocca semiaperta, le braccia ai lati. Riuscì ad evitare di fissarlo direttamente. Russava, sereno. Spalancava la bocca producendosi in un suono raspante, poi la stringeva in un fischio stridulo.

«Tergeo» concluse Draco, pulendo le ultime gocce di liquore sul pavimento.

 

Hermione, malferma sulle gambe, lo fissò come avrebbe fissato colui che l'avesse tratta in salvo da un incendio. Draco sembrava essere imbarazzato della scenata di Ron. Lui, che manteneva sempre il controllo, non avrebbe mai sbroccato così. Lui poteva piangere e disperarsi, ma lo faceva in assoluto privato. E soprattutto, lui non avrebbe mai affogato le sue turbe nell'alcol.

Per lui, per Draco Lucius Malfoy, la cosa più importante era l'onore, la dignità.

Ron si era abbassato ad un livello patetico, con quella rivoltante buffonata. Hermione si rese conto non l'avrebbe mai più potuto guardare senza provare uno spiacevole senso di pena.

 

«Draco» chiamò Hermione.

Il biondino si infilò nella cintura la bacchetta, e si voltò, preoccupato.

«Come stai?» chiese. Hermione fece un gesto con la mano: così e così. In realtà, stava malissimo. Si sentiva lo stomaco sottosopra, un gran peso sulla testa,

«Vieni dentro... anzi no, dobbiamo portare dentro pure... lui... non sia mai che qualcuno venga e lo scambi per un avvertimento mafioso, brutto com'è» e indicò Ron con un cenno, senza guardarlo. Nonostante tutto, nonostante lo squallore della situazione, Hermione rise debolmente, tenendosi la pancia. Acconsentì a trasportare all'interno il corpo inerte dell'uomo. Draco lo prese per le ascelle, Hermione per i piedi, e lo trascinarono dentro a fatica.

«Uff... quanto mangi!, Ronnino mio, quanto mangi!...» si lamentò Draco, i muscoli delle braccia tesi come molle. Era lui che portava la maggior parte del peso. Svoltarono in corridoio. Hermione ansimò: «Lì. Sul divano». Lo scarrozzarono in salotto e lo deposero con malagrazia sullo stesso divano su cui si erano baciati poco prima. Ron “ringraziò” con un grugnito. Deglutì e schioccò la lingua, poi ripiombò nel sonno più pacifico che si potesse immaginare. Per uno che si era appena rovinato, dormiva alla grossa.

Draco prese uno dei cuscini e lo schiaffò sulla faccia di Ron.

«Ecco. Così non ti vedo e sto sereno» spiegò con un'alzata di spalle.

 

Hermione, con il fiatone, prese a riflettere. Pensò e rimuginò per due minuti buoni, poi giunse all'unica conclusione possibile.

«Ginny» disse seccamente. Si sentiva meglio, più determinata. La presenza di Draco la rassicurava, la faceva sentire protetta.

«Cosa?»

«Ginny. È la sorella di Ron»

«Lo so chi è. Gli vuoi riportare il giovanotto, bello pimpante com'è?» chiese Draco. Tolse il cuscino dalla faccia di Ron, e con con le dita gli sollevò le palpebre sugli occhi rovesciati. Nessuna reazione. «Quando si dice un tipo sveglio, eh Ronald?» sfotté. Lasciò cadere giù come serrande le palpebre e gli risistemò il guanciale. Ron tornò a grufolare.

 

«Qui non può rimanere. Tornerà alla Tana... in fondo, credo sia quello che ha sempre voluto, tornarsene dalla mamma» commentò aspramente Hermione.

«Glielo spediamo per posta? In carro bestiame? Per via Metropolvere?» propose Draco.

«No, mando una lettera a Ginny... Trinciamignoli!» chiamò Hermione. L'uccello comparve dal balcone, chiocciando. In fretta, la donna prese carta e penna e scrisse una breve e concisa missiva all'indirizzo della sorella. Scrisse genericamente che Ron “Non può più abitare con me” e che “Ha bisogno di essere circondato dall'affetto familiare, vienilo a prendere il più presto possibile” e che infine “propongo passi un po' di tempo alla Tana”, senza scendere in dettagli scabrosi. Inserì il mittente e agganciò la lettera alla zampa di Trinciamignoli, che tubò soddisfatto e spiccò subito il volo.

 

Erano le cinque e quarantacinque del mattino.

Il sole era appena sorto su Londra, e tutto era rischiarato da una luce tiepida e fievole. Trinciamignoli sfidò la brezza autunnale, e si librò in aria, su nel cielo, sparendo quasi subito alla vista.

«Bene, e anche questa è sistemata» sospirò Hermione, sedendosi su una sedia imbottita che avevano lì in salotto. Guardò Draco, ancora in piedi.

 

Percorse con gli occhi i tratti del giovane, i capelli biondi, gli occhi chiari.

Chissà dove sarebbe stata, in quel momento, se non fosse stato per Draco Malfoy e la sua provvidenziale determinazione. Probabilmente, sarebbe stata sul letto, a soddisfare le voglie animali di Ron, prigioniera delle sue esitazioni, dei suoi rimorsi, dei suoi dubbi, dei suoi stupidi moti di pietà per l'uomo che la stava per rovinare. Guardò ancora Draco, biondo e longilineo, pallido e freddo. E lo amò.

 

Per la prima vera volta, Hermione Granger amò Draco Malfoy, lo amò per il suo temperamento gelido, i suoi modi controllati, il suo disprezzo ironico, il suo vago narcisismo. Lo amò perché era lì in piedi e lucido, ben sveglio, mentre Ron era steso su un divano e privo di sensi.

Hermione si levò in piedi, e avanzò lentamente verso Draco. Arrivò così vicina che poteva sentire il fresco alito di menta del biondino. Con fare goffamente seducente, Hermione si sbottonò il di sopra del pigiama, mettendo in mostra il suo seno nudo. Gli occhi di Draco brillarono. Le sue mani, in genere così ferme, tremavano.

 

Si buttarono sul letto senza pensare a niente, senza badare a niente, finché Draco non si accorse delle macchie umidicce dalla parte di Ron. Fu come se qualcuno avesse spento lo stereo proprio mentre stava per attaccare un crescendo di note verso l'eccitazione finale. Una pausa. Doveva durare poco, però.

Irritato da quell'interruzione, Draco borbottò: «Non mi dai tregua, eh, Ronald?», prese la bacchetta e ripeté: «Tergeo!». Niente. Il momento propizio già stava iniziando a sfumare. Scosse la bacchetta come avrebbe fatto con un termometro a mercurio caldo, e riprovò. Ancora nulla. Potevano sentire l'incandescente palla di fuoco della loro libido che sfrigolava, raffreddandosi in fretta. Dovevano alimentarla, allora, nel giro di pochi secondo, o si sarebbe spenta. «Oh, lascia fare a me» tagliò corto Hermione, e strappò via le lenzuola, le appallottolò e le getto dall'altra parte della stanza.

 

La musica ripartì, il crescendo attaccò, vertiginoso.

 

Fecero l'amore sul duro materasso di lattice, a lungo, con spontaneità e senza fronzoli.

Fu un amplesso lungo e rilassante. Si presero tutto il tempo necessario. Indugiarono a lungo nei preliminari, giocarono e si stuzzicarono, provarono qualche posizione.

Draco giocò con i seni di Hermione, la stimolò a lungo, la fece eccitare a dovere prima di passare al dunque. Fu solo quando si rese conto che lei era lubrificata a sufficienza che le chiese l'ok, il via libera. Hermione, stringendo i denti, annuì. Non c'era alcun bisogno di aver paura, però. Iniziò a sentire qualcosa di magico, qualcosa di simile ad una serie di contrazioni immensamente piacevoli che le risalivano il basso addome, accumulandosi, accumulandosi, finché non si rese conto di essere pronta, finché non si lasciò andare del tutto in un'ondata di piacere accecante come il sole.

 

Quando, finalmente, dopo anni di rancori, anni di dolori e attriti, anni di accoppiamenti da montoni, Hermione esplose nel suo primo vero orgasmo, urlò di piacere. Urlò di piacere mentre Draco le veniva all'interno, in un fuoco d'artificio di piacere vero, condiviso, glorioso come una battaglia vinta.

 

Draco ansimava. Era sudato. Sembrava esausto, ma non crollò addormentato.

Si lasciò cadere sul rigido materasso. Ansimava.

 

Hermione si voltò, raggiante.

«Grazie» disse, la voce roca.
 

Draco la guardò, allegro, e borbottò: «Normale competizione fra le case di Hogwarts. Dieci punti per Serpeverde». Hermione rise e lo abbracciò, lasciandosi coccolare dalle sue braccia per un altro po'.


Angolo autrice

Come promesso, Ron è passato definitivamente in secondo piano, per concentrarci sui nostri due lovers! Forse, alla fine, i capitoli saranno 8, dipende da quanto mi viene lunga la prima parte del 7. Comunque sia, penso di poterli buttar giù per stasera.

No fiori, ma pareri e recensioni. Se siete dei bei maschietti, colti e gentili come piacciono a me, sono apprezzati anche i fiori, però. Rose bianche. :-)

-Chiara

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

«Presto! Nasconditi!» ordinò Hermione, indicando a Draco un angolo riparato della camera da letto. Driiin. Driiin. Erano le otto e venti, e Londra si godeva il caldo sole mattutino.

«Suona, suona, che c'è traffico fra le gambe di tua sorella!» imprecò lui, rivestendosi in fretta. Hermione corse a prendere i primi vestiti che le capitarono fra le mani: maglietta grigia, jeans e calzini. Driiin. Driiiiiiiin. «Costui si è attaccato al campanello come un cerotto alla sua verruca» scherzò Draco. Driiiiiiiiiiin. Imprecando fra i denti, Hermione sfrecciò al citofono.

«Sì» sbottò.

«Hermione? Sono... sono Harry, siamo venuti – io e Ginny, intendo – per... prendere Ron, ci hai mandato una lettera... ma che ha, non sta bene?» disse una voce maschile.

«Salite». Hermione fece scattare il portoncino a livello strada. «C'è il tuo amico» annunciò a Draco.

«Chi?»

«Harry»

«San Potter? Il mattino ha l'oro in bocca!»

«E Ginny» aggiunse Hermione, sentendo l'ascensore che si arrampicava a fatica, sputacchiando.

«Adorabile».

 

Finalmente, la coppia uscì dall'ascensore: lui, Harry James Potter, maestoso nella sua uniforme blu da Auror (che Hermione sospettava non si togliesse neanche a letto o nella vasca da bagno), con i galloncini da Caposquadra ben visibili sulle controspalline, i nastrini delle medaglie belli esposti sul petto e il berretto col fregio del Ministero della Magia sottobraccio; lei, Ginny Molly Weasley in Potter, elegante nel suo tailleur nero, che però faceva a pugni con i capelli rosso pomodoro. Hermione ripassò mentalmente la storia che aveva inventato per giustificare l'allontanamento di Ron. Struggente al punto giusto, vittimistica quanto bastava, presentava il fattaccio come un normale incidente matrimoniale: una cosa che capitava a tutti.

 

Con aria grave, Hermione fece segno di non parlare, come se il dolore che si portasse dentro fosse troppo pesante.

«Cosa... come...?» chiese Harry, rassegnato. Si spolverò quei suoi occhiali rotondi da snob.

«È stato... è stato dall'odore. Me ne sono accorta da lì... Ron aveva le camicie sempre profumate... e non del mio profumo» (probabilmente era il suo sudore rancido) «... e una volta ho trovavo del rossetto sul colletto... non stava mai a casa, era sempre fuori» (a puttane) «... trovavo lettere e scontrini... le faceva regali... non ho mai saputo chi fosse... ma Ron... Ron non mi amava più, ecco tutto. Lui amava un'altra» raccontò Hermione, devastata. Scherzarci su aiutava a farle dimenticare quei tre anni d'inferno, e a farle apparire più rosea tutta la vita assieme a Draco.

 

Ginny scosse la testa, pessimista.

«E poi?»

«E poi... io l'ho affrontato e lui... lui non è riuscito a reggere, a confrontarsi con me... il peso del senso di colpa... è scappato via... ed è tornato alle sei, ubriaco... ha affogato i suo dispiaceri nell'alcol... è lì, sul divano, dorme ora... ma è stato male, malissimo...» raccontò Hermione.

Harry, tutt'occhi, si spolverò i pantaloni: «Lo sapevo io... ultimamente mi sembrava troppo con la testa per aria, Ron, pensa, aveva perfino rifiutato un lavoro che gli avevo offerto...».

Uno scatto d'indignazione che Hermione non riuscì a sopprimere: «Ah, quindi glielo avevi offerto, un lavoro». A lei aveva detto niente, nulla, nisba, nada, nessun lavoro sulla piazza: vorrei lavorare, ma non ce n'è.

«Ma sì, come guardiano notturno al Ministero» scrollò le spalle Harry, «Ma adesso è sveglio?». Hermione scosse il capo: «No, no, dorme, è distrutto... è distrutto... ve lo faccio vedere... per favore, portatelo alla Tana... credo che la mia presenza potrebbe causargli altri traumi, sapete come sono queste cose... è scioccato... un niente e degenerano in depressione clinica...».

«Eh già, eh già!» convenne Ginny, costernata. Li guidò in salotto. Ron dormiva, supino sul divano, dove lo avevano lasciato.

Harry lo guardò, abbattuto, come se guardasse un vecchio amico sul letto di morte.

«Perché il cuscino sugli occhi?». Per un istante Hermione vacillò, poi le venne in aiuto l'ispirazione.

«Nooo, perché... per il sole, per riparargli gli occhi...».

 

Harry e Ginny si chinarono sul corpo dormiente di Ron quando questi borbottò qualcosa.

L'incantesimo Morfeus di Draco doveva star svanendo, perché Ron parlava nel sonno.

«Mamma... mamma... dove... Hermione...».

«Chiama la mamma, poverino...» disse Harry, prendendo la bacchetta.

«L'avrà bene a chiamarla, mia madre, quando saprà cos'ha fatto! Lo mangerà vivo, lo chiuderà in casa» disse Ginny. Hermione trionfò fra sé e sé. Ora si sarebbe visto il grand'uomo, il grande eroe, il vir, l'uomo virile, il campione del maschilismo, che tornava con la coda fra le gambe dalla mamma.

«Innerva». Ron tossì, poi aprì gli occhi. Hermione non poté nascondere un tremito.

Rimase un lunghissimo secondo senza muoversi né fare niente, poi Ron fece qualcosa.

 

Gemette di dolore, stringendosi la testa.

«Aaaaaaargh...» miagolò. Ginny si diede subito da fare: «Ti fa male, eh? Ti farà più male nostra madre, quando lo verrà a sapere. Tradire la tua ragazza... ed Hermione, poi!».

«Aaaaah... che maleeee... la testaaaa...» si lamentò Ron.

«Stai zitto, Ron, ti riporto alla Tana... e preparati... Molly ti farà a pezzi...» disse Harry, sollevandolo di peso. Ron si rimise in piedi a fatica, stordito. Hermione sperò che se ne andasse il prima possibile, preferibilmente prima che riguadagnasse piena lucidità – anche se, giudicando da quanto aveva bevuto, ci sarebbero volute parecchie ore.

Harry bofonchiò: «Sono già in ritardo per una retata...», spingendo Ron sul balcone. Zoppicando, incespicando ad ogni passo, Harry e Ginny sospinsero il loro compare sul balcone, dove si sarebbero potuti Smaterializzare.

 

Un istante prima che sparissero, un istante prima che si chiudesse quel capitolo della sua vita, Hermione guardò Ron dritto negli occhi cisposi di sonno e afflitti dal mal di testa.

I due sposi misero Ron al centro. Conduceva Harry: fece una piroetta su sé stesso e sparì.

L'istante prima che Ron sparisse, ad Hermione parve che farfugliò qualcosa.

«Herm... mi disp...» e poi svanì con uno schiocco. Forse era solo il rumore della Smaterializzazione. O forse no.

 

Ad ogni modo, Hermione rimase ferma per qualche secondo.

Era finita. Lo sapeva. Sapeva che era finita. Una nuova fase della sua vita si apriva, una nuova prateria di opportunità con Draco. Già, proprio lui.

«Draco! Puoi venire, se ne sono andati!» chiamò.

Il biondino arrivò a larghe falcate: «Un'attrice favolosa. Quasi quasi, ci ho creduto anch'io» decretò con un largo sorriso.

 

Hermione lo baciò, una, due, tre volte, lasciandosi prendere dall'estasi dell'amore, poi si costrinse a lasciarlo.

«No... devo... devo andare a lavorare, Draco, sono già in ritardo. Scusami... stasera. Ci vediamo stasera». Draco le sorrise: «Signorina, oggi voglio che tu sia bella».

«Cosa vuoi dire?»

«Capirai. Capirai. Mentre ti sbarazzavi di Ron, ho sbirciato nel tuo guardaroba. E ho anche un paio di altre idee. Seguimi»

 

Tre ore dopo

 

Fra il personale amministrativo del tribunale, il giovane giudice di pace Granger era nota più che altro per il suo zelo e la sua passione: ancora non aveva capito come funzionavano le cose, da quelle parti. Non era particolarmente ammirata per la sua bellezza. Certo, era il primo giudice donna che capitava lì a memoria d'uomo, ma i cancellieri non avevano mai pensato a lei come ad una donna attraente o seducente.

 

Quel giorno, invece, molte di teste si voltarono al passaggio del giudice, raggiante di felicità. Il primo senso ad attivarsi era l'udito: cancellieri ed archivisti sentivano da parecchi metri il battito secco dei tacchi alti che annunciava l'arrivo della donna. Poi si attivava la vista: gli impiegati non riuscivano a distogliere gli occhi dallo spettacolo. La Granger si era truccata superbamente, e si era messa lo smalto; indossava un elegante tailleur nero, camicia bianca con i primi due bottoni aperti, gonna corta nera, scarpe decolleté nere. I capelli ricci, ben pettinati, si muovevano in sincronia con lei, armonicamente. Il terzo ed ultimo senso era l'olfatto: il profumo della giovane si spandeva delicatamente attorno a lei, catturando l'attenzione di tutti.

Se avessero potuto toccare, i cancellieri si sarebbero accorti anche della morbida pelle bianca della Granger, fresca di crema.

 

Camminava svelta sui nove centimetri di tacco, sensuale, trionfante, elegante come non lo era stata mai. Quando andò a sedersi sul suo scranno, gli uscieri e le guardie non riuscivano a smettere di ammirarla: dava un tocco diverso alla fredda aula. Un raggio di sole filtrava dalla opaca finestra alle sue spalle, illuminandola.

 

L'anziano e curvo cancelliere si sgranchì, pronto per un'altra giornata di udienze.

«Cancelliere, introduca la prima causa della giornata» disse la Granger, non con la solita voce annoiata e stanca, ma con una alta e fiera, professionale, forte.

«Sì sì, vostro onore... ma prima di cominciare... eeehm... mi è arrivato questo da Londra... non so, lei è giovane, le può interessare?». Il cancelliere allungò un rattrappito braccio artritico che brandiva un foglio di carta.

Hermione lesse solo le prime righe.

Ministero della Magia

Dipartimento della Giustizia

VI Sezione

Ufficio Concorsi, Promozioni e Avanzamenti

 

Soggetto: bando di concorso per n. 30 posti da Giudice di Corte d'Appello.

 

Altrove. A decine di chilometri di distanza.

Il cucchiaio rovistò nella scodella, alla ricerca di qualche fiocco di cereali rimasto annegato nel latte.

«Non fare rumore con il cucchiaio».

Piano piano, inclinò la scodella e tentò di sorbire il latte dal bordo.

«Non fare il maiale con quella scodella. Bevi come si deve, screanzato»

Tentò, quatto quatto, di buttare il caffè, bruciato e aspro, nel lavandino.

«Bevi il caffè. Ti farà bene, nel tuo stato...».

«Sì mamma». Bevve tutto il caffè, anche se sapeva di merda. Faceva schifo. Lo trangugiò comunque, per non adirarla. Mai adirare la signora Weasley, specie quando era armata di cucchiaio di legno.

 

«Ronald, figlio mio, quello che hai fatto oggi è vergognoso. Tradire una donna. Vergognati»

«Mi dispiace, mamma»

«Ronald, non basta. Ritieniti in punizione per i prossimi tre mesi»

«Sì, mamma»

«Hai perso una grande occasione di metter su famiglia, Ronald. Hermione era una brava ragazza»

«Mi dispiace, mamma»

«È fondamentale metter su famiglia, Ronald»

«Sì, mamma»

«Alla tua età, Ronald, non puoi più permetterti di fare il farfallone. Il gagà»

«Sì, mamma»

«Tu ti devi trovare un lavoro. Il cugino Thomas è nel ramo autospurghi, Ronald. Sarà lieto di offrirti un posto come apprendista»

«Sì, mamma»

«Bene, Ronald»

«Posso andare in camera, mamma?»

«No, Ronald. Non ho ancora finito. Ricordi cosa ti ho detto a proposito del valore di avere una famiglia tua, Ronald?»

«Sì, mamma»

«Bene. Sai chi è Gertrude Benedetta Weasley, Ronald?»

«La pro-pro-nipote di zia Muriel, mamma»

«È nubile. Sai cosa voglio dire, Ronald?»

«Sì, mamma»

«Bene, Ronald. Ora puoi andare in camera»

«Grazie, mamma»

Angolo autrice
Ed eccoci al penultimo capitolo. Il prossimo segnerà la conclusione di questa breve fanfiction: spero di poterla pubblicare prima di domattina, ma non so se ci riuscirò.
PS: Noterete che mi sono presa delle licenze nel descrivere la signora Weasley (in realtà è assai più gentile e comprensiva), dipingendola come una vera matrona spadroneggiatrice. Serve per dare più colore al dialogo finale.
PPS: Opinioni e recensioni gradite.

--Chiara

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

 

«Ehi, signora Malfoy»

«Non mi chiamare così. Mantengo il mio cognome»

«Signora Malfoy nata Granger?»

«Nemmeno»

«Signora Granger in Malfoy, allora»

«Nisba». Draco sbuffò, fintamente irritato, e baciò sulla fronte Hermione, accoccolata sul letto matrimoniale, accanto a lui. Avevano acceso le deboli luci delle abat-jour, ed esistevano l'uno per l'altro come ombre e odori. Era notte fonda, ma nessuno dei due aveva sonno: i grandi eventi della giornata sarebbero stati sufficienti a tenerli svegli.

«Quell'anello è bellissimo» si congratulò, indicando la fede con brillante al dito della moglie.

«Nonché costosissimo» precisò Hermione.

«Me lo posso permettere, tanto» disse lui, stringendosi nelle spalle.

«E fu così che finirono a mendicare sotto un ponte ferroviario»

«È la nostra prima notte di nozze, non ti pare che dovremmo fare qualcosa di diverso? Che ne so, giocare a scacchi?» scherzò Draco, accarezzandola.

«Ancora?»

«Ma è la nostra prima notte di matrimonio, amore. Approfittiamone, perché nel giro di qualche anno io diventerò calvo, grosso, ottuso e pigro, e tu diventerai isterica e pettegola». Hermione rise di cuore, e si abbracciò forte al corpo esile di Draco.

«E via, che sarà mai... almeno metti un po' di ciccia, sei tutto ossa»

«Amore, quando parli così mi spaventi. Giurami che ti potrò sempre portare al mare senza che si gridi allo spiaggiamento di cetacei». Hermione rise di nuovo.

«Mi amerai anche se metterò su qualche chiletto?» sfidò Hermione.

«Certo. Ma ti prego di credermi sulla parola, non provarci».

 

Rimasero parecchio tempo a scherzare, stuzzicandosi l'un l'altro e a prevedere le sciagure nella disastrosa vita da sposati a cui si stavano affacciando. Poi tacquero, stanchi ma senza volersi addormentare.

 

Ad un certo punto, serio, Draco intervenne: «Ehi, signora Granger maritata Malfoy, c'è una cosa che stavo pensando... che ne dici se...?». Non c'era bisogno di finire la frase: anche se non ne avevano mai parlato prima, riuscivano facilmente a leggersi l'uno nella mente dell'altra.

«... forse, Draco. Vediamo. Vediamo se riesco a farmi promuovere alla Corte Superiore di Londra, prima. Poi vedremo»

«Voglio due maschietti» sentenziò Draco.

«Due femminucce»

«Per carità! Un maschio e una femmina»

«Andata» convenne Hermione.

 

«Bene, e ora... dove avevo messo i pezzi e la scacchiera?».

 

Sei anni dopo

 

Hermione aveva ventinove anni.

Mentre spingeva il carrello della spesa lungo i corridoi dell'ipermercato, con la coda dell'occhio sorvegliava Daniel, il grande.

«Daniel, non far cadere niente» disse con tenerezza. Il figlio, che mostrava gli scompigliati capelli biondi e gli occhi chiari del padre, annuì con lo stesso atteggiamento paterno. Le trotterellava accanto, dall'alto dei suoi sei anni.

«Tuo fratello è una peste» scherzò Hermione, accarezzando la testa di Alexander, il piccolo, incastrato nel porta-borsetta del carrello. Alexander, tre anni, rise, felice della sua posizione in cabina di comando che gli permetteva di tenere tutto sott'occhio.

 

Alla fine, erano venuti due maschietti, come voleva Draco. Hermione ne era stata assolutamente felice: erano belli e sani e intelligenti. Stavano pensando di riprovare la roulette con un terzo e ultimo figlio. Magari veniva fuori una femmina, o magari no. Hermione sarebbe stata felice lo stesso.

Daniel, diceva Draco, aveva ereditato la predisposizione per le materie umanistiche della madre: già leggeva scioltamente e parlava usando tutti i verbi giusti, le maestre si erano più volte congratulate con la mamma.

Alexander, invece, sicuramente aveva ereditato la bravura del padre con i numeri, sosteneva Draco. Non lo condizionare, lo rimproverava Hermione con un sorriso gentile, lasciagli fare quel che gli piace.

 

Nel carrello, nascosta fra il pane e i pacchi di biscotti, c'era la copia de La Gazzetta del Profeta di quel giorno: il titolo a nove colonne urlava: Cornelius Caramell condannato!, e l'occhiello recitava: La Sezione Penale della Corte d'Appello di Londra, sotto la presidenza del giudice Granger, ha condannato a tre anni l'ex Ministro della Magia per corruzione. Caramell, da tempo fuori dai giochi politici ufficiali, influenzava ancora il governo magico attraverso una vasta rete di faccendieri e scagnozzi, proteggendo gli interessi della propria ala del partito. Era stato condotto in giudizio davanti ad un collegio di tre giudici, presieduto da Hermione (persona più giovane a diventare Presidente di Corte d'Appello), e si era difeso con un'appassionata arringa sul “male necessario” e sul “bene superiore”, oltre ad appellarsi all'immunità governativa. Nonostante ciò, con una sentenza definita “rivoluzionaria” dalla comunità giuridica magica, Hermione lo aveva fatto condannare. Altre sue sentenze erano state accolte come egualmente innovative, e alcune erano state perfino tradotte in legge dal Ministero: una sua ordinanza sull'uguale stipendio da versare alle donne lavoratrici era stata introdotta nella legge sulle pari opportunità, parola per parola; parti della motivazione della condanna ad un razzista erano state incluse nella legge contro le discriminazioni. Nell'ambiente delle magistrature superiori, si mormorava che quando l'anziano giudice Timberstone fosse andato in pensione, di lì a qualche anno, Hermione avrebbe quasi certamente preso il suo posto nella Corte Suprema. Un altro traguardo: prima donna a diventare giudice supremo.

La carriera di Draco procedeva spedita: era diventato uno stimato manager della Gringott, e prevedeva di entrare nel CdA prima dei trentacinque anni.

Invecchiando, era diventato più emotivo ed affettuoso. Addirittura la nascita dei nipotini era riuscita a smuovere – almeno un po' – nonno Lucius, che non voleva assolutamente essere chiamato “nonno”: Hermione aveva temuto che si sarebbe adirato per la faccenda del sangue puro, ma un vagito di Daniel neonato era bastato per far breccia nei pregiudizi dell'uomo.

 

Tutto andava bene, ed Hermione quasi non ricordava più la fredda aula da giudice di pace, e la squallida casa in cui aveva vissuto una volta. A volte, mentre si industriava assieme al marito fra i fornelli, ancora si ricordava le sfuriate perché il sugo faceva schifo e il risotto sapeva di merda. Adesso, poteva capitare che Daniel, il più schizzinoso in famiglia, facesse notare come il sugo non gli andasse a genio. Ma era tutto diverso.

 

«Daniel, preferisci cioccolata bianca o al latte?»

«Bianca»

«Ok. Prendila tu». Daniel prese una barretta e la mise nel carrello.

 

«È pazzesco quanto facciano pagare il latte... da denuncia» borbottò fra sé e sé Hermione.

«Mamma, posso prendere la Coca?»

«Ancora? Non ti si bucherà lo stomaco? Prendila pure». Daniel prese una lattina e la depose fra l'altra roba.

 

Fu allora che accadde.

Mentre prendeva il latte dagli scaffali, Hermione sentì qualcosa di vetro che si infrangeva a terra, in uno schianto catastrofico. Un barattolo di qualcosa si era sfracellato sul pavimento.

«Daniel!» chiamò subito, temendo fosse stato suo figlio. Però, il piccolo era in piedi accanto a lei, innocente.

 

«Porca... ma che cazzo hai fatto?» esclamò una voce in fondo al corridoio.

Hermione si voltò. Vide una larga chiazza rossa per terra: probabilmente, qualcuno aveva fatto cadere a terra un barattolo di pelati.

Si avvicinò per vedere meglio, spinta dalla curiosità.

«Cretina!». Sciack! Uno schiaffo volò nell'aria. Ora vedeva bene: c'era una bambina grassoccia, piuttosto bruttina, in piedi in mezzo al corridoio, probabilmente aveva fatto cadere lei i pelati. Scoppiò a piangere: un uomo rosso carota le aveva somministrato un ceffone con i fiocchi. «Mamma, mamma, mamma!» ululò la bambina. Hermione strinse gli occhi: quella voce gli ricordava qualcuno. Ma no, cosa stava pensando: quel tizio aveva almeno quarant'anni, aveva la pelle aggrinzita, un rivolo di grasso che increspava la rozza camicia di tela. «Mamma, mamma, mamma!» la scimmiottò l'uomo, «Vergognati, guarda cos'hai fatto! E mi toccherà ripagare il negozio, pure, cretina!».

 

Era proprio lui.

Non dire cretinate, Hermione: non lo vedi? Questo ha almeno quaranta anni, guardalo, è tutto una ruga, guarda quella cicatrice sul braccio.

Macché: era proprio lui. Stesso viso largo, stessi capelli rosso pomodoro – padre e figlia – e stesse lentiggini male assortite.

Sciack! Così, tanto per, Ron Weasley assestò un secondo manrovescio alla figlia, che urlò di dolore e scappò oltre l'angolo. Hermione sentì una specie di vibrazione nel pavimento. Cosa...?

«Nino! Ninuzzo, non toccare a nostra figlia!» abbaiò una volgare e roca voce femminile. Un'altra vibrazione: erano passi!

 

«Nino, quante volte te l'ho da dire, che non devi toccare a mia figlia?» sbraitò la stessa voce. Hermione, che non era altissima, non riuscì a vedere da dove provenisse. Poi, la moglie di Ron entrò nel suo campo visivo, ed Hermione si trovò a metà fra una risata sguaiata e un brivido di paura.

 

Gertrude Benedetta Lorraine Margaret Weasley era alta 1,54 m per 153 kg. Per supplire alla sua bassa statura, si cotonava i capelli rosso-pugno nell'occhio in un alto termitaio svasato.

Indossava un vestito leggero a motivo floreale, troppo largo per nascondere il lardo che strabordava dai fianchi, dalla pancia, dai seni, e troppo corto per celare le gambe a prosciutto, che sfregavano fra loro tanto erano grasse. Portava un paio di ciabatte da doccia ai piedi grossi come cinghiali. Le sue sgraziate braccia erano forse troppo pesanti perché le potesse sollevare, e terminavano in dita tozze e ravvicinate, come se avesse le mani palmate, unite da una membrana di adipe.

 

Il suo grasso viso era sudato all'inverosimile, nonostante facesse freddino. Sembrava sciogliersi come burro. La pappagorgia le ballonzolava ogni volta che muoveva la testa.

 

Nel complesso, Hermione la trovò orribile.

Dovette essere dello stesso parere anche Daniel, che si rifugiò spaventato dietro le magre gambe della madre, infilate in un paio di jeans.

 

«Nino! Come ti permetti?». Nino, cioè Ron, si scusò con un cenno del capo.

«Ninuzzo, ricordati che nostra figlia Elfrida non si tocca, capì', Nino?». Ron annuì.

«Miserabile, a toccà' tua figlia!» lo insultò Gertrude. Nino si prostrò – metaforicamente parlando, ché era almeno 30 centimetri più alto di lei – davanti alla moglie e si scusò a bassa voce.

 

Hermione voleva ridere, voleva ridere a squarciagola ma si trattenne. Scompigliò i capelli di Alexander, aveva i suoi stessi capelli ricci. Guardò Elfrida, che piangeva dietro le gambone della madre, e le sfuggì – malgrado il suo impegno – una risatina.

Nino e Gertrude si avviarono nella sua direzione. Con una delle sue enormi mani, Gertrude si trascinava dietro Elfrida, ignorando il suo pianto disperato, sbattendola in giro come un pupazzo.

 

Passarono accanto ad Hermione, e Ninuzzo non la riconobbe, anzi, non la guardò nemmeno, anche perché l'immenso corpo della moglie gli occludeva il campo visivo. E, a dirla tutta, anche perché camminava con la testa reclinata, come un cane bastonato, con la coda fra le gambe, accodandosi all'imponente figura di Gertrude.

 

Mentre le sfilavano affianco – Hermione strinse a sé Daniel, timorosa –, sentì Gertrude che respirava rumorosamente, come un mantice, anche se non stava facendo sforzi. Inspirava ed espirava, accaldata. «Fallito» ricordò a Ninuzzo, «Sei un fallito e basta».

Ninuzzo non rispose. Continuò a trotterellarle dietro.

 

E poi sparirono.

Hermione aggirò la macchia di pelati sul pavimento, mentre una giovane commessa puliva, borbottando: «Cicciona di merda... neanche a scusarsi...».

Si diressero alle casse, Hermione e i figli. Mentre attendevano in coda, disse a Daniel: «Danny, vuoi fare una cosa bella per la mamma?». Lui annuì.

«Quando papà torna da lavoro, digli che la mamma lo ringrazia».

«Perché?»

«Tu diglielo. Capirà».

 

Hermione sorrise, felice, e spinse oltre il suo carrello.

 

Angolo autrice

Scusate il ritardo nel postare il cap., ma stamattina non funzionava il sito e poi sono stata impegnata.

E così, giunge al termine questa mia prima fanfiction. :-)
Recensioni gradite.

--Chiara

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