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L’aria è carica della pioggia imminente. Il cielo annegato
nel grigio azzurro si riflette nel mare.
Tutto è gelido. Immobile. Solo qualche raffica di vento,
debolmente, ogni tanto scuote questa decadenza di freddo invernale. Reggo a
mala pena i fiori, sento gli occhi bollenti e appannati, vorrei
solo potermi svegliare sapendo che tutto questo non è mai successo. Invece è successo.
Ripenso all’orrore. Alla disperazione. Al
tuo viso quando l’hai fatto.
Questo è un bel posto per morire ma la tua morte è stata
orrenda. Sei morto in questo squallido porticciolo, ma
ha un che di poetico. Pensavo che fossimo venuti per restare in piedi sugli
scogli, contemplando il mare e il volo dei gabbiani. Avremmo preso di nascosto
la barca di mio padre e saremmo andati a largo a guardare le meduse. C’erano
tante meduse in questo periodo, stavano tutte molto lontane dai moli, e di
notte riflettevano la luna come un oceano di stelle.
Quando hai proposto di
accelerare, tanto per divertirci un po’, io pensavo che lo facessi per
innocente immaturità. Lo facevi solo per morire. Sei uscito. Ti sei buttato di
sotto. Mi hai sfiorato la mano mentre cadevi.
E l’elica ti ha fatto a pezzi. In
quel mare di meduse.
Sangue, sangue, sangue ovunque. Pezzi
amputati di te, del tuo bellissimo corpo, che si perdevano nel vuoto di quel
mare scuro. Anche quel giorno era una brutta
giornata. Tutto era diventato scuro e rallentato. Avevo visto veli di liquido
rosso spargersi ovunque, ero riuscita a fermare la barca, e poi ero rimasta non
so quanto a guardare ciò che di te era rimasto.
Brandelli di vestiti emergevano, intravedevo sotto il
manto plumbeo qualche tuo pezzo.
Non posso credere che tu sia morto così.
Non posso credere che per te, proprio per te, sia stata
riservata una morte così indegna. Fatto a pezzi. A pezzi. A
minuscoli pezzi, ossa triturate, carne stritolata. La tua lapide non ha
niente sotto, solo una bara vuota e terra umida. Come pioveva quando ti hanno “sepolto”. Pioveva a dirotto. Qui piove sempre a dirotto,
dalla nostra finestra si vede il lago, che ha lo stesso colore dei tuoi occhi.
Oggi contemplo le barche allontanarsi per la loro pesca.
Puzza di pesce, reti fradice ammassate sui carretti, tutto coperto della strana
ruggine dei porti. Una ruggine impregnata di tutti quei giorni di burrasca,
passati, finiti. Per me la burrasca si è estinta. Non provo più niente.
Sprofondo nella totale apatia, ogni tanto apro gli occhi e sollevo la testa,
per vedere se, dal fondo di questo limbo, appare un sorriso, un piccolo raggio
di luce a tirarmi su. Ma mai è successo.
Mio padre ha avuto un infarto il giorno che tu ti sei
ammazzato. Io sono sospettata di averti ucciso. Tua madre non mi parla. Nessuno
mi parla.
La mia vita è distrutta. Potevamo ancora andare avanti,
amore mio. Potevamo fare tante cose. Che bisogno c’era
di seppellirti nel mare di meduse? Nello squallido
mare di questo posto piovoso. Un paesino sperduto che non
ricordo neanche come si chiama.
Avevi i soldi, avevi entrambi
i genitori, anche se ancora per poco. Come tutti forse avresti
pianto la morte di tuo padre e avresti visitato la sua tomba, avresti portato
dei fiori, l’avresti pulita, o forse avresti lasciato che questo lo facesse tua
madre. Ma ora accanto alla tomba di tuo padre c’è la tua, io e tua madre le puliremo entrambe.
Non doveva essere così, non doveva.
Oggi è il tuo compleanno.
Saremmo andati a vivere insieme, ci saremo sposati se ti
fosse piaciuto, io sarei diventata una stilista e tu una rock
star, ne sono sicura. Avremmo fatto esattamente tutto quello che imponevano i nostri sogni. Adesso non faremo più niente.
Lavoro in un negozio di cosmetici. Sei morto da sette mesi e nessuno ha ancora
riempito la mia anima della sostanza di cui tu l’avevi fatta traboccare.
Ripenso a te, a quanto ti amavo e a quanto ancora mi struggo nel ricordo che mi
hai lasciato, ma poi la tua espressione al momento in cui sei
morto. Cosa volevi dirmi? Cosa
devo fare per capire? Non capisco. Non capisco. Non riesco a
immaginarmi cosa volesse significare quell’espressione. Perché
hai voluto suicidarti quando c’ero anch’io? Volevi dirmi qualcosa. Forse volevi
dirmi che ti suicidavi per colpa mia.
Perché non mi hai detto dove
sbagliavo? Non litigavamo spesso, forse accumulavi
dentro ogni rancore. Io ti ho sempre amato. Ogni volta che ho sbagliato non
l’ho fatto con odio, mai con secondi fini, mai con gelosia, mai con rancore nei
tuoi confronti, mi dispiace se ho sbagliato, mi
dispiace immensamente.
I petali di queste rose galleggiano sull’acqua, assieme
alle mie parole.
Le mie parole che tu non ascolterai, forse non hai mai
voluto ascoltarmi. Un gabbiano stride all’orizzonte, altri si
uniscono, altri ancora, uno stridore tremendo, fa quasi male alle
orecchie.
Mi allontano. Abbasso la testa. Il cuore sanguina. E’
livido. Troppi calci nel culo.
Nei canti dei pescatori, nello stridere dei
gabbiani, nella vecchia ruggine di questo tempio di gelo. Rose
galleggiano sul tuo sepolcro.
Contemplo. Ascolto e contemplo. Bellissimo
il sangue che si disperde nell’acqua trasparente. Bellissime
le lacrime che colano giù dalle guance. Com’eri bello. Da morto. Era
bello il tuo cadavere.
E’ inutile. Mai un corpo vivo avrà la fredda e laconica
bellezza di un cadavere. Mai tante cose saranno scritte sulla pelle di un vivo
come sono scritte sulla pelle di un morto, mille comandamenti e verità sulla
nostra vita, che, come quella di tutti gli altri, si avvia sempre più al
capolinea.
Prima o poi tutti moriamo.
E io ascolto. Ascolto e
contemplo.
Ascolto il dispiegarsi grezzo e nebbioso di queste
giornate tutte uguali e contemplo le gocce di sangue che si disperdono
nell’acqua di rubinetto, rinchiusa nel bicchiere. Vorrei poterti mostrare la
bellezza di questi attimi. Il mio dito è tagliato affinchè le gocce che
scendono siano piccole e ritmiche. Osservo. Cadono
nell’acqua. Goccia dopo goccia. Poi scoppiano. Si disperdono. Si allargano.
Velluto di sangue. Il sangue è uno degli spettacoli più belli che Nostro
Signore ci ha regalato. Com’è bello… rosso, rosso
intenso. Colore della vita e della più morbosa atrocità di
questo Inferno. Il sangue è l’olio col quale dipingo sulla tela della mia
pelle. Forse è per questo che sono autolesionista.
Ti sei avvelenato, e poi sei morto col sorriso, gran
figlio di puttana. Mi hai provocato irritazione.
Ti ho dato in vita tutto quello che ho
potuto, ho distrutto il mio orgoglio e la mia dignità soltanto per regalarmi
del tutto a te, anima e corpo. Adesso muori, sorridendo, sorridendo sarcastico,
come se nelle tue mani si intrecciassero le vite di
centinaia a centinaia di uomini. Tu ora sei morto e loro moriranno. Per me non sarà così, te lo prometto.
Non riuscirai a buttarmi giù.
Le lacrime scorrono sulle mie guance. Penso che la tua
morte mi provochi dispiacere.
Cos’eri di speciale? Eri un uomo.
Come altri ce ne sono al mondo. Stavamo insieme. Come altre coppie stanno
insieme. Vorrei poter indagare nella mente di voi suicidi,
perché adoro le vostre menti, sono così complesse. Mosse da
un meccanismo che non capirò mai. Quant’è profonda la vostra
disperazione? Quant’è grave la vostra pena? La mia è una famiglia di suicidi. E’ per questo che ne sono affascinata.
Si sono uccisi prima i miei fratelli, accoltellandosi l’un
l’altro mentre si abbracciavano in un lago di sangue
sul tappeto. Si è uccisa mia madre, spiaccicata sull’asfalto, ora calpestato da
migliaia di persone che non meritano di ignorare la sua pena. Si è ucciso mio
padre, lavoro di merda, stipendio di merda, famiglia di merda. Picconava le
rocce di granito, questo era il suo compito, e si è ucciso facendo esplodere
una mina. Tonnellate di granito sulla sua testa.
Mi piace come sono morti i miei fratelli. Con stile. Col
sangue rosso. Tu ti sei avvelenato col sorrisetto di scherno, senza sangue, di
notte, mentre io dormivo accanto a te.
Tutto sommato, penso di averti amato come niente amavo al mondo. Perché non muoio
anch’io? Forse l’atto di maggiore masochismo a questo mondo è quello di
continuare a vivere, per continuare a soffrire. O
forse mi piace ancora vivere. Forse penso che potrò rifarmi una vita. Sarà
difficile. Senza soldi. Senza famiglia.
Senza di te.
La cosa che mi fa più male. Intorno
a me degli uomini portano via i mobili di casa ma io, sdraiata sul pavimento
freddo di questo tugurio, continuo a fissare i veli di sangue, i veli di
lacrime, i veli della mia esistenza che cadono
nell’acqua, di disciolgono, si spargono. La mia vita è appesa a un filo, al filo della tua anima che ancora viaggia
intorno a me.
Oh… già, dimenticavo, mi stanno sfrattando. Eccomi nella nebbia, nella neve, nel gelo totale.
Eccomi fuori dalla porta di
fronte a questa fredda città in pieno inverno, ai confini del mondo. Che posso fare qui? Tutti sono morti. Non ho più niente,
nemmeno una casa.
Si profila di fronte a me il destino di barbona di fronte
alla tua tomba. Ricorderò per sempre il tuo bellissimo cadavere, i tuoi
bellissimi occhi chiusi, la tua bellissima pelle bianca. Le
tue labbra sottili e lineamenti aspri, ostili. Sarà il caso? Forse è
meglio che mi ammazzi anch’io; quanti edifici alti ci sono qui intorno.
Sembrano fatti apposta per buttarsi di sotto. Un volo, un ultimo volo, e poi, finita per sempre. La
proposta è allettante, è ci sarebbe tanto sangue in
giro. No.
No, non lo farò, amore mio.
Ti ho promesso che niente al mondo, nemmeno tu, nella tua
mortale perfezione, sarebbe riuscito a buttarmi giù. Andrò in chiesa a pregare,
pregherò, pregherò in continuazione. Pregherò per te,
per mia madre, per i miei fratelli, per mio padre. Pregherò per me, pregherò
per ogni suicida di questo mondo, pregherò per tutti e sognerò il sangue. qualcosa farò. Te lo giuro. Qualcosa farò.
Al pensiero che sono sola mi si
chiude lo stomaco e tutto il mondo si sfracella contro di me. sognerò del tuo
sorriso e rimuoverò ogni traccia di terrore, perché adesso so veramente di
esserci. Ora che tu non ci sei so che la mia vita è iniziata, è iniziata adesso,
soltanto adesso.
E’ la cosa che fa più soffrire. La cosa
più triste che ci sia al mondo.
Mi è capitato infinite volte di immaginare come sarebbe
stata la mia vita senza di te, e altrettante volte ho
pensato che sarebbe stata migliore. Se io non ti avessi
mai conosciuto sarebbe stato meglio per entrambi. O forse solo per me. Forse a
te non interessa comunque.
Che ti importa? Che ti importa in fin dei conti?
Tu hai la tua ragazza, l’anima della tua vita stessa, e so
che state bene insieme. Lo vedo. Lo vedo dai vetri del bar che frequentate
sempre, e non oso spingermi oltre la porta, ho paura, una dannata paura che non
mi abbandona nemmeno un secondo. Vi vedo camminare sul mio stesso marciapiede,
vi vedo mangiare insieme, vi vedo tornare a casa camminando l’uno accanto
all’altra, vi vedo, vi vedo nei normali atti di amore
che ogni coppia felice è grata di condividere. E la
mia anima è lacerata e vede anche quando gli occhi non possono cercarvi.
Cercare te.
Siamo sempre stati compagni di classe. Dopo quest’anno
avrei dovuto cominciare l’università. E avrei
sicuramente scelto ciò che tu avresti scelto, per poterti vedere, sempre. Ma mai mi sarei fatta avanti. Ti amo da
non so quanto. Ti amo in modo smisurato e tu non mi hai mai rivolto la
parola. Non mi hai detto niente che io volessi farmi sentir dire da te. Ogni
volta che mi rivolgevi la parola una raffica irrefrenabile di tempesta mi scuoteva dentro, in profondità, ma si spegneva
sempre quando mi domandavi cose assurde, banali, che non avevano alcuna
importanza. E io non sapevo risponderti. Ho sempre
cercato di apparire, di farmi vedere da te e di guadagnarmi il tuo amore.
Non sai quante volte ho sognato
che tu ti innamorassi perdutamente di me, lasciassi la tua ragazza. Che potessimo avere una storia segreta. Ho sognato che dormivamo insieme, che facevamo ogni cosa insieme e che
stavamo bene insieme. Benissimo. Stavamo benissimo insieme. Stavamo così bene
da rasentare l’idea della totale perfezione. Ma così
non è mai stato e ormai non potrà più essere.
Non ho mai avuto neanche una possibilità con te.
Progettavo i comportamenti da tenere in tua presenza ma
ogni volta che mi parlavi sembravo una tonta. E tu mi chiamavi così. La tonta. Io non posso farci niente…
non posso farci niente se ti amo. Vedo le persone felici che camminano sul
marciapiede ridendo e scherzando col proprio ragazzo. Quando
entro in un negozio vedo una coppia spensierata, quando vado a scuola le
persone si scambiano bigliettini, i cessi pubblici sono sommersi di
dichiarazioni. Io non ho nessuno a cui poterle dedicare.
Io non esisto per te. Non esisto per nessuno.
Domani mi troveranno morta.
Come vorrei che tu ti pentissi di
non avermi mai guardato. Ma quando sui giornali scriveranno che sono morta per
una perdita di gas, nessuno saprà che il gas l’ho lasciato aperto io, e tu, tu
non saprai mai che io l’ho fatto per te.
Per la consapevolezza che non sarebbe mai successo niente fra noi.
Perché so che come te non ce ne sarà mai nessun
altro, che tu non vorrai mai la tonta.
Guardami. Guardami.
Mi hai indebolito sempre di più. Nella tua felicità, con
la tua ragazza, non hai mai saputo quanto mi ferissi.
Vorrei poter osservare il cielo dalla finestra, ma ho chiuso
tutto per paura che il gas non faccia in tempo ad uccidermi.
Quando i miei torneranno io sarò
morta. Un giunco già debole e floscio, spezzato ormai del tutto.
Moriranno anche loro, forse, forse, soffocheranno non
appena apriranno la porta. Forse daranno la colpa ad una perdita, non sapranno
mai che mi sono uccisa di proposito, mai nessuno saprà che mi sono suicidata. Tu non saprai mai che l’ho fatto per te.
Mai.
Sta per arrivare il momento.
Mi sciolgo nelle mie ultime lacrime e mi pento di ciò che
sto facendo. Dopotutto se muoio con te avrò meno speranze di prima. non è troppo tardi. Posso uscire, spalancare tutto, gridare
che c’è una perdita, ma ormai non lo farò. Ho deciso. Sono la tonta: ma adesso sono quella che non si muoverà di qui. Qualunque
cosa succeda. Accetto la mia morte. Mi sono preparata per cinque anni a
questo momento, cioè da quando stai con la tua
ragazza. Ecco l’ironia della vita.
Se vivo, non cambierà niente,
soffrirò di più. Sempre.
Se muoio, tu non mi amerai ma mi
ricorderai.
O forse non mi ricorderai lo
stesso. Ma io ti tormenterò. Respirerò con te,
camminerò al tuo fianco, i miei occhi guarderanno quello che tu guarderai.
Crudele, stringerò la tua mano per sempre anche se tu non lo vorrai. E tu potrai odiarmi. Odiami. Ti prego, odiami quanto ti
pare, odiami fin quando ne hai voglia.
Odiami, con tutte le tue forze. Odiami come non hai odiato
mai nessuno,
Nel suo mantello nero, Lei ti ha portato via. Nel suo mantello che tutto copre.
Non c’è scampo dalla sua sentenza così cruda ed
inesorabile. Non è possibile fuggire dalla sua assoluta puntualità. O dal suo immenso anticipo. La Morte non arriva mai in
ritardo.
I miei disegni si fanno sempre più cupi. I sogni portano
in seno il suo riflesso. Un’immagine poco nitida, quasi trasparente, ma riesco
a percepire la sua presenza, ovunque Lei si trovi. Sua Maestà.
La Morte.
E’ diventata il mio
incubo più ricorrente. La vedo, la percepisco, sono in grado di sentirla
ovunque, persino di toccarla. Anche il termosifone
acceso mi sembra terribilmente freddo e soltanto quando tolgo le mani mi rendo
conto di essermi scottata. E’ così, da quando non ci sei.
Ho ventidue anni. Ho ancora molto da vivere, o almeno
questo è quello che mi dicono gli altri. La mia migliore amica tenta di
consolarmi, ma la respingo. I miei genitori non si stancano mai di telefonarmi
ma io non rispondo. Ascolto i loro messaggi in segreteria, li
ascolto con gli occhi vuoti. Anche lì sento
Lei. La voce roca di mio padre. Quella stanca di mia madre. Sono vecchi. La
Morte li accompagna, li segue, fa loro compagnia quando si sentono soli e
presto li consolerà della loro faticosa vecchiaia.
Da quando te ne sei andato, non ho pace. Eri il mio primo
pensiero al mattino, l’ultimo alla sera. Eri sotto la
mia pelle, scorrevi nel mio sangue, in te affogavo la mia anima, in te avevo
riposto ogni cosa che avessi di importante. E adesso
tu hai preso tutto questo, e te lo sei portato via.
I tuoi occhi si sono spenti, le palpebre
si sono abbassate. Mai più muoverai le tue labbra, mai più calpesterai questo pavimento, mai più ci ameremo come ci
eravamo amati prima. Io continuo a pensare a te. Come se tu
fossi solo partito per un viaggio. Un lungo, lunghissimo viaggio, ma prima o poi tornerai.
E ogni giorno, ormai, faccio i
conti con Lei. Prima mi illudevo, come una bambina,
che la mia vita potesse riprendere, perché tu prima o poi saresti ritornato. Mi
sarei svegliata una mattina, nel calore delle tue braccia, e avrei scoperto che
ancora mi respiravi addosso, che c’eri ancora, che il tuo cuore batteva e la
tua pelle era calda. Ma col tempo sto perdendo la
fiducia.
Ti sei ucciso con la sega elettrica.
Ti sei fatto in mille pezzi, ti sei
tagliato le braccia, le gambe, ti sei distrutto, e hai lasciato tutto lì sul
pavimento, aspettando che tornassi dal conservatorio. Sono tornata. Ho trovato
te.
Non ricordo altro.
Non voglio ricordare altro. Sogno che quello scempio si
trovi ancora sul pavimento. E Lei mi si avvicina. Ecco perché ho perso la fiducia in te, e nel tuo ritorno. E’
la Morte, è la Morte che mi fa compagnia e che dolcemente mi coccola,
fingendosi amica, fingendosi propizia, facendo finta di essere lì per
graziarmi.
Osservo la tua foto che sembra dirmi “sono qui con te”. Osservo il letto dove
condividevamo il nostro amore e ripenso a tutte le volte che ho avuto paura di
perderti.
Lei era già con noi. Già da allora. Partoriva ogni mia
angoscia, ogni mio timore.
Si rifletteva in ogni atto della nostra vita, in ogni
giorno che ci concedeva la propria replica. Ha preso prima te. So come ha
fatto… si è insinuata dentro di te, ha instillato in te il dubbio, ti ha fatto
credere che io non ti amassi, che nessuno ti amasse, e poi ti ha preso, ti ha
portato con sé. Ti ha esasperato a tal punto che ti sei offerto
volontariamente.
E adesso vuole fare lo stesso con me. Lo sento. Mi sta distruggendo.
E tu mi manchi, amore mio. Mi
manchi. Terribilmente. Non posso vivere in questa casa sapendo che un tempo tu
camminavi qui, tu vivevi qui con me. Quando la mia migliore
amica era ancora la mia migliore amica, e quando i miei genitori non erano lo
specchio in cui vedevo gli ultimi giorni della loro vita.
La Morte produce il tuo riflesso e lo fa fluttuare qui
intorno.
Ti vedo, ti sento, dappertutto.
Ti vorrei toccare ma sei solo un fantasma, vorrei
abbracciarti. Non sai quanto ho bisogno di te. Non sai quante lacrime ho
versato.
Per te. Solo per te. O forse
anche un po’ per me.
Ho bisogno di te, sei il mio
massimo desiderio. Ho bisogno che tu mi respiri addosso, ho bisogno che tu mi
baci, ho bisogno di poterti amare, ho un fottuto bisogno di te. Lei. Lei mi
esaspera!
Non resisterò a lungo. Chiusa in questa
casa, aspetto il momento in cui la Morte terminerà il suo lungo processo;
quando mi avrà portato alla pazzia completa, quando il desiderio di te sfumerà
inesorabilmente nella necessità di un tributo di sangue, Lei compirà la sua
sentenza.
D’accordo. Aspetterò. Intanto mi affogo nel vino. Non so a
quanti bicchieri sono.
Aspetto, aspetto paziente. Seduta di
fronte a lei su questo tavolo.
I fulmini esplodono, fuori c’è un
temporale. Va via la luce.
Ma noi siamo ancora qui. Tu sei
ancora qui, vero, amore mio? Stringimi la mano.
Aspettiamo insieme l’ora in cui diventerò pazza e mi
ucciderò, aspettiamo la Sua decisione. Resta con me e aspettiamo fiduciosi il
momento in cui tutto finirà. E saremo di nuovo
insieme. Lei ci unirà.
Lei è così buona.
E’ da un po’ che non faccio altro che sognarti. Tutti coloro che mi circondano sostengono che siano gli strascichi
del lutto. Io non credo agli strascichi del lutto. Niente ha mai potuto
scalfire i miei sentimenti, niente. Chiunque morisse
non poteva riuscire a tormentare i miei incubi. Perché dopo la morte vive il
ricordo di colui che se n’è andato. Il suo ricordo
fluttua nell’aria posandosi, come polvere, su tutti gli oggetti che lo hanno
visto, in vita.
Polvere che scorre nel sangue, appena sotto la
pelle. Polvere che respira, che vive, che
torna con noi, fantasmi. Il tuo fantasma non l’ho ancora visto. Nella
tua casa, solo la tua vecchia madre si aggira, trascinandosi nelle sue
pantofole, gobba e tozza. Nella luce bianca che fende le scaglie delle stanze
spoglie, la povera vecchia cammina senza meta, vegeta sulla sua sedia a
dondolo, scricchiola, scricchiolano le sue ossa, e
presto ti raggiungerà.
Dove sei?
Sei ancora qui? Sei all’Inferno? In Paradiso? Sei oltre
l’universo? Sei nel magma di questa Terra? Chissà dove sei.
Se potessi saperlo ti raggiungerei. Il tuo richiamo è
troppo debole. Dio non ha avuto pietà di te perché non ha mai pietà di chi suicida. Non ha mai pietà per nessuno, è
cieco e beffardo.
Perché è successo?
Eri l’unico. L’unico. Per anni ti ho cercato, ho cercato
te o ho cercato il desiderio di averti, rincorrendo i sogni più reconditi della
bambina che si annida dentro di me. Ci ho provato. E
quando ero certa che tutto andasse bene, tu non hai retto.
Cosa rimane adesso di te, rimane
soltanto la tomba dei luoghi che ti conoscono e dei tuoi movimenti nella
giornata. Li sapevo a memoria. Eri ripetitivo. Facevi sempre le stesse cose. A
volte pensavo di non sopportare questo tuo lato. Adesso è cambiato tutto. Non
ti alzi più la mattina perché non vai più a dormire tardi. Dormi adesso per
sempre. Non esci alle stesse ore, non rientri in matematico ritardo, il corpo
con il quale ti muovevi adesso è sottoterra e solo il tuo spirito non è in
grado di recuperarlo. E io sogno sempre le nostre
giornate. Sono certa che desideri tornare in vita.
Dovrei entrare al cimitero e tirare fuori la tua bara, mi
farò aiutare, lo sai che i miei mi aiuterebbero, sono
sempre d’accordo con tutte le mie decisioni. Ma forse
questa è troppo folle. E i miei troppo vecchi. No, tu
sei morto, e hai scelto tu di morire. Perché ora
dovresti chiedermi di tornare in vita?
Per tormentare i miei desideri? Non immagini quanto tu li stia tormentando.
Quando mi sveglio so che tu non ci
sei, né accanto a me, né da qualche parte in casa, né altrove.
In ogni momento della giornata so che tu non ci sarai, ad
aspettarmi a casa o ad accompagnarmi in Università, non andremo a mangiare
fuori. Scorrono di fronte a me tutti i bei momenti che abbiamo vissuto insieme,
tutte le risate, e anche tutte le volte che, nell’abisso, guardavo in alto e
vedevo la tua luce, lassù, un bagliore tremulo che diventava sempre più vasto,
fino a cancellare il baratro nero.
Adesso il baratro mi inghiotte.
Perché? Se ti
seguissi? Se morissi anch’io?
Vorrei farlo… vorrei avere il
coraggio di farlo. Ma non posso. Io non ho il coraggio
di fare niente.
Non ho il coraggio di stare qui a
soffrire senza la tua presenza, non ho nemmeno il coraggio di uccidermi.
Perché in fondo lascerei il vuoto totale per raggiungere un vuoto forse maggiore. Che
cosa mi è rimasto? Non dirmi che mi sono rimaste tante cose e
tante persone che mi vogliono bene. Non è vero.
Non è vero.
Con te le mie sofferenze si sono concluse,
in te ho stretto il fascio dei miei anni trascorsi senza un uomo da amare, e in
te di nuovo la mia gioia è morta. Forse ho scaricato su di te troppa felicità,
perché grande era il tuo compito, tu eri la prima
persona che amavo dopo aver tanto desiderato qualcuno con il quale dividere la
mia vita.
Forse ti amavo troppo. Forse mi aspettavo troppo da te.
Forse ho troppo bisogno di te. E
anche ora ho un pazzesco bisogno di te.
No. È crudele. Non posso vivere così, non posso vivere se
tu non ci sei. Sei sparito col peccato di sangue che avevi
commesso uccidendoti, e ora il peccato di sangue è il sigillo della mia
vita solitaria.
Mai nessuno amerò quanto te, mai
nessuno colmerà il tuo vuoto e mai nessuna luce fenderà gli stralci funesti del
mio abisso.
Questo è il pezzo di mondo vivo che Satana mi ha riservato
affinchè accetti le fiamme del castigo, quando morirò, perché altro non merito se non le fauci dell’oltretomba. Non meritavo nemmeno
te.
Non ti merito ma ti voglio. Ti voglio, e ti voglio con
tutte le mie forze fiacche, con tutte le fibre della mia essenza. Se potessi provartelo forse torneresti da me. Se Dio
vedesse!
Se Dio vedesse tutto questo!
Potrebbe farti tornare da me. Se qualcuno vedesse, se qualcuno avesse il
coraggio di calarsi in questo abisso! Ma nessuno lo farà. È un abisso troppo nero, troppo grande è
la disgrazia che vi giace. Ed io sono troppo infima perché qualcun altro possa amarmi.
Ora che sei morta, che cosa hai ottenuto? Credevo che tu
avessi tutto. O forse volevo illudermi che tu avessi
tutto, invece sapevo benissimo che non era così. Eri
difficile, eri troppo difficile. Non sono mai riuscito a capirti. Ma una cosa l’ho capita. E ora ne
ho la massima certezza. Che sei una stronza.
Distruggendo una vita ne hai distrutta
un’altra. Hai piantato un coltello nella parte del mio cuore che credevo di
aver messo al sicuro, con te.
Credevo che tu potessi ripararmi da questo mondo infame. Credevo che tu potessi
ripararci entrambi. Siamo stati noi ad ucciderti? Sono stato io? Non diciamo
stronzate. Sei stata tu. Un salto, e via. Il passo non era così lungo come
credevi. Magari ti sei pentita. In volo, come un arcangelo di Cristo… ma allora
era troppo tardi per ripensarci.
E pensare che eri bella. Ridevi
spesso. Facevi ridere anche me.
Poi tu e l’asfalto siete
diventati una cosa sola. E allora non eri più bella, e
non sorridevi, facevi una smorfia. E facevi proprio
schifo. Scusa se te lo dico, ma avresti dovuto farti
seppellire tutta intera, se non altro perché i vermi facessero più fatica a
divorarti.
Sono qui, al cimitero. E le tue
parole, le ho ancora in testa. “Non ce la faccio”, “Non riesco a continuare”. Che cos’è che ti faceva paura? Il bambino che hai ucciso
insieme a te? O ero io a
spaventarti… forse ero io. Forse ti ho messo paura.
Anche questo posto mi mette paura, e
le tue ossa là sotto mi mettono paura.
La gente fa fatica a considerare i cimiteri come il luogo
dove, sottoterra, ci vanno a mettere delle ossa, della carne, dei morti. Degli
esseri umani. Venivi sempre a pregare per i tuoi morti. Ma
non hai mai considerato questo posto come il luogo dove ci sono tantissimi
corpi e tantissimi scheletri. Era il collegamento e il ricordo, tutto ciò che
rimaneva di chi non può tornare.
Io vorrei che tu tornassi.
Che per una volta tu mi dessi
ragione, mi ascoltassi.
Che tu ti ricomponessi il corpo
smembrato e scavassi fino a scansare quella lapide, com’eri convinta che i
morti facessero, e che tornassi da me.
Per riprovarci. Per parlare. Così, per andare in un bar, potrei
offrirti una birra, potrei chiederti che cosa ho sbagliato. E
non sbaglierei mai più. Non mi azzarderei a farlo, non dopo aver conosciuto il
prezzo che è necessario pagare per questo genere di errori.
Se i soldi non ti bastavano, e nemmeno la bellezza, e nemmeno un bambino mai
nato e un giardino stupendo, non so che cosa tu volessi.
Il tuo Dio era più importante della mia… della tua… della nostra vita?
Non credo.
Non credo che sia inutile attorniarsi di tanti oggetti
bellissimi in vita, così da morire col sorriso e non con la tua smorfia
disgustata e disgustante. C’è poco da fare, da vivi, o vivi come si deve o
cerchi il tuo Dio nella Chiesa del paese e ti fotti un’esistenza
per seguirlo.
Io non so se esistono un rigoglioso Paradiso, un
fiammeggiante Inferno e un redentore Purgatorio. So soltanto che neanche tu ci
credevi come pensavi di fare. Perché sapresti che il tuo Dio,
li mette all’Inferno i suicidi. Come se uno non
potesse fare quello che vuole della sua vita. Io l’ho fatto. Ma il mio errore è stato lasciarlo fare anche a te. Ci incatenavamo a vicenda, tu convinta di ciò che io non
potevo credere. Se Dio era importante per te l’hai
tradito, immagino. Perché non so che cosa hai pensato quando era in cima
al campanile, non so che cosa hai pensato sorreggendoti alla croce per non
cadere fuori tempo.
Mi auguro che tu per un attimo mi abbia pensato, e magari
che tu possa pensarmi anche dopo, se davvero c’è un aldilà dove mantenersi
coscienti. E poi un giorno ci sarò anch’io. Oltre il
cielo, dopo l’infinito, anche se immagino mi ritroverò sottoterra, nel tuo “fiammeggiante
Inferno”. La compagnia laggiù sarà migliore.
Non so che altro pensare di te. So solo che me ne sto
andando. Campi di Morte, e io non li sopporto, questi
luoghi. Non riesco a capire come si faccia a venerare uno scheletro che giace
sotto i propri piedi, una cosa solida, tangibile.
La vita è la prima, per tutti, e non sappiamo che cosa ci
aspetta, tutte le cose le sperimentiamo per la prima volta, ma so per certo che
se mi innamorerò ancora non penserò mai a te. Non
commetterò questo errore. Non sarai la fonte della mia
commiserazione, come per almeno un istante avrai desiderato
essere. Lo so che tu eri così.