My December

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** My December ***
Capitolo 2: *** PROTEGE MOI ***
Capitolo 3: *** ALLERGIC (TO THOUGHTS OF MOTHER HEART) ***
Capitolo 4: *** ENJOY THE SILENCE ***
Capitolo 5: *** SUMMER’S GONE ***
Capitolo 6: *** IS THERE ANYBODY THERE? ***
Capitolo 7: *** DREAM ON ***
Capitolo 8: *** BARREL OF A GUN ***
Capitolo 9: *** IL MIO DICEMBRE ***
Capitolo 10: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** My December ***


Hola a tutti!

Non vi rubo troppo tempo, solo un attimo per farvi un saluto e dirvi che Voglio e Pretendo commentini  su questa fic, anche 4 righe, che non vi costano niente e mi aiutano a continuare a scrivere… se non li riceverò la lascerò incompiuta, e sarà un peccato perché, credetemi, sarà molto bella (io lo so, conosco già la trama). Ah, potrebbe scivolare un po' nell'OOC, anche se spero e conto di riuscire a mantenere i personaggi sempre nell'IC.
Ciao.


 

 MY DECEMBER

  

E un ricordo di me
Come un incantesimo
E per un istante ritorna la voglia di vivere a un’altra velocità…

 
 

  Camminava sotto lo strato spesso delle foglie, il manto striato di macchie lunari, ombre che creavano disegni fantastici in contrasto col candore della luna piena che filtrava tra le foglie fresche della rugiada di quella notte d’inverno; vagava in cerca di prede, piccoli animali da portare a casa per cena: il viso basso, fiutava il suolo cercando una traccia che sembrava non esserci, respirando solo aroma di muschio, foglie secche e terra umida. Nessun rumore nell’aria, alcuna traccia da seguire. 

Avanzava da un po’ quando qualcosa le fece alzare il muso ed annusare l’aria: un odore, netto e distinto che si avvicinava. Chiaro e nitido le arrivò alle narici l’aroma inconfondibile della paura: qualunque fosse la sua preda, era vittima di un’angoscia indefinibile - no, non era solo questo, c’era dell’altro: gioia, euforia, eccitazione; e voci lontane che schiamazzavano allegre, incuranti di disturbare la quiete della foresta.
«Quanto manca?» si lagnava una vocetta stridula, così alta e penetrante da ferire le orecchie del predatore.
«Smettila di piagnucolare e comportati da uomo, Codaliscia» disse qualcuno, modulandosi su toni melodiosi sebbene acerbi.
«Si, non farci pentire di averti portato con noi» sbottò seccato un altro ragazzo, la voce dura seguita dallo scricchiolio di un legno che si infrangeva.
«Hai detto che non ti saresti lamentato, ricordi?» sussurrò piano un’altra voce, più calma e modulata delle restanti; aveva un qualcosa di pacificatore, di quiete.
«Ma dovevamo proprio portarlo? E, a proposito, quanto manca?» domandò una voce femminile lievemente affaticata, producendo un suono a metà fra uno sbuffo e un lamento.
«Siamo quasi arrivati, Alilunghe, solo pochi metri» disse la terza voce, improvvisamente ammorbidita.
«Perché quando è lei a chiederlo le rispondete, e perfino gentilmente?» ancora quei toni petulanti, seguiti da rumori così forti che solamente un drago avrebbe potuti eguagliare.
«Perché lei è lei, Minus» rispose ancora il ragazzo dalla voce dura. Il predatore scivolò silenzioso attraverso due tronchi gemelli, il naso nell’aria alla ricerca di qualche odore chiarificante, gli occhi puntati sulla fonte delle voci.
«Bella risposta, fratellino!» commentò la voce femminile nell’esatto momento in cui le ombre si stagliarono più nitide all’occhio del predatore. «Oh, eccola!»
«Finalmente»
«Zitto, tu!»
«Ma chi me l’ha fatto fare…»
«Codaliscia!»
Voci che si incastravano le une nelle altre, turbando la quiete notturna della foresta. Il predatore degnò il gruppetto di un’ultima, lunga occhiata, prima di decretare che non ne avrebbe ottenuto nulla di buono. Dunque si allontanò, rintanandosi in un cespuglio; non voleva avere contatto alcuno con gli umani, non erano prede che potesse attaccare rimanendo illesa. Purtroppo per lei, non aveva tenuto conto dell’odore di rabbia, curiosità e sospetto che quel cespuglio aveva cominciato ad emanare.
«Stupeficium… dannata volpe, maledetta foresta, due volte dannati!»
Una figura nera si allontanò dal cespuglio, lasciandola stordita ad attendere che l’effetto dell’incantesimo svanisse: di certo, quella non era stata la notte più propizia per uscire a caccia.
 
Il tramonto aveva già cominciato a gettare ombre di notte, disegnando scheletriche sagome d’alberi sulla facciata - rossa del sangue del sole morente - di quella maestosa costruzione, facendo splendere di vermiglio gli intarsi e i dorati affreschi della grandiosa facciata; uno spettacolo meraviglioso reso ancora più perfetto dalla visuale privilegiata di cui gode, lì, su quella collina al centro della foresta.
 
La poesia del giorno che muore e della tenebra che, viva, avvolge la terra e la culla in un sogno di mistero e pace. La luna, uno spicchio non ancora completo, ma non per questo meno lucente, che bagna  il terreno con la sua luce, si fondeva con la vita nell’ovattato silenzio delle notti invernali.
Era questo il suo regno.

 
Non una persona era entrata in quell’elegante edificio da anni e secoli o, forse, intere vite e generazioni umane; ciononostante né il tempo né gli elementi l’avevano scalfita: si ergeva, fiera e solitaria, un monumento nella desolazione di quella pericolosa foresta, dimenticata dai più ma ancora viva, le sue ossa di cemento e magia ancora impregnate del ricordo della loro prima creatrice, dello spirito che vi aveva imprigionato, della magia, della maledizione, dei suoi primi ed ultimi ospiti.
 
Vi fu un tempo in cui i quattro grandi fondatori di Hogwarts vivevano in pace nel loro giovane castello, circondati da quei seguaci ancora ragazzi che avevano scelto e ai quali insegnavano l’arte della loro magia e la dote che ritenevano importante; in pace e in amicizia, ognuno di loro unito da profondi legami: una convivenza produttiva e quieta, almeno in apparenza.
Dissapori dividevano i quattro fondatori, ire neonate che affondavano le loro radici nel pregiudizio; Salazar e le sue idee. La purezza del sangue non  era mai importata ad altri se non a lui ma ultimamente i suoi ideali stavano conquistando Cosetta e Godric, li allontanavano da quelli che erano… e la lasciavano sola.
Tosca Tassorosso era di carattere forte e amava aiutare gli altri, odiando le discriminazioni che venivano operate per i mezzosangue e  i babbani; oh, possibile che non capissero quanto potesse essere brutto, quanto fosse triste l’essere allontanati ed esclusi per quei ragazzi dal “sangue impuro”?
No, come potevano capirlo, abituati da sempre ad avere i loro poteri, ad ottenere quel che volevano solo con la bacchetta? Sarebbe stato bello, davvero delizioso, privarli almeno per un po’ della magia, mostrargli quant’era difficile vivere solo con le proprie forze…
 
Non un essere umano era entrato in quella casa da secoli, ormai… e lui si sentiva solo.
Ma forse questa volta avrebbe avuto ciò che desiderava.
Finalmente.

 
«Finalmente, alleluia, non ce la facevo più, altri dieci passi e sarei crollata, mi avreste dovuta portare in braccio!» la voce di Astrea* eraun grido troppo alto eppure melodico, indifferente a chicchessia eppure carico di una sorta di genuina, placida calma.
«Bella, vero, ragazzi?» disse James con voce compiaciuta, indicando dinnanzi a sé la costruzione bagnata dall’ultimo raggio di sole di quella giornata; aveva il sorrisino soddisfatto e orgoglioso di chi mostri una sua grande opera, sebbene poca parte del piano fosse attribuibile al Malandrino.
«Mi aspettavo un rudere, e invece… sei sicuro che sia disabitata, Sirius?» era stato il ragazzo in fondo alla fila a parlare, un ometto basso, grassoccio e sudato dalla lunga marcia alla quale, visibilmente, non era abituato. Dall’espressione ansiosa del suo viso, pareva desideroso di trovarsi ovunque tranne che lì.
«Sicurissimo. E comunque chi credi che possa venire a vivere qui, Peter?» il secondo della fila - un ragazzo alto e bruno dagli intensi occhi grigi, il volto lineare molto attraente e il fare disinvolto e elegante nella sua camminata sciolta - si voltò a guardare l’altro poi, rivolto al terzo - un ragazzo dai capelli castani disordinati e occhiali da vista, di bell’aspetto e con un lampo di malizia e scaltrezza sul volto - che gli camminava vicino, sussurrò «Avremo fatto bene a portarlo con noi? Se ci muore d’infarto lì dentro…»
«Faticheremmo non poco a nascondere le prove, in mezzo ad una foresta, dentro una casa che nessuno crede esistere» il sarcasmo nella voce di James era evidente, come la leggerezza delle sue parole «Comunque, noi entriamo. Poi se gli dovesse succedere qualcosa…» e si bloccò, assumendo un atteggiamento di maestria che era da lui prima di riprendere «Alohomora… allora ci pensaremo… ALOHOMORA…»
«Problemi con la porta? Cos’è, non sai più usare nemmeno la bacchetta, James?»
«No… cazzo» fece il ragazzo, facendo svanire in un colpo tutta quella sua aria seria e superiore. Tentò un’altra volta prima di lasciarsi andare e caricare una spallata alla porta «è bloccata. E smettila di ridere, Sirius, non è divertente!» sbottò infine, seccato.
«Non è mica una scienza quella di aprire una porta, ci riescono perfino i ragazzini del primo anno. Datevi una mossa!» ad aver parlato era l’unica ragazza del gruppo, una moretta alta e dai lineamenti talmente simili a quelli di Sirius da non lasciare dubbi sul fatto che fossero gemelli; bella e formosa, guardava i compagni con un ghigno divertito sulle labbra appena dischiuse.
«Perché non ci provi tu, Astrea? Avanti, dimostraci la tua bravura!» il ragazzo chiamato Peter si era avvicinato, e l’astio nella sua voce non si addiceva alla rappresentante della categoria con cui stava parlando.
«Ti ho detto di portare rispetto, è una ragazza» disse James, condendo le parole con uno schiaffo abbastanza sonoro sul retro della testa del compagno «dimostrati uomo per una volta, Codaliscia»
«… Alohomora non funziona, Bombarda non funziona, Reducto nemmeno… che palle, non si può neanche farla esplodere!» Astrea si era spostata in avanti e osservava con occhio clinico la porta chiusa «E se lanciassimo un sasso ad una finestra e ci calassimo dentro con il Leviosa?» domandò, una scintilla di speranza negli occhi.
«Poco saggio e molto distruttivo» il ragazzo aveva parlato ora per la prima volta in tutta la nottata: aveva occhiaie scure sotto gli occhi ed un colorito cinereo che non donava ai lineamenti dolci del suo viso; i capelli biondo scuro - quasi color ferro - gli ricadevano flosci sulla fronte conferendogli un’aria da malato.
«Come ogni mia idea, Remus» disse Astrea sorrise, compiaciuta.
«Finalmente hai detto qualcosa, iniziavamo a temere il tuo insolito mutismo!» disse Sirius; quindi si era avvicinato all’amico e lo aveva cinto con un braccio attorno alla spalla, come ad appoggiarsi a lui «Allora come va? Come ti senti?»
«Io ho freddo»
«Nessuno te l’ha chiesto, Peter» rispose Sirius, stizzito.
«Ma perché ce lo siamo portato diet…» cominciò James, ma venne interrotto da un boato sordo, seguito da una serie di schianti e dal sollevarsi di un polverone misto a schegge di legno.
I quattro maschi si voltarono di scatto, spaventati, per trovarsi davanti ai resti della porta d’ingresso scardinata come da un’esplosione.
«Che cazzo hai fatto Astrea?» Sirius, allibito, spostava lo sguardo dai resti dell’ingresso alla sorella come se non riuscisse a capacitarsi dell’irruenza della ragazza; eppure il sorrisetto a metà fra il complice ed i divertito tradiva il suo consenso a quell’opera distruttiva.
«Io? Niente… sapete, lui aveva freddo» disse Astrea, indicando Peter «così ho pensato che…»
«Non te n’è mai fregato nulla di Peter, sorellina» rispose Sirius con voce angelica e canzonatoria.
«Voi stavate perdendo tempo e io sono stanca e voglio entrare, qui fuori fa freddo e c’è un cielo da neve che non promette nulla di buono. Quindi ho trasfigurato un sasso in una piccola fiala di esplosivo e l’ho lanciata contro la porta» disse Astrea incrociando le braccia al petto, visibilmente contrariata.
«Il bello è che lo dici come se fosse la cosa più naturale al mondo!» James era divertito; fece un passo avanti, superò i suoi amici e si fermò sulla soglia distrutta «allora, entriamo o no?»
Sirius sorrise e andò dietro il suo migliore amico, all’interno dell’edificio, seguito a ruota da Astrea e Remus; ultimo ad entrare, Peter si guardò indietro con desiderio prima di spingersi oltre i resti dell’uscio.
 
… Finalmente.
 
Fra gli alberi sempre più scuri, una figura nera aveva osservato tutta la scena; silenzioso, simile a un fantasma, attese qualche minuto prima di muoversi in direzione della porta divelta, per poi varcarla ed entrare nel buio.
La luce della luna non illuminava la facciata e solo gli occhi profondi degli animali poterono vedere la porta ricomporsi, come per magia, e sigillarsi.
 
… Finalmente. Anni ed anni per espiare una colpa che non meritavo di portare, con solitudine e silenzio…
 
Finalmente.

 


Note:
*Astrea è una stella della bilancia, così si continua la tradizione della cara mamma Rowling di dare nomi di astri per i personaggi ;)
 
Al prossimo chaps, allora…… PRETENDO commenti!
Ps: qualcuno indovina di chi sia il pezzo della canzone in alto?

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Capitolo 2
*** PROTEGE MOI ***


Cap.2
PROTEGE MOI
 
 
 
Capitolo descrittivo, sopportatelo perché le descrizioni sono quello che so fare meglio!!
Mi raccomando fatevi sentire e ditemi cosa ne pensate (anche critiche e insulti).

Baci baci buona lettura!!!    ^_^

NOTA: CAPITOLO REVISIONATO, CORRETTO ED ALLEGGERITO IN DATA 12/07/2011 


PROTÉGE MOI

 

Sommes nous les jouets du destin?
 
Seguimmo per istinto le scie della comete come avanguardia di un altro sistema solare
No time, no space…
Keep your feelings in memory…

You can't change the world but you can change the facts
And when you change the facts you change points of view
If you change points of view you may change a vote
And when you change a vote you may change the world

Paradise come at a price
That I am not prepared to pay
What were we built for?
Could someone tell me please

   
 

L’atrio della villetta era una sontuosa stanza dalle pareti tondeggianti: sul muro di fondo, accostata alla parete di sinistra, un’ampia scalinata di marmo bianco conduceva ad un piano superiore, il corrimano decorato a mo di rami intrecciati; lampade a forma di candelieri erano disposte ad intervalli regolari sulla parete delle scale e su tutte le altre. Davanti a loro il muro si incurvava, rientrando in un semicerchio il cui centro era spaccato da un altro corridoio che partiva dritto davanti a loro verso le tenebre, senza nessuna finestra ad illuminarlo né luci accese; sulla sinistra, una piccola scalinata scendeva verso un sotterraneo. Ampie finestre lasciavano entrare la luce della mezzaluna, luminosa e così intensa da rendere superfluo l’uso delle bacchette. La stanza era nel complesso soffocante, ingombra e maestosa, forse per via delle pareti di legno rosso chiaro e stoffa, delle tende di pesante velluto o dei tappeti. Il pavimento di marmo non mostrava alcuna traccia di polvere o sporco, allo stesso modo dei mobili, degli specchi e di ogni altra superficie. Nonostante quell’edificio fosse visibilmente disabitato, sembrava che qualcuno o qualcosa si prendesse la briga di pulirlo periodicamente, forse ogni giorno.
I cinque si fermarono a lungo ad osservare quell’ingresso, indecisi se proseguire dritti, verso il basso o in alto; dopo un rapido consulto (dal quale Peter venne rigorosamente escluso) seguendo il cenno del capo di Sirius si diressero proprio verso la scala, percorrendo quei gradini che sembravano liquidi con una cautela che pareva sfociare nel rispetto.
Il primo piano era molto simile ad un albergo antico, il tappeto vermiglio che iniziava dall’ultimo scalino e proseguiva dritto attraverso due file di porte uguali distanti almeno cinque metri le une dalle altre, tutte chiuse tranne una: l’ultima, che immetteva in una cucina in disuso, un grande focolare sulla destra, banconi di pietra tutt’intorno lungo le pareti; sulla sinistra, ed una porticina di legno chiaro che, scoprirono, immetteva in una dispensa dai grandi scaffali di legno, pieni di forme di pane, frutta, verdura, farine ed altri ingredienti freschi.
«Scegliamoci una stanza, prendiamo qualcosa da qui e facciamo una festa, infondo abbiamo trovato la mitica casa di Tassorosso, dobbiamo pur godercela, no?» aveva proposto Astrea con la sua migliore faccia da schiaffi, così simile a quella del fratello soprattutto in quei momenti. Neanche a dirlo, i quattro avevano accettato di buon gusto - Peter aveva fatto sorrisi ed esclamazioni di gioia di circostanza per nulla credibili, ma l’avevano ignorato - ed ognuno si era fatto carico della quantità di cibo che avrebbero mangiato normalmente in un mese - a Peter era stato dato il grosso delle provviste, con la scusa che lui aveva lo zaino più vuoto.
Depredata la dispensa, immensamente soddisfatti e rincuorati, erano quindi scesi nuovamente nella sala e si erano diretti verso l’ultimo luogo inesplorato, la scala che conduceva in basso, verso i sotterranei.
 
Erano da poco spariti oltre il bordo del pavimento che una figura nera riapparve: discese cauta le scale che conducevano al piano superiore e si inoltrò nelle altre che scendevano, silenziosa e fugace.

La scala conduceva ad un altro corridoio fiocamente illuminato da una luce pallida e giallastra dall’origina indefinibile, misteriosa, appiccicosa e sgradevole; una sensazione di vuoto ed oppressione sembrò scendere su di loro come un’ombra alimentando il silenzio e spingendoli ad andare avanti, insinuando in loro il terrore per la strada percorsa, l’ossessione che qualcosa li seguisse.
Fu quando questa situazione si fece insopportabile che Peter si fermò di botto, piagnucolando
«Andiamocene io ho… ho pa… paura… ragazzi… p… per favore…» balbettò, le parole rese ancora meno riconoscibili dalle mani che si portava ossessivamente alla bocca.
«Forza, non c’è assolutamente niente da temere, siamo al sicuro e siamo soli, nessuno ci darà fastidio, qui. Muoviti, smettila di frignare e cammina. Non farci perdere tempo, all’alba dobbiamo essere al castello» nonostante James si sforzasse di mantenere l’abituale tono canzonatorio usato per Codaliscia, la sua voce tradiva una certa agitazione.
«No, m rifiuto, non puoi costringermi a… ah» improvvisamente il tremito di Peter si arrestò, così come le sue suppliche impaurite. Per un istante un silenzio glaciale scese su tutti loro.
«Muoviti o ti lasciamo qui da solo, e dopo voglio vedere come farai a tornare al castello» nella voce di Sirius c’era più rabbia di quanto fosse necessario. Nonostante tutto, Peter sorrise: un ghigno strano, una luce furba e divertita negli occhi ora di un nero cupo - effetto della luce? Si chiese Sirius, accantonando poi la cosa.
Annuendo, Minus si rimise lo zaino in spalla e si avviò con calma serafica, quasi angelica. Stupito, Sirius si scambiò un’alzata di spalle con Lupin quindi si mosse, seguendo l’amico lungo il corridoio.

L’ombra nera rallentò poi, cauta, si rimise in marcia, il tappeto che attutiva i suoi passi svelti, mossi da un’angoscia che paragonava a quella di una nuova giornata al castello.
 
«Che ne dite di questa stanza, ragazzi? Mi sembra perfetta… per festeggiare» Peter si era fermato dinnanzi ad una porta aperta sulla sinistra che immetteva in una piccola cucina rustica con salottino elegante, ingentilito da poltrone morbide e sedie foderate; un tavolino, un camino ad un lato ed un armadietto carico di ogni genere di bibite all’altro facevano bella mostra di sé.
«La prima buona idea della giornata, bravo, topolino» commentò la giovane Black con un sorriso canzonatorio.
«Zitta» nella voce di Peter, così diversa dall’abituale, c’era un astio represso talmente forte che Astrea ne fu intimorita, tanto che fece un passo indietro verso la porta, incapace di rispondere a tono.
«Non provarci mai più, Peter, ed impara un po’ di rispetto» Sirius lo aveva afferrato per la cravatta, avvicinandogli il viso al proprio.
«Smettetela di litigare, siete noiosi. Venite a vedere, è immenso» dalla porta di sinistra arrivava la voce di James, che evidentemente si era dato all’esplorazione dell’appartamento.
«Per… perché non andiamo a vedere anche noi, amico?» gemette Peter, tentando di allentare il nodo della cravatta; per tutta risposta Sirius lo lasciò andare con una spinta e si voltò per seguire l’amico nella stanza limitrofa. Peter abbandonò lo zaino pesantemente a terra, accanto ad una delle poltrone, e si voltò ad osservare nella direzione nella quale era sparito Sirius.
Ancora stupita, Astrea avanzò verso la soglia per seguire il fratello, e passando davanti a Peter non poté fare a meno di notare il sorriso perfido che il ragazzo le indirizzò; gli voltò le spalle e varcò l’uscio. Il Topolino sorrise nuovamente, lanciò un’occhiata alla porta ancora aperta poi si voltò, scomparendo anche lui nell’ombra dell’uscio.
 
La figura nera si affacciò e guardò sospettosa la stanza che il ragazzo grassottello aveva appena lasciato, poi sgattaiolò dentro e si rannicchiò fra una poltrona ed il muro, silenziosa, in attesa…
 
Dal piccolo salottino si aprivano tre porte, una sulla sinistra e tre sulla destra; di queste, la prima era ampia,  occupata da un letto matrimoniale molto basso, una specchiera e due comodini; la seconda porta conduceva ad un piccolo bagno di marmo celeste chiaro, con un’ampia vasca al livello del terreno; la terza stanza era stretta, al punto da farci stare un armadio molto alto, un letto singolo accostato alla parete e una scrivania.
La porta di sinistra rispetto al salottino-cucina invece conduceva ad un’unica, ampia camera con un letto dal baldacchino alto, protetto da lunghe tende in velluto nero ed addossato ad un mobile di legno scuro che imprigionava tutta la parete e quella adiacente, la frontale; sopra il letto, era scavato in ripiani ed occupato da tomi e tomi dai più svariati argomenti, mentre sull’altra parete era chiuso, e fungeva da armadio. Non c’erano finestre, in nessuna stanza.
 
L’ombra scura ebbe un fremito, come una sferzata d’aria pura di notte che gli ghiacciò la schiena; un brivido gli percorse la schiena e, irrazionalmente, si voltò a cercarne la fonte nella stanza buia; voleva alzarsi, spostarsi, ma le voci di chi non doveva sapere stavano lentamente avvicinandosi e lui non poteva, non doveva sprecare un’occasione così perfetta per incastrarli. Si voltò verso l’entrata che dava sul corridoio per il quale erano arrivati, e il cuore mancò un battito… Una corrente invisibile, indefinibile, stava lentamente chiudendo la porta.
 L’ombra si mosse, fece per alzarsi ma in quel momento nella stanza rientrarono i cinque. Il rischio era troppo grande, non poteva farsi scoprire per un timore infondato; si accucciò nuovamente, un dubbio insidioso nel cuore…
 
«Direi che questo sia il posto migliore per sistemarsi» Sirius sembrava aver ritrovato d’improvviso l’allegria.
«Logico, fratellino, abbiamo vicino tavolo, bibite e via di fuga»
«A me non piace questo post…» Piagnucolò inascoltato Peter, guardandosi attorno con una rinnovata paura negli occhi, come un topo su di una nave in balia della tempesta.
«Peccato non aver trovato niente, però, vero?» disse Remus, girando attorno ad una poltrona.
«Cosa intendi per niente, Ramosuccio?» domandò Sirius, avvicinandosi con fare malizioso all’amico.
«Niente di pericoloso, distruttivo o in qualche modo divertente, mio caro dolce cagnetto» rispose Astrea quasi con dispiacere, sollevando le spalle e volgendosi intorno, come se s’aspettasse di vedere un misterioso ordigno sbucare dalle ante sotto il lavello.
«Smettete di fare i piccioncini, mi date il voltastomaco» James era appena riemerso dal bagno e si sistemava la camicia nei calzoni, l’aria soddisfatta.
«Ragazzi…» pigolò Peter, ancora; si guardava intorno come se non sapesse bene il perché del suo essere lì, come chi si sia ritrovato a dieci passi di distanza senza sapere come vi fosse arrivato.
«Strana questa luce però, non trovate?» Fece Astrea, troncando con noncuranza la protesta di Minus.
«Perché?»
«Perché la logica l’ho presa tutta io, fratellino…»
«… E a me hai lasciato tutta la simpatia»
«Ah, quella scarseggiava già prima del nostro arrivo. Bhe, consolati, almeno ci siamo divisi in parti uguali la bellezza e l’avventatezza»
«Di quella doveva essercene in sovrabbondanza, dato il vostro temperamento» Remus concluse il battibecco, facendo scoppiare a ridere i due fratelli Black.
«… Ragazzi per favore… non mi piace qui…»
 
L’ombra nera si spostò un poco, così da riuscire a vedere in faccia i ragazzi; l’ultimo ad aver parlato, quello grasso e sudaticcio, si agitava nervoso sul posto, guardandosi intorno, come se aspettasse di vedersi crollare le pareti addosso da un momento all’altro.
«Si può sapere che hai da rompere Peter?»
«S… Sirius… per favore… andiamocene»
«Non credi di averci fracassati abbastanza per oggi? Devi proprio tirare fuori il peggio di noi stasera?» il ragazzo Black gli si piantò davanti, i pugni sollevati, il volto contratto.
«Avanti Sirius, lascialo stare, lo conosc…» Remus si interruppe: l’espressione di Peter era cambiata improvvisamente, e dalla paura era trasfigurata in sfrontatezza; un sorriso di sfida. Non aveva lasciato a Sirius nemmeno il tempo di realizzare: gli si era lanciato contro e l’aveva colpito con un pugno appena sotto lo sterno, mandandolo a terra dolorante. Sirius si rialzò, il viso in fiamme carico d’ira, e con un grugnito si lanciò contro il piccolo ragazzo che con una rapidità sorprendente si era spostato, finendogli dietro e facendogli lo sgambetto: James e Lupin si spostarono in avanti, ma Sirius li fermò
«Lasciatelo a me, è ora che impari un po’ di rispetto» disse e si avventò su Peter contro con furia cieca.
Forse per la sorpresa che gli si leggeva ora negli occhi, forse per la paura, forse per una distrazione, Peter non fu così veloce da evitarlo; Sirius lo colpì allo stomaco e al volto, poi di nuovo allo stomaco, facendolo barcollare e scivolare oltre la porta semichiusa che dava sul corridoio, finendo sul marmo, il sangue che gli sgorgava copioso dal naso.
Sirius fece per uscire e riprenderlo ma in quel momento il viso di Peter si contrasse in una smorfia di dolore, e dal petto qualcosa molto simile a polvere scura fluttuò fuori e si frappose fra la porta e il muro, bloccando qualunque tentativo di fuga.
 
Debole. Non mi serve…
 
Sirius si lanciò contro l’ombra e vi sbatté una, due volte, rimbalzando indietro come fosse di gomma; infine estrasse la bacchetta dalla tasca e la puntò contro l’ostacolo, iniziando a mormorare l’incanto.
«Reducto»
Non successe nulla.
«Bombarda… Reducto… Incendio… REDUCTO» urlò Sirius, agitando la bacchetta a vuoto nell’aria.
Niente. Peter osservava la scena, allibito, immobilizzato dal terrore, mentre tutti gli altri dentro avevano estratto le loro bacchette e le puntavano contro la macchia; non un singolo incantesimo riuscì.
«Peter, aiutaci!» urlò Lupin, avventandosi contro la barriera scura, prendendola a spallate la porta nel tentativo di abbatterla.
«Io…» un balbettio, lontano e distorto. Minus, ancora a terra, cominciò a strisciare indietro.
«PETER» fecero James e Sirius, infuriati. Astrea si teneva una mano premuta sulla bocca, l’altra a stringere la bacchetta convulsamente.
«Io… Scusate…» biascicò Peter, la voce che si faceva più lontana adesso.
«NON ANDARTENE PETER» rumore di passi. Peter si era alzato, ma la barriera scura rendeva difficile vederlo.
«… Scusate…» un’eco, lontano.
 
Codardo…

Un rumore sordo, secco, fece voltare Minus; non appena il suo sguardo incrociò la cosa che l’aveva provocato, Peter sbiancò e si volto, inciampando, tentando di rimettersi in piedi.
Piangeva; non riusciva ad avanzare e il terrore lo stava sopraffacendo.
«Scappa, avverti qualcuno… chiama Silente… Peter, scappa, chiama aiuto» urlò Astrea. Poi la porta si chiuse con uno schianto sopra l’ultimo tentativo di fuga del ragazzo.
Un secondo, poi un urlo squarciò l’ultima speranza dei quattro, un urlo disperato di sofferenza, una richiesta d’aiuto.
Poi più nulla.
 
L’ombra nera era uscita dal suo nascondiglio, e come gli altri aveva alzato la bacchetta e tentato inutilmente di lanciare incantesimi. Ora era dietro ai quattro, esposta, ma ormai la segretezza non aveva importanza.
 
«Che è successo? Perché gli incantesimi non funzionavano? » Astrea, prossima alle lacrime, si gettò tra le braccia del fratello che, allibito, fissava ancora la porta chiusa.
«Peter…» la voce di James era bassa, sorpresa. Non continuò, limitandosi a fissare la porta come se avesse le risposte che cercava.
«Che succede? » domandò ancora la ragazza, quindi alzò la testa. E lo vide «che ci fai tu qui?» chiese all’ombra nera.
«Vi avevo segui…» ma a quel suono anche gli altri si erano girati e il volto di Sirius s’era trasfigurato in una nuova maschera d’ira e d’odio.
«Che ci fai qui, Mocciosus?»


 


Un grazie ancora a chi legge e a chi commenta!!!! Allora a presto… mi raccomando fatevi sentire che in questo periodo ho bisogno di voi.
Baci!
Ah, quasi dimenticavo... le canzoni sono Protége moi, Placebo / No Time, no space, Battiato / New Dress, Depeche Mode / Megalomania, Muse

Ps: si capiva chi era l’ombra che li seguiva?
 
E ‘cosa sarà successo a Peter’ non lo chiediamo?
Sarai morto, Topolino, capita, sai?
Hey, ma è solo il secondo chap…
Meglio prima che poi…
Sirius!!!
Anzi, direi che era quasi ora!!!
Ma sai che sei un bello str…
Ok, raga, salutate che andiamo a concludere questa conversazione in privato… Sirius, smetti di strozzare Peter… ok, a presto ;)


Per SakiJune: Complimenti, hai indovinato!!!! Per il premio… hem… il titolo di campionessa basta??
 
Per XxX.SilverLexxy.XxX: Innanzitutto, grazie per i complimenti, e per la recensione chilometrica, che mi piace davvero tanto!!! poi… l’introduzione per me è un dramma, non so mai cosa metterci, ed è un peccato, perché è la parte che colpisce di più, ma al momento di scriverla mi blocco.. e stavolta ho optato per un pezzo della ficcy, non il migliore, ma quello che era possibile senza svelare troppo… dovrò impegnarmici di più J( ps, si accettano suggerimenti eheh)!! Ma passiamo alle critiche… allora, lo spiegherò più avanti, ma c’era un certo conflitto fra Astrea e Peter, e lei, logicamente, essendo spalleggiata da un leader come il suo fratellino, attira su di sé le simpatie, a discapito di Peter… ahhh, si vede che anche in lei scorre il sangue dei Black… Astrea… lei è un personaggio su cui conto molto, ma non dirò altro, per ora: leggere per sapere!! J per quanto riguarda l’esplosivo… ammetto di aver volutamente esagerato in quel punto, anche se non sembrerà poi così strano l’uso di prodotti babbani da parte di Astrea, fra poco! Il guaio è che questo chap ricalca ancora l’idea originaria che avevo di questa ficcy, un’idea che sta per compiere il suo primo anno di età (è relativamente vecchia, e fino ad ora l’avevo lasciata da parte…) e che, in questo periodo, è maturata di molto! Mi hanno fatto piacere, comunque, i tuoi appunti, e spero che continuerai a mandarmeli!! In ultimo (ma non di minore importanza) un’enorme grazie per la pubblicità che hai promessa!!!! Sei davvero troppo buona!!! Con una commento così, mi hai fatto tornare la voglia di continuare la ficcy!!

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Capitolo 3
*** ALLERGIC (TO THOUGHTS OF MOTHER HEART) ***


Innanzitutto, chiedo venia in ginocchio (e che volete di più? XD ) per l’enorme ritardo nel postare questo chap (ok, otto mesi, è stato quasi un parto!).
Sorry! e spero davvero di non aver perso tutti i miei lettori ç_ç  sono sicura che non vi interessa, però vi giuro, fra gli esami e le altre cose, è stata davvero dura trovare il tempo per scrivere ma vi prometto che d’ora in avanti troverò il tempo di postare regolarmente. Il mio stile di scrittura sta cambiando, anche se credo che per quanto riguardi questa, che era già nata fortunata, non sia evidente. È un buon risultato, secondo me, e sono felicissima di averla scritta…
… ed ancor più lo sarò se con un piccolo commentino mi farete sapere che non l’avete dimenticata nonostante tutto!
Continuerà, ed aggiornerò al più presto. Il cambio di clima e l’uni sembrano ispirarmi XD
Detto ciò… occhio ai cambi di punto di vista U_U questa storia ne è piena e cominciano da ora!

Buona lettura!

ALLERGIC (TO THOUGHTS OF MOTHER HEART)

   

Loneliness be over
When will this loneliness be over
 
Viaggia dentro e sarai contento
Di quello che scoprirai
Dei tesori che hai dentro e che ancora non sai…
 
Fear, and Panic in the air
I want to be free
From desolation and despair

And I feel like everything I saw
Is being swept away

Sotto la pelle c’è quello che cerco
Gli sguardi lucidi mi parlano di quello
Che non mi vuoi dire per non ferire
 
Take off your disguise
I know that underneath it’s me
Who are you
 
…Shock in my town velvet underground

Ho sentito urla di furore
di generazioni, senza più passato…
…Ho incontrato allucinazioni
Stiamo diventando come degli insetti; simili agli insetti.

Shock in my town velvet underground

 
 

Severus Piton non era mai stato quel che si potrebbe definire un “ragazzo in vista”. Anzi, per dirla tutta, era lo zimbello della scuola: magro, pallido e dai lunghi capelli neri e unticci lasciati sciolti attorno ad un naso che gli creava non pochi problemi, era il bersaglio preferito degli scherzi e delle battute del gruppo di famosi, adorati e bellissimi (con le dovute eccezioni) Grifondoro che ora gli stavano puntando addosso le bacchette, lividi in volto. Scuro ed impassibile, se ne stava dritto come sempre, con in volto quell’espressione di gelo misto all’odio profondo, una ruga sulla fronte e le sopracciglia strette. La mano destra, stretta intorno alla bacchetta talmente tanto che le nocche erano sbiancate, era abbassata; non fece una mossa, non disse altro, continuò semplicemente a fissare i quattro, livido.
 
Sirius non era - né era mai stato - un tipo calmo o capace di riflessioni profonde in momenti d’azione. Al suono della voce di Severus si era voltato e, muovendo la destra con un gesto fluido, aveva cercato invano di lanciare addosso al moro un incantesimo dopo l’altro prima di gettare lontano la bacchetta e scagliarsi sull’altro con ira, come se l’intera situazione fosse colpa sua; inutile dire che tutto questo aveva lasciato il tempo a Remus e James di avvicinarsi quel tanto che bastava per afferrare l’altro prima che si scagliasse su Astrea, che gli si era parata davanti così d’improvviso che non avrebbe potuto evitarla, le braccia aperte a difendere il Serpeverde, il volto specchio perfetto dell’espressione di Sirius.
Uno sguardo. Solo un’occhiata, gelida come le pareti desolate di quell’edificio illuminato dal sole morente; tanto era bastato perché Sirius perdesse i suoi propositi e, con una scrollata di spalle, si liberasse degli amici, dando le spalle alla sorella. Un gesto strano, una ripicca quasi infantile mentre il silenzio s’allargava nella stanza, denso come un’ombra, palpabile, oscuro presagio più vivo e vero di quel che si nascondeva oltre la porta.
Rimasero così per quelle che potevano esser state ora, o forse pochi istanti; e il piccolo topo, forse, avrebbe riso della scena, se fosse stato lì presente. Severus Piton in piedi, con le nere iridi che parevano avere come unico obiettivo l’utopia d’incenerire tutti i presenti; Astrea con le braccia abbassate, ora serena, gli occhi che vagavano dalla schiena del fratello, all’uscio, alle altre porte di quella loro prigione; Lupin e James, accanto a Sirius, il primo bellamente indifferente agli sguardi astiosi, il secondo combattuto fra l’attaccare quel ‘piccolo verme pallido’ e l’allontanare l’amico; e Sirius, infine, ancora di schiena, il respiro grosso, gonfio d’un ira che aveva dell’inspiegabile.
 
Già litigi, già lotte. Resisteranno? Non so ma saranno divertenti.
Bambole, come bambole…

 
«Vieni con me» disse Astrea quindi, semplicemente, afferrò il braccio di Severus trascinandolo nella porta a destra, varcando l’uscio semiaperto che conduceva ad una camera con un grande letto al centro, le tende del baldacchino piegate. Chiuse la porta ancor prima che Sirius si fosse voltato e la chiave girò, rompendo definitivamente il silenzio.
«È il caso che eviti mio fratello, almeno per un po’…» sembrava imbarazzata mentre con le braccia incrociate al petto esaminava la stanza senza interesse apparente.
Silenzio. Ora solo il litigio fra i tre Malandrini oltre la porta era avvertibile, lontano come se la stanza fosse schermata.
«Che ci fai qui?» chiese Astrea in un sussurro secco, carico di comando; aveva smesso di camminare - sebbene neanche si fosse accorta d’aver iniziato a muoversi - e dopo un attimo si era seduta sul materasso fin troppo morbido, sprofondandovi un po’. Più sciolta, adesso osservava Severus con calma e curiosità negli occhi.
Ancora silenzio.
«Credo tu ricordi bene cosa successe l’ultima volta che seguisti uno di noi per denunciare il suo essere scappato dal castello…» Tono noncurante il suo, di quelli che ci si aspetterebbe di sentire da una donna che licenzi un’amante guardandosi le unghie dipinte di fresco «… o devo ricordarti che non è bene tentare in tutti i modo di farci sbattere fuori? Devo dirti che hai rischiato di rimanere ucciso? O arrivi a capirlo da solo?»
Severus si sarebbe sempre chiesto come avesse fatto quella ragazza a parlare di argomenti così taglienti con toni colloquiali, con la noncuranza di chi parla del tempo con un vecchio amico.
E forse proprio chiedendoselo rimase zitto; e anche lei, così che solo i suoni dell’ira di Sirius filtravano, lontani.
 
… e non sarò più solo. Finalmente.
Un nuovo giocattolo, finalmente… qualcuno, finalmente, finalmente…

 
«… si è calmato, forse. Credo…» La ragazza Black s’era avvicinata alla porta d’improvviso e vi aveva posato l’orecchio «…si, credo che possiamo arrischiarci a farti uscire» la Grifondoro l’aveva guardato con quegli occhi che sembravano sondarlo fin dentro l’anima. Lui non aveva risposto, limitandosi ad un cenno secco: aveva sempre avuto una sorta di malato orgoglio che usciva fuori nei momenti peggiori, come questo «hey, un’alzata di spalle non è una risposta» concluse lei, tagliente, mentre la chiave girava nella toppa e l’uscio si apriva sul silenzio.
Fuori dalla stanza solo la schiena di Lupin era visibile, a patto di sporgersi a guardare oltre il tavolino al centro della stanza: infatti il lupo mannaro era chino al suolo, intento a frugare fra gli scaffali che contornavano il lavello.
«Che fine ha fatto quell’inutile del mio fratellino, Rèm?» domandò la Grifondoro con circospezione, guardandosi intorno lentamente.
«James l’ha portato ad esplorare di là, nel corridoio. Credo per calmarlo» fece Lupin, alzandosi lentamente, voltandosi ed osservando con gravità prima la ragazza Black poi Severus, che arricciò il naso: quel viso così calmo e rilassato - quel guscio di perbenismo che nascondeva il sangue maledetto d’un anima nera - non era mai andato davvero a genio a Severus. Meglio la sincerità, essere fuori foschi come lo si era dentro, questo pensava. Come lui era, d’altronde; o chissà, come forse era diventato a causa di un modo di pensare che sapeva essere sbagliato ma che non intendeva cambiare.
«E ti hanno lasciato solo soletto qui? A fare cosa? L’inventario?» aveva ironizzato la ragazza avvicinandosi al lupo mannaro indi voltandosi come a cercare qualcosa, per finire ad osservare con vago interesse un barattolo di zucchero di canna poggiato a terra.
«A quanto pare…» riprese Lupin, azzerando le distanze con la Grifondoro chinandosi a raccogliere la scatola di zucchero.
«Esagerato come sempre, il fratellino» sbuffò la ragazza Black con insofferenza.
«È passionale, lo sai, e prende fuoco facilmente. Ed è… è una reazione più che giustificata dopo…» lanciò un’occhiata alla porta come se non potesse realmente pronunciare il nome del malandrino perso o di ciò che avevano sentito, visto, immaginato.
«Peter…» la Grifondoro si era spostata ed ora era seduta su una poltrona ocra all’apparenza morbida e confortevole. Lupin rimase in piedi, il pacco di zucchero in mano, gli occhi che pigramente esaminavano  il contenitore di latta lucida mentre il ragazzo lo rigirava fra le mani.
«Già…» fu la tardiva risposta del lupo; rimase in silenzio il tempo che gli occorreva per poggiare la schiena contro il ripiano offerto dagli scaffali bassi fra i quali frugava poco prima, le mani posate dietro la schiena, oltre il bordo di questi.
Sembrò che per un istante Astrea volesse parlare, o almeno aprì le labbra prima di scuotere la testa, producendo solo un sospiro; E mentre Severus si muoveva per sedere su di una sedia del tavolo rotondo, la porta si spalancò e il resto del groppo fece il suo ingresso nella sala.
 
Non avevano parlato molto, James e Sirius. Era questo il pregio, il legante del loro rapporto d’amicizia: non avevano bisogno di parole per capirsi. Solo sguardi, densi come nebbia ma niente più d’incroci momentanei d’occhi.
Almeno, questo quanto succedeva di solito. Che fossero seguiti da smorfie di disgusto, da gesti di comprensione o, più spesso, da ghigni strafottenti che annunciavano idee maligne, erano comunque sguardi d’intesa reciproca, sana e genuina, quasi sovrannaturale.
Ma non lì, non stavolta.
Per James, la sua reazione era solo uno slancio emotivo dovuto alla perdita dell’amico ed alla comparsa del Serpeverde, come se dalla vita di uno si fosse sviluppata la macchia nera che era l’altro; ma per Sirius quella reazione era ben altro. Qualcosa d’inconfessabile, insospettabile, incomprensibile forse; e l’aveva letto nello sguardo dell’amico che non aveva capito questa volta.
L’aveva scorto in sé stesso: Sirius non sapeva spiegare solo con la perdita di Peter e la paura della trappola il senso di colpa per una sua stupida idea finita in tragedia, né quell’ira ingiustificata ed irrazionale, tantomeno quella stretta al cuore che l’aveva acceso, infiammato fin nelle ossa, divorato per un istante con una tale intensità che solo gli occhi, quegli occhi di ghiaccio di sua sorella, erano riusciti a spegnere.
Era il grande pregio d’Astrea il rimanere lucida in qualunque situazione, il saperlo calmare con uno sguardo di quelle iridi così simili alle sue, in quel volto che tanto gli rassomigliava. Era la loro differenza, radicata nel profondo e quasi invisibile ad un’occhiata superficiale: Sirius era fiamma, Astrea ghiaccio.
Con un sospiro, il Malandrino si era disteso su un letto troppo morbido ed aveva dimenticato il mondo per un istante.
Finché il mondo non era tornato nella luce innaturale di quel salotto in cui s’era ripresentato assieme a James.
 
«Ho fame. Cosa c’è nella dispensa?» la ragazza s’era alzata d’improvviso dalla poltrona, parlando. Tipico d’Astrea, tagliare un discorso di netto, anche se sottinteso come quello.
«Ti pare il caso di mettersi a mangiare ora? Ora che siamo prigionieri, senza magia e senza speranza d’aiuto, e Codaliscia è…» James non finì la frase. Nessuno pareva poter davvero.
«Si, se serve a rompere il blocco di ghiaccio che si forma ogni volta che siamo nella stessa stanza tutti e cinque» rispose la ragazza, questa volta con una punta d’impazienza a mascherare ira o paura. «in ogni caso, non è detto che sia morto, in fin dei conti» continuò, sedendosi sopra la superficie marmorea di un bancone «E poi ho fame. È forse un crimine?»
«Non è detto? Li hai sentiti anche tu i rumori, no? L’hai vista, quell’omb… quell’essere…quella COSA che l’ha attaccato!»
«Calmati, Sirius. Arrabbiandoti non risolverai la situazione»
«E cosa proponi, allora? Starcene fermi mentre quel che resta di un nostro amico potrebbe essere disteso a pochi passi dalla porta, o noi stessi richiamo di finire i nostri giorni qui?»
«Proporrei di smettere d’urlare, James, e di metterci a pensare, un attimo, alla situazione…»
«LA SITUAZIONE? LA TUA CALMA È PIÙ SNERVANTE DI QUALUNQUE SITUAZIONE, TE NE RENDI CONTO?»
Astrea s’era alzata con una rapidità che aveva del sorprendente ed ora teneva il fratello per il bavero della camicia, il volto a pochissimi centimetri dal suo.
«E cosa proporresti, sentiamo… qual è questa tua brillante idea che ci salverà tutti? Oh, scusa, non ne hai. E nonostante tutto ti concedi il lusso di sprecare tempo in fottutissimi attacchi d’ira. Ti rendo conto di dove siamo? Arrivi a capire quel che è successo? Minimamente ti rendi conto che non possiamo più contare sulla magia? Hai il vago sentore del fatto che nessuno sa che siamo qui?» sembrava non avere un filo logico, come se in fondo stesse solamente sfogando quella tensione che così abilmente aveva fino ad ora nascosta. Chiuse gli occhi un istante, Astrea, quasi a cercare la calma e diede in un sospiro liberando il colletto del fratello dalla sua presa. Senza una parola tornò alla poltrona e vi si sedette stancamente, nascondendo il volto nel palmo della destra, il cui gomito poggiava sul bracciolo. Nella stanza calò il silenzio, immobile, mentre Sirius portava gli occhi al soffitto e poi ad Astrea, evitando con cura d’incrociare i Malandrini o Severus che, dal canto suo, non s’era scomposto e rimaneva fermo nella stessa posizione in cui James e Sirius l’avevano visto entrando.
«Che facciamo?» la voce di Astrea, dopo quella che poteva esser stata un’ora o un minuto di silenzio, era fievole e inconsistente. Non s’era mossa, i capelli che le ricadevano sul volto oscurandolo a metà.
Nessuno rispose. Non c’era nulla da dire, forse nessuna soluzione certa o, perlomeno, nessuna che fosse loro venuta in mente.
«Che ne dite di esplorare questo posto? Potremmo… cercare un passaggio, una qualunque cosa… tagliente o pesante, magari, per distruggere quella maledetta porta e vedere se Peter sta bene» il tono con cui Astrea aveva pronunciato il nome del Malandrino, preoccupata e dolce al tempo stesso, era un chiaro segno della gravità della situazione. Questo, e la totale assenza d’entusiasmo nel suo dire. A memoria di James, la ragazza non si era mai rattristata della prospettiva d’esplorare nuovi territori o di distruggere qualcosa.
«Esplorare?» anche il tono di Sirius era privo d’inflessioni. Era scivolato lungo la parete e ora si trovava seduto a terra, la schiena contro il muro candido, gli occhi chiusi rivolti verso il soffitto.
«Sai, curiosare in giro, guardare com’è il luogo» eccola di nuovo,l’aria da saccente e quel lieve sfottere. Un sorriso, brevissimo, nacque sulle labbra di Sirius.
«Abbiamo già guardato, già esplorato…» intervenne Lupin facendo sentire la sua voce, ora roca, dopo molto tempo.
«Forse c’è qualcosa, qualunque cosa…» ma non ne era convinta nemmeno lei.
«Vorresti provare a forzare la porta? Ti vantavi di essere così brava» ora James scherzava, anche se solo un vago accento era percepibile. Un sorriso storto apparve sulle labbra di Astrea, un sorriso carico dell’amarezza e dell’insofferenza del momento, sebbene ironico.
«Ci si può provare, ma non garantisco nulla» si alzò e con calma si diresse verso la porta, seguita per un istante dagli sguardi dei ragazzi presenti. Sguardi che volsero tutti all’unisono verso Severus quando il suo stomaco diede in un borbottio sordo.
«Si vede che non ti nutrono abbastanza in quella topaia che chiami Casa. Hai fame per caso?» fu il commento di Sirius. Privo della sua solita ironia, privo del suo spirito.
«Arguto come sempre, Black. A volte mi chiedo come tu faccia ad arrivare a conclusioni così scontatamente ovvie senza alcun pudore» il tono del Serpeverde invece era sempre lo stesso, quasi che lui non risentisse della situazione. Anche James parve accorgersene, perché sollevò un sopracciglio
«Dimmi un po’, pivello, com’è che sei così calmo? Non è che c’è il tuo zampino in questa situazione?» domandò, con l’aria di chi sia appena arrivato alla più ovvia delle conclusioni. Nessuno poté osservare il viso di Sirius prima ch’egli si scagliasse di nuovo su Severus ma, se l’avessero visto, vi avrebbero scorto una sorta di gratitudine per le parole di James unita a qualcosa d’indecifrabile, come un’ombra. C’era comunque solo una sorta di ceca furia sul volto di Sirius quando afferrò il colletto della camicia del Serpeverde nello stesso modo in cui Astrea aveva afferrato la sua; solo che la forza del Malandrino era superiore e l’intento era di far male. Nonostante fosse stato sbattuto in malo modo al muro, Severus sorrise, strafottente
«Mi credi davvero così idiota, Potter? Io non sono certo al vostro livello» si premurò di sottolineare la parola malignamente nonostante stesse divenendo paonazzo, data la stretta sul suo collo.
«Oh, certo che non lo sei, Mocciosus. E smetti di sognare di divenirlo, un giorno» ribatté Sirius acido, fermo nella sua posizione di carceriere come fermi erano gli altri Malandrini, nessuno dei quali pareva intenzionato ad intervenire in soccorso del Serpeverde.
«Lascialo andare, fratello» fu il pigro mormorio di Astrea che armeggiava con la porta. Sirius lo ignorò, aumentando la stretta sul colletto di Severus
«Che ci sei venuto a fare, qui? Che hai fatto a Peter? Cosa cazzo ti è passato per quella…» ma non concluse la frase perché un forte rumore, come di legno che resista ad un tentativo di schianto, lo fece voltare improvvisamente verso la porta «Ma che cazzo fai, Astrea?» latrò, feroce come il cane nel quale poteva trasformarsi.
«Ti sembra il caso di prendere a calci il portone?» chiese James, con una voce tesa.
«Non ho trovato nulla di pesante al momento per abbatterla» Astrea stessa sembrava seccata, nonostante tutto. Avvicinò la testa alla porta e gli occhi esaminarono il legno «intatto, neanche una misera stupida maledettissima scalfitura» fu la sua diagnosi, prima che con stizza gettasse una serie di piccole forcine per capelli al suolo e si dirigesse verso Sirius; posò una mano su quella del fratello - ancora ancorata alla camicia di Severus - e fece forza per far staccare le sue dita. Sirius, dal canto suo, la guardò storto, stringendo maggiormente; non visto, un segno rosso già si disegnava sulla pelle diafana del Serpeverde.
«Vuoi che lanci il Mocciosus?» Sirius tentò di sorridere, con l’unico risultato di rivolgere alla sorella una smorfia.
«Invece di fare il gradasso idiota che ne diresti di cercare qualcosa di veramente pesante per buttar giù quella porta? O una finestra, quello che vuoi. Strozzandolo non risolverai granché, vero?» poi, abbassando il tono ed avvicinandosi al suo orecchio con il volto, sibilò «vedi di fartele passare queste manie da pazzo omicida. Una volta si tollera, ma ora stai passando il segno…» prima di scostarsi da lui, che dal canto suo allentò la presa fino a staccarsi dal tessuto ormai liso.
«Potrei sempre usare lui come ariete. La sua testa è abbastanza dura, per quella porta»
«Mi ripeto: non sei spiritoso, fratello»
«Forse non volevo esserlo»
«Sirius!» la voce di Remus. Autoritaria, come lo era poche volte. Sirius non lo guardò nemmeno, semplicemente portò una mano sulla spalla di Severus e fece forza, spingendolo al suolo mentre lui si volgeva per sparire di nuovo oltre una porta.
«Vieni» ancora seccata, Astrea tese una mano al Serpeverde per aiutarlo a rialzarsi ma questi, sprezzante, volse il capo da un lato e, facendo forza sulle braccia, si rimise in piedi e, barcollante, sparì dietro la porta della camera, dalla parte opposta rispetto a Sirius.
«Ma che grande idea, questa. Una bella escursione notturna! Ma vaff…» sbotto Astrea dando un calcio ad una poltrona.
 
Avevano provato di tutto. James, preso da un attacco di frustrazione, aveva sollevato assieme a Remus una poltrona e aveva provato a scagliarla contro una delle finestre dalle imposte chiuse, col risultato che questa era rimbalzata come fosse di gomma rischiando di ferire i due Malandrini che, per pura fortuna, erano riusciti a spostarsi. Un tavolinetto in frantumi era il solo risultato del loro ultimo tentativo; come se non bastasse non erano nemmeno riusciti a far entrare altra luce che non fosse quel pallore da tardo pomeridiano che sembrava non avere fonte.
Dopo aver sbraitato un po’, finalmente anche Astrea si era stancata e era andata in cerca di provviste mentre Remus radunava quelle del cucinino e del salotto.
«Niente di assolutamente nulla. Non c’è una briciola in tutta la casa» proruppe la ragazza infrangendo il silenzio, rotto solo da piccoli tonfi delle cibarie posate e dei cassetti chiusi ed aperti. «Qui almeno và un po’ meglio? » s’informò, prendendo una sedia e accomodandosi col ventre poggiato allo schienale, le braccia incrociate oltre il bordo della spalliera e il mento su queste.
«Da come ti comporti, potresti essere tranquillamente un maschio, sai, fratellina?» esordì Sirius, sbucando nel salotto d’improvviso, le mani affondate nelle tasche della veste.
«Uno dei due deve pur fare il ruolo del fratello, no, mia dolce sorella?» canzonò la ragazza, senza particolare enfasi nella voce «Allora Remus?»
«Direi che si può andar avanti per un mese, un mese e mezzo forse. L’acqua non è un problema, quella arriva, e per il resto c’è un po’ di tutto» rispose il Licantropo sollevandosi oltre il bordo di uno sportello «mi chiedo come sia possibile che queste provviste non siano scadute. O meglio, come mai si trovino qui»
«Forse qualcun altro usa questa casa» ipotizzò Astrea con un’alzata di spalle che sminuiva radicalmente il problema.
«Tu dici di no, ma io sono sicuro che c’entri Moccios…» cominciò Sirius, il rossore della rabbia che si rinnovava sulle guance.
«Piantala, Sirius, è più spaventato di te, non lo vedi? E non è che tu stia poi così tranquillo» lo liquidò Astrea con un cenno del capo ed un’occhiata fulminante.
«E fa bene ad essere nervoso, dato il bellissimo scherzo che ci ha fatto»
«SIRIUS!» urlò Astrea, sbattendo una mano sulla liscia superficie del tavolo rotondo.
«Piantatela entrambi, mi state facendo impazz…» sbottò James, ma venne interrotto quasi subito.
«Hey, e quella cos’è?» ignorando bellamente l’amico Sirius si era alzato per andare ad esaminare una delle bottiglie che Lupin stava rimettendo negli scaffali «Idromele… e qui c’è del Whisky Incendiario… Burrobirre, nah, troppo leggere… oh, Rhum…» lesse le etichette ad alta voce, allontanando Remus dallo scaffale con pigrizia.
«Lasciale stare, che tu non lo reggi l’alcool, fratellonA» ironizzò Astrea «Dalle a qualcuno che è più serio ed adulto di te»
«Adulta, tu? Per due minuti mi sei maggiore e rinfacci pure? E piantala. Se non altro, potrebbero aiutarci a dimenticare»
«Hey, l’alcool è un ottimo combustibile, no? Geniacci, vi ricordate se esplode?» fece Astrea, i lvolto illuminato da una gioia pura mentre volgeva lo sguardo da James a Remus – ora intento a trafficare su unas vecchia stufa a legna con dei fiammiferi - ed ancora indietro.
«Hai la fissazione con gli esplosivi, tu!» sospirò il primo Malandrino, alzando gli occhi al cielo.
«Che c’è di male se mi piacciono, James?»
«Vedi un po’ tu, Astrea, se ti sembra normale»
La ragazza sollevò le spalle, ed osservò il fratello chiudere lo scaffale a chiave.
«Queste ce le conserviamo per la sera che riusciamo ad aprire la porta» Siurius aveva assunto una posa composta e dignitosa del bravo, cadetto Caposcuola che non era.
«Facciamo che le apriamo per il compleanno di Potterucciolo, che è fra un paio di settimane…»
«Ed ora chi è l’accanito bevitore, sorello?»
«Primo, non ho mai negato di esserlo e, secondo, smettila di copiare le mie battute, che tanto non sei capace»
«Comari Black che ne direste di smettere di discutere e di venire a cena?» Remus era seduto al tavolo, con James che vi si dirigeva guidato dall’odore stranamente più che allettante della sua semplice cucina. Che bolliva allegramente. Avvicinandosi al desco, Sirius notò che c’erano cinque piatti; lanciò quindi un’occhiata di fuoco ad un già imbarazzato Lupin, che nonostante tutto sostenne il suo sguardo
«Credo abbia bisogno di mangiar qualcosa anche lui» non disse altro, solo fece un cenno con la testa verso la porta chiusa dietro la quale era nascosto Piton.
Era appena scoccata la mezzanotte nel mondo di fuori ma nessuno di loro avrebbe avuto modo di stabilirlo.
 
Severus riposava in quella stanza gelida. Aveva tirato le cortine del letto e subito la sua figura era sprofondata nel buio più fondo. Allora, solo nelle tenebre compatte, era riuscito a stendersi sulla schiena con le braccia allargate, a contemplare il soffitto nero nel quale pareva potesse vedere i suoi pensieri coagularsi e rendersi immagine.
 
Si era svegliato tardi quella mattina e non era da lui. Aveva corso a perdifiato nei corridoi per poter arrivare in tempo alla lezione e non li aveva visti. Era ovvio, come avrebbe potuto? Poggiarsi al muro, dietro un angolo: tipico di quella banda di imbecilli che erano i Malandrini più sorella al carico. E, ciliegina sulla torta, era andato a sbattere proprio contro quel grosso idiota di Black. Il più stupido e il più manesco del gruppo. Era caduto in terra e… chiuse gli occhi, come ad evitare al ricordo di formarsi sullo schermo nero delle tende … e poi era stata di nuovo la solita umiliazione, condita da un bel rimprovero da parte del professore di Cura Delle Creature Magiche. Dio, quanto non sopportava quell’uomo. Sciatto, monotono, perfidamente pungente, fissato con l’abbigliamento marrone quanto lui non lo sarebbe mai stato col nero, sebbene adorasse quel colore… rabbrividì, pensando tra sé e sé che il marrone non poteva essere definito un colore … pareva seriamente intenzionato a voler punire chiunque non fosse della sua Casa… maledetti anche i Tassorosso … ed era parziale fino all’esagerazione. E quei capelli! Poteva anche lavarseli, una volta al mese!... Severus scosse il capo, come ad allontanare quei pensieri …insomma, non era di certo stata una bella mattinata. Inviperito, aveva deciso di saltare il pranzo per non dover passare nuovamente accanto ai maledetti cinque Grifondoro seduti come eroi al loro bel tavolo. Si era diretto verso il lago, affamato e scocciato assieme, e… ma guarda i casi meravigliosi della vita …aveva sentito l’inconfondibile, odiata voce di Black che spiegava al gruppo di idioti di un libro che aveva letto… già, ora finge perfino di saper leggere! …ed in cui aveva trovato delle informazioni circa una casa nascosta nella foresta; e non solo credeva a quelle sciocchezze ma aveva anche in progetto di andarla a visitare durante le  ormai prossime vacanze di natale che avrebbe passato ad Hogwarts… per sua estrema gioia …e che obbligava a far passare lì anche a quell’inetto di Minus. Si era stampato tutto nella mente e a poco valeva che appena dopo l’avessero scoperto accanto al portone mentre rientrava e gli avessero fatto fare l’ennesima figura di… davanti al resto della scuola. Li aveva in pugno. Se avessero trovato quel posto… cosa di cui non dubitava più, ora …sarebbe stata una scoperta sensazionale per lui, che avrebbe avuto libero accesso ai segreti della sua magia prima della confusione della massa; se non l’avessero trovata… bhe, poteva sempre schiantarli e lasciarli al limite della foresta sperando che qualcosa gli si mangiasse un arto o, semplicemente, per farli trovare dal custode e fargli avere finalmente una punizione. Se la cavavano sempre, ma stavolta…
 
La porta si aprì lentamente e la luce lo colpì, facendolo sobbalzare. Si era addormentato senza accorgersene. Sbatté le palpebre diverse volte prima di mettere a fuoco l’immagine della Grifondoro, seduta sul letto, che lo guardava con una stana smorfia sul volto. Devo essere inguardabile meditò e si fanculizzò mentalmente per quel pensiero sconclusionato, ultimo residuo della stanchezza della notte insonne.
«Che vuoi?» rispose bruscamente, la voce arrochita dalla dormita.
«Vieni a cena». Semplice e lapidaria; dunque la ragazza Black s’alzò, finendo poi appoggiata ad una delle colonne lignee del baldacchino, il tutto senza staccare gli occhi da lui.
«Lasciami in pace, Black» Salazar, che tono infantile!
«Oh per Morgana. Smettila di fare il coglione e scendi da questo letto. Ho fame e mi scoccia doverti aspettare per tutta la…» la notte? La mattina? Non sai nemmeno che ora è, mia cara «insomma, mi hai capito, forza, muoviti»
«Quale parte della frase “lasciami in pace” non hai afferrato, Black? Salazar, che foste tardi era rinomato, ma non arrivare a comprendere un concetto così semplice!» incrociò le braccia sotto il capo, distogliendo lo sguardo per posarlo sulla stoffa del baldacchino, sopra la sua testa
«Fa quel che ti pare» fu la risposta della ragazza che si mise dritta e se ne andò, lasciando la porta socchiusa.
Con un gesto di stizza e la certezza che l’avesse fatto apposta, Severus si alzò e con un colpo secco chiuse la porta e le tende del baldacchino, ripiombando nelle tenebre e nei suoi pensieri con la vaga consapevolezza che, per pianificare quella che doveva essere la sua vendetta, il giorno precedente non aveva pranzato né cenato. Cullato dai morsi della fame si addormentò di nuovo, perdendosi nei suoi pensieri.
 
Sembra che non si possa mai andare d’accordo. Sembra che debbano esserci sempre liti… ma io non mi diverto.
Sembra che non possiamo mai andare d’accordo. No. Che lottino o si amino, non c’è divertimento. Che lottino o si amino… sono i miei giocattoli, ora, posso farne ciò che voglio… che lottino o si amino…
Non sono più solo, no, finalmente… che lottino o si amino…
Mi faranno divertire. Mi divertirò prima della fine.
Miei… domani. Si, già da domani mi faranno divertire, già da domani giocherò con loro… che lottino o si amino… che lottino o si amino… voglio e farò… che lottino o si amino…


 

[Le canzoni nell’ordine sono: Map Of The Problematique – Muse / Incantesimo – Litfiba / Map Of The Problematique – Muse / Frank – Litfiba / Megalomania – Muse / Shock In My Town – Battiato ]
 
Baci Baci ;)
 
 

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Capitolo 4
*** ENJOY THE SILENCE ***


ENJOY THE SILENCE

  

My dream is to fly
Over the rainbow, so high
Direction sky
 
Ho luci dentro e piume fuori
Chi vola prima o poi saremo anche noi…
Sparami o sarò sempre meno quello che pensi
E lo farò, colpo su colpo io risponderò
 
Preciso nel passato, perfetto nel presente, futuro omologato
Ma io non lo voglio
 
The light divining
The light defining
The light divining
The light dividing
 
Sto morendo di solitudine
E ridono di me
Delle mie ali, ali di cera
E ridono di me
Voci inseguono nel buio la mia pelle
Il vento se le porta via
Non sembra vero
 
La saggezza è una pazzia e impedisce di vedere
Ogni uomo spera di comandare
Vive per questo e uccide anche per meno
Un altro cuore che non batte più…
Continuo ad andare…
 
These bounds are shackle free
Wrapped in lust and lunacy
Tiny touch of jealousy
There bonds are shackle free
 
Get through this night,
There are no second chances
This time I might
To ask the sea for answers
 
These bonds are shackle free

  
 

Lo scroscio dell’acqua nel lavandino era un sottofondo più che sgradito alle orecchie del Malandrino mentre, seduto sull’orrenda poltrona ocra, cercava di far lavorare la sua mente, vagliando le varie possibilità e dandosi dell’idiota ogni volta che liste d’inutili incantesimi gli venivano alla mente.
«Dovreste dormire un po’»semplice, chiaro, lineare. Strano come, pur parlando a voce così bassa, Remus riuscisse a farsi udire oltre il rumore dell’acqua e dei piatti che stava sciacquando. Stravagante come la sua voce risuonasse sempre così calma e confortante. Strano come potesse dire cose talmente inconcepibili al momento facendole passare per verità.
Assurdo come neanche Sirius trovasse nulla da ridire.
Strano come anche i suoi pensieri andassero a rilento. Bhe, pensò, sorridendo al niente, in fondo non è male questa piccola pace.
«Che hai da ridere come un’ebete, Ramoso?»
James scosse il capo e, per un istante, ebbe quasi paura che i pensieri potessero andare alla deriva con quel semplice movimento e spargersi per la stanza. Merlino, di sicuro Sirius si sarebbe fatto quattro risate, mentre la Evans lo avrebbe quasi sicuramente strozzato.
«Niente. Remus ha ragione, andiamo» disse James con voce roca, scacciando dagli occhi l’immagine dell’amico che, chino al suolo, frugava fra le foto animate che erano i suoi segreti mentre Lily stava in piedi dietro di lui, scioccata. Fece per sollevarsi, con uno sforzo che gli parve eccessivo. Merlino, mi sto solo alzando!
«Ti serve un accompagnatore, grande campione di Quidditch?»
L’ultima cosa di cui aveva bisogno, l’indifferente ironia di Astrea. In piedi, lanciò un’occhiata al gruppo di reclusi distesi sulle poltrone, intenti nella loro personale lotta contro il sonno. Per i Grandi Maghi del Medioevo!, persino lui avrebbe dormito anche su quella poltrona, non fosse stato per lo spiffero gelido che aveva cominciato a ghiacciargli la schiena.
«Ci sono delle stanze di là, o sbaglio?»
L’acqua aveva smesso di scorrere, sostituita dal rumore dei passi di Remus che si avvicinava, strofinandosi le mani con un panno bianco, imprimendo su questo labili aloni d’umidità e gocce.
«Un letto doppio, un singolo e un altro doppio, di là» fece un cenno con la testa ad indicare l’uscio dietro il quale la figura di Piton si era rintanata.
«Che precisione…» fu la svogliata risposta di Astrea, che parve fermarsi prima di aggiungere qualcos’altro. Sbuffando, sprofondò un altro po’ nella poltrona «scegliete pure. Io aspetto qui che si liberi la mia» concluse, atona.
«Parla chiaro, già faccio fatica a seguirti» Sirius si era alzato, leggermente insicuro sulle gambe.
«Io dormo da sola» fu la laconica risposta.
«E con ciò? »
«… con ciò, appena il caro Piton esce da lì, mi ci insedio io. Le altre stanze sono troppo luminose» chiuse gli occhi e scosse la testa. Aveva freddo ed una vaga sensazione di malessere, correlata al non sentirsi realmente partecipe alla conversazione, come se i pensieri e le parole messi in gioco non fossero suoi.
«Ti sembra il caso di fare la bimba viziata? Alza il culo e vieni»
«’Fanculo»
Completamente sveglio ora, Sirius si rabbuiò e con passo veloce uscì dal salotto, prendendo la via del corridoio che conduceva alle camere.
Quando il rumore della porta sbattuta cessò, Remus posò lo straccio sulla poltrona che aveva occupato James e si diresse senza una parola verso l’uscio, per sparirvi oltre.
«Quanto mi piacerebbe, davvero, sapere che cazzo succede qui» sussurrò James; e su quest’ultima nota anche l’ultimo Malandrino lasciò il salotto e la pallida figura di Astrea stesa sulla poltrona, con una mano sulla fronte.
 
Remus non era mai stato un tipo calmo. Certo ne aveva tutto l’aspetto ed i modi ma nell’animo era convinto che la sua maledizione non fosse altro che la giusta trasposizione di un carattere che non sapeva appieno esprimere. Come ora. Avrebbe voluto urlare anche lui, scagliarsi contro il primo diversivo che avesse incontrato, disegnarsi sul volto più che una vaga espressione di divina calma, potersi permettere anche lui la stessa lugubre espressione, la tremula impazienza di James o l’ira ingiustificata di Sirius. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi sfogare e piano, nella parte più nascosta della sua anima, invocava l’arrivo della luna piena.
Avrebbe dato qualunque cosa per poter divenire qualcun altro; perfino Severus, perfino il povero Peter.
Scosse il capo impercettibilmente e guardò i suoi compagni da sopra quel misero pasto che era riuscito a metter su. No, forse non avrebbe scambiato il suo posto proprio con chiunque; e mentre formulava questo pensiero, labile e distorto dai vapori dell’insofferenza, della stanchezza e del vago malessere, i suoi occhi si erano posati sulla rigida e gelida maschera di Astrea.
No, decisamente, non avrebbe voluto essere nei suoi panni.
 
Aveva predisposto quel piccolo banchetto, lavato i piatti perfino.
Quale persona normale si metterebbe a cucinare e pulire dopo una nottata come questa?
Era stanco, sfinito da tutta quella logica, fredda e indifferente calma. Ora se ne stava disteso a cercare il sonno, invidiando il respiro calmo di Ramoso accanto a sé. Almeno nel sogno c’era quiete per James.
Per lui era diverso: oltre il velo delle palpebre era in attesa Il Lupo, famelico e diabolico regista, abilissimo nel mostrargli la nuda realtà della sua anima. Sognava spesso di corse, del vento e del sapore metallico delle sue vittime. Fantasticava di distese infinite bagnate dalla luna e di una figura lontana, verso la quale correva, che desiderava sopra ogni cosa e così diversamente d’ogni altra.
Era un abilissimo regista, Il Lupo. Poteva sentire il suo cuore fremere della sottile ebbrezza della corsa, il pelo del suo dorso attraversato dalla velocità del vento, la mente completamente libera, svuotata da ogni pensiero; e poi quella figura, lontana e nitida, che non voleva ammettere d’aver riconosciuto, alla quale non aveva mai nominato o ripensato, la mattina successiva. A questo punto l’ebbrezza cominciava a mutarsi, il battito accelerava improvvisamente e perfino la sensazione dell’aria si acuiva. Il suo cervello perdeva ogni cognizione finché non arrivava ad esistere solo quella figura indistinta e vivida verso cui correva, ormai uomo. Poi…
Poi non c’era altro. O meglio, quello stesso logico impulso che lo rendeva così pateticamente perfetto cancellava dalla sua mente quell’immagine, quei suoni, quei rumori, quei colori, quelle sensazioni; e pur volendo, non sapeva osare d’ndugiare su quei secondi che precedevano la veglia.
Il respiro di James si era fatto irregolare. Un incubo. Sorrise al nulla, abbassando le palpebre, e il suo ultimo pensiero, in quell’istante di dormiveglia in cui la coscienza dorme già, fu la speranza di poter vivere ancora quel sogno.
 
Il sole era al suo Zenit, oltre le mura, e mentre nessuno notava la loro assenza, un ombra scura e quasi inconsistente s’allontanava furtiva dalla figura pallida ed addormentata di Astrea.
 
Sirius s’era rintanato nella piccola stanza dalle pareti celesti, sbattendo la porta alle spalle e serrando l’uscio dietro le proprie spalle, finendo col buttarsi pesantemente sul letto.
Era arrabbiato, in collera con tutti e con nessuno o, forse, solo con sé stesso, anche se quest’ovvietà non aveva un perché definito. Solo, ogni parola, ogni gesto, ogni silenzio, ogni pensiero sottinteso lo infiammavano come alcool su una fiamma. Aveva paura, e molta, ed anche se non l’avrebbe mai ammesso ad altra voce non poteva tenerselo nascosto: lui e quella sua stupida idea erano la causa di tutto questo.
Era sprofondato nell’angoscia e tutto il suo corpo pareva soffrirne: tremava, la pelle gelida quasi si trovasse ancora all’esterno, nel vento freddo della notte invernale. Scivolò su di un lato, le braccia ad avvolgerlo, a difenderlo dal gelo della sua paura che scivolava prepotente lungo la spina dorsale. Non aveva voglia di trascinarsi dentro la coperta e una parte recondita della sua testa diceva che, in fondo, non sarebbe servito a nulla. Il calore materiale non poteva combattere la forza del senso di colpa.
Chiuse gli occhi. Aveva sonno, una sensazione improvvisa di pesantezza come se tutta la rabbia ed il rimpianto pesassero sulle sue palpebre, simili a mani dalle dita affusolate che, delicate ed invitanti, gli chiudessero le palpebre.
Scivolò nel torpore senza accorgersene, con sorprendente rapidità, paragonabile al fluire delle ombre su di una parete quando soffia il vento. Il volto del ragazzo però non era sereno, anzi recava su di sé il peso degli accadimenti, come se fosse ancora sveglio o il sogno fosse vicino alla realtà.
Corrugò la fronte,  girandosi sul fianco opposto e rannicchiando le gambe, mentre silenziosa un’ombra scivolava sulle pareti, viaggiando lesta e sorvolando il copriletto blu scuro, confondendosi fra i capelli del giovane e avanzando, scendendo più giù, fino al petto.
Poi furono solo silenzio e la mano dalle lunghe dita del ragazzo a stringere la coperta.
 
… inizia il gioco… fin troppo facile…
 
L’aveva sognata ma non per questo era meno inquietante. Un’ombra nera, la stessa che, lo sapeva, aveva preso il Topo, si era alzata leggera dal suo petto per volarsene via.
Era stesa sulla poltrona, una mano sulla fronte, gli occhi chiusi ed il respiro in rantoli stentati; si vedeva come se fosse fuori dal suo corpo e provava una sensazione di schifo mista a pietà alla vista di quella sé stessa in cui non riusciva a riconoscersi. Aveva provato a muoversi, a volgere il capo lontano, verso la stanza o le pareti, ma nulla c’era, solo sé stessa ed il buio intorno a sé.
E quella figura stesa sulla poltrona.
Mosse il braccio perché sentiva male al petto, un peso opprimete che saliva fino alla gola, amaro. Era frustrante non aver nessun controllo sul proprio corpo; aveva voglia di piangere ed osservava la figura, ora, perché l’oscurità intorno a lei si era popolata di visioni con le quali non voleva dover fare il conto, ricordi ed immagini e pensieri che la attiravano e disgustavano ad un tempo, molto più della figura dinnanzi a sé. Eppure, quelle immagini erano un così giusto quadro.
L’aveva appena pensato che la morsa al petto ed al collo s’allentò e lei poté chiudere gli occhi a quelle visioni, per riaprirli in un sogno in cui tutto era diverso, perfino lei stessa.
 
È in piedi nella stanzetta dalle pareti celesti. Solo che ora le pareti sono grigie, come il letto, come i suoi abiti. Tutto pare essersi tinto del colore della polvere, o sporcato, nel brevissimo lasso di tempo in cui i suoi occhi si sono chiusi. Eppure è tutto così uguale, così terribilmente reale.
La coperta è morbida sotto le sue dita ed i suoi passi riecheggiano nel silenzio della casa addormentata. È notte, notte fonda. Non si chiede comefaccia a saperlo, la sua stessa certezza è motivo più che sufficiente. Avanza di pochi passi ed è alla porta, che guarda come stupito, quasi a chiedersi cosa volesse fare; è allora che se ne accorge. Al braccio sinistro c’è qualcosa che string, fastidiosamente. Abbassa lo sguardo su un piccolo braccialetto. Non riesce a distinguerne il colore, nel grigio, ma ricorda che ne esiste un gemello.
Come esiste una copia di sé stesso.
Ed allora apre la porta con un pensiero nella mente, il rumore dei suoi passi un’esplosione nel silenzio della notte, così sbagliati e così giusti, colpevoli di aver infranto la calma.
È reale, tutto troppo reale per non essere vero. Perfino la grigia immobilità nella quale si trova è troppo e questo è quasi insopportabile. Vorrebbe che tutto avesse i contorni del sogno perché non riesce a concepire questa realtà. Non vuole concepirla.
E nel silenzio è al salotto e volge lo sguardo alla poltrona sulla quale è certo d’averla lasciata.
Lo straccio di Lunastorta è caduto dallo schienale della seduta finendo scomposto sui cuscini che hanno ancora la forma di Ramoso. Uno sportello è lasciato aperto e rivela delle bottiglie dalle etichette ovali, mentre il lavandino perde gocce che cadono a distanza di uno o due minuti. Ormai è convinto che sia reale, ha smesso di pensarci. Si muove, dirigendosi verso il lavabo, forse per chiudere il rubinetto dato che il rumore lo infastidisce. Plink plink plink. L’aria è pesante e, passando, potrebbe aver urtato l’incorporea figura di qualcuno che osservi la poltrona, un’espressione di disgusto e timore sul volto. Ma si volta e non c’è nessuno, solo quel rumore che lo infastidisce. Plink plink plink. Chiude con uno scatto nervoso il lavandino e torna indietro, sbadigliando. È vicino al corridoio quando lo sente.
Plink plink plink.
Forte, come una serie di piccole esplosioni nel silenzio della notte.
Si volta, la rabbia che gli colora il volto, solo per accorgersi che non c’è nessuna goccia che cade.
Perfino il rumore è cambiato. Ritmato, frammisto di voci e respiri concitati, famelici ed entusiasti.
Conosce quel rumore e con orrore volge lo sguardo alla stanza nella quale si è rintanato Piton. La porta è chiusa ma nulla può nascondere quei rumori alla notte.
Rumori di risate e sorrisi divertiti sui loro volti. Ridono, ridono di lui e della sue espressione, della sua mano tesa alla maniglia. Ridono della sua paura, della sua immobilità, della sua rabbia, del braccialetto che stringe troppo al polso, quello stesso groviglio di fili che l’altra, lo sa, non indossa.
Ridono e ride la notte con loro, sospira la notte con loro, ansima e chiude le palpebre, li osserva.
Chiude la mano sulla maniglia, e apre l’uscio sulle due figure.
 
Lontano, nella quiete del primo pomeriggio immerso nel sonno, una figura ride, alle spalle del giovane Sirius addormentato che, ignaro, nel sogno stringe le lenzuola e serra le labbra.
 
… che il gioco cominci.

 
 



[Le song nell’ordine sono: Rise Up – Yves La Rock / Sparami – Litfiba / Si Pùò – Litfiba / Allergic (to Thoughts of Mother Earth) – Placebo / Ballata – Litfiba / Sulla Terra – Litfiba / Ask For Answers – Placebo]

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Capitolo 5
*** SUMMER’S GONE ***


Non faccio promesse stavolta. Due anni e mezzo! Non è un tempo umano di certo…
Spero che questa fic  conservi ancora il sapore di quando l’ho iniziata. Molte cose non le ricordavo, altre ho deciso di cambiarle… e magari un po’ di novità la renderà migliore (o almeno lo spero!)
Non so in quanto ma la finirò, giuro!

Buona lettura!

SUMMER’S GONE
  
 
Il tempo corre sul filo segnano il nostro cammino - 
So già che vuole averla sempre vinta lui.

La luce rossa dice "c'è corrente", perché qualcosa stimola la mente 
Il mio futuro è nel passato e nel presente 
Prendi in mano i tuoi anni il tempo non lo inganni 
La corsa col tempo in salita forse è la mia preferita 
 
Ti vedo, sei il tipo materiale, ma te la tiri da spirituale 
Mi sbaglio, ma stavi meglio di fuori
Ti lascio l'uniforme e ricomincio il mio ballo
  
Sing for your lover like blood from a stone
Sing for your lover who's waiting at home
If you sing when you’re high and you’re dry as a bone, then you must realize that you're never alone
And you'll sing with the dead instead


 

Astrea non era mai stata simile al fratello. Nonostante condividessero più di una mera somiglianza, nonostante fossero stati così simili da finire entrambi nella casa del Grifondoro - con grande gioia della loro più che comprensiva madre-, nonostante sembrassero entrambi così spavaldi e sfrontati, erano estremamente diversi.
Sirius era genuino: un essere di puro istinto, forse, ma sincero e spontaneo, fin troppo portato ad esprimere qualunque sentimento, sensazione, idea o singola parola gli passasse per la mente.
Astrea invece si reputava la degna discendente della casata Black, per nulla immeritevole del cognome. Era una Grifondoro ma non nell’animo: votata alla causa d’alienazione dai Black di suo fratello, non l’animava tuttavia quella stessa forza che viveva in Sirius.
Ad undici anni Astrea aveva corrotto il cappello perché la facesse finire nella stessa casa del fratello; era brava con le parole, lo era sempre stata; e in fondo il cappello era solo un cappello: stoffa e magia – e dunque come poteva temerlo? Non s’era preoccupata che la menzogna sembrasse reale e così era sembrata genuina: dunque Grifondoro fu. A nulla valeva ripetersi che l’aveva fatto per non lasciare Sirius solo, per poter star dietro a quella “testa calda” - come lo definiva sua madre e, dopo tre anni, anche la metà degli insegnanti e degli studenti - e badare che non facesse troppe stupidaggini; in realtà Astrea sapeva bene che la sua cocciuta decisione era stata solo dettata dalla paura d’essere lasciata a sua volta sola. Erano gemelli, in fondo… due parti della stessa anima, due metà divise ma inseparabili. Non sarebbe stato un crimine allontanarli? Astrea era l’acqua, ingannevolmente innocua. Sirius il fuoco.
Eppure, allo stesso tempo non era stato un crimine allontanare Regulus da entrambi?
Non aveva molti amici, Astrea; era troppo ambigua, troppo portata al segreto ed alla menzogna. Una Black, insomma.
Le piaceva stare da sola ma odiava ammetterlo, per cui al terzo anno s’era aggregata alla combriccola di suo fratello senza protestare. Conosceva quei tre quasi quanto Sirius – le era sempre occorso poco per stabilire la natura di qualcuno con chiarezza.
Per questo si rifiutava di aiutare James a conquistare Lily: lei era sua amica – la sua unica amica - e Astrea sapeva con precisione che James non faceva per lei. Molto meglio Severus, decisamente.
Ci aveva pensato quella mattina, svegliandosi sulla poltrona con la schiena a pezzi; l’aveva perfino sognato e non era forse un chiaro segno, questo?
S’era destata con un mal di testa fortissimo e la sensazione di aver ricevuto una bella pestata da un’intera squadra di Quidditch; allo specchio l’aspetto non era migliore. Sarebbe tornata a dormire, non fosse stato per quella luce; la infastidiva quella falsa penombra – distorceva la percezione e, Morgana! Astrea odiava non avere il controllo della situazione.
Severus. Ecco chi gli serviva. Quel corvo idiota occupava la sua stanza ed in più s’era fatto scappare Lily da sotto le mani con quel suo corteggiamento gradasso ed imbranato ad un tempo. Stupido! Gli avrebbe parlato subito.
La casa dormiva, immersa in un silenzio vibrante; c’era un ronzio lontano lungo i corridoi a loro preclusi, così basso e sottile da non poter essere avvertito se non come un’ombra al margine del campo visivo, eppure abbastanza fastidioso da farli uscire fuori di testa. Da farla impazzire.
Nella stanza del corvetto, invece, c’era silenzio. Silenzio ed ombra. Prima di accorgersene razionalmente Astrea si trovò distesa sul morbido materasso di piume, accanto a Severus.
Ho sonno, e cazzo, non ho dormito un’ora! Si disse, convinta che avrebbe scacciato il Serpeverde da lì a poco per prendere possesso della sua stanza.
 
Sirius s’era svegliato di colpo, il fiato corto. Un incubo, pensò, strofinandosi gli occhi cisposi. C’era una stana sensazione, una sorta di premonizione nell’aria troppo calda della stanza. Sudava, piccole gocce ad imperlargli la fronte ampia. Chiuse gli occhi e si alzò di scatto, togliendosi la giacca della divisa e la camicia con un gesto distratto e slacciando i pantaloni neri prima di rendersi conto di ciò che stava facendo.
Scosse la testa, riallacciò il bottone eduscì dalla stanza.
 
Che si odino o si amino… troppo solo, troppo tempo…
Troppe pareti, troppi sogni, troppa quiete.
Urlate, piangete, gemete, amate!
Scivolo, scivolo, scivolo…

 
«Bau, quanto manca alla luna piena?» furono le prime parole di James, arrochite dal sonno.
«Bau?» Remus sollevò un sopracciglio, girandosi a guardare l’amico «Non ti sembra più appropriato per Sirius?»
«E’ la stessa cosa che ha detto lui quando ce l’ho chiamato, ma riferendosi a te»
«Lunastorta e Felpato non ti bastavano, caro il mio cervo?» domandò Remus con una malizia malcelata che James, tuttavia, non riuscì a cogliere.
«Ogni tanto bisogna rinnovare… cambiare, sai» la voce di James era flebile, bassa; respirava a fatica.
«Mah… Ramoso ti si addice! Infondo le corna le hai, no?»
«Corna?» domandò James con un fiotto di collera nella voce «Che intendi, Lupin?» ora respirare era più difficile, l’aria satura d’un caldo umido non dissimile da quello di una sauna.
«Sei un cervo, no?» Remus era calmo, indifferente al caldo; non pareva notarlo, in effetti «ma che hai? Sudi freddo, James. Fatti sentire…» allungò una mano, poggiandola sulla fronte dell’amico.
«Devo riposare» sbottò James meccanicamente. Remus annuì e senza dire un’altra parola lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Una folata d’aria fresca; senza Remus si sta meglio, pensò James. Poi furono solo sogni.
 
Cammina lungo un corridoio stretto, il passo incerto. È ubriaco, lo sa con una lucidità spaventosa; ubriaco e vigile.
Non sa come sia finito lì; ricorda una festa, lassù nella torre ovest, e la musica di un flauto, ma non sa cosa si festeggiava. Ricorda il cibo e gli insegnanti che sorseggiavano da bicchieri di vetro smaltato e un Tassorosso che si divertiva ad estrarre una colomba da un cappelloe di aver pensato “sai che trucco!”
Ricorda la Corvonero con cui s’è appartato, una ragazzina tutta sorrisi timidi e lentiggini. Doveva avere almeno un anno meno di lui eppure s’era mossa con una sicurezza invidiabile, annullando la distanza dei loro vestiti prima, del suo pudore poi, della pelle infine.
Ma qui i ricordi si confondono. Ci sono ombre, suoni alti e bassi ed una nota stonata, qualcosa d’indefinibile.
Chi è quell’adulto? Non uno dei suoi professori, anche se.. deve esserlo. E quella ragazza? Troppo confuso, troppa Burrobirra.
Crede ci siano state altre ragazze, altri baci, altra pelle su pelle, ma non ne è sicuro. I ricordi sono sfocati, si sdoppiano, sovrapponendosi con altri ben più familiari; ed un attimo prima è seduto in cortile, parla con un moretto fascinoso – Sirius, dice una voce nella sua testa - mentre un attimo dopo una ragazza sconosciuta piange. Cammina nella foresta, trascinandola, dicendole di non aver paura.
No, è nel corridoio, quel corridoio troppo lungo che si dilata all’infinito davanti ai suoi occhi. I rumori della musica gli giungono ancora, ovattati dal pavimento, ed anche in questo non c’è logica; ma c’è un altro rumore, più flebile, più bello di qualsiasi suono.
«No, non posso. Davvero» è la voce, la sua voce. James - la rinnovata coscienza di sé una certezza, ora - sorride alla luce di quella porta lasciata mezza aperta ma non entra. Vuole riprendersi, per lei. Deve essere perfetto, per lei.
«Perché no? Tu sei sola, io anche. E sono stanco di guardarti di nascosto» una voce amica, conosciuta.
«Perché non sono né abbastanza folle né tantomeno abbastanza ubriaca. Ti prego, non posso scegliere, non ora»
«Non puoi scegliere me, intendi?» c’era dolore nella voce di lui.
«Non lo capisci, vero? L’ho baciato. Ed io.. devo vederlo. Sarà la nostra notte, la nostra prima notte insieme, questa. Gliel’ho promesso e mi starà aspettando» c’era incertezza nella voce del suo angelo.
«Glielo devi? Andiamo, ma ti senti? Chi è lui per costringerti? Chi è lui per vincolarti? Andiamo! Sono io che ti ho ascoltata in questi quattro anni, io che ti ho confortata, protetta, difesa! Credi sia stato facile amarti e sentirlo parlare di te? Credi sia stato facile sorridergli e desiderarti?» la voce dell’amico è alta, carica di rabbia e dolore «Dimmi che lo ami. Dimmelo, Lily, ed io me ne andrò dandovi la mia benedizione»
C’è silenzio, ora. Dura da un po’, almeno dodici battiti del suo cuore.
«Non lo amo, Remus, e lo sai. Io…» un fruscio, un rumore liquido. Lo bacia, lo sta baciando, James lo sa con certezza assoluta anche senza guardare «capisci? Ma non ho la forza, Remus. Ne morirebbe!»
James si sposta. Ora li vede, uniti per le labbra. Vede la mano di Remus scendere ai seni di lei, l’atra poggiata sul fianco. Vede il bacio crescere, vede lei rispondere al suo tocco, alla sua lingua, alla passione di lui.
Si staccano ma c’è del tenero nello sguardo che passa fra di loro; la consapevolezza di un segreto comune. Poi Lily esce e James scappa. Corre via, e ricorda.
 
«Cazzo!» James si svegliò di soprassalto, il cuore a mille: piangeva calde lacrime di rabbia e disperazione. È una sogno, solo un sogno, un fottutissimo sogno del cazzo! Ma non era la prima volta che lo sognava.
 
Le loro menti, i loro cuori.. fuori uno, avanti il prossimo! Venute, signori venite! Ognuno ha diritto alla sua scelta…
 
L’ombra scivola lontano da James, oltre la soglia e sui muri freddi, umidi e stretti della casa. Scivola sul respiro e sui sogni, plana nella corrente di polvere fin’oltre la serratura, oltre la stanza, oltre la pelle.
Dorme con Astrea, ora.

 
È sola a vagare per stanze vuote che mutano a seconda dei suoi desideri. È il suo mondo e ne è padrona, dea incontrastata della polvere e del silenzio.
Scivola, incorporea come le tenebre; è nella biblioteca che sfuma, diventando un salotto prima, un focolare poi, nebbia infine.
Ha paura; è arrabbiata.
Sa che non avrà mai fine.

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Capitolo 6
*** IS THERE ANYBODY THERE? ***


Eccomi, prima di quanto mi aspettassi in effetti, finalmente puntuale!
Non era mia intenzione - lo dico con più totale sincerità - dare un connotazione horror a questa storia (seppure vagamente, in effetti) ma a quanto pare questa è l’evoluzione che la storia stessa ha voluto. Spero vi piaccia; i sogni sono le linee guida, presto capirete perché e a cosa si riferiscono; non ho intenzione di tirarla troppo per le lunghe, sento che la conclusione non è troppo lontana e credo meriti di arrivarci senza dover far passare altri due anni!
D’ora in poi, aggiornerò ogni settimana. Puntuale!
Detto questo.. bhe, fatemi sapere se v’è piaciuta!

Buona lettura! 


IS THERE ANYBODY THERE?
 
  
I tatuaggi fanno male anni dopo che li hai fatti ma per quello che ricordano
Hai visto amici andarsene prima del tempo e sei sicuro che dall'alto ti proteggano
E intanto aspetti il colpo di scena, quell'occasione unica, che ti sistema ogni problema
È lei che ti completerà
Ma qui non è così
La trama è inconsistente, l’amore non è mai per sempre.
 
Ho il dubbio che la mia generazione muova una rivoluzione immaginaria
Doveva essere un tramonto e il bene in trionfo alla fine della storia
Ma qui non è così
L'immagine è un po’ scura e il domani fa un po’ più paura…


James era sempre stato sicuro di sé. Affascinante quanto pochi, carismatico ed estremamente abile in qualsiasi cosa gli venisse il capriccio di fare, amato e coccolato fin dalla tenera età e naturalmente votato ad emergere, aveva finito per credere che qualunque impresa gli fosse possibile. Il tutto, coadiuvato dall’essere alla fine riuscito a strappare quell’appuntamento alla Evans - sua grande vittoria - avevano contribuito a creargli quella sottile e naturale arroganza ch’è dovuta a chi si affaccia alla vita e che in questo momento accresceva il suo malumore nel constatare la propria incapacità a risolvere la situazione.
 
Stava compilando un calendario sommario, James. Quando Lupin, con tutta la buona grazia e ragionevolezza che lo distinguevano, aveva chiesto come facesse a tenere il conto dei giorni, James s’era risolto in un’alzata di spalle e seguita da un “lo so e basta. Dovevo vedermi con la Evans domani”. Come se questo sistemasse tutto.
Remus aveva scosso il capo, limitandosi a quel suo sorriso pacato; almeno James ha il suo modo di distrarsi da tutto questo, pensava il ragazzo.
La verità era che gli incubi di Remus erano peggiorati. Un tempo i suoi sogni da bestia tornavano a fargli visita solo in concomitanza con l’arrivo del plenilunio; ora, erano almeno tre giorni (stando al calendario di James) che chiudeva gli occhi come Uomo e li riapriva Lupo. O peggio.
Remus fingeva perfino con sé stesso di non curarsene. È lo stress e questo posto, la paura che il cibo o l’acqua finiscano, che la luna piena mi faccia sterminare tutti o che quella Cosa trovi il modo di farci finire come Peter, si ripeteva. Non poteva pensare, neppure ipotizzare che ci fosse una briciola di vero in quei sogni. I rumori nei muri erano già troppo, non poteva permettersi d’aggiungerci altre preoccupazioni. Eppure…
S’era riscoperto a guardare Sirius con occhi diversi; e, sebbene si ripetesse che non potevano che essere paranoie, credeva di scorgere una luce men che amichevole negli occhi di James quando lo guardava. Astrea era sempre più di malumore (come tutti, d’altronde) e Piton.. bhe, lasciava la sua stanza solo in ore pasti, sebbene in Sirius questo facesse solo aumentare il disappunto.
Sirius e Astrea erano in conflitto aperto da quando la ragazza s’era trasferita nella stanza del “baldacchino nero”; divideva il letto con Piton ogni notte e ,sebbene fosse certa l’assenza totale d’un qualsiasi contatto, il ragazzo Black l’aveva preso come una sorta di affronto personale. Dal canto suo Remus trovava confortante qualunque cosa lo distraesse dai suoi demoni personali, ben accettando perfino le liti.
 
Era cominciato tutto il “giorno” precedente. Svegliandosi, Remus aveva trovato Sirius che guardava la porta della camera di Severus con un misto di rabbia ed indecisione.
«Hai visto Astrea?» aveva domandato Felpato a Remus, afferrandolo per un polso con una velocità allarmante.
«No. Dormiva su quella poltrona, due giorn… l’ultima volta, o sbaglio?» il suo tocco. Il sogno. Remus provò l’istinto di sottrarsi alla mano dell’altro ma al primo accenno di movimento le dita di Sirius si serrarono più strette sul suo polso «mi fai male, Felpato»
Con un grugnito l’amico aveva lasciato andare Lupin, infilandosi le mani in tasca e avviandosi verso la cucina. Era senza camicia e Remus si trovò a fissare la muscolatura delle sue spalle, così liscia e perfetta. Ed io, un groviglio di cicatrici. Scosse il capo, allontanando i sogni da bestia.
 
Sirius aveva sognato di nuovo, dopo il pasto. Steso su quel letto troppo duro, aveva impiegato meno di un secondo ad addormentarsi nonostante quel ronzio incessante che riempiva la stanza, simile al suono di una zanzara.
È davanti alla porta della camera del baldacchino nero con una rosa fra le dita. Sa chi troverà lì dietro ed alla sola idea il cuore batte all’impazzata. Non aveva mai avuto simili pensieri, eppure…
Ha colto quella rosa nelle serre, passando la mattinata a sceglierla fra mille e mille. Sono le rose di Vitious, quelle che coltiva gelosamente da quando ha iniziato ad insegnare ad Hogwarts. Eppure Sirius ha rischiato il collo ed un’ennesima sospensione per prenderne una; la più bella e perfetta. Bianca, perché bene s’addice.
Risate, ancora. Le loro voci; sembra si diverta e non vuole che smetta: ha una risata così bella e di rado Sirius l’ha potuta sentire. Ride poco, ultimamente, ed a lui questo dispiace, sebbene non lo dia a vedere. Sebbene sappia che la colpa è anche sua.
Poggia l’orecchio alla toppa della serratura, cercando di ascoltare.
«Ed una volta, da piccolo, è uscito in giardino tutto nudo, con un foulard di nostra madre legato attorno alla fronte, ed urlava “prendetemi, prendetemi, io sono il più grande eroe di tutto il mondo magico”… ed agitava le braccia, così, e Regulus dietro, a tirargli addosso palline di carta» Rideva Astrea, raccontando, e rideva Severus, seduto così vicino a sua sorella che i loro fianchi si toccavano «e poi, la parte più bella… nostra madre aveva invitate le sue amiche del the, quelle bacchettone purosangue che non vedono un uomo dal loro ultimo giorno di scuola… e quelle, scandalizzate, giù ad imprecare “Merlino qui, Merlino di là”. Una scena m.e.m.o.r.a.b.i.l.e! Dovevi esserci! E nostro padre, quando ha scoperto la sua bottiglia di Whisky Incendiario Invecchiato completamente finita! Duemila galeoni valeva, e non scherzo! Duemila tondi tondi! Quante gliene ha date! Sirius non s’è seduto per una settimana, giuro!»
Lo deridono. Ridono di lui. Sirius stringe la rosa più forte ed una spina lo ferisce; sangue rosso macchia il pavimento di ametista ma lui non vi bada.
«Raccontami altro su Sirius» il tono di Severus è basso, ammaliante. Come per caso, la sua mano si avvicina all’altro fianco di Astrea e lo cinge, avvicinandola a sé.
«Non bacia bene» Fa la ragazza, sporgendosi di più verso Piton.
«E come fai a saperlo? Sei così esperta?» la provoca il Serpeverde.
«Di mio fratello? No. Voci… ma proverei volentieri dell’altro» ammicca Astrea e non aspetta ancora. Bacia Severus lì e si appoggia col suo peso sul petto magro dell’altro, spingendolo indietro, a stendersi sulla schiena. Quel che accade dopo Sirius non lo vede; realizza solo che dormono insieme, abbracciati e senza divisa, e che la rosa è finita in pezzi fra le sue dita. Come il suo cuore.
Si era svegliato frastornato, con quel ronzio che gli batteva nella testa; deciso, era corso fuori dalla stanza, ignorando James e Remus. Aveva preso a spallate la porta della camera di Piton finché questa non s’era aperta e la scena che s’era trovato davanti l’aveva fatto imbestialire. Sua sorella dormiva nello stesso letto del Pivellus.
«Che cazzo fai Astrea?» aveva urlato, sbattendo un pugno al muro.
«’Fanculo Sirius, ma ti pare il modo? La casa aveva appena finito di far rumore… e mettiti una camicia addosso! Sei inguardabile, fratellino!» la voce della ragazza era stanca e carica d’ira ad un tempo; sotto gli occhi cominciavano a delimitarsi macchie scure, ombre di sonno mancato.
«Con quale coraggio riesci a dormire in mezzo all’unticcio dei suoi capelli?» non era granché, Sirius lo riconosceva, ma la sua mente andava a rilento, incastrata in un’ombra nera e densa.
«E mi hai svegliata per dirmi questo?» mormorò Astrea, il volto che si apriva in una espressione di stupore malcelato che avrebbe anche potuto essere comica «Voglio questa stanza. Problemi?» era stata la secca risposta della ragazza; si era alzata, camminando a passi pesanti. Il sangue le martellava nella testa rendendole difficile pensare.
«Si. Che schifo, cazzo. Non ci credo che ti accontenti di così poco» l’allusione era palese, abbastanza da far calare il gelo nella casa; alle spalle di Sirius, James e Remus trattennero il respiro.
«Che intendi, Sirius? Parla chiaro» era una sfida, adesso. I due fratelli si fronteggiavano, guardandosi in cagnesco.
«Preferirei ti scopassi il Preside. Mocciosus? Ma andiamo! Sei caduta in basso, sorellina»
Un colpo secco, così forte ed inaspettato che Sirius se ne rese davvero conto solo quando l’alone rossastro cominciò a pulsare. Astrea l’aveva schiaffeggiato! Neanche la loro madre aveva mai osato tanto.
«Non mi scopo nessuno, fratello. Ma, se anche lo facessi, non sarebbero affari tuoi. Cos’è, preferiresti che io dormissi con uno dei tuoi amichetti? O magari sulle poltrone, in mezzo a questa luce del cazzo? Quanto sei egoista, fratellino, te ne rendi conto?» Sirius non rispose. Non c’erano parole, in quel momento, solo una voglia di colpire, colpire forte per fare male. O di baciare ed addormentarsi, dormire a lungo e senza sogni «No, non lo capisci, non l’hai mai capito. Merlino, quanta voglia avrei di lanciarti una bella fattura, fratello. O di far esplodere qualcosa che ti è caro. Cazzo, odio questo posto!» sbotto Astrea, voltandosi e sbattendo la porta in faccia al fratello. Da oltre l’uscio venne una protesta debole. Piton che provava ad esprimere la sua opinione, probabilmente. La risposta di Astrea – carica della più fine eleganza tipica dei Black - parve totalmente zittire qual si voglia replica del Serpeverde.
 
Nessun’altro parla dopo. Nella casa cade il silenzio, una quiete assoluta e pesante. Lontano - oltre la porta che Peter s’era chiuso alle spalle prima d’andare incontro alla sua fine - un rumore sordo, simile a persiane che sbattano.
Sul soffitto striscia qualcosa di viscido, zampette corrono lungo i muri. Rumori lontani che crescono sempre più d’intensità
Eccolo, là, sul soffitto, un piano sopra di noi: cammina, urta una sedia che cade; è nel corridoio, striscia ed ansima, suoni di dolore, di paura… nei tubi dell’acqua, un gorgogliare secco; e sulla parete di fondo, un raspare, come qualcosa che scavi per farsi strada verso la preda.
Scivolano i rumori attorno ai cinque prigionieri, echi di voci lontane lungo il corridoio, e quasi i ragazzi possono sentirlo, l’eco del pianto di Peter; e le ombre, quelle ombre troppo lunghe in quella luce troppo flebile.
Poi, all’apice della cacofonia, il suono cade, le ombre sono immobili, il silenzio è perfetto.
È stato un attimo, un battito di cuore, metà d’un respiro profondo. Ma c’è stato.

 
Piange e ride colui che è perduto.
Piange e sogna, ride ed ama, ma non ha corpo per farlo. Non ha corpo per fare nulla.
Che si odino o si amino…

 
È nella foresta. Non è la prima volta che ci và ma non era mai stata in compagnia. La Ragazza che si trascina dietro ha paura, si guarda intorno nervosa ad ogni piccolo rumore. Lui conosce la foresta; è il suo regno, ne ha esplorato i confini fino ai margini orientali; sa che quello schiocco è solo il ramo di una quercia che cade, quel fruscio solo le zampette di una donnola. Lei sa che è dei silenzi che si deve aver paura.; ma non lo dice alla Ragazza, è troppo ubriaca per capirlo.
I loro passi non fanno rumore; due ombre, nient’altro devono essere: la notte non danneggia le ombre.
-Sei sicuro? Voglio dire, il professor Grifondoro ci ha espressamente vietato di… insomma, è una punizione, no?- farfuglia la Ragazza.
Lei non sa come si chiami; ed in effetti, lui è incerto su molte altre cose, ora. Si guarda, è una donna adesso. Eppure era un uomo mentre baciava la Ragazza nella penombra dell’alcova. Non se ne cura; nei sogni, lo sa, non è importante. Si limita a scuotere il capo, sorridendo. Ha un bel sorriso, sia da lei sia da lui.
-Non li andiamo a liberare, mon chère. Cerchiamo solo… un po’ d’intimità, e di brivido- il tono è lussurioso, come il suo sorriso. Lui sa che il francese fa sciogliere le ragazze; due parole in una lingua straniera ed eccole a venerarti come fossi il primo tra i sapienti. È bravo a conquistare, bravo a circuire le persone; ha dovuto impararlo per non restare solo. Odia la solitudine, lei. Ne ha paura.
La Ragazza annuisce, gli si stringe addosso. Stupida, pensa lui. Ma serve allo scopo, è bella ed ha la vita stretta e le labbra piene ed il volto a cuore e le forme generose ed i capelli color miele e lo ha seguito senza troppe proteste, e tanto gli basta.
La strada fa una curva, ed eccola. La casa…
 
… è sempre più rumorosa. Qualcosa gratta sui muri, sibili e ronzii riempono l’aria immobile, calda e talmente umida da essere irrespirabile; crescono d’intensità al crescere delle tensioni e durante il sonno, quando il loro mondo nascosto torna a tormentare i cinque prigionieri, il tutto si fa ossessivo. Ogni tanto una risata o un grido sommesso rompono il silenzio e tutti si voltano, spaventati, per poi fingere – perfino con loro stessi-  di non aver sentito nulla.
 
E l’ombra, loro ospite, rideva e piangeva.

 
 

Un’ultima cosa… probabilmente la storia cambierà rating dal prossimo capitolo; la trama me lo esige. Non ho intenzione, comunque, di andare più sul… pesante, diciamo, di quanto non sia già stata precedentemente. Ritengo, però, che certi sviluppi -per non infastidire eventuali lettori né per darmi freni inutili- abbiano bisogno di più libertà di espressione :) non preoccupatevi, niente di esagerato!
Buona giornata!
 
Ps: La canzone è “Non è un film”, Articolo 31. Meravigliosa.

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Capitolo 7
*** DREAM ON ***


DREAM ON
 
 
Dope, guns, fucking in the streets
Everything will blow
Revolution
Dope, guns, fucking in the streets
Tonight
Revolution!
 
Dope, guns, fucking in the streets
Either friends or foe
Revolution
Dope, guns, fucking in the streets
Tonight
Revolution!
 
Dope, guns, fucking in the streets

 
 

Astrea aveva sognato ed in questo non c’era niente di strano. Solitamente.
Le era capitato altre volte, nel sogno, di essere un lui - una volta era stata perfino un gatto, figurarsi! E che fantasia noiosa era stata quella! - ma questo… questo non era un sogno suo, lo sapeva con certezza; eppure le aveva lasciato l’amaro in bocca.
Tutta colpa di Sirius, maledetto sia! Mi ha fatta incazzare, non è più lui da quando siamo qui. Ma nemmeno Astrea era più sé stessa.
La cosa peggiore era stata il risveglio, rifletteva mentre, assieme a Piton, faceva colazione  - Burrobirra e cereali, la colazione dei campioni aveva pensato, facendo una smorfia di disgusto ringrazia che non abbiamo nient’altro.
Si era sentita stranamente debole, anemica: era pallida ed era stato un brivido a svegliarla; nella mano stringeva un lembo della veste nera di Piton. Rendendosene conto, aveva provato un sollievo così grande che aveva lasciato andare la stoffa con un gesto brusco, come se scottasse; ed era andata in salotto, a pensare, finché anche Severus non l’aveva raggiunta, grugnendo un “colazione”.
«Non sei un tipo di tante parole te, mmh? » fece Astrea, sollevando una cucchiaiata di brodaglia alcolica. Plop. Che schifo.
Piton sollevò le spalle, tornando ad osservare il bicchiere d’acqua come se contenesse risposte.
«So che conosci la Evans. Insomma, che eravate amici, da piccoli» insisté Astrea, spingendo lontano la scodella mezza vuota.
«Possibile. Che te ne viene?» Severus era sospettoso; manteneva un tono basso, appena più di un sussurro, e guardava la ragazza Black con aperta ostilità.
«Nulla, direi. Nemmeno conversazione si può fare?» aveva messo su una voce dolce, quasi teneramente offesa.
Severus si limitò ad afferrare la caraffa, versandosi dell’altra acqua. Non mangiava granché, lui. Astrea attese, aspettando una qualche risposta o un segno da parte dell’altro, ma non ce ne furono; e nessuno dei Black era mai stato molto paziente, neppure in situazioni meno critiche di quella in cui si trovavano ora.
«Cazzo, Mocciosus! Si può sapere che cazzo devo fare con te?» sbottò Astrea, irritata.
«Raccogli scettro e corona, principessa. Devi andare a cena coi Lord d’Inghilterra» ironizzò il moretto, per nulla turbato. Il tuo caro fratellino m’ha allevato bene, rimuginò tra sé e sé Severus con amarezza.
«E questo che vorrebbe dire? Cosa cazzo è un lord?» Astrea pareva ave preso quella parola come un insulto alla sua persona.
«Lascia stare. Roba babbana» minimizzò Severus.
«Sei un mezzosangue? O uno di quegli svitati fissate con la cultura babbana?» Fece la ragazza Black, inspirando piano nel tentativo di recuperare un poco della sua calma. Ma che ti prende, ragazzina?
«Mezzosangue» rispose lui con voce improvvisamente fiera.
«Ok» si limitò a rispondere la ragazza. Cadde il silenzio, inframmezzato da uno zampettare di bestie lungo il soffitto. Nessuno dei due si voltò a guardare, sebbene la tensione fra i loro fosse cresciuta visibilmente. «La Evans invece è nata babbana. Lily, intendo. Verrebbe quasi da invidiare il suo talento. Al terzo anno, cacciai uno sgorbietto Tassorosso dal suo bancone perché con lei la promozione era assicurata: Lumacorno la adorava. Non avevo previsto di trovarla simpatica. Ha classe lei, e cervello, certo. Non è neanche una brutta ragazza, non trovi?» il tono era rimasto colloquiale e moderato, ed Astrea si compiacque non poco di come fossero sembrate naturali le sue parole. Le aveva studiate con cura e nella recitazione non la batteva nessuno: era una perfetta bugiarda, d’altronde.
«Come molte altre» minimizzò Piton ma le sue guance pallide si erano tinte di una sfumatura rossa tutt’altro che gradevole e le mani tormentavano la veste, sotto il tavolo.
«Più di molte altre, e diciamo che neanche io sono male, ma questa è un’altra storia. Prendi per esempio la più giovane delle mie cugine, la conosci?» Severus scosse il capo «Quella con tutti quei capelli ricci, a caschetto… dai, ha due sorelle a Serpeverde! Bhe, comunque… Non esiste incantesimo in gradi di curarle tutti quei brufoli. Ed il suo gusto nel vestirsi… tremendo» Astrea rabbrividì, come se il pensiero fosse troppo per lei. Un’attrice perfetta, si complimentò con sé stessa «Lily ha classe. E lo so che lo sai. Arrossisci come quell’allocco di James quando si parla di lei»
«Potresti evitare di paragonarmi al grande campione? Sto cercando di fare colazione ed il tuo caro amico mi fa venire il voltastomaco»
«Originale si… perché non le hai mai detto niente? Insomma, da quanto la ami in segreto? Un anno, due?» l’espressione di Piton doveva essere stata eloquente giacché Astrea riprese «da sempre! Oh Merlino, sei davvero così pavido?» e rise, una risata bassa e carica di scherno. Severus si alzò, infastidito.
«Se ti dà così tanto fastidio vattene a dormire sul divano, stasera» e si voltò in uno svolazzo di stoffa nera, diretto alla stanza. Astrea sorrise, correndogli dietro «qui c’è troppo rumore, troppa luce. Vienici te a dormire, a me tutti questi passi danno i brividi. Sembra che ci sia un branco di topi che ci cammina sopra la testa» Minus. Peter Minus. «Hey, aspetta Piton» non c’era divertimento nella sua voce, ora, ma ansia. Superò l’altro di corsa, entrando nella stanza e lanciando uno sguardo spaventato al salotto oltre la soglia. Minus mi odiava. Ed ora il suo fantasma corre sul soffitto, aspettando una mia mossa falsa.
«Levati di torno, Black» sussurrò il Serpeverde.
«Hai un solo volume per la voce? Non muore nessuno se parli più forte. Faccio fatica a sentirti, sembra che tu squittisca!» Minus. Peter Minus. Cosa cazzo…
«…vuoi da me, Black? Posso saperlo, per cortesia?» domandò Piton, visibilmente irritato.
«Non voglio stare sola» la voce di Astrea adesso aveva una sfumatura spaventata, così disarmante che Severus rimase interdetto per un istante «Ed ora, raccontami qualcosa, qualsiasi cosa… quei rumori mi stanno facendo impazzire!»
 
James si lamentava. Qualunque domanda gli venisse posta, rispondeva inevitabilmente “tre giorni fa dovevo vedermi con la Evans” oppure “Lily mi odierà a morte, nove giorni fa l’ho lasciata sola ad aspettarmi nelle serre”, fino ad arrivare al “Gli manco, sono sicuro, si starà disperando per me, me lo sento”.
Remus aveva notato che ogni volta che concludeva queste frasi l’amico gli indirizzava un’occhiata di sfida, come ad invitarlo a negare.
Sirius ci scherzava su, o almeno ci provava «Dovremmo chiamarti Temposo; sei il nostro orologio portatile, James. Come cazzo fai a ricordarti quanti giorni sono passati?» Nessuno rideva, solitamente. L’arguzia di Sirius era rimasta chiusa oltre la porta, sostituita dalla rabbia. Due giorni prima (stando al calendario-James) il ragazzo Black aveva tentato di strangolare Severus quando questi s’era azzardato ad uscire dalla stanza. Da allora avevano cominciato a mangiare separati.
Astrea aveva paura di lasciare la camera, questo era palese – quantomeno lo era per Remus. Diceva di sentire “rumore di topi” ed una volta il Malandrino l’aveva sentita sussurrare “Minus” prima di lasciare la stanza in fretta e furia.
Severus era sempre il solito, strafottente Serpeverde. Pur non condividendo i timori di Sirius, perfino James aveva cominciato a trovare fastidioso l’attaccamento dell’unticcio Piton verso Astrea; era cameratismo e una sorta di senso fraterno di protezione che con gli anni si era instaurato: a Mocciosus, la ragazza era preclusa.
 
L’essere che abitava nei muri era inquieto.
Muoveva le ombre ed i suoni, ma la paura da sola non bastava. Ed il gioco era troppo lento.

 
Remus è uscito di soppiatto dal dormitorio, ma James era sveglio. Dopo quella notte non ha mai smesso di seguirne le mosse. Lo vede, ora, vede gli sguardi che lui e Lily si lanciano; e sebbene la Evans si sia incontrata con lui la sera della festa – giustificando il ritardo con il malessere di un’amica - James SA.
La sala comune è avvolta dalle ombre, silenziosa a parte lo scoppiettio di un fuoco morente, unica fonte di luce. James trattiene il respiro: senza un rumore si sporge, cercandoli.
Sono su una poltrona, si accarezzano.
«Ti amo, Remus. Ogni tua cicatrice, ogni tua carezza, ogni tuo bacio…» sussurra Lily e James si sente morire. Vorrebbe morire ma il suo cuore batte troppo forte. Lo sentiranno, ne è sicuro.
«Lily io…» comincia Lupin ma lei lo ferma, poggiandogli due dita sulle labbra.
«Si» dice lei. Solo questo.
E poi James resta a guardare. E li vede.
Li vede senza abiti, li sente gemere nell’amplesso, e ricorda.
 
Tutti verranno colpiti, stanotte
Che siano nemici o amici… stanotte!

 
La Bestia corre attraverso il parco, conscia che il suo tempo è agli sgoccioli.
Gira il muso, guarda sua madre. C’è un velo d’alba nella notte e la luna comincia ad esserne oscurata; si ritira oltre i confini del mondo.
Il Lupo sache il ragazzo sta per riemergere; deve fare in fretta, ha qualcosa da mostrargli, un posto in cui portarlo.
Un mare di steli al vento, la sensazione del suolo freddo sotto le zampe: tutto questo non gli basta più. È un lupo senza un branco e la Bestia ne soffre. Eppure, quella notte un lupo c’era.
Il Lupo desidera, il Lupo sogna, il Lupo ama ma ha bisogno del Ragazzo per farlo.
Così, quando le zampe tornano ad essere mani e piedi e le sensazioni ed i profumi si fanno pensieri, quando l’istinto lascia il posto alla razionalità, Remus si trova davanti il corpo ferito di Sirius. Non sa dove sono né come tornare indietro.
Ma è certo di non aver mai conosciuto pena più grande di questa. L’ho ferito io.
«Perdonami, Felpato, amico mio» sussurra il Ragazzo, chinandosi ad esaminare le ferite di Sirius. Non sono gravi, constata, e si lascia andare ad un sorriso. È svenuto, solo svenuto.
Si china, gli appoggia l’orecchio al petto.
Thum. Thum. Tuhm. Regolare.
Ed è nel battito di quel cuore che, finalmente, Remus e il Lupo si incontrano.
Desiderano la stessa cosa.
 
Che si odino o si amino.
Scivolo…

 
Sirius li vede amarsi. Sono diverse notti che li osserva, invidiandolo.
C’è qualcosa di sbagliato, profondamente illogico in quello che sente ma ha smesso di curarsene.
Ogni volta che la passione finisce giacciono abbracciati per ore ed Astrea racconta i peggiori aneddoti del passato di Sirius a Piton. Ne ridono insieme, lo scherniscono. L’eco di quelle voci lo segue come un fantasma, assieme ai loro sospiri.
Ora non ha paura di ammetterlo.
Darebbe l’anima pur di trovarsi al posto di Severus.
 
Avevo anche io sogni una volta.. avevo un nome, una casa una famiglia…
Avevo una vita.
Solo, solo, eternamente solo…

 
Lui non ha la chiave e lei sa bene che nessun incantesimo può aprire quella porta – lo sa come è conscia della sua natura duale. Quell’ingresso è incantato, come tutto l’edificio.
Prende una pietra abbastanza pesante e la lancia contro un vetro, frantumandolo; a chi può importare? Nessuno sarà lì ad incolparlo.
La Ragazza dimenticherà, lei farà in modo che succeda. Non ha mai lasciato ricordi in grado di incriminarlo e si reputa astuto, troppo astuto per rimanere scottato.
Troppo astuta per fallire.
La casa non fa resistenza: non è fatta per impedire l’accesso. Quando la porta le si apre davanti la Ragazza soffoca un urletto, portandosi le mani alla bocca.
«Sei tu. Finalmente… ci sono così tanti rumori in questa foresta, e cominciavo… ecco…»
«Tranquilla, ci sono io ora» le risponde lei e poi si avvicina, cingendole la vita; lui deve farla sentire a proprio agio così la bacia, un bacio pieno di passione, mentre le mani le sfiorano il collo, le accarezzano i capelli. Nulla di esagerato ma abbastanza per riaccendere il fuoco nella Ragazza.
Lei prende per mano la Ragazza, con dolcezza stavolta; non ha paura lui, anzi è addirittura più eccitato, ora.
Non fanno caso ai rumori, agli echi in fondo ai corridoi, alle vibrazioni dell’aria. Ora ha  la Ragazza nuda sotto di se e a lui non importa altro. Lui vuole il suo piacere ed è su un divano di tessuto grezzo che lo prende. Per una volta tanto non notano il silenzio.
Per una volta tanto non si sente solo.
 
Stai a sentire questo perverso adulatore che si regge su piedi stanchi…
… Che va in cerca, nella necessità, di un po' di sonno che non arriva?*

 
Ripeteva una voce antica. Una voce da pazzi, strisciante lungo i muri.
Era il quindicesimo giorno della loro prigionia, stando al calendario mentale di James.
Le provviste iniziavano a scarseggiare.
 

 

* è l’inizio di “Barrel of a Gun”, Depeche Mode; quando l’ho sentita, non ho resistito dall’aggiungercela. Datemi retta, ascoltatecela in sottofondo, rende bene :)
 
Chi è il ragazzo del sogno di Astrea? E cosa faranno ora i cinque, a corto di cibo, di idee e sempre più nervosi?
Commentate, mi raccomando :) critiche/complimenti/consigli/curiosità sono ugualmente bene accetti!
Credits: “Spite e Malice”, Placebo, all’inizio. 

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Capitolo 8
*** BARREL OF A GUN ***


BARREL OF A GUN


A vicious appetite visits me each night 
And won't be satisfied -Won't be denied 

An unbearable pain beating in my brain That leaves the mark of Cain Right here inside 

Whatever I've done 
I've been staring down the barrel of a gun 

What's wrong with this picture?
What's wrong with this picture?
 
Secrets locked up and loaded on my back -Well it weights me down
 We can't get nothing but our minds

  
 

Rumori metallici: crescono, si disperdono in un vento che non ha origine. Vagiti di bambini fatti d’ombra e di cenere, suoni dimenticati dal mondo. Risate. A tratti, un uomo piange.
C’è una tempesta in corridoio o è solo l’ennesimo incubo?

 
Astrea si svegliò con una certezza nella testa.
Una volta, quando era molto piccola, i suoi genitori l’avevano portata in visita al maniero dei Malfoy assieme alle sue cugine, nella speranza di poter combinare un matrimonio dinastico.
Astrea era molto piccola – non poteva avere più di sei o sette anni - ma perfettamente istruita: sua madre e sua zia avevano passato gli ultimi sei mesi a rendere lei e le sue cugine impeccabili. Non rammentava molto della casa ma ricordava il vestito di pizzo e velluto che suo padre le aveva regalato per l’occasione: aveva un grande fiocco sulla schiena, quell’abito blu notte, e sua madre le aveva dato un cerchietto con una lunga piuma di Fenice dipinta dello stesso colore e un girocollo con un topazio incastonato. Mai Astrea era stata più felice o più bella: tra le bambine era lei la più graziosa, la più elegante.
I Malfoy avevano due figli: Antares, il maggiore, prometteva di diventare un uomo straordinariamente prestante da adulto: a quattordici anni la sua fierezza ed avvenenza rivaleggiavano con quelle di Abraxas, suo padre, noto per le sue infedeltà. Lucius, il secondogenito, era di un anno più piccolo eppure i suoi tratti, a differenza di quelli del fratello, conservavano ancora le rotondità tipiche dell’infanzia.
Astrea si era invaghita di Antares da subito, come d’altronde le sue cugine; ma lei era la più piccola e sapeva che la possibilità di essere scelta era remota.
La signora Malfoy le aveva messe alla prova, valutandone la fisicità prima e le conoscenze dinastiche poi; era algida e glaciale, troppo simile a sua madre perché Astrea si lasciasse intimorire. Non aveva sorriso neanche una volta, limitandosi a rispondere e chinare il capo rispettosamente: alla fine, la matrona dei Malfoy le aveva indirizzato un cenno soddisfatto ed Astrea aveva capito di aver vinto.
Quella sera stessa aveva fatto un gioco con le cugine, conclusosi in un’avventura notturna: fuori dallo studio di Abraxas Malfoy, erano rimaste nella trepidante attesa di sapere quale di loro avrebbe avuto Antares.
Walburga Black*, sua madre, aveva ricevuto le lodi maggiori ed Astrea era ormai certa di essere lei la prescelta. La prossima signora Malfoy. Ma Abraxas aveva obiettato che la ragazza era troppo giovane.
Astrea sarebbe stata data a Lucius, sua cugina Narcissa ad Antares.
Quando il mondo smise di vorticarle attorno, Astrea si accorse di essere uscita dalla villa, di vagare nel parco delle statue.
Aveva sei anni e il cuore a pezzi, e la notte era buia e ventosa; lontano, i lampi squarciavano il cielo, illuminando a tratti le figure mostruose scolpite nel marmo del parco delle statue. Luce, ed eccolo, un drago pronto a divorarla. Buio. Luce ancora, ed al drago s’era sostituito un ippogrifo, gli artigli puntati al suo collo. Buio. Luce. Buio, ancora. Il rombo di un tuono lontano; Astrea si era messa a correre, piangendo e chiamando sua madre. Aveva sei anni ed aveva smesso di essere una impeccabile, algida purosangue, tornando semplicemente bambina; una bimba che non vedeva dove andava.
Qualcosa l’aveva colpita al braccio, lacerandole il prezioso pizzo elfico; qualcosa le frustò il volto mentre foglie e terra, agitate dal vento, le finivano negli occhi, nella gola.
C’era odore di pioggia nell’aria ma nessuna traccia delle luci della casa; poi Astrea era inciampata ed il fulmine successivo aveva illuminato l’ostacolo. Una pietra tombale. Il cimitero dei Malfoy.
L’avevano ritrovata alle luci dell’alba rannicchiata fra le ali marmoree di un angelo, bianca e tremante.
«Non mi lasciate sola, mai più, mai più» Farfugliava, in preda alla febbre.
Da quel momento in poi aveva sempre avuto paura, sebbene lo nascondesse con abilità.
Non aveva più osato mettere piede in casa Malfoy. Antares era morto due anni più tardi, stroncato da una forte epidemia di vaiolo di drago, la stessa che s’era portata via anche suo nonno; Narcissa sarebbe diventata la sola signora Malfoy sposando Lucius. Astrea era libera.
Quelle notti, per la prima volta dopo anni aveva avuto paura. Gli incubi le lasciavano in bocca lo stesso sapore di terra e pioggia di quella notte, la stessa paura dell’abbandono; eppure, quella mattina Astrea si era svegliata tranquilla, decisa. Nel sogno, in quello stesso posto, lui e lei (Le mie due forme, pensava con l’onirica, semplice logica) non erano soli; s’erano portati dietro qualcuno che lo aveva amato, che era rimasto con lei. Semplice.
Se mi ama non mi lascerà sola. Mai! Ma chi?
Si era voltata subito, con una certezza assoluta. Era stata la dedizione con cui aveva coltivato l’amore per Lily a convincerla.
Severus dormiva steso su un fianco, dandole le spalle; i capelli corvini erano sparsi sul cuscino, il petto che s’abbassava ed alzava con ritmo regolare, rassicurante.
Era lui il motivo del suo benessere, si rese conto con fulminea certezza. Solo al suo fianco i rumori cessavano e lei era sicura. Il cuore perse un battito.
Delicatamente, Astrea sollevò una mano, accarezzò piano la spalla di Severus; il Serpeverde non si mosse così la ragazza si avvicinò ancora un poco, accostando il petto alla schiena magra dell’altro, il naso a poca distanza dai capelli corvini. Odorano di buono, ebbe il tempo di pensare, prima di allungare una mano, cercando di cingere l’altro in un abbraccio.
Severus aveva il sonno leggero; undici anni di vita familiare l’avevano abituato a svegliarsi al minimo accenno di qualcosa, per potersi allontanare di casa prima che la lite iniziasse. Quando Astrea gli si fece più vicina, a Severus occorse meno di un attimo per alzarsi di scatto in piedi, scrollandosi gli abiti come se avesse qualche insetto che gli ci camminava sopra – e forse doveva aver pensato che il tocco fosse proprio questo, vista la sorpresa che si dipinse sul suo volto pallido.
«Non volevo svegliarti» sussurrò Astrea, sollevandosi ed andando ad incrociare le gambe.
«Si può sapere che t’è passato per la mente, Black?» Severus era a disagio, la voce roca per il sonno, i capelli sfatti; la ragazza non staccava gli occhi da lui.
«Mi chiamo Astrea. Non è difficile, sai? Ripeti con me: A-st-re-a.» rispose lei, pacata e divertita, apparentemente indifferente ai modi bruschi del Serpeverde.
«Astrea, come vuoi tu, Black. Che volevi fare?» la sua voce era stridula, bassa e gracchiante, contro ogni logica quasi spaventata.
«Volevo abbracciarti» la diretta sincerità della risposta fece aggrottare le sopracciglia a Severus. Che sia impazzita del tutto, come suo fratello?
«E perché mai, Black? È un altro dei vostri» ed  indicò con un cenno della testa la porta «stupidi scherzi?»
«Ho avuto paura» attaccò Astrea «Non ora, ma da sempre. Un terrore così grande che non riuscivo più a sopportarlo… finché non siamo venuti qui. Ma non capisci, Severus? È questo che il… destino, o quello che vuoi… voleva! Il motivo per cui siamo qui. Tu puoi aiutarmi a superare le mie paure, io posso aiutarti a superare le tue» il tono era colloquiale, forzatamente calmo.
«Le mie paure? Andiamo Black, che ne puoi sapere tu delle mie paure?» la voce di Severus era bassa, una nota beffarda ben chiara.
«So che ti nascondi dietro quella cortina di ironia per evitare che tutti capiscano, che ti prendano per un debole. So che fai parte di quel… quel club messo su da Malfoy, nonostante senti di non appartenevi, nonostante li odi con tutto te stesso, quasi quanto odi mio fratello. So che li frequenti solo perché speri ti aiutino a diventare qualcuno… qualcuno di cui qualunque donna possa essere fiera, qualcuno che qualunque donna possa desiderare , o amare. Qualcuno che Lily Evans» Astrea pronunciò il nome dell’amica con astio, la gelosia nella voce «o una madre possa scegliere con orgoglio e amore. So che tua madre era una purosangue e che a diciassette anni, durante una vacanza, s’è fatta mettere incinta da un babbano che l’ha sposata per rimediare. So che sei un mezzosangue e so che tua madre piange in segreto maledicendo te e la vita che fa. So che se ne pente ma a te fa male ugualmente, come fanno male le urla dei tuoi genitori. So che il primo ricordo che hai sono le liti e so che fino a sei anni speravi di avere un fratellino, perché vi sareste difesi a vicenda. So che la tua famiglia ha il minimo per vestirsi e mangiare. So che odi mio fratello e i suoi amici e so che Sirius t’ha fatto quasi uccidere una volta, e immagino il motivo. So che qualche volta piangi, quando credi di essere solo, ma lo fai sempre più di rado ormai perché credi di non potertelo più permettere. So tutte questa cose da mia madre o da mio fratello o da Lily, perfino qualcuna dai fantasmi e dagli elfi domestici del castello. Quello che TU non sai è che io non c’entro niente con tutto questo… ma posso aiutarti!» concluse Astrea, la voce appena affannata.
Severus era rimasto in silenzio, mal dissimulando la sua sorpresa ed una certa, dolorosa vergogna. Quelle dichiarazioni, istintive e prive di pudore, gli avevano fatto montare la rabbia dentro.
«Puoi aiutarmi?» cominciò il ragazzo, il tono pericolosamente basso «ti sembra che abbia bisogno d’aiuto, eh, Black? Che cazzo ne sa una purosangue viziata delle realtà di un morto di fame mezzosangue? Come puoi solamente pensare di avere il diritto di rinfacciarmi la mia vita, e che io debba esserti grato di questo?» il tono si era fatto sempre più minaccioso, sempre più basso.
«Non ti rinfaccio nulla, Severus» un nervo nella mascella del ragazzo si contrasse ma non la interruppe «ti dimostro solo che so chi sei e cosa hai passato, quindi ho il diritto di poter parlare di te e le conoscenze e le certezze per dirti che siamo simili.» Astrea allungò una mano davanti a se, per bloccare la protesta che aveva visto nascere sul volto di Severus «Tu hai bisogno della solitudine ma ne hai paura. Io ci sono votata ma ne ho paura. Tua madre urla e piange la sua infelicità, la mia sta in silenzio ma i motivi sono gli stessi: lei odia mio padre ed odia se stessa e forse odia anche me e Sirius e Regulus. Tu sei intrappolato dalla vergogna dell’essere mezzosangue, io dalle costrizioni di essere una purosangue. Tu sei schivo e freddo, io sono solare e calda ma entrambi lo facciamo per paura e nessuna delle due cose funziona perché stiamo diventando qualcosa che non siamo realmente» Astrea fece una pausa e inspirò a fondo, come a tentare di recuperare un po’ del controllo che sembrava aver perso con quell’ultima affermazione «tu ami Lily, e so che ti ha fatto male quando lei ha detto di odiarti. So che hai sofferto quando lei ha scelto James. Ma, Severus,  hai provato a pensare che non fosse Lily la donna destinata a te?» Il tono di Astra era bizzarro: cadenze modulate eppure non dolci. Non era comprensione o accondiscendenza la sua, quanto una semplice spiegazione: logica come lui stesso era, e Severus ne fu suo malgrado catturato. Anche il viso di lei era strano: negli occhi neri, nella voce, c’era un qualcosa che Severus non aveva mai visto finora.
«E chi altra? Tu, forse?» ribatté, ostentando un’ironia e una sicurezza che non sentiva di avere.
«È esattamente quello che ti sto dicendo.»
«Tu sei matta, ragazzina!» sbottò Severus, guardandola per la prima volta negli occhi da quando avevano iniziato a parlare; e fu quello il suo errore. Nello sguardi di Astrea c’era la risposta che non avrebbe voluto sentire.
«Perché qui? Perché adesso? Andiamo, Blac… Astrea» fu quando la chiamò per nome che Severus capì di essere agli sgoccioli. Tentò l’ultima delle argomentazioni possibili «Ci sono altri due ragazzi di la. Prenditi uno di loro… perché io?» disse, il tono quasi supplice.
«No, tu non capisci. Io l’ho sognato, Severus. Ho sognato di Lui. Della Sua solitudine. Non vuole che finiamo così ed è per questo che mi ha spinto qui da te. TU, non loro! Non ci sono rumori qui, solo pace, solo silenzio… solo amore.» eccola di nuovo quella parola. Amore, pensò Severus, facendo scivolare quella vocabolo nella mente. Era nera, un’ombra nera ed irresistibilmente attraente.
Qualcosa di insano, di assolutamente giusto.
Severus guardò Astrea di nuovo negli occhi; erano scuri come le ombre e, per un secondo, si domandò se lo erano stati anche fuori di lì.
Poi non pensò più a niente.
Il cuore cominciò a battere forte; c’era una sensazione di vuoto nello stomaco simile ad una vertigine. E il desiderio, nero e caldo.
Fu quando le loro labbra si toccarono che capirono entrambi di essere nel giusto.
Astrea lo amava sinceramente, ora. E l’ombra ne era fiera
 
Qualcosa aveva cominciato a bussare sulla porta. Tonfi leggeri, dapprima, simili a quelli che potrebbe produrre un bimbo.
 
L’aveva portato all’ombra di un platano dalle foglie bianche. Era un albero vecchio e pallido, eppure il suo odore gli dava sicurezza. Il Lupo conosceva quel luogo.
Remus annusò l’aria: c’era un aroma strano che alla sua mente suonava come “casa”. Ma casa sua era lontana anni luce da Hogwarts.
È qui che sono nato, pareva dire la voce ferale del Lupo, priva di parole è qui che io e te siamo diventati uno.
Il sole scottava; nell’aria, migliaia di cicale lanciavano richiami, riempiendo il pomeriggio di suoni alieni e distanti. Sirius dormiva ancora.
Quando l’ebbe adagiato nella fresca trifoglina che ricopriva il terreno, umida di rugiada, Remus si rese conto di essere nudo.La trasformazione, si disse Sirius non ci farà caso. Eppure, la vergogna era per le cicatrici, non per la nudità in sé. Remus non le aveva mai mostrate a nessuno.
Passò la mattinata, con quella rapidità tipica dei sogni; venne il pomeriggio, afoso e tremendo: il sole seccava la terra al suo passaggio, tramutandola in un deserto crepato e sterile. Remus, nell’ombra del platano, sentiva le sue sicurezze svanire. Doveva svegliare Sirius, dovevano andarsene prima che fosse troppo tardi, o il sole li avrebbe inghiottiti.
Ma respirava ancora? Remus si chinò per esaminarlo. Aveva un buon profumo, l’odore della rugiada e quello di un’alba soleggiata nel parco dopo una notte di pioggia. Senza pensare, Remus si chinò a baciare l’amico.
Fu un bacio corto, meno del poggiarsi di labbra; ma quando Remus si risollevò non era cambiato nulla.
Stupido, cosa credevi sarebbe successo? Si domandò, scuotendo la testa. C’era una favola babbana, ma non ne ricordava il nome al momento…
Il cono d’ombra si restringeva sempre più attorno a loro, lasciando spazio a quell’infinita desolazione rossa. Ora, erano l’unica traccia di vita in mezzo al deserto.
Remus, in preda al panico, chiese aiuto al Lupo.
Ogni cosa ha il suo prezzo. Rispose la Bestia.
Poi scese la notte, e piovve. Come una pianta a lungo assetata, Sirius si risvegliò quando le gocce gli ruscellarono sugli occhi, sul viso, sul corpo.
Remus, sussurrò toccandosi le labbra laddove l’amico l’aveva baciato poco prima. Era bellissimo, Sirius; bello come mai Remus avrebbe potuto dire.
Il ragazzo si slanciò il avanti con foga e stavolta lo baciò con più ardore, un bacio vero, lungo, incontenibile. Sirius rispose e Remus si accorse solo marginalmente che ora erano entrambi nudi.
Fa che sia per sempre, se devi. Sussurrò Lupin, chiudendosi nell’abbraccio dell’amico. Non prendermi in giro.
Le foglie del platano si allungarono, distendendosi fino al suolo. Era un salice ora, un meraviglioso salice bianco.
Le cortine di foglie si chiusero, simili ad un baldacchino, celando i due ragazzi ed il loro amarsi.
 
Remus si svegliò con una certezza, la tenerezza del sogno ancora viva in lui.
Si alzò, lasciando James a contorcersi nel sogno, in preda a chissà quale incubo.
Doveva trovare Sirius.
 
I tonfi si erano intensificati fino ad un picchiare forte, come se qualcuno volesse avvertirli che c’era.
 
James li aveva seguiti ancora giù, fino al parco. Stanotte Remus e Lily si sarebbero amati sotto la luna.
 
Infine, c’erano stati i colpi secchi, l’odore di disfacimento.
 
Sirius si svegliò di soprassalto, lucido e pieno di dolore.
Astrea non lo farebbe mai, fu il suo primo pensiero.
Non diede tempo al tempo: Sirius non era mai stato un tipo paziente e quel ronzio sordo nell’aria, quei tonfi, quel caldo non facevano che acuire il suo carattere.
Uscì dalla piccola cameretta; nell’angusto salotto l’aria era viziata, stantia, come se ci fosse qualcosa di muffito chiuso in una credenza. Sirius non ci badò, registrando questi particolari solo in parte, marginalmente; due passi, quindi portò il braccio sinistro ad attaccarsi al fianco, il pugno stretto, indurendo il muscolo. Digrignando i denti, il ragazzo Black diede una spinta verso la porta della camera del baldacchino nero. Ed ancora. Ancora. Ancora.
Alla quarta spallata il legno cedette e la porta si aprì, catapultandolo nella stanza.
Astrea era sotto Severus.
Si baciavano, un lenzuolo a coprirli solo al limite della decenza. L’odore dell’amore permeava l’aria, simile ad un miasma per Sirius.
Il Mocciosus gliel’aveva presa; ridevano, nella sua testa, ridevano ed ansimavano e Sirius sapeva che lei amava quel piccolo verme unticcio.
«Sirius…» mormorò Astrea, la voce roca, mentre Piton rotolava su un fianco, coprendo entrambi con un gesto istintivo.
Sirius non rispose. Non sentiva più nulla se non il sangue che gli pulsava nelle orecchie a ritmo sempre più sostenuto.
Si voltò, incamminandosi verso la cucina.
 
Echi rimbombavano nella stanza, facendo tremare il legno dell’uscio.
 
L’aveva trovato, finalmente.
Remus non ce la faceva più. C’aveva messo tanto, oh, così tanto per capire cosa desiderasse che gli sembrava un crimine aspettare oltre.
«Sirius» lo chiamò Remus, sollevato, trovandolo nel cucinino intento a cercare qualcosa nei cassetti con frenesia «Sirius, che succede?» chiese poi, notando l’espressione sconvolta, quasi folle, dipinta sul volto del ragazzo. Sirius non rispose «Felpato, devo parlarti, fermati ti prego»
Sirius si bloccò. Tacque, poi con fulminea rapidità prese Remus per la collottola, sbattendolo contro uno scaffale della cucina.
«Io l’amavo, capisci? Io l’amavo nonostante tutto. Era mia sorella ma io l’amavo e l’ho sempre protetta e lei intanto scopava Mocciosus. PITON! Capisci cosa significa? Io l’amavo, cazzo, lo capisci?» aveva gli occhi folli, la voce rotta da qualcosa che poteva essere disperazione o furore. Si staccò da Remus con uno scatto sgraziato e lo lasciò lì. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione: un brillare metallico.
Remus registrò solo vagamente l’immagine di Sirius che si dirigeva verso la stanza del baldacchino nero, un coltello stretto nella mano.
Gli avevo detto di non tradirmi. Gli avevo confessato di amarlo.
Tutto ha il suo prezzo,sussurrava il Lupo, maligno.
Remus cominciò a scomparire.
 
Dentro, un sibilo basso, come se mille vipere sibilassero.
Gridava la cosa che c’era la fuori ma la sua voce era distorta, come se provenisse da una radio straniera mal sintonizzata. Tonfi alla porta.
Quell’essere voleva entrare.

 
L’atto finale… ascolta la mia melodia, uomo. Piangi, ridi, disperati, ama…
… muori.

 
 

 
*  Estratti da Potterpedia. Antares è una mia invenzione.
Siamo prossimi alla fine, ormai… cosa ci sarà oltre la porta, e perché vorrà entrare? Chi è l’ombra, cosa vuole?
E cosa faranno ora i nostri personaggi, finiranno in farsa o in tragedia?
A tra pochissimo miei lettori, e mi raccomando… ipotesi, domande, commenti, insulti… commentate insomma! Fatemi sapere che ne pensate :)
 
All’inizio: “Barrel of a gun”, Depeche Mode / “This Pictures”, Placebo / “Exo-Politics”, Muse

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Capitolo 9
*** IL MIO DICEMBRE ***


IL MIO DICEMBRE
 
 
“This is my December
This is my time of the year
This is my December
This is all so clear
This is my December
This is my snow covered home
This is my December
THIS IS ME ALONE

And I
Just wish that I didn't feel like there was something I missed
And I
Take back all the things I said to make you feel like that
And I
Just wish that I didn't feel like there was something I missed
And I
Take back all the things I said to you

And I give it all away just to have somewhere to go to
Give it all away to have someone to come home to

This is my December
These are my snow-covered trees
This is me pretending
This is all I need

And I
Just wish that I didn't feel like there was something I missed
And I
Take back all the things I said to make you feel like that
And I
Just wish that I didn't feel like there was something I missed
And I
Take back all the things I said to you

And I give it all away just to have somewhere to go to
Give it all away to have someone to come home to

This is my December
This is my time of the year
This is my December
This is all so clear

And I give it all away just to have somewhere to go to
Give it all away to have someone to come home to

 
 

Tutto era nebbia, vorticante e bianca.
E nella nebbia c’era il Lupo.
Dominava con il suo odore, con la sua voce – un ululato fondo e pieno di disperazione.
Tutto ha un prezzo, ripeteva.
Remus non era più padrone del suo corpo. Fluttuava nella nebbia come un fantasma.
Tutto ha un prezzo.
C’è Sirius. Si rotola su un prato con una bella biondina, senza pudore, senza riserbo.
Ti amo, le sussurra tenero; e suona vero, come quando l’aveva detto a lui sotto il salice, abbracciandolo forte. Ti amo come nessuno mai.
Alcuno pareva badargli: tutti guardavano qualcosa, così anche lo spettro-Remus si avvicinò, curioso
Tutto ha un prezzo.
C’era il ragazzo-Remus al centro della folla.Lupo, mostro, abominio, lo chiamavano alcuni. Frocio, checca, urlavano altri. Ma le facce erano le stesse: disgusto, paura, odio.
Tutto ha un prezzo.
Il ragazzo-Remus urlò.Sirius, diceva, perché mi hai tradito?
Lo spettro-Remus voleva piangere ma non aveva occhi per farlo. Voleva urlar, ma non aveva voce, né bocca, ne viso, ne corpo. Si limitò a fluttuare via, perdendosi, mentre la nebbia della Bestia lo avvolgeva, cullandolo, cullandolo
Tutto ha un prezzo.
 
L’odore di marcio era cresciuto; si diffondeva, mentre la luce mandava lampi al sapore d’ozono, affievolendosi con un sibilo sinistro.
La porta mandò uno schiocco sonoro, cominciando a creparsi.

 
James è appostato su un albero. Sa che gli farà del male vederli, che ogni loro gemito è un pezzo della sua anima che si disgrega, ma non può farne a meno. Vuole distruggersi perché, senza di lei, che senso ha tutto il resto?
Remus la sta amando ma c’è qualcosa di diverso, James lo sa. Lunastorta – e che strano chiamarlo così, quasi che ancora fossero vecchi e innocenti amici - è quieto e placido perfino mentre fa l’amore; eppure ora è agitato, lo stesso atto è carico di una sorta di violenza frenetica.
Lily si dimena, lo chiama amore poi tesoro poi Remus, gli chiede di smettere, le dice che le fa male.
Infine, Lily urla.
James muore in ogni colpo degli artigli del Lupo, muore mille volte e l’ultima insieme a Lily.
Lui, James, non le avrebbe mai fatto questo; lui l’avrebbe protetta.
James SA che non può permettere che accada davvero.
 
C’era qualcuno che gridava là fuori e James sapeva chi era.
Non posso permettere che accada,si disse, prendendo lo specchio dalla parete e frantumandolo al suolo
Con una scheggia in mano usci nel salotto.
 
Rumore di legno contro legno.
Le pareti trasudano umidità, puzzano di muffa e sudore e dolore. Si fanno scure ma nessuno le nota perché è calata la notte.
C’è una luce sola adesso, il chiarore pallido di una luna piena.
La porta scricchiola cedendo un poco, crepandosi ancora.
Sta arrivando.
 

Sirius si avventò su Severus che, in piedi al lato del letto, cercava di riallacciarsi i bottoni della camicia bianca, la cravatta di Serpeverde dimenticata sulle lenzuola. Come se rivestirsi possa cancellare quello che ha fatto, sussurrava una voce infida nella testa del Malandrino. Una voce nera.
Sibilava, quella cravatta - o era solo Sirius ad avere il sibilo di mille serpenti nella testa?
Opera di Mocciosus.
Sirius voleva sfregiarlo, ridurre quel corvo unticcio ad un ammasso informe di carne e sangue, ma si trovò davanti Astrea; sua sorella lo prese per un polso, fermando la lama del coltello prima che le calasse sulla guancia.
«Fratello fermati! Sei impazzito per caso? Che caz…» ma Sirius l’aveva già colpita alla tempia col pugno libero.
 
Schegge volano nell’aria. Qualcuno ride, qualcuno grida, una voce ignota chiama nella lingua dei demoni, dall’altra parte della porta.
Un grosso frammento di porta colpisce l’essere i trasformazione ma questi non lo sente. Non sente nulla, ormai.

 
James uscì dalla stanza proprio mentre un’ondata di polvere e schegge ruscellavano dalla porta. Non vi badò, storcendo appena il naso all’odore umido di muffa ed ozono. Aveva visto Remus, per metà già Lupo.
«Hai ucciso Lily, mostro! Ma non ti permetterò di farlo ancora.. lei è mia! Mia! MIA! » urlò James avventandosi su Lupin, il pezzo di specchio che feriva la sua mano penetrando nella pelliccia del braccio del Lupo; che uggiolava, colpendo l’aria con le unghie del ragazzo che era.
 
La maniglia salta, attraversando l’Ombra. È dovunque, ora. Scivola su ognuno di loro, legandoli con tentacoli di tenebra invisibili.
Anche l’Ombra sa che il tempo è agli sgoccioli.
Qualcosa sta arrivando.

 
Sirius scavalcò il corpo privo di sensi di Astrea, negli occhi una furia nera, cieca. Sollevò il coltello cercando di colpire Severus, che agitò la bacchetta dinnanzi a sé in un gesto istintivo.
Crack.Il coltello tranciò di netto il legno facendone volare fuori sparuti peli di unicorno. Severus lasciò cadere quel moncone di legno ormai inservibile con terrore per darsi poi ad una fuga sconnessa, saltando sul materasso allo scopo di mettere il letto di distanza tra sé e il ragazzo Black.
Sirius si slanciò in avanti grugnendo, ferendosi all’avambraccio nella foga di colpire Piton; ed ecco, gli afferrò un piede, iniziò a tirare con un grido disarticolato di gioia e furore. Severus urlò.
 
La porta d’ingresso cedette con un botto fragoroso, scaraventando nella stanza schegge di legno e polvere.
 
Una folata di vento fresco colpì Sirius che si fermo, il coltello ad un centimetro dal polmone destro di Piton.
 
L’ombra urlò, frustrata, ritirandosi piano dalla mente dei giovani.
 
Un ragazzo sormontava il Lupo, tenendogli l’arto superiore ferito attorno al collo, tentando di strangolarlo. Le unghie del Mostro gli erano entrate nell’avambraccio.
Qualcosa - qualcuno! - si stagliava sulla porta, nero contro la luce pomeridiana che entrava dalle finestre, avvolto dalla polvere.
Odore di nuovo. La stanza si illuminò repentinamente.
La figura parlò.
 
Lui si riveste in fretta. La Ragazza dorme ma a lui non interessa ora; quel posto è molto più allettante.
Sfiora la copertina di un libro, togliendolo dallo scaffale. Dentro, tutte le pagine sono bianche. Anche il calamaio sulla scrivania è finto, la piuma è attaccata alla boccetta. La casa delle Illusioni, la chiama, compiacendosi della propria arguzia.
Sposta una sedia; un mugolio assonnato, un fruscio. La Ragazza si è svegliata, si tocca la testa.
«Post sbornia» le sussurra lui, senza dolcezza; non ne ha più bisogno, da lei ha già preso tutto quello di cui aveva bisogno «Vedrai che ti passerà presto, domattina sarai come nuova… più o meno» sogghigna. Si, è decisamente arguto.
La Ragazza pare confusa. Sbatte le palpebre, si guarda intorno quindi, accorgendosi di qualcosa, si copre repentinamente i seni con gli abiti, lanciando un grido orripilato.
«Si, abbiamo fatto sesso. E no, non ti ho Schiantata e trascinata qui, ci sei venuta con le tue belle gambine, di tua spontanea volontà» ha risposto troppe volte a questa domanda. È stufo e tutto li è più interessante che parlare con lei.
«O… ok» sussurra la Ragazza, incerta; e non demorde «quindi noi…»
Tipico delle donne, pensa lui con cinismo.
«Vedremo.» risposta standard; domani lui sarà già sparito, intento a cercarsene una nuova. Gli piacciono le sfide; e non c’è soddisfazione ad esplorare territori già conosciuti. «Ora sta zitta e guardati intorno. Potresti imparare qualcosa se ti applichi»
La Ragazza lo ignora. Ha realizzato dove sono e questo le fa lanciare l’ennesimo gridolino spaventato.
«Hey, noi ce ne dobbiamo andare di qui. Subito! Se ci scoprono… il professor Serpeverde come punizione appende gli studenti per i pollici nei sotterrai, mi hanno detto, e…» s’è alzata, iniziando a vestirsi di corsa.
«… e li fa frustare dalla sua squadra di folletti addestrati, mmh? Stupidaggini. E comunque non ce ne possiamo andare. Non fino al pomeriggio, quando verranno a ritirare quegl’altri idioti che si sono fatti spedire in punizione qui» gelido. Quella Ragazza gli sta davvero dando sui nervi «Rilassati. Spogliati ancora, appena ho finito di vedere cosa c’è qui ricominciamo, tesoro» tenta di essere dolce ma non gli riesce. Territorio già esplorato, pensa. Ma è meglio di niente, dopotutto.
«Io… no. Io me ne voglio andare, voglio…»balbetta, e solleva la bacchetta. Lui comincia a ridere forte adesso.
«Stupida ragazzina bionda. Capisco che pensare non è il tuo campo, ma almeno questo… anche un’oca se lo sarebbe ricordato, sono settimane che lo ribadiscono. Qui dentro la tua magia non funziona» ride. Ha una risata fastidiosa, carica di derisione e crudeltà. La Ragazza scoppia in lacrime, visibilmente imbarazzata, umiliata. È lì che lui perde la pazienza. «Se devi frignare, vattene! Trova l’uscita da sola, sbatti la testa contro il muro per vedere quale si frantuma per primo, ucciditi… ma per favore smettila di frignare! Mi dai sui nervi. E dire che sei stata una così bella scopata… dovresti limitarti ad aprire le gambe e chiudere la bocca, tanto non ne esce nulla di buono…»
Il calamaio fasullo gli arriva in testa, facendo morire le sue risate di scherno. Si adira «Puttana» le urla, allontanandosi fuori traiettoria. La Ragazza piange ma lui ha la casa ora.
Vaga per i corridoi seguendo un percorso poco dissimile a quello che loro - Astrea ed i Malandrini - percorreranno negli anni a venire.
La Ragazza resta ferma lì, in quella stanza, in angosciosa attesa. Piange. Astrea segue lei; la ripugna sapere che condivide i ricordi di quel mostro senza cuore.
Le ore si allungano, distendendosi come le ombre proiettate dalle finestre: una luce antica, come se filtrasse attraverso un foglio di carta velina ocra.
Un rumore, voci. La porta principale si apre. La ragazza corre lungo il corridoio, grata che sia tutto finito; ai professori racconta di essersi persa nella foresta la sera prima mentre, ubriaca, vagava. Avrà una punizione, le dicono, ma il suo cuore gioisce nel lasciare la casa senza di lui.
Domani inizieranno le vacanze di natale e lui non tornerà a casa. Gliela farà pagare, oh si, a quel bastardo.
Quando si accorgono che lui non c’è è già passato troppo. Trovano quello che ne resta nella casa e l’esperimento finisce lì. L’accesso a quell’ala della foresta è proibito, il sentiero ricoperto di rovi, incantesimi e massi.. ma la casa non è vuota.
Lui non è mai risalito da quei corridoi; continua a vagare, senza corpo, senza voce, mentre gli anni passano, i ricordi sbiadiscono. Perfino il suo nome scompare, facendo restare solo l’Ombra, padrone incontrastata di mura e polvere.
Ma Astrea ricorda, Astrea SA.
Era Gabriel, una volta… come l’angelo… ma lui è un demone oramai.
Ed ha dei nuovi giocattoli, i primi da secoli.
 
Qualcosa trascinava Astrea.
C’era povere nell’aria, odore di muffa e di chiuso… ma meno intenso, ora. Una corrente d’aria fresca trasportava la luce viva del pomeriggio (o è il contrario?). Astrea aveva i piedi scalzi e una scheggia di legno conficcata in una caviglia ma non le importava. C’era l’Ombra addosso a lei, le proiettava nella testa ricordi e visioni. Un momento prima era nella biblioteca, un attimo dopo nella stanza polverosa.
Fu solo quando si trovò in corridoio che la sua mente iniziò a funzionare per bene; quando venne portata alla luce, scaricata malamente sul freddo pavimento dell’androne, qualcosa urlò, il grido straziante di miliardi di zanzare che riempiva l’aria - o era solo nella sua testa?
La ragazza si tirò in piedi, iniziando a scrollarsi i capelli e la pelle come se avesse insetti che le camminassero addosso.
Poi Astrea ricordò: c’era qualcosa là fuori.
Gabriel.
«Astrea?» domandò una voce familiare. La ragazza si voltò, registrando solo un attimo più tardi a chi quel tono appartenesse.
«Peter?» domandò lei, sgranando gli occhi. Era proprio Codaliscia, in tutta la sua poco imponente, rotondeggiante figura. Le tendeva una mano quasi con cortesia. È finita? Sono uno spettro anche io, dunque? si chiese; ma aveva troppa paura per esprimere il pensiero ad alta voce.
Doveva essere indietreggiata poiché la sua schiena urtò contro qualcosa di duro; sollevò gli occhi, incontrandone un paio viola come i suoi: Sirius le restituì un sorriso forzato. Aveva un livido sotto l’occhio sinistro ed una ferita alla mano ma era illeso.
«James!» fece Sirius, il tono divertito, voltandosi a guardare qualcuno oltre le spalle di Minus.
«Sirius quanto tempo» gli rispose la voce di Ramoso, stanca ed ironica «ma che piacere rivederti sano di mente e corpo»
«Touchè» Sirius abbassò il capo, inchinandosi con uno svolazzo della mano «Remus, non ti unisci al coretto?»
Sollevata, Astrea si volse a cercare gli altri: eccoli, Remus alla fine di uno sbuffo, con le vesti lacere ed un taglio su un braccio, Severus bianco come un cencio - più bianco del solito, commentò una vocina maligna nella sua testa, rassicurante: la voce di Sirius. Toh, non l’avrei mai creduto possibile! Ti devo un drink, sorellina -, James con le lacrime agli occhi ed un braccio sorretto dall’altro, i segni di un brutto morso visibili dal polso al gomito; e Peter, infine. Fu a quest’ultimo che la ragazza si rivolse.
«Tu dovresti essere morto» era illogica, Astrea lo sapeva, eppure tutto quello che aveva visto era talmente privo di fondamento che ormai non temeva di scadere nella banalità.
«A quanto pare, no» Peter sollevò le spalle in un gesto di noncuranza, troppo nervoso per apparire realmente distaccato.
«Ma io.. noi… ti abbiamo sentito gridare e tu… tu ci hai lasciati chiusi li dentro, cazzo! Per oltre un mese ci hai lasciato in balia di quel… quella COSA! Senza cibo, senza magia! Cosa cazzo pensavi di fare?» il tono della ragazza era passato dalla preoccupazione all’ira in meno di un secondo. Astrea si alzò in piedi, andando a fronteggiare Minus naso a naso.
«Astrea…» Cominciò Remus, col il tono da frate gentile che preannunciava ramanzine.
«Zitto, te! Ha da rispondermi lui!» tuonò, prendendo per il bavero della camicia un terrorizzato Peter «Rispondi, topo» intimò, il tono che non ammetteva repliche. Minus prese un respiro profondo.
«È che… io avevo qualcosa in me, come… un’ombra che mi spingeva a condurvi qui… che mi disse di farvi restare, che mi indusse a chiudervi fuori… ma quando uscì dalla stanza… quando quest’ombra mi abbandonò… ho auto paura, Astrea, amici miei! Sono corso via, ma non potevo… la porta d’ingresso era chiusa e anche le fineste e allora ho capito... non sarei stato capace di lasciare questo posto senza di voi! Vi giuro, sono rimasto a vegliare davanti a questa porta per tutto il pomeriggio, aspettando che voi usciste. Poi ho cercato… c’era una tavolinetto al piano di sopra, e non sapete che fatica ho fatto, ma non riuscivo ad aprire la porta e… la notte… coff… paura… i rumori che facevate…» Peter stava annaspando, mezzo soffocato dalle parole e dalla stretta di Astrea sulla sua camicia «non resp…respir… coff… Astrea non potres… potresti…»
«Lascialo andare sorellina o avremo davvero la sua vita sulla coscienza» Sirius si distese contro il muro, prendendo fiato. Astrea sciolse piano le dita dalla morsa, concedendosi un sorriso.
Fu allora che la porta esplose.
 
Una voce tonante e stridula allo stesso tempo riempiva l’aria, il volume della voce che si abbassava ed alzava come se provenisse da una radio ed un bambino stesse giocando con le manopole.
Non avete il permesso. La casa è morta, Loro sono morti, resto solo io. E voi.
Non avete il permesso.
Gabriel.
Astrea trattenne il fiato, poi iniziò a correre. Prima che potessero fermarla era tornata fra la polvere nera e vorticante della stanza.
 
C’era un rombo di fondo, come una musica tutti bassi attutita dalle pareti di una camera; rimbalzava nel fumo e nell’oscurità, confondendo i sensi.
«Non potevi uscire senza il permesso dei presidi» Astrea aveva cominciato a gridare, girandosi attorno, cieca, nella speranza di distinguere qualcosa «era magia antica, la loro. Non potevi andartene e per quanto tu abbia tentato di lasciare questo posto sei morto qui. Era il loro incantesimo, e non puoi andartene… ma noi non faremo la tua stessa fine. Mi hai capito, Ombra? Questo è il tuo incantesimo e puoi scioglierlo. E lo farai» aveva parlato con decisione ma il cuore le martellava in gola.
In cambio di cosa, ragazzina?
«Del tuo nome» Respirare le era difficile; l’aria era satura di umidità, come in una sauna, e calda. Torrida.
L’ombra tacque, vorticando in spirali concentriche attorno ad Astrea, che incrociò le dita, sperando con tutta la forza che aveva.
Non è possibile. Non puoi conoscerlo.
«Lo è. Sono stata te, nei miei sogni. Conosco la tua storia, i tuoi pensieri ed anche il tuo nome. Tu giurerai, con e sulla tua magia. Ci lascerai andare» le ultime parole le erano uscite come in un rantolo. Astrea si portò una mano al petto, i respiri strozzati. Sudava copiosamente, la pelle guizzante e sensibile come se fosse sotto l’influsso di una forte febbre.
Non resterò solo
«Giura» era cianotica. Il suolo le venne incontro, sbattendo contro le sue ginocchia. Era molle e viscido e sotto la moquette qualcosa di innominabile si contorceva, strisciava.
NON RESTERÒ SOLO! urlò l’Ombra, assordandola.
«Che… che altro vuoi?» sussurrò la ragazza, storcendo il volto.
L’ombra non parlò più ma Astrea conosceva già la risposta.
 
«Gabriel.»
L’aveva chiamato con l’ultimo respiro, accettando il patto.
 
  
 


Piccolo spazio-me: tranquilli, non dovrete attendere un’altra settimana per sapere cosa succede. Questo capitolo e l’altro sono… diciamo, un'unica realtà, divisi solo per un fattore estetico, di forma.
A tra poco!
 
Sopra: “My December”, Linkin Park

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Capitolo 10
*** EPILOGO ***


EPILOGO

  

La mia storia e qua, canto di gioia e sono pronto a tutto
La mia storia e là, canto di gioia e sono pronto a tutto

 

“Questo è il mio dicembre 
Questo è il mio periodo dell'anno 
Questo è il mio dicembre 
Tutto questo è così chiaro 

Questo è il mio dicembre 
Questa è la mia casa coperta di neve 
Questo è il mio dicembre 
Questa sono io, da sola 

Ed io desidero solo non pensare 
come se ci fosse qualcosa che ho voluto dimenticare 
Ed io ritiro le cose che ho detto per farti sentire così 
Ed io desidero solo non sentire 
come se ci fosse qualcosa che ho voluto dimenticare 
Ed io ritiro le cose che ti ho detto 

Ed io darei via tutto solamente per avere un posto dove andare 
Darei via tutto per avere qualcuno da cui tornare a casa 

Questo è il mio dicembre 
Questi sono i miei sogni ricoperti di neve 
Questa sono io che fingo 
Questo è tutto quello di cui ho bisogno

 
Ed io darei via tutto solamente per avere un posto dove andare 
Darei via tutto per avere qualcuno da cui tornare a casa” 

 
Canta la Bianca figura, sola nella neve.
  

Uscendo dalla stanza Astrea aveva alzato una mano, sedando la valanga di domande.
«Venite» aveva sussurrato solo, prendendo Severus per mano ed incamminandosi lungo il corridoio, verso le scale. Dopo, non aveva detto una parola fin quando la porta d’ingresso non era apparsa dinnanzi a loro.
Era aperta.
Fuori nevicava; almeno dieci centimetri di bianco soffice nascondevano il suolo, ammantando tutto in un ovattato silenzio. C’erano delle orme di volpe, due metri distanti. Nessun suono turbava la foresta. Astrea si voltò verso Sirius.
«Ascoltami bene, fratellino. Lui è la casa adesso; la casa, la magia, la trappola. Non ci avrebbe mai lasciati andare, lo capisci? Non vuole rimanere solo» la ragazza aveva preso il volto di Sirius tra le mani, guardando suo fratello negli occhi un’ultima volta. Non avrebbe pianto: i Black erano una razza forte.
«Resto io» si era offerto suo fratello, senza pensare. Astrea sorrise. Non pensa mai.
«Questa tua avventatezza ti farà male, un giorno. Sirius, abbiamo già deciso» lo disse con una calma innaturale, poi abbracciò il fratello, tenendolo stretto a sé come fosse l’unico appiglio saldo in un mondo in sfacelo «abbi cura di te Sirius, e di Regulus… ti prego» sussurrò con tutta la tenerezza che aveva in corpo.
«Tu non rimarrai qui» fece Sirius. Non c’era più, in lui, nessuna traccia dell’amore malsano che
l’ombra gli aveva infilato nel cuore: tutte le illusioni che lo spettro aveva creato per loro erano svanite una volta fuori dalla stanza. Ora era solo l’affetto genuino e puro per una sorella a riempire la voce e il cuore di Sirius; ed Astrea lo sapeva. Percepiva parte delle nere connessioni che Gabriel aveva creato nella casa. Ne avrebbe sostituite molte, decise: e le sue sarebbero state argentate.
«Sirius, io già ci sono. E se voi non andate, lui vi farà dimenticare. Ed i vorrei che almeno il mio ricordo sopravvivesse»
Nessuno parlò. C’era una catena nera intorno alla vita di Astrea, fatta di fumo ed umidità, ed ora tutti potevano vederla.
Sirius chinò il capo.
«Torneremo» le disse solo «ti voglio bene, sorellina»
 
Nella stanza tutto è buio. Astrea crede di essere morta ma qualcosa di doloroso, nel petto, le dice che non è così.
Respira.
L’aria è più leggera ora. Davanti a sé c’è un ragazzo della sua stessa età; sembra una fotografia in bianco e nero eppure è reale e si muove, vortica nel vento come fumo. Ha le fattezze del giovane del suo sogno ma muta, diventa il Lupo e poi Sirius e James e Severus… poi lei.
Il suo cuore da un battito feroce.
Vede sé stessa cingerle attorno qualcosa e poi abbassarsi e posarsi un bacio sulle labbra.
Sa di polvere ed umido, come se baciasse un posacenere.
Astrea parla. So cosa vuoi, dice.
L’Astrea-ombra sorride. Tutto ha un prezzo.
Sei stato pagato, conclude la ragazza e Gabriel scompare.
La stanza si riempie d’argento per un istante, poi nulla.
È ora di dire addio.
 
Severus non la guardò mai, andandosene, ma Astrea l’aveva sentito, chiaro come se il Serpeverde gliel’avesse gridato in faccia.
L’ombra non aveva mai toccato Piton; ogni cosa lui avesse provato era reale.
 
James portava Remus in spalla, cercando di mitigare il senso di colpa per aver tentato di ucciderlo e quello, più sordo, per aver pensato che urgeva trovare all’amico una donna. James non credeva che Remus avrebbe mai potuto rubargli Lily; ma prevenire era meglio che curare.
I due malandrini scambiarono con Astrea un abbraccio veloce: nessuno dei due aveva dimestichezza con gli addii.
 
Peter le lasciò un quadernetto. C’era una loro foto animata scattata sul treno, all’inizio dell’anno. Salutavano allegri, la campagna che sfrecciava alle loro spalle, oltre i finestrino mezzo aperto.
Per la prima volta nella sua vita Astrea provò affetto per Peter.
 
Sirius non le disse altro.
Scomparvero tutti e quattro nella neve lasciando Astrea appena oltre la soglia, a guardarli allontanarsi in silenzio. Rimase lì anche dopo che la neve aveva inghiottito le loro orme, con le guance arrossate dal freddo e l’orlo della divisa che si inzuppava nella neve.
 
Passavano gli anni ma attorno alla casa c’era sempre la neve.
Indossava un vestito argentato stretto in vita da una catena d’ombra, con le spalline fine e di raso morbido: si agitava al vento mentre, a piedi nudi, osservava lo spiazzo davanti alla casa. Non lasciava impronte sulla neve e il freddo pareva non toccarla.
Erano invisibili. Branchi di centauri le passavano accanto sfiorandole gli abiti con la punta delle criniere, senza percepire la sua presenza. Una volpe d’argento annusò ai suoi piedi quindi proseguì, confusa. Bianca come la neve, Astrea era la regina di un mondo silenzioso racchiuso in un eterno inverno gelido.
Si chiese se fosse lo stesso di allora, o un nuovo inverno; ma infondo non le importava.
È mio, che importa?
Il mio dicembre.
 
Era ancora il 20 dicembre 1977. Per Astrea lo sarebbe stato in eterno.
 
 


- Fine -

 

 


Piccolo Spazio-Me: Mi prendo le ultime due righe per ringraziare chi mi ha seguita fino in fondo. È soprattutto per voi –e grazie all’entusiasmo di Isa e Dia - che ho trovato la voglia di continuarla; odio le fic incompiute, soprattutto quelle a cui mi sono appassionata e che meritavano davvero, per cui ho voluto che anche questa avesse una fine – una fine degna di lei e non un veloce contentino perché nonostante tutto le sono affezionata.
Mi sono divertita a scriverla ed ho amato i personaggi con tutto il cuore, per come hanno deciso di evolversi; spero che anche voi vi siate divertiti a leggerla!
Giusto.. se ve lo chiedete, Sirius e co non sono mai andati a prenderla perché Gabriel non ha mantenuto la promessa: in breve, si sono dimenticati di lei una volta usciti da quella casa.
Ok, credo di aver detto tutto, quindi… spero ci rivedremo presto :) avrei una mezza idea di darle un seguito, ma aspetto che siate voi a dirmi se lo volete o meno!
 
“Canto di Gioia”, Litifba / “My December”, Linkin Park, la canzone da cui tutto ha avuto inizio!

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