I Custodi delle Chiavi del Tempo

di Moony3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sogno di Cormiac ***
Capitolo 2: *** Il ragazzo che sussurrava ai serpenti ***
Capitolo 3: *** Il discepolo inesistente ***
Capitolo 4: *** L'Orda del Tempo ***
Capitolo 5: *** L'importanza di chiamarsi Al ***
Capitolo 6: *** La settima Chiave ***
Capitolo 7: *** La capanna dello zio Al ***
Capitolo 8: *** L'Eleganza del Lupo - prima parte ***
Capitolo 9: *** L'Eleganza del Lupo - seconda parte ***
Capitolo 10: *** Il licantropo, la strega e l'armadio ***
Capitolo 11: *** Teddy Lupin e la Chiave del Tempo ***



Capitolo 1
*** Il sogno di Cormiac ***



Per la serie: a volte ritornano... eccomi qua. Con una nuova storia.
Una storia che richiede qualche premessa, mi sa.
Perché è una specie di esperimento ed è un po' complicata da "presentare".
Per svariati motivi... 
- Questa storia è un Antefatto della mia precedente long fiction "La Chiave del Tempo" (ed è dedicata a tutti coloro che, sorprendendomi non poco, hanno mostrato di gradire il mio precedente "delirio" e mi hanno chiesto informazioni sull'oggetto che gli ha dato il titolo) quindi, essendo un Antefatto, può essere tranquillamente letta anche da chi non conosce "La Chiave del Tempo".
- Questa storia è nata con il preciso scopo di spiegare come una Chiave del Tempo sia potuta arrivare tra le mani di Ted Remus Lupin. Si conclude infatti nello stesso istante in cui comincia "La Chiave del Tempo".
- Questa storia è composta da dieci capitoli (compreso questo) che, pur essendo strettamente collegati l'uno all'altro, potrebbero, in un certo modo, essere considerati "autosufficienti". Nel senso che ogni capitolo si svolge in un anno ben preciso, raccontando un episodio che aiuterà il Caso (o il Fato, o la Fortuna, o quello che preferite) a portare una delle Chiavi tra le mani di Ted Remus Lupin.
- Questa storia non ha, per i motivi spiegati qui sopra, un protagonista vero e proprio. Ne ha diversi, e molto variegati, anche: i Custodi delle Chiavi del Tempo, appunto.
Alcuni sono famosi (ma non troppo, tra i protagonisti principali non troverete Harry, Ron o Hermione, per intenderci) altri sono stati soltanto nominati da J.K. Rowling (un esempio su tutti, il sorprendente zio Alphard... che ha sorpreso me per prima: mai mi sarei aspettata di coinvolgerlo in una delle mie storie e invece...) altri ancora sono stati totalmente inventati da me (eh, dove J.K. è stata avara di informazioni ho dovuto supplire in qualche modo).
- Questa storia copre un arco di tempo lunghissimo (20 secoli, per la precisione) e mi sembrava carino caratterizzare in qualche modo le diverse epoche, giusto per far percepire lo scorrere del Tempo. Io ci ho provato... se ci sia riuscita o meno non sta a me dirlo.
- Questa storia è strettamente legata al Tempo ma, a differenza del suo "Seguito", non racconta di un Viaggio nel Tempo: è un Viaggio nel Tempo. 
Quindi preparatevi a girovagare tra i secoli, guidati da personaggi - a volte amabili altre meno- che vi permetteranno, cortesi, di sbirciare nelle loro vite.
Perché, tra le altre cose, questa storia è stata anche la scusa ideale per soddisfare la mia capricciosa curiosità e tentare di ipotizzare quello che potrebbe essere successo (anche molto) prima degli avvenimenti raccontati da J. K. Rowling.
Quindi, se anche voi siete afflitti dalla mia stessa capricciosa curiosità, liberate la fantasia e godetevi la prima tappa di questo (non così) lungo viaggio sulle tracce de "I Custodi delle Chiavi del Tempo".






Prologo

Il sogno di Cormiac



Britannia, Ante diem sextum Nonas Maias 811 ab Urbe condita. *  

Il ragazzo si raggomitolò su se stesso, stringendo tra le mani il medaglione caldo e pulsante che portava al collo.
Nel tentativo di riprendere fiato inalò a pieni polmoni l'aria fresca, profumata di resina e di erba, e serrò gli occhi, desiderando ardentemente che il mondo smettesse di vorticare come una delle trottole che, quando era piccolo, gli costruiva il nonno.

Un improvviso scalpitare di zoccoli lo riportò al presente.
Letteralmente.
Per qualche astruso motivo la cosa lo fece sorridere: trovava molto gradevole il concetto di presente, al momento. E molto rassicurante, anche.
Chiedendosi un po' smarrito che fine avesse fatto il canto dolce e misterioso che aveva riempito le sue orecchie fino a qualche istante prima, il ragazzo tentò di aprire gli occhi.
Impresa difficilissima.
Non si era mai sentito tanto stanco in vita sua. Né tanto confuso. 
Stava cercando di ricordare perché una parte di sé gli stesse suggerendo di essere contento di quello che aveva appena fatto - cosa non semplice tenuto conto che, al momento, aveva qualche problema persino a ricordarsi il proprio nome - quando una mano lo afferrò per la tunica di lana grezza sollevandolo di peso da terra. E scuotendolo con un'energia quanto meno inopportuna, a suo parere.

«Aulo, hai l'intelligenza di un Troll di Montagna!» tuonò una voce roboante risolvendo, se non altro, la questione del nome.

Aulo riconobbe subito quella voce, caratterizzata dal buffo accento tipico della gente che popolava quel desolante luogo privo di palazzi di marmo e di Terme degne di questo nome.
Apparteneva al suo nuovo maestro, quella voce.
Un gigante strambo - si ostinava a portare i lunghi capelli color paglia acconciati in trecce, come una donna - che si occupava di cose altrettanto strambe.
E parlava di cose strambe, anche.
Solo Minerva sapeva, ad esempio, cosa potesse essere un Troll di Montagna.
Aulo non ne aveva la più pallida idea, ma sospettava non dovesse essere qualcosa di particolarmente intelligente.
Sospirando, il ragazzo si sforzò di aprire gli occhi, chiedendosi per l'ennesima volta perché quel grosso pazzo si fosse tanto intestardito nel prenderlo con sé.
Forse perché anche a lui capitava di fare, di tanto in tanto, cose strambe, dovette ammettere con un certo disagio.
Come saltare torrenti o abbattere suo fratello Tiberio semplicemente desiderandolo. Comodo, certo... ma strambo.
Richiamando ogni oncia dell'energia che gli rimaneva il ragazzo riuscì finalmente ad aprire gli occhi, pentendosene all'istante.
Il volto barbuto del maestro era inquietante già di suo.
Aulo faceva davvero fatica ad abituarsi alle lunghe barbe, spesso decorate da assurde treccine, che nascondevano i menti degli uomini di quella terra triste e nebbiosa. Per non parlare dei disegni blu che ornavano, a volte, i loro visi.
Il suo maestro non aveva disegni blu, ma aveva gli occhi di quel colore e ad Aulo sembravano strani anche quelli. Sbagliati, in un certo senso. Sbagliati come quella terra in cui suo padre lo aveva portato a forza un paio di anni prima.
Occhi sbagliati e inquietanti. Se poi lampeggiavano anche di rabbia come in quel momento...
Aulo non aveva mai visto nulla di più terrorizzante, nei suoi quattordici anni di vita. Neppure Tiberio che sbaciucchiava Lucilla poteva competere.

«Si può sapere cosa ti è venuto in mente? Giocare con una Chiave del Tempo! Sciocco marmocchio! Si vede che il caldo sole di Roma - che tanto rimpiangi - ti ha cotto quello che dovresti avere, da qualche parte, in quella testa dura!»

Aulo sbatté le palpebre, cercando una motivazione plausibile.
Era bravo a inventarsi motivazioni plausibili. Ma ci ripensò, ricordando perché aveva deciso di giocare con quel grosso medaglione che il suo Maestro chiamava Chiave del Tempo.
Scosse il capo e, stringendo convulsamente tra le mani l'oggetto in questione, sorrise: aveva salvato il padre! Lo aveva fatto davvero! Aveva impedito a quei quattro barbari dipinti di blu di ucciderlo nell'imboscata tesagli, in quella stessa radura, mentre tornava da un viaggio a Lundinium**.
«Dovevo salvare mio padre. Missione compiuta» proclamò quindi compiaciuto, fissando fiero gli occhi chiari del maestro.
«Dovevi...» l'uomo lo guardò allibito. Una scintilla di comprensione smorzò per un istante la rabbia che gli deformava il viso. Poi proseguì, incerto. «Ma tuo padre sta benissimo. L'ho visto qualche istante fa. E' venuto a cercarti per proporti di accompagnarlo a pescare».
Aulo sorrise radioso e si agitò nella stretta dell'uomo. «Ora sta benissimo. Te l'ho detto: missione compiuta! Non ho permesso a quei quattro... er... Troll di Montagna dipinti di blu di toccarlo!»

«Il puledro dice il vero, Cormiac».

Aulo sobbalzò al suono di quella voce profonda, piacevolmente sorpreso dal raffinato accento che ricordava molto quello di Asklipios - il suo vecchio maestro greco - e un po' irritato dal termine che il proprietario della voce in questione aveva usato per riferirsi a lui: puledro?
Afferrando i polsi del maestro, che ancora lo teneva per la tunica impedendogli di toccare terra con i piedi, il ragazzo girò il capo, intenzionato a scoccare un'occhiata di dignitosa disapprovazione allo sconosciuto, ma riuscendo solo a fissarlo con aria probabilmente un po' ebete: bocca spalancata e occhi sgranati per l'assoluto stupore non aiutavano a esprimere dignitosa disapprovazione, purtroppo...
Usare una Chiave del Tempo non doveva essere salutare.
No davvero. Dava le allucinazioni. Come il succo dei papaveri.
Non era proprio possibile che a parlare fosse stato un...
Aulo lasciò i polsi del maestro e si sfregò gli occhi con energia.
Per tutti i fulmini di Giove Tonante, sembrava proprio una di quelle creature di cui gli aveva parlato Asklipios.
Un... centauro, ecco! Era davvero identico a quello che, sempre secondo Asklipios, aveva istruito il giovane Ercole, ricordò Aulo - che era un grande estimatore di Ercole - osservando incredulo il torace umano della creatura, il viso glabro e i lunghi capelli neri. Neri come il manto che ne ricopriva il corpo equino e come la folta coda.
Ecco spiegato il rumore di zoccoli che aveva sentito prima.
Il suo maestro non aveva un cavallo, infatti. Non gli serviva. Aveva l'irritante abitudine di scomparire e ricomparire a suo piacimento. Arte della Smaterializzazione, la chiamava. 
Una volta aveva coinvolto anche Aulo in questa sua abitudine: un istante prima erano nella capanna del maestro... e un istante dopo in un'assurda bottega dove un assurdo vecchio di nome Olivander gli aveva venduto una bacchetta magica che Aulo aveva reputato assurda, all'epoca.
Non era stata un'esperienza particolarmente piacevole, ma Aulo sperava di imparare presto a Smaterializzarsi: si sarebbe fatto molte risate alle spalle di Tiberio.

«Cormiac, lo stai strangolando, credo. Forse faresti meglio a posarlo a terra» propose il centauro con olimpico distacco.

Cormiac ubbidì, trattenendo però Aulo per una spalla. E, guardando intensamente il centauro, chiese: «Dice il vero? Ha salvato il padre? Ha... cambiato il corso della storia?»
Il centauro annuì solenne. Poi, indicando il medaglione che il ragazzo portava al collo, precisò: «La Chiave del Tempo è stata probabilmente usata, Cormiac. Sirio risplendeva in modo straordinario questa notte. Segno indiscutibile di una prossima anomalia temporale. E se il puledro sostiene che ha salvato il padre... noi non possiamo che fidarci della sua parola. Come ben sai».
Cormiac, ancora arrabbiato, costrinse Aulo a guardarlo: «Aulo è pericoloso interagire con leggerezza con il corso del Tempo! Chissà che cambiamenti hanno provocato le tue azioni, o provocheranno... hai ucciso gli aspiranti assassini di tuo padre?»
Il ragazzo sgranò gli occhi, raccapricciato: «No! Che idea, maestro».
Il mago annuì, un po' rinfrancato. «Hai usato la magia contro di loro?»
Aulo scosse il capo, oltraggiato: possibile che il suo maestro lo ritenesse davvero così stupido? «Ma certo che no! Lo so che è proibito! Me lo hai ripetuto fino alla nausea! Me lo hai perfino fatto scrivere su un'ottima pergamena. In caratteri runici! Un grande spreco di tempo ed energia, se vuoi conoscere il mio parere» concluse con patrizio sdegno. Poi, notando lo sguardo non esattamente radioso del maestro, pensò bene di precisare: «Li ho solo anticipati. E ho versato del succo di papavero nella loro cervogia.*** Tanto è talmente orribile la cervogia che non se ne sono neppure accorti».
«A parte il fatto che la cervogia è deliziosa, e quando avrai la barba te ne accorgerai...»
«Neppure morto. A parte il fatto che non mi lascerò mai crescere la barba, la cervogia ha lo stesso aspetto della pipì di cavallo. Oh, senza offesa, signore» si affrettò ad aggiungere il ragazzo, occhieggiando il centauro che liquidò la cosa con un leggero sbuffo e un vago cenno della mano. Rassicurato, Aulo affermò convinto: «Il vino con il miele. Quello sì che è delizioso».
Cormiac si massaggiò la fronte e sospirò. «Riprenderemo questa fondamentale discussione in un altro momento, Aulo. Hai drogato gli aspiranti assassini di tuo padre, quindi. Non ti è venuto in mente che lo cercheranno ancora?»
«Mica sono stupido. Certo che mi è venuto in mente. Infatti ho aspettato che si riprendessero, mi sono finto estasiato dalla loro abilità in battaglia - ho decantato l'eroismo con cui hanno combattuto con versi degni di Orazio - e ho lasciato loro la toga di papà in ricordo dell'impresa. Quella buona, non quella che indossa per viaggiare. Ma quei quattro pare non sapessero che non si usa la toga buona per viaggiare. Certo, ora papà dovrà procurarsene una nuova, però quelli se ne sono tornati soddisfatti da dove son venuti».
Il centauro ridacchiò con una piacevole risata profonda. Cormiac lo fulminò con lo sguardo e proseguì: «Ma come hai fatto a venire a conoscenza dell'esistenza delle Chiavi del Tempo e dell'incantesimo per azionarle, Aulo».
Il ragazzo ebbe la buona grazia di arrossire, si grattò un orecchio e, disegnando distratti semicerchi con la punta un po' sbucciata del calzare, ammise: «Ti ho visto mentre le mostravi a Urien. Per caso!» si affrettò a precisare, notando che il maestro, dopo avere esalato un secco sbuffo, aveva alzato gli occhi al cielo. «E ho sentito mentre gli hai rivelato l'incantesimo».
«Sì. Urien non l'ha capito molto bene».
«Ho notato. Invece di azionare la Chiave del Tempo ha trasfigurato il tuo gatto in un calice. Grazioso, non fosse stato per i baffi. Ma io non sono Urien!» affermò sdegnato Aulo. Quindi estrasse una bacchetta magica di lucido legno scuro ed eseguì un perfetto Incantesimo d'Appello. Immediatamente una tavoletta cerata, di quelle che Aulo si ostinava a usare per prendere i suoi appunti, sfrecciò docile nelle mani del ragazzo che la porse al maestro. «Ho scritto qui tutto quello che hai detto a Urien. E ho agito quando tu sei andato a portare alla figlia del fabbro l'unguento che guarisce le verruche».
Cormiac prese la pergamena e aggrottò la fronte, Aulo rise divertito. «E' stenografia. Me l'ha insegnata il mio vecchio maestro - quello che tu definisci Babbano – se vuoi te la insegno. E' molto più pratica delle tue rune, sai?».
Cormiac grugnì, sibilando minaccioso: «Hai rischiato grosso, Aulo. Avresti potuto cambiare la linea del Tempo in modo imprevedibile. Avresti potuto incontrare te stesso, e cose terribili capitano a chi incontra se stesso. Inoltre, senza contare che hai offeso la cervogia e le rune, hai distrutto una Chiave del Tempo».
«Distrutto una Chiave del Tempo?» mormorò il ragazzo guardando sconcertato il medaglione che ricordava una versione più grossa e decorata della sua Bulla.****
«Sì. Ogni Chiave del Tempo può essere usata un'unica volta. Ne sono state create sette, Aulo. Tre sono già andate distrutte. Quattro con questa. Ora dimmi: cosa dovrei fare con te?» chiese con una punta di rassegnazione Cormiac.
Il ragazzo si rigirò il grosso medaglione tra le mani, poi mormorò mortificato: «Mi dispiace. Davvero. Sono molto utili, queste. Pensavo di usarne una per impedire la proclamazione dell'attuale Imperatore di Roma».
Cormiac lo interruppe, deciso: «Non ci pensare neppure».
«A papà non piace questo Nerone. Dice che non somiglia neppure un po' a Claudio, ma gli ricorda Caligola. Asklipios mi ha raccontato tutto di Caligola. Era terribile vivere ai tempi di Caligola».
Cormiac inarcò un sopracciglio. «Quello che ha eletto senatore la sua capra?»
«No. Quello che ha eletto senatore il suo cavallo. Era un cavallo non una capra. Papà dice che era il senatore più intelligente dell'epoca. Il cavallo, dico».
«Non mi stupisce» intervenne il centauro, scuotendo compiaciuto la folta coda.
«Comunque, grazie a una di queste possiamo cambiare la storia...» esclamò euforico Aulo.
«No, che non possiamo! Non hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto, vero? E' pericoloso interagire con il Tempo».
«Ma...»
«Ma niente, Aulo. Non intendo discutere della cosa» affermò con decisione Cormiac riappropriandosi della Chiave.
«Maestro, capisco che ne rimangono solo tre, ma possiamo sempre crearne altre».
«No, Aulo. Il problema non è il numero delle Chiavi rimanenti. Sarei ben felice di distruggerle tutte, ad essere sincero. E non ne saranno create altre, te lo assicuro. Il segreto delle Chiavi del Tempo morirà con il loro creatore».
«Morirà! Quindi è ancora vivo, il loro creatore. Lo cercherò e convincerò lui!»
«Puoi provarci, se vuoi. Ma non riuscirai a trovarlo».
«E cosa me lo impedirebbe?»
«Il fatto che lui non vuole essere trovato» concluse secco Cormiac, guardando Aulo con una serietà inusuale per lui. «E con questo considero concluso il discorso. Ora smettila di tentare di distrarmi, perché so perfettamente che era questo il tuo scopo principale e che dell'attuale Imperatore di Roma non ti interessa proprio nulla...» sogghignò notando l'improvviso rossore del ragazzo. «E rispondi alla mia domanda: cosa dovrei fare con te?»
Aulo lo guardò in tralice e, non scorgendo più rabbia negli occhi del maestro, sorrise furbo e propose: «Lasciarmi andare a pescare con papà, naturalmente, visto che è venuto a cercarmi. Non si può dire di no a Publio Valerio Corvino».
«Forse a Roma. Ma qui si può. Io, per lo meno, posso, te lo assicuro».
Aulo abbassò il capo, abbacchiato, poi sbadigliò vistosamente: viaggiare nel Tempo non era uno scherzo.
Era faticoso. E sconcertante. Una parte di lui ricordava la tristezza e il dolore provato per la morte del padre, ma un'altra no. Perché non aveva mai provato quella tristezza. Era strano avere ricordi diversi che si accavallavano.
Cormiac ridiede al discepolo la tavoletta cerata: «Credo che, per punizione, sia equo che tu ricopi questa, in bella grafia, su di una pergamena. Aggiungendo le notizie che ti ho appena dato sulle Chiavi del Tempo. Oh, usando i caratteri runici, naturalmente».
Il ragazzo sbuffò oltraggiato.
Non vedeva il padre da più di un anno - una parte di lui ne era convinta, per lo meno. L'altra non era d'accordo, certa com'era di averlo visto qualche ora prima, a pranzo – voleva solo godersi la sua compagnia e quel gran rompinoci del suo maestro lo affliggeva con un simile, noioso, lavoro.
Cormiac nascose un sorriso intenerito sotto la folta barba e aggiunse burbero: «Dopo che avrai procurato qualche bel pesce per cena, naturalmente. Ora fila, tuo padre ti aspetta al torrente».
Aulo alzò gli occhi, scrutando incredulo il maestro - che non era poi così male, bisognava ammetterlo - si sistemò rapido un calzare e, dopo un'ultima occhiata ammirata al centauro, se ne andò saltellando allegro alla ricerca del padre.


Cormiac scosse il capo, divertito suo malgrado, guardò la Chiave e sussultò.
Era diversa da come se l'aspettava: il serpente che ne decorava il bordo non aveva cambiato posizione e il centro era occupato da sfolgoranti fiamme d'argento tra cui si stava formando una minuscola figura alata.
L'uomo guardò il centauro, allibito, e gli mostrò la Chiave.

«Non capisco. Non si è danneggiata. Sembra quasi che si stia rigenerando, Kyros».

Il centauro annuì. «E' così. La fenice sta risorgendo dalle proprie ceneri, Cormiac. Il puledro ha usato la Chiave con molta saggezza. Con molta più saggezza di quella che usasti tu, temo».
L'uomo sospirò, amareggiato. «Pensavo di non avere scelta, Kyros» mormorò cupo abbassando lo sguardo. «Perché mi aiutasti a creare le Chiavi del Tempo? Perché, invece di assecondare questo mio folle Sogno donandomi il tuo sapere, non mi hai fermato?»
Il centauro scrutò l'uomo per qualche istante, poi rispose: «Perché il Destino ha voluto così, Cormiac. Era scritto nelle stelle. Perché avrei dovuto ribellarmi a ciò che era scritto nelle stelle? Voi umani lo fate continuamente, lo so, ma noi centauri troviamo stupido sfidare il Destino».
«Il Destino?»
«Il Destino. La forza più potente in assoluto».
«Uhmf... parli proprio come un centauro».
«Ma pensa...»
«Non diventare impertinente, Kyros. Basta Aulo per questo».
Il centauro annuì. «Ha carattere, il puledro».
«Sì. E talento. E' strabiliante come la magia scorra potente in un ragazzo nato da Babbani. E scarseggi in Urien, figlio di maghi Purosangue, che studia con me da molto più tempo di Aulo e non sa azionare una Chiave del Tempo senza trasfigurare un gatto in un calice. Con tanto di baffi, per di più».
Il Centauro scrutò assorto il mago per qualche istante, poi chiese con la sua voce distaccata: «Perché strabiliante? Non sottovalutare quelli che tu chiami Babbani, Cormiac. Hanno immense potenzialità. Anche questo è scritto nelle stelle».
Cormiac si strinse nelle spalle, osservando pensoso la Chiave, quindi chiese: «Perché Aulo è riuscito nel tentativo di cambiare la storia, Kyros? Perché lui è tornato, la Chiave non è danneggiata e suo padre non cammina più fra le ombre? Il mio tentativo è stato fallimentare e ancora non me ne spiego il motivo: eravamo riusciti a cambiare le sorti della battaglia, senza ricorrere alla magia; Plauzio era stato fermato da Carataco, i romani erano stati respinti. Ma al mio ritorno nel presente le Chiave era danneggiata. E Plauzio trionfante. Senza contare Rhys e Caalum dispersi nel Tempo... come le Chiavi usate da loro».
Il centauro si avvicinò all'uomo. «Cormiac... tu non hai responsabilità per quello che è successo a Rhys e Caalum, lo sai, vero? Non è colpa tua se hanno lasciato chiudere il Portale».
Cormiac scosse le spalle e, puntando sul centauro i suoi brillanti occhi blu ridomandò: «Perché il mio tentativo non è riuscito, Kyros?»
«Perché, come hai detto ad Aulo, è pericoloso interagire con il corso del Tempo. Tu hai cercato di cambiare troppe cose, Cormiac. Hai salvato chi sarebbe morto, come ha fatto Aulo, ma così facendo hai ucciso chi sarebbe sopravvissuto. Hai spezzato l'Equilibrio. Aulo non l'ha fatto. Gli ha solo dato un colpetto di trascurabile importanza. Ma nel tuo caso... credo che l'Equilibrio si sia semplicemente ricostituito».
Cormiac ci pensò un istante e annuì. «Potrebbe essere una spiegazione. Quindi Aulo Plauzio ha trionfato ugualmente. Come Aulo Valerio Corvino, del resto».
«Non ci avevo fatto caso. Il tuo allievo si chiama Aulo come il generale».
Cormiac sogghignò. «Il mio allievo si chiama Aulo in onore del generale. Suo padre, Publio Valerio Corvino, è un grande estimatore di Plauzio. Così io mi ritrovo a insegnare al secondogenito di un Babbano che ha un'immensa stima del generale a cui ho tentato, in tutti i modi permessimi dalle leggi magiche, di impedire di conquistare la mia Terra. E suo figlio mi ripaga riuscendo dove io, il suo maestro, ho fallito» affermò Cormiac con amara ironia, sventolando con noncuranza la Chiave del Tempo sotto il naso del centauro.
«I discepoli a volte lo fanno. Aulo ha ingannato il fato con la stessa sapienza con cui ha ingannato gli assassini del padre».
«Sapienza, Kyros? Io direi astuzia, più che altro».
«No, sapienza. Il puledro ha fatto scelte sagge. Più sagge delle tue, pare».
«Sì, lo hai già detto. Non è necessario che tu ribadisca ancora il concetto, sai? Aulo ha agito spinto dall'amore per suo padre. Io spinto dall'odio. Forse, semplicemente, l'Amore è un consigliere migliore dell'Odio».
«L'Amore?»
«L'Amore. La forza più potente in assoluto».
«Uhmf... parli proprio come un umano».
«Ma pensa...»
«Non diventare impertinente, Cormiac. Basta Aulo per questo».
«Già, Aulo che ha l'impertinenza di non distruggere le Chiavi del Tempo che usa».
«Aulo che scriverà un'informazione non corretta sulla sua pergamena. Forse dovresti mostrargli la Chiave del Tempo e spiegargli che a volte, per motivi imperscrutabili ai più, non si esaurisce con l'uso».
«O forse no, almeno per il momento. Meno Aulo sa sull'argomento più sicuro mi sentirò. Anzi, nasconderò le Chiavi superstiti. Le metterò in qualche luogo lontano dai suoi occhi. Non sia mai che gli venga voglia di cercare di cambiare il destino di Roma».
«Il Destino è scritto, Cormiac».
«Il Destino si può cambiare».
«Solo se decide di permetterlo».
Cormiac ci pensò un istante, poi annuì sorridendo: «Sì. Questo te lo posso concedere, Kyros. Questo te lo posso concedere».


* Mi sono azzardata – per ovvi motivi – a nominare giorno e anno alla maniera degli antichi romani: ab Urbe condita significa, letteralmente, dalla fondazione della Città, dove per Città si intende Roma. "Ante diem sextum Nonas Maias, 811 ab Urbe condita"  corrisponde al 2 maggio del 58 D.C.
Almeno spero... in caso contrario chiedo umilmente perdono a tutti gli antichi romani di passaggio.
** Lundinium è l'antico nome di quella meravigliosa città che noi conosciamo come Londra.
*** La cervogia, come ben sa chi ha avuto l'indubbio piacere di leggere qualche avventura di Asterix, è una specie di antenata dell'odierna birra, molto diffusa tra le popolazioni che vivevano nell'Europa del Nord di quei tempi.
**** La Bulla - o Bulla Praetexta - era un medaglione contenente un amuleto protettivo che, ai tempi del giovane Aulo, tutti i cittadini romani nati liberi portavano fino al raggiungimento della maggiore età.


E rieccoci qui, oh Temerari che siete sopravvissuti alla prima tappa di questo periglioso - o solo noioso, magari - viaggio.
Prima di tutto vi ringrazio per la vostra encomiabile pazienza.
Mi rendo conto, infatti, che questo capitolo non ha molto di "potteriano" ed è praticamente un originale, ma abbiate fiducia, già dal prossimo le cose cambieranno: le atmosfere cominceranno pian pianino a "potterizzarsi" e i personaggi acquisteranno un barlume di familiarità...
Per quanto riguarda questo capitolo, purtroppo, non ho potuto che inventarmi di sana pianta tutti i personaggi, visto che J.K. Rowling non ci ha raccontato nulla di periodi tanto remoti... se non che il negozio di Olivander esisteva già. E infatti la bacchetta magica del giovane Aulo viene acquistata proprio lì.
Quindi non vi preoccupate se nessuno dei personaggi da me citati vi risulta familiare: Aulo (e famiglia), Cormiac (e sfortunati compagni) e Kyros sono una mia invenzione, come le Chiavi del Tempo.
J.K. Rowling non ha colpe per la loro deprecabile esistenza.
Il generale Aulo Plauzio, Carataco, Nerone e Caligola con il suo Onorevole Cavallo sono invece persone (o bestiole) realmente esistite e, di conseguenza, appartengono solo a se stesse. Con buona pace di Cormiac.
Per finire un'ultima precisazione: sono una vera frana a trovare i titoli per le mie storie ma adoro i capitoli dotati di titolo.
Così ho adottato il trucchetto di "ricavare" i miei titoli da quelli di libri più o meno famosi, se quindi vi risulteranno familiari non stupitevi troppo!
Per questo capitolo in particolare, ad esempio, mi sono ispirata a "Il sogno di Merlino", uno dei volumi - il quarto, se non erro - delle "Cronache di Camelot" di Jack Whyte.

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Capitolo 2
*** Il ragazzo che sussurrava ai serpenti ***


Capitolo Primo

Il ragazzo che sussurrava ai serpenti


Britannia, 26 aprile 423 A.D.

La donna raddrizzò la schiena e osservò l'immagine della fenice racchiusa nel cerchio disegnato per terra, ammirandone per un istante i bagliori di corallo illuminati dalla morbida luce della luna.
Poi si strinse nel mantello e, guidata dal sommesso ronzio della Chiave del Tempo, si incamminò sul viottolo di terra battuta che portava al villaggio.
Non era molto diverso da quello che aveva percorso una manciata di minuti prima - o che avrebbe percorso vent'anni più tardi, a voler essere precisi - constatò un po' meravigliata.
Chissà perché quello sciagurato del suo discepolo aveva deciso di tornare proprio in quel luogo e in quel tempo.
Camminando a passo spedito - o, per lo meno, il più spedito possibile per una distinta strega non più giovane - borbottava tra sé improperi che, ne era ben conscia, una distinta strega non più giovane non avrebbe neppure dovuto conoscere.
Ma, per il vino al miele di Aulo, quando ci voleva, ci voleva! Costringerla a fare una cosa del genere! Lei! Una vecchia, fragile strega ormai in declino.
Oh, gliela avrebbe fatta pagare a quello scapestrato, decise, roteando minacciosa la bacchetta magica con un piglio decisamente poco consono a una vecchia, fragile strega ormai in declino.
Quando scorse una luce di un vivido azzurro filtrare fra i rami di un salice, la donna si fermò, soddisfatta, la fonte dei suoi deprecabili borbottii era stata scovata: gli scintillii dorati emanati dalla Chiave non lasciavano dubbi in proposito.
Si avvicinò cauta, studiando la figura inginocchiata che, impegnata a osservare qualcosa, non si accorse della nuova venuta.
Sì, era proprio il suo discepolo: il mantello scuro ricamato con sinuosi serpenti d'argento era sicuramente il suo
La donna sbuffò con una punta di esasperazione: non sarebbe mai diventato un grande mago! Aveva talento, senza dubbio, ma era arrogante, mancava del tutto di umiltà. E di cautela.
Avrebbe potuto Schiantarlo prima che lui si rendesse conto di essere osservato; fu seriamente tentata di farlo, anche... ma scacciò l'allettante tentazione: non sarebbe mai riuscita a portarlo dove doveva, da Schiantato.
Stava giusto cedendo all'impulso di usare la bacchetta magica in un modo molto poco ortodosso - la voglia di prenderlo a bacchettate era davvero troppo forte, e la sua bacchetta era di robusto legno di quercia - quando il ragazzo si alzò di scatto, scrutando qualcosa davanti a sé e sussurrando una strana nenia sibilante. Il cappuccio del mantello gli scivolò sulle spalle rivelando il viso magro e pallido dell'arrogante giovanotto che aveva costretto la povera, fragile strega ormai in declino a quella folle e incerta avventura.
La donna si sforzò di scrutare lo stesso punto che il ragazzo fissava ostinato, sobbalzando quando, grazie al chiarore della luminosa luna piena, scorse un grosso serpente che si stava dirigendo, deciso, verso un'anonima casetta di legno che lei conosceva fin troppo bene: aveva trovato il suo tesoro più grande, in quell'anonima casetta di legno. 
Il serpente si fermò all'improvviso, rizzò l'inquietante capo squamoso, come se stesse ascoltando il saggio consiglio di un maestro particolarmente incantatore,  poi riprese sicuro la sua marcia.
Strano comportamento per un serpente, pensò confusamente la donna, esasperata dal basso, continuo sibilo che usciva dalle labbra del suo allievo.
Un momento. Il basso, continuo sibilo che usciva dalle labbra del suo allievo?
Un Rettilofono! Realizzò sorpresa; il suo ambizioso allievo era un Rettilofono e lo aveva sempre tenuto nascosto.
Il serpente, ubbidendo a quel sussurro penetrante si avvicinò all'uscio, stranamente dischiuso, della casa.
La donna serrò le labbra, ora davvero preoccupata, agitò la bacchetta verso il ragazzo sibilante - dopo tutta la fatica che aveva fatto per rintracciarlo ci mancava solo che le scappasse un'altra volta - quindi si Trasfigurò in un elegante falco argentato che volò, con maestosa grazia, oltre la soglia della casetta.

Il falco, appollaiandosi su una robusta trave di legno, scrutò con attenzione la piccola stanza rettangolare.
Le braci rosseggiavano debolmente nel focolare.
Un tavolo, quattro sgabelli zoppicanti, qualche suppellettile ammaccata e due giacigli erano i soli oggetti contenuti nella stanza.
Il serpente stava strisciando, lento ma metodico, sul pagliericcio più basso, occupato da quello che sembrava un fagotto informe.
Non doveva essere agevole strisciare fin lassù, pensò confusamente il falco, prima di planare silenzioso sul grosso rettile.
Afferratolo con becco e artigli lo scosse con violenza e, solo dopo avere percepito il secco schiocco di ossa spezzate, lo gettò senza tanti complimenti oltre la soglia della casa.
Quindi, in un batter di ciglia, il falco argentato ritornò ad essere una donna che, rimirandosi corrucciata le unghie, si avvicinò al pagliericcio.
Il fagotto informe si rivelò essere un ragazzino di una decina d'anni profondamente addormentato, rannicchiato sotto una vecchia coperta.
La strega si accigliò, riconoscendolo, e sorrise orgogliosa quando, agitandosi nel sonno, il bambino borbottò qualcosa e la trottola di legno abbandonata ai piedi del giaciglio cominciò a girare vorticosamente. Eccolo, il suo più grande tesoro: il suo allievo più dotato.
Non riuscendo a impedirselo scostò con una lieve carezza i folti capelli arruffati che nascondevano il viso del ragazzino e mormorò suadente: «Va tutto bene, dormi sonni tranquilli. E non preoccuparti se, talvolta, fai accadere cose strane come questa» indicò la trottola vorticante prima di fermarla con un pigro colpo di bacchetta. «So che spaventano tua madre. Ma presto io incrocerò la tua strada e le spiegherò tutto. Sappi che mi aspetto grandi cose da te, Merlino».
Sorrise un po' colpevole, sapeva che una buona maestra non avrebbe dovuto fare differenze tra gli allievi, ma Merlino era sempre stato speciale per lei e non poteva farci nulla.
Dopo avere scoccato un'ultima occhiata al bambino addormentato, uscì silenziosa dalla casa, ritornando, sospirante, dal suo ultimo allievo.

Dovette cercarlo per un po'.
I suoi occhi non erano più quelli di una volta, purtroppo, ma alla fine lo scovò.
Se ne stava nascosto sotto un grosso sasso.
Scuotendo irritata la testa, la donna si inginocchiò con grazia e afferrò il grasso Vermicolo di un luminoso giallo zafferano - sì, sapeva che i Vermicoli non erano di un luminoso giallo zafferano, ma doveva pur distinguerlo in qualche modo - che la guardava minaccioso.
O, per lo meno, minaccioso quanto poteva esserlo un Vermicolo.
Non erano particolarmente espressivi, i Vermicoli, constatò la strega, reggendo la creaturina tra pollice e indice e osservandola con attenzione; neppure quelli di un luminoso giallo zafferano.
«Bene, lo sapevo che non saresti andato lontano, Sigebert. Mi piaci molto in questa forma, sai? Ti dona. Ma temo che mi toccherà riportarti a quella originale, ahimè. La legge non consente di Trasfigurare a vita una persona, purtroppo. Peccato, l'ho sempre detto che le leggi, a volte, sono davvero troppo restrittive».
Era acida, lo sapeva. Ma non poteva farci nulla. Quel giovanotto presuntuoso era davvero difficile da sopportare.
Sospirando un po' avvilita appoggiò il Vermicolo sul grosso sasso, si alzò e agitò la bacchetta magica, guardando con occhio vagamente dispiaciuto il ragazzo che, balzando in piedi, si sistemò il mantello, oltraggiato.
«Lo sai che è contro la legge, Cliodna. Non puoi usare questi metodi» sibilò furibondo. «Lo dirò a...» si fermò, incerto.
«A chi, Sigebert? E, soprattutto, cosa risponderai all'immancabile domanda: quando? E a proposito di legge, non mi risulta che sia consentito usare la Magia per aizzare serpenti contro bambini addormentati. Tornando addirittura vent'anni indietro nel tempo per farlo».
Il ragazzo le scoccò un'occhiata rabbiosa ma non commentò, troppo preoccupato dalla bacchetta che Cliodna sventolava pigramente sotto il suo naso.
La donna sogghignò: no, non si era sbagliata. Sigebert aveva un immenso talento magico - la Rettilofonia era un dono molto raro - ma quanto a coraggio e carattere era messo davvero maluccio.
«Va bene. Pare che questa piccola avventura resterà tra pochi intimi, Sigebert. Ora, da bravo, torniamocene a casa che ho già perso troppo tempo» concluse spazientita, trascinando il ragazzo verso il bosco.
«Quel marmocchio» sibilò Sigebert, indicando la casetta di legno. «Sarà la nostra rovina! E' figlio di Babbani. E farà di tutto per aiutarli!»
«Capisco. Due colpe imperdonabili».
«Sì. E' così. I Babbani ci detestano».
«Magari i Babbani non impazziscono per noi perché noi ci divertiamo ad aizzare loro contro grossi serpenti velenosi. Forse, se noi usassimo i nostri talenti per tenerli lontani, i serpenti, i Babbani ci amerebbero di più. Ti ha mai sfiorato il dubbio, ragazzo?»
«Merlino ci ruberà la Magia!» insistette Sigebert, mentre un grosso cerchio contenente una fenice color corallo comparve improvvisamente ai suoi piedi.
«Ci ruberà la Magia? Sigebert, tu non sai di cosa stai parlando. La Magia è un dono. Nessuno può rubarla. Nemmeno Merlino» sbuffò la strega esasperata spingendo il ragazzo nel cerchio che cominciò a lampeggiare sempre più velocemente, mentre il medaglione che Sigebert portava al collo vibrava, emettendo un sibilo acuto e sinistro che indusse sia la donna che il ragazzo a serrarsi le orecchie con forza.
Quando il sibilo cessò, la donna annuì soddisfatta - il Portale del Tempo era scomparso assieme al ragazzo - e proseguì il cammino. Quando raggiunse il punto esatto in cui si era aperto il suo Portale del Tempo, la Chiave che portava al collo divenne calda e pulsante e il cerchio con la fenice si illuminò, richiamando la sua attenzione. Vi entrò proteggendosi le orecchie in attesa del sinistro sibilo. Sibilo che non ci fu, quando la Chiave cominciò a vibrare emise infatti una melodia dolcissima e ipnotica che ricordava il meraviglioso canto di una fenice.


Britannia, 26 aprile 443 A.D.

Cliodna si concesse qualche istante per riprendersi.
Attraversare un Portale del Tempo era un'esperienza davvero bizzarra. E stancante. Soprattutto per una distinta strega non più giovane.

«Tieni le tue sporche mani lontane da me, ibrido!» strepitò una giovane voce alterata.

Cliodna gemette, afflitta: la voce di Sigebert poteva essere davvero irritante, a volte.
Come era possibile che un uomo di quasi vent'anni avesse una voce così stridula. Forse era meno irritante quando si esibiva nel suo - Cliodna supponeva - impeccabile Serpentese.
Oh, naturalmente, quello che Sigebert diceva poteva essere anche più irritante della sua voce stridula.
Quando la strega si decise ad alzarsi fu lieta di trovare una mano pronta ad aiutarla.
Attraversare un Portale del Tempo era davvero troppo spossante per una vecchia, fragile strega ormai in declino.
Aprì gli occhi e sorrise riconoscente al suo galante soccorritore.

«Grazie, Xeno. Sempre gentilissimo».

Il galante soccorritore le dedicò un sorriso - enigmatico come solo i sorrisi dei centauri sapevano essere - e chinò con cortesia il capo: «Il piacere è tutto mio, Cliodna».
Poi, spinse avanti il ragazzo furioso che tratteneva con l'altra mano. «Pare che il tuo giovane amico non abbia gradito troppo il mio aiuto, invece».
Cliodna guardò il ragazzo e sospirò. «Non ne dubitavo. Grazie per essere rimasto qui ad attendere il nostro ritorno, Xeno. E per avere aiutato Sigebert, naturalmente».
Il centauro scosse con eleganza la folta coda corvina e assicurò con la sua voce calma, ipnotica e curiosamente distaccata: «Di niente. Così volevano le stelle».
Cliodna alzò - con estrema discrezione - gli occhi al cielo, un po' contrariata da quella mania che avevano i centauri di giustificare sempre le loro azioni con il volere delle stelle, e Sigebert si agitò rabbioso tentando di liberarsi dalla presa del centauro che sbuffò serrando la stretta.
«Lasciami, centauro. Non hai alcun diritto di trattenermi».

Il centauro guardò la strega e, a un suo cenno affermativo, lasciò il ragazzo seguendolo però come un'ombra.

«Lui che ci fa, qui?»

«Lui, Sigebert, è Xeno. Appartiene a una stirpe non meno nobile di quella dei maghi, ed è stato così cortese da attendere il tuo ritorno per evitare che te ne andassi prima del tempo. Desidero davvero scambiare un paio di parole con te, giovanotto» proclamò Cliodna, sedendosi su un tronco e scrutando il giovane uomo.
Sigebert la guardò con occhi colmi di fredda indignazione, strinse con rabbia la Chiave del Tempo che portava al collo ed esclamò: «Come hai fatto a rintracciarmi? Come hai fatto a sapere che avevo azionato una delle Chiavi?»
Il centauro scalpitò, picchiando gli zoccoli sull'erba soffice, e scuotendo i lunghi capelli neri.
Cliodna gli sorrise comprensiva e spiegò, con il suo migliore tono di paziente maestra: «E' ovvio, Sigebert. O lo sarebbe stato se tu avessi aspettato di sapere come funziona una Chiave del Tempo, prima di usarla».
«Tu non ti decidevi mai ad affrontare l'argomento».
«La maggior parte della gente è convinta che io sia una strega molto saggia. Un motivo ci sarà pure, non credi? Comunque, per rispondere alle tue domande, Sigebert, ho saputo che avevi azionato la Chiave del Tempo perché, aprendo lo scrigno in cui le conservo, ho notato una... defezione, diciamo. Sarò pure un po' rimbambita, ma non così tanto, sai?».
Sigebert sbuffò irritato e ribatté: «Ma come hai fatto a rintracciarmi? Avrei potuto essere andato ovunque. Come hai fatto a sapere con esattezza dove avevo deciso di andare? E quando?».
«A rivelarmi tutto questo ci ha pensato la Chiave che ho azionato io: le quattro Chiavi sono collegate, Sigebert. Cormiac non era uno stupido, quindi aveva messo in conto la possibilità di dovere rintracciare qualcuno fra le pieghe del Tempo».
Il ragazzo era sinceramente confuso, a Cliodna fece persino un po' di tenerezza: le distinte streghe non più giovani tendevano a diventare deprecabilmente sentimentali.
«Ma...» mormorò allibito il giovane.
«Ma niente» lo bloccò la strega con decisione. «Ora tocca a te rispondere ad alcune domande, giovanotto: perché volevi aizzare quel serpente contro Merlino?»

Il centauro, che aveva assistito in assoluto silenzio al chiarimento tra maestra e discepolo, sgranò gli occhi, sbigottito. «Cosa? Merlino?»

Sigebert ignorò il centauro e rispose: «Volevo fermarlo. Merlino ha idee troppo pericolose. Vuole fare leggi ancora più restrittive a favore dei Babbani. Vuole aiutarli a progredire. Vuole elevarli al nostro rango!»
«E tu hai pensato bene di eliminare codesto pericoloso soggetto, uccidendolo con l'aiuto di un serpente, quando era soltanto un bambino indifeso».
«Un bambino?» il centauro era ancora più sbigottito. Cliodna sorrise divertita: era davvero uno spettacolo buffo un centauro sbigottito.
«Sì, Xeno, il nostro eroico aspirante grande mago è tornato indietro nel tempo di vent'anni».
Sigebert guardò la strega con un rancore che celava forse imbarazzo e dichiarò: «Sì. Vent'anni, hai ragione. Sarei andato anche più indietro ma questa stupida cosa non lo permette!»
«Naturalmente no, vent'anni sono un periodo ragionevole. Almeno Cormiac lo pensava. E Kyros era d'accordo» disse il centauro.
«Kyros?» Sigebert pronunciò il nome come se stesse disperatamente cercando nella sua memoria notizie su colui che lo portava.
Xeno annuì. «Kyros, il centauro che aiutò Cormiac a creare le sette Chiavi del Tempo. Fu necessario unire la sapienza della tua stirpe a quella della mia per riuscire nell'intento. La storia tramandata dai maghi non lo dice, vero? Non mi stupisce».
Il ragazzo sbuffò. E Cliodna intervenne. «La cosa ti sconvolgerà, me ne rendo conto, Sigebert, ma proprio come tra noi maghi lo scrigno delle Chiavi è stato passato da maestro ad allievo, cominciando da Cormiac che lo passò ad Aulo, così tra i centauri la storia della loro creazione viene tramandata da padre in figlio. Xeno è l'ultimo discendente di Kyros. Xeno sa. Xeno mi ha chiesto di aprire lo scrigno per controllare le Chiavi: non fosse stato per lui non mi sarei accorta di nulla».
Il ragazzo scrutò torvo il centauro: Cliodna sapeva che detestava quelle fiere creature, ritenendole solo delle bestie - degli ibridi, se era di umore più mite - lo aveva sentito proclamare con assoluta convinzione che avrebbero dovuto restarsene in Grecia, invece di infestare la Britannia secoli prima. Questa interferenza di Xeno non glieli avrebbe certo resi più simpatici.
Il centauro non pareva toccato dalla cosa, però. Ricambiò lo sguardo del ragazzo con distaccata curiosità, quindi scrutò la limpida volta stellata indicandola con un vago gesto della mano: «Sirio parlava chiaro ieri notte: un'anomalia temporale era prossima. Non potevo non avvertire la Custode delle Chiavi del Tempo. Le stelle non mentono mai».
«Le stelle?» lo dileggiò irriverente Sigebert. «Tu obbedisci alle stelle?»
Il centauro annuì solenne e Sigebert scoppiò in una risata di scherno.

«Be', Ognuno ha i suoi vizi, ragazzo» affermò una voce profonda proveniente dal limite della radura. «Qualcuno ha il vezzo di obbedire alle stelle, qualcun altro quello di usare una Chiave del Tempo per assassinare un bambino».

Sigebert sussultò e Cliodna si alzò di scatto dal tronco, puntando incredula lo sguardo nel punto del bosco da cui proveniva la voce.
Quanto scorse l'uomo alto e snello che si avvicinava con sicurezza, sorrise.
La luce della luna faceva sembrare neri i lunghi capelli dell'uomo, ma Cliodna sapeva che erano invece dello stesso colore ramato del manto delle volpi.
Sigebert arretrò, stringendo spasmodicamente la Chiave del Tempo.
«Credo di preferire il vizio di Xeno, sai?» affermò il nuovo venuto, dopo un istante di quella che era parsa una profonda meditazione, quindi si avvicinò al centauro e gli assestò una pacca amichevole sulla spalla. «A tal proposito: grazie, Xeno. Ho apprezzato molto il tuo messaggio. Non avevo mai ricevuto un gufo da un centauro».
Xeno annuì. «Spero che tu ti sia goduto l'esperienza, perché ti assicuro che non si ripeterà mai più: i centauri non mandano messaggi mediante gufi... e ho scoperto che c'è un'ottima ragione per questo» spiegò, mostrando un dito funestato da quello che era chiaramente il segno lasciato dal becco di un gufo bisbetico.
Cliodna osservò sorridendo il nuovo venuto.
Quell'impertinente incantatore era sempre riuscito a renderle il buon umore.
Fin dalla prima volta che lo aveva incontrato, un ragazzino smilzo e arruffato intento a spiegare a un contadino furibondo che non le aveva rubate quelle succose ciliege che stringeva tra le mani. Erano proprio venute di loro spontanea volontà.
La strega incrociò le braccia e, battendo con decisione un piede, chiese con la sua miglior voce di autorevole maestra: «Allora? Non si saluta più una distinta strega un po' in declino che ha speso i migliori anni della propria vita tentando di infilare i fondamenti della Magia in quella tua testaccia dura?»
L'uomo la guardò con aria preoccupata - ma Cliodna sapeva che fingeva spudoratamente - poi si avvicinò ridendo e le sfiorò la fronte con un lieve bacio di affettuoso omaggio: «Perdona la mia scortesia, Maestra Cliodna, ma converrai con me che ricevere un gufo da un centauro può sconvolgere seriamente un uomo».
La strega sogghignò, assestandogli un lieve scappellotto sulla nuca. «Specialmente se quell'uomo è già normalmente sconvolto di suo, suppongo. Da quanto sei qui, Merlino?»
«Oh, da un tempo sufficiente per avere sorpreso la mia maestra mentre cercava di sedurre un centauro» si abbassò agile, nel tentativo di evitare un secondo, scherzoso, scappellotto. «E per avere ascoltato cose molto interessanti riguardo a un Viaggio nel Tempo» aggiunse con improvvisa serietà squadrando Sigebert che, più pallido del solito, si era avvicinato a un grosso albero e teneva la schiena saldamente appoggiata al tronco; quasi temesse che Merlino potesse colpirlo alle spalle.
«Così ti sei preso l'immenso disturbo di andare indietro nel tempo di vent'anni, dico bene? E solo per eliminare il sottoscritto? Quanta fatica sprecata, Sigebert. Ti sarebbe bastato venirmi a trovare, o magari mandarmi un gufo come ha fatto il nostro Xeno, qui, e io sarei stato più che felice di accettare di battermi con te. Cliodna non avrebbe apprezzato - non ha mai amato i ragazzi rissosi, suppongo che tu lo sappia - ma avremmo potuto evitare di dirglielo» guardò Xeno e aggiunse «e magari Xeno non si sarebbe accorto di nulla. Può essere che i duelli tra maghi non siano contemplati nei variegati interessi delle stelle. Certo, Cliodna avrebbe sempre potuto sognarlo» concluse ammiccando alla strega che sogghignò: quella faccenda dei sogni era una storia di lunga data. Merlino ironizzava sui suoi sogni dal giorno in cui gli aveva rivelato di averlo sognato mentre si prendeva cura di un cucciolo di drago, facendolo diventare il re dei draghi della Britannia. Anche Xeno era stato messo al corrente della storia. Ma non aveva dato soddisfazione all'irriverente Merlino, limitandosi a declamare una delle sue enigmatiche sentenze.

Sigebert osservava torvo Merlino.
Per la prima volta Cliodna si rese conto che il ragazzo non provava solo invidia verso il mago più anziano - e per questo lei aveva, probabilmente, grosse responsabilità - ma lo temeva.
Lo temeva come Cliodna non aveva temuto nessuno in vita sua.
Merlino arretrò di qualche passo per permettere al ragazzo di muoversi.
Sigebert rizzò la schiena e tentò di mascherare la paura con il disprezzo. «Sfidarti a un duello? Sfidare un nato Babbano? Non mi abbasserei mai a tanto! Sarebbe come sfidare una di quelle... cose» affermò, indicando Xeno che assisteva con blanda curiosità alla scena. «Non mi abbasserò mai a sfidare a duello un Sanguesporco
Cliodna sussultò oltraggiata e impugnò la bacchetta ma Merlino la fermò con un cenno.
«Certo. Sarebbe davvero sconveniente, sì» convenne poi, meditabondo. «Molto più nobile - e sicuro - attaccarli da piccoli, i Sanguesporco. Mentre dormono, possibilmente».
Sigebert serrò i pugni, rabbioso, e cominciò a sussurrare nenie sibilanti, richiamando nella radura un nutrito esercito di serpenti.
Cliodna osservò preoccupata i rettili dirigersi verso Merlino che non si scompose, socchiuse gli occhi e lanciò uno strano grido acuto e modulato.
Sigebert lo guardò allibito, senza smettere di salmodiare la sua nenia Serpentese, interrompendosi soltanto quando un plotone di uccelli rapaci delle specie più diverse si radunò sopra Merlino per gettarsi poi sui serpenti che lo circondavano.
Cliodna sospirò sollevata, osservando il suggestivo volo di una civetta candida che si allontanava reggendo tra gli artigli un grosso serpente bruno.
Sigebert guardò raccapricciato quello che restava del suo esercito di serpenti, quindi strinse spasmodicamente la Chiave che portava al collo e minacciò il mago più anziano: «La riuserò. Tornerò indietro nel tempo un'altra volta. Lo farò. Non ti permetterò di elevare i Babbani al nostro rango. Di dare loro i diritti e i privilegi dei maghi».
Xeno osservò con attenzione la Chiave e scosse il capo: «Di certo non tornerai nel passato con quella. E' danneggiata».
Sigebert socchiuse gli occhi, sospettoso, poi guardò la Chiave per la prima volta dal suo ritorno al presente.
Cliodna si avvicinò con cautela sbirciando l'oggetto.
Xeno aveva ragione.
La Chiave era danneggiata.
Il corpo scuro e sinuoso del serpente che, in origine, aveva decorato il bordo del medaglione riproducendo il simbolo dell'Uroborus, si era mosso, guadagnando il centro dell'oggetto. Della fenice color corallo che l'occupava in precedenza non c'era più traccia.
«Si sta solo ricaricando» affermò con infantile ostinazione Sigebert guardando la maestra, inconsciamente in cerca di rassicurazioni. «Come ha fatto la Chiave del Tempo usata da Aulo».
Merlino scosse la testa e Xeno spiegò con voce pacata. «Niente affatto. Quella Chiave è danneggiata. Come la Chiave usata da Cormiac. Non potrà essere riutilizzata. Quella di Cliodna si sta ricaricando. Se la osservi noterai la differenza».
Cliodna guardò istintivamente la Chiave, studiando sorpresa la figuretta alata che stava comparendo tra le alte fiamme d'argento che occupavano il centro del medaglione. Il serpente non si era mosso e continuava indisturbato ad occupare il bordo della Chiave.
Sigebert allungò una mano per prendere l'oggetto dal collo della strega, ma Merlino gli imprigionò il polso: «Non ci pensare nemmeno, ragazzino. Non osare neppure avvicinarti a Cliodna».
Sigebert arretrò di un passo, intimorito. Poi, senza parlare, strinse la propria Chiave tra le dita, guardò Cliodna con occhi colmi di delusione e di rammarico e si Smaterializzò.

Sarebbe tornato. Cliodna non aveva dubbi in proposito.
La protezione che Merlino aveva offerto ai Babbani lo ossessionava troppo. E per la prima volta Cliodna capì perché.
Sigebert non temeva soltanto quello che Merlino era.
Sigebert temeva soprattutto quello che Merlino rappresentava.
Merlino e il suo talento magico assolutamente fuori dal comune.
Merlino, nato da genitori Babbani, cresciuto tra i Babbani e capace di sconfiggere con facilità un mago Purosangue, un Rettilofono.
Merlino, che era in grado di richiamare un esercito di rapaci.
Merlino che si era prefisso come scopo principale della vita di proteggere i Babbani. E di migliorare le loro esistenze.
Merlino che, in sintesi, minacciava di fare crollare con la sua semplice esistenza tutte le convinzioni a cui si aggrappava Sigebert, dimostrando che i maghi Purosangue non erano superiori ai Babbani, anzi: il più talentuoso dei maghi era proprio un nato Babbano.
Oh, sì. L'orgoglioso, l'ambizioso Sigebert sarebbe tornato. Cliodna non aveva dubbi. Quelle Chiavi del Tempo rappresentavano una tentazione troppo grande.
E lei era troppo vecchia per proteggerle, ormai.
Guardò Merlino, apparentemente calmo e rilassato, ma Cliodna sapeva che non lo era affatto.
Sorrise notando che il mago stava tormentandosi la manica della tunica - chiaro segno che era a dir poco furioso - e prese la sua decisione.
Era giunto il momento di passare il testimone.
Come aveva fatto Cormiac, prima di lei. E Aulo. E numerosi altri maghi e streghe. Era giunto il momento di nominare un nuovo Custode delle Chiavi del Tempo.
Fortunatamente, aveva il candidato ideale.

«Sì, Cliodna. I tempi sono maturi» la voce profonda e ipnotica di Xeno le accarezzò le orecchie. «Le stelle annunciavano il cambiamento. Lui le custodirà con saggezza».

Cliodna guardò sorpresa il centauro che le dedicò uno dei suoi enigmatici sorrisi.
«Credi che abbia affrontato piume, pergamene e, soprattutto, un gufo bisbetico solo per farlo giocare alla guerra magica con il piccolo incantatore di serpenti, Cliodna?» chiese Xeno mostrandole il dito offeso. «No davvero. Era scritto tra le stelle. E le stelle non mentono mai».
Cliodna concordò. «Forse questa volta le tue stelle hanno visto giusto, Xeno. Se puoi...»
Il centauro chinò il capo e si addentrò nella foresta, il suo manto argenteo illuminato dalla luna, si scorgeva con chiarezza tra gli alberi.
Merlino lo osservò sorpreso. «Dove va Xeno?»
«A recuperare lo scrigno delle Chiavi, Merlino. Prima di raggiungere Sigebert gliele ho affidate, per sicurezza».
Merlino la guardò con una tenerezza che la commosse e mormorò, incerto: «Io non so bene come dirtelo Cliodna. Ricordo ancora la volta in cui, per punizione, mi hai Trasfigurato in uno scarabeo e, in tutta franchezza, preferirei non ripetere l'esperienza».
Cliodna sorrise. «Lo scarabeo è una nobile creatura, Merlino. Per i maghi Egizi è sacro, lo sai. Ora, però, ho chiuso con gli scarabei. Mi sto specializzando in Vermicoli di un'incantevole tinta giallo zafferano».
Merlino inarcò un sopracciglio ma, evidentemente, preferì non indagare oltre sulla nuova passione della sua maestra. «Ma essendo fondamentalmente molto coraggioso - o molto stupido, non c'è una grossa differenza, credo - te lo dirò lo stesso: sono convinto che Sigebert tornerà a cercare le Chiavi. Ora, io so che tu sei una strega formidabile, Cliodna, ma... ecco, perché non lasci per un po' le Chiavi nelle mani di Xeno?»
«Come siamo diventati saggi, Merlino. Evidentemente la Trasfigurazione in scarabeo ti ha fatto bene».
«Evidentemente».
«Ma non lascerò le Chiavi a Xeno. Ho in mente un altro Custode. Xeno fa già la sua parte con le Chiavi».

«Infatti» approvò il centauro che, giunto silenzioso dalla foresta, avanzò fino a raggiungere i due maghi e porse un piccolo scrigno di legno scuro alla strega.

Cliodna lo prese e lo passò, senza esitare, a Merlino.
Il mago la guardò, stralunato.
«Per le trecce di Cormiac, Merlino! Sono piuttosto sicura che tua madre ti abbia insegnato a prendere gli oggetti pesanti che gravano sulle deboli braccia di una vecchia, fragile signora».
L'uomo si riscosse. «A parte che di vecchie, fragili signore qui attorno non ce ne sono... ma, le vuoi dare a me
«E a chi altri, Merlino? Sei tu il più adatto».
«Ma...»
«Ragazzino, stai per caso insinuando che non ti fidi della mia capacità di giudizio?» esclamò Cliodna con la sua voce da severa maestra, inalberando il cipiglio che aveva ridotto alla più totale obbedienza tutti i discepoli che aveva avuto nella sua lunga vita.
Non riuscì a impedirsi di ridacchiare quando vide Merlino abbassare lo sguardo, mortificato, come se fosse ancora il ragazzino di dodici anni che aveva fatto diventare giallo a pois viola il maiale della vicina. Il che avrebbe potuto, forse, passare inosservato... o, per lo meno, più inosservato delle alucce turchesi e piumate che erano spuntate sulla schiena della bestiola.
Intenerita, la donna lo costrinse a sollevare il capo e gli scostò i capelli dal viso con una carezza: «Be', ti assicuro che so quello che faccio».
Merlino accettò lo scrigno e sospirò. «Non ne dubito» sorrise, un lampo malandrino negli occhi verdi. «Dimmi solo che questa idea non ti è venuta in sogno, ti prego».
Cliodna si sollevò in punta dei piedi e gli diede un colpetto sulla testa. «Impertinente! Guarda, giovanotto, che sei ancora in tempo per dedicarti all'allevamento dei draghi, sai?»
«Uhm, no, lo escluderei. Sono troppo impegnato a tentare di, usando le parole di Sigebert, elevare i Babbani al nostro rango. Seriamente, Cliodna, ho deciso di fondare una Associazione che protegga i Babbani dai fanatici come Sigebert. Alcuni maghi hanno già aderito» sorrise orgoglioso. «Dobbiamo solo trovare un nome adatto».
Cliodna non ebbe dubbi: «Dove sta la difficoltà? Si chiamerà: Ordine di Merlino, naturalmente!».
Il mago sorrise un po' imbarazzato: «Lo hanno proposto anche i miei compagni, in effetti...»
«Un gruppo di maghi che proteggerà i Babbani... quindi ora avrai più tempo per il tuo altro progetto, Merlino» considerò pensoso Xeno, sorprendendo non poco Cliodna. Ma del resto il centauro aveva sempre avuto una spiccata simpatia per Merlino. Quando era ragazzino, il suo discepolo prediletto stava ad ascoltare per ore il centauro che gli indicava paziente le costellazioni, rivelando i loro segreti più nascosti.
«Oh, giusto. Il mio altro progetto» Merlino scoccò un'occhiata distratta alla volta celeste. «A tal proposito, devo proprio andare. Il mio protetto mi aspetta per l'alba».
«Il tuo protetto, Merlino? Ti sei deciso finalmente a prendere un discepolo? Bada che non tutti sono come Sigebert. Che comunque mi ha dato grosse soddisfazioni».
Merlino scosse la testa, esasperato. «Immagino, sì, Cliodna. Ma no, non ho esattamente preso un discepolo. Ho un protetto Babbano».
«Un re Babbano, per la precisione» informò il centauro.
«Un re?»
«Sì» ammise Merlino un po' imbarazzato. «Il giovane e promettente re di uno degli innumerevoli reami in cui è divisa questa rissosa terra. Penso che potremmo riuscire, con un po' di buona volontà, a convincere qualche re dei suddetti reami ad allearsi con noi, in modo di difendere la nostra terra dai numerosi invasori. Tranquilla, Cliodna, niente Magia. Solo politica: Uther condivide le mie idee, pare».
Cliodna annuì. Quel nome non le diceva nulla ma, ammise colpevole, non si era mai interessata particolarmente alle questioni dei Babbani. «Uther?»
Merlino si avvolse nel mantello e, prima di smaterializzarsi precisò: «Uther Pendragon».
Cliodna osservò per qualche istante il punto in cui Merlino era scomparso e ripetè: «Pendragon*?»
Xeno ridacchiò, mormorando: «Già. Forse non sei così disastrosa come veggente, Cliodna» alzò gli occhi scrutando la volta stellata e disse, con la sua voce ipnotica e distaccata. «Non sarà Uther a portare all'unione di reami che Merlino auspica. Ma colui che lo farà verrà da Uther. Merlino, Cliodna, si occuperà davvero di un cucciolo di Drago. E ne farà il Re dei Draghi di Britannia!»
«Oh, ne sono felice, Xeno. Così finalmente la smetterà di prendermi in giro per i miei sogni...»


* * *

A poche miglia di distanza, un ragazzo pallido e sottile se ne stava ritto sulla scogliera, sfidando il vento impetuoso che minacciava costantemente di strappargli il mantello. Reggeva saldamente tra le mani un grosso medaglione, osservandolo con intensità.
All'improvviso estrasse la bacchetta magica e recitò, caparbio, il complesso incantesimo che azionava la Chiave del Tempo.
Non successe nulla. Il serpente non tornò al suo posto; il suo corpo scuro non si sollevò, e la fenice non ricomparve.
Con un moto di stizza il ragazzo strinse il medaglione nel pugno, intenzionato a scagliarlo tra le onde che increspavano il mare.
Ma ci ripensò, aprì la mano e notò che il pesante medaglione si era aperto.
Somigliava a quei monili in cui le fanciulle romantiche conservavano ciocche di capelli dell'amato, e quelle più prosaiche veleni potenzialmente letali...
Era un bell'oggetto, tutto sommato. Il serpente che lo decorava formava una sinuosa esse proprio al centro. Sembrava vero. E al ragazzo piacevano i serpenti.

Si guardò attorno e cominciò a intonare una strana melodia. Supponeva che a tutti gli altri sembrasse solo un sibilo sgraziato.
Be', non lo era. Era un linguaggio ricco ed espressivo: il linguaggio dei serpenti.
Quando alcuni rettili gli si avvicinarono, attratti da quel richiamo suadente, il ragazzo mise il medaglione al collo e proclamò, solenne, usando la lingua dei serpenti: «Io continuerò la mia battaglia. Farò di tutto perché i miei simili si rendano conto della minaccia che i Babbani rappresentano per la stirpe dei maghi. E farò in modo che, se io dovessi fallire, i miei eredi proseguano questa missione. Parola di Sigebert Serpeverde!».


Pendragon * =  il sogno popolato di draghi di Cliodna merita una spiegazione, credo. Pendragon, il cognome di re Uther e di suo figlio Arthur (meglio noto come Artù e non ho mai capito perché) significa, a seconda delle traduzioni (e/o delle tradizioni): Testa di Drago o Capo dei Draghi o, ancora, Figlio del Drago. Insomma, la nostra Cliodna non è poi così male come veggente! Merlino farebbe meglio a fidarsi un po' di più dei sogni della sua saggia Maestra. ^^



Ed eccoci alla seconda tappa del viaggio.
Tappa che, con un notevole balzo, ci trasporta nella Britannia del V secolo Dopo Cristo.
Rivelandoci qualche cosa in più sulle Chiavi del Tempo e presentandoci il "fondatore" di una Casata  che avrà un certo peso nella storia di Harry Potter.
Per scrivere questo capitolo ho potuto, con mia immensa gioia, attingere a informazioni dateci da J.K. Rowling.
Cliodna, la nostra fragile strega non più giovane e un po' in declino (lei per lo meno si vede così. Solo lei, pare... ma chi siamo noi per contraddirla? Non sarebbe educato, suvvia... e poi a qualcuno piacerebbe essere Trasfigurato in uno scarabeo o in un Vermicolo di un delizioso giallo zafferano? Io ne farei volentieri a meno, onestamente) ha avuto l'indubbio onore di essere stata immortalata su una figurina delle Cioccorane. Cliodna la Druida, è il suo nome per esteso. Ed è presentata come una strega irlandese capace di Trasfigurarsi in uccello (non è specificato quale, così ho scelto un falco, mi pareva appropriato).
Merlino... be', non ha bisogno di presentazioni, lui. Comunque condivide con Cliodna l'onore di essere stato immortalato su una figurina delle Cioccorane (Silente ha ragione: tutti i migliori compaiono su quelle figurine). Vi confesserò che ho avuto grossi dubbi circa il coinvolgerlo nella mia storia. Voglio dire: è Merlino! Avevo il terrore di snaturarlo o maltrattarlo troppo... poi mi sono imbattuta in una puntata del telefilm... e ho deciso che snaturarlo di più sarebbe stato impossibile, quindi... ;) (Non mi fraintendano i fan del telefilm. E' carino, ben fatto e ben recitato ma... insomma, sarebbe un po' come se un giorno girassero un telefilm su Harry Potter e facessero Silente suo coetaneo). Spero quindi che la mia versione di Merlino (ebbene sì, l'ho immaginato nato Babbano: adoro l'idea che il più grande mago mai esistito fosse nato da genitori Babbani ^^) non offenda troppo i suoi estimatori e che, eventualmente, mi si perdoni una libera e disinvolta rilettura del personaggio. Ma, tra le altre cose, mi piaceva troppo l'idea di mostrare le origini del famoso "Ordine di Merlino"! ^^
Sigebert Serpeverde e Xeno il centauro sono invece personaggi totalmente inventati dalla sottoscritta.
E, a tal proposito: anche l'inserimento del giovane Serpeverde è frutto di una scelta tormentata... ma alla fine ho deciso di far cedere anche lui al fascino delle Chiavi del Tempo.
Mi pareva carino riuscire in un colpo solo a mostrare la nascita di un gruppo di maghi decisi a proteggere i Babbani e l'evoluzione (e le motivazioni) di uno di quelli da cui devono essere protetti. I due lati della stessa medaglia, insomma...

In ultimo: Grazie a tutti coloro che hanno letto il Prologo - è bellissimo ritornare qui dopo eoni e ritrovare il mio meraviglioso Esercito dei Silenti - a quelli che lo hanno commentato - fa sempre piacere quando qualcuno entra nella fila dell'Esercito dei poco Silenti - e a quelli che hanno già inserito la storia tra le seguite e - audaci e fiduciosi come non mai - tra le ricordate o addirittura tra le preferite!


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Capitolo 3
*** Il discepolo inesistente ***


Capitolo Secondo

Il discepolo inesistente


Regno di Scozia, 13 settembre 999 A.D.  
    
Il giovane mago si rassettò nervoso la tunica di un profondo blu notte e osservò il pesante medaglione d'oro che stringeva tra le mani: era grosso come un uovo di gallina, tondeggiante, decorato da figure - miniate con colori brillanti - talmente vivide da risultare inquietanti.
Sfiorò, suo malgrado affascinato, il corpo scuro del serpente che si snodava, sinuoso, lungo l'intero bordo dell'oggetto, la testa che mordeva la coda, nella perfetta riproduzione di un Uroborus. Al centro del monile, una fenice color corallo sorgeva maestosa da sfolgoranti fiamme d'argento.
Un oggetto interessante, indubbiamente. E molto meno innocuo di quanto potesse sembrare a prima vista.

«Caro, se non te la senti...»

Il ragazzo sollevò lo sguardo. Una strega bionda e rotondetta lo guardava con occhi colmi di preoccupazione, tormentandosi le ampie maniche della lunga veste color ocra.
Augurandosi di mostrare una sicurezza che era ben lungi dal provare, il giovane abbozzò un sorriso e rispose: «Certo che me la sento, Maestra Tassorosso».
La donna annuì, non troppo convinta.
Una strega bruna, alta e sottile, avvolta in una veste dello stesso colore di quella del ragazzo, alzò gli occhi dall'antica pergamena che teneva tra le mani e li posò su di lui, sorridendogli orgogliosa.
Orgoglio molto mal riposto, pensò amaro il ragazzo.
Era stato davvero un perfetto idiota a fidarsi del cugino.
Lo conosceva, per Merlino! Come gli era venuto in mente di condividere con lui la sua meravigliosa scoperta!
Si tolse rabbioso i capelli neri dagli occhi - ripetendosi, per l'ennesima volta, che l'intelligenza di cui andava tanto fiero doveva essere solo un'illusione - e, tentando disperatamente di non tremare, sfoderò la bacchetta.

«Ragazzo, se proprio devi farlo datti una mossa».

Una voce indolente e sarcastica infranse la sua già precaria concentrazione. Ma il giovane non sollevò lo sguardo, questa volta.
Continuò a fissare ostinato l'oggetto, cercando di concentrarsi sulle parole aliene, dalle sonorità per lui inusuali, dell'antico e complesso incantesimo che si era sforzato di memorizzare.
Il proprietario dell'indolente voce sarcastica non desistette, però. Si scostò con fluida eleganza dal muro di pietra a cui era appoggiato e si avvicinò al ragazzo.
«Secondo me non dovresti farlo» sussurrò suadente, con quella voce che sapeva essere avvolgente come acqua. «Sprecare così un oggetto di simile potere...»
Il giovane mago alzò di scatto la testa, sorpreso.
Non poteva dire sul serio.
Un oggetto, per quanto straordinario, non poteva avere più valore di quello che, grazie alla sua stupidità, il mondo rischiava di perdere.
Guardò di sottecchi il mago scarno che si accarezzava assorto la corta, curata barba scura e, scorgendo il lampo di assoluta bramosia che gli attraversò gli occhi neri e freddi come ossidiana, strinse più saldamente il medaglione tra le mani.
«Per la spada di Merlino!» tuonò un alto mago dalla chioma fulva e arruffata - curiosamente simile alla criniera del leone rampante ricamato in oro sulla sua tunica rosso cupo - attraversando la stanza con quattro atletiche falcate e afferrando per la veste verde foresta l'ossuto collega.
«Sprecare, Salazar?» chiese incredulo, posando minaccioso la mano libera sull'elsa della splendida spada che, con indubbia originalità per un mago, si ostinava a portare al fianco. «Un discepolo - un tuo discepolo, per la precisione - ha avuto la brillante idea di azionare il gemello di quell'oggetto che fissi, con imbarazzante bramosia, da quando Cosetta lo ha mostrato al ragazzo. E tu sai cos'è quell'oggetto. Mi sembra più che opportuno tentare di recuperare questo tuo discepolo! Non fosse altro che per il piacere di fargli passare la voglia di gingillarsi con cose che non conosce. Fosse un mio discepolo io lo...»
«Godric!» lo interruppe la dolce Tassorosso, sfoggiando quel particolare tono di voce che sapeva ridurre al silenzio orde di discepoli indisciplinati. Funzionò anche con l'ardente Maestro Grifondoro.
«Tu cosa?» chiese quindi la strega guardandolo severa.
Godric la scrutò per un istante, pensoso, socchiuse gli occhi respirando profondamente e, lanciando uno sguardo torvo a Salazar, mormorò: «Io avrei già strappato di mano il medaglione al ragazzino, qui, e avrei raggiunto quel...»
«Godric!» esclamò Tassorosso, fissando minacciosa il mago che la sovrastava di tutta la testa e assestandogli un colpetto deciso sul braccio. «Non davanti ai discepoli!»
Il mago sbuffò, guardando in tralice il ragazzo che stringeva con ancora più energia il monile e concluse: «Dicevo: e avrei raggiunto quel poco accorto giovinetto, riportandolo qui. Perché pensi sempre male di me, Tosca?» concluse, chinando cavalleresco il capo e sfiorando, galante, la mano della strega bionda con le labbra.
«E, così facendo, saresti impazzito definitivamente, Godric» constatò la strega bruna - ancora intenta a leggere la pergamena - con la tranquillità di chi afferma una certezza assoluta e comprovata.
«Definitivamente?» chiese l'interessato.
«Definitivamente» ribadì la strega, sollevando gli occhi dalla pergamena per degnare il mago di uno sguardo distratto. «Sei già sulla buona strada, secondo me... ma raggiungere il cugino di Al...» indicò il ragazzo che ancora reggeva il monile. «Ti avrebbe dato il colpo di grazia, mio caro. Ti ho spiegato cosa succede a chi, andando nel passato, incontra se stesso».
Godric si avvicinò al tavolo sbirciando la pergamena che tanto assorbiva la strega bruna e, dopo un istante, chiese: «Cosetta, se tu avessi la buona grazia di spiegare anche a noi cosa nasconde di tanto interessante questa vecchia pergamena ammuffita...»
«Sto decifrando. Non è facile. Queste rune sembrano tracciate da te, Godric».
«Ehi!»
«Ma, proprio grazie all'allenamento fornitomi dai tuoi scarabocchi, ho capito. Il mio brillante discepolo ha scovato un'antica pergamena che parla di una Chiave del Tempo, scritta niente meno che da Aulo Valerio Corvino» affermò indicando la firma in calce allo scritto. «Quindi, il tuo brillante discepolo, Salazar, ha pensato bene di appropriarsi di una Chiave del Tempo e di provare ad azionarla» assottigliò gli occhi, sospettosa. «Resta da scoprire come abbia fatto ad impossessarsene, però, visto e considerato che solo voi tre sapevate che il Custode della Chiavi sono io...»
Salazar sogghignò. «Il ragazzo è un discreto Legilimante. E voi tre siete abbastanza scarsi in Occlumanzia, ve l'ho sempre detto».
La strega bruna lo fulminò con lo sguardo. «Solo un folle insegnerebbe la Legilimanzia a un fanciullo».
Salazar si strinse nelle spalle e sorrise. «Ognuno di noi insegna cose folli ai suoi discepoli più promettenti, Cosetta. Tu per prima».
Non aveva tutti i torti, convenne il ragazzo vestito di blu. Probabilmente Maestro Serpeverde non era a conoscenza di quante cose folli la donna avesse insegnato a lui.
Non aveva importanza, comunque. Non era l'abilità di suo cugino in Legilimanzia il vero problema.
Suo cugino non avrebbe mai pensato di appropriarsi di una Chiave del Tempo. Suo cugino non sapeva neppure cosa fossero le Chiavi del Tempo!
E non lo avrebbe mai saputo se lui non gli avesse mostrato quell'antica pergamena.
Maledicendo la propria stupidità, il ragazzo strinse la Chiave e affermò: «Io sono pronto, Maestra».
Cosetta Corvonero distolse gli occhi dai colleghi e annuì. «Sì, abbiamo già perso troppo tempo».
Il giovane, dopo essersi accertato di avere ben chiuso il fermaglio della catena a cui era fissata la Chiave, puntò la bacchetta contro l'oggetto e declamò con chiarezza il complesso incantesimo insegnatogli da Maestra Corvonero: una versione un poco diversa da quella che era riportata dalla pergamena di Aulo.
Lui non doveva limitarsi a tornare nel passato.
Lui doveva rintracciare un viaggiatore del Tempo. E impedirgli di fare qualcosa, probabilmente. 
La Chiave vibrò, accendendosi di bagliori dorati, quindi si librò strattonando energica il ragazzo che, a un cenno di assenso di Cosetta Corvonero, si lasciò guidare docilmente, seguito dai quattro maghi adulti.
Sentendosi vagamente idiota, si lasciò trascinare dalla Chiave per corridoi e scale, uscì nel parco e s'inoltrò nella fitta foresta che circondava il Castello.
I raggi del sole di quella luminosa giornata di fine estate filtravano appena tra i rami intricati degli alberi.
La Chiave riluceva di bagliori misteriosi nella morbida penombra della foresta e il giovane mago proseguì cauto, soggiogato dalla Magia, potente e sconosciuta, emanata da quell'oggetto che aveva sempre ritenuto leggenda.
All'improvviso, giunti in una piccola radura, la Chiave cominciò a lampeggiare velocemente, il corpo sinuoso del serpente si sollevò e ruotò lento in senso antiorario.
Per undici volte.
Poi si bloccò e la fenice si mise a pulsare.

«Ora, Al!» incitò Cosetta.

Il ragazzo annuì, prese un profondo respiro e sfiorò la fenice.
Sbatté le palpebre sorpreso, quando la creatura svanì dal medaglione, lasciandovi solo alte fiamme d'argento.
Si guardò attorno, teso, osservando affascinato il grosso cerchio comparso ai suoi piedi, trasalendo quando, tra bagliori di corallo, l'immagine di una fenice apparve al centro spiegando superba le ali fiammeggianti.
Un Portale del Tempo.
Il suo Portale del Tempo, per la precisione.
Chiuse gli occhi e, prima di perdere il coraggio necessario, entrò con un balzo nel cerchio pulsante, barcollando visibilmente, ghermito da una forza improvvisa che sembrava risucchiarlo. Il mondo attorno a lui cominciò a ruotare come impazzito.
O, forse, era lui che ruotava come impazzito, realizzò, frastornato da un fastidioso, persistente ronzio.
Aprì istintivamente gli occhi, richiudendoli subito, abbagliato da accecanti lampi policromi che accendevano l'aria odorosa di ozono come prima dello scatenarsi di un temporale.

I Quattro Fondatori osservarono immobili la scena, trasalendo quando il ragazzo e il cerchio svanirono davanti ai loro occhi.
«Avrei dovuto andarci io!» ruggì Grifondoro.
Corvonero scosse il capo, coprendogli la mano che stringeva l'elsa della spada con la sua. «No, nessuno di noi quattro poteva farlo, Godric. Sicuramente questa cosa riguarda noi nel passato. E undici anni fa non ero ancora diventata Custode delle Chiavi, tutti noi pensavamo fossero solo una leggenda. Saremmo impazziti vedendoci comparire davanti una versione più vecchia di noi stessi».
«Undici anni» sussurrò Tassorosso, fissando meditabonda il punto dove, fino a qualche istante prima, si trovava il Portale del Tempo. «Cosa è successo di così importante per quel ragazzo esattamente undici anni fa?»
«Hogwarts era stato fondato già da qualche anno» rammentò Grifondoro, pensoso. «E' stato in quel periodo che abbiamo accolto nella foresta il branco di centauri di Iskander?»
«Sì, Iskander e i suoi amichetti zoccoluti si sono sistemati nella foresta proprio in quel periodo» confermò Serpeverde, una sfumatura indecifrabile nella voce. «Ma, esattamente undici anni fa abbiamo - o, per meglio dire, avete - deciso di accogliere un altro branco, ben più numeroso di quello di Iskander, e che, purtroppo, non si è stabilito nella foresta. Esattamente undici anni fa voi tre avete deciso, a maggioranza, di aprire il portone di Hogwarts anche ai nati Babbani... sguinzagliando osservatori in tutte le lande più sperdute per rintracciarli, tra l'altro».


Regno di Scozia, 13 Settembre 988 A.D.

Il giovane mago aprì gli occhi e si guardò attorno, stordito.
I raggi dorati del sole filtravano a fatica dall'intrico di rami che lo sovrastava, illuminando debolmente l'immagine della fenice su cui era disteso.
Si alzò in piedi un po' barcollante e uscì dal cerchio tracciato attorno alla figura.
Sette ore.
Maestra Corvonero era stata chiara, in proposito.
Aveva solo sette ore per rintracciare il cugino e impedirgli di fare quello che desiderava fare. Qualunque cosa fosse.
Sperava di non essere arrivato troppo tardi: il cugino si trovava in quel luogo - e in quel tempo - da qualche ora, ormai.
Al aveva dovuto convincere la sua Maestra a controllare lo scrigno delle Chiavi, prima di poterlo seguire.
Impresa non facile. La strega era stata molto sorpresa dalla sua richiesta e aveva acconsentito solo dopo avere avuto tra le mani l'antica pergamena affidata ad Al da un giovane novizio incontrato in un monastero Babbano.
Al adorava visitare i monasteri Babbani.
Al adorava tutto ciò che profumava di sapere e di arte, e i monasteri Babbani erano saturi di sapere e di arte.
Quel giovane, amabile novizio grassoccio era parso particolarmente desideroso di donargli la pergamena; risaliva a un'epoca pagana - era persino scritta con caratteri runici - e, di conseguenza, i religiosi erano decisi a distruggerla.
Era strano quel giovane novizio, in effetti. Molto strano, ora che ci pensava.
Merlino! La pergamena gli era comparsa tra le mani come se l'avesse Evocata! Al non ci aveva fatto caso al momento, per lui era una cosa normale ma... i Babbani non potevano Evocare gli oggetti!

L'urlo stridente di un uccello rapace - un falco, probabilmente - lo riscosse.

Tempo. Aveva poco tempo. Lo stravagante novizio poteva aspettare, la sua missione no.
Si sincerò che la Chiave fosse ben assicurata al suo collo, si guardò attorno per orientarsi e, rassicurato dal sommesso ronzio dell'oggetto - segno che il cugino si trovava nei paraggi - s'incamminò deciso verso il Castello.
Giunto al limitare della foresta si fermò un istante, studiando la turrita sagoma di Hogwarts che si stagliava, superba, contro il cielo limpido: era un po' diversa da come la ricordava. Era... incompleta.
Al non riuscì a impedirsi di sorridere quando scorse una versione più giovane, ma altrettanto arruffata, di Godric Grifondoro che, roteando con abilità sopraffina la sua rilucente spada argentata, intratteneva un gruppo di estasiati discepoli vestiti di rosso cupo.
Poco oltre, una manciata di ragazzini con tuniche color ocra osservava lo spettacolo, fingendo, nel frattempo, di ascoltare Tosca Tassorosso che, indicando un lussureggiante Cespuglio Farfallino, parlava animatamente.

«Ops. Scusa, ragazzo».

Al trasalì quando un ometto panciuto lo colpì con una grosse otre di pelle altrettanto panciuta.
«Idromele speciale per Dama Tassorosso. Di mia produzione» spiegò compiaciuto l'uomo, dopo essersi accertato che l'otre fosse ben chiusa. «Gran donna, Dama Tassorosso. Ha accettato di istruire il mio ragazzo. Fa accadere cose strane, il mio ragazzo. Nessuno nella mia famiglia ha mai fatto accadere cose strane, solo lui» abbassò la voce. «La gente cominciava a guardarlo storto. Una volta, per esempio, ha fatto spuntare due orecchie da asino al figlio di quella bisbetica di Lucy. A me è parso appropriato, sì. Il resto del villaggio non era d'accordo, però. Ma, da quando Dama Tassorosso lo ha accolto tra i suoi discepoli, il mio ragazzo ha imparato a controllarsi, fa ancora cose strane, ma solo quando serve. Questa estate ha liberato i granai dai topi semplicemente agitando quel suo legnetto. I vicini lo adorano, ora, il mio ragazzo. Persino quella bisbetica di Lucy» concluse orgoglioso l'uomo, sorridendogli amabile.
Al ricambiò il sorriso, felice per quell'uomo e per il figlio.
Era fermamente convinto che insegnare a controllare la Magia ai nati Babbani non era solo auspicabile, ma indispensabile: un mago adulto incapace di controllare i propri poteri poteva essere molto pericoloso, per se stesso e per l'intera comunità. Non era un caso che, in genere, i Babbani non impazzissero per i maghi. Al poteva anche capirlo, insomma, non doveva essere piacevole ritrovarsi un figlio dotato di orecchie da asino...
Assorto nei propri pensieri, il ragazzo non prestò troppa attenzione al discepolo vestito di verde che, immerso nella lettura di una pergamena, si scontrò con l'ometto e la sua otre di idromele, né all'improvviso ronzio della Chiave del Tempo.
L'uomo rovinò a terra ma l'otre rimase sospesa, fluttuando sopra la sua testa grazie a un provvidenziale colpo di bacchetta del giovane in verde che, arrotolata la pergamena, si scusò cortese aiutando l'uomo ad alzarsi. Quindi afferrò l'otre fluttuante e, dopo avere trafficato un po' con il tappo, la porse all'omino assicurando che era intatta.
L'uomo ringraziò e, dopo essersi congedato dai due giovani maghi, si avviò verso Maestra Tassorosso reggendo cauto la sua otre panciuta.

Il giovane sconosciuto si abbassò il cappuccio e Al sospirò sollevato: il giovane sconosciuto non era affatto sconosciuto.
La prima parte della sua missione poteva dirsi conclusa.
«Buonasera, cugino» sogghignò il ragazzo con la tunica verde, scostandosi i sottili capelli di un biondo chiarissimo dal viso. «Ti stavo aspettando, sapevo che mi avresti seguito. Ma sei arrivato troppo tardi, mi sa».
Al corrugò la fronte, guardandosi attorno allibito: non c'era nulla di strano, a quanto poteva notare.
Osservò, quindi, con più attenzione il cugino e notò che teneva nella mano destra una minuscola ampolla d'argento.
Non poteva avere...
Afferrò l'ampollina e annusò frenetico. «Tu! Tu hai messo...»
«Belladonna, cugino. So che esistono veleni più rapidi ed efficaci, ma questo lo usano anche i Babbani e...» si azzittì all'improvviso, sbarrando gli occhi incredulo, o forse oltraggiato.
Al non si preoccupò di scoprire il perché, però.
Gettò a terra l'ampollina e - ringraziando Maestra Corvonero e la sua propensione a impartire insegnamenti poco ortodossi ai discepoli più dotati - si Trasfigurò in un grosso gatto nero, lanciandosi all'inseguimento dell'omino che caracollava lento sotto il peso dell'otre panciuta.
Raggiuntolo - proprio mentre era in procinto di porgere il suo dono a Maestra Tassorosso - emise un basso miagolio di avvertimento e balzò sull'otre, lacerandola con gli artigli affilati.
L'uomo gridò rabbioso, guardando impotente l'idromele dorato riversarsi sulle pietre grige che lastricavano il cortile, mentre la strega, sorridendo divertita, placcò l'indisciplinato felino.

«Dannate bestiacce! Non ho mai sopportato i gatti neri, sono malvagi. Demoniaci» mugugnò l'amabile ometto, esternando coloriti improperi che consistevano, per lo più, in fantasiosi metodi di cottura atti a creare squisiti manicaretti a base di tenera carne di felino.

«Suvvia, mio buon William, è solo un micetto vivace. Non vorrete cominciare a credere alle stupide dicerie che vengono messe in giro da ignoranti superstiziosi, vero?» chiese Tosca, sollevando interrogativa un sopracciglio.
L'ometto arrossì, imbarazzato, e farfugliò qualcosa di incomprensibile.
Godric Grifondoro, attirato dai coloriti improperi dell'uomo, abbandonò gli esercizi con la spada e si avvicinò alla collega, guardando dispiaciuto la pozzanghera d'idromele. Poi afferrò il gatto per la collottola e lo studiò attentamente. «Il nostro amico peloso, qui, è dotato di un gusto particolarmente raffinato in fatto di bevande» spostò lo sguardo sull'otre lacerata e fischiò ammirato. «E di ottime lame, direi».
Tosca sorrise, accarezzando con dolcezza il musetto vellutato del gatto poi, ripulito con un esperto colpo di bacchetta l'idromele versato, prese a braccetto l'uomo e propose conciliante: «William, se rinunciate ai vostri ricchi manicaretti a base di gatto, vi inviterò a condividere la cena con noi. Purtroppo non potremo bere il vostro squisito idromele... ma le pietanze saranno deliziose, fidatevi».
Grifondoro e il micio guardarono i due allontanarsi, quindi il mago osservò ironico: «William le troverà deliziose, sì... ma a Salazar andranno di traverso. Preferirebbe di sicuro mangiare te, pelliccia compresa, che condividere il pasto con un Babbano, vuoi scommettere, gatto?»
Il gatto lo scrutò con i suoi vispi occhi grigi e, arruffando il pelo, allungò una zampata soffiando minaccioso.
Grifondoro rise, lasciando andare l'animaletto: «Ottime lame davvero, amico mio. Ottime lame». Poi, osservando il gatto allontanarsi si strinse nelle spalle e richiamò i suoi discepoli, tuonando allegro: «Va bene, ragazzi, l'esibizione è finita. Filate a studiare nella vostra Sala Comune, ci vediamo a cena... ci sarà da divertirsi!»

Il gatto raggiunse il limitare della Foresta e, assicuratosi che dal Castello nessuno potesse vederlo, riprese le sue sembianze abituali.
Quindi, massaggiandosi la nuca messa a dura prova dall'energica stretta di Grifondoro, cercò con lo sguardo il cugino, sinceramente sorpreso dal fatto che non lo avesse fermato in qualche modo: era sempre stato bravissimo con gli Schiantesimi.
Quando lo scorse, capì.
Un superbo centauro dal manto bianco si frapponeva tra il cugino e il Castello, puntando minaccioso contro il ragazzo un arco con tanto di letale freccia incoccata.
Il cugino era immobile, la bacchetta magica giaceva ai suoi piedi. Più pallido del solito fissava la creatura con occhi sgranati, colmi di sorpresa. E di rabbia.
Al si avvicinò un po' titubante. Sapeva che la foresta che circondava Hogwarts era abitata da quelle fiere creature, ma vederne una in carne e ossa era tutta un'altra storia...
Il centauro lo scrutò con distaccata curiosità, scuotendo pigro la folta coda candida. Quando i suoi strani occhi chiarissimi si posarono sulla Chiave del Tempo di Al, abbassò l'arco e sorrise enigmatico.
«Un'anomalia temporale annullata da un'anomalia temporale» mormorò apparentemente divertito. «E' già successo. Con una modalità molto simile. Non un essere umano ha sistemato le cose. Ma un "animale". Anche allora».
Al annuì con compita educazione; non ci aveva capito nulla, ad essere sinceri - Maestra Corvonero sosteneva che, a volte, non era facile comprendere i centauri - ma non gli pareva saggio contrariare quella fiera creatura. Non che ne avesse paura, anzi: ne era assolutamente affascinato.
Maestra Tassorosso diceva che i centauri non erano affatto cattivi. O feroci. Volevano solo essere trattati con rispetto. Al lo trovava giusto.
Quindi abbozzò un sorriso e chinò il capo.

«Patetico! Ora ti inchini anche a un animale! Sei la vergogna della famiglia» sibilò il cugino, fissando con disprezzo la tunica blu di Al. «Ma questo già si sapeva: unico fra tutti noi a non essere stato scelto da Serpeverde».

Al sospirò. Erano passati già sei anni da quando era stato scelto da Corvonero. La sua nobile e orgogliosa famiglia avrebbe dovuto essersi rassegnata, ormai. «Artie...»
«Non chiamarmi Artie! E' ridicolo e assolutamente privo di dignità» sibilò il cugino, alterato.
«Come preferisci, Arcturus - nome che, personalmente, trovo molto più ridicolo di Artie, ma tant'è - sei venuto nel passato per avvelenare Maestra Tassorosso?»
Arcturus sbirciò il centauro che ancora incombeva su di lui e, accertatosi di non essere più sotto tiro dell'arco, annuì.
Al scosse la testa, sconvolto. «Ma perché? Perché lei? Perché ora? Perché tornare indietro nel tempo di undici anni? Perché proprio undici anni?»
Arcturus sogghignò irridente, chinandosi guardingo a raccogliere la propria bacchetta magica: «Perché, Aldebaran...»
«Non chiamarmi Aldebaran! E' un nome stupidissimo. Anche peggio di Arcturus».
«E' il tuo nome: Aldebaran Black. Comunque, sono tornato indietro di undici anni perché, proprio questa sera, Grifondoro, Tassorosso e Corvonero decideranno non solo di ammettere sporadicamente qualche nato Babbano a Hogwarts, cosa che già fanno, ma di cercarli appositamente e di portarli qui. E lo faranno proprio per colpa di quel Babbano ciccione, così grato a Tassorosso perché convinto che imparare a usare la Magia sia stata la salvezza del figlio».
«E' la verità».
«E chi se ne importa! La conoscenza magica dovrebbe appartenere solo ai maghi».
«Chiunque possiede poteri magici è un mago, Arcturus. Non importa da chi sia nato. Tua sorella è Purosangue, ma non possiede alcun potere magico».
«Io non ho sorelle, Aldebaran, ti pregherei di ricordarlo» ribatté gelido Arcturus, gli occhi neri colmi di puro sdegno.
Al trattenne a stento la rabbia. Non era mai stato tanto tentato di trasfigurare il cugino in qualcosa di appropriato: un Vermicolo, per esempio. Spica, la sorella di Arcturus, era una ragazzina adorabile ma, ovviamente, la fiera casata dei Black non sapeva che farsene di una Magonò.
Respirò profondamente, cercando di trattenersi: un Vermicolo non avrebbe potuto rispondere alle sue domande, purtroppo.
«Ma perché Maestra Tassorosso?» chiese sinceramente allibito. Davvero, non riusciva neppure a concepire che qualcuno volesse fare del male alla gentile Tosca Tassorosso.
«Perché è stata, o sarà, a seconda dei punti di vista, proprio lei la più accanita sostenitrice della causa. Se fosse stata avvelenata da un Babbano - e sono sicuro che la tua brillante Maestra Corvonero avrebbe scoperto subito che di avvelenamento si trattava - Serpeverde non sarebbe stato il solo ad opporsi all'eventualità di accogliere sistematicamente i nati Babbani ad Hogwarts».
Al boccheggiò, disgustato, non sapendo come ribattere al delirio del cugino, poi notò che la Chiave del Tempo di Arcturus lampeggiava freneticamente: al centro dell'oggetto si cominciava già a scorgere una figura alata color corallo. Non c'era più tempo.
«Dov'è il tuo Portale, Arcturus? La tua Chiave lampeggia».
Il ragazzo alzò le spalle disinteressato e, scoccando un'ultima occhiata colma di rancore al centauro si incamminò verso il Castello, urlando: «E allora? Che lampeggi. La mia missione non è conclusa! Ho ancora la possibilità di cambiare la storia. Il Babbano cenerà al Castello. E io ho altri piani!»
Al non ne dubitava.
Conosceva il cugino.
«Lo so. E' il tempo che ti manca. Il tuo Portale sta per richiudersi! I compagni di Cormiac...»
«Sciocchezze! Favole per spaventare i marmocchi creduloni come te, cuginetto! Non è mai esistito nessun compagno di Cormiac. Non c'è alcuna traccia dei compagni di Cormiac. Solo Cormiac è esistito, e non poteva certo essere così stolto da mettere limiti a un simile oggetto di potere!»
Girandosi verso il cugino, Arcturus agitò il braccio: il beffardo gesto di saluto di un giovane dio che si crede onnipotente.
Prima che potesse aggiungere altro, la Chiave smise di lampeggiare. L'aria attorno ad Arcturus cominciò a tremolare, il ragazzo sembrava rarefatto, avvolto in una coltre di nebbia sempre più fitta che aleggiava su di lui. Solo su di lui.
Al si sfregò gli occhi, poi guardò incredulo Arcturus svanire. Letteralmente.
Si slanciò in avanti, impugnando la bacchetta e cercando un incantesimo per fare riapparire il cugino. Doveva esserci un modo. C'era sempre un modo.
Quando qualcosa di tiepido gli strinse una spalla, soffiò come aveva fatto in forma di gatto e tentò disperatamente di liberarsi da quella morsa d'acciaio.

«Non c'è nulla che tu possa fare per lui, ormai. E' perso. Perso nelle pieghe del Tempo».

Al si riscosse al suono di quella voce profonda e ipnotica.
«Ma...» farfugliò confuso.
«Quando un Portale si chiude, si chiude per sempre. Il tuo amico non lo ha attraversato in tempo. E' perso, ormai. Come i compagni di Cormiac. No, non sono una favola: Caalum e Rhys sono esistiti, come Arcturus. Ma, come Arcturus, si sono persi nel Tempo».
Al lo guardò frastornato, lanciando di tanto in tanto sguardi verso il punto in cui era sparito il cugino.
«Ma lui dov'è, ora?»
Il centauro scosse il capo e si strinse nelle spalle. «Lui non è. Semplicemente. E' come se non fosse mai stato».
«No! Lui è stato! Io lo so che lui è stato!»
«Certo. Perché tu c'eri. Eri qui. Sai del suo Viaggio nel Tempo. Ma per chi non sa... lui non è mai stato. Anche Cormiac ricordava i suoi compagni. Ma solo Cormiac. E Kyros, che sapeva della loro impresa. Per tutti gli altri Caalum e Rhys non sono mai esistiti. Sono solo una leggenda, nulla di più. Cormiac non ha potuto tornare indietro nel tempo per salvarli perché non li avrebbe trovati: Caalum e Rhys non erano, semplicemente».
Il ragazzo abbassò il capo, sconfitto.
Sapeva che il centauro aveva ragione. Lo sentiva. Ma era difficile convincersene. Era difficile accettare di non essere riuscito a salvare Arcturus. Di non potere neppure tentare di salvare Arcturus.
«Aldebaran Black» il ragazzo fece involontariamente una smorfia sentendo il nome e il centauro sorrise. «Non disprezzare il tuo nome. Aldebaran è una stella bellissima, molto saggia, puoi imparare molte cose osservandola, e ascoltandola. Fu proprio Aldebaran a suggerire a Kyros di aiutare Cormiac a creare le Chiavi del Tempo. Le Sette Chiavi del Tempo. Sette come le Pleiadi».
«Allora non è molto saggia la tua Aldebaran. Non sono sicuro che le Chiavi siano oggetti buoni».
Il centauro si scostò i lunghi capelli bianchi dal viso e si strinse nelle spalle. «Sono solo oggetti. Gli oggetti non sono né buoni né cattivi, Aldebaran. Tutto dipende da chi li usa».
«Arcturus avrebbe ucciso una persona. E probabilmente messo nei guai molti nati Babbani, grazie a una Chiave del Tempo».
«Vero. Ma Aulo ha salvato suo padre, grazie a una Chiave del Tempo».
Al ci pensò un istante. Se davvero una vita umana era stata salvata grazie a una Chiave del Tempo, allora era un bene che fossero state create. «Forse Aldebaran non è così male. Forse un po' saggia lo è».
Il centauro sorrise. «Aldebaran è molto saggia. E anche Cormiac lo era: sapeva che dei limiti vanno sempre posti agli oggetti di potere. E lo ha fatto. Non più di vent'anni indietro nel tempo e non più di sette ore di apertura del Portale».
Il ragazzo scosse il capo e sospirò mesto. «Per colpa mia due Chiavi del Tempo sono andate distrutte. Ora ne rimane solo una».
«Se anche fosse non ci sarebbe nulla di male. Così era scritto. E poi non hai distrutto due Chiavi. Il tuo amico ne ha distrutta una. Tu non è detto».
«Nella sua pergamena Aulo ha scritto...»
«Aulo non sapeva tutto delle Chiavi, non era il Custode quando ha scritto quella pergamena».
«Sei tu il Custode, ora?»
«No. Noi centauri sappiamo, però. Abbiamo il compito di vegliare sul Custode delle Chiavi. Se tu non fossi intervenuto per evitare azioni che avrebbero potuto sconvolgere il corso della storia, sarei dovuto intervenire io».
Un rumore di zoccoli furibondo fece trasalire Al che si guardò allarmato alle spalle.
Quattro centauri avevano raggiunto il limite della foresta e osservavano fieri la scena.
Uno di loro si fece avanti, salutò il centauro bianco con un cenno del capo e disse: «Un Portale del Tempo si è chiuso: una parte dell'anomalia si è assorbita, Iskander».
Il centauro bianco annuì. «Sì. E presto si assorbirà anche l'altra» tornò a rivolgersi al ragazzo. «Tu non hai colpe, Aldebaran. Torna al Portale, ora. E tramanda la conoscenza, così vogliono le stelle» quindi volse le spalle al mago e, dopo un ultimo cenno, s'inoltrò nella foresta, subito seguito dagli altri centauri.

Aldebaran si sfregò stancamente gli occhi e si lasciò cadere a terra, confuso e svuotato.
Le parole pronunciate dal centauro gli vorticavano nella testa ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a comprenderle appieno.
Ci avrebbe pensato più avanti, forse; ora aveva qualcosa di più urgente da fare.
Era tentato di smarrire anche se stesso nel Tempo: magari avrebbe scoperto cosa era successo ad Arcturus. Lo studioso che c'era in lui era affascinato dalla prospettiva.
Ma una frase pronunciata dal centauro rimbombava insistente nella sua mente: tramanda la conoscenza. Sì. Quella era sicuramente la cosa più importante. E più utile: se avesse tramandato la conoscenza nessuno si sarebbe più perso nel Tempo. Lo avrebbe fatto. Lo doveva fare. Lo doveva ad Arcturus.
Si alzò in piedi e lanciò un'occhiata al Castello incendiato dalla luce aranciata del tramonto. Alcuni ragazzi vestiti con tuniche blu circondavano Maestra Corvonero, ascoltando rapiti le parole che uscivano dalle labbra della strega.
Una bambina minuscola giocherellava con la bacchetta magica, mentre osservava incantata il volo aggraziato di uno sciame di fate. Improvvisamente scintille colorate fuoriuscirono dalla bacchetta della bambina, colpendo il ragazzino sedutole accanto che si ritrovò dotato di una chioma iridescente come polvere di fata. La bambina abbassò gli occhi impaurita, proteggendosi istintivamente la testa con le mani. Cosetta Corvonero gliele scostò gentilmente, rassicurandola: «Qui nessuno ti punirà se ti scapperà qualche incantesimo, Mary. Qui imparerai a controllare la Magia. Tra l'altro a Rufus quel colore sta d'incanto» affermò seria la strega, scatenando le risate divertite di tutti i ragazzini, Rufus compreso.
Aldebaran sorrise: i nati Babbani dovevano frequentare Hogwarts.
Arcturus aveva tentato di impedirlo e lui lo aveva fermato. Mary avrebbe imparato a controllare i suoi poteri. Mary non sarebbe più stata punita dai suoi vicini.
Forse aveva distrutto una Chiave, ma ne era sicuramente valsa la pena.
Un po' sollevato, si inoltrò nella foresta: la sua missione era conclusa, non gli restava che riattraversare il Portale del Tempo.


Regno di Scozia, 13 settembre 999 A.D.

Aldebaran serrò gli occhi, esausto.
Nelle orecchie aveva ancora un canto dolce e misterioso. Un canto che aveva placato il suo dolore.
Confuso, tentò di ricordare cosa gli avesse fatto provare quel dolore.
Poi ricordò.
Ricordò l'omino che caracollava sotto il peso della panciuta otre di idromele; ricordò Grifondoro che roteava esperto la sua spada rilucente; ricordò Tassorosso che spiegava qualcosa a ragazzini distratti dallo spettacolo offerto da Grifondoro... e ricordò Arcturus.
Arcturus.
Aldebaran si portò un pugno alla bocca e soffocò un singhiozzo.
Una mano carezzevole gli scostò i capelli dal viso e una voce dolce mormorò, materna e consolante: «Va tutto bene, caro. Sei stato bravissimo».
Aldebaran aprì gli occhi, ritrovandosi a fissare il viso preoccupato di Tosca Tassorosso e si lasciò avvolgere dalla forza calda e rassicurante della strega.
Poi scosse il capo, mormorando: «Ho perso Arcturus».

«Arcturus si è perso da solo, Aldebaran».

Il ragazzo distolse gli occhi dalla strega e cercò con lo sguardo colui che aveva pronunciato quelle parole.
Aveva riconosciuto quella voce profonda e ipnotica. L'avrebbe riconosciuta tra mille.
Ai limiti della radura, un maestoso centauro dal manto bianco lo guardava. Le braccia conserte, i lunghi capelli candidi scompigliati dal vento.
Aldebaran lo ricordava meno massiccio. Più giovane. Ma era Iskander, non potevano esserci dubbi...

«Tu gli hai impedito di compiere un grosso errore» lo rassicurò pacato il centauro, cominciando poi a narrare ai Quattro Fondatori le gesta del giovane mago.
Aldebaran ascoltò tutto restandosene raggomitolato su se stesso, le mani spasmodicamente serrate attorno alle ginocchia e gli occhi chiusi.
Arcturus non sarebbe tornato.
Arcturus non lo avrebbe più irritato con i suoi deliri sull'importanza del sangue puro.
Arcturus non lo avrebbe più tormentato presentandogli orde di ragazze più stupide di un Troll di Montagna ma di comprovata e antica stirpe magica.
Arcturus non lo avrebbe più esasperato in nessun modo.
Arcturus, insomma, gli sarebbe mancato da morire.
E la cosa peggiore era che sarebbe mancato solo a lui.
Persino i Quattro Fondatori faticavano a ricordare Arcturus!
E loro sapevano.
Quando il centauro ebbe terminato il suo racconto, Aldebaran si alzò, si tolse la Chiave dal collo e la porse a Corvonero.
«Mi dispiace, Maestra» sussurrò mesto, gli occhi grigi colmi di sconfortata amarezza. «Ora rimane una sola Chiave funzionante. Spero solo che sarà usata con più saggezza».
La strega prese l'oggetto che il ragazzo le porgeva e lo osservò: «Al, non...»
Il ragazzo scrollò le spalle e la precedette. «Non ha importanza, Maestra. Vorrei andare, ora. Col vostro permesso vorrei ricopiare la Pergamena di Aulo. E vorrei aggiungere qualche annotazione a proposito del funzionamento del Portale del Tempo: nessun altro dovrà fare la fine di Arcturus».
«Ma...» insistette la strega, allungando una mano verso il discepolo.
Il centauro le sfiorò una spalla scuotendo la testa e Corvonero annuì: «Va bene, Al. Vai pure».
Il ragazzo chinò il capo e si allontanò in direzione del Castello.

Corvonero guardò il centauro: «Non ha distrutto la Chiave. E' solo scarica. Si ricaricherà».
Il centauro annuì: «Lo so. Ma a lui non interessa saperlo, al momento. Tutto quello che vuole fare è tramandare la conoscenza. Mi pare saggio».
«Davvero?» domandò Tassorosso osservando addolorata il punto in cui il ragazzo era scomparso. «Non sono così sicura che le Chiavi del Tempo siano conoscenza da tramandare. Creano solo guai».
Il centauro scosse indolente la folta coda bianca. «Non per colpa loro. La responsabilità è del mago che le usa».
«E' quello che tento di fare capire da sempre a questi tre testoni» esclamò Serpeverde, insofferente. «Non esiste una Magia cattiva. Ma solo maghi che la usano male».
«Non ci provare, Salazar» ribatté immediatamente Grifondoro. «La Magia che intendi tu non è solo cattiva. E' oscura. E a Hogwarts non verrà mai insegnata».
Serpeverde sbuffò, sfiorando sovrappensiero il ricamo argentato - un sinuoso intreccio di serpenti - che impreziosiva la sua tunica verde e osservò: «Anche tu ti interessi a quella stessa Magia che definisci oscura, Godric».
«Vero. Ma solo per trovare dei sistemi per neutralizzarla, Salazar. A te interessano le Arti Oscure. A me la Difesa contro le Arti Oscure... non è esattamente la stessa cosa».

Il centauro sorrise enigmatico, scrutando il cielo terso in cui cominciavano a spuntare le prime stelle: «I tempi stanno maturando. Hogwarts seguirà il suo corso. Sarà quello che era scritto dovesse essere. Grazie ad Aldebaran».
Così dicendo si inoltrò silenzioso nella foresta, lasciando i quattro maghi a fissarlo allibiti.
«Uhmf» bofonchiò Grifondoro. «Detesto quando i centauri parlano come centauri!»
«Ah, per una volta devo dirmi perfettamente d'accordo con te, Godric. Che ti assalga una Manticora se ho capito cosa voleva dire» rincarò Serpeverde.
Grifondoro lo fissò, inarcando un sopracciglio. «Come sarebbe a dire che mi assalga una Manticora? Non dovrebbe assalire te, la suddetta Manticora, visto che sei stato tu a chiamarla in causa?»
Salazar ci pensò un istante. «Quisquilie. Resta il fatto che sono d'accordo con te: detesto i centauri quando parlano come centauri».
Corvonero aggrottò la fronte, pensierosa: «Quello che ha detto Iskander è molto profondo. Solo che, al momento, mi sfugge il senso più recondito».
I due uomini la guardarono con esasperato divertimento, mentre Tassorosso la prese sottobraccio dirigendosi al Castello. «Ecco, Cosetta cara, in attesa che tu trovi il senso più recondito della frase molto profonda di Iskander, proporrei di radunarci tutti nel mio studio a meditare sul fatto che Hogwarts sarà quello che era scritto dovesse essere. William mi ha appena fatto avere la solita otre del suo paradisiaco idromele, sapete?»


Regno di Scozia, 14 Settembre 999 AD.

Salazar Serpeverde se ne stava appoggiato al davanzale della finestra del suo studio, godendosi il tramonto e osservando Godric Grifondoro che, roteando con energia la sua spada scintillante, intratteneva un nutrito gruppo di ragazzini.
Salazar poteva scorgere discepoli con tuniche rosse, ocra, blu e, notò con un certo disappunto, verdi attorno a lui.
Doveva ammettere che lo spettacolo aveva un suo fascino, ma non voleva che i suoi discepoli provassero interesse per una pratica così irrimediabilmente Babbana.
Con uno sbuffo contrariato volse le spalle alla finestra e si accostò al tavolo. Cominciava ad essere stanco della piega che stava prendendo Hogwarts.
Per un piacevole istante aveva sperato che quel ragazzo... Arcturus... riuscisse nella sua impresa.
Quando lo aveva aiutato ad appropriarsi di una Chiave del Tempo, non aveva avuto idea che il ragazzo avesse intenzione di avvelenare Tosca, o gli avrebbe imposto di cambiare piano.
Non solo la strega gli stava sinceramente simpatica, ma era una Purosangue, ed era un grosso spreco versare puro sangue magico.
Ma Arcturus non aveva voluto confidarsi, aveva deciso di fare di testa sua e, dopo tutto, a Salazar andava bene così. Apprezzava i discepoli astuti e ambiziosi: gli ricordavano un po' se stesso.
Certo, se quello stupido non avesse mostrato la Chiave al cugino, prima di usarla...
Pazienza, aveva altre strade da seguire. Studiò attentamente le piante del Castello tracciate sulle pergamene che ricoprivano il tavolo.
Sì, aveva in mente di apportare una modifica ai sotterranei: voleva aggiungere una camera.
Una camera irraggiungibile, in cui conservare alcune cose di sua proprietà; una camera di cui nessuno avrebbe saputo l'esistenza, solo lui ed, eventualmente, i suoi eredi: una Camera dei Segreti.
Compiaciuto, Salazar strinse in pugno l'antico medaglione che portava al collo.
Somigliava a quei monili in cui le sciocche fanciulle romantiche conservavano ciocche di capelli dell'amato, e quelle più sagge veleni potenzialmente letali...
Era un bell'oggetto, tutto sommato. Apparteneva ai Serpeverde da secoli.
Il serpente che, in origine, lo aveva decorato formando una sinuosa esse proprio al centro si era sbiadito col tempo e Salazar lo aveva ritracciato, rendendolo più elaborato e ricoprendolo di smeraldi purissimi. Forse ora quel decoro sembrava più una esse molto ricercata, ma il serpente stilizzato si intuiva ancora.
E gli smeraldi non sbiadivano.
Quel monile avrebbe attraversato indenne i secoli, passando da Serpeverde a Serpeverde.
Sorridendo soddisfatto il mago aprì il medaglione, estraendo un pezzetto di fragile, antica pergamena, e lesse ad alta voce, usando la lingua dei serpenti, le parole che vi erano vergate.
«Io continuerò la mia battaglia. Farò di tutto perché i miei simili si rendano conto della minaccia che i Babbani rappresentano per la stirpe dei maghi. E farò in modo che, se io dovessi fallire, i miei eredi proseguano questa missione. Parola di Sigebert Serpeverde!»
Il mago annuì orgoglioso, prima di ripiegare con cura il bigliettino, ed esclamò convinto: «E parola di Salazar Serpeverde».




Ed eccoci alla terza tappa del Viaggio.
Altre notizie sulle Chiavi del Tempo vengono rivelate e, finalmente, cominciano a comparire personaggi potteriani!
Del resto, nella storia delle Chiavi del Tempo, potevano forse mancare i Quattro Fondatori di Hogwarts? Giammai, naturalmente! ù.ù
Così eccoli qui, in tutto il loro splendore!
Spero di non aver combinato troppi pasticci presentando Tosca Tassorosso, Cosetta (o Priscilla... non ho mai capito con esattezza quale sia il suo nome esatto, ma ho optato per Cosetta per mantenere le iniziali uguali) Corvonero, Godric Grifondoro e Salazar Serpeverde (che appartengono rigorosamente a J.K. Rowling. Io li ho solo presi in prestito per questa tappa del Viaggio) ma è esattamente così che me li immagino!
Come avrete notato, in un momento di delirante mania di grandezza, ho ipotizzato che il celeberrimo medaglione di Serpeverde fosse in realtà la Chiave del Tempo distrutta da Sigebert Serpeverde. Spero vogliate perdonarmi questo attacco di megalomania compulsiva. ^^
Per finire qualche spiegazione sul protagonista di questo capitolo: Aldebaran Black.
Prima di tutto due parole sul nome: lo so, avrei potuto scegliere uno dei fantasiosi nomi "astronomici" che compaiono (e ricompaiono) nell'Albero Genealogico dei Black, ma ho preferito optare per un nome "nuovo". Sia per rispetto verso i personaggi inventati da J.K. Rowling, sia per sottolineare la "particolarità" di Aldebaran, che non è esattamente un Black di cui la famiglia andrà particolarmente fiera: il suo nome non sarà tramandato ai futuri rampolli della Casata, insomma. Del resto quale Black "regolamentare" avrebbe imposto a un proprio virgulto il nome di un originale figuro prescelto da Corvonero e convinto della necessità di accogliere i nati Babbani nella comunità magica?
Scegliendo il nome ho però deciso di mantenere la tradizione "astronomica". Aldebaran, che deriva dalla parola araba 
al-Dabarān ossia "L'Inseguitore" (e quindi mi pareva molto appropriato al personaggio in questione), è la stella Alfa della costellazione del Toro, la stessa costellazione delle Pleiadi.
Inoltre questo nome ha una particolarità che tornerà utile per il seguito della storia. E, infine, ha un suono che mi piace molto, quindi...
In secondo luogo un "avviso di servizio": Ad Aldebaran è toccato il dubbio onore di inaugurare una "tradizione" che ci accompagnerà per tutta la parte centrale della storia: il protagonista principale del capitolo (colui - o colei - che "filtrerà" la storia raccontata) sarà un membro - più o meno "alternativo" - della nobile e antichissima Casata dei Black.

Chiudo l'angolo delle "Farneticazioni dell'Autrice" approfittando di questo ultimo scorcio della giornata per augurare a tutti un Buon Ferragosto!
Un po' tardivo, lo so... ma meglio tardi che mai, no? ;)




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Capitolo 4
*** L'Orda del Tempo ***


Capitolo Terzo

L'Orda del Tempo


York, notte tra il 2 e il 3 di maggio 1382 A.D.

La luna brillava alta e piena, quella notte, disegnando dense ombre sul selciato sconnesso dell'angusto vicolo.
La giovane donna, dopo averle scoccato un'occhiata pensosa, si avvolse meglio nel mantello e affrettò il passo.
Sedici anni, pensò sconcertata, sfiorando il massiccio medaglione che portava al collo.
Sedici anni, e lei davvero non capiva il perché.
Avrebbe giurato che gli anni sarebbero stati venti. Lo avrebbe anche capito, in quel caso. Ma così...
Scosse il capo, turbata, schivando con eleganza un ratto grosso come Balthazar - il suo adorato gatto - e chiedendosi, per l'ennesima volta, dove potesse essere andato quell'uomo esasperante.
Costringerla a intraprendere una simile avventura all'insaputa di Aurelius e dell'intera Orda!
Ma ci avrebbe pensato lei a farlo rinsavire. Si sarebbe pentito di quel gesto scriteriato. Lo avrebbe strigliato per benino, altroché! Gli avrebbe...
Oh, ma chi voleva prendere in giro!
Non gli avrebbe fatto proprio niente, questa era la triste verità.
Si sarebbe limitata a sorridere con quell'aria ebete che le si appiccicava in faccia ogni volta che John incrociava la sua strada.
Cosa inevitabile visto che, dai tempi di Hogwarts, era innamorata persa dell'irritante soggetto in questione.
Già, lei, Althea Black, innamorata persa di un nato Babbano. Smistato a Grifondoro, per di più.
E, giusto per rincarare la dose, allevato da un membro dell'Ordine di Merlino.
Non che a lei importasse; ma ai suoi amorevoli parenti sarebbe venuto un accidente se lo avessero saputo.
O forse no.
I suoi amorevoli parenti si aspettavano cose assolutamente turpi, da lei.
Erano preparati.
Aveva gli occhi grigi. E ogni Black degno di questo nome sapeva bene che non ci si poteva aspettare nulla di buono da un Black con gli occhi grigi. Erano strani i Black con gli occhi grigi. Propensi a devianze insensate.
E Althea non faceva eccezione.
Lo aveva dimostrato fin dalla più tenera età, raccogliendo tutti i randagi che le capitavano a tiro e portandoli nell'avita dimora.
La conferma più eclatante l'aveva poi data al suo arrivo a Hogwarts, quando era stata smistata niente meno che a Tassorosso.
Tassorosso!
Sua madre era sopravvissuta a stento alla crudele notizia. Il padre era parso meno provato: dove altro avrebbe potuto essere smistata, in fondo, una Black con gli occhi grigi che raccoglieva tutti i randagi che le capitavano a tiro?
Stringendosi rassegnata nelle spalle, Althea alzò lo sguardo: il centauro incontrato nella radura in cui si era aperto il Portale del Tempo non si era sbagliato.
L'oscurità stava già cominciando ad ammantare il disco argenteo della luna: un'eclissi.
Un fatto assolutamente naturale, come ogni buon astronomo sapeva.
Ma i Babbani non erano affatto buoni astronomi. Non più.
Avendo dimenticato come spiegare fenomeni del genere, si rifugiavano in tetre e superstiziose leggende "ispirate", per lo più, da maghi privi di scrupoli e colmi di odio - Aurelius sosteneva fosse paura - verso i Babbani o, meglio, verso i maghi nati da Babbani.
Althea saltò con agilità una pozzanghera maleodorante e sbuffò esasperata: detestava la situazione creatasi grazie al comportamento irresponsabile dei succitati maghi ispiratori di leggende.
I Babbani provavano da sempre un sospetto istintivo per i maghi e quelle tetre storie, alimentandolo sapientemente, li spingevano a comportamenti inconsulti e violenti che si stavano rivelando devastanti per gli stessi Babbani.
Solo per loro.
Erano i loro bambini che, se si rivelavano dotati di poteri magici, venivano sistematicamente trucidati - assieme ai genitori se questi tentavano di difenderli - da vicini di casa inferociti e terrorizzati.
Erano le loro donne, del tutto prive di ogni potere magico, a venire arse vive.
Assieme ai loro gatti, naturalmente. Althea era stata adottata da Balthazar proprio dopo averlo strappato dalle mani di uno zelante ciabattino.
L'emaciato omuncolo le aveva urlato stizzito che non sapeva cosa stava facendo; che i gatti erano animali pericolosi e demoniaci.
L'emaciato omuncolo aveva seriamente rischiato di vedersi trasfigurato seduta stante in un vaso da notte, ricordò Althea, scalciando rabbiosa un sasso che colpì un ratto ancora più grosso di quello incontrato in precedenza.
Eccola la conseguenza più diretta del dissennato sterminio dei gatti: topi grossi come volpi scorrazzavano indisturbati per la città, nutrendosi degli abbondanti rifiuti e portando malattie aggressive come la Grande Pestilenza che, decenni prima, aveva decimato la popolazione di York. E dell'Europa intera.
Ancora una volta, erano stati i Babbani a pagare il prezzo più alto.
Quasi esclusivamente i Babbani.
E, come era immaginabile, dopo la Grande Pestilenza la situazione era precipitata.
I roghi venivano innalzati con una frequenza inquietante: chiunque veniva sorpreso a fare qualcosa di strano, o di supposto tale, era tacciato come untore - o come strega - e condannato ad ardere sulla pubblica piazza.
Ma nessuna vera strega era mai arsa sulla pubblica piazza, di conseguenza alla comunità magica interessava molto poco la questione.
Solo i membri dell'Ordine di Merlino - che avevano giurato di proteggere i Babbani - tentavano di limitare i danni. Agendo nell'ombra, naturalmente.
Molti maghi non avrebbero gradito, no.
E neppure i Babbani sarebbero stati entusiasti della cosa.
Per fortuna, i membri dell'Ordine avevano molta fantasia...
In ogni città d'Inghilterra esisteva ormai un gruppo di maghi che si era prefisso il compito di salvare gli innocenti dai roghi usando tutti i mezzi - magici e non - a disposizione.
Aurelius era a capo del gruppo di York. Anche Althea faceva parte di quella manciata di maghi, di quell'Orda, come amava definirla lei.
I fieri membri della nobile casata dei Black ne erano all'oscuro, ovviamente.
Ma, del resto, lei era una Black atipica, come il suo antenato prediletto: Aldebaran Black.
I suoi genitori non parlavano volentieri di Aldebaran. Per svariati motivi.
Era stato un Black assai poco affidabile: come tutti i Black dagli occhi grigi.
Ma Althea sapeva molte cose su di lui. Era stata proprio una pergamena scritta da Aldebaran a condurla da Aurelius. Una pergamena che parlava delle Chiavi del Tempo.
Aldebaran aveva custodito le Chiavi per decenni, senza più utilizzarle dopo la sua prima, fallimentare esperienza e, con l'aiuto del centauro Iskander, aveva posto le basi per la creazione delle sorelle minori delle Chiavi: le Giratempo.
Quelle stesse Giratempo che permettevano ai membri dell'Orda di addentrarsi nel passato per salvare le vittime innocenti di quella follia collettiva scatenata dai maghi ossessionati dalla purezza del sangue.
Althea osservò pensosa il medaglione che portava al collo: nessun membro dell'Orda aveva mai viaggiato così lontano nel tempo, però.
Le Giratempo non lo permettevano.
Le Giratempo concedevano solo qualche ora. Qualche giorno, nel caso di quelle più potenti. Ma anni... no, nessuno aveva più tentato un'impresa del genere dai tempi di Aldebaran Black.

Un rumore di passi frettolosi distolse Althea dalle sue elucubrazioni.

Torce. Molte torce.

Un gruppo di persone - uomini, donne e bambini - si era riversato in strada dirigendosi, a passo sostenuto, verso la Piazza della Cattedrale.
Althea lo seguì silenziosa, coprendosi scrupolosamente la testa con il cappuccio del mantello.
La Chiave ronzava sommessa, indicando che anche John doveva essere nei paraggi. Althea non ne comprendeva il motivo, però.
Sbucata nella piazza, la strega si guardò attorno.
La folla si accalcava, accerchiando frenetica un palco improvvisato con qualche asse di legno e scrutando impaurita il cielo: metà luna era già stata coperta, come inghiottita dall'immonda bestia che popolava gli incubi superstiziosi di quella povera gente.
Sul palco, un uomo alto e massiccio arringava la folla terrorizzata: «Nulla di male potrà accadere ai buoni cittadini, figli miei» proclamava stentoreo con la sua piacevole voce baritonale. «La luna tornerà ad illuminare le notti delle persone virtuose, se queste continueranno a temere il Maligno e a consegnare alle autorità i suoi adoratori».
Althea sbuffò, tentata dall'idea di colpire con uno Schiantesimo il loquace oratore.
Fortunatamente per lui venne distratta dalla Chiave del Tempo che cominciò a ronzare con maggiore intensità; sorpresa, Althea distolse gli occhi dal predicatore e scrutò con attenzione la piazza.

Un uomo dai capelli chiari se ne stava spavaldo lontano dalla folla.

Non tremava, non salmodiava nenie lamentose, non si avvicinava al predicatore in cerca di conforto.
Se ne stava semplicemente lì, in disparte, appena lambito dal chiarore rassicurante delle torce. Solo.
Althea gli si avvicinò rapida, nascondendo sotto il mantello la Chiave del Tempo che, accesasi di bagliori dorati, proclamava imperiosa di avere finalmente ritrovato la propria gemella.
«John?» mormorò sollevata la donna, odiandosi per il sorriso ebete che, ne era certa, le stirava le labbra.
L'uomo si voltò di scatto, sbigottito.
Poi abbassò con decisione il cappuccio che nascondeva il viso della donna e gemette esasperato: «Al...»
Althea ridacchiò: Al. Solo lui osava chiamarla in quel modo assurdo; l'aveva sempre chiamata in quel modo assurdo, incurante, come un vero, ardimentoso Grifondoro, delle minacce da lei propinategli per convincerlo ad abbandonare quella deprecabile abitudine.
L'uomo le scoccò uno sguardo contrariato e sospirò: «Dovevo immaginarlo. Ma come hai fatto a...»
«Me lo aspettavo. Da quando so che Aurelius è il Custode delle Chiavi ti tengo d'occhio».
L'uomo inarcò un sopracciglio, sconcertato. Poi proseguì: «Non ti permetterò di fermarmi, Al. Devo farlo. E questa notte avrò l'occasione perfetta. Devo solo aspettare il momento giusto».
«Temo tu abbia sbagliato anno, John...» sussurrò la donna osservando il predicatore che continuava, imperterrito, ad arringare la folla.
John scosse il capo, fissando nervoso il cielo. «No. Non ho sbagliato anno».
«Ma...»
Con un gesto secco l'uomo l'azzittì e, proprio mentre la luna veniva completamente avvolta dall'oscurità, estrasse dal mantello una balestra incoccando, rapido, un piccolo dardo piumato.
Althea trattenne il respiro, disorientata.
La folla attorno a loro gemeva, impaurita, e il predicatore indicò ieratico il cielo, gridando: «Che io possa venire trapassato proprio ora da un dardo di balestra, se vi sto mentendo!».
Allora Althea capì e, agendo d'impulso, si scagliò contro il compagno con tutta la forza del suo peso.

Non fu la sola.

Un grosso maiale bianco, sbucato da solo Merlino sapeva dove, la anticipò, colpendo deciso John con la massiccia testa irsuta.
L'uomo, sbilanciato, cadde scoccando involontariamente il dardo che rimbalzò contro il muro di pietra della Cattedrale. Ben lontano dall'ispirato predicatore.
Guardandosi attorno preoccupata, Althea notò che nessuno si era accorto della comparsa del suino o del dardo scoccato: erano tutti troppo impegnati a scrutare, con affascinato terrore, la vellutata oscurità che aveva ammantato la luna.
Sollevata, Althea osservò il maiale che, curioso, stava annusando con entusiasmo l'umano borbottante trovatosi sulla sua strada.
Il mantello dell'uomo, soprattutto, sembrava incontrare i gusti della bestiola, per lo meno a giudicare dalla bramosia con cui tentava di addentarlo sedendo, leggiadra, sulla balestra sfuggita dalle mani di John.
Imprecando, l'uomo si sollevò a sedere, sottraendosi con mala grazia alle attenzioni del suino che, vistosamente oltraggiato, diede un ultimo strattone al mantello e se ne andò a grufolare altrove.
«E' opera tua, Al?» chiese l'uomo, guardando mesto la balestra ammaccata dal ragguardevole peso del suino.
Althea fu un po' sorpresa dalla calma dimostrata dal compagno. Si sarebbe aspettata una reazione decisamente più rabbiosa. «Certo che no! Non ho la capacità di richiamare i maiali, mio caro, mi hai preso forse per la maga Circe?»
«La maga Circe non richiamava i maiali. Si divertiva a trasformarci gli uomini, in maiali. E tu sei sempre stata bravissima in Trasfigurazione».
«Grazie per il complimento. Ma tu sei ancora umano, mi pare, quindi no, direi che quel maiale non è opera mia...»
John ridacchiò sommesso. «Sì, te lo concedo. Deve essere stato mandato da Atreus, allora».
«Da chi?»
«Un centauro amico di Aurelius. Un tipo interessante. Convinto di dover vigilare sul Custode delle Chiavi».
«Oh. Un affascinante centauro biondo che vaga nella foresta blaterando di eclissi di luna, di stelle particolarmente loquaci e di anomalie temporali?»
«Non l'ho mai considerato affascinante, a dire il vero, ma è biondo, sì. E vaga nella foresta snocciolando assurdità astronomiche e temporali. Mi sono imbattuto in lui nel futuro, prima di attraversare il Portale del Tempo. E ci sono andato a sbattere anche qui, nel passato, ahimè. Sono sicuro che quel dannato coso grufolante è stato mandato da lui».
Althea scrollò le spalle e, visto che John non pareva intenzionato ad alzarsi, gli si sedette accanto.
«Sai, mi aspettavo una reazione più rabbiosa da parte tua».
«Davvero?»
«Sì. Sembri quasi sollevato».
L'uomo si strinse le ginocchia contro il petto e vi appoggiò il mento. «Suppongo di esserlo, infatti».
«Davvero?»
«Davvero. Non ho mai ucciso un mio simile, Al. Non è facile come pensavo...»
La strega gli scostò i capelli dal viso con una carezza. «Volevi davvero uccidere il predicatore?»
L'uomo le afferrò la mano portandosela con dolcezza alle labbra, poi sospirò amareggiato. «Dovevo. Ed era il momento perfetto».
«Ma perché uccidere un Babbano?»
«Non è un Babbano, Al».
Althea cercò con lo sguardo la sagoma massiccia del predicatore.
Era sceso dal palco e stava venendo lentamente verso di loro; la folla, adorante, si apriva al suo passaggio mormorando ringraziamenti sinceri e guardando sollevata la luna che, lentamente, ricompariva nel limpido cielo color inchiostro.
La torce illuminavano i radi capelli scuri e il volto pallido dell'uomo; ad Althea ricordava qualcuno, ma non riusciva a decidere chi.
John parve accorgersene e, quando l'uomo fu a pochi passi da loro, sussurrò: «Guarda il suo medaglione, Al».
Althea ubbidì. Un grosso medaglione dorato - che ricordava per forma e dimensione una Chiave del Tempo - riluceva sulla tunica scura dell'uomo; la luce calda delle torce giocava con l'elaborato arabesco che ne decorava il centro, traendone intensi bagliori di smeraldo.
La strega sussultò: conosceva quel medaglione.
Tutti i membri dell'Ordine di Merlino lo conoscevano.
Era antico quanto l'Ordine stesso. Apparteneva da sempre ai Serpeverde e, al momento, era affidato alle cure di Siegmund, un mago potente, orgoglioso rampollo di quell'antica famiglia Purosangue: il più fiero e accanito persecutore dei nati Babbani!
«Dovevo tentare, Althea» proseguì John, un'ombra di dolorosa rabbia nella voce. «Quell'uomo sarà la causa della morte di molti innocenti. Quell'uomo è già stato la causa della morte di molti innocenti».
Althea scrutò incuriosita il compagno stringendogli con dolcezza la mano che ancora tratteneva la sua. «E' stato lui che ha...»
«Sì» la interruppe secco lui, mostrando chiaramente di non volere affrontare quel discorso.
Non voleva mai affrontare quel discorso. Non con lei, almeno.
«Come facevi a sapere che avrebbe detto proprio quella cosa del dardo di balestra?»
John sorrise, scorrendo con lo sguardo la folla che osservava rapita la lenta ricomparsa della luna.
«Non lo immagini, Al? Aspetta, non è facile con tutta questa gente ma...» indicò vittorioso uno smilzo ragazzino di una decina d'anni che osservava la scena restandosene, imbronciato, in disparte. «Eccomi lì».
«Ma... razza di incosciente! Sei venuto qui sapendo che anche il tuo alter ego passato vi si trovava? E se ti avesse incontrato? E se...»
«Guardalo, Al. E poi guardami. Lui non mi avrebbe certo riconosciuto. E io sapevo esattamente dove non andare, ti pare?» tacque per un istante, poi spiegò: «Ricordo questa notte come fosse appena trascorsa».
«E' l'anniversario della...»
«Già».
«In effetti pensavo che saresti andato più indietro nel tempo, John».
L'uomo girò il capo, guardandola sorpreso. «Davvero?»
«Sì, davvero. Pensavo che avresti tentato di salvare i tuoi genitori».
John si ritrasse di scatto, come se Althea lo avesse colpito con uno schiaffo. Poi balzò in piedi, sconvolto. «Io non credevo... loro sono... Aurelius mi ha sempre detto che nessun incantesimo può riportare indietro i morti» si azzittì, guardando pensoso la Chiave del Tempo che portava al collo.
Althea si alzò a sua volta, spiegando con tutta la dolcezza di cui era capace: «E' vero, John. Nessun incantesimo è abbastanza potente per quello. Ma pensavo che tu, usando la Chiave, tentassi di impedire la loro morte come ha fatto Aulo».
«Io... non ci ho proprio pensato...» sussurrò John, serrando rabbioso la Chiave tra le dita. «Ma posso ancora rimediare!»
«Cosa? John non...»
«Aurelius è appena diventato il Custode delle Chiavi. Devo solo andare a casa e prenderle».
«No! Potresti incontrarlo».
«Lo escludo. Lui sta venendo qui a recuperarmi. E poi sarà impegnato fino all'alba per tentare di impedire catture di Babbani innocenti. E' solo, Al. Non esiste ancora quella che tu ami definire l'Orda e non possiede neppure una Giratempo. Questa sarà una notte di intenso lavoro, per lui» indicò la folla che, ormai rassicurata, si accalcava attorno a un gruppo di uomini vestiti con lunghe tuniche scure impreziosite da sinuosi ricami d'argento. «L'eclissi ha terrorizzato questa gente. Molti nomi saranno proposti ai Ghermidori».
«Ma...» prima che la strega potesse finire la frase, John era già corso via, inghiottito da un vicolo buio.
Althea, scoccando un'ultima occhiata alla folla, lo rincorse, arrivando giusto in tempo per assistere alla sua Smaterializzazione.
Sbuffando contrariata e assicurandosi che non ci fosse nessuno nei paraggi, lo imitò.

***

Althea respirò a pieni polmoni l'aria fresca e balsamica del bosco: il vento era benigno quella notte, non trasportava l'odore pungente del fiume.
La luna, ormai completamente liberatasi dall'oscurità, inondava con la sua morbida luce argentata la casetta di legno e pietra di Aurelius.
I Babbani si chiedevano sconcertati come mai quell'uomo gentile e socievole - che per loro era solo un ottimo speziale - preferisse abitare fuori dalle mura della città, ma Althea lo capiva benissimo.
Aurelius era dotato di una natura solare, amava la gente e sapeva integrarsi alla perfezione con i Babbani.
Alcuni dei suoi amici, però, avrebbero avuto seri problemi a passare inosservati dentro le mura di York.
Il centauro biondo che sostava sulla soglia della casa in quel momento era sicuramente uno di questi.
Althea non riuscì a trattenere un sorriso quando notò il grosso maiale bianco che trotterellava allegro tra gli zoccoli del centauro. John aveva indovinato, a quanto pareva: era davvero Atreus colui che si dilettava a imitare le discutibili gesta della maga Circe.
Il centauro scalpitò, agitando con energia la folta coda nel tentativo di allontanare la caparbia bestiola, poi guardò Althea, indicando con un lieve cenno del capo l'interno della casa.
Althea si avvicinò, decisa a varcarne la soglia, ma il centauro la fermò con un gesto imperioso. «Non con quella» disse serio, fissando la Chiave del Tempo della donna. «Non è saggio. Non so di preciso cosa potrebbe succedere se una Chiave del Tempo entrasse in contatto con se stessa. E non desidero scoprirlo».
«Ma John...»
Il centauro sorrise, mostrandole il medaglione che gli cingeva il collo. «Il puledro di Aurelius è testardo e impulsivo... ma non è del tutto stolto».
Althea annuì sollevata, affidando anche la sua Chiave al centauro, quindi attraversò decisa la soglia.
Fu sorpresa da quanto familiare le sembrasse quel posto.
Praticamente nulla era cambiato in quei sedici anni.
John sedeva sul pavimento di terra battuta, davanti al focolare spento, una vecchia lanterna un po' ammaccata gli fluttuava sopra la testa, accendendo di riflessi dorati i suoi capelli color sabbia.
Althea si avvicinò, silenziosa e gli si accovacciò accanto, osservando incuriosita il vecchio scrigno di lucido legno scuro che l'uomo reggeva tra le mani: lo scrigno delle Chiavi del Tempo.
«Sono strane» mormorò confuso John, senza alzare lo sguardo.
Era vero. Le due Chiavi del Tempo contenute nello scrigno erano effettivamente molto strane.
Il serpente ne ornava il bordo, come sempre, ma della fenice scarlatta che sorgeva, maestosa, da fiamme d'argento non vi era traccia.
Il centro dei monili non era neppure vuoto come in una Chiave attivata, però.
No, al centro di quelle due Chiavi erano rimaste le fiamme argentate che sfolgoravano più vivide e alte dell'usuale: come alimentate dal sacrificio della fenice scomparsa.

«Non potete usarle. Sono già in funzione». Spiegò la voce profonda e distaccata di Atreus. «Voi due le avete azionate».

Althea alzò di scatto il capo, osservando incredula il centauro che, ancora fermo oltre la soglia della casa, dava loro le spalle e osservò: «Sì, ma nel futuro. Qui nessuno le sta usando...»
«Non esistono Chiavi del passato e Chiavi del futuro» spiegò paziente il centauro, la voce resa ancora più distaccata e misteriosa dalla lontananza.
Althea ci pensò un istante. Aveva un suo senso, doveva ammetterlo.
John si alzò con impeto, serrando i pugni rabbioso e scalciando lo scrigno delle Chiavi.
Per un istante la donna temette che potesse colpirla. O per lo meno urlarle qualcosa di assai poco piacevole.
Ma, naturalmente, non lo fece: era pur sempre il suo John, quello...
L'uomo si avvicinò invece al muro e sferrò, furente, un pugno alla parete. Poi si voltò, massaggiandosi le nocche e, guardando la donna senza apparentemente vederla, appoggiò le spalle al muro. Sconfitto.
Althea gli si avvicinò allungando una mano per una carezza, ma John si scostò come scottato, rifuggendo il suo tocco.
La strega si sentì morire.
Avrebbe preferito mille volte che John urlasse con lei. Che sfogasse la sua rabbia. Avrebbe preferito qualsiasi cosa a quell'ostile, dolorosa apatia.
«John, perdonami...»
John alzò bruscamente la testa, come se solo in quel momento si fosse ricordato di non essere solo. «Tu chiedi perdono? Oh, Althea...» scosse il capo, incredulo, scostandosi dalla parete e, raccolto lo scrigno, lo ripose in una massiccia cassapanca di legno.
«Althea?» chiese la strega, afflitta.
«E' il tuo nome. E' così che hai sempre voluto essere chiamata» rispose il mago, tentando un sorriso che non riuscì però a nascondere il disgusto che trasudava dalla sua voce. «Io direi di andare, ora. Non c'è più nulla che possiamo fare qui».
«John. Mi dispiace, davvero. Capisco che tu sia arrabbiato con me, ma...»
«Arrabbiato con te? Merlino, Althea! Se tu non fossi venuta io avrei ucciso Siegmund Serpeverde!»

«No che non lo avresti fatto, puledrino, fidati. Ti avrei fermato io» lo contraddisse il centauro, prima di venire azzittito da un deciso grugnito di protesta. «Sì, maiale, va bene. Lo avresti fermato tu, tecnicamente. Ma su mio consiglio, no?»

John sbuffò, uscendo dalla casa. «Pensavo che i centauri fossero creature nobili e discrete, Atreus, incapaci di origliare le conversazioni altrui».
«Infatti io non stavo origliando. Ma tu urlavi. E noi centauri siamo dotati di un udito finissimo».
Il mago gemette esasperato, poi, dando ostinatamente le spalle alla donna, afferrò la Chiave che gli porgeva il centauro e si avviò deciso verso il bosco.
Althea abbassò lo sguardo, addolorata.
Atreus le si avvicinò sussurrando con gentilezza. «E' molto cresciuto. E la sua rabbia è cresciuta con lui».
«Non è rabbia. E' dolore» constatò lei abbassando gli occhi avvilita. «E disprezzo...»
Il centauro corrugò le sopracciglia, scrutandola assorto. «Dolore e disprezzo sono stati generati dalla rabbia, nel suo caso».
Althea si strinse nelle spalle. Ormai non le interessava granché scoprire cosa avesse generato il disprezzo che John riversava su di lei.
«Mi chiedo solo se riuscirà a superarlo».
Il centauro la guardò intensamente, poi indicò vago la volta stellata. «Se è destino...»
«Il destino si può cambiare!»
«Solo se decide di lasciarlo fare».
Althea gli strappò la Chiave dalle mani: «Tu non preoccuparti» additò il maiale che stava allegramente degustando le rigogliose piantine di erbe officinali che prosperavano nel piccolo, curato orto di Aurelius. «Rimanda, piuttosto, questo maiale dove lo hai preso, prima che si mangi anche la casa, e lascia che a John e al suo destino ci pensi io! Il destino non ha mai spaventato un Black. Tanto meno un Black con gli occhi grigi!» e, dopo un ultimo buffetto affettuoso al vorace suino, la donna s'inoltrò a sua volta nel folto del bosco, alla ricerca del Portale del Tempo.


York, notte tra il 2 e il 3 di maggio 1398 A.D.

«Anche il secondo Portale si è richiuso, Aurelius».

Una voce profonda e distaccata raggiunse Althea, riportandola alla realtà.
Conosceva quella voce, ne era sicura. Doveva solo associarla al proprietario. Non sembrava una cosa tanto difficile, in fondo.
Ma si sentiva così strana...
Nelle sue orecchie riecheggiava ancora un canto dolce, melodioso; un canto che aveva attutito il suo dolore.
Ora erano altri i suoni che la circondavano, però.
Il rumore del vento che frusciava tra i rami, il mormorio lontano del fiume e il sussurro pacato di voci maschili.
Sospirando, Althea si decise ad aprire gli occhi e osservò confusa il medaglione massiccio che stringeva tra le mani, poi scrutò il centauro biondo che la sovrastava, studiandola con distaccata curiosità.
«Atreus?» chiese un po' incerta.
Il centauro annuì.
Non era cambiato molto in quei sedici anni, notò Althea mettendosi a sedere e tentando di riordinare i propri pensieri.
Quando i ricordi del viaggio nel passato divennero più nitidi si alzò, barcollando leggermente e ringraziando grata Atreus che, con perfetto tempismo, l'aveva sorretta con una mano.
«John?» chiese poi, angosciata, tentando di recuperare l'equilibrio.
Atreus sorrise rassicurante, indicando un punto alla sua destra.
A pochi metri di distanza, John sedeva su un grosso tronco, il capo chino, le mani strette in grembo.
Un uomo gli stava inginocchiato accanto, parlandogli con voce sommessa e tranquillizzante: «John, non sei certo stato il primo a distruggere una Chiave del Tempo. La sola cosa che importa è che tu sia tornato».
John scosse il capo, caparbio, avvolgendosi nel mantello come se volesse isolarsi dal resto del mondo.
Ricordando il disgusto percepito nella voce del compagno, Althea esitò un istante, ma alla fine si decise ad avvicinarsi ai due, stringendo gentilmente la spalla dell'uomo inginocchiato.
«Oh, Althea» la accolse lui, sorridendo sollevato e picchiettandole affettuosamente la mano posata sulla spalla. «Bentornata. Stai bene?»
La strega annuì. «Sì, Aurelius».
John sollevò lo sguardo, posandolo brevemente sulla donna, quindi tornò a fissarsi ostinato gli stivali infangati.
«John» sussurrò lei. «Sono spiacente, davvero. Se non ti avessi inseguito nel passato tu avresti avuto a disposizione un'altra Chiave e avresti potuto salvare i tuoi genitori...»
Aurelius la guardò sorpreso, mentre John si massaggiava la fronte, svuotato. «Althea, se tu non mi avessi seguito...» sbirciò il centauro che si era avvicinato silenzioso. «Forse non avrei ucciso un uomo perché sarei stato travolto da un affare grufolante inviato da un centauro impiccione che si crede la maga Circe ma, ti assicuro, non mi avrebbe neppure sfiorato l'idea di tentare di salvare i miei genitori».
«Ma...»
«Ma niente» esclamò l'uomo, alzandosi lentamente dal tronco e dando la Chiave ad Aurelius. «L'unico che deve dispiacersi qui sono io. Mi sono comportato da perfetto idiota. Accecato dal mio odio infantile mi sono catapultato nel passato con la riprovevole intenzione di uccidere un essere umano; quando avrei potuto usare la Chiave per salvarne due. Ho fatto la mia scelta. Ho sbagliato. E sono stato punito. Come Cormiac. La Chiave è inutilizzabile, ormai. E, comunque, anche se non si fosse danneggiata, non potrei più evitare la morte dei miei genitori. Sono passati esattamente vent'anni da quella notte e la Chiave non permette di tornare più indietro nel tempo».
Aurelius prese la Chiave e posò una mano sulla spalla del giovane che si scostò bruscamente, sottraendosi al suo tocco proprio come si era sottratto a quello di Althea.
«John» mormorò carezzevole Aurelius. «Non è la fine del mondo. Hai commesso uno sbaglio. Capita. Sei umano ed è molto umano odiare colui che ti ha costretto a crescere senza il calore di una famiglia».
«Forse. Ma questo non giustifica me. Io l'ho avuto il calore di una famiglia. Non della mia famiglia naturale, è vero. Ma l'ho avuto» si fermò, esitante, poi aggiunse in un sussurro imbarazzato: «Ho avuto te, Aurelius».
Il mago più anziano si immobilizzò, sorpreso, e John, abbozzando un sorriso triste, si avvicinò ad Althea. Sollevò lento una mano, come volesse accarezzarla, ma l'abbassò subito, distogliendo lo sguardo. «Sto bene. Non ti preoccupare, Althea. Non per qualcuno come me. Non ne vale la pena. Davvero».
E, con una stretta al cuore, Althea capì che il disgusto che aveva percepito in John non era rivolto a lei. No, il disprezzo di John era tutto per se stesso.
Pensando alacremente, la donna cercò qualcosa di intelligente da dire, o di sensato, almeno. Qualcosa che impedisse a John di frantumarsi davanti ai suoi occhi, insomma. Non poteva essere così difficile...
Il suo ammirevole sforzo creativo venne però interrotto dall'improvvisa irruzione di Damien nella radura.

«Aurelius!» gridò il ragazzo, tenendosi il fianco destro e ansimando in cerca di aria. «Sia benedetta la tua mania di lasciare sempre messaggi che dicono dove rintracciarti... un'emergenza. Tristram e Guen sono a casa tua, ti aspettano per decidere come intervenire».
Aurelius annuì grave: «Va bene. Questo ha la precedenza. Ma dopo dovremo parlare un po' noi due, figliolo» precisò, scoccando un'occhiata a John prima di Smaterializzarsi.
John sospirò, incamminandosi mesto lungo il sentiero che portava alla casa di Aurelius. Alla sua casa.
Althea, dopo aver salutato Atreus, afferrò per un braccio Damien - che, ripreso fiato, fissava a bocca spalancata il centauro – e si incamminò a sua volta sul sentiero, troppo stanca per tentare una Smaterializzazione.
«Ma era davvero un centauro? Un centauro vero, insomma?» chiese Damien con la voce vibrante di meraviglia.
«Sì» rispose la strega, suo malgrado divertita dall'entusiasmo del più giovane membro dell'Orda.
«Per la scopa di Merlino! Non ne avevo mai visto uno vivo. Cioè, non che ne abbia visti morti... è solo...» si azzittì osservando preoccupato l'amica. «Stai bene, Althea?»
«Sì. Sono solo un po' stanca».
«Questo lo avevo intuito da solo, pensa un po'. Stiamo camminando quando potremmo Smaterializzarci...»
«Oh, giusto. Ma se tu preferisci...»
«Fossi matto!» protestò il ragazzo, sfoggiando un sorriso smagliante. «Rinunciare a una romantica passeggiata al chiaro di luna in compagnia di un'incantevole damigella par tuo?»
Althea ridacchiò, scompigliandogli i capelli rossi e ricciuti. «Questa era carina, Damien, devo ammetterlo, stai facendo progressi».
«Owen è un ottimo maestro» ammise il ragazzo con sincera ammirazione.
Althea soffocò una risata e, stringendo con più energia il braccio di Damien, affrettò il passo, impaziente di scoprire in cosa consistesse l'emergenza.

Quando varcarono la soglia della casa, Tristram, in piedi al centro della stanza, stava parlando velocemente. Tristram parlava sempre velocemente quando era arrabbiato.
John se ne stava appoggiato al caminetto, cupo, ascoltandolo in silenzio, mentre Aurelius e Guendalina sedevano sulla cassapanca che custodiva lo scrigno delle Chiavi.
Tristram, accortosi dell'arrivo dei compagni, si azzittì scoccando un'occhiata interrogativa ad Aurelius.
«Continua pure da dove sei arrivato, Tristram. Non avranno difficoltà a seguirti» lo incoraggiò il mago.
Tristram annuì, scostandosi i capelli neri dagli occhi. «E' un Babbano. Ma la figlia è una strega e lui, per difenderla, si è addossato la responsabilità delle stramberie provocate dalla piccola; i vicini hanno avvisato i Ghermidori e l'uomo è stato arrestato. Sarà giustiziato all'alba».
John imprecò, voltandosi bruscamente verso il muro.
«Senza processo?» chiese pacato Aurelius.
Tristram si strinse nelle spalle. «I vicini hanno visto oggetti volare e il rissoso cane del fabbro è tuttora di un bel blu lapislazzulo. Non serve un processo».
«Dov'è ora la bambina?» chiese John, fissando torvo le fiamme che danzavano nel camino.
«Oh, lei è al sicuro. L'ho portata a casa mia. Rowena è rimasta con lei».
Aurelius annuì soddisfatto. «Marcus e Owen?».
«Marcus ha seguito l'uomo spacciandosi per un frate. Owen è corso nella piazza a controllare la pira» spiegò Tristram, bevendo un sorso dal calice fumante che teneva tra le mani.
«Va bene, Tristram, sai cosa fare. Prendi una Giratempo e della Pozione Polisucco e porta con te...»
«Io!» implorò Guendalina, alzandosi dalla cassapanca con un'agilità ragguardevole per una donna della sua età e della sua stazza. «Oh, ti prego Aurelius, lascia che sia io a prendere il posto del Babbano che salirà sul rogo! E' da tanto che non provo l'ebbrezza di un Incantesimo Freddafiamma! Ti prego, Aurelius!»
Althea scosse il capo sorridendo e Aurelius mormorò, cauto: «Sì, Guendalina, ma si tratta di un uomo e...»
«E dove sta il problema? Con la Pozione Polisucco avrò il suo aspetto e la sua voce!»
«Sì, ma... ecco...» disse incerto Aurelius, sfregandosi la nuca a disagio.
«Sì, Guendalina...» intervenne Damien, irriverente e per nulla a disagio. «Ma poi va a finire che ti comporti come se fossi tu, come l'ultima volta. Ti assicuro che è stato inquietante vedere un omaccione grande, grosso e tutto barbuto e peloso mandare baci al boia e saltellare eccitato attorno alla pira su cui stava per essere legato!»
«Oh, mi sono solo distratta un pochino, quella volta».
«Sì, certo. Solo distratta un pochino» sottolineò il ragazzo dai capelli rossi alzando gli occhi al cielo. «Abbiamo passato quattro ore - no, dico, quattro ore - a modificare memorie perché tu ti eri distratta un pochino
Aurelius annuì prudente, ma poi concluse: «Va bene. Ti daremo un'altra possibilità, Guendalina. Ma vedi di non distrarti un pochino, intesi?»
«Sì!» trillò la donna entusiasta, scoccando un bacio sulla testa brizzolata di Aurelius e cominciando a saltellare allegra attorno al tavolo, trascinando con sé il povero Tristram, reo di trovarsi sulla sua traiettoria.
«Credo sia meglio prepararsi a una lunga seduta di manipolazione di memorie» profetizzò Damien, avvilito.
«No!» si riprese la strega, mollando Tristram che si lasciò cadere, ansimante, su uno sgabello. «Non manderò baci al boia e non saltellerò, davvero! Al massimo, se sarò troppo eccitata per trattenermi, escogiterò qualcosa di più... virile, ecco. Tipo una sfida a chi sa fare pipì più lontano».
Un silenzio attonito scese sulla stanza, interrotto solo dalle risate soffocate di Althea.
«Uh. Ripensandoci sarà meglio rivalutare i baci al boia, mi sa» proclamò convinto Damien qualche istante più tardi.
«Sa anche a me» approvò Tristram.
«Quesito difficile e intrigante, indubbiamente» convenne Aurelius, sfregandosi il mento, pensoso. «Chiedo quindi venia se mi vedo costretto a ritornare a questioni meno filosofiche: chi distrarrà il carceriere? Preferirei che Althea e John riposassero questa volta. Ma, se Althea sarà così gentile da donarmi un suo capello, sarò oltremodo felice di provvedere io stesso».
«No, Aurelius. L'indubbio fascino di Althea non servirebbe a molto, temo» informò Tristram, rivolgendo un sorriso malizioso a Damien. «Il carceriere di turno è Fitzwilliam».
«No!» esclamò Damien, contrariato.
«Eh, temo di sì. E sappiamo tutti che Fitzwilliam si lascia distrarre soltanto dall'irresistibile malìa del nostro Damien!»
«Suvvia, Damien» intervenne sbrigativa Guendalina, afferrando il ragazzo per un braccio. «Smettila di fare i capricci e sacrificati per il Bene Superiore. Devi solo convincere il giovanotto a bere un po' di Sidro corretto, in fondo. E che ci vorrà mai».
«Che ci vorrà mai, dice lei! Che ci vorrà mai! Ma perché non esistono carceriere femmine dico io... sia chiaro però che, se quell'energumeno si azzarda ad allungare le mani, lo sistemo con un bel Diffindo!»
«Bravo. Tanto di mani ne ha due» convenne la donna con ammirevole senso pratico.
«E chi pensava alle mani» precisò Damien, prima di venire trascinato all'esterno dall'energica strega.
Tristram sogghignò, prese la Giratempo e le ampolline affidategli da Aurelius e raggiunse rapido i compagni all'esterno.
«Povero Damien» mormorò Althea reprimendo uno sbadiglio. «Gli preparò un po' dei dolcetti al miele che ama tanto, per consolarlo».
Quindi appoggiò la sua Chiave del Tempo sul tavolo e, augurando la Buona Notte, uscì anche lei dalla casa.
Il cielo all'orizzonte stava già schiarendo. L'alba era vicina.


York, 3 maggio 1398 A.D.

Althea intinse la piuma d'oca nell'inchiostro e fissò la pagina inviolata.
Voleva raccontare la sua esperienza con la Chiave del Tempo. Proprio come aveva fatto Aldebaran secoli prima.
All'improvviso un grosso gatto nero balzò sul tavolo e si accomodò, elegante, proprio al centro della pagina inviolata, leccandosi signorile una zampina anteriore.
«Balthazar!» esclamò esasperata la strega, tentando di spostare il felino che si limitò a guardarla distratto prima di riprendere la sua scrupolosa pulizia.
Quando qualcuno bussò alla porta, il gatto abbassò le orecchie e arruffò il pelo, indispettito, ma mantenne la sua evidentemente confortevole postazione.
Althea scoccò un'occhiata al pezzetto di cielo limpido che si intravedeva dalla finestra: doveva essere passato da poco mezzogiorno, a giudicare dalla posizione del sole. Probabilmente Damien era venuto a mendicare qualcosa da mangiare.
«Entra pure, Damien» lo invitò la donna, ingaggiando un'aspra battaglia con Balthazar nel vano tentativo di convincerlo a spostarsi. «Ho preparato i dolcetti al miele che ti piacciono tanto. Ma te li darò solo se mi racconterai tutto della missione e di Fitzwilliam».
«Non sono Damien, temo» rispose una voce dolce e profonda, stranamente incerta. «Ma i tuoi dolcetti al miele mi piacciono molto. E sarò ben felice di raccontarti come è andata la missione, sempre che l'invito sia valido anche per me».
Althea si voltò sorpresa verso la porta: John sostava sulla soglia, titubante, quasi temesse di vedersi sguinzagliato contro un branco di lupi affamati.
Aveva anche le sue buone ragioni, a essere sinceri; spesso si facevano strani incontri a casa di Althea. Ma in quel periodo l'unico ospite era Balthazar. Che sapeva anche essere dignitosamente feroce, talvolta, ma mai con John, come dimostrava la solerzia con cui l'infido felino si era precipitato a strusciarsi contro le gambe del nuovo venuto.
«Certo che l'invito è valido anche per te» chiarì la donna, agitando la bacchetta magica e osservando il piatto colmo di dolcetti che, fluttuando leggiadro attraverso la stanza, andò a posarsi davanti a lei.
L'uomo annuì, si tolse il mantello e le sedette accanto. Immediatamente Balthazar gli saltò in grembo, reclamando carezze che non tardarono ad arrivare. Althea sospirò: non era normale invidiare un gatto. Ma non poteva impedirsi di pensare che anche lei avrebbe potuto fare le fusa se si fosse trovata al posto di Balthazar.
«Allora» cominciò l'uomo, accarezzando con distratta gentilezza il gatto con una mano e prendendo un dolcetto al miele con l'altra. «Il Babbano è salvo. Guendalina non si è comportata troppo male, questa volta. Abbiamo dovuto modificare solo un paio di memorie: un vero successo. Ora il Babbano e la bimba sono in viaggio verso Londra. Tristram e Rowena sono con loro. L'Orda locale è già stata avvisata, ci penserà lei ad aiutarli, in attesa che la piccola raggiunga l'età adatta per frequentare Hogwarts. L'uomo è un orafo. Potrà continuare a svolgere la sua professione anche a Londra e... avrà due pezzi molto speciali da aggiungere alla sua mercanzia».
«Scusa?»
«Le Chiavi del Tempo. Sono state date a lui. Ovviamente non sa cosa sono. Pensa siano solo due medaglioni... nel caso di quella utilizzata da me è anche vero, ormai. Quella che hai usato tu è ancora intatta, invece».
Althea lo guardò sorpresa. «Davvero? Chissà perché a volte si danneggiano e a volte no...»
John si strinse nelle spalle. «Atreus pensa sia tutta questione di equilibrio, infranto o mantenuto. Credo sia una spiegazione ragionevole».
Althea ci pensò un istante. «Aurelius ha parlato di amore e di odio, se non sbaglio».
«Aurelius è un inguaribile sentimentale, temo» fece notare John con tenera ironia.
«Forse. O forse è un uomo molto saggio».
«Forse».
Althea sospirò. «Ma è prudente? Voglio dire... affidare un oggetto così potente a un Babbano?»
«E' la cosa più prudente, Althea. Per lo meno Aurelius ne è convinto. E Atreus concorda con lui. E' rimasta una sola Chiave. Se qualcuno dovesse azionarla nessuno potrebbe andare a impedirgli di fare sciocchezze. Ma nessun Babbano potrà mai azionarla, ti pare?»
«Perché non distruggerla allora?»
«Perché né Aurelius né Atreus sanno come fare. Senza contare che Atreus è contrario. Dice che se le stelle hanno voluto sette Chiavi è perché sette Chiavi servivano. E ora...» John guardò il gatto che dormiva, beatamente accoccolato sulle sue gambe. «Viene la parte difficile».
«Che vuoi dire? Damien ha davvero usato il Diffindo su Fitzwilliam?»
John rise disturbando Balthazar che sussultò, spaventato. «No, Fitzwilliam è anatomicamente integro, per quanto ne so» tornò serio, districando con delicatezza le unghie del felino che gli si erano impigliate nella tunica. «E' solo che Aurelius mi ha imposto di spiegarti alcune cose che mi riguardano. Dice che meriti di sapere».
«Aurelius è un inguaribile sentimentale, temo».
«Forse. O forse è un uomo molto saggio».
Althea sorrise divertita. «Forse».
John la ricambiò con un sorriso forzato, quindi tornò serio. «Anch'io penso che tu meriti di sapere cosa mi ha spinto a comportarmi come mi sono comportato. Tutto è cominciato esattamente venti anni fa. Come sai io non sono nato da maghi, Althea. Entrambi i miei genitori erano Babbani. Ma io ero un mago e, a volte, come tutti i bambini dotati di poteri magici, facevo accadere cose strane. I miei vicini, terrorizzati, mi denunciarono ai Ghermidori e una notte - quella notte - Siegmund Serpeverde in persona irruppe nella nostra casetta. I miei genitori tentarono di proteggermi in tutti i modi. Mia madre arrivò a dire che era lei quella dotata di poteri magici. Ma Siegmund non le credette e...» si fermò, serrando la mano che teneva appoggiata al tavolo con tanta energia che le nocche divennero bianche. «Li uccise. Entrambi. Davanti ai miei occhi».
Althea allungò una mano coprendogli il pugno. «Lo immaginavo».
John la guardò sorpreso e la donna spiegò: «A Hogwarts riuscivi a vedere i Thestral».
«Sì. E' vero. Come quasi tutti i bambini nati Babbani dell'epoca. Naturalmente ero io il vero obiettivo di Serpeverde. Era me che desiderava uccidere...»
«E' stato Aurelius a impedirlo?»
«No, non esattamente. Lui è arrivato dopo. Sono stato io a impedirlo. Serpeverde non riusciva a vedermi. Ero lì, in piedi davanti a lui, pietrificato dalla paura e dall'orrore, ma lui non mi vedeva. Aurelius dice che avevo istintivamente usato la Magia per nascondermi dallo sguardo di quell'uomo. Sono riuscito a salvare me stesso... ma non i miei genitori» concluse, fissando ostinato il gatto che gli dormiva in grembo.
«Eri solo un bambino, John».
«Allora sì. Ma ora sono un uomo. E con la Chiave avrei potuto tentare di salvarli. Come fece Aulo... ma non l'ho fatto. A differenza di Aulo io ho scelto la vendetta» sollevò gli occhi e aggiunse, amaro: «Ho scelto l'odio, non l'amore».
La donna gli accarezzò gentilmente la mano, guardandolo addolorata.
Lui scosse il capo, incredulo. «Come puoi toccarmi, Althea? Come puoi non provare disgusto per un... essere come me?»
Althea lo fissò, pensosa, avrebbe potuto elencargli decine di motivi. Ma non era quello il momento, John non le avrebbe creduto, quindi si strinse nelle spalle e affermò: «Oh, ci sono molti motivi, John. Per esempio il fatto che sono cresciuta tra i Black: ci vuole ben altro che un... essere come te per disgustarmi».
L'ombra di un sorriso distese il volto del mago che sollevò la mano con cui stava ancora accarezzando Balthazar per sistemarle una ciocca di capelli. «Oh, Alt...»
Althea lo azzittì, posandogli un dito sulle labbra. «Al. Solo Al, per te. Smettila di chiamarmi Althea se non vuoi essere trasfigurato in uno Snaso».
«In uno Snaso?» la donna annuì e lui sorrise più convinto. «E' già un miglioramento, credo. Per anni hai minacciato di trasfigurarmi in un Vermicolo».
«Vero. Probabilmente mi sto rammollendo. Sarà l'età».
L'uomo dischiuse il pugno e, girando il palmo verso l'alto, strinse la mano della donna che ancora copriva la sua. «Grazie, Al. Ho temuto davvero di averti persa, questa volta».
«No. Non hai mai corso il rischio».
Un vero sorriso illuminò finalmente gli occhi di John.
Althea, sollevata, li scrutò assorta. Le erano sempre piaciuti gli occhi di John: avevano un colore caldo, che ricordava quello del miele. Erano dolci. E tristi. Le ricordavano quelli di tutti i randagi che aveva raccolto nell'avita dimora. Certo, forse non era il caso di farlo sapere all'interessato, non era proprio sicura che avrebbe apprezzato il paragone.
Quando l'uomo le lasciò andare la mano Althea si riscosse.
Si rendeva conto del dono immenso che John le aveva fatto quel giorno. Si era aperto con lei come non aveva mai fatto in quasi quindici anni di conoscenza. Althea non lo aveva mai sentito tanto vicino e, temendo che se avesse lasciato passare il momento lui avrebbe rialzato tutte le sue barriere, decise di tentare il tutto per tutto.
Sorridendo ispirata si sporse oltre il tavolo e, afferrando con gentilezza il volto del compagno, gli sfiorò le labbra con le proprie.
Balthazar soffiò oltraggiato, ma Althea non ci badò, piacevolmente sorpresa dalla reazione di John.
Non si era ritratto come aveva temuto, anzi... il suo audace Grifondoro, dopo un  istante di comprensibile sbalordimento, era passato a un lodevole contrattacco.
Improvvisamente nella mente della strega prese forma una fugace visione di lei che presentava John ai fieri membri della nobile casata dei Black: non fu una visione edificante.
John era decisamente poco intonato al mobilio dell'avita dimora; anche in versione attaccapanni...
Si irrigidì un po', preoccupata, ma John, ignaro del serio rischio che correva, reclamò nuovamente la sua attenzione dando maggiore slancio al suo assalto.
Althea sospirò beata: oh, in fondo c'era qualche speranza che i suoi amorevoli genitori non lo trasformassero in un attaccapanni, dopo tutto. Era anzi probabile che lo ignorassero con la stessa fatalistica rassegnazione con cui avevano ignorato ogni altro randagio da lei portato nell'avita dimora.
Del resto, Althea aveva gli occhi grigi e ogni Black degno di questo nome sapeva bene che non ci si poteva aspettare nulla di buono da un Black con gli occhi grigi. Erano strani i Black con gli occhi grigi.
Propensi a devianze insensate.
E lei non faceva eccezione. Per sua fortuna.



Ed eccoci alla quarta tappa del nosto Viaggio.
Una tappa importante, perché conclude la prima parte della nostra avventura: l'inizio della storia di Althea e John coincide, infatti, con la fine della parte "antica" della nostra avventura sulle tracce dei Custodi delle Chiavi del Tempo.
Nel (e dal) prossimo capitolo le cose saranno un po' diverse, faremo la conoscenza di un Custode delle Chiavi del Tempo un po' particolare, che non avrà tanto il compito di custodire la Chiave superstite, quanto quella di riportarla tra i maghi.
E ci troveremo, finalmente, circondati da personaggi a noi già familiari. ^^

Detto questo, permettetemi di aggiungere due parole sulla protagonista di questo capitolo: Althea Black.
Mi sono divertita molto a pensarla, sia perché è stato carino immaginarsi una Black decisamente "alternativa", smistata niente meno che nella nobile Casa di Tosca Tassorosso, sia perché è stato interessante farla muovere in un'epoca particolarmente adatta ad essere intrecciata con il mondo dei maghi.

Per lei ho scelto un nome non astronomico (le mie conoscenze in tale campo si sono esaurite nello sforzo di trovare un nome ad Aldebaran xD) ma floreale. L'Althea Officinalis è infatti una graziosa pianta della famiglia della malvacee, e capita, talvolta, che alle bimbe dell'antica casata dei Black venga imposto un nome di origine floerale (Narcissa è un esempio di questa abitudine e nell'albero genealogico fornitoci dalla Rowling ricordo anche una Lycoris) quindi mi pareva carino accennare anche a questa usanza. ^^
Così come mi pareva carino dare unn passato anche alla figura del Ghermidore. Carino e appropriato, anche.
La Grande Pestilenza di cui si parla in questo capitolo è la tristemente famosa epidemia di Peste Nera che devastò l'Europa tra il 1347 e il 1352.
E, per finire, l'entusiasta Guendalina che non vede l'ora di farsi mettere al rogo per provare la deliziosa sensazione solleticante di un Incantesimo Freddafiamma è quella Guendalina la Guercia di cui ci parla J.K. Rowling (nel terzo, libro, mi pare) e che, come tutte le streghe davvero importanti, ha avuto l'immenso onore di comparire sulle figurine delle Cioccorane. ^^

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Capitolo 5
*** L'importanza di chiamarsi Al ***


Capitolo Quarto


L'importanza di chiamarsi Al




Londra, 7 aprile 1966 A.D.

Alphard lanciò la bacchetta magica sul tavolino e si lasciò cadere sul divano, fissando ancora incredulo il massiccio medaglione dorato che stringeva tra le mani.
Un oggetto banale, tutto sommato. Scovato in un anonimo, polveroso negozietto di Ipswich.
Alphard era sicuro che agli occhi di chiunque altro quell'oggetto sarebbe sembrato solo un bizzarro incrocio tra un grosso medaglione e un vecchio orologio da taschino. Antico, sì. Ma non particolarmente bello, anzi...
La sua pretenziosa sorella, ad esempio, non lo avrebbe neppure degnato di una seconda occhiata: troppo ordinario per i suoi gusti squisiti.
Certo non poteva competere con un'aggraziata testa di elfo impagliata o con un leggiadro portaombrelli ricavato da una zampa di troll, ammise obiettivamente l'uomo, ma per lui non avrebbe potuto esserci nulla di più bello al mondo. O quasi. Del resto, Alphard non era mai stato dotato di gusti squisiti e aveva sempre trovato terrificanti gli orpelli che deliziavano Walburga.
E ora era a dir poco euforico. Sprizzava entusiasmo da tutti i pori, mentre rimirava quel poco squisito medaglione.
Si sentiva come presumeva dovesse essersi sentito Flamel dopo avere creato la Pietra Filosofale.
Merlino! Stava stringendo tra le mani un oggetto leggendario!
Danneggiato, certo, ma pur sempre leggendario.
Non aveva dubbi in proposito: quella che stava rimirando ammaliato era sicuramente una delle Chiavi del Tempo.
Oh, nessuna fenice scarlatta vi era miniata. Solo un diafano alone serpeggiante occupava il centro del monile; un etereo, sinuoso serpente consumato dall'implacabile trascorrere dei secoli.
Era la Chiave del Tempo sbagliata, purtroppo. Quella non più funzionante.
Ma Alphard era euforico lo stesso: se era riuscito a trovare quella, sarebbe sicuramente riuscito a trovare anche la gemella.
Sorridendo risoluto, si chinò sull'antico baule di legno rossiccio che si trovava ai suoi piedi, tracciando con un dito le arzigogolate lettere intagliate sul coperchio: Al Black.
Era incredibile quanto quel vecchio, banale baule aveva segnato la sua vita.
Il ricordo di quell'incontro, per certi versi fatale, era tutt'ora impresso nella sua memoria, vivido come il giorno in cui era avvenuto.
Si rivedeva adolescente, un po' sperso tra i pittoreschi negozietti di Portobello Road, circondato, per la prima volta in vita sua, da una folla di Babbani; poteva ancora assaporare l'eccitante terrore che lo aveva assalito.
Oh, Alphard era sempre stato affascinato dai Babbani. Li osservava interessato, di nascosto, non amando essere costantemente ripreso da parenti di ogni ordine e grado per quello che veniva, con discrezione, definito l'Abominevole Vizio: un vero Black non poteva trovare affascinanti i Babbani. Davvero. Non era nemmeno pensabile una simile eventualità.
Di conseguenza, il giovane Alphard si era tenuto a ragionevole distanza dai Babbani per i primi diciotto anni della sua vita.
Fino a quel luminoso mattino di fine estate di ventun anni prima, insomma.
Ma una sfida era una sfida, che diamine! E una bella ragazza era una bella ragazza. E Artemisia Greengrass era decisamente una bella ragazza, valeva qualsiasi sfida. Anche quella di fingersi Babbano per un giorno, mischiandosi tra i Babbani e facendo le cose che facevano i Babbani. Alphard non aveva proprio potuto sottrarsi a quella che, tra l'altro, gli sembrava una nuova, meravigliosa avventura.
E lui non sapeva resistere alle nuove avventure - meravigliose o meno - quindi aveva accettato l'insolita sfida; vincendola alla grande.
Artemisia era rimasta ammirata dal versatile ardimento da lui sfoggiato in quell'occasione, e Alphard si era goduto con piacere tale incontenibile ammirazione...
Certo, non le aveva mai confessato di essersi divertito parecchio a mischiarsi tra i Babbani. Erano molto interessanti i Babbani di quell'epoca: vivevano circondati dalle macerie causate da quella terrificante follia nota come Seconda Guerra Mondiale, ma erano animati da una voglia di vivere assolutamente irresistibile, quasi fossero inebriati dalla pace appena ritrovata: facevano cose interessanti; i mezzi con cui si spostavano erano interessanti; per non parlare dell'interessantissimo Cinema... Alphard era rimasto ammaliato dal Cinema. Era molto meglio delle fotografie magiche! In un certo senso poteva essere paragonato a un Pensatoio. Molto più creativo, però. Non mostrava ricordi. Mostrava sogni.
E poi c'era stato l'incontro fatale con quel vecchio baule su cui era inciso il suo nome. Be', più o meno.
Il venditore - un allampanato, malinconico Babbano con capelli impomatati e spessi occhiali dalla buffa montatura - glielo aveva venduto per pochi spiccioli sostenendo che era bello, sì, e antico anche. Ma irrimediabilmente rotto. Non c'era verso di aprirlo. Pareva incollato. Ma forse con una sega...
Alphard non possedeva una sega. Possedeva una bacchetta magica, però.
E un Alhomora ben assestato era stato sufficiente per aprire il vecchio baule: non era né rotto né incollato. Era solo magico.
Era stato destabilizzante scoprire che antichi oggetti magici erano, solo Merlino sapeva come, finiti in mani Babbane. Ma ancora più destabilizzanti erano stati i due oggetti contenuti nel baule. All'apparenza sembravano innocui, ma avevano segnato profondamente la vita di Alphard: scoprire di essere il terzo Al Black non era stato privo di conseguenze.
L'antica pergamena scritta, usando impeccabili caratteri runici, da Aldebaran Black (o Al Primo, come lo chiamava scherzosamente Alphard) era stata un'intrigante rivelazione: le leggendarie Chiavi del Tempo - che Alphard aveva sempre creduto non più reali dei Doni della Morte - erano davvero esistite.
Il vecchio diario di Althea Black (Al seconda) era stato più ostico da apprezzare - non essendo Alphard particolarmente interessato alla preparazione di irresistibili dolcetti al miele o, men che meno, alla conquista di un riservato Grifondoro dagli occhi dolci e tristi come quelli di un randagio - ma lo sforzo della faticosa lettura era stato abbondantemente ripagato dalla parte scritta in caratteri runici, che rivelava parecchie altre cose interessanti sulle Chiavi del Tempo: come il fatto che, alla fine del quattordicesimo secolo, erano state allontanate dalla stirpe dei maghi e affidate a un ignaro orafo Babbano. Alphard, sapendo che non era una cosa semplice distruggere oggetti creati con la Magia, si era convinto che esistessero ancora.
E proprio su quella convinzione aveva basato la scelta della sua professione: sarebbe diventato un Rintracciatore. Avrebbe cioè cercato gli oggetti magici finiti in mani Babbane per riportarli nel mondo dei maghi.
Era qualificato, fortunatamente, visto che su espresso ordine del padre - fermamente intenzionato a guarirlo dall'Abominevole Vizio mostrandogli quanto noiosi e inferiori fossero i Babbani - Alphard aveva, unico tra i Black, seguito con profitto il corso di Babbanologia.
I parenti avevano persino approvato la sua scelta: lavorare per il Ministero della Magia era una cosa dignitosa e riportare tra i maghi degli oggetti magici, salvandoli dalle poco accorte cure di inetti Babbani, era senza ombra di dubbio una nobile missione.
Il più felice e soddisfatto, però, era proprio Alphard: aveva trovato un lavoro che amava e che gli permetteva di coltivare l'Abominevole Vizio - che non era affatto stato guarito dallo studio di Babbanologia - con il compiaciuto benestare dei parenti tutti.

Improvvisamente un ticchettio martellante distolse Alphard dai suoi ricordi.

Un sinistro gufo nero batteva con impazienza il becco bruno contro il vetro della finestra che si trovava alle spalle del mago.
Sospirando, Alphard ripose il medaglione nel baule e raggiunse la finestra: conosceva quel gufo luttuoso e impettito. Era Deimos, il degno pennuto di sua sorella Walburga.
Quando aprì la finestra, il rapace lo fissò con i suoi solenni occhi gialli, lasciò cadere un'inquietante busta scarlatta e se ne volò via.
Allibito, Alphard aprì la missiva che somigliava assurdamente a una Strillettera.
Forse perché era una Strillettera, realizzò incredulo quando quella gli sfuggì dalle mani e, posizionandosi davanti al suo naso, cominciò a urlare con la potente voce della sua diletta sorella maggiore, ricoprendolo di improperi e avvisandolo di non osare dimenticarsi la cena di famiglia in programma per quella sera.
Quando la lettera prese fuoco, accartocciandosi per poi annegarsi nel grande acquario posto accanto al divano, Alphard si sfregò sbigottito la fronte: era da più di vent'anni che non riceveva una Strillettera. Era fuori allenamento.
Sospettava, tra l'altro, che le Strillettere di sua madre non fossero terrificanti quanto quelle di Walburga. Nemmeno lontanamente.
Sembrava proprio che, questa volta, non avrebbe potuto inventarsi una dimenticanza per saltare il supplizio di una cena tra Black. Peccato.
Abbassando gli occhi guardò desolato i suoi vecchi jeans scoloriti, chiedendosi se fosse il caso di cambiarsi. Erano comodi quegli abiti e gli piacevano molto, ma a Walburga sarebbe probabilmente venuta una crisi isterica se si fosse presentato così.
Combattuto, Alphard si avvicinò alla credenza in stile coloniale ereditata da zio Marius - ufficialmente non era mai esistito uno zio Marius, ma ad Alphard era sempre piaciuto molto: aveva gli occhi grigi e un gusto non squisito in fatto di mobili - e lanciò un'occhiata critica allo specchio che la sormontava.
Gemette, scrutando i lunghi capelli neri che gli spiovevano ribelli sulla fronte. Oh, sì, a Walburga sarebbe decisamente venuta una crisi isterica vedendolo arrivare.
Stringendosi nelle spalle, si scostò le ciocche di capelli che gli coprivano gli occhi. Occhi grigi, come quelli di zio Marius. Sarebbero bastati loro a fare venire a Walburga una delle sue proverbiali crisi isteriche. Be', visto che a quello non poteva proprio porre rimedio, tanto valeva rassegnarsi e fare in modo che l'inevitabile crisi isterica fosse almeno motivata.
Guardando nervoso l'orologio che portava al polso, ripescò i resti carbonizzati della Strillettera dall'acquario - altro lascito di zio Marius - versò un po' di cibo ai pesci rossi che vi nuotavano tranquilli e, afferrata la bacchetta, si preparò a Smaterializzarsi.
Poi ci ripensò. Indossò sogghignando il giubbetto di pelle scura abbandonato sul divano, afferrò il mazzo di chiavi appoggiato sul mobile basso che si trovava accanto alla porta e uscì dall'appartamento, dirigendosi deciso nel cortiletto sul retro della casa.
Salutando cortese la sua anziana vicina, si concesse qualche secondo per ammirare la grossa moto scura e lucente posteggiata all'ombra di un vecchio ciliegio.
Scrutò quindi il cielo quasi limpido, osservando scettico le grosse nubi livide che si stagliavano all'orizzonte e salì sulla moto. L'accese, godendosi l'inebriante sensazione del motore che ruggiva potente e partì ridendo felice: oh, sì, il suo arrivo avrebbe sicuramente procurato a Walburga una crisi isterica memorabile!

Mentre si districava con abilità tra il traffico londinese, Alphard capì di avere sottovalutato le nubi temporalesche che si stavano ammassando, rapide e minacciose, sopra la sua testa.
Quando grosse gocce di acqua cominciarono a centrarlo con irritante frequenza, decise di aggiungere un'altra motivazione alla crisi isterica di Walburga e, parcheggiata la moto sotto una tettoia di metallo, entrò in un piccolo pub caratterizzato da una graziosa insegna blu decorata da una miriade di puntini bianchi che formavano una scritta un po' nebulosa: "The Galaxy".
Era il suo pub preferito, lo aveva scoperto alcuni anni prima e, trovandolo indiscutibilmente appropriato per qualcuno che si chiamava Alphard, ne era diventato un cliente affezionato.
Jordan O'Sullivan, il gioviale, Babbanissimo proprietario, conquistato dal suo originale nome astronomico, gli aveva subito offerto un'amicizia incondizionata e la solenne promessa di chiamare Alphard il primo figlio. Fortunatamente per tutti, l'unico rampollo maschio di Jordan aveva avuto il buon senso di nascere il 12 aprile del 1961 ed era stato chiamato Yuri, in onore di Gagarin, il primo uomo che, proprio quel giorno, aveva avuto il piacere di farsi un giretto nello Spazio.
E Jordan era ossessionato dallo Spazio.
Il "The Galaxy" ne era la prova più lampante, constatò Alphard, scrollandosi come un grosso cane e osservando affascinato le numerose immagini di pianeti, di navicelle spaziali e di astronauti che, dopo avere colonizzato ogni palmo di parete disponibile, stavano invadendo, inesorabili, anche il bancone.

«Alphard!»

Lo accolse allegro Jordan, brandendo un giornale un po' spiegazzato. «Ti davo per disperso, ormai! E' da un bel po' che non ti si vede da queste parti! Se cerchi Erin non c'è. Credo sia a Cambridge, per uno di quei noiosi seminari su quelle diroccate antichità che tanto ama».
Alphard sorrise e si avvicinò all'amico. «Lo so perfettamente. Tale noioso seminario era in programma da mesi e Erin ed io siamo soliti comunicare, di tanto in tanto, sai?»
Jordan lo scrutò in tralice e sbuffò. «Credimi, Al, è meglio per tutti se evito di soffermarmi troppo su cosa tu sia solito fare con la mia sorellina».
Alphard sogghignò divertito. «E' troppo presto per qualcosa di forte?»
Jordan sbirciò l'orologio da parete semi-sommerso da una gigantografia della luna e si strinse nelle spalle. «Direi proprio di no. Hai davvero bisogno di qualcosa di forte, amico, pare che tu abbia appena visto un marziano».
«Peggio, sono reduce da una... uh... telefonata... di mia sorella. E sono in procinto di affrontare una cena di famiglia».
Jordan annuì comprensivo - era il settimo di otto figli: Alphard non riusciva a spiegarsi come potesse essere ancora più o meno sano di mente - e gli allungò un bicchiere colmo della celebre specialità della casa.
Alphard si arrampicò su uno degli alti sgabelli di metallo che fronteggiavano il bancone e accettò grato la misteriosa bevanda opalescente. Nessuno sapeva cosa contenesse di preciso - Jordan non avrebbe svelato l'arcano neppure sotto tortura - ma era buona e forte al punto giusto. Sapeva vagamente di anice, decise Alphard sbirciando incuriosito il giornale abbandonato davanti ai suoi occhi.
«E' davvero terribile» esclamò, dopo avere scorso velocemente l'articolo che occupava la pagina su cui era aperto.
«Cosa?» chiese Jordan, guardando preoccupato il bicchiere di Alphard.
«Questo povero bambino assalito da un lupo in Cornovaglia. Ma non stavi leggendo questo, Jordy?»
«Ah, no. In realtà stavo leggendo quello» ammise il Babbano, indicando con malcelato entusiasmo il trafiletto vicino. «Non mi dire che ti sei perso tutta questa storia di Luna 10
Alphard lo scrutò sbigottito. «Luna... cosa?»
Jordan scosse il capo alzando gli occhi al cielo. «Luna 10. Sei senza speranze, Al. Sempre perso alla ricerca dei tuoi decrepiti gingilli invece di dedicarti alle faccende davvero importanti! Con un nome come il tuo non puoi non interessarti a questa cosa fantastica che è la conquista dello Spazio! Da quattro giorni nell'orbita della luna c'è un satellite artificiale attrezzato per studiarla: Luna 10, appunto. Non lo trovi grandioso? Sono sicuro che tra qualche anno riusciremo a spedirci un uomo, lassù! Non sarebbe fantastico?»
Alphard scrutò affascinato il viso lentigginoso di Jordan, trasfigurato da un'incontenibile eccitazione, e si strinse nelle spalle, dubbioso. «Ma che utilità avrebbe spedire un uomo sulla luna, Jordan?».
«Che utilità avrebbe? Be', scopriremmo finalmente cosa c'è davvero lassù! Noi...» esitò, in cerca delle parole adatte. «Noi impareremmo qualcosa di nuovo, quindi saremmo tutti un pochino migliori, non trovi?»
Alphard scosse il capo, divertito. E ammirato. Sotto alcuni aspetti invidiava Jordan. Invidiava i Babbani in generale. Invidiava quella loro inesauribile brama di sapere, di scoprire, di conoscere. Di migliorarsi. Una brama che aveva loro permesso di elevarsi al livello dei maghi, ormai. Erano riusciti a ovviare, con quella che chiamavano tecnologia, alla mancanza di poteri magici. Se non era ammirevole quello...
Jordan, sorridendo trasognato, ritagliò l'articolo che lo interessava, lo appese al bancone del pub con una puntina e sorrise alla giovane coppia appena entrata nel locale.
Notando che l'acquazzone era terminato, Alphard tentò di pagare ma Jordan affermò offeso che offriva lui, naturalmente, per festeggiare la buona riuscita della missione Luna 10.
Alphard, a malincuore, rinunciò a insistere oltre. Conosceva Jordan: quando si impuntava su qualcosa non c'era proprio verso di fargli cambiare idea. Somigliava un po' a Walburga in questo.
Merlino, Walburga!
Biascicando un ringraziamento e un saluto affrettato, scattò in piedi e uscì dal locale, ignorando ostinatamente il sorrisetto furbo di Jordan. Inforcata la moto, puntò quindi diritto a Grimmauld Place numero 12: con un po' di fortuna sarebbe arrivato in perfetto orario per la fantomatica cena di famiglia che non poteva azzardarsi a dimenticare.
Era anche abbastanza sicuro che avesse un motivo particolare, quella cena. Se solo fosse riuscito a ricordarsi quale...

Una manciata di minuti più tardi, Alphard spense la moto: l'Avita Dimora di Orion Black e famiglia si stagliava in tutto il suo squisito splendore davanti ai suoi occhi. Era in perfetto orario, constatò sollevato, osservando i Babbani che camminavano frettolosi, tentando di evitare le pozzanghere più profonde.
Alcuni di loro lanciavano occhiate bramose alla moto di Alphard - qualche esemplare di genere femminile le lanciava direttamente ad Alphard, a essere sinceri - ma nessuno sembrava notare l'edificio contrassegnato dal numero 12, malgrado fosse caratterizzato da particolari (il grosso battiporta d'argento a forma di serpente, ad esempio) piuttosto appariscenti: gli incantesimi Respingi-Babbani funzionavano alla perfezione.
Alphard smontò dalla moto e si avvicinò mesto all'Avita Dimora: non aveva mai amato quelle riunioni di famiglia. I suoi orgogliosi parenti riuscivano sempre a farlo sentire in qualche modo inadeguato.
La sua espressione corrucciata si addolcì un poco quando scorse il bambino dai capelli scuri che, standosene rannicchiato sugli scalini di pietra antistanti il portone laccato di lucida vernice nera, fissava assorto quattro ragazzini intenti a prendere a calci una malconcia palla arancione.
Intenerito, l'uomo si avvicinò al bambino e sussurrò con gentilezza: «Uno Zellino per i tuoi pensieri».
Il piccolo sussultò, balzando in piedi e inciampando nell'elegante tunica scura.
Alphard lo afferrò stringendolo in un abbraccio affettuoso e sorrise deliziato quando il bimbo gli gettò le braccia al collo urlando entusiasta: «Zio Al! Ti stavo giusto aspettando! Avevo paura che non venissi! Wow, sei venuto con la tua motoclicetta
«Mmm, motocicletta, per la precisione, Sirius, non mi sembravi tanto concentrato sul mio arrivo, però. Avrei potuto trasfigurarti in un serpente d'argento e appenderti al portone per fare compagnia al battiporta e tu non te ne saresti neppure accorto».
«Non è vero!» protestò il piccolo con veemenza.
«No? Va bene, fingerò di crederci. Ma secondo me eri più interessato a loro...» disse l'uomo, indicando con un cenno del capo i bambini Babbani.
Sirius corrugò la fronte, giocherellando distratto con la cerniera del giubbino di Alphard. «E' solo che mi annoio, zio. Non ho nulla da fare e mi tocca starmene tutto il giorno rinchiuso in quella casa».
«Non puoi giocare con Regulus?»
«Regulus? Mff, sta prendendo una brutta piega quello là, sai? Davvero. Sta diventando uguale ai nostri genitori. Ma proprio uguale-uguale» affermò il bimbo, stringendosi affranto nelle spalle.
Alphard trattenne un sogghigno - non voleva che Sirius pensasse stesse ridendo di lui - anche lui da bambino si era sentito così. E anche lui era rimasto deluso quando si era reso conto che Cygnus stava prendendo una brutta piega, diventando uguale-uguale ai loro genitori.
«Capisco» mormorò con dolcezza, posando il bimbo a terra e accovacciandosi davanti a lui per poterlo guardare comodamente negli occhi. Occhi grigi, come i suoi. Era davvero strana la genetica, a volte. Capricciosa. Sirius sembrava più figlio suo che di Walburga e Orion. Un bambino fortunato, insomma.
«Io vorrei tanto giocare con loro» affermò il bambino fortunato dopo un breve, meditabondo silenzio. «Mi sembrano simpatici. Ma mia madre dice che non posso. Ha fatto anche un incantesimo e loro non mi vedono neppure. Perché un Black non può giocare con i Babbani, secondo lei» tacque un istante, fissando imbronciato i ragazzini. «Zio, cosa sono i Babbani?»
«Oh. Sono... esseri umani, Sirius. Come noi. Solo che non possono fare magie».
«Nemmeno con una bacchetta magica?»
«Nemmeno con una bacchetta magica».
«Quindi è questo che li rende... uh... inferi di ori?»
Alphard lo guardò stranito. «Inferi di ori?»
«Sì, mio padre non fa che ripetere che i Babbani sono inferi di ori come gli elfi domestici. Vuole dire che sono poveri, zio? Che non hanno quelle cose luccicanti di cui si ricopre zia Druella?»
«Ah. No, non c'entrano gli ori. E neppure gli Inferi, Sirius. Credo che il termine appropriato sia inferiori, tutto attaccato. Vuole dire che valgono un po' meno di te, perché non possono fare qualcosa che tu sai fare».
«Oh. Mi pareva. Non è una cosa brutta non possedere ori. Anzi... zia Druella è un po' ridicola a volte: sembra un albero di Natale. Però, zio, io non so fare quello che fa quel bambino con la palla» osservò Sirius, indicando uno dei quattro ragazzini che palleggiava con grande maestria. «Quindi sono inferiore al Babbano?»

«Sirius!» un urlo degno di una Banshee infuriata li distolse dalla spinosa questione. «Allontanati subito da quel Babbano, come... oh, sei tu, Alphard».

Alphard si alzò di scatto e guardò preoccupato Walburga: faceva un certo effetto, tutta impettita, avvolta nella sua funerea tunica nera, e con la bacchetta minacciosamente puntata verso di lui.
«Ma come ti sei conciato? Ti pare il modo di presentarti a una cena di famiglia? Con quegli abominevoli abiti Babbani! E un Incantesimo Accorciante ai capelli ti avrebbe richiesto troppo sforzo, suppongo. E a proposito: ma quanto ci hai messo a Materializzarti!»
Alphard approfittò della provvidenziale pausa - evidentemente anche Walburga necessitava di respirare, di tanto in tanto - per tentare una difesa e indicò la moto. «Non mi sono Materializzato. Sono venuto con...»
«Con quell'Abominio? Con un mezzo di trasporto Babbano? Ma sei impazzito? E proprio in questo momento così delicato per la famiglia! Spero che non ti abbiano visto i Lestrange!»
Alphard la guardò un po' smarrito. Doveva essersi perso qualche punto fondamentale. Ma non se ne curò più di tanto, troppo divertito dalla scoperta che la voce di Walburga versione carne e ossa era uguale a quella versione Strillettera. Ma proprio uguale-uguale!
«E non restartene lì impalato come un elfo impagliato, per l'albero genealogico di Merlino! Siamo già in ritardo» sbraitò la strega, agitando la bacchetta e scostandosi per lasciare entrare Sirius e Alphard.
«Per l'albero genealogico di Merlino? Questa non l'avevo mai sentita, Walburga. Lo sai però che Merlino non aveva questo grande albero genealogico, vero? Lui era un nato Bab...»
«Sciocchezze!» tagliò corto la donna lucidando con uno stizzito colpo di bacchetta le scarpe un po' impolverate di Sirius. «Merlino era un Purosangue, senza ombra di dubbio. Sono stati i Babbanofili a mettere in giro quelle disdicevoli voci su sue presunte ascendenze Babbane. Figuriamoci! Un mago di quella potenza non poteva che essere Purosangue!» concluse, chinandosi su Sirius per allacciargli i bottoni della tunica che lui aveva lasciato negligentemente sbottonati.
Alphard scosse il capo, esasperato. «Il professor Silente è solito dire che...»
«Silente è, per l'appunto, un Babbanofilo della peggior specie. E non solo quello. Ha avuto il coraggio di dire a Bellatrix che i centauri meritano rispetto perché sono esseri intelligenti».
«Che assoluta mancanza di buonsenso, da parte sua» affermò ironico Alphard, strizzando l'occhio al nipotino. Il piccolo sorrise e, approfittando della distrazione dell'augusta genitrice, si slacciò nuovamente i bottoni.
«Già» convenne convinta Walburga, che non era mai stata molto brava a cogliere l'ironia. «La povera piccina ne è rimasta sconvolta».
Alphard ne dubitava seriamente, conoscendo bene la povera piccina, ma, affascinato da Sirius che, tenendosi cauto alle spalle della madre, ne imitava irriverente l'andatura marziale, decise di soprassedere.
«Oh, però potevi anche trovare il tempo di cambiarti, Alphard. Sei davvero impresentabile. Ti darei una tunica di Orion... ma sarebbe uno spettacolo forse ancora più disdicevole, considerato che ti arriverebbe appena a metà polpaccio. Mi chiedo da chi tu abbia preso. Nessuno in famiglia è così alto!» sbuffò la strega, indicando con un gesto vago la lunga teoria di ritratti di Black trapassati appesi alle pareti del corridoio che stavano attraversando.
«Zio Marius lo era».
La donna lo fulminò con un'occhiata e precisò a denti stretti: «Non c'è mai stato nessun Black con quel nome! Ti pregherei di ricordarlo, Alphard. No, deve essere un carattere ancestrale. Anche Sirius sembra avere ereditato la tua altezza oltre che il tuo singolare colore degli occhi».
«Singolare colore degli occhi?».
Walburga annuì ostinata. «Certo. E' una particolarissima tonalità, sospesa tra il nero chiaro e il blu scuro. Stranamente simile al colore delle nubi temporalesche».
«Definizione molto lirica, lo ammetto. Sono deliziato soprattutto dal nero chiaro, sì. Surreale ossimoro. Ma esiste una parola molto semplice per definire tale colore, sai Walburga? Grigio. Io e Sirius abbiamo semplicemente gli occhi grigi. Ci sono sempre stati Black dagli occhi grigi, seppure tendano ad essere ricordati con reticenza, in genere».
«Sciocchezze. I vostri occhi non sono affatto grigi! Il grigio è tutto un altro colore! Abraxas Malfoy ha gli occhi grigi. Non voi due. Ma ora sbrighiamoci! Cygnus è già arrivato da molto. E le ragazze sono affamate».
«Le ragazze?»
Walburga lo gratificò di un'occhiata omicida. «Bellatrix, Andromeda e Narcissa, naturalmente!»
«Sì, Walburga, conosco i nomi delle figlie di Cygnus. Ma Bellatrix e Andromeda non dovrebbero essere a Hogwarts?»
«Non durante le vacanze Pasquali, Alphard! Non durante queste, almeno».

Per la gioia di Alphard, la cena passò senza particolari incidenti.
Del resto, le persone ben educate non parlavano con la bocca piena. E i Black erano sicuramente persone ben educate.
Alphard passò tutto il tempo a escogitare una scusa plausibile per abbandonare la ben educata compagnia alla fine della cena, quando, complici le bocche desolatamente vuote, si sarebbe cominciato a parlare.
E Alphard non aveva nessuna voglia di partecipare a un'entusiasta incensatura di quell'opportunista dall'ego smisurato di Tom Riddle. Ultimamente tutte le conversazioni della famiglia Black finivano per essere entusiaste incensature di Tom Riddle. E Alphard non riusciva a parteciparvi con la necessaria convinzione. Conosceva Tom Riddle - o Lord Voldemort, come voleva essere chiamato al momento - meglio di tutti i suoi familiari, ci aveva condiviso il dormitorio a Hogwarts per sette anni, e non riusciva proprio ad avere tutta quella ammirazione per lui. Senza contare che, quella sera, desiderava solo tornarsene a casa per rimirarsi un po' la Chiave del Tempo ritrovata e dedicarsi alla ricerca della gemella.
Non ebbe fortuna, purtroppo.
Nessuna scusa sembrava abbastanza valida per abbandonare il campo. L'ordine del giorno non ammetteva defezioni, essendo di vitale importanza per la nobile e antichissima Casata dei Black al gran completo.
I Lestrange si erano detti interessati a unire le proprie fortune a quelle dei Black, proponendo il loro rampollo primogenito - il giovane Rodolphus - come aspirante fidanzato per la quindicenne Bellatrix.
E Bellatrix, assetata di potere e di purezza del sangue, pareva oltremodo compiaciuta.
Dell'opinione del giovane Rodolphus non era dato sapere. Ad Alphard faceva comunque un po' pena quel povero ragazzo.
Ma non osò proferire verbo, forse anche perché abbagliato dagli ori sfoggiati dalla bionda Druella che quella sera - bisognava dare ragione al piccolo Sirius - ricordava davvero un ricco albero di Natale.
Alphard reprimette uno sbadiglio molto poco opportuno. Quindi, approfittando del fatto che erano tutti troppo occupati a commentare le ottime conseguenze dell'offerta dei Lestrange per badare a lui, Appellò silenziosamente la copia della Gazzetta del Profeta abbandonata sullo squisito mobile scuro alle sue spalle e cominciò a leggerla, cullato dal brusio indistinto delle voci eccitate dei suoi parenti.
A un certo punto notò un articolo che lo colpì particolarmente.
Aveva già letto quella notizia sul giornale Babbano di Jordan: un bambino attaccato da un lupo in Cornovaglia. Peccato che le cose non fossero andate esattamente così, constatò, osservando raccapricciato la fotografia di un uomo distrutto che stringeva tra le braccia un bimbo dai capelli chiari quasi totalmente nascosto da spesse fasciature. Nell'articolo non comparivano nomi, ma Alphard conosceva quell'uomo.
Inorridito, balzò in piedi e, dimentico della fondamentale discussione di famiglia, esclamò: «Ma è terribile!»
Gli sguardi dei presenti si posarono sconcertati su di lui.
«Cosa ci sarebbe, di grazia, di terribile nell'unione della nostra fortuna con quella dei Lestrange, Alphard? E' vero, una loro trisavola è stata diseredata per quella brutta faccenda del Satiro ma, bisogna ammetterlo, anche noi abbiamo i nostri scheletri nell'armadio» lo riprese Cygnus con un certo pudico imbarazzo.
Alphard si riscosse. «Cosa? No, io... la brutta faccenda del Satiro? Ma non può essere che una leggenda, dai. Un'umana non può...» sbirciò con discrezione i suoi nipotini che ascoltavano affascinati e decise che nessun racconto riguardante un Satiro poteva essere adatto alle loro orecchie innocenti, così agitò il giornale e concluse: «Comunque, io mi riferivo a questo!»
«Ah, quello» rispose Orion con un'alzata di spalle. «Una brutta faccenda, sì. Dolohov mi ha raccontato che hanno passato un intero pomeriggio a modificare memorie di Babbani e a convincerli che nessun uomo si era trasformato in lupo davanti ai loro occhi per poi assalire un bambino. Ora sono tutti convinti che il ragazzino sia stato assalito da un banale lupo».
Cygnus annuì disgustato. «Già. Non ci si può proprio fidare di Greyback...»
«Greyback?» chiese Alphard pensoso. «E' uno degli amici di Riddle, giusto?»
Walburga negò oltraggiata: «Non dire assurdità, Alphard. Greyback è un licantropo! Un Abominio! Come si può essere amici di un Abominio? Diciamo che viene usato per lavori adatti a lui».
«Usato per lavori adatti a lui? Tipico di Riddle, sì. Ma che ci faceva un licantropo così vicino a una zona abitata da Babbani in una notte di plenilunio?» chiese Alphard confuso.
Druella accarezzò i capelli biondi di Narcissa e sussurrò, un lampo indecifrabile negli occhi blu: «Dicono fosse lì per il ragazzino».
Alphard sussultò: «Cosa? Per il ragazzino che ha morso? Lo ha morso di proposito?»
Il cognato sbuffò, agitando una mano annoiato. «Sembrerebbe di sì. Ma se lo era cercato».
«Se lo era cercato? Stiamo parlando di un bambino dell'età di Sirius! Come può esserselo cercato? Greyback lo ha morso volontariamente! Ha volontariamente rovinato la vita di quel bambino, Orion» urlò Alphard non riuscendo a trattenere lo sdegno.
«Oh, magari saranno fortunati e il bambino morirà. Non è ancora fuori pericolo» osservò con indifferenza Walburga.
Alphard la fissò sconvolto. «Oh, certo. Walburga, tu ti riterresti fortunata se uno dei tuoi figli morisse?»
«Sì, se si fosse trasformato in un immondo ibrido!»
Druella tossicchiò imbarazzata: «Cissy, tesoro, credo che Regulus stia crollando dal sonno, perché non lo porti in camera sua e gli leggi qualcosa? Sono sicura che gli piacerà. E porta anche Sirius con te, così ti mostrerà dove trovare un bel libro».
La ragazzina si alzò sorridendo e annuì, prese per mano i due bambini e affermò sognante: «Sì, così mi alleno. Anch'io da grande voglio sposare un mago ricco e Purosangue per perpetrare la stirpe».
Sirius si divincolò sdegnato. «Io no! Non so cosa farò da grande. Ma di sicuro non sposerò un mago ricco e Purosangue per pre... per per... insomma, per fare quella roba là alla stirpe! Proprio no!»
Narcissa scoppiò in una deliziosa risata argentina: «Mannò, sciocchino. Ovvio che a te non accadrà».
«Ah, ecco, volevo ben dire io» affermò sollevato il ragazzino.
«Tu sposerai una strega ricca e Purosangue per perpetrare la stirpe» rivelò paziente la bambina, quindi uscì dalla stanza tenendo per mano il piccolo Regulus che, assonnato, non oppose resistenza.
Sirius sgranò gli occhi e fece una smorfia di assoluto disgusto: «Cosa? Sposare una femmina? Ma così è ancora peggio! Almeno con un maschio avrei potuto giocare a Gobbiglie. Ma con una femmina... quelle non fanno altro che piagnucolare e sbaciucchiarti tutte umidicce!».
Malgrado tutto, Alphard non riuscì a trattenere una risata; Walburga la prese decisamente peggio, però, posò le mani sui fianchi e guardò il bimbo con un truce cipiglio: «Sirius!»
Il piccolo arretrò di un passo, ma sollevò fiero gli occhi grigi fissando il viso della madre.
Fu Andromeda a salvare la situazione, arruffando scherzosa i capelli al cuginetto ed esclamando: «Ehi! Come sarebbe che una femmina non può giocare con te a Gobbiglie? Ritieniti sfidato, nanerottolo, ho proprio voglia di mostrarti un paio di cose su noi inutili femmine!»
Il bambino la guardò un po' scettico, ma poi accettò, afferrando la mano della ragazza e trascinandola fuori dalla stanza.
Alphard aspettò che la porta si richiudesse per poi chiedere incredulo: «Preferiresti davvero vedere uno dei tuoi figli morto piuttosto che licantropo?"
Walburga annuì con gelida serietà. «Certamente. Preferirei vederli entrambi morti, Alphard, piuttosto che vederli disonorare la Casata. Sono sicura che Orion, Cygnus e Druella sono d'accordo con me».
Alphard scrutò inorridito i presenti. Druella sembrava un po' incerta, ma negli occhi dei veri Black c'era solo una terrificante sicurezza. Evidentemente lui era proprio un Black fallimentare. I suoi parenti non avevano mai mancato di farglielo notare, del resto. Sospirando mesto si massaggiò la fronte e chiese: «Come sarebbe a dire, comunque, che il figlio di John Lupin se l'è cercata?»
«Chi?» chiese Druella confusa.
«Il bambino aggredito dal licantropo che lavora per Riddle».
«Non è stato il bambino a cercarsela. E' stato il padre. Ha offeso Greyback» spiegò il cognato con insofferenza.
Alphard lo squadrò incredulo. «Conosco John, lavora al Ministero, nell'ufficio accanto al mio. E' l'uomo più gentile e disponibile di questo mondo, Orion. Non saprebbe offendere qualcuno neppure impegnandosi!»
«Non ha dato a Greyback quello che gli ha chiesto. Ma perché ti riscaldi tanto, Alphard. Quell'uomo è solo un Nato Babbano».
«Non gli ha dato... cosa voleva Greyback da John?»
Orion si strinse nelle spalle. «Non lo so. E non mi interessa particolarmente».
«Lo so io!» affermò Bellatrix, eccitata. «Rodolphus mi ha raccontato tutta la storia! Suo padre era presente quando Greyback ha fatto rapporto. Era furibondo, il mannaro, perché il Sanguesporco che lavora al Ministero non gli ha dato la lista».
Alphard si sentì fremere per la voglia di prendere a sculaccioni quella ragazzina irritante che usava termini tanto volgari e maleducati per indicare una persona piacevole come John, ma si trattenne - evidentemente a Cygnus e Druella andava bene così - e chiese: «La lista? Quale lista? Un momento... John si occupa di rintracciare i bambini dotati di poteri magici nati da genitori Babbani. Greyback voleva che gli consegnasse la lista con i loro nomi?»
La ragazzina annuì, entusiasta. «Sì, Rodolphus dice che Greyback voleva occuparsi di quei marmocchi. Il Sanguesporco non glielo ha permesso e lui ha deciso di occuparsi del marmocchio del Sanguesporco».
Alphard sgranò gli occhi, orripilato.
Cygnus sospirò avvicinandosi al fratello. «Alphard, bisogna pur fermarla questa invasione incontrollata di Nati Babbani. Sono sempre più numerosi, al contrario di noi Purosangue che diventiamo sempre meno. Non possiamo starcene buoni a guardare mentre i Babbani ci rubano la Magia».
«I Babbani non ci rubano la Magia! Non solo non possono, Cygnus, ma non ci pensano neppure. Non ne hanno bisogno. Ci hanno raggiunto. E superato, forse! Hanno creato un manufatto che ora ruota attorno alla luna studiandola, per Merlino! Noi, con la nostra Magia, siamo forse stati in grado di fare qualcosa del genere?»
«E perché mai avremmo dovuto?»
Alphard prese il giornale, ancora aperto sull'articolo del bambino aggredito dal licantropo, e lo piazzò sotto il naso del fratello. «Perché? Ma per scoprire cosa c'è davvero lassù, Cygnus, per diventare tutti un po' migliori. Sarebbe meraviglioso se la luna fosse il pretesto per miglioraci e non l'elemento che permette al sicario mannaro di un mago di eliminare bambini innocenti che hanno la sola colpa di essere nati nella famiglia sbagliata! Pensavo che quei tempi fossero finiti. Che l'Ordine di Merlino fosse stato sciolto perché ormai inutile. Ero convinto che i Babbani fossero protetti dal Ministero...»
«Ma lo sono! Sono sicura che Lord Voldemort non voleva affatto eliminare quei bambini. Probabilmente voleva solo conoscere i loro nomi per controllare che non ci nuocessero. E' stato di sicuro quell'ibrido disgustoso a fraintendere...» disse Druella.
Alphard la osservò scettico. Druella era davvero convinta di quello che aveva appena detto.
Druella non conosceva Riddle, però.
Ma lui sì. Ci aveva convissuto per sette anni. Era ambizioso Riddle, oh, sì. Un po' megalomane anche e opportunista. Ma non poteva essere un simile mostro...
No, doveva essere stata davvero un'idea di Greyback.

Sospirando inquieto, Alphard salutò i parenti che accettarono graziosamente il suo congedo. Troppo impazienti di ricominciare a elencare gli innumerevoli benefici di un'unione con i Lestrange per badare a lui, probabilmente, o solo seccati dalla sua vibrante arringa pro-Babbani.
Ad Alphard interessava poco il perché, era libero di andarsene e solo quello importava.
Voleva tornare a casa e dedicarsi alla ricerca della settima Chiave. Ma, soprattutto, voleva allontanarsi il più possibile da quei vuoti discorsi su potere, superiorità e purezza del sangue che lo avevano accompagnato fin da quando era bambino.
Un tempo aveva anche creduto a quei discorsi, forse... ma dopo ventun anni di quotidiane frequentazioni di Babbani, era sicuro che non avevano alcun fondamento.
Attraversò a passo sostenuto il lungo corridoio che portava all'uscita, ignorando gli austeri ritratti che ne ornavano le pareti e fermandosi solo davanti al portone d'ingresso tenuto socchiuso da un vecchio mattone sbrecciato.
Un po' sorpreso, Alphard uscì dall'edificio lasciando il mattone al suo posto, anche se non ne comprendeva l'utilità.
Respirò a pieni polmoni l'aria fresca della notte, sentendosi improvvisamente libero e leggero.
L'Avita Dimora aveva il misterioso potere di fargli mancare l'aria, di farlo sentire oppresso. Era felice che fosse stata Walburga, ad ereditarla.
Quando cercò con lo sguardo la moto comprese l'utilità del mattone fermaporta: non era il solo a volersi godere la pace della notte.
Sirius sembrava avere avuto la stessa idea e, non possedendo ancora una bacchetta, non avrebbe potuto aprire quell'infida porta priva di maniglia senza ricorrere al battiporta. E Walburga e Orion non avrebbero gradito particolarmente.
«Hai già terminato di giocare a Gobbiglie con Andromeda, noto» osservò con noncuranza il mago, avvicinandosi al nipote intento ad ammirare la grossa moto illuminata dalla luce giallastra di un lampione.
Il ragazzino alzò le spalle, lo sguardo fisso sulla motocicletta. «Mi fai fare un giro, zio Al? Mi piace sedermi su questa cosa mentre ruggisce. Sembra di cavalcare un drago! Se solo sapesse volare! Credi imparerà?»
Alphard rise, sorpreso. «Imparare a volare? Oh, no, non credo proprio. Non è viva, Sirius. E' solo un oggetto, come una scopa».
«Ma le scope sanno volare!».
«Sì, ma solo se vengono sottoposte a un particolare incantesimo».
«Oh. Perché allora non lo facciamo anche alla moto quell'incantesimo? Sarebbe fantastico volare lassù con questa!»
«Si potrebbe tentare, immagino».
Sirius annuì felice. «Allora, mi porti a fare un giro?»
«Non questa sera, piccoletto. E' tardi. Dovresti essere già a letto da un pezzo».
«Andromeda è convinta che lo sia, infatti».
«Ah, ecco. Come è andata la vostra partita di Gobbiglie?»
Sirius chinò il capo, abbattuto, poi sussurrò. «Mi ha stracciato. Andromeda non è male per essere una femmina».
«No, infatti. Andromeda è carina».
«Mmm. Zio, posso farti una domanda anche se è tardi?»
Alphard ridacchiò divertito, gli pareva che Sirius non facesse altro che tempestarlo di domande, ultimamente. Ma, ricompostosi, annuì con serietà: «Certo, Sirius, coraggio».
«Cos'è un licantropo?»
Alphard meditò un istante, poi sollevò il bimbo e lo fece sedere sul sedile della moto. «E' un essere umano, Sirius. Come noi. Solo che nel suo corpo ospita lo spirito di un lupo».
«Un lupo? Vuoi dire un lupo-lupo
«Sì, un lupo-lupo. E...» indicò con un dito la luna appena calante che brillava nel cielo terso. «Nelle notti di luna piena, lo spirito del lupo prende il sopravvento e l'essere umano, costretto a sottometterglisi, si trasforma per una manciata di ore in un lupo-lupo».
Sirius sgranò gli occhi, meravigliato. «Wow! Mi piacciono i lupi. Sono... eleganti».
Alphard corrugò la fronte, pensoso. «Eleganti? Sì, suppongo che lo siano».
«Lo sapevo che doveva essere una cosa fantastica un licantropo! Mia madre ha detto che è un Abominio...»
Alphard lo fissò stranito e il piccolo sbuffò, prima di spiegare come se stesse parlando con un bambino poco sveglio: «Per mia madre un sacco di cose sono un Abominio. Anche i tuoi vestiti lo sono. E la tua moto. E la tua capanna, anche...»
«La mia... capanna
Il ragazzino annuì serio. «Sì. E' uno degli Abomini di cui parla di più, la tua capanna. Sembra proprio che tu sia un po' tutto un Abominio, zio».
Alphard annuì serio. «Ne sono oltremodo lusingato».
«Ecco. Io non so proprio bene cos'è un Abominio, ma sembra che le cose che mi piacciono di più lo siano! Tu mi piaci. E anche i tuoi vestiti. E la tua moto... quindi anche i licantropi devono essere proprio belli!».
«Tua madre non sembra essere d'accordo».
«A mia madre piace questa stupida tunica. Mica ci si può fidare di quello che piace a lei...»
«Giusto. I licantropi devono essere proprio belli».
«Già. Eleganti come lupi. Mi piacerebbe essere un lupo, ogni tanto. Zio? Quel bambino... quello del giornale, è un licantropo?»
Alphard sospirò triste. «Sì, Sirius, è un licantropo anche lui, ora».
«Bene. Mi sa che quando andrò a Hogwarts lo cercherò e ci diventerò amico».
«Non credo che troverai quel bambino a Hogwarts, sai?»
«Io credo che sarà facile trovarlo, invece. Dovrò solo cercare il ragazzino elegante come un lupo».
«No, non intendevo questo... non credo che a quel bambino sarà permesso frequentare Hogwarts».
«Ma tutti i ragazzini frequentano Hogwarts».
«E' un licantropo, Sirius. La maggior parte della gente pensa che sia un mostro, non credo che il preside Dippet gli permetterà di frequentare la scuola».
«Oh, ma mi sa che a Hogwarts li prendono i mostri, zio! Davvero. Bellatrix l'hanno presa».
Alphard ridacchiò, stringendo il piccolo in un abbraccio serrato e, dopo avergli sfiorato la testa con un rapido bacio un po' goffo, lo posò a terra. «Potrebbe essere un precedente, sì. Staremo a vedere come si evolverà la cosa, ma ora fila a letto, è tardi e temo che tra non molto tua madre verrà a controllare se dormi. Non vorrai mettere nei guai Andromeda, vero?»
Il piccolo ci pensò un po', combattuto, poi scosse il capo: «No. Non è male Andromeda. E' la Black che preferisco. Dopo di te, è chiaro... lei mica è un Abominio... e poi è pure una femmina».
«Giusto» convenne serio Alphard. «Due grossi svantaggi, senza dubbio».
Sirius sorrise malandrino e, dopo un'ultima carezza alla moto, salì di corsa le scale di pietra spostando il mattone che teneva la porta socchiusa. Prima di scivolare all'interno si voltò verso Alphard e annunciò: «Ho scoperto cosa voglio fare da grande, sai zio Alphard? Voglio diventare uguale-uguale a te: dunque farò l'Abominio!»
Alphard fissò allibito il portone richiudersi alle spalle del nipote, quindi scoppiò in una risata allegra e irrefrenabile, che lo riappacificò con se stesso e con quel posto.
Quando si calmò avviò la moto, dirigendosi verso la sua capanna, pronto a cominciare la ricerca della settima Chiave del Tempo.
In fondo, non era affatto male fare l'Abominio.


Ed eccoci alla quinta tappa del nosto Viaggio.
Una tappa importante, perché apre una nuova fase di questa Storia.
La  fase alphardiana.
Per i prossimi capitoli sarà proprio Alphard la nostra "guida turistica". Con lui attraverseremo gli anni Sessanta e Settanta. Anni importanti per le Chiavi del Tempo... e anni importanti per la Saga di J.K. Rowling. Alphard ci mostrerà, infatti, la sua personale rilettura degli avvenimenti che accompagnarono l'ascesa di Voldemort... e ci mostrerà anche alcuni momenti particolari della famiglia Black a cui ha avuto la "fortuna" di assistere di persona. XD
In realtà, Alphard avrebbe dovuto fare una fugace apparizione in questa storia. Mai nella mia vita avrei pensato di scrivere di lui, infatti. Sono stata "costretta" a farlo (ne La Chiave del Tempo è stato lui a regalare l'oggetto in questione ad Andromeda, quindi non potevo evitare di farlo comparire in questa storia) e, invece di scriverci un capitoletto di sfuggita... mi sono trovata a eleggerlo mio protagonista di tutta la parte centrale.
Che volete, il giovanotto ha un indubbio fascino... non ho proprio saputo resistergli! ^^
Scherzi a parte, mi sono divertita tantissimo ad inventare un carattere e un passato per questo misterioso - ma simpatico - Black di cui J.K. ci ha detto solo il nome, che ha lasciato un'eredità a Sirius e che è stato cancellato dal famoso Arazzo di Famiglia.
Bene, io ho cercato di "costruirlo" tenendo presente questo minimo Canon (un'operazione che avevo già tentato con Teddy ne "La Chiave del Tempo") e mi è piaciuto moltissimo farlo (mi era piaciuto moltissimo fare una cosa del genere anche con Teddy... è un'operazione molto creativa e affascinante, se non l'avete mai provata ve la consiglio caldamente ^^) . Tra  l'altro l'avere lui come protagonista mi ha anche permesso di tentare di capire certi lati di altri personaggi della Rowling che mi hanno sempre incuriosito. Tipo: come mai Sirius, rampollo di un'antica famiglia fiera sostenitrice della superiorità del Sangue Puro ha accettato con tanta naturalezza di frequentare persone che, di sicuro, non avrebbero scatenato l'entusiasmo dei Black regolamentari?
E il rapporto con lo zio Alphard potrebbe essere una plausibile chiave di lettura.
Se sono riuscita nell'intento di creare un Alphard interessante e plausibile starà a voi dirlo, naturalmente. ;)
Per finire le solite "Note di Servizio":
Zio Marius è un personaggio presentatoci da J.K. Rowling. Compare nell'Arazzo di Famiglia (o meglio, non ci compare - in quanto fatto sparire perché Magonò - ma dovrebbe comparirvi).
Bellatrix sposerà davvero il giovane Lestrange, ma ovviamente la situazione da me descritta e l'epoca in cui l'ho piazzata, sono solo mie supposizioni.
Anche la spiegazione del motivo e della tempistica del morso di Remus sono solo mie congetture... ma del resto sappiamo solo che Remus venne morso da Grayback quando era un "bambino piccolo" (parole sue) e perché il padre aveva in qualche modo "offeso" il licantropo (sempre parole sue, Remus non parla molto di se stesso nei libri, ma quando lo fa racconta cose molto interessanti). Quindi la mia versione non stravolge troppo il Canon, tutto sommato.  ;)
Non so con esattezza se il papà di Remus fosse un nato Babbano... ma so che almeno uno dei suoi genitori lo era (la Rowling ha detto che Remus è un mezzosangue, quindi...) e, non comparendo il nome Lupin da nessuna parte (i maghi son praticamente tutti imparentati tra loro) ho optato per questa scelta.
Luna10 è una missione spaziale realmente avvenuta: il 3 aprile 1966, per la precisione, e mi piaceva molto sia dare un riferimento temporale ben preciso all'episodio, sia tentare un ardimentoso parallelismo tra mondo magico e mondo babbano e fare vedere le due... facce della Luna:  ispiratrice di progresso (Babbani alla Conquista dello Spazio) e di barbarie (il Sicario Mannaro di Voldemort).


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Capitolo 6
*** La settima Chiave ***


Capitolo Quinto


La settima Chiave




Londra, 20 luglio 1969 A.D.

Alphard si appoggiò al muro scrostato che si trovava alle sue spalle e chiuse gli occhi, ignorando l'ironica risata che gli riecheggiava nelle orecchie.

«Per la barba di Merlino, Alphard, non avrei mai pensato che una semplice Smaterializzazione ti potesse ancora fare questo effetto» lo dileggiò, divertita, una voce femminile. «Tua sorella è convinta che tu ricorra troppo spesso a quell'Abominio Babbano per spostarti. Be', forse tutti i torti non li ha...»

Alphard si strinse nelle spalle e aprì gli occhi, fissando ancora incredulo il grosso medaglione che serrava tra le mani.
No, non era la Smaterializzazione la causa delle sue vertigini.
Oh, sotto alcuni aspetti era fallimentare, come mago Purosangue... ma non fino a quel punto.
«Ehi, tutto bene?» chiese la voce femminile, non più divertita ma velata di preoccupazione.
«Mmm» borbottò il mago.
Poi - resosi conto che era molto sgarbato ignorare una signora limitandosi a rivolgerle grugniti degni di un Troll afflitto da asocialità cronica - alzò lo sguardo sulla donna che, stringendo tra le mani un paio di stivali neri decorati da vistose fibbie d'argento, lo squadrava sconcertata.
«Può anche darsi che io usi troppo spesso mezzi di trasporto Babbani, Morrigan. Ma non mi sembravi troppo dispiaciuta ieri sera, quando ti ho riportata a casa con quell'Abominio Babbano...»
«Ne convengo. Io non sono Walburga, del resto».
Alphard sogghignò riabbassando gli occhi sul medaglione. «Vero. Sembra che neppure tu sia dotata di gusti particolarmente squisiti».
«Se con questo intendi dire che non trovo irresistibile una testa di elfo impagliata, allora mi vedo costretta a darti ragione. I miei gusti non sono neppure lontanamente squisiti quanto quelli di Walburga. Vedrò di farmene una ragione e di convivere con questa crudele sventura».
L'uomo annuì distratto, continuando a fissare il medaglione che teneva tra le mani e la donna, sbuffando contrariata, si avvicinò per osservare con più attenzione l'oggetto che tanto affascinava il collega.
«Ripensandoci...» disse poi sarcastica. «Forse tu sei dotato di gusti più squisiti di quanto pensassi. Andiamo, Alphard, seriamente, quel medaglione è terrificante. Non è esattamente sobrio, eh... ci fosse stato solo il serpente nero sul bordo allora sì, ma così... quella fenice è un vero e proprio attentato alla sanità oculare di qualsivoglia essere umano dotato di un apparato visivo nella norma»
«Io lo trovo bellissimo, invece. E la fenice è il suo particolare migliore. Guarda come è vivida, Morrigan. Sembra viva»
«Vivida è un eufemismo, mio caro. Non rende nemmeno lontanamente l'idea. Accecante, mi sembra un aggettivo più vicino alla realtà» affermò la strega, sfiorando cauta il medaglione. «Sembra impregnato di Magia. Una Magia strana, però. Non umana. Sarà qualche diavoleria dei folletti».
Alphard scosse il capo. «Centauri».
«Cosa?»
«La Magia che ha creato questo medaglione è dei centauri, non dei folletti».
«I centauri non costruiscono gioielli».
«Ma i maghi sì».
«Centauri e maghi? Non ho mai sentito di una simile collaborazione».
«Hai mai sentito parlare di Cormiac, Kyros e delle Chiavi del Tempo?»
La donna scoppiò in una breve risata incredula. «Sì, certo. Ho sentito parlare anche di Baba Raba, dello Stregone dal Cuore Peloso e dei Doni della Morte, se è per questo».
Il mago si strinse nelle spalle e continuò a fissare assorto il medaglione. In fondo era abituato a non venire preso troppo sul serio. Walburga e Cygnus lo avevano allenato parecchio in tal senso.
«Merlino, Alphard... non puoi pensare davvero che quell'aggeggio sia una delle Chiavi del Tempo! E' solo un vecchio medaglione. Rotto, per di più, visto che nessun incantesimo sembra in grado di aprirlo. Dai, è più probabile che la bacchetta magica del Professor Silente si riveli essere la Bacchetta di Sambuco!»
Alphard non rispose, limitandosi a guardare gli stivali che la donna stringeva ancora tra le mani. «Anche quelli sono una leggenda, Morrigan» disse poi, indicandoli con un cenno del capo. «I bambini Babbani sono convinti che li abbia indossati un orco per inseguire un ragazzino con la mania di seminare briciole e sassolini, pensa un po'».
«Appunto. I bambini Babbani ne sono convinti. Perché i maghi lo hanno fatto loro credere. Sono secoli che questi stivali sono finiti tra i Babbani. Dovevamo pure inventarci qualcosa per rimediare al gesto di quello sciagurato che, non contento di averli sottratti a un mago e di averne fatto perdere le tracce, li aveva inopportunamente mostrati a qualche ispirato cantastorie. Per fortuna quel mago francese... quel Pierrot è riuscito a rimediare».
«Perrault».
«Fa lo stesso. Lui. Ma le Chiavi del Tempo sono una favola per bambini e null'altro. Una storia inventata da qualche antico mago desideroso di mettere in buona luce i centauri appena immigrati dalla Grecia».
Alphard scosse il capo, cocciuto.
«Alphard, se quella è una Chiave del Tempo potrebbe benissimo esserlo anche questo» esclamò un po' spazientita Morrigan, afferrando il medaglione d'oro che Alphard portava al collo. «Sono praticamente identici, vedi? Solo che il tuo non è decorato da fenici abbaglianti e funziona alla perfezione» concluse, aprendolo e ammirando sconcertata la fotografia della donna dai capelli ramati che vi era custodita.
«Oh, Alphard, lo sapevo! Sei un uomo romantico, in fondo» sussurrò deliziata la strega.
Alphard sospirò, richiudendo il medaglione con un gesto secco e nascondendolo sotto la camicia, poi borbottò, la voce più roca del normale: «Molto in fondo, sì...»
Morrigan rise indicando la cabina del telefono rossa che si trovava alla loro destra. «Allora, uomo romantico, sei pronto ad entrare e a scatenare il leggendario entusiasmo di Glover con il ritrovamento degli Stivali delle Sette Leghe?»
Alphard sogghignò: Glover, l'addetto all'Archivio dei Manufatti Magici, era famoso per la sua capacità di entusiasmarsi di poco inferiore a quella del Professor Rûf. «Certo. E poi gli daremo il colpo di grazia con quello della Chiave...»
«Ah, io preferirei evitare, Alphard» lo interruppe la strega, una punta di esasperazione nella voce. «Non menzionerei le Chiavi del Tempo. Davvero. In tutta franchezza, ho un impegno importante, dopo cena... e preferirei evitare di passare le prossime tre ore cercando di rassicurare Glover circa la nostra sanità mentale».
«Ma...».
«Ma niente, Alphard. Quello è solo un vecchio medaglione rotto, creato da qualche folletto dotato di gusti particolarmente squisiti. E al Ministero non sanno che farsene di un vecchio medaglione rotto. Se proprio ti affascina tanto, perché non lo tieni tu? A Glover non dispiacerà di certo, e pare che tu abbia una vera passione per i vecchi medaglioni. Ovunque andiamo studi scrupolosamente ogni esemplare che ci capita a tiro. Sempre. Qualunque sia l'oggetto della nostra ricerca».
Alphard sospirò un po' imbarazzato - aveva sempre pensato che Morrigan non si fosse accorta di quella sua abitudine - e ripose con attenzione il medaglione nella tasca dei pantaloni.
Doveva ammettere che la collega non aveva tutti i torti. Conosceva Glover, non avrebbe mai creduto all'esistenza delle Chiavi del Tempo e si sarebbe limitato, imprecando in tutte le lingue di sua conoscenza, a sistemare l'oggetto su qualche polveroso scaffale dell'Archivio dei Manufatti Magici.
Sarebbe stata una fine ingloriosa per quel manufatto leggendario. No, lo avrebbe tenuto lui. Ne sarebbe divenuto il nuovo Custode. E chissà, forse un giorno avrebbe persino trovato il coraggio di...
«Siamo d'accordo, allora?» domandò Morrigan sfoggiando un cipiglio vagamente minaccioso che, ad un cenno d'assenso del mago, si tramutò in un sorriso soddisfatto. «Bene. Così riuscirò ad andare alla riunione a cui mi ha invitato Abraxas Malfoy».
«Riunione?»
«Sì. Lord Voldemort spiegherà dettagliatamente il suo programma» spiegò la donna, trascinando il mago nella cabina telefonica
«Sulla Gazzetta del Profeta non era scritto».
«Certo che no. Vuole solo ascoltatori scelti. Tu sei un Purosangue, quindi naturalmente puoi unirti a noi. Ci saranno anche i Lestrange. Il loro primogenito sposerà presto tua nipote, giusto?»
«Sì. Ma temo che dovrò declinare l'invito, Morrigan. Ho già un altro impegno».
La donna sbuffò, sistemandosi una ciocca dei sottili capelli biondi sfuggitale dall'austero chignon. «Peccato. Sarà per la prossima volta, allora».
Alphard annuì, ma era piuttosto propenso a credere che ci sarebbe sempre stato un impegno precedente in concomitanza con le riunioni di Tom Riddle.
Il suo vecchio compagno di dormitorio aveva avuto un certo successo in quegli anni, era innegabile. La maggioranza dei maghi Purosangue lo adorava, sostenendo che le sue idee erano giustissime.
Alphard non ne era così sicuro.
«Posso sempre raggiungerti dopo la riunione, Alphard» propose all'improvviso Morrigan, sfiorandogli con una carezza suadente un avambraccio, il viso così vicino al suo da permettergli di sentire il vago aroma di violetta che le caramelle da lei preferite donavano perennemente al suo alito. La proposta era intrigante, ma Alphard si vide costretto a rifiutarla.
«Mi dispiace, Morrigan. Il mio impegno potrebbe rivelarsi abbastanza lungo. E poi...» aggiunse scherzoso inalberando un broncio che, ne era conscio, le donne sembravano trovare irresistibile. «Non sono esattamente entusiasta del fatto che tu mi tenga come seconda scelta dopo Riddle!»
«Ma non mi dire! Non credevo che il tuo Ego maschile fosse tanto fragile».
«E invece te lo dico. Come hai argutamente notato: sono un uomo romantico, in fondo».


*****


«Ciao, Zio Al!»

Alphard sorrise al ragazzino dagli arruffati capelli ramati che saltellava allegro sulla soglia del "The Galaxy" e smontò dalla moto guardando sconcertato la luce azzurrina che filtrava dalla porta socchiusa, quindi avanzò deciso verso il ragazzino e gli scompigliò i capelli.
«Ciao Yuri, cosa fai qui tutto solo?»
Il bambino raddrizzò la schiena e rispose spavaldo: «Sono in missione per conto di Papà. Mi ha detto che posso stare in piedi fin quando tutto sarà concluso, questa notte, sai? Non posso certo perdermi il Grande Evento! Papà sarà felice che sei venuto anche tu».
Alphard non ne dubitava.
Non aveva ben chiaro quale potesse essere il grande evento di cui parlava Yuri... ma era sicuro che Jordan sarebbe stato contento della sua presenza.
Erano più di tre mesi che - occupato a girare il paese come una trottola, seguendo contemporaneamente le tracce della Chiave del Tempo e degli Stivali delle Sette Leghe - non metteva piede nel locale dell'amico, e si era perso un appuntamento a cui non avrebbe proprio voluto mancare. Quella sera avrebbe finalmente rimediato: non poteva fare attendere oltre una giovane donna che non vedeva l'ora di incontrare.
«Sai, zio Al, credo che il tuo cucciolo non possa entrare, però... neppure per assistere al Grande Evento...»
Alphard si guardò attorno e chiese, un po' confuso: «Il mio cucciolo?»
Yuri annuì, indicando una specie di Pluffa nera e pelosa che scodinzolava frenetica ai piedi del mago.
«Non è mio, non l'ho mai visto prima d'ora» affermò Alphard deciso a varcare la soglia del pub, ma la Pluffa scodinzolante lo placcò azzannandogli il bordo un po' sdrucito dei jeans.
«Pare che lui ti voglia conoscere, però» disse il ragazzino divertito. «O magari è solo che ha fame e ti ha scambiato per un Roastbeef gigante...»
Alphard, borbottando qualcosa di incomprensibile, si chinò per staccare i dentini del cucciolo dai calzoni. Il botololo però non pareva intenzionato a mollare la presa, così Alpahrd, dando le spalle a Yuri, Evocò con discrezione un pezzo del pasticcio di carne preparatogli per cena dalla sua materna vicina di casa e lo offrì al cucciolo che, evidentemente soddisfatto dallo scambio, lasciò i pantaloni per addentare l'invitate bocconcino.
«Uhm... viaggi spesso con del pasticcio di carne nelle tasche, zio Al?» chiese Yuri sconcertato. «E pensare che mamma non mi permette neppure di metterci delle caramelle».
«Eh... che ne dici di entrare ora, Yuri?»
Il ragazzino scosse il capo e sospirò: «Mi piacerebbe, ma non posso» indicò un punto poco lontano, dove due adolescenti parlottavano sommessi, le teste accostate e le mani intrecciate. «Devo fare la guardia a Caitlin. Quell'idiota di Edward ha intenzioni preoccupanti, secondo papà» concluse bellicoso, mostrando la fionda che teneva stretta nella mano destra.
«Ah, non mi pare che Caitlin voglia una guarda del corpo. Mi sembra anzi che apprezzi le intenzioni preoccupanti del giovane Edward...»
«Mfh... lei è una femmina. Mica lo sa cosa passa per la testa di quello lì. Un fratello deve vegliare sulle sorelle, no? Tu non lo fai con la tua?»
Alphard ci pensò un istante, richiamando alla mente la visione di una Walburga adolescente e scosse il capo. «In realtà no. L'idea non mi ha mai neppure sfiorato. Mia sorella non ne ha proprio bisogno».
In effetti era stata lei a vegliare su di lui. Assicurandosi che nessuna ragazza non Purosangue tentasse di insidiarlo. E non le serviva neppure la fionda...
Sogghignando al ricordo, il mago augurò buon lavoro al ragazzino ed entrò nel pub, stupendosi un po' dell'insolita penombra che lo caratterizzava e osservando affascinato la fonte della misteriosa luce azzurrina che aveva notato dall'esterno: una grossa scatola che somigliava vagamente a un acquario, all'interno della quale un uomo parlava con aria trasognata, stagliandosi davanti a una suggestiva immagine della luna.
«Ciao, zio Al!» lo distrasse una vocetta acuta, mentre piccole dita un po' appiccicose gli stringevano la mano. «Visto? Papà ha comprato una Tilivisione».
«Uff, che sciocchina che sei Gracie. Non è una Tilivisione, ma una Tulivisione!» la riprese una seconda vocetta.
«Ma neppure per idea, Abigail! Zio Al, perdonale, ma sono ancora piccole, loro due. In realtà è una Televisione. Così possiamo vedere il Grande Evento!» intervenne un'altra voce squillante.
«Ah, ecco, grazie per la precisazione, Briana» affermò Alphard, sorridendo alle tre bambine brune che gli si erano strette attorno, ma prima che potesse chiedere ulteriori informazioni in merito, si ritrovò stritolato in un abbraccio caloroso.
«Alphard!» urlò entusiasta Jordan. «Finalmente ti si rivede! E capiti proprio al momento giusto!»
Alphard sorrise, districandosi dall'abbraccio dell'amico. «Veramente non sono passato per te, Jordy» notando la delusione del Babbano si affrettò ad aggiungere: «Ho un appuntamento con una signorina che ho già fatto attendere troppo a lungo».
L'espressione di Jordan si addolcì all'improvviso e un sorriso un po' ebete gli stirò le labbra da orecchio a orecchio. «Oh, certo, capisco. Una creatura irresistibile. Io sono già innamorato perso di lei!»
Alphard sorrise, dandogli una pacca comprensiva. «Immagino, sì. Come delle altre cinque, del resto. E' di sopra?»
Jordan scosse il capo e indicò un tavolino occupato da una donna bruna che canticchiava sommessa stringendo tra le braccia un fagottino rosa. «Non può perdersi neppure lei il Grande Evento».
Alphard annuì avvicinandosi alla donna e si abbassò per osservare incuriosito il fagottino che si rivelò essere una neonata placidamente addormentata.
«E' davvero bellissima, Lucy» affermò sincero, sbirciando di sottecchi Jordan per poi riportare lo sguardo sulla bimba. «Tutta la sua mamma. Per sua fortuna».
Lucy rise mentre Jordan grugnì risentito. «Ehi! E poi non è affatto vero, mio caro. Ha i capelli rossi, come me».
Alphard sfiorò con gentilezza la testina della bimba e rispose scettico: «Mi pare francamente eccessivo parlare di capelli, Jordan. Si potrebbe accennare a quattro peli, volendo essere generosi...»
«Saranno anche quattro peli... ma sono rossi. Anche Yuri era così».
Lucy si guardò attorno alla ricerca dell'unico figlio maschio: «E' vero, Alphard, Jordan ha ragione, questa signorina avrà i capelli rossi... ma a proposito, dov'è Yuri?»
«Oh... è... gli ho chiesto di svolgere un compito per me, tesoro» rispose Jordan cauto.
«Jordan O'Sullivan, spero per te che tu non gli abbia chiesto ancora di sistemare la birra nella spina».
«No! Certo che no. Non sono un padre così degenere».
La donna strinse il fagottino e inarcò scettica un sopracciglio.
«Er... va bene, a volte commetto piccoli errori di valutazione, forse...»
«Tranquilla mamma» intervenne la ragazzina che sedeva sullo sgabello vicino al bancone leggendo con aria concentrata un grosso volume. «Yuri non sta facendo nulla che abbia a che fare con spine o birre».
«Grazie Ailis. Vedi amore? Imparo dai miei errori, io».
«Yuri» continuò Ailis con aria distratta. «E' fuori a fare la guardia a Caitlin».
«Cosa?» chiese Lucy con sguardo sconvolto. «Sta spiando Caitlin ed Edward vuoi dire?»
«Sì» intervenne Alphard senza staccare gli occhi dalla neonata. «E mi pare anche portato. Un'ottima guardia, con cipiglio fiero e fionda pronta».
«Cosa?! Fionda... Jordan, ma sei ammattito?»
«Ma Lucy, quel ragazzo... Edmund...»
«Edward».
«Sì, va bene, quello lì, è molto... espansivo, ecco».
«E allora? A Caitlin piace. E' noi ci fidiamo della nostra Caitlin, no?»
«Di Caitlin sì. E' di quello che non mi fido neppure un po'».
«Edward è un bravo ragazzo. Oh, su Jordan, ti sarebbe piaciuto avere uno Yuri armato di fionda a controllare i tuoi primi appuntamenti?» chiese dolcemente la donna.
Jordan aggrottò le sopracciglia e ammise. «Uh, non particolarmente, no».
«Lo sospettavo» sussurrò Lucy maliziosa. «Ed Edward, in questo momento, vuole stare da solo con Caitlin per gli stessi motivi per cui tu, alla sua età, volevi stare da solo con me... suvvia, Jordy, non ti ricordi quelle sensazioni?»
Jordan corrugò la fronte e sbottò: «Non avevo pensato a questo, Lucy! Ma ora che mi ci hai fatto pensare...» si guardò attorno e quando scorse la sua robusta quartogenita ordinò secco: «Briana! Esci ad aiutare Yuri, subito!».
La bimba scattò in piedi, mostrò la sua fionda al padre ed uscì a passo marziale. Per alcuni versi la piccola Briana ricordava un po' Walburga ad Alphard.
«Jordan O'Sullivan» sibilò Lucy con voce tagliente come gli artigli di un ippogrifo. «Esci subito a recuperare i tuoi due sicari».
«Uff. E va bene. Anzi, farò di più. Inviterò anche coso... Edwin...»
«Edward!» lo ripresero in coro Lucy e Ailis.
«Sì, lui... a seguire il Grande Evento in nostra compagnia».
Lucy sorrise soddisfatta e attirò a sé il marito, stampandogli un bacio affettuoso sulle labbra. «Vedo che cominci a ragionare».
«Già, se mi impegno ci riesco anch'io» borbottò Jordan dirigendosi verso la porta, poi, prima di uscire, aggiunse: «Così almeno potrò controllare che quello non metta in atto le intenzioni che avevo anch'io alla sua età. Non con la mia bambina, almeno!»
Alphard sogghignò allungando affascinato una mano verso la neonata e sfiorandole una guancia, ritraendosi un po' sorpreso quando la piccola voltò il viso cercando il suo dito con la bocca.
Lucy sorrise e gliela porse. «Prendila pure, Alphard. Non si rompe, tranquillo».
L'uomo annuì, un po' impacciato e prese la bimba tra le braccia.
«L'abbiamo chiamata Erin» sussurrò poi con dolcezza la donna.
Alphard sussultò e Lucy gli coprì gentilmente la mano che reggeva la testina della bimba con la sua.
«Spero non ti dispiaccia. Pensavo che a lei avrebbe fatto piacere».
Alphard strinse la piccola al petto e scosse il capo con decisione. «No, Lucy, certo che non mi dispiace, anzi. A lei avrebbe sicuramente fatto piacere. Sarebbe stata al settimo cielo. E fa molto piacere anche a me».
Era vero. Erin avrebbe adorato sapere che quella piccola O'Sullivan portava il suo nome. Avrebbe adorato anche avere un bambino suo, in effetti. Ma Alphard non ne aveva mai voluto sapere, e quando stava per capitolare... serrò gli occhi, tentando di cacciare quello strano bruciore alla gola. Non stava per piangere, naturalmente. I Black non erano costituzionalmente capaci di simili debolezze. Che diamine.
«Alphard» sussurrò con dolcezza Lucy. «Stai bene?»
Alphard annuì e sorrise, o almeno, tentò di farlo, sperando che la smorfia comparsagli sulle labbra potesse essere scambiata per un sorriso.
Lucy fu abbastanza amabile da prenderla per tale, notò grato ridandole la bimba e passandosi rapido una mano sugli occhi.
Oh, era davvero un Black fallimentare, concluse un po' abbacchiato, quando si rese conto che le dita erano umide...
«Alphard, non ti senti ancora in colpa per Erin, vero?»
Alphard cercò di rispondere, i Black erano bravi a mentire... certo, quelli non fallimentari come lui, magari.
«Oh» gemette la donna un po' esasperata. «Ora capisco perché vai tanto d'accordo con Jordan. Siete uguali! Irragionevoli e testardi allo stesso modo! Probabilmente è anche il motivo per cui mi piaci tanto... Tu non hai nessuna colpa per quel fulmine che ha colpito il treno su cui viaggiava Erin! Lo capisci, vero, che non puoi avere il controllo dei fulmini?»
Alphard annuì. Certo che era ben conscio di non avere il controllo dei fulmini. Ma ad incenerire il treno su cui viaggiava Erin non era stato un fulmine. Quella era solo la versione data ai Babbani. Ad incenerire quel treno era stato un Gallese Verde. Quindi lui non aveva colpe personali... ma i suoi simili - che non si erano accorti in tempo di quel drago scappato dalla riserva - erano colpevoli eccome per la morte di Erin e di tutte le persone che viaggiavano con lei.
«Sai, zio Al» disse Ailis che, in un momento imprecisato, aveva abbandonato il libro sul bancone e si era avvicinata al mago. «Tu dovresti proprio uscire con un'altra donna. Zia Erin lo avrebbe voluto» affermò decisa, per concludere con un sognante: «E poi sei un uomo così romantico...»
Alphard sorrise sorpreso e, suo malgrado, divertito. «Ah, Ailis, lo farei sicuramente, e ci sono almeno sette donne meravigliose nella mia vita ma, purtroppo, una è già sposata con il mio migliore amico - un irlandese dalla testa calda - e le altre sei sono tutte minorenni» concluse fingendosi avvilito.
La ragazzina ridacchiò lusingata, prima di venire trascinata via da una delle sorelle che indicava eccitata la televisione dove quattro giovanotti dalle pettinature improbabili cantavano un'orecchiabile canzoncina che parlava di un sottomarino giallo.
«Davvero non c'è neppure una donna adulta e non sposata con un irlandese dalla testa calda nella tua vita, Alphard?» chiese con serietà Lucy, dopo avere posato la piccola Erin nella carrozzina.
Alphard pensò per un istante alla sua strana relazione con Morrigan... ma non era sicuro che quel tipo di coinvolgimento avrebbe soddisfatto Lucy. Anzi. Si stava giusto chiedendo se fosse il caso di parlare della cosa all'amica, quando il locale cominciò ad essere invaso da decine di persone e Alphard, dimenticando Morrigan e tutto quello che la riguardava, si trovò ad assistere, incantato e incredulo come tutti gli altri avventori del pub, al Grande Evento: il primo sbarco dell'uomo sulla luna.


Londra, 21 luglio 1969 A.D.

Era ufficiale, pensò Alphard qualche ora più tardi, uscendo dal “The Galaxy” e fissando trasognato la mezzaluna quasi perfetta che illuminava il cielo terso di quella notte sorprendente: i Babbani avevano infine superato i maghi.
Checché ne dicesse quell'esaltato di Tom Riddle!
Da qualche parte, lassù sulla luna, si trovava la minuscola impronta di un uomo. Di un Babbano. E questo qualcosa voleva sicuramente dire.
«Oh, zio Al! Il tuo cane ti ha aspettato!» urlò eccitato il piccolo Yuri.
Alphard abbassò lo sguardo e gemette, ritrovando il cagnetto nero tenacemente attaccato al bordo dei suoi pantaloni.
«Uhm... un'altra femmina conquistata dal tuo fascino tenebroso, Al?» chiese Jordan che arrivava in quel momento trasportando un grosso sacco di rifiuti.
Alphard sbuffò, prese in braccio il cagnetto e lo studiò con attenzione prima di rimetterlo a terra.
«Non è una femmina, Jordan» affermò osservando la bestiola che annusava curiosa le scarpe di Jordan per poi "innaffiarle" con evidente soddisfazione.
«Penso che ti abbia marcato, Jordy» osservò il mago cercando di restare serio. «Evidentemente ti trovi sul suo territorio. Mi piace, il piccoletto, ha stile».
Jordan lo fulminò con uno sguardo truce, scuotendo disgustato un piede e borbottando frasi colorite che fecero ridere Yuri.
«Sospetto che Lucy non approverebbe l'uso di un simile linguaggio in presenza del ragazzo» fece notare Alphard, guardando divertito il cucciolo abbaiare minaccioso al sacco dei rifiuti lasciato cadere da Jordan.
«Fa niente, papà» lo rassicurò Yuri. «Mamma non lo verrà mai a sapere... però, zio Al, visto che il cucciolo ha deciso di adottarti, mi sembra il caso di trovargli un nome. Che ne dici di Apollo 11
Il cagnetto, che si era allontanato dal sacco di rifiuti per annusare incuriosito la moto di Alphard, ringhiò con decisione.
«Pare che non gli piaccia, no» dedusse il bimbo. «Allora un bel nome indiano! Qualcosa come Tuono Rombante! O Puma che Corre...»
«Sì, l'idea del nome indiano mi piace. Ma io troverei più appropriato qualcosa tipo Nube Piovosa...» propose Jordan, indicando il cucciolo che stava "innaffiando" una ruota della lucente moto di Alphard.
Il mago imprecò afferrando per la collottola il cane che cominciò a leccargli la faccia scodinzolando con entusiasmo.
«Penso che l'abbia marcata, Al» affermò Jordan con un ghigno diabolico. «Evidentemente si trova sul suo territorio. E sappi che non approvo l'uso di un simile linguaggio davanti al ragazzo».
Quindi, prima che Alphard potesse ribattere, sparì all'interno del pub farfugliando qualcosa a proposito di un trasportino per gatti e trascinando con sé il piccolo Yuri che, sbadigliando vistosamente, parlava di cani, di razzi, di fionde e di sorelle da proteggere da loschi energumeni.
Accarezzando il pelo morbido del cucciolo, Alphard fissò per un istante la porta del pub. Poi, scrutando il cagnetto nei vispi occhi scuri, mormorò: «E ora come faccio a portarti a casa? Non sai smaterializzarti, vero? No, lo sospettavo. E credo che anche l'aggrapparti a qualcuno non sia il tuo forte...» il cucciolo rizzò le orecchie e guaì. «Immaginavo. Abbiamo un problema, mi sa. E abbiamo anche poco tempo per risolverlo. Tra una manciata di ore sono infatti atteso a Casa Black per un dignitoso pranzo di famiglia...».
Si era quasi rassegnato a lasciare lì la moto e a servirsi del Nottetempo, quando Jordan uscì dal pub portando una specie di gabbia di metallo e robuste corde colorate e si mise a trafficare con la moto sotto lo sguardo preoccupato di Alphard.
«Ecco fatto» esclamò qualche istante più tardi, rimirando il risultato dei suoi sforzi. «Così dovrebbe reggere. Nube Piovosa dovrebbe essere sistemato».
Il cagnetto ringhiò con decisione e Alphard aggrottò la fronte. «Pare che neppure questo nome sia di suo gradimento».
Jordan si strinse nelle spalle. «Ha gusti difficili e io ho esaurito la mia fantasia in fatto di nomi».
Alphard sorrise, sistemando il cucciolo nella gabbia, poi si fece serio e chiese cauto: «Jordan, ma come fate a starci tutti e nove in quel minuscolo appartamento sopra al pub, i bambini stanno crescendo, in tutti i sensi... se solo tu mi lasciassi...»
«No, Al. Ti ringrazio, ma sai come la penso. Non si devono mai accettare da un amico prestiti più importanti di un trasportino per gatti decrepito. A meno che, naturalmente, l'amico in questione sia morto. In quel caso non sarebbe un prestito ma un'eredità. Quindi sarebbe accettabile».
«Stai dicendo che prima di vederti accettare un qualcosa di mio dovrei morire?»
«Assolutamente sì... ma, considerato che non mi sembri in procinto di compiere il Grande Salto, non vedo perché parlarne» concluse Jordan, assestando una pacca amichevole sulla schiena dell'amico prima di scoccare un ultimo sguardo sognante alla luna e di rientrare nel pub.
Alphard scosse la testa e montò sulla moto. Accertatosi che la via fosse deserta estrasse furtivo la bacchetta magica eseguendo un Incantesimo di Disillusione: guidare una moto volante era davvero una sensazione unica, ma non sarebbe stato saggio farsi vedere da qualche Babbano. Non gli sarebbe piaciuto particolarmente comparire su qualche rivista specializzata in avvistamenti di U.F.O...
Dopo essersi assicurato della buona riuscita dell'incantesimo, Alphard avviò la moto e decollò.
Dalla finestra sopra al pub, lasciata aperta per combattere il caldo un po' afoso di quella notte estiva, filtravano una luce dorata e la melodia di una dolce ninnananna irlandese.
Alphard, incuriosito, sbirciò all'interno, scorgendo Jordan che passeggiava avanti e indietro per la stanza cullando la piccola Erin, mentre Caitlin, seduta a gambe incrociate al centro del lettone, parlava animatamente con la madre che sorrideva complice.
Lasciandosi avvolgere dalla calda serenità di quella scena Alphard, guidato dal corso sinuoso del Tamigi, si diresse verso casa.


*****


«Ciao, Zio Al!»

Alphard sorrise al ragazzino dai capelli neri che sostava accigliato sulla soglia di Casa Black e smontò dalla moto guardando inquieto il massiccio serpente d'argento che decorava la porta socchiusa, quindi avanzò deciso verso il ragazzino e gli scompigliò i capelli.
«Ciao Sirius, cosa fai qui tutto solo?»
Il bambino raddrizzò la schiena e rispose spavaldo: «Sto evitando mia madre e le sue recriminazioni sul mio comportamento degno di un Troll particolarmente screanzato. Mi ha ordinato di comportarmi dignitosamente fin quando tutto sarà concluso. Perché non posso certo rovinare il Grande Evento! Sarà sollevata ora che sei arrivato anche tu».
Alphard non ne dubitava.
Non aveva ben chiaro quale potesse essere il grande evento di cui parlava Sirius... ma non aveva dubbi che Walburga sarebbe stata sollevata dalla sua presenza.
Perché non era dignitoso mancare a una riunione ufficiale di famiglia. E perché avrebbe adorato potere recriminare anche sul suo comportamento degno di un Troll particolarmente screanzato.
«Si aspettano che tu partecipi alla pianificazione del Grande Evento» disse Sirius, scalciando un grosso sasso.
Alphard corrugò la fronte, pensoso e, ragionevolmente certo che i suoi familiari non stessero pianificando uno sbarco sulla luna, chiese: «Quale grande evento?»
«Il matrimonio di Bellatrix» spiegò Sirius. «Zia Druella ha cominciato a definirlo così. Che ci sia di grande nello sposare quell'Augurey* malriuscito di Lestrange non riesco proprio a capirlo, però».
Alphard sogghignò. Non avrebbe dovuto, lo sapeva, ma la descrizione che Sirius aveva dato del futuro marito di Bellatrix gli sembrava particolarmente azzeccata. Tentando di dissimulare quella sua inopportuna approvazione tornò alla moto per liberare il cucciolo dal suo trasportino improvvisato.
Era stato tentato di lasciare a casa quella Pluffa pelosa più distruttiva di un'orda di giganti contrariati ma, dopo che la bestiola aveva spinto al suicidio un numero non indifferente dei pasciuti pesci rossi che nuotavano nell'acquario di zio Marius, aveva dovuto rinunciarci. Anche perché, non soddisfatto della strage ittica, il botolo aveva anche tentato di mangiarsi la Chiave del Tempo funzionante... no, molto meglio rischiare di fare venire l'ennesima crisi isterica a Walburga, tutto sommato.
«Oh, e lui chi è?» chiese Sirius, avvicinandosi incuriosito alla moto e cominciando ad accarezzare il cucciolo.
«Eh, non sono ancora riuscito a stabilirlo...» ammise Alphard. «Pare che nessuno dei nomi che mi vengono in mente sia di suo gradimento».
Sirius rise prendendo in braccio il cucciolo e, una volta entrato in casa, indicò ad Alphard una tunica che fluttuava, linda e perfettamente stirata, tra le lampade a gas che illuminavano l'ingresso di Casa Black.
«Mia madre dice che devi indossarla sopra gli abominevoli abiti Babbani, zio. Te l'ha fatta confezionare apposta. Su misura. Per evitare che tu mostrassi troppo in giro i tuoi indecorosi polpacci» annunciò Sirius prima di posare il cucciolo per terra e di inseguirlo lungo il corridoio.
Alphard sospirò mesto e infilò la luttuosa tunica nera: Walburga doveva davvero detestarlo per imporgli quell'indumento... Merlino, ricordava in maniera inquietante l'abito di un Ghermidore medievale.
Contrariato, percorse il corridoio accompagnato dagli irritanti commenti dei ritratti di Black trapassati, ritrovando il sorriso solo quando scorse il cucciolo Innominato intento ad "innaffiare", tra le risate di Sirius e gli strepiti di Walburga, lo squisito portaombrelli a forma di zampa di Troll.
Walburga chiamò a gran voce un elfo domestico e, appena scorse il fratello, sbraitò: «Un cane! Nientemeno che un sudicio, pulcioso cane di razza indefinita! Ma perché non puoi prenderti un rispettabile gufo come tutti i maghi dignitosi, dico io... oh, ma che ti riprendo a fare! I nostri genitori avevano ragione: sei un Black davvero fallimentare!» concluse con un sospiro melodrammatico raddrizzando la schiena ed esibendosi nella perfetta imitazione di un rispettabile gufo impagliato. Il cagnetto, per nulla impressionato, l'aggirò in silenzio e abbaiò all'improvviso: Walburga sobbalzò in modo assai poco dignitoso.
Alphard si morse una guancia per non ridere. Sarebbe stato troppo. Anche per un Black fallimentare.
«Sa essere molto silenzioso il tuo cane» affermò Sirius, conquistato.
«Sì, ha il passo felpato di un vero predatore» rispose l'uomo, avviandosi verso la Sala da Pranzo.
Essere un Black fallimentare poteva avere conseguenze molto divertenti, talvolta.

«Non mi pare esattamente entusiasta» osservò Alphard, posando il calice d'argento colmo di pregiato vino elfico sul tavolo e guardando meditabondo Andromeda uscire dalla stanza.
Cygnus scrollò le spalle, indifferente. «Oh, lo sarà. I Malfoy sono una famiglia potente e Purosangue, partito migliore non potrebbe trovare. Andromeda è solo troppo sognatrice, ma farà il suo dovere. Come Bellatrix».
Narcissa scosse il capo, incredula. «Lucius è meraviglioso» affermò con voce sognante. «Ma quella stupida ha perso la testa per un Nato Babbano di Tassorosso... l'ho sempre detto io che non ha un pizzico di buon gusto».
«Né di buon senso» aggiunse Bellatrix, senza degnarsi di sollevare lo sguardo dalla rivista che stava sfogliando.
Druella sospirò, e Alphard suppose che intendesse riprendere le figlie intervenendo in difesa della secondogenita, ma la donna si limitò a mormorare: «Oh, le passerà. Si renderà presto conto di quello che la sua famiglia si aspetta da lei».
Alphard inarcò un sopracciglio e chiese: «Noi ci aspettiamo da lei che sia felice, giusto?»
«Ma certo che sì» sbuffò Walburga esasperata. «E noi tutti sappiamo che la felicità di Andromeda è sposare Lucius Malfoy. Perché la felicità di Andromeda non può che coincidere con il bene della Casata, ovviamente. Ma ora parliamo di cose davvero importanti!» concluse Appellando un numero spropositato di riviste. «Dobbiamo organizzare un matrimonio degno dei Black».
Mentre i parenti dissertavano sui preparativi per il Grande Evento, Alphard - meditando sulla concreta possibilità di essere stato cambiato in culla da qualche folletto dispettoso - sedette composto e, invidiando segretamente i due nipoti più piccoli esonerati da quella raffinata tortura, finse grande interesse annuendo di tanto in tanto con entusiasmo dignitosamente moderato.
Quando da qualche punto imprecisato della casa riecheggiò un abbaiare festoso seguito da allegre risate infantili, il mago scattò in piedi offrendosi volontario per andare ad azzittire quella fonte di disdicevole distrazione e uscì dalla stanza, riuscendo persino a mostrarsi dispiaciuto.
Dopo avere percorso cupi corridoi e scale buie, controllando ombrosi locali arredati come tetri mausolei, Alphard socchiuse un po' esitante la massiccia porta di legno della Stanza dell'Arazzo.
Non era mai entrato volentieri in quel luogo; l'enorme albero genealogico che ne occupava un'intera parete lo aveva sempre messo a disagio.
Quando fissava quei tralci intricati che terminavano con nomi stravaganti - sempre uguali, generazione dopo generazione - Alphard non riusciva a fissare l'attenzione sugli illustri maghi Purosangue che tanto inorgoglivano i fratelli. No, lo sguardo grigio del fallimentare rampollo dei Black veniva irrimediabilmente attratto dalle bruciature che interrompevano qua e là la perfezione un po' monotona dell'arazzo: promemoria tangibili del fuoco usato per estirpare dall'albero genealogico i frutti indesiderati.
Alphard aveva sempre temuto che, un giorno o l'altro, quel fuoco purificatore avrebbe consumato anche lui. Ultimamente però era giunto alla conclusione che, non fosse stato tanto ossessionato da quella paura, la sua vita sarebbe stata migliore. Forse, tutto sommato, trasformarsi in una di quelle chiazze annerite non era la cosa peggiore del mondo...
Immerso nei suoi pensieri, il mago entrò nella sala, imbattendosi in Andromeda che fissava assorta l'arazzo.
«Uhm... opera interessante, vero?» chiese con ostentata leggerezza avvicinandosi alla nipote che, fingendo di scostarsi i capelli castani dalla fronte, si sfregò furtiva gli occhi.
«Sì».
Alphard si ritrovò, suo malgrado, a confrontare la nipote con la gioiosa Caitlin e ad augurare cordialmente al fratello e alla cognata un incontro molto ravvicinato con un branco di Manticore.
«Sai, Andromeda» disse all'improvviso, indicando una delle macchie. «Penso che la parte più interessante siano le bruciature».
La ragazza lo squadrò sorpresa con i suoi occhi scuri - occhi da Black regolamentare - colmi di lacrime trattenute e Alphard le sorrise accarezzandole con gentilezza i capelli: la frequentazione della famiglia O'Sullivan stava avendo effetti sconvolgenti su di lui. «Non vuoi fidanzarti con il giovane Malfoy, vero?»
La ragazza lo guardò titubante, mordicchiandosi il labbro inferiore. Poi rizzò la schiena con fierezza e scosse il capo, decisa. «Mai! Neppure morta».
Alphard annuì. «E quel giovane Tassorosso Nato Babbano di cui parlava Narcissa ha qualche responsabilità in questo, suppongo».
La ragazza abbassò il viso diventato improvvisamente rosso, poi annuì.
«Lo immaginavo» sospirò Alphard, costringendola ad alzare lo sguardo e chiedendosi quando la sua piccola Andromeda fosse cresciuta tanto da preferire i ragazzi alle Gobbiglie. «Be', se il giovane Malfoy somiglia al padre hai tutta la mia comprensione».
La ragazza lo scrutò piacevolmente stupita e indicò l'arazzo. «Bellatrix dice che se non accetterò di fidanzarmi con Lucius il mio nome diventerà una macchia carbonizzata».
«Come ho già detto quelle macchie sono le parti più interessanti dell'arazzo, Andromeda. Nascondono i nomi dei Black migliori» concluse, sfiorando con dolcezza la bruciatura che aveva cancellato il nome di zio Marius.
«Sarà. Ma se io mi aggiungessi a loro... la famiglia non vorrà più saperne di me» mormorò la ragazza mesta.
Alphard scrollò le spalle, stringendo in pugno il medaglione che portava al collo. «Se ami quel ragazzo - se lo ami davvero - non rinunciare a lui solo perché non vuoi che il tuo nome venga cancellato da questo arazzo, Andromeda. Non farlo. Non ne vale la pena, credimi».
Andromeda guardò lo zio con uno sguardo sorprendentemente adulto. Oh, sì. Era davvero cresciuta molto la piccola Andromeda. «Tu hai...»
Alphard annuì. «Io ho commesso un grosso errore, Andromeda. Non farlo anche tu. Se davvero ami il Tassorosso scegli lui... e avrai la famiglia che desideri. Oh, avrai anche me, naturalmente. Ho sempre avuto un'insana predilezione per i Black diseredati, sai?»
Andromeda sorrise un po' sollevata, ma prima che potesse rispondere un abbaiare improvviso la fece sussultare. Zio e nipote si voltarono allarmati, trovandosi a fissare Sirius che, piegato in due dalle risate, accarezzava una Pluffa nera, pelosa e scodinzolante.
«Questo cane è davvero fantastico, zio Al!» esclamò Sirius ricomponendosi. «Ah, per la cronaca, Andromeda, anch'io continuerei a considerarti della famiglia. Anzi, se il tuo nome venisse bruciato mi piaceresti ancora di più».
Andromeda corrugò la fronte e incrociò le braccia. A volte somigliava davvero molto a Bellatrix, notò Alphard con un pizzico di inquietudine.
«Da quanto stai origliando, Sirius?»
«Da abbastanza per sapere che non accetterai di perpetrare la stirpe con quel Vermicolo di Malfoy. L'ho sempre detto che sei intelligente, per essere una femmina!»
«Oh, grazie per la considerazione».
«Prego. Ma sono stato spedito qui per dirti che i tuoi genitori ti cercano. Pare che siate attesi a cena dal Vermicolo».
Andromeda gemette passandosi una mano sulla fronte, poi fissò lo zio. «Grazie per la chiacchierata. Magari sei ancora in tempo anche tu per...»
Alphard sorrise triste e scosse il capo. «No. Io no, ma tu fai quello che davvero desideri fare, Andromeda».
La ragazza annuì. «Non pensavo che lo avrei detto a un Black ma... sei un uomo molto romantico, zio Al».
Quindi, dopo avere elargito un sonoro bacio su una guancia al cuginetto, diede un ultimo sguardo all'arazzo e uscì fiera dalla stanza.
«Bleah... femmine!» borbottò Sirius stropicciandosi sdegnato la guancia. «Sono più appiccicose di un rotolo di Magiscotch!»
«Uhm... guarda che tra qualche anno potrebbe anche piacerti, Sirius...»
«No, non credo. Io mica sono un uomo romantico».
«Ecco... io non...»
«Ah, non preoccuparti, zio Al. Nessuno è perfetto. Mi piaci lo stesso. Ma come mai, se a te le femmine piacciono tanto, non te ne sei mai sposato una?»
Alphard fissò l'arazzo per un istante, poi posò una mano sulla spalla del nipote e, guardandolo negli occhi, rispose serio: «Perché sono un uomo romantico, Sirius. E in quanto uomo romantico avrei potuto sposare una donna solo per amore. E ti pare che, amandola, avrei potuto condannarla a diventare la cognata di tua madre?»
Sirius corrugò la fronte, meditabondo. «Questo ragionamento mi pare sensato» affermò convinto prima di scattare all'inseguimento del cane che, evidentemente attirato da qualcosa, si era fiondato in corridoio.
Sogghignando Alphard lanciò un ultimo sguardo all'arazzo e uscì a sua volta dalla stanza. Scese rapidamente le scale e, attirato da un improvviso abbaiare seguito da un fragore di stoviglie rotte e da urla stizzite, entrò in cucina, scrutando allibito la scena che lo accolse.
Il cane nero trotterellava allegro tra minuscoli frammenti di ceramica, mentre l'elfo di casa borbottava improperi irripetibili, reggendo lo strofinaccio sfilacciato che usava come vestito.
«Il cucciolo è arrivato all'improvviso» spiegò Sirius tra una risata e l'altra. «Si è piazzato alle spalle dell'elfo e ha abbaiato. Oh, zio Al... avresti dovuto vedere che spettacolo! Escludendo quando lo straccio di Kreacher è caduto, certo. Quello è stato abbastanza disgustoso».
Kreacher si sistemò tremante lo strofinaccio e cominciò a raccogliere i frammenti di porcellana borbottando: «Povera padrona, un figlio indegno ha. Riempirà la casa di mostri, ibridi e chissà che altro. Per fortuna c'è il padroncino Regulus».
Sirius strinse i pugni e sibilò: «Già, poverina! Meno male che ha il piccolo Regulus a consolarla dalle sofferenze causatele da me. Per non parlare del suo stupido elfo domestico!» concluse rabbioso, prima di andarsene seguito dal cucciolo.
Alphard scoccò un'occhiata assassina all'elfo, pronto a lanciarsi all'inseguimento del nipote.
«Vuole stare da solo quando fa così» affermò una voce infantile alle sue spalle. «Poi gli passa. E allora si lascia avvicinare».
Alphard si voltò di scatto, guardando il ragazzino bruno seduto al tavolo della cucina.
Un po' sorpreso, gli si avvicinò accovacciandoglisi davanti: «Ciao Regulus, non ti avevo visto. Ma che ci fai qui in cucina?»
Il ragazzino sollevò lo sguardo sullo zio, studiandolo con i suoi occhi scuri e seri: «Stavo parlando un po' con Kreacher» rispose dopo un attimo di esitazione.
«Ah. Stavi parlando un po' con... Kreacher, certo» ripeté Alphard, piuttosto meravigliato. «Deve essere un'esperienza... er... affascinante, suppongo».
Regulus lo squadrò per un istante e poi annuì, solenne come solo un vero Black non fallimentare sapeva essere. «Lo è. Ma non dirlo a mia madre. Lei non vuole che parli con Kreacher. Ammette solo che io gli ordini cose. Ma lui mi ascolta anche quando nessun altro ha tempo di farlo, sai? E se non ho nulla da ordinare, quando mi annoio, lo cerco e gli... domando... cose. Sai che a Kreacher piace il verde, zio?»
«Uh, no Regulus, non ho mai... domandato... cose a Kreacher. Gliene ho solo ordinate» rispose Alphard, scrutando affascinato il nipote.
Il ragazzino annuì mesto. «Lo so. Come ogni buon Black che si rispetti. Pensi che questo... Abominevole Vizio... faccia di me un mago indegno, zio Alphard?»
Alphard sgranò gli occhi sbigottito, era abituato a scorgere lati di se stesso in Sirius... ma mai avrebbe pensato di trovarne anche in Regulus. «No, Regulus, certo che no. Io penso anzi che ti renda un mago un po' migliore».
«Davvero?»
«Assolutamente sì. E' sempre una cosa positiva conoscere cose su chi ci circonda».
«Oh. E se io volessi... aiutarlo? Insomma se cercassi di impedire che venga punito per qualcosa di cui non ha colpa, tu credi che questo farebbe di me un mago indegno?»
Alphard si sfiorò la fronte, perplesso. «Be', è vero che è un elfo, ma se non ha colpa credo che sia giusto evitargli una punizione, Regulus».
Il bambino sorrise sollevato e si alzò in piedi. Guardò pensoso l'elfo indaffarato a pulire i frammenti di ceramica e sospirò. «Allora dirò a mia madre che sono stato io a rompere quei piatti. Ti pregherei di assecondare la mia versione, zio».
Oh, Merlino. Non bastava la nipote pronta a farsi estirpare dall'albero genealogico, no. Ci voleva anche quello deciso a immolarsi al posto dell'elfo domestico!
Un po' esasperato Alphard guardò negli occhi il ragazzino e disse: «Tecnicamente il colpevole è il mio cane, Regulus. Non serve che tu ti prenda una colpa che ha un colpevole ben preciso».
«Credevo che ti piacesse il tuo cane, zio Alphard».
«Ed è così, infatti».
«Se mia madre sapesse che è stato lui lo trasfigurerebbe in un poggiapiedi, penso».
Sì, era un'eventualità da prendere in considerazione, convenne Alphard sorpreso dall'inattesa gentilezza del nipote più piccolo. Aveva sempre pensato che quello sfuggente ragazzino fosse una specie di miniatura di Orion Black: non avrebbe potuto sbagliarsi di più.
«Se fossi un'anima nobile e coraggiosa mi prenderei io la colpa... ma non servirà. Nessuno dovrà prendersi la colpa di avere devastato il servizio buono se non mancheranno piatti all'appello, giusto?» chiese ammiccando al nipotino.
«Ma come... non basterà un Reparo, mi sa, non c'è rimasto nulla da riparare» affermò il bimbo indicando i frammenti radunati dall'elfo.
«Infatti non ho intenzione di ricorrere a quello. Guarda e impara, maghetto! Quanti piatti mancano all'appello, Kreacher?» chiese Alphard prima di avvicinarsi al tavolo su cui erano schierati diversi piatti integri.
«Quattro, Padrone».
Alphard annuì, prese quattro piatti intatti, posandoli con delicatezza accanto ai cocci di quelli rotti, estrasse la bacchetta magica e, con un elegante gesto del polso si esibì in un perfetto Incantesimo Moltiplicatore.
«Et voilà, il servizio buono è intatto».
«Ma... pensavo che nulla si potesse creare dal nulla, zio».
«Non ho creato dal nulla, infatti. Ho usato i frammenti di porcellana dei piatti rotti».
Il ragazzino lo guardò affascinato. Alphard si assicurò che nessuno potesse vederlo e si avvicinò al nipote, porgendogli la bacchetta. «Ti andrebbe di imparare questo incantesimo?»
Regulus lo guardò sconcertato. «Ma non posso, sono minorenne. Ai miei genitori non farebbe piacere».
«Oh, io credo di sì. Sarebbero deliziati dal fatto che il loro rampollo giungesse ad Hogwarts più preparato dei suoi coetanei. E poi non glielo diremo. Sarà un piccolo segreto tra noi due. E potrà tornarti utile nel caso in cui Sirius decida di esibirsi in uno dei suoi creativi scherzi ai danni di Kreacher».
Regulus meditò un istante, combattuto. Poi guardò l'elfo che, dopo un fugace sorriso affermò: «Kreacher non vede niente. Kreacher è troppo occupato per notare il Padroncino, adesso» e, dopo un profondo inchino, si affrettò a dedicarsi alla lucidatura dei calici d'argento.
«Va bene. Insegnami questo incantesimo» esclamò il ragazzino prendendo la bacchetta dalle mani dello zio.
Alphard sorrise e chiese: «Cosa ti piacerebbe duplicare, Regulus?»
Il bambino corrugò la fronte e indicò la Chiave del Tempo danneggiata che Alphard portava al collo.
L'uomo annuì un po' sorpreso, togliendosi il medaglione. «Una scelta interessante. Per un istante ho temuto che tu volessi duplicare il portaombrelli a zampa di Troll!»
«Oh, no zio. Non ho gusti così squisiti, io» mormorò il piccolo con voce garbata, ma un sorriso malandrino gli incurvava le labbra. Il sorriso di Sirius. Il suo stesso sorriso, realizzò con stupore Alphard.
«Sì, però ci servirebbe la materia prima... ci servirebbe dell'oro, Regulus...»
Il ragazzino sospirò affranto alla ricerca di un altro oggetto da duplicare, ma l'elfo si avvicinò titubante, stese una mano e mostrò ai maghi un vasto assortimento di spille rotte. «La Padroncina Bellatrix le dà a Kreacher, quando Kreacher fa cose per lei. A Kreacher fa piacere aiutare la Padroncina Bellatrix. Anche se poi la Padroncina punge Kreacher con queste. A Kreacher piace la Padroncina Bellatrix».
Kreacher sì che aveva un gusto davvero squisito, pensò Alphard, mentre Regulus cercava di rifiutare l'offerta dell'elfo. Ma quando Kreacher minacciò di farsi mordere ripetutamente da una non meglio identificata tabacchiera, Regulus cedette e accettò il dono dell'elfo.
Alphard non capiva perché il morso di una tabacchiera potesse essere tanto convincente - in realtà non capiva neppure perché una tabacchiera dovesse mordere qualcuno, in effetti - ma decise di non indagare: Orion e Walburga avevano un'inspiegabile passione per gli oggetti più discutibili.
Posò le spille rotte di fianco al suo medaglione, si portò alle spalle del bambino, sussurrandogli le semplici parole dell'incantesimo e gli spiegò come muovere la bacchetta. Regulus eseguì, ma le spille si limitarono a mettersi verticali, come se stessero sull'attenti.
Alphard sorrise incoraggiante e sussurrò: «Non importa. E' il primo tentativo. E stai usando una bacchetta che non è tua».
Il ragazzino riprovò e riprovò ancora. Dopo il quarto fallimento si voltò verso lo zio stringendosi nelle spalle, rassegnato.
Alphard gli coprì la mano con la sua: «Proviamo insieme? Con Sirius ha funzionato».
«Hai insegnato a Sirius a fare questo incantesimo?»
«No, non esattamente».
A Sirius aveva insegnato a incantare le pergamene in modo che nessuno potesse scoprire cosa ci disegnava sopra. Quel ragazzino era abbastanza negato per il disegno. Ma aveva idee decisamente esplosive. La sua rilettura alternativa dello stemma dei Black, ad esempio, aveva qualcosa di geniale.
Ma non gli pareva il caso di dare a Regulus questa delicata informazione.
Fortunatamente il nipote non sembrava interessato a quale incantesimo avesse imparato il fratello. Lasciandosi guidare la mano da Alphard, declamò solenne la formula dell'Incantesimo Duplicatore e finalmente qualcosa accadde: le spille vibrarono fondendosi assieme e presero la forma di un medaglione ovale.
Era più piccolo e leggero dell'originale, e non aveva segni sulla superficie, ma la forma era simile: un buon risultato per un primo esperimento.
«Non è proprio uguale, Zio Alphard...» disse Regulus scettico.
«No, ma è molto somigliante, Regulus, guarda... si apre persino. Un ottimo lavoro davvero!»
Regulus sorrise orgoglioso, avvicinandosi all'elfo che sfaccendava indaffarato lucidando calici d'argento già lucidissimi.
Quando il ragazzino gli porse il medaglione, l'elfo si allontanò protestando vivacemente e dedicandosi alla sistemazione dei tovaglioli.
Alphard si accostò al nipote e disse: «Credo che Kreacher desideri che lo tenga tu, Regulus. E mi sembra una buona idea. Sai cosa ha permesso di creare questo medaglione?»
«La Magia».
«Anche, ma non solo. E' stata la tua gentilezza a permetterlo. Se tu non fossi stato tanto gentile con Kreacher lui non ti avrebbe donato l'oro. Non dimenticarlo. Finché saprai essere gentile con chi è più debole di te non sarai mai un mago indegno, Regulus. Indegno lo diventerai solo quando scorderai la gentilezza e approfitterai di chi non si può difendere».
Il bambino annuì solenne, stringendo in pugno il medaglione e raccogliendo un tovagliolo caduto a Kreacher che, avvicinandosi ad Alphard si inchinò chiedendo rispettoso: «Il Padrone desidera che Kreacher prepari la cena anche per lui?»
Alphard sgranò gli occhi, stupito. Quell'elfo non aveva mai nutrito una particolare simpatia per lui e gli si era sempre rivolto con malcelata scortesia.
«No, Kreacher. Anzi, sto proprio per andarmene. Sarà per un'altra volta».
Scoccò un sorriso al nipote e, cominciando a sbottonarsi l'infinita teoria di bottoncini che chiudeva la tunica datagli dalla sorella, salì le scale a due gradini per volta imboccando a passo spedito il lungo corridoio, tentando di ignorare gli sguardi arcigni e i borbottii degli antenati che lo scrutavano tetri dai ritratti affissi ai muri.
Quando raggiunse la porta, tenuta socchiusa da un vecchio mattone sbrecciato, sospirò di sollievo.
Lanciò la tunica sullo squisito candelabro a forma di serpente che sporgeva sinuoso dalla parete e uscì, lasciando che l'aria calda gli togliesse il senso di gelida oppressione che Casa Black aveva il potere di appiccicargli addosso. Quando un improvviso latrato lo raggiunse a tradimento, sobbalzò.
«Zio, questo cane ha un talento innato! Oh, sappi che ho trovato il nome adatto a lui!» esclamò Sirius, scostandosi i capelli scarmigliati dalla fronte e guardando Alphard con occhi colmi di gioioso entusiasmo.
«Sì?» chiese Alphard, tentando di reprimere l'improvviso desiderio di trasfigurare quel botolo in un cuscino da sofà.
«Sì, e gli piace. Risponde! Guarda: qui, Felpato!».
Il cucciolo smise all'istante di mordicchiare l'orlo dei pantaloni di Alphard e si lanciò scodinzolante verso il ragazzino che lo sollevò da terra stringendolo tra le braccia, ridendo deliziato quando il cane cominciò a leccargli il viso con encomiabile entusiasmo. Alphard non ricordava di avere mai visto Sirius tanto felice. Nemmeno quando lo portava a fare un giro sulla sua moto che ora aveva imparato a volare.
Sentendosi inspiegabilmente leggero aprì la gabbia fissata alla moto e Sirius, un po' a malincuore, vi rinchiuse il cucciolo che annusò curioso le sbarre sbadigliando vistosamente per poi acciambellarsi, esausto, sulla vecchia coperta blu che Alphard aveva sistemato sul fondo.
«Mi fai fare un giro, zio Al?»
«Ora non posso Sirius. C'è la gabbia di Felpato, dovrei prima trasfigurarti in cucciolo e rinchiuderti dentro».
Sirius lo guardò interessato, poi spostò gli occhi sul cucciolo e disse serio: «Non mi dispiacerebbe essere un cane per un po'. Ma non voglio stare rinchiuso in una gabbia. Sono sicuro che quello non mi piacerebbe!»
«Sarà per un'altra volta allora!» concluse Alphard sorridendo a Regulus che li aveva raggiunti in silenzio: il nuovo medaglione riluceva in bella vista sulla tunica impeccabile del bambino. «Naturalmente l'invito è esteso anche a te, Regulus. Tu non sei mai salito sulla mia moto, vero?»
Il piccolo scosse il capo, serio come un bambino non dovrebbe mai essere: un vero, dignitoso Black in miniatura. «No, i miei genitori dicono che un mago Purosangue non dovrebbe mai utilizzare mezzi Babbani. Che sarebbe un Abominio. Una cosa indegna».
Sirius alzò gli occhi al cielo, stringendo il fratellino in una morsa scherzosa: «Non è insopportabile, zio? Se ne va perennemente in giro parlando di Abomini e cose indegne! Ma forse sono ancora in tempo per fargli apprezzare il piacere di essere un Abominio! In fondo, se sono riuscito a trovare un nome a Felpato, potrei fare di tutto! Magari persino riuscire a essere il primo Black da generazioni a non finire a Serpeverde!»
«Cosa?» esclamò Regulus scandalizzato, tentando di divincolarsi dalla stretta del fratello.
«Oh, sì... non ne posso più di orridi serpenti argentati! Credo che non mi dispiacerebbe avere un altro simbolo sulla mia uniforme di Hogwarts» affermò Sirius beffardo, scompigliando i capelli al fratellino che, dopo un istante di sbigottimento scosse le spalle e sfiorando un braccio al fratello esclamò: «Sei un Ghoul!» per poi scappare, immediatamente seguito da Sirius che, ululando lugubre, minacciava tremende vendette.
Alphard si guardò attorno cauto, Disilludendo se stesso, la moto e Felpato, quindi partì, godendosi l'ebbrezza del volo e la vista dei due nipoti che giocavano a rincorrersi per strada come due ragazzini qualsiasi, non troppo diversi dai piccoli O'Sullivan.
Anche i Black potevano sembrare una famiglia, di tanto in tanto, constatò compiaciuto, un po' sorpreso dal piacere che gli dava quella semplice considerazione.
Forse le donne della sua vita non avevano tutti i torti: era davvero un uomo romantico. In fondo.


Augurey*=  Newt Scamandro ne "Gli animali fantastici: dove trovarli" ci assicura che l'Augurey è un uccello tipico della Gran Bretagna, magro, lugubre e nero che ricorda in qualche modo un piccolo avvoltoio denutrito. Questa descrizione è perfetta per descrivere il giovane Lestrange che ha preso forma nella mia mente leggendo i libri. Pare che Sirius e Alphard concordino con me...




Ed eccoci alla sesta tappa del nosto Viaggio.
Una tappa molto lunga, lo so.
Ho anche preso in considerazione l'idea di dividerla in due parti... ma poi non me la sono sentita.
In questo capitolo ho tentato di dare uno spaccato completo della vita di Alphard confrontando i suoi due mondi: la sua famiglia d'origine e la sua famiglia "d'adozione". Contrapponendo Yuri a Sirius, Caitlin ad Andromeda, il Grande Evento che elettrizza i Babbani a quello che esalta i Black (ebbene sì, in questo capitolo i Babbani battono i Maghi alla grande, temo...) e se avessi diviso il capitolo in due parti questo "gioco" si sarebbe un po' perso, così... dividetelo voi, secondo i vostri ritmi e i vostri gusti, interrompendo nel momento esatto in cui vi addormenterete stremati dalla mia logorrea e riprendendolo in un secondo tempo. ;)
E ora le immancabili "Note di Servizio".
La scelta della data è stata suggerita da due motivi: prima di tutto mi serviva un Grande Evento in grado di catalizzare l'attenzione dei Babbani e, ascoltando i racconti di chi quella notte l'ha vissuta, direi che lo sbarco del primo uomo sulla luna possa esserlo... a tal proposito la scenetta che si svolge nel pub di Jordan è stata scritta attingendo proprio ai ricordi di persone che quella diretta l'hanno vissuta e mai più dimenticata.
In secondo luogo... be', mi piaceva l'idea di coinvolgere ancora la luna e la passione per la conquista dello spazio di Jordan. ^^
Uh... a tal paroposito: i quattro giovanotti dalla pettinatura improbabile (secondo gli standard di Alphard, naturalmente) sono i Beatles (mi pareva probabile che delle ragazzine inglesi della fine degli anni sessanta potessero impazzire per loro) e l'orecchiabile canzoncina che parla di un sottomarino giallo è "yellow submarine" dei suddetti quattro giovanotti dalla pettinatura improbabile.
Oh, e per quanto riguarda il promesso fidanzato di Andromeda... ci ho pensato a lungo, ero quasi giunta al punto di inventarmi qualche giovane rampollo di una nota famiglia purosangue, ma poi ho deciso che sarebbe stato divertente affibbiare la parte del pretendente respinto a quel (per usare le parole del piccolo Sirius) Vermicolo di Malfoy. Comprendetemi, era già lì, bello e pronto, non richiedeva alcuno sforzo inventivo... non ho proprio saputo resistere! ;)
E per ultimo l'inserimento del piccolo Regulus... ho pensato a lungo anche a questo, chiedendomi se fosse il caso di inserire quel pezzo in un capitolo già così lungo di suo. Alla fine ho deciso di sì, perché Regulus merita a pieno titolo di essere inserito tra i "Black venuti bene"! ^^
E poi mi è piaciuto molto riversare su Alphard lo stesso stupore che ho provato io scorgendo il vero Regulus. ;)

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Capitolo 7
*** La capanna dello zio Al ***


Capitolo Sesto


 La capanna dello zio Al




Londra, 26 luglio 1972 A.D.

Il sole era già alto, quando Alphard aprì gli occhi e osservò pigro la luce dorata che filtrava tra le tende mosse dalla leggera brezza estiva.
Raffinate tende di pizzo.
A Walburga non sarebbero piaciute, probabilmente. Per una volta era d'accordo con lei.
Girandosi per nascondere il viso nel cuscino, Alphard rabbrividì leggermente al contatto delle lenzuola sulla pelle.
Raffinate lenzuola di seta.
Non aveva mai amato la seta: detestava la sensazione un po' scivolosa che la caratterizzava.
Di conseguenza, non amava dormire avvolto in raffinate lenzuola di seta. Gli sembrava di essere avviluppato in una ragnatela di Acromantula e non trovava la cosa particolarmente entusiasmante.
Sospirando inalò, suo malgrado, il profumo che impregnava le lenzuola.
Raffinato profumo floreale.
Intenso. Troppo intenso, per i suoi gusti poco squisiti. E troppo dolce.
Poteva scorgervi un sentore di gigli, forse. E di rose. Oh, e l'immancabile nota di violetta, naturalmente.
Nulla a che vedere con le lenzuola di lino, delicatamente profumate di lavanda, che usava Erin.

«Alphard? Sei sveglio?»

Odiandosi per quei pensieri assai poco cavallereschi, Alphard si voltò verso la proprietaria di tutte quelle raffinate delizie e, abbozzando un sorriso, indicò le sventolanti tende di pizzo.
«Sì, Morrigan, anche se temo di essere stato semi-ipnotizzato dalle tue vezzose tendine».
Morrigan sorrise, scostandosi assonnata i capelli biondi dal viso. «Non le trovi irresistibili?».
«Irresistibili non è esattamente il primo aggettivo che evocano nella mia mente, temo».
«Uhm... penso proprio che eviterò di chiederti quale sia questo aggettivo».
Alphard rise sommesso, sollevandosi leggermente e appoggiandosi su un gomito. «L'ho sempre saputo che sei una donna saggia, Morrigan».
«Ma non hai mai neppure sospettato che nascondessi gusti tanto... vezzosi» affermò Morrigan, giocherellando distratta con il medaglione che Alphard portava sempre al collo.
L'uomo, con decisa gentilezza, le imprigionò la mano allontanandola dal medaglione e portandosela alle labbra. «Ora mi stai sottovalutando, però».
«Dici?»
«Dico. Un essere umano che non fa altro che sgranocchiare caramelle alla violetta deve essere dotato di gusti estremamente vezzosi. Glover, che non fa altro che fumare quel disgustoso tabacco da pipa, deve esserne del tutto privo, invece».
Morrigan ridacchiò, tirando scherzosa una ciocca di capelli ad Alphard. «Deduzione interessante, Black».
L'uomo annuì, stringendo con delicatezza il polso di Morrigan e studiando incuriosito l'elaborato tatuaggio che la donna aveva sull'avambraccio.
In un primo momento gli sembrò la raffigurazione di un drago grassoccio intento a sputare fiamme ma, dopo un esame più approfondito, si rese conto che si trattava di un inquietante teschio dalla cui bocca fuoriusciva un serpente dall'aria alquanto truce.
«Certo che li nascondi bene i tuoi gusti tanto vezzosi, Morrigan» esclamò stupito. «Ora non sono più tanto sicuro che Glover ne sia del tutto privo. Anzi, sono quasi convinto che l'utilizzo del pestilenziale tabacco da pipa serva solo a dissimularli, i gusti vezzosi, e che la sera il nostro Glover ami indossare vaporose camicie da notte impreziosite da delicati ricami floreali».
Morrigan rise, districando il polso dalla stretta di Alphard. «Spero proprio di no! Merlino, che immagine raccapricciante!»
Alphard si strinse nelle spalle e indicò il tatuaggio. «Anche quello è piuttosto raccapricciante. Una scelta davvero insolita per una signora che ama le tende di pizzo e le caramelle alla violetta».
Morrigan lo scrutò incerta, mordicchiandosi nervosa il labbro inferiore per qualche istante, quindi si mise a sedere appoggiandosi all'elaborata testiera del letto e, guardando il compagno negli occhi, disse seria: «Dovrebbe essere un segreto, Alphard. Ma credo che tu possa sapere. In fondo, lui spera di farne presto uno anche a te...»
«Lui?»
«Lord Voldemort. Non ho scelto io il soggetto del tatuaggio. Lo ha scelto lui. Lo imprime sull'avambraccio di tutti coloro di cui si fida. Vorrebbe ne avessi uno anche tu. E' convinto che un mago del tuo talento - e della tua stirpe - dovrebbe proprio entrare nel novero dei suoi seguaci più intimi».
Alphard sgranò gli occhi, sconcertato. Morrigan lo aveva trascinato a un paio delle famose riunioni di Riddle. Ma lui non era mai riuscito a mostrare entusiasmo per le idee del vecchio compagno di dormitorio. E non gli era sembrato che Riddle avesse particolarmente apprezzato la sua presenza. Riddle, del resto, non era solito apprezzare particolarmente coloro che non gli mostravano una cieca adorazione. «Tra i seguaci più intimi? Io?»
«Sì. E' convinto che torneresti molto utile alla sua Causa».
Ah, ecco. Messa così la cosa aveva più senso. Se c'era qualcosa che Riddle apprezzava più della cieca adorazione dei suoi simili, era la totale collaborazione di coloro che potevano tornargli utili. E aveva sempre avuto un certo talento nel corteggiare coloro che potevano tornargli utili, Alphard doveva ammetterlo. Era riuscito a irretire anche lui, per qualche tempo. Quando aveva undici anni. «Non vedo in che modo, onestamente».
«Trovando antichi oggetti magici di cui si sono perse le tracce».
«Già lo faccio, mi pare».
«Sì. Ma li cerchi solo tra i Babbani. Lui vorrebbe che tu li cercassi anche tra i maghi. Per riferire a lui quali sono e chi li possiede».
«E per quale assurdo motivo?»
«Vuole stilarne un elenco completo. Io ci sto già lavorando ma in due procederemmo più spediti».
«Sarebbe comunque un lavoro immane».
«Sì. Ma di fondamentale importanza. Lord Voldemort pensa che sarebbe utile conoscere l'esatta ubicazione di tutti i manufatti magici del Paese. Per potervi ricorrere in caso risulti necessario difenderci dai Babbani desiderosi di appropriarsi della Magia».
Alphard sospirò. Riddle non era affatto cambiato: era il solito, esaltato paranoico che aveva conosciuto ai tempi di Hogwarts. «I Babbani non vogliono affatto appropriarsi della Magia. Non solo non potrebbero utilizzarla, essendo appunto Babbani, ma non ne sentono neppure il bisogno. Hanno già la Tecnologia. Sono andati sulla luna, Morrigan! Non mi risulta che noi, con tutta la nostra Magia, siamo riusciti in un'impresa del genere».
Morrigan alzò gli occhi al cielo, esasperata. «Parli proprio come Silente!»
«Ne sono lusingato. Silente è un uomo saggio».
«Silente è un uomo ingenuo! Accecato dal suo esasperante idealismo. E dai suoi pregiudizi».
«Pregiudizi?»
«Verso Lord Voldemort».
«Avrà i suoi motivi, suppongo».
«No. Ha solo pregiudizi! Ha sempre avuto pregiudizi verso i Serpeverde, e tu lo sai benissimo! Hai dimenticato quando ha tolto cinquanta punti alla nostra Casa e ti ha appioppato non so quante ore di punizione solo perché avevi tentato un esercizio avanzato di Trasfigurazione? Un po' eccessivo, non trovi?».
«Direi di no. Considerato che avevo tentato di Trasfigurare Walburga in una scopa. Con risultati alquanto discutibili, tra l'altro».
Morrigan gemette, alzandosi bruscamente dal letto e Alphard si preparò a un'accesa schermaglia in difesa del professor Silente: gli era sempre piaciuto quel vecchio mago un po' strambo. Un'ennesima dimostrazione del suo essere un Black assai poco regolamentare.
Ma Morrigan lo sorprese, limitandosi a massaggiarsi l'avambraccio tatuato e a raccattare tutti i suoi indumenti artisticamente sparsi sul pavimento; come se volesse lasciare la camera il più in fretta possibile.
Alphard la guardò stranito: non gli sembrava di essersi comportato in maniera tanto irritante. Senza contare che quella era la casa di Morrigan. Al massimo avrebbe dovuto costringere lui ad alzarsi e a raccattare gli indumenti artisticamente sparsi sul pavimento.
«Morrigan...» mormorò ragionevole, sedendosi a gambe incrociate sul letto.
«Non ora, Alphard. Non ho tempo. Lui mi ha convocata» esclamò la donna, brandendo un vezzoso reggiseno lillà. «Non posso certo fare aspettare Lord Voldemort per discutere con te di un vecchio mago strampalato. Continua pure a dormire. Ci sentiamo appena potrò» concluse, uscendo precipitosamente dalla stanza.
Alphard, disorientato, si lasciò ricadere sui cuscini: ancora una volta veniva messo al secondo posto dopo quell'esaltato di Riddle.
Ma la cosa lo turbava meno di quanto avrebbe dovuto.
Perché avrebbe dovuto essere davvero parecchio infastidito dal fatto che la donna con cui aveva una relazione lo mollasse in tutta fretta per raggiungere un altro. Un altro a cui permetteva persino di scegliere per lei il tatuaggio da farsi, mentre a lui non permetteva neppure di esprimere una timida preferenza per le lenzuola del letto.
Ecco, questo sì gli dava fastidio.
Come il fatto che questo altro per cui veniva regolarmente mollato fosse Tom Riddle.
Continuava a non capire come mai tutti quei maghi adulti e apparentemente sani di mente, potessero avere un simile terrore dei Babbani e di un loro improbabilissimo interesse per le Arti Magiche. E ancor meno riusciva a capire la loro inspiegabile simpatia per quell'esaltato di Riddle.
Be', lui non sarebbe mai entrato nel novero dei seguaci più intimi. Nemmeno sotto Imperio. Nessun assurdo teschio che somigliava a un drago grassoccio avrebbe mai deturpato il suo avambraccio.
E Walburga poteva protestare quanto voleva, sostenendo profetica e minacciosa che quell'abominevole comportamento, tanto deprecabile per un Black, gli avrebbe sicuramente fruttato qualche Apocalittica Punizione.

*****

Un' Apocalittica Punizione.
Ecco cos'era Felpato, decise Alphard entrando in soggiorno e guardandosi attorno affranto.
Una grossa, pelosa, Apocalittica Punizione.
Che, al momento, se ne stava beatamente spaparanzata sull'unico angolo asciutto del tappeto, sgranocchiando con gusto quello che somigliava sinistramente al cappellino della signora Owen, la materna vicina di casa esperta nella preparazione di deliziosi pasticci di carne.
Sospirando rassegnato, Alphard chiuse la porta e, estratta la bacchetta magica, si avvicinò all'acquario ereditato da zio Marius affrettandosi a rimpinguarne le scarse risorse idriche. Nel tentativo di dare un po' di conforto ai suoi pochi, provati abitanti ormai al limite della resistenza.
L'incantesimo che aveva posto per impedire inopportuni esodi di pesci, spinti al suicidio dagli improvvisi agguati di Felpato, funzionava a meraviglia, per fortuna. Ora doveva solo inventarsi qualcosa per evitare massicci trasbordi di acqua...
Circumnavigando cauto le pozzanghere che costellavano il pavimento di parquet, Alphard si preparò a sistemare il disastro, mentre la pelosa, Apocalittica Punizione, perso interesse per quello che un tempo era stato un vezzoso cappellino con tanto di veletta, gli si gettò addosso con l'incontenibile entusiasmo di uno Snaso rinchiuso alla Gringott. Uno Snaso della stazza di un giovane Ippogrifo.
Alphard, presumendo che Schiantare il proprio cucciolo fosse una cosa poco carina da farsi, si limitò a minacciarlo con la bacchetta.
Il cane si calmò di colpo, sedendosi davanti alla porta e scodinzolando allegro. Alphard lo fissò incredulo: la cosa aveva del miracoloso! La cieca obbedienza non era esattamente una delle caratteristiche di Felpato.
«Felpato!» esclamò quindi, approfittando del momento insperatamente favorevole e tentando di imitare il cipiglio usuale di Walburga: «Considerati in punizione! Non te ne uscirai di casa finché questa stanza avrà riacquistato una parvenza di normalità!»
Fiero di se stesso e dell'assoluta Blackaggine dimostrata in quel frangente, il mago si accinse a sistemare le cose: considerata la sua scarsa attitudine per gli Incantesimi Casalinghi, la punizione di Felpato avrebbe potuto richiedere tempi preoccupanti persino per Flamel.
Tempi ulteriormente allungati dall'insistente squillo del campanello, seguito dal festoso e assordante abbaiare del cane.
Ora tutto si spiegava: Felpato non si era calmato perché impressionato dalle minacce di Alphard, aveva semplicemente sentito ospiti in avvicinamento...
Borbottando fra sé, il mago aprì la porta, sorridendo piacevolmente sorpreso alla ragazza bruna che, reggendo un grosso libro sotto un braccio, se ne stava impettita sulla soglia.
«Ciao, zio Al. Stavi mangiando cibo cinese?» chiese la ragazza, indicando un po' perplessa la bacchetta che Alphard stringeva ancora nella mano.
«Uh, ecco... sì! Adoro il pollo alle mandorle» improvvisò il mago, nascondendo con discrezione l'oggetto incriminato dietro la schiena. «Ma che bella sorpresa Ailis! Come mai da queste parti? Ti serve una mano per i compiti di latino?»
Ailis scosse il capo, poi spinse avanti il ragazzino dai capelli neri che le stava alle spalle. «Non questa volta, zio Al. Ho solo accompagnato Sirius. L'ho incontrato alla fermata della metropolitana. Stava tentando di comprare un biglietto con assurde monete argentate. Qualcuno dovrebbe proprio spiegargli che i soldi giocattolo non vanno bene per comprare cose nel mondo reale. Mi pare abbastanza grande per capirlo, ormai» concluse divertita arruffando i capelli del ragazzino.
Alphard studiò meravigliato il nipote. Indossava gli abiti Babbani che lui stesso gli aveva regalato per i loro viaggi sulla moto. Viaggi che finivano regolarmente per concludersi nel pub di Jordan. «Oh, sì, provvederò di persona. Ma entrate, ragazzi».
Sirius obbedì immediatamente, ma Ailis sventolò sotto il naso di Alphard il grosso libro. «Non posso, zio Al. Devo andare in biblioteca a riconsegnare questo e poi a comprare un pallottoliere per Gracie. Senza pare impossibilitata a fare i compiti di matematica e quello vecchio si è rotto. Una cosa stranissima. Gracie lo stava usando, mentre Erin le saltellava attorno sostenendo che era cattiva perché preferiva giocare con il pallottoliere anziché con la sua sorellina, e all'improvviso le palline sono schizzate da tutte le parti!» tacque un istante, aggrottando pensierosa la fronte, quindi si strinse nelle spalle. «Succedono cose strane quando Erin vuole attirare l'attenzione di qualcuno, sai? Settimana scorsa i pastelli a cera di Abigail si sono fusi... Briana dice che è colpa dei folletti. Papà ha un'altra teoria».
«Quale?» chiese Alphard incuriosito.
«Sono sicura che non vuoi saperlo davvero, zio Al. E' una di quelle sue noiose teorie che riguardano le tempeste solari e il vento cosmico...»
Sì, Alpahrd conosceva le noiose teorie siderali di Jordan. E no, non aveva nessuna voglia di sentirsene raccontare una. «Hai ragione. Meglio evitare. Ma probabilmente Erin non c'entra con i piccoli incidenti delle tue sorelle».
«Ma certo che Erin non c'entra, zio Al! Sono solo coincidenze!» rispose la ragazza con decisione. «Solo nonna Fiona pensa che c'entri Erin. Lei dice che la marmocchietta è una strega, immaginati un po'. Settima figlia di un settimo figlio... ma ti pare una cosa plausibile?»
Alphard scosse il capo, fingendo grande sdegno e sperando ardentemente di sembrare credibile. «Ma certo che no! Mi pare più plausibile la faccenda dei folletti!»
Ailis rise e, dopo avere abbracciato entrambi i maghi, se ne andò di corsa, lasciando Alphard a riflettere sugli strani avvenimenti che circondavano la piccola Erin. Non era così sicuro che Fiona O'Sulllivan si sbagliasse del tutto. Certo, la faccenda dell'ordine di nascita era solo una superstizione Babbana ma...

«Zio Al! Il tuo tappeto è tutto bagnato!»

Alphard si riscosse, chiuse la porta e guardò il nipote che, immerso nella pozzanghera più profonda, fissava sognante la porta chiusa, tentando invano di contenere l'entusiasta assalto di Felpato.
Un po' preoccupato dallo sguardo catatonico del ragazzo, Alphard gli si avvicinò sventolandogli con decisione la bacchetta davanti al naso. «Tutto bene, Sirius?»
«Sì, zio. Benissimo. Donna interessante Ailis, non trovi?»
Alphard socchiuse gli occhi, sorpreso. «Pensavo le trovassi noiose, le femmine».
«Uhm. Quando ero giovane e stupido sì. Ma ora le sto rivalutando. Soprattutto quelle vissute come Ailis».
Alphard trattenne una risata. «Capisco. L'irresistibile fascino delle donne mature».
Sirius annuì con dignitosa serietà grattando Felpato dietro le orecchie.
«Ma non sei venuto fin qui per discutere di donne, suppongo».
Il ragazzino legò meglio alla borsa che portava a tracolla quello che sembrava un fazzoletto rosso e scosse il capo. «No, zio Al, supponi bene. Senza offesa, ma non mi sembri esattamente un esperto in materia».
«Appunto. Ma come mai hai deciso di prendere la metropolitana?»
«Perché il tuo camino non è allacciato alla Metropolvere».
«Oh, sì. L'ho fatto scollegare qualche tempo fa. La signora Owen ha l'irritante abitudine di irrompermi in casa nei momenti più impensati e non mi pare il caso di farla assistere a coreografiche uscite di comitive di maghi dal camino. Ma perché non hai preso il Nottetempo?»
«Perché mi avrebbero rintracciato subito».
«Ti avrebbero rintracciato subito?»
«Sì» il ragazzino si lasciò cadere sul divano per poi aggiungere serio: «Sono scappato da casa, zio Alphard. Ho deciso che ero stufo di convivere con tua sorella. Diventa sempre più insopportabile. Non fa che ripetere che sono una delusione per l'intera stirpe dei Black e che sicuramente prima o poi verrò raggiunto da qualche Apocalittica Punizione. Ma fortunatamente c'è Regulus che, di certo, eviterà di deludere l'intera stirpe dei Black avendo almeno il buon gusto di farsi smistare a Serpeverde».
Alphard si sedette accanto al nipote, allarmato dall'insolita amarezza che gli vibrava nella voce.
Scappato da casa.
Non ne era esattamente sorpreso. Sospettava che sarebbe successo prima o poi.
Poteva scorgere in Sirius la sua stessa insofferenza verso tutto ciò che pareva di vitale importanza per i Black regolamentari. E Sirius era più impulsivo di lui. E più coraggioso, anche.
Tutti in famiglia erano rimasti scioccati quando era stato smistato a Grifondoro. Tutti tranne Alphard. Perché Sirius non poteva che finire tra i prescelti dall'ardimentoso, infuocato Godric, a parer suo.
«Scappato da casa» ripeté pacato l'uomo fissando il ragazzo. «E hai usato la metropolitana per non farti scoprire da Walburga».
Sirius annuì fiero. «Non troveranno mai le mie tracce. Di certo non interrogheranno dei miserabili Babbani».
«Di certo. E hai deciso di rifugiarti qui».
«Già. Quale rifugio migliore dell'Abominevole capanna dello zio Al?» affermò Sirius, imitando l'altezzoso tono materno, quindi si azzittì, giocherellando con il fazzoletto rosso; dopo un istante guardò in tralice lo zio e chiese: «A te non dispiace, vero?»
Alphard scosse il capo, addolorato dall'incertezza che il nipote tentava, con scarso successo, di nascondere con l'indifferenza. «Certo che non mi dispiace, Sirius. Sai che sei sempre il benvenuto a casa mia, ma non credi che l'Abominevole capanna dello zio Al sarà proprio il primo posto in cui i tuoi genitori verranno a cercarti?»
Il ragazzino corrugò la fronte, pensoso, poi sbuffò esasperato.
Preoccupato che il brillante cervello del nipote desse prova della propria indubbia creatività, suggerendo al legittimo proprietario di trasferirsi direttamente sotto un ponte del Tamigi - dove di certo Walburga non si sarebbe mai sognata di cercare il riottoso rampollo scomparso - Alphard decise di proporgli qualche soluzione alternativa. Doveva solo trovarne una, in fondo. Che ci voleva. Era persino riuscito a rintracciare le leggendarie Chiavi del Tempo, che diamine. Era di sicuro in grado di trovare un espediente che desse sollievo al nipote e impedisse a Walburga di uccidere entrambi con qualche fantasioso Anatema.
Peccato fosse quasi impossibile pensare con Felpato che, abbaiando festoso, sguazzava nelle pozze d'acqua che ancora costellavano il pavimento. Per non parlare del campanello che continuava a suonare.
Merlino. Il campanello!
Alzandosi di scatto, Alphard si precipitò alla porta squadrando sorpreso la ragazza che, trascinando con sé un giovanotto biondo e un po' spaesato, irruppe in casa.
Chissà cosa avrebbe pensato la signora Owen di tutte quelle giovani donne che suonavano il suo campanello. Cioè, in realtà era abbastanza sicuro di sapere cosa avrebbe pensato la signora Owen. Era molto romantica la signora Owen. E si era fatta un'idea piuttosto ottimistica della vita sentimentale di Alphard.
«Ciao, Andromeda» salutò affabile il mago, accantonando quelle sinistre elucubrazioni sulla propria reputazione ormai irrimediabilmente compromessa. «Che sorpresa. Pensavo fossi impegnata nella pianificazione del Secondo Grande Evento - sì, del tuo matrimonio con il giovane Malfoy, insomma - non dirmi che sei scappata da casa e hai pensato di trasferirti nell'Abominevole capanna dello zio Al».
La ragazza inarcò un sopracciglio, si guardò attorno con vago disgusto e, dopo un breve cenno di saluto ai presenti, sfoderò la bacchetta magica esibendosi in una serie di rapidi e impeccabili Incantesimi Casalinghi che pulirono alla perfezione ogni cosa - Felpato compreso - lasciando il soggiorno di Alphard più in ordine di quanto il mago avesse mai immaginato nei suoi sogni più rosei.
«Sì, zio Al» disse infine la ragazza, rimirando soddisfatta il pavimento tirato a lucido. «Hai indovinato. Sono scappata da casa. Non avevo proprio nessuna voglia di pianificare il Secondo Grande Evento».
Alphard sospirò. Era sicuro che prima o poi i suoi due nipoti prediletti si sarebbero distinti per qualche azione particolarmente deprecabile. Erano i suoi nipoti prediletti per ragioni ben precise, in fondo. Certo, avrebbe preferito che le suddette azioni deprecabili non avvenissero in contemporanea, però.
«Ma non ho intenzione di trasferirmi nell'Abominevole capanna dello zio Al» assicurò la ragazza, alzando la mano sinistra per mostrare il semplice cerchietto d'oro che portava all'anulare e sorridendo radiosa. «Indovinate un po'? Io e Ted ci siamo sposati! Alla fine ho ascoltato il tuo consiglio, zio: ho scelto l'uomo che amo. Sarà lui a darmi la famiglia che merito!»
Il giovanotto biondo - che Alphard suppose essere Ted - strinse Andromeda a sé, baciandole con tenerezza una tempia, quindi sollevò fiero la testa fissando Alphard negli occhi: pronto ad affrontare l'ennesima reazione poco dignitosa di un Black oltremodo contrariato.
Prima che Alphard potesse tranquillizzare il giovane, assicurando che non sarebbero volate esotiche maledizioni, Sirius si alzò dal divano avvicinandosi sorpreso alla cugina. «Ti sei sposata con il Nato Babbano Tassorosso? Alla vigilia del Secondo Grande Evento che tutti i dignitosissimi Black attendono con ansia?».
«Sì, Sirius. I dignitosissimi Black dovranno proprio fare a meno del Secondo Grande Evento, temo. E a proposito di dignitosissimi Black... Ted, loro sono zio Alphard e mio cugino Sirius».
Ted annuì un po' nervoso, mentre Sirius cominciò a girargli attorno, scrutandolo con meticolosa attenzione. «Uhm, sì, mi sa che hai fatto un buon affare, Andromeda. Mi sembra un grosso miglioramento confrontato al tuo precedente promesso sposo».
Ted sorrise. «Grazie Sirius. Sono lusingato che tu...»
«Ma, d'altro canto, anche un Troll di Montagna sarebbe stato un grosso miglioramento, paragonato a Vermicolo Malfoy» aggiunse il ragazzino, scoccando un'occhiata sussiegosa al neo-marito della cugina prima di spostare la sua attenzione su Felpato che aveva cominciato a uggiolare e a grattare con insistenza lo stipite della porta.
«Zio Al, credo che Felpato abbia un urgente bisogno di uscire. E credo sarebbe saggio assecondarlo».
Alphard concordava. Sì, quella specie di Gramo di seconda scelta era ufficialmente in castigo ma, se non lo avesse lasciato uscire subito, avrebbe allagato il soggiorno. Di nuovo. E senza ricorrere dell'acquario. E lui era una vera frana con gli Incantesimi Casalinghi. E poi, dopo tutto, ora il soggiorno era più che presentabile. La punizione poteva quindi ritenersi estinta.
«Sì, Sirius, l'ho notato. Ti dispiacerebbe portarlo a fare una corsa in giardino? Mi raccomando, lontano dalle peonie della signora Owen, per carità. Già dovrò raccontarle della prematura, cruenta dipartita del suo cappellino, vorrei evitare di darle altre luttuose notizie».
Il ragazzino annuì, abbandonò la borsa sul divano e afferrò Felpato per il collare. «Sì, tranquillo zio. Mi piace la signora Owen. E mi piace molto anche il suo pasticcio di carne!» esclamò, sparendo oltre la porta, seguito dallo sguardo preoccupato del giovane Ted che chiese cauto: «Ma è saggio lasciare quel... er... cane di notevole stazza da solo con il bambino?»
«No, non è particolarmente saggio. Potrebbe anzi rivelarsi pericoloso» rispose serio Alphard. «Per Felpato, voglio dire».
Andromeda rise della confusione del marito e accarezzandogli con gentilezza un braccio spiegò: «Zio Al scherza, Ted. Ama scherzare, anche se il suo particolare senso dell'umorismo è compreso solo da pochi eletti. Ma tutto sommato non ha tutti i torti, tu non conosci Sirius, ancora».
Alphard guardò piacevolmente sorpreso la nipote. Era da parecchio che non la sentiva ridere con quella sincerità. «Non ho tutti i torti no. E non crederle, non è vero che il mio senso dell'umorismo è incompreso dai più. E' incompreso dalla maggior parte dei Black, questo sì, ma in genere sono ritenuto abbastanza simpatico».
Ted annuì, più per cortesia che per convinzione, secondo Alphard, continuando a fissare la porta come se temesse che, da un momento all'altro, qualcuno irrompesse in casa annunciando che Felpato, stanco di tormentare pesci rossi, aveva sbranato Sirius.
Desideroso di scambiare due chiacchiere in privato con Andromeda, Alphard propose: «Perché non vai con loro, Ted? Sirius non corre pericoli, davvero. Ma le povere peonie della Signora Owen sì».
Il giovane guardò Andromeda e, rassicurato dal cenno affermativo di questa, annuì. «Va bene. Non vedo davvero il motivo di mettere in pericolo povere peonie innocenti, dopo tutto».
Alphard sogghignò divertito, sì, gli piaceva il giovane Ted. Probabilmente Andromeda aveva fatto davvero un ottimo affare scegliendo lui.
Quando Ted fu uscito, Alphard si avvicinò alla nipote. «Così lo hai fatto. Hai preso la decisione che io non ho mai avuto il coraggio di prendere».
Andromeda annuì. «Non ho avuto scelta, zio Al. E' molto doloroso dovere rinunciare a tutta la mia famiglia ma... dover rinunciare a Ted lo sarebbe stato di più».
«Sì, oh, sì. Lo capisco perfettamente. Ma non hai rinunciato a tutta la famiglia. Hai ancora me, lo sai».
«Vuoi dire che, se con Ted dovesse andare male, potrei venire a stare qui, nella capanna dello zio Al?»
«Naturalmente» rispose Alphard, aggiungendo poi in tono leggero. «Anche perché troverei davvero molto utile il tuo indubbio talento negli Incantesimi Casalinghi».
Andromeda ridacchiò, abbracciando di slancio lo zio. «Immaginavo fosse per questo».
Lui la strinse gentilmente, un po' sorpreso dall'energia con cui la ragazza gli si aggrappava. E abbastanza furioso con il fratello: avrebbe dovuto essere Cygnus a rassicurarla in quel frangente, non lui.
«Andromeda, ora sono serio. Se qualcosa non dovesse andare come desideri... se dovessi in qualche modo pentirti della scelta che hai fatto... potrai sempre contare su di me».
Lei si sciolse dall'abbraccio, guardandolo un po' imbarazzata. «Grazie, zio Al. Fa paura non potere tornare indietro, vero? Ma prendere una decisione comporta sempre delle conseguenze. E se la decisione che ho preso si rivelerà sbagliata... pagherò le suddette conseguenze. Indietro non potrei tornare comunque. Neppure se lo volessi».
«Questo non è detto» disse Alphard, afferrando la nipote per una mano e trascinandola al piano superiore.
Senza darle nessuna spiegazione si fiondò in camera da letto e, sotto lo sguardo sconcertato della ragazza, aprì l'antico baule di lucido legno intarsiato che si trovava accanto all'armadio. Ne prelevò un medaglione molto simile a quello che portava sempre al collo e lo osservò meditabondo, sfiorando la piccola fenice fiammeggiante che ne occupava il centro.
La Chiave del Tempo funzionante.
L'aveva conservata per tre anni, prendendo in seria considerazione la possibilità di utilizzarla.
Ogni anniversario della morte di Erin era salito in camera, aveva sfoderato la bacchetta e si era seduto sul pavimento stringendo la Chiave in una mano. Cercando di trovare il coraggio di pronunciare l'incantesimo che Aldebaran aveva trascritto sulla pergamena. Ma non conosceva i particolari della morte di Erin, purtroppo. E il suo intervento avrebbe potuto comportare conseguenze nefaste sulla linea del tempo e sulle vite delle decine di persone coinvolte in quell'incidente. E lui non era mai stato particolarmente temerario. Anzi. Non era mai neppure riuscito a fare quello che Andromeda aveva appena fatto. Forse lei avrebbe trovato anche il coraggio di servirsi della Chiave, in caso di necessità.
Presa la sua decisione, afferrò anche la vecchia pergamena scritta da Aldebaran quasi nove secoli prima e porse il tutto alla nipote. «Mi dispiace per la presentazione, Andromeda, ma questo è il mio regalo di nozze».
La ragazza guardò la Chiave, Alphard sorrise dell'espressione assai poco entusiasta che le si dipinse sul volto: chissà perché solo lui riusciva a cogliere la profonda bellezza di quell'oggetto...
«Oh, un medaglione quasi uguale al tuo, zio Al. E' molto... originale. Ma non dovevi, davvero».
«Sì che dovevo, Andromeda. Se tu mi avessi avvisato del matrimonio ci sarei venuto, sai?»
La ragazza lo guardò stupita. «Ma... questo ti avrebbe messo in cattiva luce con la famiglia. Io pensavo...»
«Lo so cosa pensavi. E ti ringrazio per la gentilezza. Ma almeno un regalo di nozze devo fartelo. Anche per dimostrarti che ho gradito la scelta dello sposo».
«Davvero?»
«Oh, sì. Sirius ha ragione: molto meglio di Vermic... ehm... di Lucius Malfoy».
Andromeda rise. «Indubbiamente. Non che ci volesse molto: anche un Troll di Montagna lo sarebbe stato».
Alphard si strinse nelle spalle e, notato l'impaccio con cui la nipote guardava il medaglione, si premurò di rassicurarla. «Tranquilla, non devi indossarlo. Devi solo conservarlo. E, se entro i prossimi vent'anni dovessi renderti conto che la scelta che hai fatto è quella sbagliata... be', allora questo ti permetterà di cambiarla».
«E come?»
Alphard sorrise enigmatico. Non gli pareva il caso di rivelarle nei dettagli cosa fosse quell'oggetto. Aveva il fondato sospetto che la nipote avrebbe reagito come Morrigan. Così decise di rimanere sul vago. «Lo scoprirai leggendo la pergamena».
«Ah... zio... io sono una frana con le Rune Antiche».
«Allora vieni da me, nel caso. E la leggeremo assieme».
La ragazza annuì. Alphard ebbe l'impressione che stesse cercando le parole adatte per esprimere qualche complicato concetto, quando entrambi sobbalzarono per un tonfo proveniente dal piano di sotto.

Efficiente.
Il giovane Ted era decisamente efficiente, decise Alphard ammirando il neo-marito della nipote prediletta intento ad asciugare l'acqua sparsa sul pavimento del soggiorno, mentre Sirius tratteneva Felpato per il collare.
«Oh, signor Black» esclamò, Ted prosciugando l'ultima pozzanghera. «Come può vedere le ho riportato entrambi sani e salvi. Anche le peonie della signora Owen sono salve... e quasi sane anche».
«Quasi sane?» chiese Andromeda squadrando con un'occhiata molto da Black regolamentare il cuginetto e il grosso cane. «Come sarebbe a dire: quasi sane?»
«Be', Felpato pareva convinto che i poveri fiori fossero in grave riserva d'acqua» spiegò Ted divertito. «Così ha cercato di rimediare. A modo suo. E, evidentemente poco soddisfatto del risultato, ha poi tentato di... uhm... spostarle in zona più confacente».
Alphard gemette sconsolato all'idea di dovere dare notizie tanto nefaste alla gentile signore Owen. Prima o poi la deliziosa vicina avrebbe usato Felpato come ingrediente principale dei suoi pasticci di carne. E ne avrebbe avuto tutte le ragioni, tra l'altro.
«Tranquillo, zio!» intervenne Sirius. «Puoi aspettare a pietrificare Felpato. Le peonie stanno abbastanza bene. Ted le ha ripiantate con qualche incantesimo».
«Me la cavavo discretamente in Erbologia» si schermì il giovane. «E Sirus è stato bravissimo a distrarre quell'incantevole signora mentre io sistemavo le peonie».
Sirius sogghignò. «Abbiamo parlato di cose interessanti. Oh, zio Al, questa sera non cucinare. Hai un appuntamento con una succosa fetta di Roastbeef».
Alphard scosse la testa. Poi si guardò attorno, chiedendosi a cosa fosse dovuto il sinistro tonfo che aveva distratto lui e la nipote una manciata di minuti prima. «Pensavo ci fosse qualcosa di rotto ma mi sbagliavo a quanto pare» concluse non scorgendo ruderi di nessun genere.
«Ah» disse Sirius indicando con un cenno distratto l'acquario. «Dopo avere salutato la signora Owen siamo risaliti in fretta. Sai, Felpato aveva cominciato a nutrire qualche dubbio anche sull'attuale posizione di quei cespugli cespugliosi, hai presente... quei...»
«Rododendri» intervenne Ted rinfoderando la bacchetta.
«Sì. Ecco, quelli. Così lo abbiamo ritrascinato in casa. Ma Felpato pare non avere gradito e ha... uhm, deciso di cambiare posto anche all'acquario».
«Felpato deve essere in una fase particolarmente creativa. Anche mia madre viene colta periodicamente da raptus di spostamento mobili» constatò Andromeda rattristandosi leggermente.
Ted le si avvicinò, cercandole con incerta tenerezza una mano e Andromeda si strinse a lui, dedicandogli un sorriso innamorato. O ebete, secondo la peculiare visione che Sirius si premurò di esporre con tempestiva sincerità.
Alphard, assestando uno scappellotto scherzoso al nipote, sorrise alla coppia, certo che La Chiave del Tempo non sarebbe stata usata in un immediato futuro. Non da Andromeda, almeno.
Non si sarebbe mai pentita della scelta fatta.
Guardava Ted nello stesso modo in cui Erin aveva guardato lui. Chissà se lui, quando guardava Erin, aveva la stessa espressione persa - o ebete, volendo adottare la cruda definizione di Sirius - che Ted esibiva con Andromeda...
«Oh, signor Black» esclamò all'improvviso il giovane, indicando l'acquario. «Mi sono permesso di sistemare tutto. L'avrei anche aspettata, ma i pesci non sarebbero stati molto contenti, mi sa. Così sono intervenuto. Me la cavo benino con l'Incantesimo Reparo» corrugò la fronte, assorto. «La professoressa di Divinazione una volta, leggendo le mie foglie di tè, ha predetto che mi sarebbe tornata molto utile questa abilità, nella vita. Forse si riferiva a oggi».
«Non saprei, Ted. Ma apprezzo la tua abilità con l'Incantesimo Reparo. Tengo molto a quell'acquario, è un ricordo del mio zio preferito. E sono anche abbastanza stanco di comprare pesci nuovi per popolarlo. Mi sembra di passare più tempo al negozio di animali qui all'angolo che a casa. Il proprietario mi ha persino messo nella lista di coloro a cui fare il regalo di Natale...»
Ted rise divertito. «Allora sono contento di avere salvato i suoi pesci, Signor Black» poi sbirciò l'orologio e mormorò un po' a disagio: «Andromeda, se non vogliamo perdere il treno dovremmo proprio andare».
Andromeda annuì. «Sì. Ted mi porterà in Normandia in viaggio di Nozze» spiegò, gli occhi scintillanti di aspettativa. «Il viaggio è un regalo di una sua romantica prozia, treno e traghetto compresi, così abbiamo orari da rispettare».
Ted tossicchiò imbarazzato e spiegò: «La prozia Dora è Babbana, come tutti i miei parenti, del resto. E per di più è un'artista... vive in un mondo tutto suo, fatto di pennelli e di colori... non è mai riuscita a capire che i maghi hanno modi più veloci per spostarsi».
«Più veloci forse, ma molto meno affascinanti» assicurò Alphard. «Se vuoi sapere la mia opinione, Ted, la prozia Dora vi ha fatto uno splendido regalo. Una Passaporta è sicuramente meno romantica di una traversata della Manica in traghetto».
Andromeda, dopo avere intrappolato Sirius in un abbraccio affettuoso - riuscendo persino a scoccargli un bacio sulla testa - si avvicinò ad Alphard. «Grazie di tutto, zio Al. Terrò caro il tuo regalo: credo proprio che non dovrò usarlo, ma è un ricordo del mio zio preferito».
Alphard arrossì leggermente, sorpreso e Andromeda sorrise aggiungendo con sincerità: «E' un vero peccato che l'unico Black che sarebbe stato un buon genitore non si sia riprodotto, sai? Spero solo di somigliare più a te che a tuo fratello».
«Oh, io ne sono sicuro» intervenne Ted con dolcezza. «Non ho proprio alcun dubbio in proposito».
Andromeda sospirò: «Be', di sicuro non imporrò mai a una mia eventuale figlia di decidere tra me e l'uomo che ama. Questo proprio no! Appoggerò comunque le sue scelte!»
Alphard la guardò meditabondo. «Ne sono certo» poi ammiccò e aggiunse: «Anche perché in caso contrario, verrò a cercarti e ti farò una bella ramanzina».
Andromeda rise, sfiorandogli una guancia con un bacio. «Guarda che ci conto!»
«Contaci pure» esclamò Alphard prima di avvicinarsi a Ted e di assestargli una pacca amichevole su una spalla. «Benvenuto in famiglia, allora, Ted».
«Grazie, Signor Black».
«Sappi però che, se non tratterai bene mia nipote, piomberò a casa tua e ti Trasfigurerò in un una peonia per poi abbandonarti alle cure di Felpato».
Ted annuì con solennità. «Mi sembra il minimo, signor Black. Guardi che ci conto».
«Bravo. Oh, Ted, ci sarebbe un'altra cosa che dovresti fare per evitare di farmi venire devastanti voglie di Incantesimi di Trasfigurazione».
Il giovanotto lo guardò un po' preoccupato. «E sarebbe?»
«Smetterla di chiamarmi signor Black. Mio padre era il signor Black. Cygnus e Orion sono i signori Black. Io preferirei essere solo Alphard, se zio Al ti sembra troppo».
Ted rise, sollevato e, mentre Andromeda lo trascinava senza tanti complimenti fuori dalla porta, promise solennemente di attendere all'accorata richiesta.

«E' simpatico Ted, vero zio Al?»
«Sì, molto, Sirius».
Sirius.
Sistemata la pratica Andromeda, c'era ancora da risolvere il problema di Sirius e della sua fuga da casa.
Alpahrd non dubitava che presto sarebbe stato raggiunto dal tetro gufo di Walburga, latore di un messaggio altamente minatorio circa la ricerca del riottoso erede.
E lui era ancora senza lo straccio di un piano.
«Zio Al, credi che il nome di Andromeda sull'arazzo verrà bruciato?»
Alphard, pensando alacremente a come risolvere la faccenda, guardò il nipote che lo stava osservando con una serietà sconcertante.
«Temo di sì, Sirius. Andromeda ha fatto qualcosa che, almeno secondo la maggioranza dei Black, recherà danno al buon nome della Casata».
Il ragazzino annuì, prese la sua borsa ancora abbandonata sul divano e disse: «Puoi prestarmi qualche soldo Babbano, zio?»
Alphard lo guardò preoccupato: che Sirius avesse davvero pensato di rifugiarsi sotto un ponte del Tamigi?
«Naturalmente, Sirius. Ma cosa ne vuoi fare?» indagò con cautela.
«Prendere la Metropolitana per tornarmene a casa» affermò il ragazzo. «Anche se, a questo punto, credo che potrei prendere il Nottetempo...»
«Vuoi tornare a casa? E la tua fuga?»
«Rimandata. Ora non è il momento. Devo tornare a casa. Per difendere Andromeda».
«Difendere Andromeda?»
«Sì. Non potrò evitare che il suo nome venga cancellato. Ma potrò evitare che il suo ricordo lo sia, no?»
«E come?»
Il ragazzino si strinse nelle spalle. «Parlando di lei. Il più possibile».
Alphard annuì ammirato. «Una scelta nobile, Sirius. Ma che non sarà priva di conseguenze. E tali conseguenze potrebbero essere piuttosto sgradevoli per te».
Il ragazzino ci pensò un istante, accarezzando Felpato che osservava con sonnacchioso interesse il fazzoletto rosso legato alla tracolla. «Lo so. Il professor Silente dice che ogni scelta ha delle conseguenze. Spesso poco piacevoli. Tipo punizioni noiose e punti decurtati alla Casa di appartenenza».
Alphard trattenne una risata. «Temo che in questo caso le conseguenze potrebbero essere più pesanti».
«Non importa. Sono disposto a sopportare qualsiasi conseguenza per difendere chi amo. Tu no, zio?»
Alphard boccheggiò, sorpreso. Per la scopa di Merlino, da quando Sirius era diventato così profondo? Da quando aveva cominciato ad apprezzare le ragazze, probabilmente...
«Sì, certo Sirius. Anch'io». Almeno gli piaceva pensarlo, anche se non ne era del tutto sicuro.
Sirius annuì soddisfatto e fece per uscire.
«Aspetta. Ti accompagno io» propose Alphard, prendendo le chiavi della moto appoggiate sul tavolino e scoccando un'occhiata preoccupata a Felpato che sonnecchiava spaparanzato sul divano. Con un po' di fortuna avrebbe dormito per qualche ora, senza attentare ulteriormente ai pesci rossi. O alle peonie della signora Owen.
«Vuoi assistere anche tu al falò, zio Al?»
«Certo. Una scenata di Walburga è più avvincente in diretta».
Il ragazzino sogghignò, aprendo la porta. Poi si fermò e, slacciando il fazzoletto rosso disse: «Mi insegneresti l'Incantesimo di Adesione Permanente, zio? Voglio appendere questo in camera mia» mostrò fiero il fazzoletto che si rivelò essere un gagliardetto di Grifondoro. «Ma tua sorella lo stacca sempre, sostituendolo con arredi più consoni a un giovane Black. Lascio a te la gioia di immaginare cosa possano essere».
Alphard prese il gagliardetto dalle mani del nipote e annuì: «Ti insegnerò l'incantesimo. E questo lo appenderemo insieme».
«Pensavo detestassi Grifondoro».
Alphard scosse le testa. «No. Provo per Grifondoro un sano antagonismo, Sirius, ma non ho mai odiato i membri della Casa. Anzi, molti di coloro che vi hanno soggiornato mi stanno decisamente simpatici. Tu ad esempio» concluse sorridendo e ridando il gagliardetto al nipote.
Sirius lo prese e sospirò. Poi mormorò, come se ammettere la cosa gli costasse uno sforzo sovrumano: «E alcuni di quelli che hanno soggiornato a Serpeverde stanno simpatici a me».
«Vedi?».
«Molto pochi, eh» si affrettò a precisare il ragazzino. «Solo due in effetti. Tu e Andromeda. Punto. E secondo me è solo perché il Cappello Parlante deve essersi sbagliato con voi. Sì. Deve essere andata proprio così. Magari qualcuno ci aveva rovesciato sopra dell'Whisky Incendiario...»
Alphard rise chiudendo a chiave la porta e facendo un cenno di saluto alla signora Owen, intenta ad innaffiare le peonie.
«Ma, cambiando discorso» disse Sirius, sorridendo amabile alla signora Owen. «Come posso fare per conquistare Ailis?»
Alphard, che stava per montare sulla moto, si bloccò e scoccò un'occhiata sorpresa al ragazzo: «Pensavo avessimo convenuto che sono poco affidabile in tal senso».
«Lo so. Ma a quanto pare ci siamo sbagliati. La signora Owen sembra convinta del contrario. Prima ha detto a Ted che, se avesse avuto una trentina di anni in meno, avrebbe suonato anche lei alla tua porta. E la signora Owen è una donna, giusto? Quindi deve intendersene di queste cose. E poi...» concluse pratico salendo sulla moto. «A chi posso chiedere di più affidabile, scusa, le mie uniche altre alternative sono tuo cognato e tuo fratello».
Alphard ridacchiò e, montando finalmente sulla moto, si preparò ad affrontare lo spinoso problema, conscio di essere la scelta meno disastrosa.
Insomma, almeno non tentava di fare colpo sulle donzelle invitandole a guardare la sua collezione di teste di elfi impagliate.
Era già qualcosa.


*****

Era già qualcosa.
Cercò di convincersi Alphard, parcheggiando la moto davanti al pub di Jordan.
Sirius godeva tuttora di ottima salute, non essendo stato raggiunto da nessun esotico Anatema scagliato dalla sua fantasiosa genitrice.
E Alphard anche.
Era già qualcosa.
Walburga e Orion non si erano neppure accorti della momentanea scomparsa del primogenito, occupati com'erano a tentare di arginare le lacrime di Druella e le imprecazioni - disdicevoli per un Black - di Cygnus, e a inventarsi un modo dignitoso per informare Abraxas Malfoy che il Secondo Grande Evento era stato pregiudicato dall'insensatezza della promessa sposa.
Promessa sposa che, per inciso, non era mai esistita, come dimostrava l'Arazzo di Famiglia su cui non compariva nessuna Andromeda Black, ma solo una brutta bruciatura che deturpava la perfezione del ricamo. Lo sbadato elfo domestico di Casa Black era già stato punito per la distrazione con cui accendeva i lussuosi candelabri della Sala dell'Arazzo, ma fortunatamente il fuoco non aveva lambito i nomi delle due figlie di Cygnus e Druella.
Certo, convincere il giovane Malfoy di essere stato fidanzato per tre anni con una persona mai esistita avrebbe potuto creare qualche piccola difficoltà, a parere di Alphard... ma nulla di irrisolvibile secondo l'autorevole opinione di Walburga.
Intenzionato a godersi una buona birra e a scambiare quattro chiacchiere con Jordan, Alphard smontò dalla moto, fissando incuriosito l'uomo alto e snello che, standosene appoggiato a un lampione, osservava accigliato l'ingresso del pub.
Conosceva quell'uomo.
Non lo vedeva da sei anni, ormai, ma se lo ricordava perfettamente. Erano stati vicini di ufficio al Ministero, e Alphard non dimenticava mai una faccia. Soprattutto se apparteneva a qualcuno che gli piaceva.

«Lupin!» esclamò quindi, appoggiando una mano sulla spalla dell'ex collega.

Questi sussultò, voltandosi di scatto, un lampo di puro panico negli occhi ambrati.
«Ehi, tranquillo» tentò di calmarlo Alphard. «Mica sono un Dissennatore. Mi fa piacere rivederti dopo tutto questo tempo».
L'uomo annuì, cercando frenetico con lo sguardo l'avambraccio di Alphard. Quello che vide parve rassicurarlo, perché improvvisò un sorriso quasi convinto e mormorò con il suo solito tono gentile: «Anche a me, Black.»

«Zio Al!».

Allargando le braccia in segno di scusa, Alphard sorrise alla bimba dalle treccine ramate che caracollava entusiasta verso di loro.
«Ciao Erin» la salutò con gentilezza, tentando di allentare la stretta con cui la bambina gli aveva imprigionato il ginocchio sinistro.
La piccola Erin aveva una vera passione per il suo ginocchio sinistro.
Lupin ridacchiò offrendo il suo aiuto, e la bimba lo scrutò scettica.
«Stai dando noia allo zio Al, tu?» chiese bellicosa, incrociando le braccia in una perfetta imitazione di Jordan quando apostrofava qualche ubriaco molesto.
Lupin si affrettò a scuotere vigorosamente il capo e, alzando le mani in segno di resa, negò con decisione ogni intento di disturbare lo zio Al.
«Ah, meno male. Perché se no sarebbe toccato a me sistemarti» affermò decisa la bimba, facendo cenno a Lupin di avvicinarsi.
L'uomo si accovacciò immediatamente, fino a trovarsi all'altezza della bambina che spiegò con fare cospiratorio: «Perché zio Al è proprio una frana nella lotta, sai? Quando la facciamo vinco sempre io».
Lupin sgranò gli occhi con ammirato interesse: «Davvero?»
La piccola annuì, compunta e orgogliosa. «Davvero. Ma sempre! E non perché succedono cose strane come quando riesco a battere Abigail. Ma proprio perché lui non è capace!»
«Capisco» Lupin guardò pensoso Alphard per un istante, poi propose con estrema serietà: «Se vuoi posso provare a insegnargli io».
La bimba lo scrutò scettica, studiandone critica la corporatura snella. «Non lo so mica se tu sei capace di battermi, sai?».
Alphard sogghignò, notando il vago imbarazzo di Lupin ma, prima di poter intervenire, fu interrotto dall'arrivo di altre tre bambine che, senza degnare Lupin di uno sguardo, salutarono calorosamente zio Al.
«Stiamo andando dalla signora Everett» spiegò la ragazzina più grande, afferrando Erin per una mano e indicando il palazzo al lato opposto della strada. «La sua gatta ha appena avuto i micini. Non è che ne vuoi uno, zio Al?»
Alphard scosse il capo, terrorizzato: gli mancava solo quello. «No, Briana. Ma grazie per avermelo chiesto».
Una seconda bambina, più minuta, sembrò molto delusa. «Oh, ma ce n'è uno tutto nero che ti piacerebbe da morire, zio Al» insinuò sognante prendendogli la mano.
«Sì, Gracie, ne sono sicuro, ma...»
«Somiglia tutto a Felpato! Anche di carattere!» assicurò la terza bambina saltellando entusiasta attorno al lampione.
«Ah, ecco. Una versione felina di Felpato. Come non adorarla!» esclamò il mago, tentando di apparire convincente anche se - a onor del vero - avrebbe trovato più adorabile una Manticora. «Ma, Abigail, poi forse Felpato sarebbe geloso».
Le bimbe convennero che probabilmente era vero e, canticchiando la loro canzoncina preferita - quella che parlava di un sottomarino giallo - si apprestarono ad attraversare la strada.
«Ehi, signorine!» le richiamò Alphard - che a volte si ricordava di essere un Black - indicando Lupin. «Non si usa salutare?»
Le tre bambine più grandi si guardarono allibite, poi si strinsero nelle spalle esclamando in coro: «Ciao, zio Al!»
Solo la piccola Erin si degnò di guardare Lupin e di sorridergli agitando una manina.

«Ah, perdonale, Lupin» disse Alphard, distogliendo lo sguardo da loro solo dopo essersi accertato che fossero arrivate sane e salve a destinazione. «In genere sono molto educate».
Lupin scosse il capo, guardando fisso qualcosa alle spalle di Alphard e bisbigliò: «Non gesticolare così! Ah, troppo tardi. Dì che stai cantando...»
«Cosa?» Alphard fissò stralunato l'ex collega per poi voltarsi a guardare cosa gli stesse indicando. Trovandosi di fronte Caitlin e Yuri che lo osservavano con magnanimo sconcerto.
«Oh no. A papà non piacerà, zio Al. Non gli piacerà neppure un po'» esclamò Yuri con rassegnata compassione.
«Cosa non piacerà a tuo padre?» chiese Alphard, sinceramente sbigottito.
Il ragazzino guardò la sorella e scosse il capo. «Che ti dicevo, Caitlin? E' completamente andato» quindi si rivolse ad Alphard, scandendo bene ogni singola parola. «A papà, zio Al, non piacerà affatto che tu sia già sbronzo prima di mettere piede nel suo pub. La prenderà come un'offesa personale».
Alphard si rizzò in tutta la sua altezza, sdegnato. «Ma io non sono affatto sbronzo!»
«Zio Al» intervenne pacata Caitlin. «Stavi discutendo animatamente con un lampione...»
«Io non stavo discutendo animatamente con un lampione! Io stavo...»
«Cantando» suggerì prontamente Lupin con un sogghigno.
Alphard gli scoccò un'occhiata tanto dissimulata quanto truce e capitolò: «Stavo cantando».
«Cantando?» chiese Yuri sorpreso. «Non sapevo cantassi».
Alphard prese un profondo respiro e intonò: «We all live in a Yellow Submarine, Yellow Submarine, Yellow...
«Va bene, va bene» lo azzittì perentorio Yuri. «Preferivo continuare a non saperlo».
«Hai sicuramente uno stile... interessante, zio Al» intervenne Caitlin fulminando il fratello con un'occhiata assassina. «Ma forse potresti provare a interessarti anche a qualche altro hobby... non so, hai mai pensato di collezionare francobolli?»
Poi, prima di attendere risposta esclamò: «Yuri, se proprio vuoi venire, meglio se ti dai una mossa».
Il ragazzino sbuffò. «Non è che voglio venire. Devo venire. Che è diverso. Papà non mi ha lasciato scelta, visto che Ailis deve fare la baby-sitter ai bambini di zia Joyce. L'avrei fatto io se avessi saputo che l'alternativa era quella di venire al cinema con te e l'uomo della tua vita. Preferirei assistere a un concerto di zio Al».
«Ehi!» protestò l'interessato. «E poi non ti era simpatico Daniel?»
«Sì. Peccato che Daniel fosse l'uomo della sua vita settimana scorsa. Questa è la settimana di Nigel. Che è un vero strazio. Non oso pensare che film mi costringeranno a vedere questi due» spiegò, mentre veniva trascinato via da un'impaziente Caitlin impegnata a esaltare estatica il discreto fascino intellettuale di Nigel.

Alphard li osservò allontanarsi, tentando di riprendersi.
Un'improvvisa risata profonda e divertita gli ricordò che non era solo.
«Zio Al?» chiese ironico Lupin.
«Non infierire, Lupin. Mi ci sono trovato in mezzo. Erano pochi, all'epoca. Pochi, piccoli e carini. Ma com'è che non ti hanno visto? Sei sotto l'effetto di un incantesimo Anti-Babbani?»
Lupin annuì, improvvisamente serio. «Sono qui per lavoro».
«La piccola Erin ti ha visto, però».
«La piccola Erin è il motivo per qui sono qui».
«E'...»
«Sì. Erin è una strega».
Alphard non ne fu sorpreso. Lo sospettava. Nonna O'Sullivan aveva visto giusto.
«Ma, un momento!» esclamò dopo un istante. «Tu non ti occupi più di rintracciare piccoli Nati-Babbani dotati di poteri magici per il Ministero. Da quando tuo figlio è stato...» tacque, rimproverandosi mentalmente per l'assoluta mancanza di tatto.
Lupin sorrise triste, sistemandosi il colletto della camicia. «Da quando mio figlio è stato morso da Greyback. Dillo pure, Alphard. Non è certo un segreto. Come non è un segreto che, quando è successo, il Ministero ha preteso le mie dimissioni. Oh, mi hanno fatto un'offerta, sai? Un'offerta molto vantaggiosa, secondo il Primo Ministro» annunciò con un sarcasmo amaro che Alphard non aveva mai scorto in lui. «Se avessi affidato mio figlio al licantropo che - per una disgraziata fatalità - lo aveva morso, non ci sarebbero stati problemi. Io avrei conservato il mio posto di lavoro e il bambino sarebbe vissuto con chi sapeva come trattarlo. Ho rifiutato, naturalmente. Mia moglie è un'esperta di creature magiche. Così, grazie all'intervento di Silente, ci è stato concesso di tenere il bambino».
«Lui è... lui sta bene?» lo interruppe Alphard, ben sapendo che non era una cosa così scontata. Non sempre le persone sopravvivevano all'attacco di un lupo mannaro. Soprattutto quando si trattava di bambini.
«Sta bene, sì. Sta anche meglio di quanto avessi osato sperare. Qualcuno pensa sia una sfortuna per me».
Sì. Alphard lo immaginava. Lo sapeva, anzi. Walburga e Cygnus erano un esempio di tali compassionevoli persone.
«Ma tu no» mormorò prima di poterselo impedire.
«Certo che no. E' mio figlio, Alphard» replicò Lupin con semplicità.
Alphard annuì, pur non trovando così ovvia quella constatazione. Anche Gygnus era il padre di Andromeda. E gli era bastato molto meno per desiderare che fosse morta.
«Così hai rinunciato al tuo prestigioso posto al Ministero per stare con il bambino».
«Conosci forse qualche padre che avrebbe anteposto il proprio prestigio sociale al benessere di un figlio?»
Sì. Oh, sì, Alphard conosceva intere Casate formate da individui del genere. Ma sospettava che Lupin non frequentasse simili ambienti. Così preferì non rispondere, e cambiò abilmente discorso.
«Ma, se non lavori al Ministero, come mai sei venuto per Erin?»
Lupin lo guardò pensieroso. «Avevo dei dubbi su di te, Alphard. Stupidi pregiudizi legati al tuo cognome di cui ti chiedo scusa. Ma dopo avere visto l'affetto che ti lega a quei piccoli Babbani, credo proprio di potermi fidare. Lavoro per Silente. Rintracciando Nati Babbani dotati di poteri magici e riferendo i loro nomi a Silente medesimo. Senza passare dal Ministero. Ci sono troppi seguaci di Tom Riddle, lì».
«E Silente non si fida di Tom Riddle. Ma al Ministero c'è un tuo sostituto. Lo so per certo e so anche chi è! Come fate a fare in modo che non li rintracci lui i Nati Babbani?»
Lupin sogghignò ironico. «Il mio sostituto è Antonin Dolohov. Non è difficile da ingannare. Non riconoscerebbe un piccolo Nato Babbano dotato di poteri magici neppure se si Smaterializzasse sotto il suo naso. Non si è mai interessato ai Babbani. Non sa nulla di loro».
Sì, Alphard non aveva nulla da ribattere su questo punto.
«Non preoccuparti, Alphard. Terremo d'occhio la piccola Erin. E' una streghetta fortunata, perché potrà contare anche sulla tua protezione» sospirò amareggiato. «A volte mi sembra di vivere all'epoca delle Orde del Tempo e dei Ghermidori, sai? Si prospetta un periodo difficile per i Nati Babbani. Riddle vorrebbe allontanarli dalla Magia. In ogni modo. Con ogni mezzo. Mio figlio non è stato morso per una disgraziata fatalità, Alphard. E' stato morso per rappresaglia. Perché mi ero rifiutato di consegnare la lista con i nomi dei piccoli Nati Babbani a Riddle».
Alphard annuì. «Lo sosteneva anche Duncan».
«Ah, Duncan... neppure quello che è successo a lui è stato una fatalità».
Alphard sgranò gli occhi, sconcertato. Duncan, il mago che aveva preso il posto di Lupin dopo le sue “dimissioni”, era morto eroicamente, nel tentativo di catturare il drago che aveva attaccato il treno su cui viaggiava Erin. Come poteva non essere una fatalità?
«Duncan è morto tentando di proteggere un treno colmo di Babbani da un Gallese Verde, Lupin» fece notare ragionevole. «Come potrebbe essere opera di Riddle? Neppure lui è in grado di farsi obbedire da un drago».
Lupin si sostò i capelli castano chiaro dalla fronte e scrollò le spalle. «Non ho prove che quell'incidente sia stato opera di Riddle, Alphard. Ma so con certezza che Duncan non è morto per colpa di un drago. E neppure quei poveri Babbani che si trovavano sul treno».
«Ma sono stati proprio i sopravvissuti a parlare di un drago!» insistette Alphard. Lo sapeva perfettamente perché ne aveva interrogato lui stesso uno - un adolescente con una vistosa fasciatura a un braccio - prima che gli venisse modificata la memoria.
«I sopravvissuti hanno detto di avere visto qualcosa stagliarsi contro il cielo plumbeo. Alcuni di loro sostenevano che questo qualcosa somigliava a un grasso drago di un verde brillante che sputava un vivido fuoco dello stesso colore. Un fuoco verde brillante, Alphard».
«E allora?» chiese Alphard allibito.
«E allora, come potrebbe agevolmente spiegarti mia moglie, i Gallesi Verdi non sputano fuoco verde. Nessun drago di un verde brillante, lo fa».
«Oh» Alphard doveva ammettere di non essere un grande esperto di Creature Magiche.
«Già, oh. Di sicuro qualcosa quei Babbani hanno visto, quella sera. Qualcosa che somigliava a un grasso drago sputa fuoco... ma non lo era» concluse Lupin sbirciando malinconico il cielo terso che, all'orizzonte, cominciava a tingersi di rosso. «Ora devo proprio andare. Mi ha fatto molto piacere rivederti, Alphard Black».
«Aspetta! Voi lo sapete cosa poteva essere quel finto drago, vero?»
«Silente ha dei sospetti in proposito. Chiedi a lui. Sarà felice di condividerli con te. E' alla disperata ricerca di gente disposta a credergli».
«Ma non protesti cominciare a espormeli tu, questi sospetti?»
Lupin scosse il capo, sconfitto. «No, è una lunga storia e c'è luna piena questa notte. Devo tornare a casa prima che sorga».
«Oh. Pensavo che tua moglie fosse in grado di...»
«Lo è. E Remus le facilita molto le cose. Si lascia fare di tutto senza mai lamentarsi» sorrise un po' imbarazzato. «Ma mi piace pensare che la mia presenza sia di conforto a entrambi».
Alphard gli posò con gentilezza una mano sulla spalla. «Sei un buon padre, John».
Non era un complimento consolatorio o gratuito. Lo pensava davvero.
Ma Lupin non pareva condividere quella convinzione. Guardò amareggiato l'ex collega e scosse il capo. «No. Oh, no. Ho costretto mio figlio a pagare le conseguenze di una mia scelta. Questo non fa di sicuro un buon padre di me».
«Ami tuo figlio per quello che è. E questo fa di sicuro un buon padre di te» insistette Alphard, caparbio.
Lupin abbozzò un sorriso incredulo. «E' mio figlio, Alphard. Potrei mai non amarlo? E poi è così facile amare Remus. Pensavo avrebbe odiato il mondo intero, sai? O almeno il licantropo che lo ha morso. Ma lui ne prova pietà. Ne ha compassione. E questo mi fa ben sperare».
Alphard lo guardò confuso e Lupin spiegò: «Spero che, quando troverò il coraggio di confessargli il ruolo che ho avuto io nella sua maledizione, possa riservare anche a me un pizzico di quella compassione».
Poi, dopo un rapido cenno di saluto, si Smaterializzò, appena prima che Antonin Dolohov facesse la sua comparsa, fissando contrariato Alphard e bofonchiando: «Ah, sei tu, Black. Mi è stato riferito che qui sono state rivelate evidenti tracce di Magia. Pensavo di avere tra le mani un Nato Babbano. Ma se tu sei qui...»
Alphard, sentendo un brivido di terrore percorrergli la spina dorsale, sbirciò verso il palazzo dove era scomparsa la piccola Erin. Sperando ardentemente che la bimba non scegliesse proprio quel momento per uscire e tradirsi salutando amabile Dolohov. O sfidandolo, magari.
Notando che i passanti non degnavano di uno sguardo quell'uomo intabarrato in una lunga tunica nera e argento, Alphard era quasi certo che anche lui fosse sotto l'incantesimo utilizzato da Lupin: era pur sempre un Rintracciatore di Nati Babbani, in fondo.
«Oh, sì» si affrettò quindi a rispondere. «Temo di avere appena usato un incantesimo per... allontanare un gatto inopportuno. Non è ortodosso, lo so ma...»
Dolohov sbuffò. «Ma figurati! Hai fatto benissimo, ci mancherebbe. Infischiatene di quelle stupide restrizioni pro-Babbani!»
Alphard annuì complice. «Ecco. Tra l'altro sono spesso da queste parti. Sai com'è... con il mio lavoro... non c'è posto migliore di un pub frequentato da Babbani per trovare informazioni su manufatti magici finiti nelle loro mani. I Babbani, quando sono alticci, rivelano cose che, da sobri, terrebbero gelosamente per sé».
Dolohov annuì comprensivo. «Quindi suppongo sia tu il responsabile delle tracce di magia rilevate in questa zona».
Alphard abbassò lo sguardo, fingendo un lieve imbarazzo. «Temo proprio di sì. Sono molti i gatti fastidiosi da queste parti».
Dolohov sistemò un'invisibile piega della tunica e sbuffò. «Un altro buco nell'acqua. Ogni volta che vado in un luogo sospetto mi imbatto in qualche mago intento a fare magie. Pare che non nascano più Nati Babbani dotati di poteri magici. Io almeno non ne trovo».
Alphard annuì comprensivo. Aveva anche una vaga idea di sapere per chi lavorassero i maghi incontrati da Dolohov.
Nel tentativo di allontanarlo dalla piccola Erin, ignorando l'istintiva antipatia che da sempre gli ispirava quel mago, propose: «Che ne dici, allora, di fare un salto al Paiolo Magico per brindare a questa meravigliosa eventualità?»
«Perché no. Così ne approfitteremo anche per brindare al fidanzamento del giovane Malfoy con tua nipote Narcissa».
Alphard non poté impedirsi di guardare Dolohov ad occhi sgranati. Quindi Walburga aveva davvero trovato un modo per placare le giuste ire dei Malfoy, alla fine.
Dolohov si concesse una risata e, in uno slancio assai inusuale per lui, allungò un braccio per assestare ad Alphard una pacca amichevole su una spalla. «Non dirmi che non ne eri ancora al corrente! Abraxas lo ha già fatto sapere a tutti. Ma certo...» si guardò attorno con vago disgusto. «Se tu eri in questo luogo dimenticato da Merlino e da Morgana, non mi sorprende che non ti abbia raggiunto. Persino il suo gufo si rifiuterebbe di venire in questo squallido covo di Babbani».
Alphard annuì meccanicamente. L'ampia manica della tunica di Dolohov era scivolata all'indietro, quando il mago gli aveva colpito la spalla, scoprendo l'avambraccio. E Alphard non riusciva a non pensare al tatuaggio che aveva intravisto: un macabro teschio dalla cui bocca usciva un serpente.
Alphard sapeva per esperienza personale che, a un occhio poco attento, sarebbe benissimo potuto sembrare un drago grassoccio intento a sputare fiamme.



*La canzone che Alphard tenta di canticchiare è una notissima canzone Babbana (chissà, forse il nostro Al non è un fan dei predecessori delle Sorelle Stravagarie): "Yellow Submarine" dei Beatles.
(E' la stessa canzone che poco prima canticchiano anche le tre bimbe Babbane).



Ed eccoci arrivati alla settima tappa del nosto Viaggio.
Un'altra tappa decisamente lunghetta, lo so... ma dovevo pure mostrare uno squarcio della vita di Alphard! (Il mio Alphard ha una vita abbastanza intensa e caotica, lo so, ma mi piace pensarlo alle prese con botoli irascibili e marmocchi disinvolti...)
Dovevo pur rendere "umano" questo personaggio. Dargli un certo "spessore" e, a tal proposito, spero di essere riuscita nell'intento di non fare di lui un perfetto Gary Stue (si dice così, giusto?).
Spero altresì che i personaggi da me trattati e appartenenti alla Rowling risultino ragionevolmente IC, perché son tutti personaggi che godono della mia stima e della mia simpatia, questa volta.
E ora le "Note di Servizio":
Prima di tutto due parole sulla piccola Erin: mi piaceva l'idea di inserire in questa storia (che tratta molto il rapporto maghi-Babbani) la vicenda di un bimbo nato Babbano dotato di poteri magici, perché mi son sempre chiesta come funzionino le cose in tal senso. Soprattutto di come potessero funzionare in anni difficili come quelli descritti in questi capitoli. La scelta è caduta sulla piccola Erin. Spero mi possa perdonare! ^^
Mi piaceva anche l'idea di accennare al "lavoro nascosto" di quei maghi che già cominciavano a rendersi conto della pericolosità di Voldemort e delle sue idee e cominciavano ad agire di conseguenza. E Lupin Sr. mi sembrava perfetto per lo scopo! (E poi dando questo compito a lui ho potuto parlare anche di Remus... avrei mai potuto rinunciare a tale opportunità? ^^)
Infine due parole sulla faccenda del Marchio Nero scambiato da Alphard per un drago grassoccio intento a sputare fiamme... a qualcuno potrà sembrare assurda e impossibile questa eventualità, lo so, ma a mia discolpa posso dire che a me è successo proprio così! ^^

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Capitolo 8
*** L'Eleganza del Lupo - prima parte ***



Capitolo Settimo

L'Eleganza del Lupo - (prima parte)




Hogwarts, 26 luglio 1977 A. D.

Il cielo terso di quella lunga notte, che ad Alphard sembrava molto più buia di tutte quelle che aveva vissuto, cominciava a schiarire, mentre le stelle - fuori luogo con la loro luminosità gentile - si spegnevano lentamente.
Il centauro dal manto bruno scrutò assorto Alphard, gli occhi scuri colmi di una strana dolcezza. Una dolcezza che somigliava molto alla compassione.
«Mi dispiace, umano» disse con la sua voce profonda e malinconica. «Non ci sono altri modi. Kyros e Cormiac non ne previdero. Gli astri non lo avevano richiesto».
«Capisco» assicurò il mago.
Il centauro chinò leggermente il capo e, scrollando con energia la folta coda fulva, diede le spalle all'uomo e si addentrò nella Foresta Proibita.
Alphard lo seguì con lo sguardo finché la rigogliosa vegetazione lo inghiottì, poi si accasciò, esausto, su una vecchia panca di pietra erosa dal tempo e dagli elementi e osservò pensoso il lago tingersi dei delicati colori dell'aurora.
Alphard non aveva mai notato la struggente bellezza dell'aurora. Se ne chiese il perché.
Inspirando l'aria fresca e balsamica, si lasciò inebriare dal profumo intenso delle essenze che lo circondavano.
Non aveva mai notato neppure quanto fosse dolce il profumo dei Cespugli Farfallini. Ricordava quello della lavanda. E Alphard amava il profumo della lavanda.
Anzi, no.
Erin amava il profumo della lavanda.
Alphard amava Erin.
Continuava ad amarla, malgrado fosse morta da quasi undici anni.
E malgrado Morrigan.
Ah, Morrigan...
Scuotendo il capo con mestizia, il mago si sfilò il medaglione che portava al collo dal giorno in cui Erin era morta. Osservandolo con attenzione sfiorò la minuscola fenice color corallo che ne occupava il centro.
Non era neppure lontanamente bella e vivida come l'originale, ma lui non aveva saputo fare di meglio.
E da lontano, forse, avrebbe potuto ingannare chi l'aveva vista una sola volta e senza prestarle grande attenzione.
Sospirando, Alphard aprì il medaglione e si concesse il raro lusso di perdersi nella contemplazione del viso di Erin.
Merlino. Ma cosa gli stava succedendo? Da quando era diventato così sentimentale? Probabilmente era una conseguenza del fatto che stava invecchiando.

«Conan ha saputo rispondere alle domande che ti tormentavano, ragazzo mio?» chiese con garbato interesse una voce pacata e gentile.

Alphard sollevò il capo e si guardò attorno, cercandone la fonte.
Albus Silente si stagliava davanti a una cortina di Cespugli Farfallini, sfolgorante nella sua tunica di un turchese acceso, e lo guardava con curiosità.
Alphard non riuscì a trattenere un sogghigno. «Ragazzo?» chiese, scompigliandosi i lunghi capelli neri tra cui si cominciava a scorgere qualche filo d'argento. «Erano anni che nessuno si riferiva più a me usando questo termine, Professor Silente».
Il vecchio si sistemò, con un buffetto disinvolto, gli occhiali dalle lenti a mezzaluna e sorrise. «Oh, questione di punti di vista. Flamel continua imperterrito a chiamarmi giovanotto...»
Ignorando lo stupore di Alphard, Silente gli si avvicinò e si accomodò sulla panca, osservando incuriosito la fotografia racchiusa nel medaglione.
«Ah» disse dopo un momento di silenziosa contemplazione. «Mi sono sempre piaciute le fotografie Babbane. Sono così riposanti. Se ne stanno lì, immobili, lasciandoti tutto il tempo di ammirarle».
Alphard annuì, e non richiuse bruscamente il medaglione come era solito fare quando qualcuno tentava di guardarlo con troppa attenzione.
Un comportamento insolito per lui.
Un po' imbarazzato, prese un respiro profondo e disse: «Conan ha risposto alle mie domande, Professore. E' stato davvero molto gentile, mi ha sorpreso, lo ammetto».
Sorpreso era un eufemismo. Alphard aveva sentito cose inquietanti a riguardo di centauri iracondi e facili all'imbizzarrimento; non si sarebbe mai sognato di chiedere una consulenza a uno di loro, se non fosse stato tanto disperato.
«Conan è sempre gentile, con chi lo tratta con gentilezza» fece notare Silente, scrutando Alphard con quel suo sguardo blu e penetrante che aveva lo sconcertante potere di fare sentire trasparenti. «Ma non mi sembri molto soddisfatto della sua risposta».
Alphard si sfregò le tempie e scosse il capo. «Non per colpa di Conan. Lui è stato davvero molto esauriente. Ora so cosa devo fare, Professore...» abbassò lo sguardo, improvvisamente interessato alle incisioni che decoravano la pietra grigia della panca e mormorò: «Solo che non sono troppo convinto di esserne in grado».
Già. Stava tutto lì, il problema. Non era mai stato particolarmente nobile e coraggioso, lui.
«Capisco» osservò Silente. «Se può aiutare, io penso che tu sia in grado di fare tutto quello che desideri, Alphard» tacque un istante, scrutando il mago più giovane con un lampo di gentile ironia negli occhi. «Tranne, forse, Trasfigurare Walburga in una scopa».
Alphard sussultò, meravigliato. «Se ne ricorda ancora?»
«Certo che sì. Di raro ho avuto il piacere di trovarmi al cospetto di una creatura tanto singolare. Un'acconciatura di indubbia originalità su un corpo morbidamente legnoso. Resti tra noi, ma Walburga non mi è mai parsa tanto affascinante».
Alphard, suo malgrado, non poté evitare di ridere. Erano sorprendenti la pace e la tranquillità che Albus Silente sapeva infondere in chi lo circondava.
Sempre.
Persino quando, quasi cinque anni prima, gli aveva confidato che sì, anche lui aveva il sospetto che a distruggere il treno su cui viaggiava Erin fosse stato Tom Riddle - o qualche suo fedele scagnozzo - e che il drago visto da alcuni dei sopravvissuti doveva essere, in realtà, una proiezione del marchio che Riddle era solito imprimere sull'avambraccio sinistro dei suoi fedelissimi.
E quel sospetto si era poi rivelato fondato.
L'Auror Alastor Moody era riuscito a ottenere una confessione - Alphard non sapeva come, né teneva particolarmente a scoprirlo - a un seguace di Riddle implicato in un losco affare, riguardante una partita di sciarpe impregnate di magia oscura e destinate a negozi Babbani.
Secondo il reo confesso, erano stati davvero Riddle e i suoi sgherri a distruggere quel treno, nel tentativo di convincere Duncan a dare loro la famosa lista con i nomi dei piccoli Nati Babbani. Lista che il povero Duncan non avrebbe potuto consegnare neppure volendo, visto che si trovava già al sicuro, a Hogwarts, tra le mani di Albus Silente.
Così i baldi giovanotti avevano sfogato la loro frustrazione uccidendo Duncan con rari Incantesimi di Fuoco, coinvolgendo anche un treno colmo di Babbani che passava di lì per caso. E, per festeggiare quella strage - involontaria ma gradita - Riddle in persona aveva proiettato, contro il cielo plumbeo di quel pomeriggio autunnale, il marchio con cui contrassegnava i suoi seguaci.
Sfortunatamente nessuno, tranne Silente, aveva creduto a Moody, all'epoca.
Così ora il Marchio di Voldemort compariva sempre più spesso nei cieli britannici.
Quella notte era comparso anche sopra la casa di Alphard.

Annunciato da un improvviso sciabordio, un lungo, pallido tentacolo sbucò fulmineo dalle acque placide del lago, afferrò qualcosa a mezz'aria e si inabissò nuovamente.

«Sembra che per il Calamaro Gigante sia ora di colazione» osservò con tono lieve Silente.
Alphard annuì, affascinato dalla letale rapidità di quell'attacco. «Anche per Felpato sarà...» si azzittì all'improvviso, serrando con forza le dita attorno al freddo sedile di pietra.
Silente gli posò con gentilezza una mano su una spalla. «Mi dispiace per il tuo cane, Alphard».
«Quel Gramo di seconda scelta avrà dato del filo da torcere a quelli, prima di...»
«Oh, sì. Si sarà divertito molto più di loro. E sono fermamente convinto che colui a cui ha strappato il mantello non se la stia passando molto bene, al momento. Un cane coraggioso, il tuo Felpato».
«Già» Alphard sospirò prima di voltarsi a guardare il suo vecchio professore di Trasfigurazione. «Anche quello che dovrei fare io richiede coraggio, Professore. E io, a differenza di Felpato, non sono coraggioso. Non lo sono mai stato».
«No? E cosa te lo fa pensare?»
«Oh, parecchi indizi, in realtà. Come il fatto che ora sto tremando per la paura» ammise, un po' umiliato.
Silente scosse la testa, sorridendo. «Ma la paura è parte del coraggio. Solo i folli non hanno paura. I coraggiosi la vincono. E tu possiedi l'arma più potente per vincerla, Alphard».
Alphard lo guardò confuso, e il vecchio mago indicò con decisione la fotografia contenuta nel medaglione. «L'amore».
«L'amore?» Alphard era sinceramente sconcertato.
«Tu ami. Non c'è dubbio».
Alphard guardò la foto di Erin, ripensò ai suoi nipoti - reali e acquisiti - ripensò a Felpato. «Sì, io amo, Professore... anche se, secondo i miei parenti, non ho mai saputo scegliere i soggetti su cui riversarlo, il mio amore».
Silente sorrise. Un sorriso un po' amaro, insolito per lui. «Come se fosse possibile farlo. Certo, renderebbe tutto molto più semplice, ma purtroppo non è così che funziona. Non siamo noi a scegliere il destinatario del nostro amore, ahi noi. E' l'amore stesso a imporcelo. L'amore. La forza più potente dell'Universo, Alphard. Più potente della paura. Più potente dell'incomprensione e del tradimento... più potente dell'odio. Più potente persino della morte».
«Più potente della morte?»
«Senza ombra di dubbio. Infinitamente più potente. E il fatto stesso che tu porti ancora questo medaglione ne è la prova tangibile».
Alphard guardò il medaglione e dovette ammettere che Silente non aveva tutti i torti.
«Fa paura, però. La morte, intendo».
«Sì. Fa paura. Ma solo perché viene molto sopravvalutata, mio caro ragazzo. E così, a volte, tendiamo a dimenticarci che esistono cose di gran lunga peggiori».
Alphard annuì, cercando di apparire convinto.
Era bravo a simulare convinzione. Ma non era facile ingannare Albus Silente.
Il vecchio mago, infatti, sorrise e, fissandolo negli occhi affermò con serenità: «La morte è parte della vita, Alphard. Non è la morte che deve farci paura».
«Ma è così... definitiva».
«Definitiva? Sì, nel senso che è eterna. Ma non nel senso che è la fine di tutto. La morte, Alphard, è soltanto l'inizio di una nuova avventura».
Alphard cercò qualcosa di intelligente da ribattere.
Insomma, era un uomo di cinquant'anni, ormai. Non era possibile che Albus Silente lo facesse sentire ancora come un ragazzino.
Ma, prima di trovare qualcosa di vagamente accettabile, fu distratto da un canto dolcissimo che placò il dolore e la paura che provava.
Un grosso uccello, di un vivido rosso corallo, girò sopra le loro teste per qualche secondo, continuando quel canto meraviglioso, quindi planò dolcemente posandosi sull'avambraccio di Silente.
Alphard lo osservò deliziato: una fenice. Non ne aveva mai vista una così da vicino; era identica a quella miniata sulla Chiave del Tempo.
«Ah» mormorò Silente, accarezzando con gentilezza il capo della bestiola. «Creature affascinanti le fenici. Tra i loro innumerevoli pregi hanno anche quello di essere più utili di una Ricordella. A proposito di inizio di nuove avventure, ora devo proprio lasciarti, Alphard. Mi devo recare da una famiglia di Babbani per avvisarli che il loro stravagante figlioletto è un mago ed è atteso qui, a Hogwarts, per il primo di settembre. E tu sai quanto può essere complicato convincere i Babbani che esiste la Magia».
Sì, Alphard lo sapeva.
Quando aveva confessato a Erin di essere un mago ci aveva messo del bello e del buono a convincerla che lo era davvero e che no, questo non voleva dire che sapeva togliere conigli bianchi da un cappello.
«Certo, Professore» rispose quindi comprensivo.
«Bene, continueremo il nostro interessante discorso quando ci rivedremo».
«Ah, Professor Silente... non so se ci rivedremo...»
Silente sorrise convinto. «Ma certo che ci rivedremo. Magari non qui e non domani. Ma in un Altro-dove e in Qualche-quando ci rivedremo sicuramente. E allora, entrambi potremo discutere di Amore e di Morte con maggior cognizione di causa».
«Certo, Professore. Ma posso chiederle un favore, in attesa di rincontrarla in... un Altro-dove e in Qualche-quando
Silente annuì, con disponibile curiosità.
«Potrebbe occuparsi della piccola Erin O'Sullivan? Lei è...»
«So benissimo chi è. Tranquillo, è in ottime mani. Incaricherò John Lupin di aumentare le sue visite a Erin, c'è già un certo feeling tra i due. Pare che la piccina si sia messa in testa di insegnargli i rudimenti della lotta».
Alphard rise. Sì, lo sapeva e la cosa lo divertiva molto.


Casa Potter, 26 luglio 1977.

Alphard smontò dalla moto e si guardò attorno, ammirando la casa di pietra  ingentilita da macchie variopinte di fiori.
I Potter erano Purosangue come i Black, ma la loro avita dimora non avrebbe potuto essere più diversa da Grimmauld Place, constatò Alphard, lasciandosi avvolgere dall'atmosfera calda e confortevole che irradiava Casa Potter.
Non aveva mai visto un giardino tanto incantevole.
O forse sì, ma non vi aveva prestato particolare attenzione.
Dal momento in cui si era deciso a fare quello che doveva fare, tutto ciò che lo circondava gli sembrava più bello e degno di ammirazione.
Be', quasi tutto.
Era praticamente certo che Grimmauld Place, con i suoi tetri corridoi stretti e bui e con la sua nutrita collezione di teste di elfi impagliate, rappresentasse la famosa eccezione che confermava la regola.
Sospirando, Alphard si concesse una lunga, languida occhiata alla sua moto, e ne accarezzò amorevolmente la lucida carrozzeria scura.
L'ennesimo addio. Ma, in questo caso, la tristezza era mitigata dalla convinzione che quel gioiellino sarebbe finito in ottime mani.

All'improvviso il silenzio rilassato di quel luogo fu infranto da voci allegre, che esplosero poi in risate trasudanti pura felicità.

Piacevolmente sorpreso, Alphard costeggiò la bassa siepe di agrifoglio che circondava il giardino della casa e, seguendo il sinuoso viottolo di ciottoli bianchi, raggiunse il fiumiciattolo pullulante di creature - magiche e non - che attraversava il grande prato confinante con la dimora dei Potter.
Alphard non era mai riuscito a comprendere quale potente incantesimo riuscisse a tenere lontani i Babbani da quel posto delizioso.
E i Potter si erano sempre rifiutati di rivelarglielo.
Ma Alphard li perdonava.
Gli stavano simpatici i Potter e, inoltre, aveva un enorme debito con loro.
Perché avevano accolto a braccia aperte Sirius quando, un anno prima, il ragazzo aveva deciso di non potere rimandare oltre la sua fuga da casa e - memore del fatto che la capanna della zio Al sarebbe stato il primo luogo in cui lo avrebbero cercato - aveva accettato l'ospitalità offertagli da James Potter.
Al momento Alphard ci era rimasto un po' male, doveva ammetterlo. Ma Sirius aveva fatto la scelta migliore.
Senza contare che, se avesse scelto di trasferirsi da lui, con tutta probabilità quella notte il ragazzo sarebbe stato in casa. Come Felpato. E Alphard non osava neppure immaginare cosa sarebbe potuto succedergli.
Era ancora scosso dai brividi se ripensava a come si era sentito quando, di ritorno dal viaggio nel Lancashire sulle tracce di una Mano della Gloria, si era imbattuto in quel macabro simulacro di un Teschio che illuminava di un verde malato il cielo scuro e terso che sovrastava casa sua.
Fortunatamente, la signora Owen era andata per qualche giorno in visita da una sorella che abitava a Bath, e nessuno degli altri vicini si era fatto male. Le loro memorie erano state prontamente modificate da una squadra di Obliviatori che si trovava già sul posto all'arrivo di Alphard. Ora c'erano alcuni londinesi in più fermamente convinti di avere visto un disco volante. Poco male. Jordan avrebbe offerto loro una buona birra, in cambio del racconto dell'esperienza.
Anche Albus Silente si trovava già sul posto all'arrivo di Alphard. Era entrato in casa con lui, occupandosi di Felpato. Alphard si era guardato attorno, smarrito, notando che non c'era nulla di rotto. Neppure l'acquario di zio Marius. Era vuoto, certo, e i corpicini dei pesci rossi giacevano sul pavimento, come se l'acquario fosse stato distrutto e poi riparato.
E Alphard era sicuro di sapere per merito di chi.
Era stata Morrigan a spedirlo alla ricerca della Mano della Gloria. E ad assicurarsi che ci andasse proprio quella notte. Morrigan sapeva quanto tenesse a quell'acquario, ed era bravissima con l'Incantesimo Reparo...

Urla impazienti si sostituirono alle risate, sovrastando il gentile mormorio del ruscello.

Alphard si riscosse, guardandosi attorno un po' confuso.
Un adolescente allampanato stava in piedi nel ruscello, scrutandone il fondale in silenzio assoluto: le risate allegre e le urla non provenivano certo da lui.
«Ciao!» esclamò Alphard rivolto al ragazzo, riconoscendo in lui uno degli amici di Sirius.
Il nipote parlava spesso di quei tre. Non parlava quasi d'altro, in effetti.
Il ragazzo si voltò di scatto, fissando Alphard, perplesso. Probabilmente lo aveva preso per un Babbano e non si capacitava del saluto.
Alphard gli si avvicinò sorridendo. «Tranquillo, sono Alphard, lo zio di Sirius, non un Babbano che è riuscito a infiltrarsi in un luogo magico. Per oggi non sarai costretto a improvvisarti Obliviatore per modificarmi la memoria».
«Improvvisarmi... ma la Corretta Prassi consiste nel distrarre il Babbano, mentre si convoca un Obliviatore Qualificato dal Ministero, signore».
Alphard sbuffò con noncuranza. «Uh, la Corretta Prassi, sì. Ma tu non sei uno degli amici di Sirius?»
Il ragazzo annuì con decisione.
«Ecco, quindi conoscendo Sirius e avendo udito da lui vari racconti sui suoi amici, tenderei ad escludere che la Corretta Prassi sia in cima alla lista delle tue priorità».
Il ragazzo, vagamente imbarazzato, si sfregò le mani sui jeans scoloriti che portava arrotolati fino sopra alle ginocchia, e Alphard sogghignò. «Appunto. Non è che sapresti dirmi dove trovare Sirius? Dovrei parlargli con una certa urgenza».
Il ragazzo scrutò il cielo e indicò sorridendo un punto poco lontano.
A cavallo delle loro scope, Sirius e il giovane Potter si libravano, con rumorosa allegria, a pochi metri dal suolo, aprendo e chiudendo alternativamente le braccia; tra di loro sfrecciava a gran velocità una palla ovale di un arancione quasi accecante. Un terzo ragazzo osservava i due giocatori stando aggrappato, con tenacia disperata, al manico della scopa; quasi temesse di venire disarcionato da un momento all'altro.
«Peter non ama molto il volo» spiegò, con tollerante simpatia, l'amico di Sirius ancora immerso nel ruscello additando il ragazzo maldestramente abbarbicato alla scopa. «Ma James sostiene che nessun gioco è degno di nota se non lo si può fare su un manico di scopa. Neppure un gioco Babbano. Ma, a quanto pare, quello ha superato la prova...»
Alphard sorrise.
Conosceva il gioco Babbano in questione: un'infernale ovale di plastica che scorreva su due funi provviste di maniglie.
Incomprensibilmente ai Babbani piaceva o, quanto meno, piaceva al fratello maggiore di Jordan che, entusiasta, ne aveva regalato uno a Yuri.
Ma Yuri, trovandolo altamente noioso, faticoso e privo di qualsivoglia scopo, aveva deciso di passarlo con discrezione a Sirius. Che pareva averlo gradito, almeno dopo le varianti aeree apportate dall'estroso James...
Alphard attirò l'attenzione del nipote con un ampio cenno del braccio e, osservandolo divertito mentre piazzava le maniglie del giocattolo fra le mani del riottoso amico non molto amante del volo, chiese al suo improvvisato informatore: «E tu non partecipi al gioco?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non ora. Non mi dispiace volare, ma ora devo...»
«Deve trovare il modo di rendere innocuo il mostriciattolo di Andromeda! E non mi sto riferendo a Ted!». Esclamò con voce allegra Sirius, smontando con un agile balzo dalla scopa.
Alphard inarcò un sopracciglio, chiedendo curioso: «E cosa c'entra l'adorabile bambina di Andromeda con il motivo che tiene questo giovanotto a mollo nel ruscello?»
Sirius scrollò le spalle. «Oggi è l'anniversario di matrimonio di Andromeda e i Potter hanno invitato lei e Ted a festeggiarlo qui. Naturalmente, porteranno anche la loro piccola peste multicolore. E la sola cosa che riesce a tenerla zitta e buona per un tempo vagamente ragionevole è una creatura raccapricciante. Davvero, zio Al, più raccapricciante è la creatura più la piccola peste sta zitta e buona».
Alphard annuì persuaso. Lo aveva notato anche lui.
«Ora» continuò Sirius con assoluta serietà. «Non potendo avere tra noi Bellatrix, siamo costretti a procurarci qualche altro mostriciattolo raccapricciante. E nessuno è più bravo di Remus J. Lupin a catturare mostriciattoli raccapriccianti!»
«Remus J. Lupin» ripetè pensoso Alphard, scrutando con attenzione il ragazzo. «Sei il figlio di John Lupin?»
Remus assentì, scostandosi i capelli castano chiaro dal viso segnato da due vecchie, sottili cicatrici e fissando Alphard con i suoi occhi ambrati. Gli occhi di John, che ad Alphard avevano sempre ricordato l'Whisky Incendiario di miglior qualità.
«Proprio lui, zio Al!» esclamò Sirius, dando una pacca amichevole a Remus. «L'unico ed inimitabile!»
Alphard sorrise, ricordando una surreale conversazione svoltasi più di undici anni prima. «E così ci sei riuscito davvero. Lo hai scovato tra tutti gli studenti di Hogwarts».
Sirius esclamò, oltraggiato: «Ovviamente sì. E non è stato difficile. Mi è bastato cercare il ragazzino elegante come un lupo. Mi dispiace solo di non avere mai portato Remus a Grimmauld Place. Tua sorella e il suo squisito Elfo Domestico avrebbero di certo adorato avere come ospite un Lupo Mannaro».
Remus trasalì, guardando Sirius con addolorata incredulità, quindi si scostò con discrezione da Alphard e, chinato il capo, ritornò a scrutare l'acqua del torrente.
Alphard gli posò con gentilezza una mano su una spalla. «Va tutto bene, Remus. Conosco tuo padre, so cosa ti è successo. E non mi importa. Come non importa a Sirius. Non vedo perché dovrebbe, in effetti».
Remus sollevò di scatto lo sguardo, incredulo. «Non vede perché dovrebbe? Perché sono un mostro, magari. E alla gente non piacciono i mostri».
Sirius sbuffò, scuotendo la testa esasperato. «In genere è una persona ragionevole e accettabilmente intelligente, zio Al. Ma quando si tocca questo particolare argomento diventa irrazionale e cocciuto come un Troll».
Alphard sorrise e indagò: «Un mostro? Non mi pare, Remus. Vediamo, sei un essere umano per la maggior parte del tempo, o sbaglio?»
Il ragazzo scrutò Alphard con sospetto. «No, non sbaglia, evidentemente».
«Evidentemente. Oh, certo, talvolta, gli esseri umani possono essere mostri, sì...»
«Vedi Bellatrix» intervenne con convinzione Sirius.
«Non era esattamente l'esempio che avrei scelto io, ma potrebbe chiarire il concetto, suppongo. Ma tornando a noi Remus... tu, che per la maggior parte del tempo sei un essere umano, per una manciata di ore al mese ti trasformi in un lupo, giusto?»
Il ragazzo annuì mesto e Alphard proseguì: «Che non è affatto un mostro, ma solo un animale. Un nobile animale, tra l'altro. Il lupo è un animale sociale, sai, Remus? Leale al Branco fino alla morte. Cos'ha di mostruoso? Fossi stato, che so... una Manticora Mannara potremmo discuterne. Ma un lupo...»
Remus sbarrò gli occhi e disse: «Ma io sono... non sono... insomma, sono come Greyback! Non mi dirà che Greyback non è un mostro!»
Alphard guardò con serietà il ragazzo e annuì. «Sì, oh sì, Greyback è un mostro. Ma non è la licantropia a renderlo tale. Non è il lupo il problema di Greyback. E' l'uomo. E tu non sei Greyback. Ascolta il tuo lupo, Remus, non umiliarlo come fa Greyback... ma arricchiscilo con la tua coscienza di uomo - impedendogli di agire quando, per quella famosa manciata di ore al mese, tale coscienza è offuscata - e non sarai un mostro, ma un uomo con qualcosa in più: un uomo con l'Eleganza del Lupo».
Remus scosse il capo, sconvolto, incerto... speranzoso. Ad Alphard ricordò Regulus, per certi versi: un ragazzo schiacciato da quello che gli altri si attendevano da lui. Da quello che gli altri avevano già deciso per lui.
«Oh» sbottò Sirius agitando la scopa con impazienza. «Smettila di vederti come una copia di Mocciosus, Remus - un mostro, figuriamoci - e ascolta zio Al! Sfrutta l'Eleganza del Lupo! E concediti alla folta schiera di ragazze che ti insegue perennemente per i corridoi di Hogwarts».
«Sirius, forse ti sfugge il fatto che le ragazze facenti parte di questa - a tuo opinabile parere - folta schiera, mi inseguono solo perché interessate a scoprire i segreti più reconditi delle Rune Antiche» rispose Remus, con la rassegnazione normalmente riservata a un argomento tanto ricorrente quanto molesto.
«Questo lo pensi tu. Ma sicuramente qualcuna di loro sarà attratta dall'Eleganza del Lupo».
«Non credo. Le ragazze, Sirius, tendono a preferire l'uomo che, nelle notti di Plenilunio, le porta a fare romantiche passeggiate in riva al lago, a quello che, nella medesima situazione, tenta di sbranarle. Strane creature le ragazze, vero?»
«Oh che siano strane è poco ma sicuro... ma, a parte il fatto che non capisco la necessità di informarle del tuo piccolo problema peloso, sono certo che qualcuna a cui piaceresti in tutto il tuo lupesco splendore c'è, fammi solo pensare...»
Scrollando le spalle, Remus tornò a concentrarsi sul torrente.
All'improvviso scattò, rapido e silenzioso, immergendo il braccio destro nell'acqua e afferrando una piccola creatura di un verde grigiastro che si agitava oltraggiata.
Alphard lo guardò a occhi sgranati, sorpreso da quella dimostrazione di inumana velocità che gli riportò alla mente la letale tattica predatoria del Calamaro Gigante.
«Sì, zio Al» intervenne Sirius, assestandogli qualche colpetto comprensivo su una spalla. «E' un po' inquietante quando fa così, me ne rendo conto. Ma ha un suo oscuro fascino, secondo me. Vedi cosa intendo per Eleganza del Lupo? A qualche ragazza sicuramente piacerà, devo solo...»
Remus alzò gli occhi al cielo e borbottò. «Sirius, invece di cercarmi una ragazza, perché non mi cerchi un recipiente per metterci questo Avvincino? Alla piccola Ninfadora piacerà di sicuro».
Sirius si diede una leggera pacca sulla fronte ed esclamò trionfante: «Ecco! La figlia di Andromeda! A lei piaci!»
Remus scosse la testa, esasperato, aumentando la stretta sull'Avvincino che tentava di scappare. «Be', tralasciando il fatto che non è a conoscenza del mio piccolo problema peloso, sai che a Ninfadora piacciono i mostri. Come hai già notato: più sono raccapriccianti più le piacciono. E poi non fa testo. E' una bambina! E a me non piacciono le bambine. Sono un Lupo Mannaro, mica un Orco. Non confondiamo i mostri, per cortesia!»
Sirius si strinse nella spalle e sbuffò: «Fa' come vuoi. Ma, per l'amore di Circe, smettila di chiamarla Ninfadora! O ti farà vedere lei chi è il mostro tra voi due...»
Remus gemette, tenendo a bada l'Avvincino che tentava di liberarsi artigliandogli il polso con le sue lunghe dita sottili. «Possiamo parlarne dopo avere trovato un recipiente?»
Alphard decise di interrompere il vivace scambio di battute: «Se permettete ci penserei io. Ho il contenitore adatto».
Agitò la bacchetta e l'acquario di zio Marius si materializzò in riva al torrente, proprio accanto a Remus che, con estremo sollievo, vi ripose l'agitato mostriciattolo.
«Bene» esclamò poi soddisfatto. «Ora dobbiamo solo trovare un coperchio o qualcosa del genere...»
«Non serve» assicurò Alphard. «Quell'acquario è incantato, Remus. Nulla può uscirvi. Né acqua né creature».
Sirius sogghignò spiegando: «Zio Al ha dovuto ingegnarsi parecchio con quell'acquario. Felpato non gli ha lasciato scelta. O quello o la dilapidazione dell'intero patrimonio in acquisto di pesci rossi. Un momento... se hai evocato l'acquario vuol dire che sei rimasto senza pesci rossi. L'ennesima strage ittica? Felpato è entrato di nuovo in una fase particolarmente creativa caratterizzata da grandi spostamenti di mobili, peonie e simili? Potevi portarlo però. I miei amici avrebbero fatto volentieri la sua conoscenza. Sanno tutto di Felpato».
Alphard abbozzò un sorriso. «Immagino, ma... no, non l'ho portato con me, lui...» si sfregò la fronte, incerto. Sirius era così allegro, in quel momento. Le brutte notizie potevano sicuramente attendere ancora un po', decise e, sbirciando l'orologio mormorò. «Lui mi sta aspettando, Sirius. Anzi, è proprio ora che vada».
«Ma non ti fermi per festeggiare con Andromeda?» esclamò il nipote deluso.
«No, proprio non posso. Ho un impegno che non può essere rimandato. Ho già parlato con Andromeda... e Felpato mi aspetta ma, prima di raggiungerlo, volevo chiederti un favore. Potresti prenderti cura della mia moto?»
Sirius annuì entusiasta. Un lampo di inequivocabile felicità negli occhi grigi. «Ma certamente! Sarà un vero piacere, Zio Al! Non preoccuparti, la tratterò con la stessa attenzione con cui la tratteresti tu».
«Non ne dubito, Sirius. Sai, non vorrei che finisse in mani sbagliate. Sembra che parecchi maghi stiano sviluppando un odio irrazionale per tutto ciò che riguarda i Babbani».
«Uff, lo so, zio» sbuffò Sirius con vago disgusto. «Prima della fine dell'anno scolastico, a Hogwarts girava voce che fosse prossima una rivolta di Babbani decisi a rubarci la magia. Gli studenti più idioti cominciano a guardare i Nati Babbani con lo stesso sguardo preoccupato che si dovrebbe riservare a un Ungaro Spinato».
«Colpa della politica insensata di Voldemort» disse Remus, picchiettando sul vetro dell'acquario e osservando distratto le reazioni dell'Avvincino.
«Già» concordò Sirius con decisione. «La politica di Voldemort non sta rendendo la vita facile ai Nati Babbani. James è furioso, per via di Lily... ma...» guardò con tristezza l'amico. «I licantropi li tratta meglio Voldemort del Ministero».
Remus gemette con stanca esasperazione. «Per l'ultima volta, Sirius: non mi importa di come Voldemort tratta i licantropi. Io la mia scelta l'ho già fatta. Sto con voi. Sto con Lily. Sto con Silente».

Una voce acuta e impaurita richiamò Sirius a gran voce, implorandolo di tornare a giocare.

Alphard scoccò una rapida occhiata a Peter e James che, volteggiando sopra la sua testa, ancora si lanciavano - o meglio, tentavano di lanciarsi, perché Peter sembrava in enorme difficoltà - l'ovale arancione.
«Lo so, Remus. Ma se tu cambiassi idea io ti capirei. Davvero. E non potrei biasimarti» affermò Sirius con serietà, quindi, dopo avere salutato Alphard assicurandogli che la sua moto sarebbe stata in buone mani, inforcò la scopa e raggiunse James. Con gran sollievo del povero Peter.
«Io non cambierò idea» sillabò ostinato Remus, uscendo dal torrente e srotolandosi i jeans. «Non mi interessa se questa società non ha simpatia per quelli come me. E non mi interessa nemmeno se Voldemort ha promesso diritti e dignità ai licantropi» guardò Alphard con una maturità sorprendente per un ragazzo di quella età. «Non potrei mai tradire i miei amici. Non per una cosa... meschina come il mio benessere personale».
Alphard annuì. «Ti credo Remus. E' la parte più nobile dell'Eleganza del Lupo, questa: pensare prima al Branco che a te stesso».
Remus lo guardò sorpreso, poi scosse il capo. «Pare che a Sirius questa parte sfugga. Lo ha sentito: se mi aggregassi a Voldemort mi capirebbe».
«Sirius può essere molto comprensivo con chi si ribella a chi lo mortifica e non lo accetta per quello che è, Remus. E' inevitabile, credo, visto il suo passato».
Remus annuì. «Sì, questo posso capirlo. Ma quello che mi preoccupa è che, se per qualsiasi motivo - sotto Imperio, magari - io dovessi davvero tradirli, Sirius non lo direbbe a nessuno. Ho paura che cercherebbe comunque di proteggermi...»
«Be', ora tu fai parte del suo Branco. Un Branco che lo accetta per quello che è. Forse non è indispensabile essere un licantropo per possedere l'Eleganza del Lupo».
Il ragazzo si accovacciò accanto all'acquario, studiando l'Avvincino che agitava furente i pugnetti e disse, soprappensiero: «No, più che all'Eleganza del Lupo, Sirius è soggetto alla Cocciutaggine del Cane».
«Come?»
Remus si riscosse, balzò in piedi e, abbassando lo sguardo si strinse nelle spalle. «Be'... lui è molto affezionato a Felpato. Ne parla spesso... così... pensavo che, magari, c'è una certa affinità tra i due».
«Ah, ecco. Potrebbe essere, sì».
Remus sorrise e indicò l'acquario. «Signor Black, mi chiedevo: quando posso riportarle l'acquario?».
«Non devi riportarmelo. Tienilo pure. Un regalo da parte dello zio Al».
Preso da un'improvvisa ispirazione, Alphard agitò la bacchetta, evocando un libricino rilegato in pelle dall'aria molto antica: il diario di Althea.
Non voleva cancellare per sempre la prova dell'esistenza delle Chiavi del Tempo. E dubitando che Andromeda - sempre più felice e innamorata di Ted - decidesse mai di indagare sul suo misterioso regalo di nozze, aveva pensato di lasciare il diario alla piccola Erin. Nella speranza che, una volta a Hogwarts, venisse folgorata da una passione incontenibile per le Rune Antiche. Anche se, conoscendo Erin, non gli sembrava molto probabile.
Ma ora, forse, aveva trovato una soluzione molto più sensata.
«Mi pare di aver capito che tu te la cavi bene in Rune Antiche, Remus».
«Abbastanza, sì».
«Allora vorrei tenessi anche questo».
Il ragazzo prese il libricino, sfogliando le prime pagine con estrema attenzione. «Un antico diario? Ma cosa c'entrano le Rune?»
«Oh, la parte più interessante è scritta con caratteri runici. Fossi in te comincerei a leggere proprio da lì. Sempre ammesso che tu non sia interessato a preparare deliziosi dolcetti al miele. O a conquistare un ritroso Grifondoro dagli irresistibili occhi da randagio».
Remus inarcò un sopracciglio. «Non mi dispiacerebbero dei deliziosi dolcetti al miele... ma credo proprio che salterò la faccenda del corteggiamento al randagio Grifondoro».
Alphard rise, sorprendendosi di esserne ancora capace.
Gli aveva fatto bene parlare un po' con quei ragazzi. L'Eleganza del Lupo... e la Cocciutaggine del Cane erano stati salutari per lui, almeno quanto il Canto della Fenice.
«Signor Black» lo richiamò il ragazzo chiudendo il diario. «C'è qualche cosa che posso fare per sdebitarmi? Sì, insomma.. per l'acquario e il diario».
«Uhm, sì, una cosa ci sarebbe: smettila di chiamarmi signor Black. Mio padre era il signor Black. Mio fratello e mio cognato lo sono. Io no. Io sono solo Alphard, se zio Al ti sembra troppo».
Remus annuì compunto e indicò i tre ragazzi ancora immersi nell'entusiasmante gioco Babbano riveduto e corretto. «Vuole che li chiami per salutarla? Tanto tra non molto dovranno comunque smettere di giocare. Sta arrivando una tempesta».
Alphard scrutò con attenzione i minacciosi nuvoloni neri che si addensavano all'orizzonte e scosse il capo. «No, Remus, lasciali giocare finché possono. Anzi, raggiungili anche tu. Divertitevi, prima che arrivi la... Tempesta».
Sorrise mesto al ragazzo e, dopo avere salutato con un cenno della mano i tre giocatori, si Smaterializzò.


Ed eccoci arrivati all'ottava tappa del nosto Viaggio.
Una tappa lunghissima che ho necessariamente dovuto dividere in due parti (il sito, sfiancato dalla mia logorrea dirompente, non voleva saperne di caricarmi il capitolo intero...) fortunatamente la cosa è fattibile e non è troppo "traumatica". ^^
Sono molto affezionata a questo capitolo, perché compare Silente e irrompono i Malandrini.
A tal proposito, tenuto conto che adoro Silente e reputo la Storia dei Malandrini la trovata più incantevole di J.K. Rowling, spero di essere riuscita a "trattare" questi personaggi in maniera il più imparziale possibile senza farli andare troppo OC.
Angolino "Note di Servizio":
Non so se Alphard avesse frequentato i Potter e/o conosciuto i Malandrini. Né se i Malandrini avessero avuto rapporti con Andromeda e famiglia... ma tutto sommato, visto la particolare storia di Sirius, mi è sembrato plausibile. In fondo Andromeda e Alphard sembrano essere gli unici parenti che il Sirius adulto considera accettabili, e i Malandrini... be', sono i Malandrini, quindi mi sembrava plausibile che il "Branco" di Sirius si fosse incontrato, in qualche situazione. O quanto meno non impossibile.
Il giocattolo Babbano che James ha reso più eccitante usandolo a cavalcioni di una scopa non è una mia invenzione. Esiste davvero, il suo nome è "Going" e nella seconda metà degli anni settanta era parecchio popolare. Mio zio ne conserva tutt'ora un esemplare - trattato come una reliquia - in cantina e ogni estate propone a qualche sventurato di giocarci un po'. Personalmente la penso come Yuri:  è noioso, faticoso e privo di qualsivoglia scopo. In genere lascio ad altri il dubbio piacere di farsi massacrare allegramente le nocche da quell'affare. Certo, se si riuscisse a utilizzarlo stando a cavalcioni di una scopa volante potrei anche ricredermi... forse. ;-)

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Capitolo 9
*** L'Eleganza del Lupo - seconda parte ***


Capitolo Settimo

L'Eleganza del Lupo - (seconda parte)



Ministero della Magia, 26 luglio 1977.


La faceva facile Silente, con quella faccenda del dominare la paura.
Alphard ci stava provando. Davvero. Ma non gli sembrava di riuscirci granché bene.
Non che avesse importanza, naturalmente.
Sapeva cosa doveva fare, e - paura o meno - non si sarebbe tirato indietro.
Il centauro dai capelli fulvi era stato chiaro: non c'era modo di distruggere una Chiave del Tempo. Poteva solo essere danneggiata durante l'uso. E non era nemmeno ben chiaro come o perché accadesse.
Secondo la teoria di Kyros aveva qualcosa a che fare con l'Equilibrio.
Secondo quella di Cormiac, sentimentale come tutti gli umani a parere del centauro, con l'Amore.
E Alphard non poteva proprio permettersi di gingillarsi con intriganti quesiti filosofici, al momento.
Riddle voleva la Chiave del Tempo. E la voleva subito.
La voleva dall'istante in cui si era imbattuto - solo Merlino sapeva come - in una decrepita pergamena, risalente all'epoca romana, vergata da Aulo Valerio Corvino in persona. E Morrigan, da fedele seguace qual'era, aveva pensato bene di rivelargli che il fortunato possessore di tale leggendario manufatto era Alphard Black.
Non trovando particolarmente saggio mettere nelle mani di quell'esaltato di Riddle un oggetto di simile potere, Alphard, prontamente contattato dall'esaltato in persona, aveva risposto al cortese invito con un deciso rifiuto.
Deciso rifiuto che, dopo avere provocato la morte di Felpato, avrebbe potuto causare guai seri anche ad Andromeda, attuale - per quanto inconsapevole - Custode della Chiave del Tempo.
Quindi Alphard non aveva scelta: doveva ignorare la paura che gli strisciava gelida lungo la spina dorsale e agire. Doveva pensare alla salvezza del Branco prima che alla propria. Se solo fosse stato dotato dell'Eleganza del Lupo...
Sospirando, il mago strinse nella mano destra la Chiave del Tempo danneggiata, guardando scettico la piccola fenice che vi aveva miniato nel tentativo di renderla uguale a quella funzionante e, prima di poterci ripensare, varcò con decisione la porta scura che aveva di fronte.
La stanza era vuota, ancora. Era il primo a essersi presentato a quell'irrinunciabile appuntamento.
Ci aveva sperato quando aveva proposto di incontrarsi in quel luogo, sostenendo che nessuno li avrebbe disturbati, lì. Il che era anche vero - quella particolare sezione del Ministero non era molto frequentata - ma il motivo che aveva spinto Alphard a scegliere proprio quella stanza era un altro.
Scese rapido le scalinate di pietra situate lungo i quattro lati del locale e si fermò davanti alla pedana rocciosa che si trovava al centro, osservando inquieto l'antico portale che la sovrastava.
Sembrava così innocuo, constatò fissando la consunta tenda nera che - sventolando al soffio impetuoso di un vento inesistente - velava l'antico arco ogivale.
Voci flebili provenivano da oltre quel velo spettrale. Mormoravano frasi lamentose che Alphard non riuscì a decifrare, forse perché distratto da una voce arrogante che conosceva fin troppo bene.

«Alla fine sei venuto, dunque, Black».

Alphard si voltò lentamente, non scostandosi dalla pedana, e scrutò il nuovo venuto.
Tom Riddle - o la parodia di se stesso che era diventato - se ne stava in piedi, sulla gradinata più alta, circondato da una manciata di uomini avvolti in lunghi mantelli neri dotati di cappuccio. In luglio.
Alphard li trovò quasi comici: un nugolo di grotteschi pipistrelloni accaldati che circondava il suo pallido capobranco. Ammesso che i pipistrelli avessero un capobranco, certo.
«Sono una persona di parola, io, Riddle» esclamò, la voce molto più ferma di quanto avesse sperato.
Riddle abbozzò una smorfia contrariata. «Non chiamarmi Riddle».
«E' il tuo nome. Il marchio della stirpe da cui discendi, Riddle, come altro dovrei chiamarti?»
«Insolente come sempre, vero Black? Va bene, facciamola finita, consegna la Chiave e sarai libero di andartene. Detesto sprecare puro sangue magico e lo sai» disse Riddle, spingendo con energia il pipistrellone più basso che, evidentemente sorpreso, quasi ruzzolò dalle gradinate per poi fermarsi di fronte ad Alphard, avvolgendolo in un inconfondibile effluvio di violetta.
«Morrigan...» mormorò Alphard, osservando le lunghe ciocche bionde che il cappuccio non riusciva a trattenere.
La sua storia con la collega era finita da anni ormai, soffocata dalle opposte idee politiche e - per quanto lo riguardava - dall'amore che continuava a provare per Erin; ma era affezionato a Morrigan, la considerava un'amica e il suo tradimento lo feriva più di quanto fosse disposto ad ammettere.
«Mi dispiace, Alphard» sussurrò lei, allungando una mano tremante verso il medaglione ma fermandosi prima di sfiorarlo. «Mi dispiace per Felpato, davvero. E per i tuoi pesci... l'acquario l'ho sistemato, però. So quanto ci tieni... ma tu non collaboravi, e la Chiave serve a Lord Voldemort. Per fermare Silente».
Alphard guardò incredulo l'ex compagno di scuola. «Vuoi usare la Chiave del Tempo per fermare Silente
«L'astuzia non è un peccato, Black».
«No, ma la stupidità sì! La Chiave del Tempo ti permetterà di tornare indietro solo di vent'anni, Riddle. E non potrai portare nessuno con te. Davvero pensi di essere in grado di eliminare - senza l'entusiasta aiuto dei tuoi fidi scagnozzi - un Albus Silente di vent'anni più giovane? Vorrei proprio assistere alla scena!»
Riddle scosse il capo, all'apparenza divertito. «Bel tentativo, Black. Ma con me non funziona. La pergamena di Aulo non dice nulla del genere. Non pone limiti al potere della Chiave del Tempo. Posso tornare indietro di tutti gli anni che desidero. Posso tornare al tempo in cui Silente era un neonato, ad esempio. E la mia intenzione è proprio quella. Potrei mai non riuscire a sconfiggere un poppante?» concluse con un sorrisetto gelido che lo fece somigliare al Basilisco ritratto in uno dei quadri della Sala Comune dei Serpeverde.
Alphard si strinse nelle spalle, esasperato. «Aulo ignorava parecchie cose, allora. Che altri, venuti dopo di lui, sapevano. Vent'anni, Riddle. Non uno in più. Ho studiato per buona parte della mia vita le Chiavi del Tempo. E non ho motivo di mentire, visto che, comunque, non ti consegnerò mai l'ultimo esemplare rimasto».
Riddle rise. Una risata terribile, fredda e sgradevole che ricordava vagamente il sibilo di un grosso serpente. «E pensi di avere una scelta? Ti facevo più intelligente, Black. Sei da solo contro sette, come pensi di potere evitare di consegnarmi quell'oggetto?»
Alphard sorrise e indicò con un gesto vago il portale alle sue spalle. «Non sono solo. Ho un notevole alleato. Piuttosto che dare a te la Chiave la consegnerò a lui».
Riddle guardò il Portale, spiazzato, e Alphard sogghignò: sospettava che l'ex compagno di scuola non sapesse cosa fosse, in realtà.
Oh, era stato uno studente brillante, Riddle. Probabilmente il più brillante della sua epoca. E il più talentuoso. Ma non aveva mai ritenuto importante documentarsi sulle cose che non lo interessavano; o che riteneva, semplicemente, indegne di lui. E se c'era una cosa che Tom Orvoloson Riddle riteneva indegna di lui era la Morte.
Era ossessionato dalla ricerca di un modo per sconfiggerla - sapeva tutto sulle proprietà del sangue di unicorno e sulla Pietra Filosofale, ad esempio - ma il sondare il mistero della Morte era l'ultimo dei suoi pensieri. Di conseguenza, era probabile che non si fosse mai interessato più di tanto a quel Portale.
Alphard stava giusto godendosi l'incertezza di Riddle, quando uno dei pipistrelloni esclamò con tono saccente: «Sta bluffando, mio Signore. Un oggetto non può essere dato al Portale. Neppure un oggetto speciale come una Chiave del Tempo».
Prima che Riddle potesse fiatare, il pipistrellone saccente scese le gradinate e, tolta da sotto il mantello un'ampollina d'argento, la scagliò oltre il Portale; indicandola con il gesto solenne di un antico druido quando, attraversato il velo, atterrò intatta sul pavimento.
Alphard fischiò sorpreso: «Oh, un mago sapiente. Ma, pare, troppo timido per mostrare la faccia agli estranei. O troppo codardo».
Il pipistrellone si voltò di scatto verso Alphard e, con un gesto sdegnato, si calò il cappuccio.
Alphard trasalì, scorgendo il viso pallido di un adolescente: Merlino, non doveva essere più vecchio di Sirius.
«Non sono un codardo!» esclamò il ragazzo, mentre Alphard scrutava con sconcerto quegli occhi neri, freddi e vuoti: gli occhi privi di speranza di un vecchio disincantato, così sbagliati sul volto liscio di un persona tanto giovane.
«No» concordò Alphard. «Non sei un codardo. E sei un mago sapiente. Ma non sei troppo portato a cogliere le sfumature, pare. Lo so anch'io che nessun oggetto può essere consegnato al Portale. Solo esseri viventi possono attraversarlo. Portando con sé gli oggetti che indossano».
Il ragazzo sgranò gli occhi. Unico tra tutti i presenti ad avere intuito cosa stava per succedere, probabilmente.
«Ma questo vorrebbe dire...»
«Sì. Vorrebbe dire proprio quello».
«E di certo lei non sarà disposto a farlo».
«E perché no? Tu non lo faresti per qualcosa che ritieni di vitale importanza? Non c'è proprio niente al mondo che ti spingerebbe a farlo?»
Il ragazzo ci pensò un istante. Poi annuì, fiero. Un lampo di orgoglio a ravvivare quegli spenti occhi neri. «Lo farei, sì. Per la Causa».
Alphard guardò Riddle, scosse il capo e riportò la sua attenzione sul ragazzo. «Nobile intenzione, figliolo. Ma faresti meglio a cercarti una Causa migliore. Questa non è granché, onestamente».
«Oh, basta con queste assurdità! Tu...» sbottò Riddle indicando Morrigan. «Prendigli quella Chiave e facciamola finita!»
La donna guardò Alphard, esitante, quindi allungò la mano. Alphard gliela bloccò prima che potesse raggiungere il medaglione e, stringendola gentilmente tra la sua, mormorò: «Il consiglio vale anche per te, Morrigan. Cercati una Causa migliore. Riddle non ne vale davvero la pena».
Poi, prima che qualche altro pipistrellone potesse raggiungerlo, Alphard balzò sulla pedana, sbirciò oltre il velo sventolante e, voltandosi verso Riddle e i suoi scagnozzi, sorrise spavaldo; la paura dimenticata, sconfitta. Ammiccò a Riddle e, dopo essersi esibito in un impeccabile inchino - non possedeva l'Eleganza del Lupo ma non vedeva il motivo di dimenticare quella dei Black - varcò con fiera decisione il Portale: pronto ad iniziare la sua Nuova Avventura.

Morrigan sussultò, saltando a sua volta sulla pedana.
Voldemort la degnò di un'occhiata distratta, per poi riconcentrarsi sul Portale, un po' stupito che Black non fosse già ricomparso al di là del velo, come aveva fatto l'ampollina d'argento.
Non riusciva a spiegarsi cosa fosse successo, e detestava le cose che non riusciva a spiegarsi.
Ma una spiegazione c'era di sicuro. Una spiegazione c'era sempre.
Probabilmente Black si stava solo nascondendo dietro al velo. Era sempre stato bravissimo a nascondersi. E a fargli perdere le staffe.
Contrariato, scese velocemente le gradinate. Con un moto di irritata impazienza, scostò il ragazzo che osservava la scena standosene immobile ai piedi della pedana e, spingendo Morrigan oltre il Portale, sibilò aspro: «Raggiungilo e prendigli quella dannata Chiave».
«No!» esclamò il ragazzo, allungando istintivamente una mano nel tentativo di afferrare la donna, ormai svanita oltre il velo.
Voldemort lo guardò inarcando sorpreso un sopracciglio.
«Lei non... quella è una soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, mio Signore» spiegò il ragazzo. «Ma sembra funzionare solo in un senso: se un essere vivente la varca non può più ritornare».
Voldemort fissò il Portale. «Quindi è perduta?» chiese, un'ombra di dispiacere nella voce.
Il ragazzo annuì mesto e Voldemort sbuffò: «Peccato. Un manufatto così prezioso. L'ultima Chiave del Tempo funzionante, perduta per colpa della follia di Alphard Black».
Il ragazzo trasalì lievemente, mentre uno dei maghi incappucciati che erano rimasti sulle gradinate - bloccando quella che sembrava essere la sola via d'uscita - chiese: «Intende vendicarsi sulla sua famiglia, Signore?»
Voldemort ci pensò un istante. Gli sarebbe piaciuto. Oh, sì. Black gli aveva scombinato tutti i piani con quelle sue stupide manie suicide. Aveva sempre avuto una vena melodrammatica, Alphard Black. Fin dai tempi di Hogwarts. Un ragazzino brillante a suo modo, ma indisponente. E Voldemort non aveva mai sopportato le persone indisponenti.
Non gli sembrava però il caso di infierire sulla sua famiglia.
I Black erano maghi Purosangue, e Voldemort detestava sprecare prezioso sangue magico.
Non era colpa dei Black se si erano ritrovati un parente discutibile, dopo tutto. I parenti non si potevano scegliere. Voldemort ne sapeva qualcosa.
No, non avrebbe alzato un dito contro l'Antica Casata dei Black. Alcuni di loro lo servivano con entusiasmo e, in fondo, Alphard Black la sua punizione l'aveva già avuta: era stato sconfitto dalla Morte. Ed era una cosa da deboli cedere alla Morte. Una cosa indegna di un mago. Una cosa che a lui non sarebbe mai successa.
«No, Dolohov. I Black non pagheranno l'insolenza della pecora nera della famiglia. Non ne vedo il motivo».
Dolohov annuì con una certa delusione.
«Anzi» aggiunse Voldemort poco dopo. «Vai da Cygnus e comunicagli che il fratello è morto in un incidente sul lavoro».
Dolohov si strinse nel mantello e fece per uscire. Poi si fermò, pensoso. «Vorranno riavere il corpo, suppongo».
Voldemort sbuffò contrariato, Dolohov era un buon servitore - sebbene come Rintracciatore di piccoli Nati Babbani si fosse rivelato disastroso - ma la fantasia non era davvero il suo forte. «Non se il suddetto incidente sul lavoro fosse stato un Lethifold, ti pare, Dolohov? Black aveva appena ritrovato un manufatto magico di grande potere e, preso dall'entusiasmo, non si è reso conto che a fargli la guardia c'era un Lethifold affamato».
Dolohov assentì convinto e uscì dalla sala.
«Uhm, signore...» balbettò un secondo mago, abbassandosi il cappuccio.
«Sì, Mulciber?»
«Credo che anche Sinister dovrebbe sapere...» il mago deglutì, indicando con un certo imbarazzo il Portale. «Be' di sua figlia...»
Voldemort gemette. Quella stupida donna non gli aveva creato che guai, ultimamente! Non fosse stato per il suo cuore tenero i Mangiamorte sarebbero piombati a casa di Black mentre lui dormiva e, in un modo o nell'altro, quella dannata Chiave del Tempo sarebbe stata sua. Ma forse Mulciber aveva ragione. Era probabile che Sinister si sarebbe accorto della scomparsa della figlia, prima o poi. E Sinister era un utile alleato...
«Va bene. Vai da lui. La donna era con Black. E i Lethifold a guardia del manufatto erano due. Oh, porta con te anche Tiger e Goyle. Certo, solo se abbiamo l'assoluta certezza che Sinister non possegga neppure un chiuahua» concluse, fissando con disprezzo il giovane Tiger che, a capo chino, si dirigeva verso l'uscita zoppicando vistosamente.
Voldemort sospirò abbacchiato: le nuove leve della sua armata non erano certo entusiasmanti. Quell'incapace di Tiger era riuscito a farsi quasi sbranare dal volgare botolo di Black, e neppure l'intervento di Goyle era stato sufficiente per riportare una vittoria. Era dovuto intervenire Dolohov per salvare gli inetti. Forse avrebbe fatto meglio a salvare il cane: si sarebbe sicuramente rivelato più utile di quei due.
Per fortuna il ragazzo dai capelli neri che, aggirato con cautela il portale, stava raccogliendo la piccola ampolla scagliata in precedenza sembrava tutt'altro che deludente.
«Dunque era della morte che tu e Black stavate parlando prima...» chiese Voldemort accostandosi al ragazzo.
«Sì, mio Signore» rispose quello, mettendosi l'ampollina in una tasca della tunica.
«E davvero saresti disposto a morire per la Causa?»
Il ragazzo annuì solenne. «Naturalmente, mio Signore».
Voldemort sogghignò tra sé. Quel ragazzo era tanto ingenuo quanto brillante. Era incredibile quanto fosse disposto a concedere di se stesso per qualche misera briciola di attenzione.
Be', a Voldemort andava benissimo.
«Mi fa piacere saperlo. Perché ho una missione per te».
Il ragazzo sollevò di scatto la testa e lo scrutò con aspettativa.
«Tornerai a Hogwarts, questo settembre».
«Ma...»
«Nessun ma» sì, quel ragazzo aveva stoffa. Non solo non balbettava in sua presenza, ma osava persino discutere. Salvo poi obbedire, naturalmente. «Lo so che avresti preferito servirmi a tempo pieno. Ma uno studente brillante come te ha il dovere di terminare gli studi. E poi mi servi a Hogwarts. Non solo per reclutare gli studenti più talentuosi, ma anche perché dobbiamo trovare il punto debole di Silente. E, tornando a Hogwarts, tu potrai osservarlo da vicino. Sarai i miei occhi e le mie orecchie: sarai la mia Spia, Severus».



Un Altro-dove, Qualche-quando.

Buio.
Alphard non riusciva a pensare ad altro.
La sua Nuova Avventura era decisamente buia.
Ma piacevole, tutto sommato.
Si sentiva bene. Strano, questo sì. Ma bene.
Alzò lo sguardo verso quello che presumeva essere l'alto (non era facile stabilirlo, visto che fluttuava in quel buio innaturale e nessuna superficie solida si trovava sotto i suoi piedi) e scorse un fioco, plumbeo bagliore. E un velo sdrucito che sventolava.
Così era quella la Morte.
Non particolarmente impressionante, a dire il vero.
Piuttosto noiosa, in effetti.
C'era solo buio.
Ci fosse stato almeno silenzio Alphard l'avrebbe trovata riposante, se non altro. Ma quei gemiti lamentosi che lo circondavano erano abbastanza irritanti.
Gli ricordavano le continue, querule lamentele di Walburga: avrebbe fatto volentieri a meno di esserne assordato per l'eternità.
Guardandosi attorno con attenzione, alla ricerca delle fonti di quei lamenti, Alphard si accorse che il buio era meno totale di quanto gli fosse parso in un primo momento.
Si trovava in una specie di pozzo, all'apparenza senza fondo, illuminato soltanto dagli aloni opalescenti di dozzine di fantasmi. Erano loro le fonti dei gemiti lamentosi. I fantasmi. Vagavano privi di pace, intonando pianti rabbiosi e sconsolati, mentre tentavano senza successo di raggiungere il velo sdrucito che sventolava sopra le loro teste.
Quando una di quelle sagome argentee gli si avvicinò, Alphard si ritrasse istintivamente. Non aveva mai sopportato di essere sfiorato da un fantasma: detestava quell'improvvisa sensazione di gelo che l'esperienza comportava.
Ma non sentì nulla questa volta. Ovviamente, realizzò, visto e considerato che era anche lui un fantasma, ora.
Alzò una mano e la fissò sconcertato: era strano come fantasma. Era trasparente, sì, ma non incolore come i fantasmi che lo circondavano. Aveva ancora il suo colorito usuale. Sembrava solo fatto di... vetro, ecco, somigliava a uno di quei personaggi miniati sulle vetrate di alcune Cattedrali Babbane.
Un po' confuso, notò che tra la folla di fantasmi regolamentari si trovava un'altra creatura simile a lui. Le si avvicinò - meravigliandosi di quanto fosse facile muoversi fluttuando senza peso - e il suo cuore perse un battito (insomma, lo avrebbe perso se avesse battuto ancora) quando vide che si trattava di Morrigan.
«Morrigan» la chiamò con dolcezza, sorpreso di non venire avvolto dal familiare effluvio di violetta.
La donna lo guardò confusa, spersa. Nuda.
Alphard aggrottò la fronte, perplesso. Tutti i fantasmi che aveva conosciuto, compresi quelli che vagavano in quel luogo desolato, erano vestiti. Perché Morrigan non lo era?
Dandosi una fugace occhiata scoprì che neppure lui lo era. Strano, non se ne era proprio accorto. Ma, del resto, come avrebbe potuto accorgersene essendo completamente privo del senso del tatto?
«Come si fa a uscire da qui? Chi sono tutti questi fantasmi? Noi non siamo morti, vero?»
Alphard sospirò: «Eh, temo di sì, Morrigan. Abbiamo attraversato il Portale della Morte. Lo sai di cosa si tratta, vero?»
La donna non rispose, fissò titubante il volto del collega e mormorò, mesta. «Mi dispiace, Alphard. Io non pensavo... se solo tu avessi consegnato quella dannata Chiave...»
«Riddle avrebbe avuto un asso in più nella manica per realizzare i suoi folli piani. Una prospettiva non particolarmente auspicabile, a mio modesto parere».
Morrigan strinse i pugni e affermò, rabbiosa. «Mi ha uccisa! E' stato lui a spingermi oltre quel dannato velo! Ma mi vendicherò!»
«Morrigan... sei morta. E i morti non possono fare proprio nessun male a un vivo. Al massimo, quando diventano fantasmi, possono passargli attraverso e fargli provare un'orribile sensazione di gelo. Non è un granché come vendetta...»
«Io mi vendicherò! Non la passerà liscia... vedrai se non mi vendicherò!»
Alphard scosse il capo, fissando assorto il velo che sventolava sopra le loro teste. Quando scorse il fantasma di una donna - che somigliava curiosamente a un tricheco sdentato - fissarlo senza ritegno alcuno, tentò di coprirsi pudico (non che delle mani trasparenti come vetro fossero di grande aiuto) le parti del corpo che non era solito mostrare a chicchessia. Merlino, aveva sempre dato per scontato che i fantasmi raggiungessero, se non la pace eterna, almeno quella dei sensi.

«Wuff».

Un latrato improvviso e familiare lo riscosse, facendogli dimenticare la squisita creatura che, evidentemente delusa da tanta deprecabile pudicizia, aveva raggiunto il fantasma di un energumeno dalla testa rasata intonando con lui, in pregevole duetto, una straziante lamentazione.
Straziante lamentazione a cui Alphard non prestò la dovuta attenzione, impegnato com'era a osservare l'enorme cane dal pelo nero e lucente che si stagliava contro uno stretto passaggio illuminato da una calda luce dorata.
Dopo un momento di sconcerto, Alphard sorrise incredulo. «Felpato?»
Il cane abbaiò, scodinzolando allegro e cominciò a girare forsennatamente in tondo. Faceva sempre così quando voleva essere seguito.
«Vieni, Morrigan. C'è Felpato» disse Alphard, allungando una mano in cerca di quella della donna, ma trovando solo il nulla.
«Vai tu, Alphard. Io rimango qui. Dove potrò vendicarmi di Voldemort! E allontana quello stupido gufo, per favore».
Gufo? Alphard si guardò attorno, ma non scorse nulla di neppure vagamente somigliante a un gufo. Un po' stupito si voltò verso Morrigan e sussultò.
Non era più nuda e colorata. Ora era del lattiginoso color argenteo di tutti i fantasmi e indossava il lungo mantello che portava quando aveva attraversato il Portale.
Felpato abbaiò con la decisione che gli era consona. Si era avvicinato un po' e sembrava contrariato. Alphard sapeva che non era un bene fare contrariare Felpato, così, dopo un'ultima occhiata a Morrigan, scosse il capo e, voltatele le spalle raggiunse il suo adorato Gramo di seconda scelta che lo assalì con entusiasmo. Ridendo, Alphard tentò di allontanarlo, ma non ci mise troppa convinzione: riusciva a sentire la morbidezza del pelo folto del cane, il suo calore, ed era una sensazione davvero straordinaria. Il suo senso del tatto sembrava essere tornato a funzionare. Si chiese come mai.
Prima che potesse darsi una risposta convincente, il botolo, senza tanti complimenti, lo spinse oltre il passaggio, accucciandosi poi appena oltre la soglia ed esibendosi in uno sbadiglio di tutto rispetto.
Alphard, tentando di abituare gli occhi alla luce intensa che illuminava quel luogo, sospirò esasperato: Felpato era sempre Felpato. Anche da morto.
Stava spremendosi le meningi per inventarsi qualche minaccia in grado di convincerlo a seguirlo oltre il passaggio, quando si ritrovò avvolto in un abbraccio morbido e caldo, delicatamente profumato di lavanda. Un abbraccio familiare che lo fece sentire a casa: l'inconfondibile abbraccio di Erin. La sua Erin.
«Benarrivato, amore» le alitò in un orecchio quella voce che aveva sempre avuto il potere di dissolvere gli incubi più cupi. «Ti stavamo aspettando».
Alphard decise di rispondere all'abbraccio, anche se non era proprio sicuro che un personaggio dipinto su una vetrata di una Cattedrale potesse, in realtà. Quando si accorse che la cosa era possibile, sospirò soddisfatto, abbarbicandosi a Erin con il caratteristico stile di un Calamaro Gigante.
«Davvero?» chiese confuso. Non riusciva mai a ragionare molto lucidamente quando Erin gli stava così vicino, del resto.
«Sì, davvero, Alphard Black» borbottò una voce maschile in tono burbero. «E se ti decidessi a mollare Erin per un istante, ti accorgeresti che non siete soli. E magari, recuperando un briciolo di quella decenza che sicuramente mio fratello ti ha insegnato, ti degneresti di rivolgere un saluto anche a noi».
Alphard si sciolse a malincuore dall'abbraccio, sorridendo perso - o ebete, volendo proprio essere sinceri - a Erin, e si voltò nella direzione da cui proveniva la voce burbera.
Un gentiluomo brizzolato se ne stava fermo in piedi a pochi passi di distanza, rassettandosi con vigore l'impeccabile giacca di Tweed.
«Zio Marius!» esclamò Alphard piacevolmente sorpreso, poi, ricordando di essere nudo, tentò, con una rapida mossa strategica, di farsi scudo con il corpo dell'amata. Insomma, un conto era mostrarsi in tutto il suo adamitico splendore a Erin... ma farlo davanti a zio Marius non gli pareva molto indicato.
Nel bel mezzo della manovra, però, si accorse di non essere affatto nudo: indossava i suoi vecchi jeans scoloriti e il suo maglione preferito. Non era bellissimo quel maglione, lo sapeva, ma glielo aveva fatto Erin, dopo un'epica battaglia con ferri e lana, e questo lo rendeva speciale ai suoi occhi.
Sconcertato, si osservò una mano e si rese conto che non era più trasparente. Era una mano quasi normale, certo, forse non aveva la medesima consistenza di quella di un vivo, ma era solida, come quella di Erin, e solida era anche la superficie su cui posavano i suoi piedi...
«Pare proprio che quella specie di canide, specializzato nello sterminio di pregevoli esemplari di Carassius Auratus Auratus*, non se la cavi male come Psicopompo» affermò Marius, sistemandosi gli occhialetti rotondi di metallo dorato che incorniciavano i suoi occhi grigi da Black non regolamentare.
«Psico... cosa?» domandò Alphard confuso, fissando Felpato che sonnecchiava soddisfatto al di là del passaggio.
«Psicopompo**» disse con tono accademico un adolescente che indossava una lunga tunica blu e osservava la scena, gli occhi grigi colmi di curiosità, tenendosi un po' in disparte. «E' così che i vivi definiscono i Traghettatori di Anime. Deriva dal greco, precisamente da Psyche - anima - e Pompos - colui che conduce - esistono diverse figure...»
«Oh, per carità! Ci manca solo una tua lezione di greco antico, Aldebaran!» esclamò una donna bruna dai vivaci occhi grigi avvicinandosi allegra ad Alphard. «E tu non dare corda a questi due, e non preoccuparti per lo psico-coso, lì...»
Alphard sorrise, scrutando prima l'adolescente e poi la donna. «Se lui è Aldebaran, tu devi essere Althea».
«Esattamente!» affermò la donna. «Al primo e Al seconda a rapporto! Aggiungiamoci Marius e direi che davanti ai tuoi occhi hai il meglio dei Black trapassati!»
Alphard ridacchiò. «Ne sono convinto. Ma pensavo che, sia tu che Aldebaran, foste morti ad un'età decisamente più avanzata».
«Infatti» ammise Aldebaran avvicinandosi. «Questo non è l'aspetto che avevamo al momento della morte. Ma quello che avevamo nel momento di massima serenità della nostra vita. Che, per quanto mi riguarda, coincide con il periodo antecedente alla... scomparsa di Arcturus».
«E' anche lui qui?» chiese Alphard, guardandosi attorno con interesse.
«No» sospirò Aldebaran desolato. «Lui non è da nessuna parte. Semplicemente lui non è. E' come se non fosse mai esistito e... chi non è mai esistito non può neppure morire».
Alphard annuì, scosso. E grato per non avere neppure preso in considerazione l'idea di smarrirsi con la Chiave funzionante tra le pieghe del Tempo.
Silente non scherzava affatto quando sosteneva che c'erano cose di gran lunga peggiori della Morte...
«Per me invece» esclamò Althea, sfiorando la schiena di Aldebaran con una carezza gentile. «Il periodo di maggior serenità coincide con l'accalappiamento del mio ritroso consorte».
«Consorte?» chiese Alphard sorpreso. «Nell'Arazzo di famiglia non risulti sposata».
«Certo che no! Ho sposato un Nato Babbano!»
Alphard socchiuse gli occhi, sospettoso. «Ma il tuo nome non è stato cancellato dall'Albero Genealogico. Altri Black...» indicò zio Marius con un gesto secco. «Sono stati rinnegati per molto meno».
Althea si strinse nella spalle. «I miei fieri parenti non hanno ritenuto necessario farlo. Forse erano meno fieri dei Black più recenti o, magari, aspettandosi cose assolutamente turpi da me - una Black dagli occhi grigi smistata a Tassorosso, figuriamoci! - erano già rassegnati al peggio. Certo, non hanno degnato mio marito di grande attenzione, limitandosi a considerarlo come l'ennesimo randagio a cui ho offerto rifugio. E nessun randagio può comparire sull'Arazzo di famiglia, che diamine. Non vi compare neppure nostro figlio che non se ne è mai angustiato più di tanto. Come il padre, del resto. A proposito, ti andrebbe di conoscere il mio ritroso consorte?» chiese la donna indicando con entusiasmo una piccola folla di persone che, tenendosi a rispettosa distanza, lo osservava incuriosita.
Appena Alphard annuì, Althea si diresse verso la piccola folla e, avvicinatasi a un uomo alto e snello, gli afferrò una mano trascinandolo senza tanti complimenti al cospetto del nuovo venuto.
L'uomo sorrise un po' imbarazzato e si presentò: «Piacere, io sono il... uhm... randagio a cui ha offerto rifugio Althea. Conosciuto anche come John Lupin, se può interessare».
«John Lupin» ripetè Alphard, scrutandogli un po' sorpreso gli occhi della stessa sfumatura ambrata del Whisky Incendiario di miglior qualità. «Penso di avere conosciuto un paio di vostri discendenti. Padre e figlio. Non hanno nulla da invidiare ai Black regolamentari, anzi».
Althea e John sorrisero orgogliosi. «Sì, lo sappiamo» disse l'uomo. «Il padre è il primo Lupin dotato di poteri magici da generazioni. Qualche tempo fa sembrava che dovessi venire qui ad accogliere il figlio, ma poi l'allarme è rientrato: il piccolo è sopravvissuto».
«Siete voi a decidere di venire qui a prendere i... nuovi venuti?» chiese Alphard, sbirciando la folla di sconosciuti che si trovava alle spalle di John e Althea.
«No. In genere è il... nuovo venuto medesimo a scegliere» intervenne Erin, prendendogli una mano. «Sei stato tu a convocare noi, Al, ma, nel caso in cui il nuovo venuto sia un bimbo molto piccolo e tutti quelli che lui conosce siano ancora viventi... be', vengono mandate le persone che più potrebbero... tranquillizzarlo».
Alphard annuì. Aveva senso. Prima di saltare oltre il Portale della Morte si era augurato di ritrovare Erin e zio Marius, e di potere finalmente fare la conoscenza di Aldebaran e Althea. Ma questo non spiegava la presenza di John Lupin... o della piccola folla di sconosciuti.
«Capisco. Ma loro?» chiese quindi curioso.
«Oh, giusto, permettici di presentarci» disse un uomo dai lunghi capelli brizzolati, abbandonando il gruppetto e avvicinandosi ad Alphard. «Siamo i Custodi delle Chiavi del Tempo. Ci auto-invitiamo sempre per dare il benvenuto a un collega. Be', per me è la prima volta, a dire il vero... sono Aurelius, il tuo predecessore. Colui che, per sottrarre l'ultima Chiave funzionante alle brame di qualche folle mago animato da assurde manie di grandezza, decise di farne perdere le tracce».
«Oh, capisco... quindi io sono colui che ha fatto naufragare un piano tanto brillante, rischiando di consegnare la Chiave al mago animato da assurde manie di grandezza più folle di tutti i tempi» mormorò Alphard contrito.
Aurelius sorrise. «No! Tu sei colui che ha rimediato al mio non così brillante piano, piuttosto. I creatori delle Chiavi ne sono convinti, per lo meno».
«Oh, ecco» Alphard non era sicuro di condividere l'opinione dei creatori delle Chiavi, ma trovando più saggio tenerlo per sé, evitò di approfondire il discorso e chiese: «Quindi anche John è stato un Custode delle Chiavi?»
John scosse il capo, avvilito, e Aurelius, cingendogli affettuosamente le spalle, spiegò: «No, John non è mai stato un Custode. Non è venuto per accogliere un collega. E' venuto per...»
«Per lei...» concluse John in un sussurro, allungando una mano e sfiorando con malinconia la Chiave danneggiata che Alphard ancora portava al collo. «E' quella che ho distrutto io. Ah... sono stato un tale idiota!»
Althea alzò gli occhi al cielo e arruffò scherzosa i folti capelli chiari del marito. «John, non vorrai ricominciare con questa storia, per il gatto di Merlino!»
«Anche il gatto, ora» gemette una profonda voce maschile proveniente dal gruppo dei Custodi delle Chiavi. «Questa mi mancava. Non l'ho neppure mai avuto un gatto, io!»
Alphard sollevò lo sguardo, incrociando i limpidi occhi verdi di un uomo dai capelli ramati che, stringendosi nelle spalle, mormorò: «Non ho ancora capito perché, ma vengo sempre tirato in mezzo da chiunque. E mi si attribuisce di tutto. Dalla scopa alle mutande. Ho anche dovuto svolgere un'accurata ricerca per sapere cosa fosse quest'ultimo insolito oggetto a me del tutto sconosciuto...»
«Merlino!» lo riprese con decisione una dignitosa signora non più giovanissima. «Stiamo assistendo a un momento ricco di Pathos, se non te ne sei accorto. John ci sta esponendo i suoi personali tormenti... e tu non trovi di meglio da fare che lamentarti per simili assurdità? E un gatto avresti anche potuto prenderlo, tra l'altro».
«No davvero Cliodna. Dovevo allevare il mio cucciolo di drago... come ben sai, visto che lo hai persino sognato...»
La donna gli scoccò un'occhiata sussiegosa. «Fossi in te sarei meno impertinente, ragazzino. Quello era il sogno di una veggente piena di talento, se permetti. Un cucciolo di drago tu lo hai allevato eccome. Arthur Pendragon ti dice nulla?»
«Certo. Non volevo essere impertinente questa volta, Cliodna! Artie era allergico al pelo di gatto. Quindi non avrei potuto tenere entrambi. Ma un paio di mutande avrei anche potuto prenderle in considerazione... c'erano certi spifferi a Camelot...»
Alphard rise. Il famoso Merlino era piuttosto diverso da come se l'era immaginato. Molto meno ascetico, indubbiamente. Ma più simpatico. E anche Cliodna sembrava notevole, non si sarebbe stupito più di tanto se avesse cominciato a sculacciare il grande Mago Merlino lì, davanti a tutti.
Sarebbe anche stato uno spettacolo interessante, a suo modo. Ma al momento Alphard aveva altre ispirazioni. Ricevere qualche spiegazione su cose che gli parevano incomprensibili, per esempio...
«Ma come è possibile che questa sia ancora al mio collo?» chiese stringendo tra le mani la Chiave danneggiata. «Prima io ero nudo. E ora non solo sono vestito - e non con gli abiti che indossavo al momento della mia... morte - ma ho con me anche la Chiave del Tempo».
Una donna alta e sottile, vestita con una tunica dello stesso colore di quella indossata da Aldebaran, si avvicinò lentamente e spiegò: «Prima non avevi ancora fatto la tua Scelta. Eri in bilico tra due Mondi. Ora hai scelto che strada seguire. Hai scelto che aspetto avere, che abiti indossare... da quali persone farti accogliere. E per quanto riguarda la Chiave... be' l'hai portata con te in questo tuo viaggio».
Alphard guardò la donna, stralunato. La riconobbe subito. L'aveva già vista, sulle figurine delle Cioccorane: Cosetta Corvonero in persona.
«Ma Morrigan...» taque, tentando di sbirciare oltre lo stretto passaggio che gli aveva fatto attraversare Felpato.
«Anche lei ha fatto la sua Scelta» affermò Cosetta. «Ha deciso di non proseguire il suo viaggio, di cristallizzarsi nel momento della sua morte; ha deciso di diventare un fantasma».
Alphard si guardò attorno, scorrendo tutti i visi delle persone che più amava, sbirciando Felpato accucciato oltre la soglia.
«Lei non ha avuto nessuno Psicopompo» disse amareggiato.
«Certo che lo ha avuto» spiegò con gentilezza la donna. «Ognuno ha il suo, mandato solo per lui e solo a lui visibile. Ma non tutti lo seguono. Evidentemente lei aveva qualcosa di più importante che l'ha trattenuta di là».
Alphard ci pensò un istante. Il gufo! Era il famoso gufo che lui non era riuscito a scorgere lo Psicopompo di Morrigan. Sospirò e annuì, mesto. «La Vendetta. Morrigan ha scelto la Vendetta».
John sbuffò. «Che scelta stupida. E' una pessima consigliera, la Vendetta. Se non mi fossi intestardito a seguirla, quella Chiave non sarebbe danneggiata».
Alphard annuì, poi aggiunse preoccupato. «C'è un'altra Chiave ancora funzionante, di là. Una sola. Forse avrei fatto meglio a portare qui anche quella».
«No!» tuonò una specie di gigante con barba e capelli biondi, fissando Alphard con penetranti occhi blu. «Aurelius non ti ha mentito affermando che i creatori delle Chiavi sono contenti che tu abbia riportate tra i maghi l'ultima Chiave. Perché è lì che deve stare. Sette Chiavi sono state create. Così ha deciso Kyros, assecondando il volere degli astri. E gli astri non sbagliano mai».
«Per il cavallo di Caligola, Cormiac» sospirò un giovanotto bruno, avviluppato in un'elegante toga romana. «Ora non comincerai a parlare come un centauro, vero? Ti manca solo questo...»
«Impertinente come sempre, Aulo. Ma sono convinto che se quella Chiave esiste ancora c'è un motivo ben preciso. Voluto dal Destino».
Aulo inarcò un sopracciglio, scettico. «Tu stesso mi hai ripetuto per una vita - e parte di una morte – che il Destino si può cambiare».
«Appunto, Aulo. Appunto. Quella Chiave deve restare dov'è proprio perché il Destino si può cambiare!»
John sospirò, guardando mesto la Chiave non più funzionante. «Spero solo che colui che la userà sarà meno idiota di me. E dia la sua preferenza all'Amore piuttosto che all'Odio. Se lo avessi fatto io, avrei potuto riavere i miei genitori».
«Ma si può fare? Davvero si possono riportare in vita i morti?» chiese Alphard guardando con rimpianto Erin.
«No, nulla può riportare in vita i morti» rispose Cormiac con mestizia. «Ma, con una Chiave funzionante, si può tornare al tempo in cui ancora erano vivi e cambiare il loro Destino».
«Io l'ho fatto» affermò Aulo con una certa soddisfazione. «Ho cambiato il Destino di mio padre. Ma Cormiac non ci è riuscito, in effetti...»
Cormiac scosse il capo con amarezza. «Io ho esagerato, temo. Avevo cambiato il Destino di troppi uomini... infrangendo l'Equilibrio che, evidentemente si è ricostituito. Un conto è cambiare il Destino di un'anima o due... un altro è provocare un vero e proprio massiccio esodo di anime».
Althea scosse il capo e batté le mani. «Va bene, discorso interessante, ma perché non parliamo di anime fuggitive dopo avere mostrato ad Alphard la sua nuova dimora?»
«Ah, non è questa?» chiese il mago stupito.
«Ma certo che no! Questa è solo una specie di stazione di scambio, Al!» annunciò allegro zio Marius, dando una pacca affettuosa alla spalla del nipote. «Noi siamo solo il Comitato di Benvenuto, ma molta altra gente aspetta di salutarti di là. Ora ti ci portiamo, vedrai che ti piacerà... è molto più confortevole di qui. Sebbene questo essenziale e luminoso vuoto assoluto abbia un suo fascino, eh...»
E così dicendo si incamminò deciso. Alphard non si mosse però, fissando ostinato lo stretto passaggio che aveva attraversato, ed Erin gli accarezzò gentilmente una guancia. «Cosa succede, Al? Ci hai ripensato? Sei ancora in tempo se vuoi raggiungere Morrigan...»
Alphard la guardò sorpreso. «No! Lei... sono solo dispiaciuto che abbia scelto la Vendetta, Erin... ma non ho nessuna intenzione di cambiare la mia Scelta. Solo... Felpato non viene con noi?»
«Felpato non ha ancora finito il suo lavoro di Psicopompo, suppongo» spiegò Aldebaran. «Sta evidentemente aspettando qualcun altro che attraverserà il Portale della Morte».
Alphard lo guardò stupito. Sapeva che quella stanza, in epoche remote - prima che i Dissennatori accettassero di presidiare Azkaban elargendo il loro temibile bacio come massima pena - veniva probabilmente usata per le esecuzioni dei criminali, ma lui era il primo ad avere attraversato il Portale da secoli, a quanto ne sapeva.
«Accadrà a breve?» chiese curioso.
«Oh, chi può dirlo» rispose Aldebaran stringendosi nelle spalle. «Domani, tra un anno o tra un secolo... non fa differenza per noi. Qui il Tempo non ha molta importanza».
Alphard annuì. E, cingendo le spalle di Erin con un braccio, si incamminò verso la Destinazione Finale.
La sua Nuova Avventura era cominciata e sembrava promettente. Ora doveva solo scovare un luogo confortevole per sedersi, a tempo debito, con Silente e continuare il loro interessante discorso sull'Amore e sulla Morte.
Questa volta il vantaggio sarebbe stato di Alphard. Sarebbe stato lui l'Anziano... ma dubitava che Silente si sarebbe sentito un ragazzino inesperto.
In fondo, pensò inalando il dolce profumo di lavanda di Erin, il suo vecchio professore di Trasfigurazione sapeva già tutto quello che bisognava sapere sull'argomento: la Morte non era affatto la fine di tutto e l'Amore era indubbiamente la forza più potente dell'Universo. Più potente della Paura. Più potente dell'Incomprensione e del Tradimento... più potente dell'Odio. Più potente persino della Morte.


Carassius Auratus Auratus*= nome scientifico del pesce rosso.

Psicopompo**= Come ci ha amabilmente spiegato Aldebaran, prima di venire bruscamente interrotto da Althea, questo parola, derivante dal greco, significa letteralmente "colui che conduce le anime" e, nella mitologia, indicava proprio uno Spirito Guida che traghettava le Anime dal mondo dei Vivi in quello dei Morti.

Ed ecco la seconda parte dell'ottava tappa del nosto Viaggio.
Una parte un po' strana, lo so.
Un po' "fantasy" se vogliamo...
Ma proprio non ho potuto fare a meno di scriverla così!
Alphard ci doveva lasciare, purtroppo. Lo ha deciso la Rowling (e un altro personaggio che adoro va ad aggiungersi alla sempre più folta schiera dei personaggi della Saga con il deprecabile vizio di lasciarci anzitempo) ma, siccome in questo periodo mi son molto affezionata a lui, non ho potuto lasciarlo andare così... ho dovuto descrivere l'inizio della sua Nuova Avventura.
Una Nuova Avventura felice, eh... con Felpato, Erin, zio Marius, Althea, Aldebaran... e tutta l'allegra Ciurma dei Custodi delle Chiavi del Tempo che lo hanno preceduto!
Spero possiate accettare questa piccola deriva "fantasy"... e spero possiate accettare anche il tono "irriverente" con cui viene trattato Voldemort con il suo seguito di pipistrel... ehm... di baldi Mangiamorte nella prima parte del capitolo. Sono pensieri di Alphard, per lo più... questo giustifica l'irriverenza. ;)
Un ultimo accenno per il giovane Piton... l'episodio è collocato nelle vacanze estive tra il suo sesto e settimo anno di Hogwarts, non credo si sappia quando Piton è entrato al servizio di Voldemort, ma credo sia plausibile che all'epoca dei fatti narrati in questo capitolo lo fosse già, tutto sommato. E mi piaceva troppo l'idea di mostrare le due faccie della medaglia: i Malandrini da una parte e Piton dall'altra. E poi, povero Voldemort, vogliamo concedergli una nuova leva dotata di un (bel) po' di cervello? Che diamine... ;)




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Capitolo 10
*** Il licantropo, la strega e l'armadio ***


Capitolo Ottavo

Il licantropo, la strega e l'armadio




Casa Tonks, 5 luglio 1997 A.D.

Uno Schiopodo stizzito.
Quando Ninfadora si arrabbiava aveva il potenziale distruttivo di uno Schiopodo stizzito.
Remus lo sospettava da tempo, per la verità, ma ora la cosa si era palesata in tutta la sua devastante concretezza.
Forse perché anche Andromeda, quando si arrabbiava, aveva il potenziale distruttivo di uno Schiopodo stizzito...
Sospirando, l'uomo osservò mesto i due delicati tavolini travolti dalla vivace reazione di Ninfadora e, sfoderando la bacchetta magica, si accinse a sistemare il vaso di una povera aspidistra, incolpevole vittima dell'altrettanto vivace reazione di Andromeda.
Ted Tonks si alzò dal divano - dal quale aveva assistito impassibile allo scambio di battute tra le congiunte - e si guardò attorno un po' accigliato.
«Lascia» disse, impugnando la bacchetta magica e lanciando un impeccabile Incantesimo Reparo verso una panciuta lampada che, privata del suo fragile cappello di vetro colorato, oscillava silenziosa in un angolo mostrando, impudica, la nuda lampadina. «Ci penso io. Non ci crederai... ma ci sono abituato» concluse, abbozzando un sorriso rassegnato.
«No, ti do volentieri una mano» ribatté Remus, mentre il padre di Tonks fissava i cocci di quello che, fino a pochi istanti prima, era stato un non particolarmente sobrio portaombrelli di ceramica bianca. «In fondo tutto questo è colpa mia».
Ted guardò meditabondo il mago più giovane poi, scuotendo le spalle, lasciò perdere il portaombrelli e dedicò la sua attenzione a un piccolo, grazioso armadio di legno finemente intarsiato, le cui ante di cristallo erano state infrante dallo scontro con il non particolarmente sobrio portaombrelli.
Remus decise di rendersi utile aggiustando un'eterea brocca di vetro soffiato che non aveva avuto miglior sorte delle ante dell'armadio.
Lo faceva davvero volentieri.
La ricomposizione delle povere vittime del cataclisma lo distraeva dalle voci alterate che i pur notevoli muri e la massiccia porta - limitatasi ad emettere un dignitoso gemito di protesta quando la padrona di casa se la era chiusa alle spalle con indiscutibile energia - non riuscivano a contenere del tutto.
E, cosa non meno importante, gli forniva una scusa perfetta per evitare di intavolare con Ted Tonks una chiacchierata che definire spinosa sarebbe stato un eufemismo.
Oh, gli stava simpatico Ted Tonks. Davvero. Da ragazzino lo aveva incontrato diverse volte, e non aveva avuto problemi ad intavolare piacevoli chiacchierate con lui. Anzi...
Ma ora le cose erano un tantino diverse, purtroppo. E una piacevole chiacchierata con Ted Tonks era una pia illusione, al momento.
Remus, in tutta onestà, poteva anche capirlo: quale padre sarebbe stato entusiasta di intavolare una piacevole chiacchierata con il vecchio licantropo spiantato che ne insidiava l'adorata bambina?
Non gli era sembrata un'idea così brillante, infatti, la doppia rivelazione che Tonks, al momento del dessert di una cena che si poteva definire di lavoro, aveva fatto su di lui.
Fino ad allora tutto era stato perfetto: Andromeda e Ted erano dispostissimi a mettere a disposizione la loro casa per ospitare la Passaporta che avrebbe riportato Harry alla Tana. Stavano giusto pianificando i particolari e la tempistica dell'azione, quando Tonks aveva avuto la bella pensata di spiegare che la data  del recupero di Harry non era ancora stata stabilita ma che, di sicuro, non sarebbe stata la notte del plenilunio, per via della licantropia di Remus. Andromeda e Ted erano rimasti un po' scossi, ma avevano reagito meglio di molti altri, Remus doveva ammetterlo. Certo, non avevano mostrato l'inquietante entusiasmo che aveva caratterizzato le reazioni di Sirius e di Ninfadora alla medesima informazione, ma questo a Remus non era dispiaciuto. Tutt'altro. I coniugi Tonks avevano avuto una reazione sensata, e Remus amava le reazioni sensate. Il problema era arrivato con la seconda rivelazione ad effetto fatta da Ninfadora. Quella sì che aveva steso, comprensibilmente a parere di Remus, Andromeda e Ted.
Come era venuto in mente a Ninfadora di definirlo il suo ragazzo? Ragazzo? Già quel termine avrebbe fatto andare di traverso la cena a chiunque, se applicato a un trentasettenne precocemente brizzolato. Il modo in cui Andromeda lo aveva guardato lo aveva fatto sentire un vecchio satiro libidinoso. Abbastanza appropriato, volendo. Solo la creatura coinvolta era sbagliata...
Remus non poteva biasimare la donna, tutto sommato, ma questo non rendeva minore il suo imbarazzo e il suo cocente desiderio di trasfigurarsi seduta stante in... un'aspidistra, magari. Erano carine le aspidistre. E nessuno guardava con disprezzo - o con orrore - un'aspidistra, che lui sapesse...
«Uhm... te la cavi bene con l'Incantesimo Reparo» notò Ted con una certa ammirata sorpresa. «Non è facile riparare una brocca di vetro di Murano senza lasciare segno».
Remus si riscosse, posando con delicatezza la brocca riparata nell'armadio e si strinse nelle spalle. «Ci sono sempre stato abbastanza portato. Per mia fortuna... è utile per un... per uno come me».
Ted socchiuse gli occhi e si chinò per raccogliere un'antica pergamena, guardandosi poi in giro un po' confuso.
«Manca qualcosa all'appello?» chiese Remus, riparando con un colpo di bacchetta ben assestato il portaombrelli di ceramica.
Ted osservò corrucciato il portaombrelli, poi portò la sua attenzione su Remus e annuì. «Sì, il vecchio medaglione che zio Alphard ha regalato ad Andromeda il giorno del nostro matrimonio. Un oggetto... singolare, a mio parere. Andromeda non lo ha mai indossato, che io ricordi, ma ci tiene molto... forse perché è stato l'unico segno di accettazione da parte della sua famiglia» concluse, osservando Remus con una strana espressione.
Remus, un po' imbarazzato da quello sguardo, affondò le mani nelle tasche e dondolò leggermente sui talloni, desiderando sempre più ardentemente di sapersi Trasfigurare in un'aspidistra: avrebbe davvero dovuto prestare più attenzione alle lezioni di Minerva sull'Autotrasfigurazione, invece di perdere tempo con le Rune Antiche...
Quando sentì un insolito scricchiolio provenire da sotto la scarpa destra si accovacciò un po' preoccupato a controllare: a volte si sentiva praticamente coetaneo di Flamel... ma ancora le sue articolazioni non scricchiolavano in quel modo allarmante, di solito.
Infatti, notò rinfrancato, lo scricchiolio era dovuto a una lunga catenella dorata che si era insinuata sotto la sua scarpa. Remus la raccolse e sorrise vittorioso.
«Sai, Ted, credo di avere ritrovato l'ultimo disperso» disse, rimirando sorpreso l'oggetto dorato a cui era attaccata la catenella: un grosso medaglione che, per forma e dimensione, ricordava vagamente un antiquato orologio da taschino; una minuscola fenice di un vivace color corallo ne occupava il centro, sorgendo maestosa da vivide fiamme d'argento, mentre un serpente scuro si snodava, sinuoso, lungo il bordo, formando un perfetto Uroborus.
Gli era familiare quel gingillo.
Lo aveva ammirato innumerevoli volte, accuratamente riprodotto su una delle pagine un po' sgualcite del diario di Althea Black, piacevolmente sorpreso di apprendere che quella che riteneva una leggenda era invece stata una realtà. Del resto, Remus sapeva che spesso le realtà venivano mascherate da leggende per spiegarle - o per nasconderle - a coloro che non potevano comprenderle.
Per i suoi nonni Babbani anche i maghi erano una leggenda. E persino i licantropi...
Con mani un po' malferme, Remus provò ad aprire il medaglione, sgranando gli occhi estasiato quando non ci riuscì.
«No, non si apre» lo avvisò Ted. «Non solo è di un gusto singolare, ma è anche rotto. Pensa che neppure Dora ha mai voluto indossarlo».
Remus sorrise dell'opinione che Ted sembrava avere del gusto della figlia. Poteva anche condividerla. Non che si lamentasse, ma bisognava ammettere che il completino intimo disseminato di draghi - Petardi Cinesi, per la precisione - che si era regalata qualche giorno prima era molto originale, anche se non quanto le mutande con Manticora ringhiante, piazzata in zona tanto strategica quanto delicata, che aveva regalato a lui. Non si vergognava di ammettere che tutto il suo coraggio Grifondoro non era bastato a convincerlo ad indossarle. Aveva sempre sospettato che tale coraggio fosse parecchio sovrastimato, in effetti.
«Alphard ne portava uno simile, sai? Meno appariscente però... non aveva animaletti sgargianti disegnati sopra, se ricordo bene... quando diede quello ad Andromeda lo accompagnò con questa» disse Ted, sventolando la pergamena che aveva appena raccolto. «Un regalo di nozze indubbiamente stravagante. Ma, del resto, zio Alphard era un uomo stravagante, non mi stupisce che anche i suoi doni lo fossero».
Oh, sì. Alphard Black era sicuramente un uomo stravagante - Remus ricordava ancora il suo idealistico discorso sull'Eleganza del Lupo - ma di certo era conscio che quel dono di nozze non era affatto un vecchio medaglione rotto: era una delle due Chiavi del Tempo ancora esistenti all'epoca di Althea. Quella funzionante. E Alphard lo sapeva. Remus non aveva dubbi in proposito. O non gli avrebbe donato quel vecchio diario. I doni di zio Alphard erano molto ragionati. Sapeva perfettamente cosa donare e a chi.
Un po' trasognato, Remus prese la pergamena e cominciò a scorrere rapidamente i segni runici che la ricoprivano.
No, tutto sommato aveva fatto bene a dedicarsi a Rune Antiche.
Certo, sarebbe stato consolatorio potersi Trasfigurare in un'aspidistra, di tanto in tanto... ma potere leggere quella pergamena era di sicuro molto più istruttivo.
L'Incantesimo per azionare la Chiave del Tempo! Quante possibilità gli si spalancavano davanti!
Avrebbe potuto tentare di salvare James; o Sirius; o i suoi genitori... o Silente. Sì, quanto gli sarebbe piaciuto mettere le mani su quel traditore di Piton!
Immerso nei suoi pensieri, Remus trasalì leggermente quando Ted gli prese il medaglione dalle mani e, con un sorriso di sollevata gratitudine, lo ripose nella vetrinetta. «Andromeda si sarebbe arrabbiata molto se il medaglione di zio Alphard fosse andato perso. E non è uno spettacolo edificante Andromeda, quando si arrabbia. Dev'essere il suo retaggio Black... oh, non che mi stia lamentando, sia chiaro. Mi piace così com'è la mia Andromeda, la risposerei immediatamente, che diamine, un po' di fuoco ci vuole in una donna».
Remus annuì, guardando la porta serrata della cucina - l'accesa discussione delle due donne non accennava a placarsi - non poteva dare torto a Ted: un po' di fuoco in una donna piaceva anche a lui.

«Magari questa volta vinceremo» esclamò Ted, lasciandosi cadere sul divano e afferrando un giornale che stava appoggiato a uno dei delicati tavolini appena risanati.

Remus lo guardò pensieroso, riponendo la pergamena nell'armadio e, dopo avere chiuso con delicatezza le antine di cristallo, si avvicinò incerto al divano.
«Be', ci proveremo con tutte le nostre forze» proclamò, cercando di ignorare il soffocante senso di disperazione che lo aveva assalito dal momento in cui Silente era stato ucciso. Si era sentito perso in quel terrificante momento, smarrito. Sbattuto in prima linea, privato della calda, rassicurante presenza del suo comandante, del suo mentore. Si era sentito come quando aveva sei anni e, in una limpida notte di plenilunio, il suo mondo era crollato. Solo Ninfadora riusciva a fargli guardare con speranza al futuro. Quando era con lei, la conquista di un mondo migliore gli sembrava davvero possibile... ma, forse, non era il caso di rendere edotto Ted Tonks sui metodi usati dalla sua bambina per riappacificarlo con il mondo.
«Harry è la nostra speranza» affermò quindi con decisione. Ed era vero. Remus lo sapeva e non solo perché glielo aveva detto Silente.
Ted lo osservò incuriosito prima di aprire il giornale e di fermarsi interessato su una pagina. «Harry? Un nuovo acquisto? Ma sono sicuro che non potrà certo tenere testa a Berkamp» disse convinto. «Me lo sento. Questo è l'anno di quel ragazzo!»
Remus lo scrutò un po' sconcertato. Anche Ninfadora lo sconcertava, a volte. Probabilmente era una caratteristica di famiglia.
«E' un mago di tua conoscenza questo Berkamp, Ted? Non mi pare di averlo conosciuto, ancora. Ma se vuole appoggiare l'Ordine della Fenice è sicuramente il benvenuto».
«L'Ordine...» Ted abbassò lo sguardo, un po' imbarazzato. «No. Ecco, io stavo parlando di...» abbozzò un sorrisetto contrito e concluse in un sussurro: «Calcio. Ma probabilmente tu non saprai neppure cos'è il calcio».
Remus scosse il capo, divertito da quell'uomo biondo e un po' panciuto che, al momento, somigliava tanto a uno scolaretto sorpreso dalla McGranitt in persona mentre tentava di incantare un disegno di Madama Rosmerta in tenuta succinta. «Oh, io so qualcosa sul calcio, invece. Mio padre era un Nato Babbano, Ted. Quando è andato a Hogwarts gli altri ragazzini hanno tentato di convertirlo al Quidditch, naturalmente. E lui si è appassionato velocemente al nuovo sport, diventando un tifoso dei Cannoni di Chudley».
Ted fece una smorfia. «Uh...»
Remus rise: «Già. Ma il calcio è rimasto la sua grande passione. Passione che ha condiviso con me» sorrise al ricordo e, distratto, si sedette accanto a Ted, sbirciando il giornale che questi teneva aperto. «Uno dei miei ricordi d'infanzia più piacevoli riguarda proprio il calcio, sai? Era il 30 di luglio del 1966 - un periodo... complicato, per la mia famiglia - e, allo stadio di Wembley, l'Inghilterra vinse i Mondiali di Calcio. Contro la Germania, 4 a...»
«4 a 2!» concluse Ted, con entusiasmo. «Che partita! Che serata! Chi non se la ricorda... ma tu dovevi essere molto piccolo».
«Avevo sei anni. Ed è curioso che, sia il ricordo più dolce della mia infanzia che quello più amaro, risalgano proprio a quell'anno».
«Quello più amaro?»
Remus scosse il capo e abbozzò un sorriso triste. «Non è importante, adesso. Era una bella serata d'estate, quella della finale. Mancavano un paio di giorni alla luna piena e mio padre sorrideva felice. Erano mesi che non sorrideva felice. Soprattutto se il plenilunio era vicino... forse è per questo che il calcio mi piace quanto il Quidditch».
Ted lo fissò intensamente. «Il plenilunio? Il ricordo più amaro della tua infanzia? Eri già...»
«Sì» rispose secco Remus. Gli occhi di Ted si stavano velando di compassione - succedeva, a volte, quando parlava di quell'argomento con persone particolarmente sensibili - e Remus non sapeva gestirla la compassione. Lo metteva in imbarazzo... tutto sommato preferiva il disprezzo. «Così sei convinto che Berkamp sarà fondamentale per la vittoria del campionato?» chiese quindi a bruciapelo, prima che l'altro uomo potesse approfondire l'argomento.
«Assolutamente sì! Quest'anno il Manchester ci ha fregato... ma il prossimo campionato sarà sicuramente dell'Arsenal!» affermò Ted con assoluta sicurezza, poi squadrò Remus con sospetto. «Di' un po'... non sarai mica un tifoso del Tottenham, tu!».
Remus si affrettò a negare - Ted non aveva reagito con tanto sdegno neppure quando Ninfadora lo aveva informato che quel vecchio, spiantato licantropo era il suo ragazzo - e precisò: «No! Assolutamente no. Papà mi avrebbe disconosciuto in un caso simile! Tifo Arsenal come te. E come lui».
Ted sorrise compiaciuto. «Tuo padre ha dimostrato molto buon senso, nonché un innegabile gusto, nella scelta della squadra del cuore».
«Per quella di calcio sicuramente. Per quella di Quidditch, insomma... ma è stata una scelta obbligata. C'è un motivo ben preciso che lo ha spinto a scegliere quella particolare squadra...»
Ted gemette ed esalò: «Il cannone, suppongo... un simbolo che avvicina i Cannoni e l'Arsenal».
Remus annuì divertito. «Non mi dire che anche tu...»
Ted sospirò affranto. «Eh...» poi si ricompose e, preso un profondo respiro intonò: «And with a cannon on our chest
We play with heart, mind and zest
And we are proud to be Arsenal
In Victory through Harmony». *
Remus rise: Ted Tonks era sicuramente il padre di Ninfadora. Cantava con il medesimo, irresistibile entusiasmo. E con la stessa scarsa intonazione, anche...
«Hai detto bene. Una scelta assolutamente obbligata! Purtroppo non vedo una possibile, prossima vittoria per i Cannoni» affermò Ted mesto quando finì la canzoncina, poi, assestando una manata sulla spalla di Remus, esclamò allegro: «Ma quest'anno l'Arsenal mi darà grandi soddisfazioni. Vedrai se non vinceremo. E, alla fine del campionato, festeggeremo assieme, tu ed io! Davanti a una bella birra di quelle serie... di quelle senza burro, per intenderci!»
Remus annuì, ma chiese titubante: «Pensavo di non piacerti... insomma...»
«Oh, non è che tu non mi piaccia in generale... diciamo che non sei esattamente il genero ideale».
«Genero? Ma io non ho...»
«No, non ancora. Ma ci stai pensando. Oh, non negare! Ho visto come la guardi. E poi, sono sicuro che Dora sia più che decisa ad agire in tal senso. Sì. Ho visto anche come lei guarda te».
Remus tacque e Ted proseguì: «E' identica a sua madre in questo. E io non commetterò di certo l'errore che commise il padre di Andromeda. Tra l'altro non sei neppure il candidato peggiore che ci ha presentato. Anzi... l'ultimo che abbiamo conosciuto aveva una meravigliosa cresta appuntita di un affascinante verde acido, un anello al naso e più che parlare grugniva... ma con grande espressività, eh. Suppongo che i tuoi grugniti non siano particolarmente espressivi».
Remus scosse il capo, avvilito. «No, io... non sono molto bravo con i grugniti, mi dispiace».
«Va bé, sopravviveremo. Seriamente, Remus, non ho nessuna intenzione di perdere la mia bambina... e se questo significa accettare te, lo farò di buon grado. Poteva andare peggio, dopo tutto».
«Già. Potevo avere anche una cresta verde acido e un anello al naso».
«Più che altro potevi essere anche un tifoso del Tottenham...»

«E' inutile, mamma!»

La porta della cucina si spalancò all'improvviso e Ninfadora l'attraversò come una furia, travolgendo la povera aspidistra.
Remus sussultò, osservando affascinato il rosso brillante che caratterizzava i capelli della ragazza: avevano la stessa tonalità della fenice dipinta sulla Chiave del Tempo.
Ted, con un gesto furtivo di bacchetta, sistemò il vaso della pianta.
«Sono robuste le aspidistre» sussurrò divertito. «Le uniche piante che sopravvivono in questa casa. O loro o quelle di plastica».
Remus annuì distratto, osservando un po' intimorito Andromeda che stava varcando la soglia. Sfoggiava la sua solita chioma di un morbido, rassicurante castano, ma non era meno inquietante della figlia. Doveva essere la luce un po' folle che le illuminava lo sguardo, decise Remus, la stessa luce che illuminava, a volte, quello di Sirius...

«Inutile? Oh, no, non credo proprio!» esclamò Andromeda evitando per un soffio uno dei due delicati tavolini per raggiungere la figlia, giunta ormai in prossimità del divano su cui ancora sedeva - ostentando un'invidiabile, olimpica serenità - Ted.

«Be', faresti meglio a crederlo, invece!» assicurò Ninfadora. «Perché questa volta non riuscirai a farmi cambiare idea! Sei riuscita a farmi rinunciare a Manfred! Ma non riuscirai a farmi rinunciare a Remus!»
Remus gemette, cercando istintivamente la bacchetta quando Andromeda lo fulminò con un'occhiata assassina e desiderando più che mai di potersi Trasfigurare in una resistente aspidistra...
«Manfred?» sussurrò poi avvertendo un improvviso attacco di quella che sembrava proprio gelosia. Le aspidistre avevano anche il vantaggio di non soffrire di tali odiosi sentimenti. «Il ragazzo con la cresta verde acida?»
«No» rispose Ted a voce bassissima. «La Manticora di peluches che Ninafadora aveva da piccola. Era ridotta malissimo, faceva anche un po' senso... ma non è stato facile fargliela abbandonare».
«Ah. Una Manticora?».
«Insolito, lo so. Fu un regalo di zio Alphard, nemmeno a parlarne. Tutte le altre bambine impazzivano per creature graziose come gli Unicorni... ma Dora, no».
«Sì, ricordo. A Ninfadora sono sempre piaciuti i mostri».
«Già. Aveva una predilezione per gli Avvincini, a dire il vero... ma pare che peluches di Avvincini non ne esistessero... così si accontentò di Manfred la Manticora».
«Pare che le piacciano anche ora, i mostri» mormorò Remus, sistemando con un colpo di bacchetta il vaso di cristallo appena urtato da Ninfadora.
Ted gli scoccò un'occhiata pensosa, poi si strinse nelle spalle e affermò orgoglioso: «Pare, sì. Ma solo certi tipi di mostri. Quelli meno mostruosi. Infatti non ha mai neppure preso in considerazione un tifoso del Tottenham».

«Oh, no! Ferma lì, signorina!» tuonò Andromeda. «Non abbiamo ancora finito».

«Questo lo dici tu. Io ho finito eccome. Ti ho detto proprio tutto quello che ti dovevo dire e ora me ne vado. Con Remus».
Andromeda le si piazzò minacciosa davanti, le mani sui fianchi. «Se uscirai da quella porta...»
«Cosa? Se uscirò da quella porta cosa, mamma? Mi rinnegherei? Estirperai il mio nome dall'Albero Genealogico per impedirmi di rovinarlo?»
Andromeda vacillò leggermente, come se la figlia l'avesse schiaffeggiata, quindi disse, in un tono diverso, sconfitto: «Ninfadora...»
«Ecco, appunto! Avresti dovuto pensarci prima a preservare la dignità dell'Albero Genealogico! Mi basta un nome tanto assurdo per rovinarlo!»
Così dicendo, Ninfadora afferrò una mano di Remus, baciò fugacemente una guancia al padre e uscì con decisione dalla casa. Travolgendo il portaombrelli non particolarmente sobrio - che, cadendo, finì in mille pezzi - e inciampando nell'antico tappeto persiano.
Remus la sostenne con sicurezza e, ricorrendo a un impeccabile Incantesimo Reparo, sistemò il sinistrato manufatto lanciando poi un sorrisetto timido a Ted che, per motivi a lui incomprensibili, guardava accigliato e triste il portaombrelli riparato.
Prima che potesse sincerarsi di non avere fatto danni nella ristrutturazione, però, Remus venne trascinato bruscamente via da Ninfadora.

*****

Ted osservò mesto il portaombrelli di ceramica decorato da una profusione - francamente eccessiva, a suo parere – di grassocci puttini boccoluti e di opulente ghirlande di frutta.
Ted aveva sempre detestato quel non propriamente sobrio manufatto. Pensava che il posto più adatto per ospitarlo fosse la cantina, ma ad Andromeda sembrava piacere... quindi era stato sistemato in soggiorno in modo che tutti potessero ammirarlo.
Ted aveva tentato in tutti i modi di piazzarlo in postazioni strategiche - vale a dire lungo traiettorie spesso percorse dalla sua distratta bambina - e infatti era stato infranto più volte. Ma mai in modo sufficientemente grave da non poter essere ricomposto con un Reparo ben diretto, purtroppo...
Ma quel giorno ci era andato vicino. Per ben due volte. E per ben due volte Remus Lupin aveva pensato bene di risistemarlo, per Merlino!
Tra tutti i difetti che Andromeda gli aveva immediatamente trovato - Ted non sapeva ancora quali fossero, a dire il vero, ma non dubitava che la moglie ne avesse già scovati almeno una dozzina e che presto li avrebbe minuziosamente illustrati anche a lui - non ci poteva anche essere un assoluto impedimento per l'Incantesimo Reparo?
Sospirando avvilito, il mago distolse l'attenzione dal portaombrelli risanato e la portò sulla moglie.
Aveva un paio di cosette da discutere con lei.
Se Alphard, anni prima, non si fosse imbattuto in un Lethifold affamato, Ted si sarebbe limitato a chiamarlo. Non aveva dubbi che zio Al avrebbe saputo ricondurre alla ragione Andromeda Black ma, non potendo richiamarlo dall'Aldilà, l'ingrato compito sarebbe toccato a lui.
Dopo aver preso un profondo respiro ed essersi preparato alla complicata missione diplomatica che lo attendeva, Ted si alzò dal divano e si avvicinò alla moglie che se ne stava ancora immobile in mezzo alla stanza, scrutando con espressione indecifrabile la porta da cui erano appena usciti Dora e Lupin.
«Dromeda» mormorò con gentilezza.
La donna si riscosse e lo osservò, in attesa. Ted sapeva per esperienza quello che la figlia non aveva ancora capito: l'unico modo per discutere ragionevolmente con Andromeda era quello di mantenere un tono pacato. Se cominciavi ad alzare la voce, potevi dire addio a ogni speranza di farle comprendere i tuoi punti di vista.
«Se n'è andata davvero!» disse la donna, incredula.
«Sì, se n'è andata davvero. Ne dubitavi, forse?»
«Non lo aveva mai fatto! Neppure quando le ho intimato di separarsi da Manfred!»
Ted trattenne un sorriso assolutamente fuori luogo e spiegò con calma: «Non è esattamente la stessa cosa, direi. Oh, non metto in dubbio che Dora fosse affezionata a Manfred... ma sono propenso a credere che quello che la lega a Remus sia di natura un tantino diversa».
«E'... è un Lupo Mannaro, Ted! E' un ibrido! Un mostro!»
«Evidentemente per nostra figlia è solo un uomo. L'uomo che ama».
Andromeda lo guardò incredula. «Ma non può amarlo davvero! Non è... non permetterò a mia figlia di rovinarsi la vita per un... un...»
«Un Abominio? Un essere inferiore? Non vorrei allarmarti, tesoro, ma ti sei resa conto che stai parlando come tuo padre?»
Andromeda sussultò. «Non... la situazione è completamente diversa, Ted! Tu eri solo nato in una famiglia che mio padre riteneva sbagliata! Lui...»
«Lui?»
«Lui è un mostro! La sua semplice vicinanza potrebbe essere devastante per Ninfadora!»
«Mmm, tuo padre pensava la stessa cosa della mia vicinanza. Andromeda, a te piaceva Remus da ragazzino. E lui era già un licantropo all'epoca. Da alcune cose che ha detto, credo che lo sia da quando aveva sei anni».
Andromeda lo guardò allibita. Ted, sicuro di avere scorto un lampo di pena attraversarle lo sguardo, continuò con maggiore serenità d'animo: «Non mi pare abbia mai sbranato nessuno. Non vedo perché dovrebbe cominciare proprio da Dora. Che, permettimi di ricordarti, è un Auror, quindi perfettamente addestrata a fronteggiare ogni genere di situazione».
«Ma lo stare con lui le metterà tutta la società contro!»
«Tutta la società, dici? Non mi pare che i Weasley, o gli altri membri dell'Ordine, abbiano qualcosa da ridire».
«Tutta la società... che conta».
«Oh, ecco. La società che conta... era il medesimo timore che tuo padre aveva quando gli hai presentato me».
«Ma è diverso! Tu... lui...»
Ted inarcò un sopracciglio osservando interessato la moglie. Era davvero curioso di sapere come avrebbe concluso la frase.
Ma la donna non la concluse. Si limitò a sbuffare e ad abbassare la testa.
Un po' dispiaciuto, Ted le scostò i capelli dal viso e disse con dolcezza: «Dora sta facendo esattamente quello che hai fatto tu, tesoro: sta combattendo per potere stare con l'uomo che ama. Non imporle di scegliere tra noi e lui. Non farlo, perché sai quale sarebbe la sua scelta, vero?»
Andromeda annuì mesta. «Parli come zio Al, sai?»
«Ci speravo. Avrebbe dovuto essere lui a farti questo discorsetto, infatti. Ricordi che te lo aveva promesso?»
La donna sospirò avvilita. «Ricordo che aveva detto che se mai mi fossi comportata come mio padre ci avrebbe pensato lui a farmi rinsavire» sollevò lo sguardo, fissando il marito, sconvolta. «E lo stavo facendo, vero? Mi stavo comportando come mio padre».
«Ti stavi comportando in modo abbastanza simile, sì...» convenne Ted con cautela. «Così, ho dovuto pensarci io a farti rinsavire. Ma pare abbia funzionato ugualmente. Sei rinsavita, vero?»
«Sì. Quindi secondo te dovremmo accettare il Mannaro...»
«Remus. Dovremmo accettare Remus, Dromeda. Per non perdere anche Dora. Mi sembra un sacrificio ragionevole. Ovviamente, se il ragazzo...»
«Ragazzo
«Be', ha una decina di anni meno di me, eh... e, visto che io sono nel fiore degli anni, lui non può che definirsi un ragazzo».
Andromeda sorrise divertita, e Ted si sentì al settimo cielo: era la cosa che preferiva, riuscire a fare sorridere Andromeda.
«Giusto. Ma dicevi?»
«Oh, sì, dicevo: ovviamente, se il ragazzo oserà fare del male alla nostra bambina andrò da lui e lo Trasfigurerò in... un'aspidistra, lasciandolo poi in balia di Dora!»
Andromeda lo abbracciò ridendo. «Sì, ti ci vedo proprio».
Ted ricambiò l'abbraccio e chiese: «Mi sembri un po' scettica. Vuoi insinuare che non ne sarei capace?»
Andromeda si scostò leggermente e, scrutando il marito negli occhi, spiegò divertita: «Ti conosco, Ted ma potrei anche concederti il beneficio del dubbio se non ti avessi visto mentre, invece che scagliare lontano gli gnomi che infestano il giardino, tentavi di convincerli a trasferirsi altrove».
«Ah...» l'uomo abbassò lo sguardo, un po' imbarazzato.
«Ma non ti preoccupare. In caso ci andrei io da lui a Trasfigurarlo. Ma non in un'aspidistra, no, sono resistenti le aspidistre. Lo Trasfigurerei in un delicato portaombrelli di ceramica, per lasciarlo poi in balia di Ninfadora».
Ted rise, accarezzando con tenerezza i capelli della moglie, quindi aggiunse: «A proposito di portaombrelli... Remus ha il requisito fondamentale per essere un buon compagno per Dora. Sa eseguire un Incantesimo Reparo praticamente perfetto!»
Andromeda annuì, quindi chiese: «Ma tu credi facciano davvero sul serio?»
«Sì, oh sì. Dora lo guarda come tu guardi me».
«Già... e lui ha per lei lo stesso sguardo ebete - per dirla con Sirius - che tu sfoggi solo quando guardi me».
«Io non ho mai uno sguardo ebete!»
«Uhmf... saresti più credibile se non lo avessi anche adesso, mentre affermi di non averlo, sai?»
«Va be', lasciamo perdere... comunque penso che, visti i peculiari gusti di Dora, ci sarebbe anche potuta andare peggio».
Andromeda squadrò il marito con aria scettica. «Peggio di un Lupo Mannaro? E come? Pensi che avrebbe potuto innamorarsi di un Dissennatore?»
«No. Di un tifoso del Tottenham...»
 

Casa Lupin, 7 luglio 1997 A.D.

Remus inspirò l'aria profumata di pino e di salmastro, tentando di scacciare il fastidioso senso di panico che minacciava seriamente di sopraffarlo.
Erano anni che non si sentiva così nervoso. Probabilmente dalla volta in cui Sirius, James e Peter lo avevano circondato comunicandogli che avevano fatto un'interessante scoperta su di lui. Aveva da poco compiuto dodici anni, all'epoca, e avrebbe tanto voluto sapersi Trasfigurare in un'aspidistra...
Sbirciando impaziente l'orologio che portava al polso, entrò nella piccola radura che usava per Materializzarsi - non era saggio, in quel periodo, non dotare le abitazioni di Incantesimi Anti-Materializzazione - e si preparò ad una snervante attesa: la puntualità non era esattamente la caratteristica più spiccata di Ninfadora... anzi.
Sospirando alzò gli occhi, perdendosi nella contemplazione del cielo terso, illuminato da una minuscola falce di luna crescente.
Sembrava così innocua, al momento, la luna. Così bella e delicata... era quasi impossibile associarla a tutti i problemi che riusciva a causargli.
Un improvviso schiocco lo riscosse dalle sue rimuginazioni e Remus non poté impedirsi di sorridere quando Ninfadora comparve all'improvviso, abbattendo l'unico cespuglio presente nella radura. Aveva un talento innato per abbattere cose, Ninfadora, Remus doveva proprio ammetterlo.
Divertito, le si avvicinò, posandole una mano su una spalla. «Sei riuscita ad arrivare, noto».
Ninfadora sussultò, impugnando istintivamente la bacchetta magica. «Fermo... oh, Remus, sei tu?»
Remus si scostò appena in tempo per evitare che la bacchetta della ragazza gli finisse in un occhio: gli mancava solo di sfoggiare un occhio magico come quello di Malocchio... utile, indubbiamente, ma lui era troppo rispettoso della privacy altrui per poter convivere con un simile ammennicolo. C'erano cose del suo prossimo che, decisamente, preferiva ignorare.
«Certo che sono io. Mi vedi, no?»
«No che non ti vedo. E' buio pesto!»
«Oh» un po' a disagio, il mago prese la mano della ragazza; lui ci vedeva perfettamente, al buio, gli bastava un minimo di luce lunare per vedere come se fosse giorno, e tendeva a dimenticare che per i normali esseri umani non era così.
Tonks esplose nella sua irresistibile, contagiosa risata. «Ora ti riconosco, però. Quegli occhi luminescenti non possono essere che i tuoi! O sei tu, oppure io sto parlando con un grosso gufo. Ma tenderei ad escluderlo. Non sono molto loquaci, i gufi».
Remus annuì, imbarazzato. Non gli piaceva che la gente notasse la stranezza dei suoi occhi. Occhi che riflettevano la luce lunare come quelli del predatore notturno che era.
Distolse rapido lo sguardo, resistendo caparbio quando Tonks gli afferrò il mento tentando di costringerlo a guardarla.
«Non stai cercando di nascondermi i tuoi occhi, vero? Lo sai che mi piacciono. Li trovo anche molto utili. E' comodo riuscire a rintracciarti anche al buio».
Remus sorrise, guardando infine la ragazza. «Ninfadora...»
«Non chiamarmi così, Remus! Come te lo devo dire: il mio nome è Tonks!»
Remus si strinse nelle spalle e chiese: «Allora, pronta per vedere la mia... tana?»
«Certo che sì» affermò lei, afferrando saldamente il braccio dell'uomo. «Sono anni che desidero vedere la tua tana... Sirius ne raccontava meraviglie».
«Sirius era poco attendibile, temo. Quando è venuto a stare a casa mia era reduce da mesi passati in una grotta nei pressi di Hogsmeade e da dodici anni passati ad Azkaban... mentre quando ti parlava dei giorni passati qui era rinchiuso a Grimmauld Place, e credo che quasi ogni posto gli sarebbe sembrato fantastico, confrontato a Grimmauld Place» disse Remus, incamminandosi sul viottolo di terra battuta e lasciandosi guidare dal ritmico rumore della risacca.
Quando sbucò dal folto del bosco, costeggiò l'alta scogliera raggiungendo una casetta a due piani circondata da un minuscolo giardino, trasformatosi, dopo mesi di totale abbandono, in una specie di giungla in miniatura. Poco male, a Remus non erano mai piaciuti i curatissimi giardini all'italiana... era più propenso ad apprezzare boschi incolti, lui.

«Ohi! Buona sera, giovane Lupin!» urlò una voce allegra, subito accompagnata da un sincopato abbaiare. «Speravo proprio di trovarti in casa!»

Remus rivolse un sorrisetto contrito a Ninfadora, quindi dedicò la sua attenzione all'uomo basso e rotondetto che, armato di grossa torcia abbagliante, si stava avvicinando trascinando per il guinzaglio un cagnetto alquanto riottoso.
«Buona sera a lei, signor Peabody. Raspberry...» salutò poi, allungando una carezza distratta al cagnetto che, smesso di abbaiare isterico, aveva cominciato ad annusarlo circospetto. «Posso fare qualcosa per lei?»
L'ometto annuì con convinzione e, frugando in una busta di plastica, estrasse un grosso tomo porgendolo a Remus. «Sì... questa mattina la signorina Gordon è venuta in negozio e ha appoggiato questo sul bancone per prendere il portafoglio. Raspberry, qui, lo ha visto e, con una certa maleducazione, lo ammetto, ha...» aprì il libro mostrando la rilegatura rovinata da un grosso morso. «Tentato di mangiarlo, direi. Visto che tu sei così bravo ad aggiustare libri, mi chiedevo se...»
Remus sorrise, prendendo il libro dalle mani dell'ometto e studiandolo con attenzione. «Sarà un vero piacere signor Peabody... non sia mai che la signorina Gordon non riabbia il suo libro indietro. Sarebbe capace di tutto».
«Eh» Peabody si tolse il berretto scozzese grattandosi pensoso il cranio pelato. «In effetti ha tentato di mordere Raspberry, sai? Ho dovuto rabbonirla con una generosa fetta di torta alla cannella!»
Remus ridacchiò, poi, scorgendo lo sguardo incuriosito di Ninfadora, spiegò: «La signorina Gordon è una deliziosa vecchina, in genere... ma guai a chi osa toccare i suoi libri... mi ricorda un po' Madama Pince, a volte. Fortunatamente le torte alla cannella del signor Peabody hanno il magico potere di rabbonirla».
L'ometto si sfregò il particolarissimo naso a patata, gongolando orgoglioso. «Le mie torte alla cannella rabboniscono un po' tutti, in realtà. Solo il giovane Lupin, qui, non impazzisce per loro. Passi a trovarmi, signorina... sarò ben lieto di fargliene assaggiare una bella fetta. Ora vi saluto, però... Raspberry è stanco... e io non voglio guastare la vostra serata!»
Si sistemò con un gesto enfatico il berretto e ammiccò a Remus, sollevandosi sulla punta dei piedi per affermare con un entusiasmo assolutamente fuori luogo: «E' davvero carina, ragazzo mio, ottima scelta... mi ero un po' preoccupato, un paio di anni fa, vendendoti girare con quel giovanotto bruno e disordinato che litigava sempre con Raspberry, sai?»
Remus trasalì sorpreso - osservando l'ometto che si allontanò fischiettando lungo la scogliera preceduto da un saltellante Raspberry - e si avvicinò al cancelletto di ferro battuto.
«Sirius litigava con Raspberry?» chiese divertita Tonks.
«Sì, lui... non andavano molto d'accordo, diciamo».
«E' un maschio, Raspberry?»
Remus aggrottò la fronte, pensoso. «Credo di sì».
«Credi? Non mi pare così difficile scoprirlo, sai? Basta controllare se...»
«Sì, Ninfadora, so cosa basta controllare. Ma non sono così intimo con Raspberry, quindi non ho mai controllato. Ma, da come si relaziona con la cagnetta della  sarta, direi che è maschio, sì».
«Uhm, potrebbe essere stata una questione di territorialità, allora» stabilì la strega. «E tu non lo fai?»
«Relazionarmi con la cagnetta della sarta?»
Ninfadora sbuffò spazientita. «Litigare con Raspberry!»
«Ah, no».
«Strano... evidentemente Raspberry non ti percepisce come un pericolo. O forse ha solo paura di diventare il piatto forte della tua cena».
Remus sistemò sotto un braccio il libro della signorina Gordon, poi, notando il sorriso malizioso che era apparso sulle labbra di Ninfadora, sospirò aprendo il cancelletto di ferro battuto.
«Non sa cosa si perde però» affermò la ragazza, avviandosi sul vialetto di ciottoli che, attraversando la minuscola giungla privata che circondava la casa di Remus, conduceva alla porta d'ingresso.
«Raspberry?» chiese Remus confuso.
«No, la cagnolina della sarta con cui non ti relazioni, ovviamente!» concluse seria Ninfadora, scompigliando con allegria i capelli del compagno.
Remus scosse il capo un po' contrariato, sussurrò un Alohomora per aprire il portoncino di legno laccato e si scostò, invitando Ninfadora a varcare per prima la soglia.
La ragazza si guardò attorno incuriosita. «E così questa è la tua tana!»
Remus annuì, osservando costernato l'ampio locale in cui si trovavano.
Si era dedicato agli Incantesimi Casalinghi quel giorno. E il pavimento di legno era più lucido di quanto Remus ricordasse fosse mai stato... ma questo non faceva che far risaltare ancora di più il desolante vuoto che caratterizzava la stanza.
Forse non era stata un'idea tanto brillante invitare Ninfadora a casa sua per fare quello che aveva deciso di fare un paio di giorni prima, constatò lasciando correre lo sguardo sugli scatoloni sparsi per il locale.
No, forse sarebbe stato più saggio proporle di incontrarsi altrove, sospettò, osservando l'alta libreria che occupava un'intera parete della stanza e tentava disperatamente di contenere decine di libri che, stipati in ogni buco disponibile, offrivano una visione abbastanza diversa da quella data dall'impeccabile libreria di Casa Tonks.
Sì, concluse, avrebbe davvero dovuto portarla altrove per fare quello che doveva fare... e avrebbe anche dovuto chiedere a Minerva di insegnargli l'Autotrasfigurazione: un'aspidistra ci sarebbe stata d'incanto nella sua minuscola giungla privata.
Sospirando, Remus pensò che sarebbe stato saggio distrarre Ninfadora, interrompendo così il suo attento esame dei dintorni. «E' la casa dei miei genitori, in realtà. Ci siamo trasferiti qui dopo... be', mia madre sosteneva che era il posto ideale per i miei movimentati pleniluni. La casa è dotata di una soffitta spaziosa ed è abbastanza lontana dal paese da evitare ai miei genitori di doversi inventare macabre leggende di case stregate. E poi non ci sono maghi nei paraggi... pare che pochissimi di loro apprezzino l'idea di avermi come vicino».
«L'ho sempre saputo che il buon gusto è scarsamente diffuso tra i maghi» affermò Ninfadora sorridendo convinta. «Mi piace molto la tua casa. Ti assomiglia».
Remus osservò incredulo la ragazza: non doveva avere questa grande opinione di lui, dopo tutto...
«Mi... assomiglia?»
«Assolutamente sì».
«Uhm... un modo carino per dirmi che sono vuoto e desolante?»
La ragazza gli assestò un colpetto scherzoso sul braccio e sbuffò: «Un modo carino per dirti che sei informale e alternativo, Remus, e che non dai importanza a tutti quegli inutili orpelli che interessano a molti».
«A molti...»
«A molti, sì. Cominciando da mia madre».
Remus annuì pensieroso, appoggiando il libro della signorina Gordon su un grosso scatolone ed estraendo la bacchetta magica.
«C'è comunque un motivo preciso per questo arredamento minimale, Remus? Non che mi dispiaccia, eh... ha un suo indubbio fascino ma, ecco, forse manca un po' di praticità».
Remus si bloccò con la bacchetta a mezz'aria e scrutò un po' esitante la ragazza. Sirius gli avrebbe sicuramente suggerito di inventarsi una storia accattivante per giustificare quella bizzarria - tipo l'ispirazione presa da qualche esotica rivista di arredamento - ma Remus decise di essere sincero. Non poteva mentire. Non a Ninfadora. Non mentre stava cercando di trovare il coraggio per chiederle quello che aveva deciso di chiederle.
«Sì, c'è un motivo preciso» disse quindi, scrutandola intensamente. «Legato per lo più alla mia irritante abitudine di dovere mangiare, di tanto in tanto. E con una certa frequenza, anche, ahimè...»
La strega sussultò stupita e Remus si strinse nelle spalle. «E, visto che il Ministero ha deciso di rendermi praticamente impossibile trovare un lavoro... be', mi sono arrangiato come ho potuto».
«Hai venduto i mobili dei tuoi genitori?»
«Già. E ho fatto qualche lavoretto per la gente del paese. Conoscevano mio padre, e hanno deciso di estendere la fiducia che avevano in lui anche a me. E, a tal proposito...» si voltò verso il libro malandato colpendolo delicatamente con la bacchetta magica, quindi lo studiò critico annuendo poi soddisfatto. «Perfetto. La signorina Gordon riavrà il suo libro intatto e io mi godrò uno dei deliziosi dolci del signor Peabody. E' il pasticcere del paese, sai? Con un po' di fortuna mi pagherà con una delle sue deliziose torte al cioccolato».  
Ninfadora scosse il capo un po' esasperata, avvicinandosi alla libreria riempita all'inverosimile. «Questa non l'hai venduta però. E neppure tutti questi libri».
Remus le si avvicinò e sorrise malinconico. «No, non ho mai trovato il coraggio di farlo. In fondo questi libri non hanno un grande valore economico, ma hanno un immenso valore affettivo. Erano dei miei genitori, che amavano i loro libri più di quanto amassero il loro sofà...»
Ninfadora gli accarezzò intenerita un braccio, prima di prendere un grosso volume rilegato in pelle. «“Incantesimi senza Bacchetta” di Caius Charmed».
Remus annuì. «Ottimo manuale. Spiegazioni molto chiare... potrebbe capirle anche un bambino... era di mio padre. Era lui quello affascinato dagli incantesimi più strani. Mamma preferiva documentarsi sulle creature magiche» affermò,  sfiorando con dolcezza il dorso di una vecchia copia molto vissuta di “Lupi Mannari: questi sconosciuti” di Larentia Lupercus.
Ninfadora gli imprigionò la mano e, dopo avere letto il titolo sorrise. «Questo lo conosco! L'ho anch'io! Ed è quasi altrettanto vissuto. Negli ultimi due anni l'avrò letto una trentina di volte...»
Remus la guardò allibito e lei si strinse nelle spalle. «Be'? Un argomento che, ultimamente, mi ha molto affascinata! Avrei davvero voluto conoscere i tuoi genitori...»
«Saresti piaciuta molto a entrambi».
«Davvero? Peccato non poterti dire lo stesso dei miei genitori».
Remus sospirò, avvolgendo la ragazza in un abbraccio. «E' comprensibile la loro reazione... davvero. Mi sarei aspettato anche di peggio».
«Non è comprensibile affatto! Ti hanno trattato malissimo senza che tu gliene dessi motivo! Be', mamma, almeno...» affermò risentita, stringendosi con più energia al mago. «Scusami, non avrei mai dovuto esporti così alle devastanti intemperanze di mia madre!»
Remus sfregò il naso tra i capelli - al momento di un brillante rosa confetto - della ragazza e cercò di trattenere una risata: le intemperanze di Andromeda non erano state le più devastanti di quell'interessante pomeriggio. Ma qualcosa gli suggeriva che non fosse il caso di farlo notare a Ninfadora.
«Non importa» affermò quindi, sciogliendosi gentilmente dall'abbraccio. «Anzi... quella visita mi ha... motivato ad affrontare un certo discorso».
Era vero. Probabilmente non avrebbe mai trovato il coraggio di farle quella sconsiderata proposta se non si fosse imbattuto nella Chiave del Tempo.
Ninfadora sollevò di scatto lo sguardo, i capelli virati a un rosa pallidissimo, e fissò Remus con occhi allarmati. «Ma non... E' per questo che mi hai portato qui, vero? Per dimostrarmi... Ma lo sai che a me non importa! Sei povero! Va bene. Lo sapevo già anche prima di vedere la tua casa deliziosamente minimal! Ora non vorrai ricominciare anche con il troppo vecchio e troppo pericoloso, vero?»
Remus scosse il capo e sorrise intenerito. «No, Ninfadora» ignorò lo sguardo minaccioso della ragazza e proseguì prima che potesse interromperlo. «Ho chiuso con quel ritornello, ormai. Ti ho portata qui per quello, in realtà» disse, indicando il grosso acquario che si trovava al centro della stanza, proprio di fronte al camino, dove una persona normale avrebbe posizionato un divano. O un'aspidistra, magari...
Ninfadora lo scrutò sconcertata e Remus, ridacchiando, la trascinò accanto all'acquario, invitandola a sbirciare all'interno: nell'acqua un po' limacciosa nuotava, placido, un Avvincino solitario che, forse disturbato dalle voci dei due umani, cominciò a battere le mani dalle lunghe dita sottili contro le pareti della sua prigione di vetro.
Ninfadora lo guardò conquistata. «Un Avvincino! Vedi che sei informale e alternativo? Di solito la gente ci tiene creature assolutamente banali in questi affari!»
«Indubbiamente, sì. Ma non ti ho portata qui per ammirare l'Avvincino...»
«No?» Tonks aggrottò la fronte, pensosa. «E allora per cosa? Non vorrai mica cucinarlo per me!»
«Cucinarlo... no! Come ti ho detto siamo qui per parlare».
«Degli Avvincini?»
«No! L'Avvincino è solo... un incoraggiamento per me».
«Un incoraggiamento?»
«Già. Forse tu non te lo ricordi, dato che eri molto piccola, ma il giorno in cui zio Alphard mi regalò questo acquario, io ci misi un Avvincino e te lo mostrai. Eravamo a casa di James era...»
«L'anniversario di nozze dei miei! Sì che me lo ricordo! Era la prima volta che vedevo un Avvincino! L'ho adorato! Ti ho adorato! E' stato proprio in quell'occasione che ho cominciato a trovarti più bello di Sirius!»
«Più bello di Sirius? Io?» Remus inarcò scettico un sopracciglio, quindi scosse il capo, indulgente. «Be', non mi stupisce più di tanto, visto che da bambina tendevi a preferire Manfred la Manticora a un Unicorno... comunque, in quella occasione tu mi promettesti che avresti fatto qualsiasi cosa ti avessi chiesto se ti avessi permesso di tenere l'Avvincino».
Ninfadora rise divertita. «Vero! Mamma non ha gradito molto».
«Infatti. Mi vidi costretto a rifiutare l'allettante proposta. Ma tu mi promettesti che sarebbe stata valida per sempre, così...»
«E lo confermo. E' ancora valida: se mi lascerai tenere l'Avvincino farò qualsiasi cosa tu mi chieda!»
Remus annuì e prese un bel respiro, pronto a cominciare il discorso che si era meticolosamente preparato. Peccato che non ricordasse neppure una parola. Probabilmente, le aspidistre possedevano una memoria migliore della sua...
«Allora? Sto aspettando» lo informò impaziente la strega, picchiettando le dita sulle pareti dell'acquario per attirare l'attenzione dell'Avvincino.
«Sì... sto solo cercando le parole... è... complicato».
«Complicato? E che potrà mai essere? Guarda che se vuoi propormi di addentrarci nottetempo nella dimora della Umbridge per rapirla e portarla in dono ai Centauri puoi anche fare a meno dell'Avvincino!»
«Uh... no... non sarebbe una cattiva idea, ma non è quello che avevo in mente».
«Peccato».
Remus abbozzò un sorriso e si avvicinò nervoso alla finestra, ammirando le luci che punteggiavano la parte bassa della scogliera, quindi si voltò e fissò deciso Ninfadora: in fondo che aveva da perdere? Al massimo gli avrebbe risposto di no...
«Ecco... l'altro giorno, quando sono tornato dalla missione a casa dei tuoi, è venuto Kingsley a trovarmi. E mi ha confidato che le cose stanno precipitando al Ministero».
Tonks annuì mesta. «Lo so. Ormai è quasi totalmente nelle mani dei Mangiamorte».
«Già. Pare che molte restrizioni verranno imposte a... be', a tutte le categorie di persone che non stanno particolarmente simpatiche a Voldemort. E questo significa che ulteriori restrizioni verranno imposte anche a me. Quindi, se non ti proponessi ora questa cosa... temo che non potrei farlo mai più. E, in caso tu accettassi, dovremmo anche fare tutto velocemente e in modo molto... intimo».
Tonks lo osservò incuriosita, poi indicò l'Avvincino che aveva ricominciato a nuotare nell'acquario. «Lo sai già che accetterò».
«Lo dici ora... ma, ammesso che possa andarti bene il sottoscritto, probabilmente ti dispiacerà non potere organizzare le cose come si deve».
«Organizzare le cose come si deve? Per la batteria di Merlino, Remus! Ma di cosa stai parlando?»
«Be'... non so di preciso: invitati, vestiti, damigelle... quelle cose lì, insomma. Bill mi ha confessato che Fleur lo sta facendo ammattire».
La strega sgranò gli occhi incredula e, dimenticato l'Avvincino, si slanciò verso il mago, inciampando in uno scatolone e finendo lunga distesa ai suoi piedi.
Prima che questi potesse reagire, Tonks si alzò in ginocchio scrutandolo strabiliata, gli occhi scuri scintillanti di una felicità assoluta. «Vuoi sposarmi?»
Remus sogghignò, accovacciandosi accanto alla ragazza e scostandole con tenerezza i capelli dal viso, deliziato dalle sfumatura intensa di rosa che presero sotto le sua dita. «Sì. Anche se avrei dovuto essere io a porgere tale fatidica domanda, suppongo».
«Supponi?»
«Suppongo».
«Sei una frana nelle supposizioni, Remus».
«Non è vero! In genere è l'uomo a inginocchiarsi e a porgere la fatidica domanda».
«Forse. Ma in genere l'uomo non porta come dono di fidanzamento un Avvincino...»
«Anche questo è vero. Mi sarebbe piaciuto portarti un più classico anello, ma...» sospirò, stringendosi nelle spalle e abbassando lo sguardo, mortificato.
Ninfadora, gli sollevò il viso cercandone lo sguardo e sussurrò convinta: «Un anello è oltremodo banale, Remus. Vuoi mettere un Avvincino? Molto più adatto a un tipo informale e alternativo come te».
Remus sorrise, rinfrancato dalla gioia che illuminava gli occhi della strega. «Devo prenderlo come un sì, dunque?»
Ninfadora gli gettò le braccia al collo, esclamando euforica: «Naturalmente! Mi hai donato un Avvincino!»
Remus, a malincuore, la scostò leggermente da sé. «No, seriamente, Ninfadora. Lascia perdere l'Avvincino. Sai a cosa vai incontro sposando me?»
«Sì. E, seriamente, Remus, non me ne importa proprio nulla» concluse convinta la strega, prima di coinvolgere l'assai poco riottoso mago in un bacio entusiasta.
«Ninfadora...»
«Tonks!»
«Sì, lo conosco il tuo cognome. Ninfadora, dicevo, suppongo non sia il caso» sussurrò Remus cercando di districarsi dall'abbraccio e scostando una mano intraprendente che risaliva audace la sua coscia destra.
«Lo abbiamo già stabilito che sei una frana nelle supposizioni. Certo che è il caso,  visto che ho appena accettato di sposarti!»
«Tu hai stabilito che sono una frana nelle supposizioni. Io non ho mai detto di concordare con questa tua particolare convinzione!» esclamò Remus, tentando di placcare un'altra mano impertinente che gli percorreva intrepida il torace. Merlino! Ma quante mani possedeva Ninfadora? Era forse imparentata con il Calamaro Gigante? «Davvero, sarebbe meglio che ti fermassi. Dobbiamo... parlare...»
Tonks sbuffò frustrata ma concesse una tregua al compagno. «Parlare? Ma non lo abbiamo già fatto?»
«Sì. Ma dobbiamo approfondire l'argomento».
«E' quello che stavo tentando di fare, sai?» fece notare la ragazza accarezzandogli la spalla sinistra. Remus si irrigidì immediatamente, afferrandole la mano.
«Avevo in mente un... er... diverso genere di conversazione, a dire il vero. Che deve assolutamente precedere il genere che hai in mente tu, visto che riguarda proprio le conseguenze a cui potrebbe portare un siffatto genere di conversazione».
Tonks lo guardò sconcertata, poi si illuminò. «Oh, stai cercando di dirmi che non hai previsto nessun tipo di protezione! Nemmeno io... ma a questo punto non ha importanza! Ci sposeremo, no? Ben venga quindi un piccolo Lupin saccente che gironzola per casa!»
Remus sorrise mesto e scosse il capo. «E' proprio di questo che volevo parlare. Se tu mi sposerai... non ci sarà nessun piccolo Lupin - saccente o meno - a gironzolare per casa».
«Pensavo che tu volessi dei bambini, Remus. Guardando con quale abilità li maneggi si direbbe che sei nato per essere padre... ma se non ne vuoi...»
Remus sospirò, sfregandosi la fronte. «Non è che non ne voglia; solo Merlino sa quanto mi piacerebbe avere una piccola peste multicolore che si diverte a devastarmi casa...» sorrise, ignorando l'occhiataccia scoccatagli da Tonks. «Il fatto è che non posso averne, purtroppo. Quelli... come me non si riproducono. Non ho mai sentito di un licantropo che l'abbia fatto».
La strega corrugò la fronte. «Forse solo perché non... esercitano».
Remus ridacchiò. «Ho vissuto per un anno tra i miei simili. E posso assicurarti che... esercitano eccome. Ma nessun membro del branco ha mai avuto un figlio» guardò Tonks con serietà. «Se questo particolare ti ha fatto cambiare idea sull'opportunità di sposarmi non preoccuparti. Lo capisco».
Tonks sbuffò esasperata, i capelli virati a un preoccupante ciclamino. «Non ricominciare, Remus... no che non mi ha fatto cambiare idea! Non mi importa! Anzi, in realtà potrebbe rivelarsi una cosa positiva. Francamente, mi ci vedi alle prese con un neonato? Hai visto con quale frequenza riesco a rompere un piatto... ecco, immaginami alle prese con un neonato tutto scivoloso per via del sapone... e lo so che tu sei bravissimo con l'Incantesimo Reparo, ma pare che con i neonati non funzioni granché».
Remus sgranò gli occhi, allibito, poi si concesse una risata, stringendo Tonks in un abbraccio sollevato. «Merlino, Ninfadora! Ma non c'è proprio nulla in me che non riusciresti ad accettare?»
La ragazza si scostò, scrutandolo pensosa, poi affermò convinta: «Continua a chiamarmi con quell'orribile nome e lo scoprirai!»
Remus scosse il capo e sospirò. «Non ti chiamerò mai per cognome. Detesto chiamare le persone per cognome. Non lo faccio mai».
«Mmm... c'è sempre una prima volta. Lo so che è un po' freddo, ma in casi disperati come il mio...»
«Non c'è nulla di disperato in Ninfadora».
«Se tua madre ti avesse chiamato Ninfadora saresti disperato anche tu».
«Non ne dubito. Non è un nome molto virile Ninfadora...»
La ragazza sbuffò, assestandogli un colpetto alla nuca.
Remus sogghignò. «Va bene... ho notato che tuo padre ti chiama Dora. Non ha il fascino di Ninfadora, ma è di sicuro meglio di Tonks. Che ne dici?»
«Un accettabile compromesso, direi».
«Uh, trattieni l'entusiasmo».
«E' entusiasmo che vuoi? E entusiasmo sia, allora!» esclamò la ragazza gettandosi con slancio al collo del mago che, sbilanciato, cadde all'indietro.
«Adoro questa camicia, sai Remus?»
Remus la guardò accigliato. Non era granché la camicia che indossava. Una normale camicia di jeans con quei detestabili bottoncini a strappo. Ma non poteva indossare vesti da mago quando girava nei dintorni di casa... e quella era l'unica camicia disponibile, al momento.
Ninfadora gli scoccò un'occhiata ammaliatrice, afferrando i lembi della camicia e dando uno strappo deciso. «O, per essere precisi, adoro i suoi bottoni».
Remus guardò esterrefatto le mani della strega che riprendevano il loro audace peregrinare e, pensando confusamente che forse quei bottoncini a strappo non erano poi tanto detestabili, si affrettò a coprirsi la spalla sinistra.
Ninfadora gli scostò con gentilezza la mano e Remus, serrando gli occhi, trattenne il respiro, in attesa dell'inevitabile esclamazione di raccapriccio. La gente emetteva sempre esclamazioni di raccapriccio quando gli vedeva la spalla. Persino la materna Molly lo aveva fatto. A Remus non importava, in genere, ma trattandosi di Ninfadora...
«E' questo il morso, vero?»
Remus trasalì interdetto, sentendo la mano fresca della strega che, con tocco delicato gli accarezzava la cicatrice.  
«Sì. So che non è una bella vista» disse, sbirciando il familiare segno tondeggiante che gli segnava la spalla.
«E' solo una cicatrice».
«E' la cicatrice lasciata da una maledizione, Ninf... Dora. Ora sembra normale, perché il plenilunio è lontano, ma se fosse prossimo...»
«Sarebbe una cicatrice informale e alternativa di un vivido colore argento».
Remus la guardò sorpreso: la gente normale di solito non era molto informata sull'argomento.
Ninfadora sorrise. «Ho letto “Lupi Mannari: questi sconosciuti”, ricordi? Non vedo l'ora di osservarla all'acme del suo splendore. Malocchio morirà d'invidia!»
Remus si chiese il perché, ma preferì evitare di indagare, sussultando quando le labbra di Ninfadora si sostituirono alle dita, accarezzando gentilmente la pelle sensibile che circondava la cicatrice.
«Ummm... Dora» disse con voce malferma e più roca del solito, lo sguardo fisso oltre la testa della ragazza. «Non credo...»
Ninfadora sbuffò contrariata e mille piccoli, deliziosi brividi attraversarono la spina dorsale di Remus. «Cosa c'è ancora? Hai qualche altro segreto di cui mettermi al corrente... non so, forse guaisci nel sonno?»
Remus si sollevò a sedere e scosse il capo, un po' imbarazzato. «No. Sono quasi certo di non farlo. E' solo... l'Avvincino...»
«L'Avvincino?»
Remus annuì. «Sì. Non possiamo farlo qui. L'Avvincino ci sta guardando».
Ninfadora sgranò gli occhi incredula. «L'Avvincino ci sta... guardando? Stai scherzando, vero?»
Remus negò con dignità e Tonks sogghignò divertita. «Ma sei un Lupo Mannaro! Secondo l'esperta Larentia Lupercus...»
«Sì, lo so cosa sostiene l'esperta Larentia Lupercus, a tal proposito. Ma, credimi, ci sopravvaluta parecchio. Forse non è poi così esperta Larentia Lupercus. O magari ha condotto i suoi studi su un gruppo di disinvolti licantropi latini. Io sono un Lupo Mannaro inglese, però: e in quanto tale ho un forte senso della privacy».
Dora scosse la testa esasperata e, alzandosi in piedi, costrinse il compagno a fare altrettanto. «Ti inviterei a casa mia... ma non sono sicura di possedere la lucidità mentale necessaria per una Smaterializzazione. Senza contare che ho poster delle Sorelle Stravagarie ovunque. E se ti turba tanto un Avvincino... hai una soffitta, hai detto?»
Remus annuì titubante, la strega sorrise raggiante e, presolo per mano, lo trascinò verso le scale.
«Ci vado solo nelle notti di plenilunio, Dora, non è molto in ordine. Ma al piano di sopra ci sono delle camere. Ho persino un letto».
La ragazza ci pensò un istante, poi scosse il capo con decisione. «No. Un letto è banale, Remus. Adatto a una coppia da anello di fidanzamento. Noi siamo informali e alternativi, ricordi? Siamo una coppia da Avvincino di fidanzamento, la soffitta ci è più congeniale!»
Remus ricambiò il sorriso, disarmato dalla caparbia dolcezza di Ninfadora e, salite le scale, aprì con mano un po' tremante la porta della soffitta.
Ninfadora osservò con attenzione l'ampia finestra da cui filtrava la debole luce argentata della sottile falce di luna, quindi appellò il morbido plaid scozzese appoggiato su un vecchio tavolo abbandonato in un angolo della stanza e lo stese con attenzione sull'assito un po' graffiato e polveroso.
Sorridendo radiosa vi si inginocchiò sopra, allungando una mano verso Remus.
L'uomo la prese e, ricambiando il sorriso, le si accovacciò accanto.
Sirius non aveva tutti i torti, dopo tutto. Non solo aveva trovato una donna che lo apprezzava in tutto il suo lupesco splendore, ma la donna in questione era davvero la piccola Ninfadora.
Ridacchiando tra sé, Remus non poté fare a meno di pensare che, in un Altro-dove e in Qualche-quando, Sirius stava di sicuro esultando, al momento, assillando James e costringendolo ad ammettere che aveva sempre avuto ragione su tutta la linea: Lunastorta aveva abbassato le sue difese, alla fine e ne era persino felice.
Ed era vero, constatò Remus con un certo stupore, lui era davvero felice in quel momento.
In quella polverosa soffitta, dove la felicità non era mai stata di casa, in mezzo a una guerra assurda, nell'incertezza del futuro che il Ministero aveva in serbo per lui, Remus era davvero felice.
Vergognosamente felice.
Felice come un'aspidistra non avrebbe mai potuto essere, per quanto ne sapeva...


* Inno cantato dai tifosi dell'Arsenal... almeno sul web un sito ne era convinto. Se così non fosse chiedo umilmente perdono a tutti i tifosi dell'Arsenal, maghi o Babbani che siano. Ted e Remus compresi.
Non sono un'esperta di calcio. Men che meno di calcio britannico, ma mi pareva carino trovare un terreno comune tra Ted Tonks e Remus Lupin e, tenuto conto che sono due uomini di ascendenze in qualche misura Babbane... cosa poteva esserci di meglio del calcio? ;)
Visto poi che il simbolo dell'Arsenal è un cannone mi è venuta spontanea l'associazione tra Arsenal e Cannoni di Chudley...
Oh, già che siamo in tema,
Dennis Berkamp è davvero un giocatore di calcio e nella stagione 1997/98 militò proprio tra le fila dell'Arsenal.

 
Ed eccoci alla nona tappa del nosto Viaggio.
Una tappa vista quasi totalmente attraverso gli occhi di Remus, finalmente! ^^
Senza nulla togliere alla folta schiera di Black poco regolamentari di cui mi sono trovata a scrivere, un po' mi mancavano Remus e Tonks!
E così eccoli qui, colti in un momento molto "speciale" della loro vita... un momento di cui J.K. Rowling non ci ha detto moltissimo, purtroppo, così ho deciso di dare anche la mia versione personale.
Versione personale che, mi rendo conto, non è esattamente romantica e sognante (niente cene a lume di candela, niente passeggiate languide né anelli con solitario) ma, tralasciando il fatto che io non sono molto portata a descrivere scene romantiche e sognanti, quel momento topico io lo immagino esattamente così: informale, alternativo e tonksianamente "cataclismico". ;)
Spero che i più romantici e sognanti tra di voi non se la siano presa a male e mi possano perdonare questa rilettura poco ortodossa del momento.
Il Signor Peabody con le sue torte alla cannella è una vecchia conoscenza per quelli che hanno letto "La Chiave del Tempo" che hanno avuto il piacere di incontrarlo vent'anni più vecchio. Mi pareva carino inserirlo anche qui, scortato da regolamentare cagnetto. ^^


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Capitolo 11
*** Teddy Lupin e la Chiave del Tempo ***


Capitolo Decimo

Teddy Lupin e la Chiave del Tempo




La Tana, 31 luglio 2012 A.D.


Un assordante gracidare si levò improvviso quando un nutrito battaglione di ranocchie si tuffò - con ammirevole sincronia - nelle acque verdi e melmose dello stagno.
Teddy scosse il capo, mesto: a quanto pareva non era il solo a non potersi godere fino in fondo quella calda serata estiva, rischiarata da una limpida luna quasi piena e ingentilita dal profumo dolce e intenso dei Cespugli Farfallini. E a pensare che quel mondo, che tutti dicevano migliore, avrebbe potuto esserlo un po' di più...
Quando il gracidare si placò, acuti strilli infantili raggiunsero Teddy che, sospirando, si rannicchiò ai piedi di uno dei grossi alberi che circondavano lo stagno.
Un superbo esemplare di Tortotronco, constatò, studiando interessato le folte fronde che frusciarono frenetiche attorno a lui quando l'albero, disturbato dalla sua presenza, si contorse con sdegnata energia.
Appoggiandosi con cautela al massiccio tronco nodoso, Teddy osservò i ragazzini che, davanti all'ingresso della Tana illuminato a giorno da nugoli di lanterne variopinte, saltellavano in preda all’eccitazione più sfrenata: per loro quel mondo era sicuramente il migliore possibile. E lo dimostravano con appropriato entusiasmo.
Le loro grida assordanti sovrastavano persino le fiere rimostranze che nonna Andromeda stava propinando a una mortificata Molly Weasley.
Teddy, provando una certa compassione per la povera Molly - sapeva per esperienza quanto potessero essere terrificanti le fiere rimostranze di nonna Andromeda - distolse lo sguardo, concentrandosi sulla lanterna fluttuante che lo aveva seguito e ora illuminava con la sua calda luce dorata le acque placide dello stagno.
Un po' sorpreso, il ragazzo si chiese chi fosse stato a incantarla perché, in genere, le lanterne non avevano la lodevole abitudine di seguire la gente di loro spontanea volontà.
Nemmeno quelle fluttuanti.
Osservando con più attenzione la scena che si stava svolgendo davanti all’ingresso della Tana, Teddy notò che non tutti erano occupati a saltellare entusiasti e a prepararsi per assecondare la brillante idea avuta da Molly.
Harry, infatti, se ne stava un po’ in disparte, la bacchetta stretta in pugno e decine di lanterne variopinte che gli fluttuavano attorno come sciami di fate indispettite. Teddy lo vide fare un passo esitante verso lo stagno per poi fermarsi, rinfoderare la bacchetta e permettere a un James più saltellante del solito di trascinarlo via. Con tutto il suo luminoso seguito di lanterne.
Teddy sorrise grato: Harry aveva compreso che, in quel momento, lui desiderava soltanto stare un po’ in disparte - da solo, lontano dalla frenesia che aveva assalito gli altri e dalla brillante idea avuta da Molly - e si era limitato a fargli sentire la sua presenza dotandolo, premuroso, di una discreta lanterna fluttuante.
Harry, del resto, sapeva sempre quello che Teddy provava.
Lo sapeva da prima che Teddy medesimo si rendesse conto di provarlo, in genere.
Per anni il ragazzo aveva avuto l’inquietante sospetto che il padrino sapesse leggergli nella mente.
Quando però, dopo estenuanti elucubrazioni e arditi esperimenti, si era deciso ad affrontare apertamente la spinosa questione con l’interessato, Harry si era limitato ad abbozzare uno di quegli strani sorrisi - sospesi tra tenerezza e malinconia - che riservava solo a lui per poi confidargli, mesto, la molto meno esoterica verità: sapeva sempre cosa Teddy provava semplicemente perché lo aveva provato prima lui.
Notando, con un certo sollievo, che nonna Andromeda aveva finalmente smesso di riprendere la povera Molly, Teddy si sistemò più comodamente contro il tronco e - godendosi divertito lo sdegnato vorticare di fronde che seguì all'operazione - estrasse da una tasca un pupazzetto a forma di drago osservandolo con interesse: un Petardo Cinese, dedusse con sicurezza, ammirandone il corpo snello e sinuoso ricoperto da minuscole, perfette scaglie scarlatte.
Affascinato, il ragazzo sfiorò con cautela le punte dorate che il drago aveva attorno al muso e trasalì, sorpreso, quando il modellino, che fino a quel momento se ne era stato comodamente acciambellato sul palmo della sua mano, emise una specie di basso ringhio.
Dopo essersi concesso un languido stiracchiamento, il minuscolo drago si alzò in piedi sollevando le punte dorate che, assumendo la forma di una stravagante criniera, lo fecero assomigliare a un piccolo leone arruffato.
Teddy sorrise e soffiò con gentilezza sul giocattolo - come gli aveva mostrato Charlie - osservandolo poi, deliziato, dispiegare le ampie ali di un intenso rosso cupo e alzarsi in volo per planare aggraziato attorno alla lanterna fluttuante.
Quando, qualche ora prima, Charlie aveva tolto dalla sua vecchia sacca un po’ bruciacchiata una manciata di piccoli draghi giocattolo, gli altri ragazzini gli si erano subito stretti attorno, litigando fra loro per accaparrarsi i modellini di Ungaro Spinato.
Teddy era stato l'ultimo ad avvicinarsi - incitato da una soddisfatta Victoire che brandiva vittoriosa un minuscolo Grugnocorto Svedese - e aveva preso l'unico modellino rimasto: il Petardo Cinese.
Non aveva riscosso molto successo, il Petardo Cinese, e Teddy poteva anche capire il perché: era strano come drago.
Diverso da tutti gli altri.
Ma a Teddy la cosa non importava, anzi... a lui piaceva chi era diverso da tutti gli altri.
Probabilmente perché anche lui era - per svariati motivi - diverso da tutti gli altri.
Sospirando, il ragazzo distolse gli occhi dal drago giocattolo - ancora intento a svolazzare impavido attorno alla lanterna - e, stringendo le ginocchia tra le braccia, osservò malinconico i ragazzini saltellanti che, contenendo a stento l'entusiasmo, assillavano implacabili i rispettivi genitori.

«Uhm, stai meditando di continuare la festa in compagnia delle ranocchie dello stagno, Teddy?» chiese una voce allegra alle sue spalle.

Teddy sollevò di malavoglia lo sguardo sul nuovo arrivato, conscio che il suo momento di solitudine era terminato: purtroppo nessun Weasley sembrava essere un estimatore della solitudine. Charlie non faceva eccezione.
«Non sono molto interessanti le ranocchie come compagnia» disse l’uomo accoccolandosi al suo fianco e osservando il vivace vorticare di fronde causato dal suo arrivo. «Ma devo ammettere che il Tortotronco un certo fascino lo esercita. Dovresti vederlo a fine giugno, quando oltre che a vorticare i rami si diverte a bersagliarti con i suoi frutti deliziosamente mollicci e appiccicosi».
Teddy scrutò scettico le folte foglie lanceolate dell'albero e affermò con pacata convinzione: «Penso proprio che riuscirò a sopravvivere anche senza questa avvincente esperienza, Charlie».
«Mmm. Anche Fleur era intenzionata a provarci, credo. Ma George e Ginny erano di diverso parere e hanno generosamente rimediato a questa grossa lacuna del suo personale bagaglio di esperienze» affermò Charlie, scrutando pensoso la superficie placida dello stagno per poi aggiungere complice: «Ma, forse, tu non eri interessato a improvvisare una festicciola anfibia, e stavi semplicemente studiando un piano per buttarci mia madre, nello stagno con le irritabili ranocchie...»
Teddy, escludendo che Charlie si fosse potuto accorgere che l'idea lo aveva davvero fugacemente sfiorato, rispose sfoggiando quell'aria angelica che convinceva tutti ad eccezione di Harry e di nonna Andromeda: «No, naturalmente! Non sarebbe stato carino».
Charlie sogghignò. «No. Non sarebbe stato carino, hai ragione. Non per le ranocchie, almeno. Ma a me l'idea sarebbe venuta, sai? E anche Harry deve essere stato sfiorato dalla tentazione. E lui se lo sarebbe anche potuto permettere. E' il festeggiato, in fondo. Tutto dovrebbe esserti concesso il giorno del tuo compleanno, non credi?»
Teddy sgranò gli occhi, sorpreso, e Charlie gli scompigliò i capelli, poi sospirò: «Se solo Harry non fosse così assurdamente educato... a mia madre non avrebbe fatto male rinfrescarsi un po'. Solo un colpo di sole potrebbe spiegare la sua brillante proposta. O quello o un incantesimo Confundus ben assestato».
«Voleva solo animare la festa».
«Oh, può darsi. Ma anche un suo tuffo nello stagno la avrebbe animata. Sono sicuro che James lo avrebbe adorato, ad esempio».
Teddy riportò lo sguardo sui ragazzini elettrizzati che incitavano gli adulti a spostare tavoli e sedie e mormorò: «L’idea di una corsa a tre gambe genitori-figli è carina in sé, Charlie. Gli altri ragazzini l'hanno gradita molto, infatti... è solo che...»
«E' solo che mia madre ha il tatto di un Ungaro Spinato, a volte» concluse l’uomo, scrutando triste il ragazzino.
Teddy si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso. «Non importa. Non è giusto che gli altri non possano fare una cosa solo perché non la posso fare io, in fondo. E poi neppure mia nonna scherza in quanto a mancanza di tatto, quando ci si mette. Credo che Molly si sia pentita amaramente di avere esposto la sua brillante idea».
Charlie sorrise. «Penso tu abbia ragione: un’Andromeda Black contrariata è molto peggio di un tuffo in uno stagno abitato da ranocchie dal pessimo carattere» tacque un istante, quindi aggiunse: «Harry sarebbe felice di correre con te, se tu glielo chiedessi, sai?»
Teddy annuì con decisione. «Lo so. Ma non sarebbe giusto. James vuole partecipare... e ha tutti i diritti di farlo».
«Ma...»
«Ma niente, Charlie» tagliò corto Teddy, accarezzando distratto il dorso del modellino di drago che, perso interesse per la lanterna, gli si era posato sulle ginocchia.
Charlie sospirò. «Hai ereditato la cocciutaggine di tua madre, noto».
«Lo dice anche nonna. Quindi suppongo sia vero».
Charlie scosse il capo e, indicando il drago giocattolo, esclamò soddisfatto: «Vedo che hai già imparato a farlo volare. Non è facile come sembra: James ha rischiato di distruggere la torta fatta da Fleur, nel tentativo. Credo che gli sfugga il concetto di soffiare delicatamente».
Teddy si strinse nelle spalle. «Probabile. O magari la sua intenzione era proprio quella di distruggere la torta di Fleur» guardò titubante l’uomo sedutogli accanto e aggiunse, un po’ imbarazzato: «Insomma... le torte di Fleur sono molto... er... come dire…»
«Ricercate
«Mmm. Sì. Davvero molto ricercate, ecco. Non tutti riescono ad apprezzarle».
Charlie ridacchiò e prese con delicatezza tra le mani il modellino di drago studiandolo con interesse.
«Mi dispiace che non ci siano stati Ungari Spinati per tutti».
Teddy si strinse nelle spalle. «A me no. Mi piace il Petardo Cinese. Davvero. Lo trovo bellissimo».
Charlie fissò Teddy con quell’aria di pensosa malinconia che gli adulti avevano, talvolta, quando lo guardavano e a cui il ragazzo aveva fatto l’abitudine, ormai, poi aggiunse, con quel tono di voce un po’ particolare che seguiva sempre gli sguardi di pensosa malinconia: «Tua madre pensava la stessa cosa».
Teddy gli si avvicinò, interessato. Era sempre curioso di conoscere aneddoti sui suoi genitori, e Charlie era la fonte a cui poteva attingere con minor frequenza in assoluto, quindi i suoi aneddoti avevano ancora il fascino della novità. «Davvero?»
«Sì, oh, sì. A tua madre piacevano i draghi... be’, in realtà le piacevano un po’ tutte le creature... uhm, come dire... diversamente graziose, ecco».
Teddy sorrise, ripensando a Manfred la Manticora e Charlie continuò: «Quindi le piacevano anche i draghi. E il Petardo Cinese era senza dubbio il suo drago prediletto. Perché era strano. Diverso. E perché era colorato, non nero e ordinario come un banale Ungaro Spinato. Parole sue, eh...»
Teddy ridacchiò divertito, poi si fece improvvisamente serio; c’era una cosa che aveva chiesto a tutti e a cui nessuno aveva saputo dare una risposta… ma a Charlie non l’aveva chiesta, ancora.
«Charlie…» esitò, non era mai facile porre quella domanda. Nessuno la prendeva bene. «Come è successo? Come sono morti mamma e papà?»
Charlie trasalì e il Tortotronco, disturbato dal brusco movimento, si contorse con energia. L’uomo, ignorando l’improvviso agitarsi delle fronde, trasse un aspro respiro e si sfregò mesto la fronte. «Io... non lo so, Teddy».
Il ragazzino si accigliò, scagliando rabbioso un grosso ciottolo tondeggiante nello stagno. «Ma com’è possibile che non lo sappia nessuno!»
Charlie si strinse nelle spalle e chiese con dolcezza: «E' davvero così importante?»
«Sì che lo è!» esclamò brusco il ragazzino, poi serrò i pugni, abbassando lo sguardo e sussurrò: «Perché a volte penso che la loro morte sia stata inutile. Che loro avrebbero dovuto starsene a casa, quella sera. Con me».
«Capisco. E quando pensi questo provi rabbia nei loro confronti, vero?»
Teddy fissò corrucciato i cerchi concentrici che il sasso aveva lasciato sulla superficie della stagno.
«Già» mormorò Charlie senza attendere risposta. «E questo ti fa stare male, perché ti fa sentire tremendamente fuori luogo e abbastanza colpevole, anche».
Teddy alzò di scatto il capo, osservando l'uomo ad occhi sgranati.
Charlie abbozzò un sorriso triste e disse: «Succede anche a me, a volte, quando penso a Fred. Anch'io vengo assalito dall'idea che avrebbe potuto starsene a casa, quella sera. E anch'io mi sento malissimo dopo essermi concesso simili pensieri. Ma è umano farli, Teddy. E in fondo tu sai che loro non avrebbero potuto starsene a casa, quella sera. Proprio perché erano le persone che erano. E che no, la loro morte non è stata inutile perché se loro fossero rimasti a casa, quella sera, la storia avrebbe potuto seguire un altro corso e a vincere potrebbe essere stato Voldemort».
Il ragazzo annuì. «Sì, però vorrei ugualmente sapere come sono morti. Avrei tanto voluto incontrare qualcuno in grado di dirmelo. Pensavo che tu...»  
«Io? Oh, io sono l'ultima persona che potrebbe saperlo, Teddy» confessò Charlie con amarezza. «Non c’ero quella notte. Mentre divampava la Battaglia di Hogwarts io ero in Romania, a fare da balia a quattro uova di Opaleye. Quando sono arrivato al Castello era praticamente già tutto finito. Non ho potuto neppure tentare di aiutare Fred e i tuoi genitori».
«E questo ti fa stare male, perché ti fa sentire tremendamente fuori luogo e abbastanza colpevole, anche».
Charlie scrutò il ragazzino, allibito e Teddy si strinse nelle spalle. «Succede anche a me».
«A te? Ma tu non potevi di certo essere al loro fianco quella notte! Eri un neonato!»
«E tu eri in Romania».
«Ma... non è la stessa cosa! Io avrei potuto esserci! Avrei dovuto esserci! Avrei dovuto tornare prima in Inghilterra».
«E io avrei dovuto nascere qualche anno prima!»
«Ma... Teddy, ti rendi conto che è un ragionamento del tutto privo di senso, vero?»
«Certo. Come il tuo».
Charlie sbuffò esasperato, poi scosse il capo, sconfitto. «Sei identico a tua madre, talvolta. Ugualmente snervante!»
Teddy sogghignò: «Lo dice anche la Professoressa O'Sullivan».
«O'Sullivan? Erin O'Sullivan?»
«Sì. Si ricorda di mamma ai tempi della scuola... e ha persino conosciuto il mio nonno paterno, sai? Sostiene di avergli insegnato i rudimenti della lotta Babbana...»
Charlie ridacchiò. «Sì, deve essere proprio lei, allora. Il Battitore più attaccabrighe della storia di Tassorosso, credo. Non ho mai conosciuto nessuno in grado di ammaestrare i Bolidi come lei! E cosa insegna?»
«Difesa contro le Arti Oscure».
Charlie annuì soddisfatto. «Appropriato, direi».
«Già» Teddy scagliò l'ennesimo sasso nello stagno, studiando pensoso i preparativi che fervevano nel pezzetto di prato davanti all'ingresso della Tana. «Pare che tutto sia pronto per la disputa».
«Pare. Mi dispiace davvero Teddy, non so che sia preso a mia madre...»
Teddy si strinse nelle spalle. «Nulla. Ha solo avuto un'idea brillante e carina. Sarebbe piaciuta anche a me se… credi che mio padre vi avrebbe partecipato?»
Charlie corrugò la fronte, pensoso. «No, non credo ci sarebbe riuscito».
Teddy scrutò la luna quasi piena. «Ma non è una notte di plenilunio».
Charlie sogghignò. «Non ci pensavo neppure al plenilunio. Solo che sarebbe stata sicuramente Tonks a partecipare alla corsa con te. A costo di Schiantare Remus!»
«Ah, ecco. Mi sarebbe piaciuto molto, sai Charlie? Non che mamma Schiantasse papà, sia chiaro, ma partecipare alla gara con uno dei due...»
Charlie si sistemò più comodamente contro il Tortotronco e sospirò. «Sarebbe piaciuto molto anche a me, Teddy. Soprattutto perché questa gara non avrebbe avuto un vincitore annunciato. Perché sappiamo tutti come andrà a finire questa gara, vero? Bill e Victoire l'hanno già vinta. Sono anche abbastanza sicuro che Bill stia già meditando su come assillare tutti noi con la sua eclatante vittoria. Come se non sapesse che tutti gli altri saranno intralciati dai rispettivi nanerottoli - certo, a Percy e Hermione non serviranno neppure i nanerottoli, visto che sono già bravissimi a intralciarsi da soli - non c'è scampo» concluse mesto.
«Già» convenne Teddy, rassegnato.  
«A meno che...» Charlie si alzò di scatto, facendo sussultare Teddy e provocando una vivace reazione del Tortotronco. «Ci sarebbe un modo per rendere meno scontata la vittoria di Bill, Teddy» esclamò ispirato, ignorando il minaccioso vorticare di fronde. «Dipende solo da te».
«No, ti ho già detto che non chiederò a Harry di gareggiare con me. Non sarebbe giusto».
Charlie lo gratificò di uno di quei sorrisi inquietanti che, a volte, illuminavano anche il viso di George. «Io non pensavo a Harry, infatti, ma...» si accovacciò di fronte al ragazzo, fissandolo serio  negli occhi e, dopo un istante di esitazione disse: «Io non ho un figlio con cui partecipare alla gara, Teddy. Così mi chiedevo: mi faresti l'onore di gareggiare in squadra con me? Sono sicuro che i tuoi genitori approverebbero, in fondo...» indicò con un gesto vago Bill e Victoire che si stavano avviando alla linea di partenza sfoggiando la sicurezza tipica di una compagine sicura della propria innegabile superiorità. «E' per una nobile causa: prevenire gli autoincensamenti con cui Bill assillerà chiunque gli capiterà a tiro per i prossimi sei mesi».
Teddy si alzò con cautela, senza disturbare il Tortotronco. «E' per il Bene Superiore, insomma. Sì, mamma e papà approverebbero di sicuro. Anzi...» sorrise malandrino afferrando una mano dell'uomo inginocchiato e costringendolo ad alzarsi. «Mi sa proprio che si arrabbierebbero se non accettassi questa tua ragionevole e brillante proposta, Charlie!»
«Sa anche a me!» convenne Charlie alzandosi. «E non è mai stata una cosa saggia fare arrabbiare Tonks, sai?»
Teddy rise e, sotto lo sguardo soddisfatto di un battaglione di ranocchie gracidanti, trascinò senza tanti complimenti Charlie verso la Tana.



Casa Tonks, 31 luglio 2012 A.D.

Teddy, appoggiandosi al davanzale della finestra, osservò assorto le stelle che punteggiavano il limpido cielo color inchiostro.
Teddy amava scrutare la volta stellata. Lo trovava piacevole. E rassicurante.
Probabilmente perché anni prima, in una tiepida sera di maggio, al ritorno dalla celebrazione della sconfitta di Voldemort, Luna Lovegood lo aveva preso da parte e gli aveva raccontato una fantasiosa - e rassicurante - storia sulle persone che, quando morivano, si trasferivano sulle stelle.
Gli aveva persino indicato quella abitata dalla signora Lovegood.
Teddy l'aveva ascoltata rapito, e aveva subito cominciato a cercare quella dei suoi genitori - era certo che si fossero trasferiti sulla stessa stella, una stella molto luminosa e non troppo vicina alla luna, secondo i suoi calcoli - identificandola con estrema sicurezza nella più brillante di tutte: Sirio.
Da quella sera, ogni volta che Teddy si sentiva solo, si trovava istintivamente a scrutare la volta stellata e, anche se ora sapeva che i suoi genitori non si erano affatto trasferiti su una stella, questo semplice gesto bastava a calmarlo.
Sospirando, il ragazzo distolse lo sguardo dal cielo spostandolo sulla strada illuminata dalla luce aranciata di un lampione: un uomo lacero e scarno camminava frettoloso lungo la via, il capo chino, le spalle curve e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Quando una grossa civetta lo sorvolò, posandosi silenziosa sul davanzale della finestra di Teddy, l'uomo si fermò, sollevò il viso nascosto dai lunghi capelli arruffati, e riprese il suo faticoso cammino, come se trovasse normale vedere una civetta appollaiarsi su un davanzale.
E Teddy sospettava fosse proprio così.
Conosceva quell'uomo: era un tipo stravagante che da sempre - per quanto Teddy riusciva a ricordare - deliziava i ragazzini della zona con le sue fascinose storie popolate da sdegnose chimere e da lupi mannari singolarmente gentili. E, spesso, guardava Teddy con lo stesso sguardo triste e colpevole con cui lo guardavano, a volte, un po' tutti gli adulti che avevano conosciuto i suoi genitori. Teddy era quasi certo che fosse un mago... anche se non lo aveva mai visto fare magie e non era tra le conoscenze di nonna Andromeda.
Non che nonna Andromeda ne avesse poi molte, di conoscenze...
Quando la civetta gli beccò sdegnata una mano, il ragazzo si riscosse e, accarezzandole gentilmente le soffici piume argentate, prese la pergamena arrotolata sulla zampa destra della bestiola.
Era indirizzata a nonna Andromeda e il ragazzo riconobbe l'elegante calligrafia con cui era vergata.
Teddy non sapeva di preciso chi le mandasse, ma arrivavano spesso lettere scritte con quella calligrafia.
Sempre indirizzate alla nonna che si rifiutava regolarmente di aprirle.
Sospirando, il ragazzo aspettò che la civetta ripartisse, sollevato dal fatto che nessuno si trovasse nei paraggi per assistere al suo volo, quindi scese silenzioso le scale, intenzionato a lasciare la lettera nello studio del nonno e ad approfittare dell'occasione per saccheggiare la libreria: non aveva sonno, quella notte, e qualcosa di interessante da leggere era proprio quello che gli serviva.

«Non riesci a dormire neppure tu, tesoro?»

Teddy trasalì al suono di quella voce.
Aveva dato per scontato che la nonna fosse già andata a letto.
Non si aspettava certo di trovarla ancora lì, seduta sulla sua poltrona preferita, in penombra, intenta a scrutare assorta una rigogliosa aspidistra.
«No, sono troppo eccitato per avere sconfitto Bill e Victoire» rispose, sperando che la nonna gli credesse. Era davvero contento del successo riportato, in fondo. Tutti alla Tana lo erano. Tranne Bill, naturalmente...
«Comprensibile» mormorò Andromeda, posando sul tavolino la grossa cornice d'argento che teneva in grembo. «Sei stato molto bravo, tesoro. Loro...» indicò con un lieve cenno del capo la cornice. «Sarebbero molto fieri di te».
Teddy annuì, non aveva bisogno di guardare la fotografia contenuta nella cornice per sapere di chi stesse parlando la nonna.  
«E anch'io lo sono» affermò la strega, sollevando su di lui uno sguardo intenso e triste.
Teddy sapeva cosa cercava la nonna quando lo guardava in quel modo. E sapeva cosa fare per aiutarla a trovarlo.
Gli bastava ricorrere ai suoi poteri di Metamorfomagus.
Non amava farlo, di solito. Oh, era orgoglioso e felice di possederli - erano qualcosa che gli ricordava sua madre - ma non amava esibirli in pubblico con disinvoltura. Perché, fondamentalmente, non amava essere notato. Preferiva passare inosservato, senza nessuno che lo indicasse agli altri. E non era facile passare inosservati quando si sfoggiavano capelli di uno sfolgorante turchese. Era un po' come essere l'unico, coloratissimo Petardo Cinese in un branco di banali Ungari Spinati. Teddy non lo trovava particolarmente piacevole.
Ma, quando la nonna lo guardava in quel modo, non esitava a ricorrere alle sue capacità.
In fondo era una piccolo sacrificio, ampiamente ripagato dalla serenità che addolciva lo sguardo della nonna in quei momenti.
Quindi socchiuse gli occhi, virò i suoi capelli castano chiaro a una brillante tonalità di turchese - la nonna avrebbe preferito un bel rosa cicca, lo sapeva, ma che diamine, anche lui aveva una sua dignità - e, avvicinatosi alla donna, le si accoccolò davanti, godendosi l'improvviso, tenero sorriso che le distese il volto.
«Lo so, nonna» disse con tono allegro, nel tentativo di dare un ulteriore scossone alla momentanea malinconia della strega. «Anche Charlie era al settimo cielo... suppongo che un po' tutti lo fossero. Bill è un po'... stancante quando si esalta per qualcosa».
«Sì, non che Charlie lo sia meno, però».
Teddy corrugò la fronte, pensieroso. «No, ma Charlie tornerà presto in Romania... dovremo sopportarlo per meno tempo, se non altro!»
Andromeda rise, scompigliando affettuosa i capelli del nipote poi, scorto il plico che il ragazzo stringeva in mano, si accigliò nuovamente. «Ti ha scritto ancora Simon? Quel ragazzo è un vero grafomane! Cos'ha scoperto di fantasticoso, questa volta?»
Teddy sogghignò: Simon, il suo migliore amico nonché compagno di dormitorio, era davvero un grafomane... e un grafomane pieno di entusiasmo, anche. Era figlio di Babbani, ed era letteralmente incantato dalle fantasticose (oltre che grafomane, Simon era anche un fantasioso coniatore di neologismi) cose da maghi. E Teddy adorava ascoltarlo - o leggerlo - mentre parlava trasognato delle meraviglie del mondo magico, perché trovava davvero fantasticoso guardare cose per lui scontate attraverso gli occhi di Simon!
«Allora, Teddy, quale messaggio di irrinunciabile importanza si è sentito in dovere di comunicarti a quest'ora di notte il nostro Simon?»
Teddy - che sospettava che la nonna adorasse quanto lui l'entusiasmo di Simon - scosse il capo. «Oh, no... Simon non c'entra questa volta. E' per te, nonna».
La strega si alzò di scatto dalla poltrona, prese la lettera e la fece Evanescere con un gesto rabbioso. Faceva sempre così con le lettere scritte con quella calligrafia.
«Nonna, ma chi...»
«Nessuno, Teddy. Nessuno».
Teddy inarcò un sopracciglio, scettico. E la donna sospirò, lasciandosi cadere sulla poltrona. «Nessuno di cui valga la pena parlare, almeno».
«Ma sono anni che questo Nessuno ti manda lettere, forse deve dirti qualcosa di importante».
«Non credo. Questo Nessuno non ha mai avuto nulla di importante da dirmi. Non ha reputato abbastanza importante neppure comunicarmi di avermi fatta diventare zia...»
«Ti ha fatta diventare zia
Andromeda fissò il nipote con intensità, quindi mormorò con amarezza: «Questo Nessuno era mia sorella... una volta».
Teddy sgranò gli occhi, sconcertato. «Pensavo non ci fosse più nessuno della tua famiglia d'origine, nonna!»
«E' così. La mia famiglia sei tu, Teddy. E la famiglia di Harry... non certo la famiglia di Vermicolo Malfoy!»
«Vermicolo Malfoy?»
«Il marito di questo Nessuno».
«Ah... un nome... insolito, non credi?»
Andromeda rise abbracciando il nipote. «Sì, be', non è proprio il suo nome... è più una specie di soprannome - adattissimo a mio parere - affibbiatogli da mio cugino Sirius. Harry ti ha parlato di Sirius, vero?»
Teddy annuì. «Sì. Era il suo padrino! Ed era uno dei migliori amici di papà…»
«Esatto. Uno dei pochi parenti che davvero considero tali».
«Uno dei pochi?»
«Uno dei due, in effetti. Ti ho mai parlato di zio Alphard?»
Teddy scosse il capo, incuriosito.
«Ah, un uomo affascinante. Un po' stravagante, se vogliamo. L'unico della mia famiglia oltre a Sirius a non avermi allontanata dopo il mio matrimonio con nonno Ted... anzi, mi fece persino un regalo di nozze, sai? Un regalo stravagante quanto lui. Neppure tua madre ha mai voluto indossarlo».
Sorrise alzandosi dalla poltrona e, circumnavigando la rigogliosa aspidistra, si avvicinò all'antico armadio di legno intarsiato che occupava un angolo della stanza, aprì con delicatezza le antine di cristallo, estrasse qualcosa e tornò dal nipote.
Teddy osservò incuriosito lo strambo aggeggio che la nonna stringeva tra le mani: sembrava una specie di incrocio tra un antiquato medaglione e un orologio da taschino. Il coperchio era delimitato dall'immagine di un serpente acciambellato su se stesso, mentre, al centro dell'oggetto, una piccola fenice color corallo sorgeva maestosa da vivide fiamme argentate .
Affascinato, il ragazzo prese l'oggetto dalle mani della nonna e trattenne il respiro, incredulo, quando ricordò dove aveva già visto quello stravagante gingillo: durante una punizione con la professoressa O'Sullivan - seguita a un ardito esperimento che coinvolgeva un Molliccio un poco anarchico e Mastro Gazza - Teddy aveva avuto l'incarico di sistemare la caotica libreria della professoressa (nessuno gli avrebbe mai tolto il sospetto che la professoressa O'Sullivan avesse in realtà apprezzato l'ardito esperimento, visto che sapeva perfettamente che per Teddy trafficare con i vecchi libri era tutt'altro che una punizione) e si era imbattuto in un decrepito diario scritto da una tale Althea.
Lo aveva sfogliato distrattamente, non molto interessato a sfornare deliziosi dolcetti al miele e, meno che mai, a conquistare un misterioso Grifondoro dai languidi occhi da randagio, ma era rimasto affascinato da un disegno schizzato su una pagina fittamente vergata a caratteri runici. Teddy aveva appena cominciato il corso di Rune Antiche, quindi aveva compreso solo che l'oggetto ritratto era una delle leggendarie Chiavi del Tempo.
«Tranquillo, tesoro» disse Andromeda, una sfumatura divertita nella voce. «Non ho alcuna intenzione di costringerti a indossarlo. Zio Alphard aveva gusti molto particolari... ma nemmeno lui ha preteso che lo portassi. Mi disse solo che lo avrei trovato utile se mai mi fossi pentita di avere sposato il nonno. Non ho mai capito come, ad essere sinceri. E' un oggetto di un gusto discutibile, certo, ma non abbastanza discutibile da spaventare nonno Ted».
Tacque un istante, pensierosa, poi si diresse nuovamente all'armadio e tornò reggendo una vecchia pergamena.
«Assieme al medaglione mi consegnò anche questa, io non so decifrare le rune ma tu sei molto bravo in questo, mi dicono. Se ti va di svelare il mistero di questo aggeggio di gusto particolare dando un senso ai deliri di zio Alphard, fai pure».
Teddy afferrò la pergamena con mano un po' tremante, scorse frenetico le rune, sgranando gli occhi, sempre più incredulo. Non poteva essere... forse aveva capito male.
Era probabile, in fondo.
Era da un bel po' che non ripassava le rune.
E lo sapevano tutti che le Chiavi del Tempo esistevano solo in una fiaba per bambini. Non erano più reali di Baba Raba.
Però la maggior parte della gente pensava che anche i Doni della Morte esistessero solo in una fiaba per bambini, e Teddy sapeva che non era così.
In preda a una crescente euforia strinse con forza il medaglione e la pergamena tra le mani e, dopo avere abbracciato con irruenza la nonna, che ridacchiò mormorando qualcosa a proposito di slanci tonksiani, tornò di corsa in camera sua, cercando disperatamente di ricordare dove avesse abbandonato il libro di Rune Antiche.
Perché, se quello stravagante dono di zio Alphard era davvero una Chiave del Tempo lui avrebbe potuto...



*****


Casa Tonks, 2 maggio 2018 A.D.


Dopo avere posato l'antica pergamena sul comodino, Teddy si sedette sul letto, fissando il massiccio medaglione dorato che teneva tra le mani e sfiorò con delicatezza la piccola fenice scarlatta che ne occupava il centro.
Forse, grazie a quello stravagante oggetto, avrebbe potuto rendere il mondo ancora un pochino migliore… almeno per lui.
Forse.
Ma doveva agire velocemente.
Vent'anni. Non uno di più.
La pergamena era molto chiara in proposito: quello che aveva sempre sognato di fare andava fatto quella notte o mai più.
E quel mai più suonava malissimo per Teddy.
Ma ora era pronto. Forse.
E avrebbe agito quella notte. Forse.
Perché, prima di potersi buttare in quell'avventura, doveva chiarire una questione fondamentale con Harry.
E, cosa probabilmente più complicata, doveva convincere la propria coscienza che non si stava comportando come un egoista insensibile.
Doveva convincerla che salvare due vite era meglio che non salvarne nessuna e che Molly avrebbe capito. Perché anche Molly amava Ninfadora Tonks e Remus Lupin.
Victoire, per lo meno, ne era sicura.
Teddy era ancora sorpreso dalla facilità con cui Victoire si era lasciata convincere della bontà di quell'intenzione.
Anzi, forse era più corretto dire che era stata proprio la reazione di Victoire a convincere lui che quell'intenzione, forse, non era poi così deprecabile.
Peccato che la sua bisbetica coscienza ponesse ancora qualche resistenza. Oh, era davvero bravissima a porre resistenze, la sua bisbetica coscienza... e molto meno facile da convincere di Victoire.
Erano quasi sei anni - dalla notte in cui nonna Andromeda gli aveva mostrato lo stravagante dono di nozze di zio Alphard, per la precisione - che Teddy si domandava con una punta di irritazione perché proprio a lui doveva essere toccata in sorte una coscienza tanto bisbetica... e tanto talentuosa nel generare ostinati sensi di colpa.
Sospirando, il giovane si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e sbirciò l'orologio che portava al polso: si stava facendo tardi.
Ed erano attesi da Harry per cena, strano che la nonna non lo avesse ancora convocato con urla che avrebbero fatto impallidire la Banshee più vocalmente dotata del Vecchio Continente.
Un po' sconcertato, Teddy si alzò dal letto, afferrò il giubbetto di jeans abbandonato sul vecchio scrittoio - niente vesti da mago quella sera, meglio optare per discreti abiti Babbani - recuperò la vecchia pergamena sistemandola con cautela in una tasca e indossò il vecchio medaglione.
Nonna Andromeda sarebbe stata sorpresa da quella decisione insolita: finalmente qualcuno avrebbe indossato lo stravagante regalo di zio Alphard.
Non era nemmeno così brutto, a parere di Teddy.
Certo, non era raffinato come il vecchio portaombrelli di ceramica bianca, decorato con paffuti puttini e rigogliose ghirlande di frutta, andato distrutto in un increscioso incidente provocato da Teddy e da un misterioso incantesimo letto su un vecchio libro polveroso. Increscioso incidente che nonna Andromeda non dimenticava di raccontare in ogni occasione possibile, rimpiangendo la devastante perdita di quel raffinato portaombrelli.
Teddy non l’aveva mai considerata tanto devastante, quella perdita.
Ma, del resto, lui non era dotato di gusti particolarmente raffinati
Un po’ preoccupato dalla mancata convocazione della nonna, Teddy scese in salotto e, aggirandosi tra delicati tavolini di cristallo e rigogliose aspidistre, intraprese una scrupolosa ricerca della strega.
Non trovandola da nessuna parte si sedette sul divano, scrutando pensoso il lucente portaombrelli di indistruttibile acciaio che aveva sostituito il suo raffinato predecessore. Sperava  ardentemente che nonna Andromeda non fosse ancora andata a protestare con lo scarno, lacero cantastorie che spesso e volentieri si accoccolava sul muretto che  delimitava il perimetro di Casa Tonks, intrattenendo ciurme di ragazzini incantati dalle sue storie fantastiche.
Era bravo a raccontare storie e Teddy lo trovava simpatico - da ragazzino si fermava spesso ad ascoltarlo, coinvolgendo anche Simon quando veniva a trovarlo - ma la nonna non riusciva a comprendere perché dovesse sempre posizionarsi davanti all'ingresso di casa, quasi si fosse preso la briga di improvvisarsene guardiano. Tra l'altro, secondo la nonna, era anche poco credibile come guardiano...

Un improvviso colpo sordo proveniente dalla cantina, seguito da un grido soffocato, fece sobbalzare il giovane mago che, allarmato, scattò in piedi e scese di corsa le scale fermandosi sbigottito davanti alla scena che lo accolse: Nonna Andromeda, con la schiena appoggiata alla parete, osservava pietrificata il corpo senza vita di un giovane uomo dall'aspetto familiare disteso al centro della stanza, accanto a un vecchio baule socchiuso.
Prima che Teddy potesse dare un senso alla scena, la nonna agitò debolmente la bacchetta magica, mormorando con poca convinzione qualcosa di incomprensibile.
L'unico effetto ottenuto dall'incantesimo fu che i capelli castano chiaro del giovane uomo dall'aspetto familiare virarono a un turchese acceso.
E Teddy, sempre più sconcertato, si rese conto che quel corpo non gli era solo familiare... era proprio il suo.
Nonna Andromeda singhiozzò, lasciando cadere la bacchetta e Teddy, comprendendo cosa stava succedendo, impugnò la propria accostandosi al corpo e scrutandolo scosso: che situazione surreale.
Con un secco Crack il cadavere si trasformò in un uomo tarchiato, vivo e vegeto, che si avvicinò minaccioso a Teddy brandendo una bacchetta nodosa.
«Riddikulus» esclamò Teddy con sicurezza e il sobrio mantello nero che avvolgeva l’uomo tarchiato si dissolse, sostituito da un vezzoso tutù rosa confetto.
L’uomo cominciò a volteggiare, più o meno leggiadro, per la stanza per poi dissolversi in uno sbuffo di fumo.
Teddy rinfoderò la bacchetta e si avvicinò alla nonna mormorando desolato: «Nonna...»
La donna lo azzittì con un cenno e, sedendosi su una vecchia seggiola un po' traballante, disse: «Sto bene, tesoro. Era solo un banale Molliccio che ho disturbato aprendo quel baule. Mi ha colto alla sprovvista, ecco tutto. Non me lo aspettavo e da una ventina d'anni a questa parte non è più così semplice sconfiggere un Molliccio, per me» sollevò sul nipote uno sguardo triste. «Non è facile renderlo divertente».
Teddy fissò assorto la macchia umida lasciata sul pavimento di ceramica dal Molliccio e scosse il capo, mesto. «No. Non lo è».
«Il tuo era davvero molto divertente, invece. Un po' raccapricciante... ma molto divertente».
Teddy sorrise, ricordando come era nata l'idea per sconfiggere il suo Molliccio.
Si era molto preoccupato quando, una luminosa mattina di ottobre, la Professoressa O'Sullivan era entrata nella Sala Grande annunciando euforica che, durante la lezione di Difesa del giorno successivo, avrebbero avuto il piacere di esercitasi con un vero Molliccio.
Teddy sapeva perfettamente cosa era un Molliccio - adorava immergersi nella lettura dei vecchi libri appartenuti al padre - e sospettava che il suo sarebbe stato più difficile da sconfiggere del calabrone gigante e peloso che popolava gli incubi di Simon.
Perché la cosa che Teddy temeva di più erano i Mangiamorte. O meglio, i Mangiamorte che avevano ucciso i suoi genitori. Figure senza un’identità precisa, senza un volto, e questo non faceva che renderli ancora più inquietanti… come si poteva rendere divertente qualcosa che ti terrorizzava e che non conoscevi?
Era stato Neville a suggerirgli l’idea per sconfiggere il Molliccio, consigliandogli di immaginarsi il soggetto in questione strizzato nel vestito più buffo e inadatto che poteva immaginare.
Teddy aveva colto con scetticismo quel consiglio, all'inizio, ma Neville aveva assicurato che con lui quella tattica aveva funzionato alla perfezione. E che era stato proprio Remus a suggerirgliela.
Teddy si era quindi fidato e, al momento cruciale, aveva visionato il vezzoso tutù indossato dalla sorella di Simon nella foto che campeggiava sopra il letto dell'amico (Neville aveva parlato di vestiti della nonna… ma i vestiti di nonna Andromeda erano troppo sobri per servire allo scopo. Nessun cappello dotato di volatile impagliato soggiornava nell'armadio di nonna Andromeda). Ma quel vezzoso tutù… oh, alla sorella di Simon stava d'incanto, tutti i ragazzi del dormitorio passavano ore in contemplazione del vezzoso tutù della sorella di Simon (o della sorella di Simon, per essere precisi, ma questa cosa era sempre stata accuratamente nascosta a Simon medesimo) ma sul Mangiamorte… l’effetto era davvero molto differente.

«E anche un Mangiamorte non è facile da rendere divertente» affermò Andromeda distogliendo Teddy dai suoi ricordi.

Il ragazzo le si avvicinò, socchiudendo gli occhi per virare i capelli verso un colore tonksiano, come era solito fare nelle rare occasioni in cui sorprendeva la nonna in un momento di malinconia, ma la strega lo fermò con una carezza e sussurrò: «No, Teddy, non farlo. Lasciali del loro colore naturale. Sono come quelli del tuo papà» sorrise divertita «io e tua madre glielo avevamo detto che eri identico a lui... ma lui insisteva nel dire che eri identico a Ninfadora. E' sempre stato parecchio cocciuto...» tacque un istante, poi sospirò. «Mi manca anche lui, sai? Mi piaceva molto... se solo avessi avuto il tempo di dirglielo...»
Teddy l'abbracciò stretta, rattristato dall'amara tristezza che vibrava nella voce della nonna. Sapeva che il rapporto della nonna con suo padre era stato faticoso, all'inizio. Era, però, sicuro che il mago aveva capito i motivi della nonna. Ma non sarebbe mai riuscito a convincere lei: era cocciuta almeno quanto sosteneva lo fosse Remus Lupin. E solo Remus Lupin in persona sarebbe riuscito nella disperata impresa di convincerla di quella cosa.
La fiera resistenza posta dalla sua bisbetica coscienza stava vacillando, constatò Teddy un po' sorpreso, indebolita da una semplice constatazione: se quella notte lui fosse davvero riuscito nella sua impresa, il mondo sarebbe stato un pochino migliore anche per nonna Andromeda.



Casa Potter, 2 maggio 2018 A.D.

Teddy era immerso nei propri pensieri, non era facile trovare il modo più adatto per porre a Harry quella domanda.
Era una domanda delicata.
Ma Teddy proprio non poteva evitare di farla. Doveva sapere se l’eventuale mancanza di Remus tra le quattro Anime che avevano accompagnato Harry nella sua difficile camminata nella Foresta Proibita, proteggendolo dal manipolo di Dissennatori in attesa e sostenendolo nel momento della resa a Voldemort, avrebbe cambiato la scelta di Harry.
Teddy, conoscendo il padrino, pensava di no… ma non poteva non chiedere.
Harry rispondeva sempre con sincerità e chiarezza alle domande che Teddy gli poneva. Da sempre. E Teddy era sicuro che avrebbe risposto con sincerità e chiarezza anche a quella domanda.
Ma voleva pensare bene a come porla, perché Harry non amava parlare di quell’avvenimento e Teddy non amava mettere in difficoltà Harry.
Ma non era facile pensare a come affrontare un argomento tanto delicato mentre due ragazzini esagitati parlavano frenetici tra di loro coinvolgendolo nelle loro chiacchiere spensierate.
Teddy, non volendo rattristarli, anche se con la testa era da tutt'altra parte, fingeva grande interesse e, di tanto in tanto, annuiva con estrema partecipazione.
Era rischioso come comportamento, e lo sapeva. L’ultima volta che aveva finto grande interesse e annuito con estrema partecipazione mentre era immerso nei propri pensieri, si era ritrovato arruolato in una spedizione di ricerca spinta dall’ammirevole intento di trovare una colonia di Nargilli.
Ma ora non era Natale e non c'era vischio nei paraggi. I Nargilli non avrebbero dovuto costituire un problema, al momento…

«Teddy? Tu quanti anni avevi quando lo hai fatto per la prima volta?»

Il giovane mago si riscosse dai suoi pensieri, scrutando allibito la ragazzina dai capelli ramati che gli sedeva accanto.
«Io... temo di essermi perso qualcosa, Lily, di cosa stiamo parlando, esattamente?» indagò, giocherellando distratto con la grossa fetta di crostata al rabarbaro che aveva nel piatto e sperando ardentemente che la prima volta in questione non riguardasse in nessun modo Victoire Weasley.
«La prima volta che hai volato su una vera scopa, naturalmente» precisò la piccola, scoccando un’occhiata infuocata alla madre.
Sollevato, Teddy posò la forchetta e corrugò la fronte. «Oh... sì... otto anni, credo. Più o meno»...


... Continua ne “La Chiave del Tempo”



Ed eccoci arrivati alla decima tappa del nosto Viaggio.
L'ultima tappa.
Ebbene sì, il nostro avventuroso viaggio sulle tracce dei Custodi delle Chiavi del Tempo è giunto al termine.
L'Ultima Chiave, concluso il suo tortuoso cammino, è giunta nelle mani dell'Ultimo Custode - almeno per il momento - Teddy Remus Lupin.
Se volete sapere come Teddy la userà dovete solo leggere "La Chiave del Tempo" (comincia esattamente dal punto in cui si conclude questa storia).
Se lo farete, l'Ultimo Custode ne sarà contento. E io con lui! ^^
E voi potrete scoprire cosa accomuna un ragazzino romano vissuto nella Britannia del I secolo D.C. a un giovane mago che vive nell'Inghilterra di venti secoli dopo.
Ora le ultime "Note di Servizio" di questa storia:
Il Tortotronco è una mia invenzione, J.K. Rowling non ce ne ha mai parlato... ma a me serviva qualcosa del genere.
Spero ardentemente di non aver offeso troppo i puristi del Mondo della Rowling con la sua opinabile invenzione... ^^
Il lacero Cantastorie citato di sfuggita in questo capitolo avrà un importante ruolo ne "La Chiave del Tempo", quindi mi pareva carino accennare a lui anche qui.
Infine, so che il "mio" Teddy è piuttosto distante dal Teddy medio delle fanfiction. Non è una specie di irresistibile cataclisma dai capelli cangianti, ma un ragazzo normalissimo, forse un po' più maturo dei suoi coetanei, e soggetto anche a (rari, per la verità) momenti di malinconia.
Questo potrà forse sembrare strano a molti, ma io Teddy lo immagino così (lo vedo molto più simile a Harry che a Ron o ai gemelli, per intenderci, vista e considerata la sua storia personale) e non ci posso fare nulla. ^^

Per concludere: un ringraziamento a tutti coloro (sono tantissimi e non me lo aspettavo tenuto conto della particolarità di questa storia) che hanno letto "I Custodi delle Chiavi del Tempo", a quelli che l'hanno inserita tra le preferite o le ricordate e, soprattutto, a coloro che sono stati tanto carini (e pazienti) da farmi conoscere i loro pareri.
Sappiate che sto già pensando a una sorta di Epilogo (che temporalmente si va a posizionare prima dell'Epilogo de "La Chiave del Tempo").
Prima o poi troverò il tempo di scriverlo... e, magari, il modo di pubblicarlo! Fatevene una ragione. ;)


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