Like A Kaleidoscope

di Phantom_Miria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter1 ***
Capitolo 2: *** Chapter2 - part i ***



Capitolo 1
*** Chapter1 ***


Per la prima volta, sono davvero davvero DAVVERO perplessa sulla riuscita di una fic. È la prima volta che uso la prima persona e per l’ennesima volta ho provato a me stessa di non essere assolutamente capace a fare delle descrizioni di luoghi (e a fare dello humor. Ma è davvero incredibile, non riesco a inventarmi una battuta divertente che sia una. È imbarazzante). E e e sì, in generale il mio livello di soddisfazione per questo capitolo è neutro. Per una volta, affermo esplicitamente che le critiche sono molto ben accette. Ah, e in caso tra i lettori ci sia qualcuno che ha letto anche altre mie fic (ne dubito), sappiate che quella RoxasSora continuerà, è in fase di scrittura, è solo che quest’anno ho la maturità e quindi non ho mai un cavolo di tempo per scrivere. Per quanto riguarda l’altra fic LaviAllen, mh. Teoricamente il terzo capitolo ce l’ho pronto da secoli, ma mi sono un po’ inceppata, per ora non credo proprio che la continuerò. QUESTA INVECE SÌ. LO GIURO (anche perché ho già predisposto tutto. Semplicemente, procederà piuttosto lentamente, soprattutto in questo periodo). 

(La penultima parte di questo capitolo mi rattrista. Mi sembra di averla scritta da schifo, quindii scusate, lol. Magari quando farò il secondo, la riscriverò meglio .-.)

 

Disclaimer: Non mio. Se lo fosse, mi impegnerei di più nel disegnare gli ultimi capitoli (cosa diavolo è successo a quei disegni?)

 

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. C h a p t e r 1 .

~~~

Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito, impaurito,
sospettoso, sognando sogni che nessun mortale mai ha osato sognare.”

( E d g a r  A l l a n  P o e )

~~~

Ha i piedi immersi nell’acqua.

La risacca schiumosa lambisce gentilmente le sue caviglie, trascinando avanti e indietro, in un unico ipnotico movimento, la fine sabbia bianca. Conchiglie rotte, striate d’ambra, giacciono sparpagliate lungo la riva dell’isola, semi-nascoste dalla sabbia asciutta, e orecchie di Venere occhieggiano brillanti nella loro cangiante sfumatura perlacea—dove mi trovo?

I raggi di sole riscaldano impietosi la piccola spiaggetta, e si riversano sull’immenso mare color acquamarina che la bagna. Colpiscono la sua pelle, sono laceranti. Il sole stesso è lacerante, una sfera incandescente stagliata nell’infinito azzurro limpido del cielo—c’è qualcuno qui?

Nell’aria aleggiano il calmo suono delle onde che si infrangono a riva e gli stridii di uccelli. La fresca brezza marina gli smuove la morbida maglia bianca e slargata, che con difficoltà rimane aggrappata alle sue spalle senza scivolare lungo le braccia pallide—Voglio tornare a casa.

Un brivido gli percorre rapido la schiena, lasciando la pelle d’oca lungo il suo tragitto. Sulla sabbia, definite come scritte d’inchiostro nero su un foglio bianco, si muovono fluide le ombre dei gabbiani.

Il cielo è limpido, e vuoto.

Non sa cosa fare. Rimane immobile, con i piedi immersi nell’acqua, a guardare le ombre che scivolano sulla sabbia.

Davanti a lui si stende un bosco di frassini, così fitto da impedire alla luce di filtrare oltre le chiome. È una macchia scura fuori luogo in uno scenario da cartolina estiva – c’è una penna? Così la firmo, torno a casa, tutto questo può finire –, una nota stonata in una sinfonia di Beethoven—non dovrebbe essere lì. Né il bosco, né lui. Spera di non doversi avvicinare.

Ma il suo corpo, scopre di lì a poco, ha una volontà propria. Muove un passo avanti, con incertezza, perché non sembra esserci nessun altro nelle vicinanze, eppure ha la sensazione che qualcuno lo stia spiando dall’oscurità del bosco.

Non vuole avvicinarsi, non vuole entrare. Una vocina da un angolo recondito nella sua testa gli suggerisce, confermando i suoi timori, che non dovresti trovarti qui. Ma non ha nessun posto dove andare, intorno a lui c’è solo sabbia, mare, altra sabbia. Quindi resta fermo dov’è, e tenta di riflettere, finché non si accorge che la sua testa sembra essere completamente vuota. Nessun pensiero, nessun idea.

Ma in quel vuoto, sente una strana presenza. C’è qualcosa acciambellato nel buio, ai margini della sua mente, che osserva e sussurra, osserva e sussurra, e continua continua continuachiudi quella bocca – un’intelligenza autonoma, un parassita – più di uno, parlano tra loro, potete stare zitti? – che non è in grado di controllare. La ignora meglio che può.

Il suo piede sprofonda un poco nella fanghiglia scura, fuori dall’acqua, fino a che qualcosa di piccolo, sepolto sotto la sabbia umida, ne sfiora la pianta e—solleva il piede.

Nell’impronta che ha lasciato vi è adagiato un piccolo pesce pagliaccio – il suo nome scientifico è amphiprion percula. Non sa come faccia a saperlo ma non si ferma a riflettere –, gli occhietti giallastri spalancati e vitrei e le fragili pinne variopinte esanimi. Dev’esserci qualcosa di affascinante e allo stesso tempo agghiacciante nella vista dell’animale senza vita, perché altrimenti non potrebbe spiegare come mai non riesce a smettere di fissarlo.

E lo sta ancora osservando quando questo inizia a sciogliersi lentamente e quella stessa vocina di prima gli spiega che i pesci non si sciolgono, ma il pesce è lì davanti e si sta sciogliendo e lui risponde mentalmente che io credo in quel che vedo, non dimentico quel che vedo, e allora si sente stupido, perché sta discutendo con una voce nella sua testa. Ignora anche quella.

I suoi colori sempre più iridescenti cominciano a mescolarsi nell’acqua in un turbinio di strisce bianche e nere e arancioni e – lo scheletro è ancora lì, le sottili lische appuntite abbandonate, incagliate nella sabbia bollente, ed è uno strano scheletro, perché sembra fatto di metallo ed ha una forma innaturale – e il mare è all’improvviso rosso, come il cielo soprastante – sangue, sembra un mare di sangue e il sangue cola dal sole in gocce grandi e rumorose che cadono nell’oceano – e deve esserci un terremoto perché gli stridii dei gabbiani si perdono in un grido acuto e straziante – e la voce tenta di spiegargli che i terremoti non gridano ma non me ne frega niente perché sa che dietro tutto ciò, in questo fottuto mondo incasinato un senso c’è, deve esserci. Un qualcosa di importante sta accadendo, gli manca così poco per avere la spiegazione che sta cercando stretta nel suo pugno, deve solo capire perché i gabbiani hanno lasciato le loro ombre sulla spiaggia – e la sabbia comincia a tremare sotto le piante dei suoi piedi, mentre dall’acqua emergono maestose in un boato fragoroso delle rovine di pietra, macerie di colonne e archi e soffitti a volta.

E all’improvviso, tutto si calma.

È appena apparso un intero mondo in mezzo al mare, fatto di macerie e ricordi, un mondo nato morto, la traccia di un passato grandioso, o di un qualcosa che avrebbe potuto esserlo, inondato di luce rossa e ombre nere e—magari c’è qualcuno, ma non vuole saperlo. Sembra vicino, probabilmente se allungasse una mano potrebbe toccare le nude pareti di roccia, sentire il raccapricciante dolore racchiuso in esse— non allunga la mano.

Nel cielo si staglia una mezzaluna, pallida e argentea, butterata da crateri e dai contorni zigrinati. La superficie dell’acqua ora è immobile e liscia come una lastra di vetro e in essa si specchia la luna. Ma il suo riflesso è nero come la pece, orrendo, e non voglio stare qui, non voglio, fatemi uscire, fatemi uscire da qui, non voglio vedere—

E dopodiché le sue gambe prendono a muoversi da sole, lo fanno voltare – non voglio vedere – e lo conducono verso i limiti del bosco – la voce grida più che mai di non entrare, e qualcosa si annoda nel suo stomaco alla vista dei grossi tronchi scuri che ora lo sovrastano, non è sicuro di poter respirare bene una parte di lui desidera ritrovare quello scheletro, dov’è andato? Un’altra lo teme più del bosco stesso.

In un attimo è davanti all’entrata del bosco, e non riesce ad arretrare. Le sue gambe tremano, e sente i polmoni annaspare per nuova aria. La voce gli dice di non voltarti, perché sta succedendo qualcosa in quel mare rosso e quel qualcosa ha intenzione di avvicinarsi, ma un balenio argentato si fa scorgere tra gli alberi e attira la sua attenzione – qualcosa si sta avvicinando.

C’è una farfalla, un’esile farfalla dalle ali rosse, bordate d’argento, che fluttua tra le chiome e si nasconde alla luce malsana. Sbatte le sue grandi ali, grandi quasi quanto una sua mano, ma sta ferma, sospesa a mezz’aria, non si muove di un millimetro.

Libera un lungo sospiro che non si era accorto di stare trattenendo. Allunga la mano, per raggiungerla, per toccarla, perché è curiosa, no?, una farfalla così grande e così bella. Ma quella scivola via più lontana, ancora più all’interno del bosco buio – non ti seguirò, non entrerò.

Non gli permette di allontanarsi troppo, le sue gambe ancora tremanti procedono.

Inizia a chiedersi se sia sano di mente, perché un attimo fa non voleva seguirla. Questa volta, la voce non commenta. Ne deduce che la risposta sia un no, e una piccola, minuscola parte di lui, nascosta da qualche parte, trova tutto ciò divertente, perché persino le voci pensano che sia pazzo.

Sente quel qualcosa, accoccolato nel silenzio della sua mente, rispondere alla realizzazione con delle fusa sommesse.

Un altro passo, e all’improvviso capisce: quella farfalla è la spiegazione che cercava, il motivo del suo essere qui, è tutto – e l’unico essere vivente che ha incontrato finora – e se la lasciasse andare non avrebbe speranza di uscire.

Entra nel bosco.

E, inaspettatamente, un’abbagliante luce bianca lo avvolge, e una voce profonda si alza, e sembra provenire da ogni parte intorno a lui.

Oi, stupido ragazzo, svegliati.”

oOoOoOoOoOo

Oi, stupido ragazzo, svegliati,” grugnì la voce roca del mio tutore dalla porta della stanza.

Un fioco raggio di luce artificiale, proveniente dal corridoio, mi colpì le palpebre socchiuse, portandomi automaticamente a strizzarle con più forza del necessario e a voltarmi velocemente – per quanto le mie capacità motorie ancora addormentate potessero permetterlo – verso l’altro lato della stanza.

Cross doveva già star fumando la sua prima sigaretta del giorno, perché nell’aria chiusa della camera iniziava ad aleggiare un vago, fastidioso odore di fumo e nicotina. Si sentì un sommesso click, e la lampada sul soffitto si accese scacciando la piacevole oscurità che i miei occhi ancora agognavano.

Rifiutandomi di aprire le palpebre, mugugnai in risposta parole incomprensibili persino a me stesso, mentre allungavo alla cieca una mano per afferrare un orlo della coperta e tirarmela oltre la testa.

Non fu la scelta migliore: in un attimo sentii le calde coperte abbandonare il mio corpo, strattonate violentemente da un lato, e il freddo mattutino attaccare la mia pelle nuda, coperta solo da un paio di boxer scoloriti. Costretto ad aprire gli occhi, lanciai al colpevole un’occhiata omicida – la quale non dava risultati concreti, ma soddisfaceva in parte la mia necessità di rendere chiaro a Cross che il mio unico desiderio della giornata sarebbe stato quello di vederlo rantolare ai piedi del mio letto in preda a inimmaginabili dolori.

Ovviamente Cross, neppur minimamente intaccato dall’atmosfera pregna di istinto omicida represso, esibiva un ghigno strafottente, mantenendo il mozzicone di sigaretta precariamente in equilibrio a un angolo della bocca.

Dio santo!” gli ringhiai contro, coprendomi rapidamente gli occhi con una mano, rifiutandomi di guardare per un secondo di più quella faccia soddisfatta – realizzai con dolore che c’era un’alta possibilità che avesse disturbato il mio sonno solo per puro divertimento. Per questioni di karma, la mattina non si prospettava felice. Prevedevo catastrofi domestiche nell’arco della giornata.

“Sì, lui è ciò che vedrai se entro venti secondi non scendi da questo letto e non mi dai ascolto,” Cross asserì con fare minaccioso, prima di voltarsi e tornare indietro.

“Ti aspetto in cucina,” aggiunse, e se ne andò, richiudendo la porta dietro di sé. I suoi passi risuonarono pesanti nella sua discesa lungo le scale, mentre si dirigeva al piano terra.

Rimasi immobile, sdraiato sulla schiena, per qualche secondo, con la netta sensazione nelle ossa di essermi svegliato più stanco di quanto lo fossi quando ero andato a dormire – gli incontri ravvicinati con il Maestro di prima mattina potevano dare quest’effetto. Grazie al cielo erano rari. O almeno, così ravvicinati erano rari. Di solito, la distanza minima che raggiungevamo tra di noi di mattina era quella tra la cucina e il salotto, quest’ultimo l’usuale punto di bevute notturne di Cross.

Scoraggiato dalla vita, lasciai lentamente scivolare la mano dalla fronte e lanciai un’occhiata obliqua alla sveglia digitale adagiata sul suo comodino, insolitamente silenziosa. Aggrottai le sopracciglia.

“Sono le sei del mattino! Perché diamine mi hai svegliato, stupido Maestro?!” gridai esasperato, sapendo che Cross avrebbe sentito, ma probabilmente non si sarebbe degnato di rispondere. Mi girai su un fianco e cacciai la testa sotto il cuscino, non trovando la forza necessaria per alzarmi, spegnere la luce e tornare al mio meritato sonno – meritato per un motivo di fatto inesistente se non quello di aver sopportato Cross per l’intera giornata precedente, che personalmente, ritenevo fosse sufficiente per guadagnare il sonno di una vita.

“Smettila di lagnarti inutilmente, e scendi subito, quei dieci secondi stanno passando in fretta!” arrivò da sotto la voce di Cross, ancor troppo forte per i miei gusti, seppur attutita da muri e cuscino.

Considerai seriamente l’idea di ignorare il comando. Erano le sei del mattino, e Cross non mi sopportava, ma pensai, con una voce interiore spiacevolmente vicina a un pietoso mugolio, che non meritavo un tale trattamento. Ritornai rapidamente con la mente alla sera prima, cercando di ricordare se avevo lavato i piatti e pulito la cucina, e il ricordo era lì, limpido e pulito e simile a quello di ogni sera della mia vita. Quindi questa non era una punizione. Perciò doveva esserci per forza un altro motivo, anche se non riuscivo a immaginare quale.

Vinto da una curiosità che non credevo di possedere – e giurando a me stesso che sarei tornato a dormire se il motivo non fosse stato valido – con un grugnito rotolai fino al bordo del letto. Ma la stanchezza residua doveva avermi fatto calcolare male le distanze perché non ebbi tempo di realizzare l’improvviso vuoto sotto di me che caddi a terra con un tonfo sordo.

Il dolore attaccò prontamente la mia spalla e si irradiò lungo il braccio, e mi lasciai sfuggire un gemito di frustrazione.

‘La vita ti sorride, oggi, Allen,’ pensai sarcasticamente, e cominciai con fatica a districarmi dal groviglio di coperte e lenzuola che avevo trascinato giù con me, con un grosso dispendio di energia fisica.

“Ragazzo, non voglio passare il resto della mia gloriosa vita aspettando te,” abbaiò di nuovo Cross dalla cucina.

Con un finale e decisivo strattone, mi liberai e mi issai faticosamente in piedi. “Fai finta che tu stia aspettando una delle tue innumerevoli donne. L’attesa ti risulterà più piacevole,” gli urlai di rimando, mentre cercavo con lo sguardo la maglietta che avevo usato il giorno prima. I miei occhi sembravano non riuscire a rimanere aperti. Passai una mano sulla faccia tentando di scacciare le tracce di sonno residue che mi appesantivano le palpebre. Quando riaprii gli occhi, adocchiai finalmente la maglietta, abbandonata per terra ai piedi del letto, tutta arruffata e semi-nascosta tra i lembi bianchi delle lenzuola.

Da sotto risuonò un grugnito di divertimento. “Seppure tu abbia le fattezze di una ragazza, con quel tuo corpo mingherlino e il visetto angelico,” sentii distintamente una vena ingrossarsi, pulsante, sulla mia fronte, “non lo sei. E se tu lo fossi, non ti avrei fatto scomodare dal letto, ma mi sarei unito a te nel momento in cui la porta fosse stata aperta.” Ci fu una pausa. “Ew, un’immagine di cattivo gusto. Davvero di cattivo gusto. Ora sento il bisogno di una ragazza vera, con una quarta e tutto il resto.”

Rabbrividii. “Non preoccuparti, è un sentimento reciproco. E per quanto ti possa sembrare inspiegabile, non sono interessato a conoscere i tuoi gusti in fatto di femmine nel dettaglio.”

Infilatomi la maglietta, aprii la porta della stanza e percorsi il breve corridoio che precedeva le scale, prima di trottare giù e infilarmi in cucina, lanciando uno sguardo veloce alle bottiglie vuote di vodka e gin sparse sul tappeto del salotto che sarebbe toccato a me riordinare.

“Iniziavo a dubitare che saresti mai arrivato.” Appoggiato contro il mobile del lavandino, vi era il mio peggior incubo, con la sua folta criniera di lunghi capelli rossi e uno sguardo malevolo nei suoi occhi ambrati, dietro le fini lenti dei raffinati occhiali rettangolari adagiati sul naso. Stranamente già vestito, con una camicia sobria e pantaloni di pelle neri infilati dentro due alti anfibi cinghiati dello stesso colore, Cross era intento a versarsi del gin – probabilmente già il terzo round – nella tazza che teneva in mano, come fosse latte.

“Stai zitto,” borbottai stizzito, prima di lanciare un’occhiata critica alla tazza e alla bottiglia semivuota. “Ma è sano?” chiesi disgustato, “Voglio dire, sono le sei del mattino.”

Per tutta risposta, Cross allungò la tazza verso la mia faccia, e io arricciai involontariamente il naso in una smorfia di disgusto quando il forte odore mi arrivò alle narici.

“Potrebbero essere le sei e trenta, ormai, per quanto tempo hai impiegato ad alzarti,” ribatté Cross con aria di sfida. Ripose con poca grazia la bottiglia sul tavolo posto al centro della cucina, e alzò la tazza alle labbra, sorseggiando il gin con gusto, “E dov’è il rispetto per il tuo Maestro, comunque?”

Mi lasciai cadere su uno degli sgabelli intorno al tavolo e appoggiai la fronte sulla superficie legnosa davanti a me, confortevolmente fredda. Stavo rimpiangendo di essermi alzato dal mio comodo letto, se il sacrificio era stato compiuto davvero solo per questa interessante conversazione. “Se mai ne ho avuto, è rimasto a letto. Perché sai, non è abituato a svegliarsi alle sei del mattino.”

Cross sbuffò sprezzante, “Essere mattiniero per una volta non ti ucciderà, stupido ragazzo.” La sua mano si stava già allungando verso la bottiglia di alcool per una nuova razione. “E poi, ti ho svegliato per un motivo.” Dopo una breve pausa e uno schiocco di labbra, aggiunse con fare pensieroso, “Oltre, ovviamente, alla pura soddisfazione che mi causa l’importunarti psicologicamente e fisicamente.”

Ignorando l’ultima parte – se si era costretti a vivere con Cross, imparare semplicemente ad ignorare certe cose era indispensabile – sollevai la testa per indirizzargli uno sguardo inquisitorio.

In risposta Cross distolse gli occhi da me e li puntò sulla finestra alle mie spalle, attraverso cui si poteva ancora vedere la luna nel cielo blu. La sua espressione si era fatta più seria. “Devo partire.”

Per qualche motivo, che fosse per effetto sonoro o per la mia immaginazione, le parole sembrarono rimbombare tra i muri della piccola cucina, nel silenzio che seguì.

Poi il significato della frase mi colpì, improvviso come un fulmine, e mi lasciò stupefatto. Inarcai un sopracciglio.

“Da quando…” cominciai, fissando il vuoto con fare sinceramente perplesso, “…ti preoccupi di avvisarmi per tempo delle tue partenze improvvise?”

Cross doveva aver ricevuto in dono da un qualche dio il potere dell’ubiquità, durante la notte, perché avrei giurato che un secondo prima il Maestro non si fosse trovato a un passo da me, con la mano sinistra sollevata e pronta a mollarmi un sonoro scappellotto.

Diedi la colpa alla infima spaziosità della cucina.

“Ahi!” esclamai, un po’ per il dolore un po’ per la sorpresa, “Cosa ho detto questa volta?!”

“Piccolo moccioso insolente,” ribatté Cross con un sorrisetto distorto che non distoglieva l’attenzione dalla vena protuberante sulla tempia. “Io ti avviso sempre delle mie partenze!” sbottò, allungandosi verso il piccolo portacenere al centro del tavolo per riprendere la sigaretta abbandonata precedentemente.

Massaggiandomi il collo dolorante, lo guardai scettico, perché per un divertente attimo mi era sembrato sinceramente convinto.

“Lasciare un biglietto,” iniziai, con lo stesso tono pacato di un adulto che deve spiegare a un bambino cos’è sbagliato e cos’è giusto, “con su scritto ‘starò via per qualche giorno. Non bruciare la casa e non morire, non vali così tante scartoffie’,” recitai in un’imitazione a mio parere perfetta della voce raspa del mio tutore, “non è comunemente considerato un ‘avviso per tempo’!”

Cross alzò gli occhi al cielo mentre inspirava una boccata di fumo. “Accontentati di quello che la vita ti dà,” disse filosoficamente.

“Troppo presto per bere idiozie filosofiche,” commentai con astio, prima di essere colto da una realizzazione che mi fece sorridere ironicamente, “Quindi è per questo che ti sei scolato tre quarti della tua riserva di alcool? Paura che tu non abbia l’occasione di bere in servizio? Che marcisca o che la usi per lanciare qualche party con gli amici mentre sei via?”

Perché conoscendo il Maestro, poteva benissimo essere la verità.

“Sei troppo strano per poter stringere amicizie con qualsiasi umano entro i primi tre mesi di scuola,” ribatté Cross.

Ow. Quello aveva fatto male. Principalmente perché era vero – feci finta di non notare come la mia mano destra fosse andata automaticamente a stringere il braccio sinistro, quindi la portai rapidamente distesa sul tavolo.

E inoltre questo mi rammentò la spiacevole verità che quel giorno sarebbe stato il mio primo giorno nella nuova scuola, in seguito al trasferimento. Ancora, ow.

La valutazione della giornata stava pian piano sfociando in un drammatico ‘Gialla’.

Uno scomodo silenzio calò nella cucina, sia perché io era ancora troppo addormentato per poter trovare una tagliente, o quanto meno logica, battuta di ritorno – ma era almeno possibile? – e il pensiero del primo giorno di scuola mi aveva gettato in una spirale di panico interiore che stavo tentando di tenere sotto controllo, sia perché Cross non era capace di chiedere scusa, o aveva già la mente intirizzita dall’alcool o semplicemente se ne sbatteva. Forse il silenzio dava fastidio solo a me, effettivamente.

“Magari no, ha tutte le qualità per essere una Giornata Arancione…” borbottai scorato, prima di rendermi conto di aver effettivamente detto qualcosa che avrei preferito soltanto pensare. Chiusi la bocca con uno scatto e lanciai un’occhiata a Cross per controllare se mi avesse sentito o meno. La sua faccia contratta in una smorfia disgustata fu sufficiente a darmi la risposta.

Cristo, ragazzo,” Cross mi guardò come se fossi un alieno, “hai intenzione di continuare a fare quegli stupidi quaderni colorati delle giornate? Potrei iniziare a preoccuparmi,” disse con tono sarcastico. “È così patetico.”

Lo guardai torvo. “Per tua informazione, ho smesso un bel po’ di tempo fa.”

(I suddetti quaderni colorati erano semplicemente una vecchia abitudine che avevo quand’ero più giovane in base alla quale ogni giorno coloravo su un apposito quaderno un quadrato rappresentante il giorno appena trascorso di un particolare colore che significava un certo andamento della giornata. Nonostante avessi ormai smesso di farlo, ogni tanto mi veniva spontaneo pensare alla giornata in base alla breve legenda dei quaderni. Gialla e Arancione, in particolare, significavano rispettivamente ‘Tendente allo schifo’ e ‘Schifo’.)

E seppur condividessi l’idea che era un’abitudine per certi versi un po’ triste, non potevo permettergli di insultare per l’ennesima volta le mie attività private, per quante strane fossero. Non capivo, d’altronde, cosa potesse fregargliene a lui di quel che facevo io nel tempo libero – a meno che non lo passassi a bere i suoi alcolici, devastare il vicinato e picchiare le vecchiette.

Cross chiuse gli occhi stizzito, e li riaprì in attimo dopo, schiarendosi rumorosamente la voce, “Stavo dicendo.”

Ah, giusto. La partenza.

“Probabilmente starò via per tre mesi. Forse di più. Magari quattro. È un caso… importante.”

Sgranai gli occhi. Non mi era sfuggito il modo in cui Cross si era fermato per soppesare cautamente le sue parole. Non era da Cross. E ciò mi rendeva inquieto.

Cross non aveva mai spiegato con precisione che lavoro faceva. Sapevo che in qualche modo collaborava con la polizia e che il suo ruolo era piuttosto importante, ma fino a quale estensione, il mio tutore non mi aveva concesso di saperlo. Avevo le mie personali teorie sulla faccenda, ovviamente. Ma non ne avevo mai discusso con nessuno, e da quando il mio terzo tentativo – particolarmente insistente – di interrogare Cross sull’argomento era terminato con uno scontro verbale quasi sfociato nella lotta libera e il compito di pagare i debiti alcolici dell’altro entro una settimana, non avevo più osato chiedere.

Quindi, per quanto tutto questo fosse misterioso, non era raro che il Maestro se ne andasse per svariati giorni senza far avere sue notizie, per poi ritornare nel pieno della notte con una bottiglia di rhum economico in una mano e il reggiseno in raso di una qualche donna probabilmente incontrata sulla via del ritorno nell’altra.

Non che le sue assenze mi dispiacessero. Era sempre un piacevole cambiamento non avere quell’irruento uomo in casa ogni giorno a bere, invitare donne e abusare verbalmente di me in ogni modo possibile e immaginabile.

Ma comunque, un’assenza così lunga era piuttosto rara, quattro mesi sembravano un po’ troppo per… qualsiasi cosa lui facesse.

Non che avrei mai ammesso ad anima viva, tantomeno a Cross, di essere in alcun modo affezionato a lui. Avevamo un rapporto piuttosto inusuale, per così dire, e di certo non fondato sull’affetto e il rispetto reciproco – ogni tanto non ero neanche sicuro che Cross potesse provare un sentimento come l’‘affetto’. Ma sotto tutti gli insulti e i maltrattamenti, mi piaceva ingenuamente pensare che avessimo un rapporto unico e vero, per quanto strano fosse.

(In realtà mi ero chiesto più volte in passato il motivo per cui avesse deciso di prendermi con sé, perché se c’era una cosa che era stata messa in chiaro da Cross stesso fin dall’inizio, era che lui odiava i bambini. Se non il mondo in generale, escluso il genere femminile. Quindi rimaneva un mistero. Cross rimaneva un mistero.)

E inoltre, sfortunatamente, era nella mia natura preoccuparmi. Non tanto per Cross, perché ero sicuro che lui potesse sfuggire a qualsiasi guaio in cui si sarebbe mai cacciato. Ma… c’era qualcosa, in me, che non sopportava l’idea di essere abbandonato.

“Quattro mesi?” chiesi titubante, facendo di tutto per nascondere l’ansia che rischiava di far tremare la mia voce, “Non è un po’ più del solito?”

Cross si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata penetrante al di sopra dei suoi occhiali rettangolari.

Distolsi lo sguardo, agitandomi nervosamente sullo sgabello. Mi sentivo come un paziente in una sala operatoria, pronto ad essere aperto per permettere ai dottori di guardare all’interno – ogni tanto lo sguardo di Cross dava quella spiacevole sensazione di essere ispezionato da cima a fondo, senza possibilità di nascondersi.

Non volevo che capisse come mi sentivo, non volevo apparire debole in alcun modo.

Inspirando, incrociai le braccia sul torace con finto fare scocciato. “Non che mi importi di te. Voglio dire, l’unica cosa che mi preoccupa sono le orde di tuoi amici creditori che prima o poi riusciranno a rintracciare il nostro nuovo indirizzo e, non trovandoti, se la prenderanno con me. Sono bravo a battermi, ma non sono un cyborg con pugnali volanti e missili intelligenti installati nel mio—”

Cross proruppe in una sonora risata, che assomigliava più un latrato. “Ah, mi ero dimenticato di quanto fossi una mammoletta, moccioso,” mi schernì, posando finalmente la tazza nel lavandino, senza smettere di ghignare.

“Non sono una mammoletta!” protestai, punto sul vivo. “Ricordi l’ultima volta che è successo? Erano dieci. Qualcuno mi ha colpito in testa e bum! Mi sono risvegliato in una strada deserta con dolori su tutto il corpo e non so neanche cosa diavolo sia successo—”

“Non c’è bisogno di ricordare,” mi interruppe bruscamente Cross, con la schiena rivolta verso di me, e qualcosa nella sua voce mi suggerì di non continuare. Non potevo vedere la sua espressione, ma la sua voce era di certo seria, se non persino… agitata?

No, non poteva essere, doveva essere stata un’impressione. Anche perché non avrebbe avuto senso. Cross amava lasciarmi in balia dei creditori, che fosse via per lavoro o meno. Soprattutto da quando aveva scoperto che ero portato nel racimolare soldi giocando a poker.

Poteva essere che quel ricordo lo irritava? Era dispiaciuto perché avevo rischiato di farmi male sul serio?

…No, assolutamente no. Neanche sapevo se Cross teneva a me fino al livello di preoccuparsi per una cosa del genere.

Okay…?” Non sapevo cosa dire. Rimasi al mio posto, guardandolo e cercando di immaginare cosa stesse pensando, senza riuscirci.

“Comunque,” la fine di quello spiacevole silenzio mi fece quasi sospirare di sollievo. Cross si voltò di nuovo verso di me e mi guardò con un’aria quasi sofferente, come se quel che doveva dire gli costasse un enorme sforzo, “ti ho lasciato una carta di credito sul tavolino, in salotto. Il codice è scritto sul foglietto. Usala con la testa. Se quando torno hai esaurito il credito, giuro che ti uccido. Quindi trovati un lavoro pomeridiano e guadagnati da vivere.”

E quella era diventata, ufficialmente, la mattina delle sorprese.

“Cosa c’è,” chiese con voce monotona Cross, notando la mia espressione stupefatta – che personalmente non potevo vedere, ma ero sicuro che fosse un’espressione abbastanza idiota. Sentivo distintamente la mia mandibola qualche piano più in giù rispetto al resto della faccia.

“Tu hai… una carta di credito? Con del denaro vero dentro?” chiesi con aria ebete, troppo stupito per calibrare l’intonazione della mia voce.

Cross mi lanciò un’occhiata velenosa.

“Sì, ragazzo idiota, e queste tue affermazioni idiote e senza senso mi stanno facendo ripensare alla mia decisione di lasciarne una in tua custodia. Non vorrei che ogni volta che la maneggiassi avessi quell’espressione completamente idiota stampata sulla faccia, perché grida letteralmente ‘sono un idiota, derubatemi’.”

Aggrottai la fronte, improvvisamente seccato. Aveva usato la parola ‘idiota’ ben quattro volte.

“Non sono un idiota,” risposi intelligentemente. Forse avrei dovuto elaborare la frase un po’ di più.

Cross inarcò, scettico, un sopracciglio. “Se quella è la tua unica risposta, ho paura di doverti contraddire, ragazzo.” Inspirò una boccata di fumo dalla sua sigaretta ormai lunga pochi centimetri.

“L’hai rubata?”

Il mio tutore mi guardò minaccioso, e con un movimento rapido soffocò il mozzicone acceso sul fondo del portacenere. Io non indietreggiai. Alla fine, si decise a rispondermi. “No.”

“È falsa?”

“No.”

“Quanto c’è dentro?”

“Quattromila dollari.”

Sgranai così tanto gli occhi che per un momento ebbi paura che mi rotolassero fuori dalle orbite. “Ma che diavolo, Cross? Non mi hai mai lasciato quattromila dollari! Da dove spuntano questi soldi? Non ti ho mai visto usare una carta di credito in vita mia!” gli urlai alzandomi dallo sgabello. C’erano molte cose che non mi tornavano.

Cross si limitò a sfoggiare il suo tipico ghigno. “Per quanto ti possa sembrare strano, ragazzo, il mio lavoro mi fa guadagnare abbastanza da potermi permettere un piccolo conto di riserva,” spiegò con vaghezza – aumentando la mia abissale incomprensione –, “Vedilo come il primo, e ultimo, regalo della tua vita da parte mia, ragazzo. Perché non ci sarò a Natale.”

La mia rabbia calò significativamente a quelle parole, sostituita da un senso di freddo e vuoto, ma non glielo lasciai notare, continuando a lanciargli occhiatacce. Concentrai la mia attenzione su un altro problema inspiegabile.

“Ma se hai questi conti di riserva, allora, perché diamine non paghi i tuoi creditori?! Almeno in parte! Avrei meno cose di cui preoccuparmi, lo sai?!” lo redarguii ferocemente, puntandogli contro un dito accusatorio.

Cross scrollò le spalle, con espressione di indifferenza. “Te la cavi sempre così bene. E non ho voglia di sprecare soldi per ripagare creditori, quando sono diventato così bravo a sfuggirgli,” commentò con aria fastidiosamente soddisfatta.

Distolsi lo sguardo, sperando che la mancanza di contatto visivo placasse in parte la rabbia che mi stava salendo dentro e minacciava di scoppiare. Non funzionò molto. Strinsi i pugni e inspirai lentamente, poi la mia mente di scatto ritornò alla questione iniziale.

“Quand’è che parti?” chiesi, con finta calma, e un altrettanto finto sorriso stiracchiato sulle labbra. Speravo notasse fosse finto.

“Dovrei andare ora. Te l’ho detto che c’era un motivo se ti avevo chiamato così presto,” rispose Cross in tono piatto, tirando fuori dalle tasche dei pantaloni una nuova sigaretta e un accendino dorato. Mentre si infilava la sigaretta in bocca e ne accendeva un’estremità, mi lanciò un’occhiata pensosa.

“Non smetterà mai di stupirmi la tua capacità di distribuire sorrisi finti a chiunque tu incontri, buono o cattivo,” mormorò, con un tono tra lo scherno e la curiosità, “Sempre stupefacente.”

Lo guardai, senza dire nulla. Non c’era nulla da dire, in fondo. Sapevamo entrambi che quello era un argomento che non avremmo mai affrontato seriamente.

Cross mise via il suo accendino, e scostò una manica della camicia per controllare il suo orologio da polso. “Okay, penso sia ora,” disse, prima di dirigersi verso il salotto.

Automaticamente, mi alzai dallo sgabello, e lo seguii a qualche passo di distanza, osservandolo silenziosamente mentre afferrava la sua borsa da viaggio, appoggiata al bordo del divano, e poi si fermava davanti al guardaroba, aprendolo e tirando fuori la sua adorata giacca di pelle nera con gli orli consunti e l’odore di fumo impregnato indelebilmente nel materiale.

Si diresse verso la porta, e io gli andai dietro e quando si fermò mi fermai anche io. Aprii la bocca, intenzionato a dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, prima che se ne andasse, anche un insulto. Ma non mi venne in mente nulla, quindi la richiusi con uno scatto.

Forse era per quello che Cross non mi avvisava mai prima di partire. Forse trovare le parole giuste, che esprimessero il giusto livello di indifferenza e disinteresse, era troppo difficile. E imbarazzante. Non ero sicuro di esserne capace. Neanche ricordavo bene l’ultima volta che avevo salutato appropriatamente qualcuno.

Cross aprì la porta di casa e la fredda brezza autunnale del mattino entrò nella stanza e mi fece rabbrividire. Mi scostai dall’entrata e mi posizionai a lato della porta, al riparo dal freddo. Cross si voltò verso di me e mi guardò dall’alto in basso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto. “Beh, ragazzo… ci vediamo,” disse soltanto.

Io annuii titubante. “Ci vediamo.”

Il mio tutore sbuffò impietoso, con aria di scherno, e sogghignò. Gli lanciai un’occhiataccia, ma lui, come al solito, la ignorò. Sporgendomi oltre gli stipiti, lo guardai scocciato uscire dalla porta con aria di superiorità e percorrere con calma il breve vialetto che divideva il nostro cortile, senza mai voltarsi. Dopodiché raggiunse la sua auto nera metallizzata, parcheggiata lungo il marciapiede.

Mentre maneggiava con le chiavi, si voltò. E, nonostante la distanza, potevo vedere chiaramente quel suo odioso sorriso strafottente stiracchiato sulle sue labbra.

“Un’ultima cosa, stupido ragazzo,” gridò, mentre scivolava nell’auto, “non fare il codardo come al solito e vai a scuola, perché lo saprò se non ci vai. E sai che sto aspettando l’occasione giusta per mollarti un’altra mazzetta di de—”

Sbattei chiusa la porta prima che potesse finire.

“Da quando aspetta ‘occasioni giuste’ per mollarmi i suoi debiti?!” esclamai inviperito. Rimasi di fronte alla porta per un po’, guardandola torvo, aspettandomi scioccamente che Cross ripercorresse il cortile e rientrasse solo per finire il suo discorso.

Ma Cross non ritornò, e da fuori sentii provenire il rumore di un motore che si accendeva e si allontanava sulla strada ancora deserta e silenziosa.

Inspirando profondamente, chiusi gli occhi e mi girai, appoggiando la schiena contro la porta. Sentii tornare nei muscoli e dietro le palpebre tutta la stanchezza che credevo scomparsa durante la conversazione. Mi lasciai andare a un lungo sospiro che non mi ero accorto di aver trattenuto, e infine riaprii gli occhi.

Feci vagare il mio sguardo per quella casa vuota, ancora per nulla familiare, che ora appariva più buia e fredda del solito.

Alla fine la mia attenzione cadde inevitabilmente sulle numerose bottiglie lasciate per terra sul tappeto del salotto. Feci roteare gli occhi in segno di disprezzo, ma non potei impedire a un sorrisetto di piazzarsi fastidioso e indesiderato sulle mie labbra.

Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro del salotto. Segnava le sei e venticinque.

oOoOoOoOoOo

Non c’erano poi tante cose che potessi fare a quell’ora, in un’ora di tempo, prima di essere costretto a prepararmi e andare a scuola ad affrontare la mia ‘prima giornata di strazi e sofferenze’, come Cross amava chiamarla durante i giorni passati.

Tornare a letto non era un’opzione: ero sicuro che non mi sarei mai riaddormentato a questo punto, con tutto quello che era successo e il tempo per cui ero rimasto sveglio, nonostante il sonno arretrato ancora facesse pesare le mie palpebre.

Quindi decisi di anticipare la preparazione per la scuola, prendendomela con calma, in modo da avere meno tempo per fare altro dopo – se non altro, appunto, per la difficoltà di trovare a cosa potesse equivalere quell’ ‘altro’.

Perciò salii le scale e entrai nell’ultima porta del corridoio, che dava sul bagno. Chiudendo – in realtà inutilmente – la porta dietro di me, mi affrettai ad accendere l’acqua della doccia, sollevando la manovella e girandola in direzione del pallino rosso. Dopodiché tolsi il braccio dalla doccia, aspettando che diventasse abbastanza calda.

Iniziai a levarmi la maglietta, buttandola per terra senza molti riguardi, ma nel gesto il mio sguardo cadde sul grande specchio sopra il lavandino. Di solito evitavo di specchiarmi a lungo, c’erano troppe cose nel mio aspetto che trovavo a dir poco sgradevoli. A partire dai miei capelli, bianchi come la neve, che ricadevano in ciuffi disordinati in ogni direzione, e la frangia strategicamente posizionata perché riuscisse a coprire facilmente la parte più grottesca della strana, lunga cicatrice rossa che mi percorreva il lato destro della faccia, dalla fronte fino quasi al mento. Scostai di malavoglia alcune ciocche della frangia, e ispezionai più da vicino quelle cinque precise linee che formavano il pentacolo inciso sulla mia fronte, come se ormai non le conoscessi a memoria. Lungo la cicatrice, la pelle era ormai diventata liscia, essendo una ferita vecchia, ma stranamente si era conservato il malsano rosso sangue dei suoi primi momenti di vita…

Stringendo le palpebre e afferrando il lavandino con le mani, mi allontanai di scatto dallo specchio, respirando affannosamente. Non dovevo pensarci. Nonostante fossero passati anni, ricordavo ancora alla perfezione quel giorno – il coltello levato in aria, il sangue, il dolore— non volevo quel ricordo.

Aprii alla cieca il rubinetto, e mi bagnai il viso con l’acqua fredda, prima di abbassare la manovella e inspirare con calma, contando fino a dieci…

Solo nel silenzio di quei dieci secondi mi accorsi del rumore di acqua corrente, e come uno stupido, mi ricordai che la doccia mi aspettava.

Mi tolsi velocemente anche i boxer, e mi infilai sotto l’acqua ormai calda. Non so quanto tempo rimasi sotto il getto della doccia, con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso l’alto, senza pensare a nulla di preciso, soltanto ascoltando il rumore dello scroscio d’acqua. E quando iniziai lentamente a insaponarmi, feci finta di non sentire la differenza di ruvidità tra le mie mani.

oOoOoOoOoOo

Appena mi ero alzato quella mattina avevo realizzato, con sconcertante sicurezza, che quella giornata non sarebbe stata la mia giornata. E fino a quel momento il mondo, da Cross all’insolita brezza fredda di quegli ultimi giorni di Ottobre che era decisa a congelarmi le ossa, sembrava avermi dato ragione.

La Black Order High School, la scuola che avrei teoricamente dovuto frequentare per i tre anni successivi, era piuttosto imponente e massiccia. L’edificio aveva un aspetto moderno, coi suoi muri bianchi e le lunghe file di finestre larghe disposte regolarmente su tutte le pareti, a contrassegno di ognuno dei quattro piani. Al centro della facciata principale si apriva l’entrata, costituita da due grandi porte a vetri spalancate verso l’esterno. Davanti ad essa, una corta gradinata di pietra collegava l’edificio alla vasta piazzetta rettangolare che fungeva da parcheggio della scuola, al centro della quale si ergeva una piccola fontana bianca, che non mostrava tracce d’acqua, circondata da un’aiuola circolare senza fiori e disseminata di foglie secche svolazzanti nella lieve brezza. Una striscia sottile di alti alberi dalle foglie rosse e gialle limitava, insieme ad un basso muretto in mattoncini rossi, il territorio scolastico circostante.

Si trovava in una posizione abbastanza comoda da raggiungere, essendo ai margini della zona commerciale della città di Kellingstone. Kellingstone era una di quelle classiche città americane non troppo grandi o conosciute, ma comunque piuttosto vive e abitabili. La via su cui la scuola si affacciava era poco trafficata, e ospitava una serie apparentemente infinita di negozietti e bar, in contrasto con gli alti edifici che qualche kilometro più avanti si ergevano segnando l’ingresso nel cuore della città.

Non era molto distante da casa mia, dato che abitavo in una zona residenziale fuori dal centro. Mi bastavano dieci minuti per raggiungerla in bici.

Ma quei dieci minuti erano stati sufficienti perché ogni briciolo di forza e coraggio mi abbandonasse, sempre di più man mano che pedalavo e mi facevo più vicino ad essa. E ora che mi ci trovavo davanti, in sella alla mia bici, con le mani guantate serrate quasi convulsamente sui manici del manubrio, trattenevo a stento il desiderio di voltare la bici e fare marcia indietro – l’unica cosa che mi impediva di agire erano le parole del Maestro. Non volevo dargliela vinta, io non ero un codardo.

Nella maggior parte dei casi, almeno. Magari non in questo.

La mia mente tornò con finta disinvoltura a Timcanpy, il fedele gatto di Cross, che quella mattina avevo salutato appena uscendo di casa, e che con tutta probabilità mi aspettava, acciambellato sul bracciolo del divano, speranzoso in un mio prossimo ritorno e in una buona dose di coccole.

Non so per quanto rimasi fermo, infagottato nel mio cappotto, a ingombrare il marciapiede, percorso da ragazzi che si dirigevano verso le porte aperte della scuola, la maggior parte sorpassandomi come se a malapena mi notassero – anche se non mi sfuggirono le occhiate curiose di un gruppo di studentesse, poco distanti da me, che parlavano a bassa voce tra di loro e probabilmente si stavano chiedendo chi fossi e perché avessi i capelli tinti di bianco. Avrei preferito non notarle.

Mi tirai sulla fronte il cappuccio grigio della mia felpa, allungandolo il più possibile, e mi sistemai quasi inconsciamente la frangia, sperando che la cicatrice fosse abbastanza coperta.

Osservai un’ultima volta la facciata principale dell’edificio e il flusso di giovani che si dirigeva lentamente all’interno, chiedendomi se fosse davvero il caso di unirmi a loro.

Quando la campanella suonò, e tutti gli studenti ancora fuori si affrettarono su per la gradinata di pietra, ebbi la mia risposta.

Con un sospiro scesi dalla bici e la voltai lungo il marciapiede. Avevo visto un parchetto lungo la strada che avevo percorso, e mi venne la mezza idea di fermarmi là per un po’, il tempo necessario per auto-convicermi che lo stavo facendo per Timcanpy.

Camminando a testa bassa e conducendo la bici al mio fianco, smisi di osservare gli studenti che correvano e concentrai lo sguardo sulle fessure screpolate del marciapiede, come se meritassero la mia piena attenzione.

Il Maestro non ne sarebbe stato contento. Ma a chi importava di cosa pensava il Maestro?

Di certo non a me’, pensai tra me e me con un ringhio mentre camminavo – intanto mi chiedevo se davvero Cross aveva le sue vie per sapere se ero andato o meno a scuola, e feci una rapida stima della cifra a cui potessero ammontare attualmente i suoi debiti.

Immerso completamente nei miei pensieri, sfortunatamente notai solo troppo tardi la persona che mi si avvicinava con passo spedito e il naso infilato in un blocco di documenti. Prima che potessi anche solo pensare di scostarmi dalla sua strada, la collisione frontale era già avvenuta, causando davanti a me un turbinio di fogli.

Ow!” esclamai, nonostante non mi fossi fatto poi così male. Era più una… esclamazione istintiva. Aprii gli occhi, che non mi ero accorto di aver chiuso, e realizzai di aver mollato il manubrio della bici, che era quindi caduta a terra in un susseguirsi di rumori metallici poco rassicuranti – era vecchia, e la catena non era mai stata molto stabile, speravo solo che non fosse caduta di nuovo. Non mi era mai piaciuto improvvisarmi meccanico. Mi piegai per tirarla su, e solo allora mi ricordai – sentendomi particolarmente stupido – della persona con cui mi ero scontrato, trovandomi faccia a faccia con lui.

Davanti a me, piegato a terra e intento a raccogliere dall’asfalto i fogli che gli erano scivolati dalle mani, vi era un uomo sulla quarantina, probabilmente di origine asiatica e dallo stile indubbiamente… eccentrico.

Portava un basco alla francese color perla, che gli pendeva pericolosamente da un lato, sotto cui spuntavano capelli neri acconciati in innaturali boccoli all’insù. Sulla punta del naso erano appollaiati degli occhiali dalla montatura sottile e dalle lenti a forma di pentagoni schiacciati con la punta rivolta verso il basso, che tagliavano a metà gli affilati occhi a mandorla dalle iridi scure. Ma la cosa più insolita era di sicuro il cappotto che indossava, paragonabile a uno di quelli che nei film di solito usano gli investigatori privati in servizio: grigio, totalmente anonimo se non per i grossi bottoni neri finemente elaborati lungo lo spacco centrale, gli arrivava probabilmente fino alle ginocchia, ed era ricoperto di numerose tasche da cui spuntavano quelli che sembravano dei portachiavi a forma di piccoli robot di metallo colorati. Tutti avevano in comune l’inquietante somiglianza fisica con il loro possessore: dotati di mini-occhiali, basco e bocca dai denti affilati come rasoi, erano vestiti in modi curiosi e tenevano stretti tra le mani i gadget più svariati, da una semplice tazza da latte a un trapano grande quanto l’omino intero.

La cosa strana era che – l’avrei potuto giurare – alcuni di questi emettevano vapore e microscopiche scintille.

“Eccentrico,” sentii sussurrare da una voce maschile, e alzando lo sguardo dagli inquietanti modellini, notai con stupore che l’uomo di fronte a me aveva ormai finito di raccogliere i suoi fogli e stava ora guardandomi dritto negli occhi con un’espressione curiosa dipinta sul volto.

Ah…” all’improvviso mi sentii estremamente imbarazzato, e non sapevo neanche perché. Grattandomi una guancia, mi alzai in piedi, e l’uomo mi imitò, senza smettere di fissarmi. “Stavo pensando la stessa cosa.”

Perplesso, il signore seguì lo sguardo che avevo brevemente lanciato al suo cappotto e, comprendendo, ridacchiò: “Intendi questi ometti? Non li trovi amorevoli?”

Rimasi zitto un attimo, cercando di capire se fosse serio o se si trattasse di una domanda trabocchetto. Perché quei cosi, qualunque cosa fossero, erano tutto tranne che amorevoli.

Già…?” risposi, non sicuro io stesso di aver fatto un’affermazione o una domanda. E davvero non riuscivo a staccare lo sguardo da quegli omini – uno cacciò fuori dalla piccola bocca un’alitata di fumo. Quella di certo non era un prodotto della mia immaginazione.

“Non è che, per caso, tu sei Allen Walker?” chiese all’improvviso il signore.

Lo fissai allibito, annuendo con la testa. Solo allora, considerando il suo aspetto e i fogli pieni di calcoli matematici che teneva in mano, mi venne in mente che l’uomo poteva essere un professore della scuola, magari persino informato del mio arrivo, magari un mio professore, e che sbattendoci contro avevo firmato la mia condanna giornaliera.

L’uomo sembrò illuminarsi. “Sono il professor Lee, il tuo futuro professore di matematica,” mi informò con tono felice, allungando una mano verso di me.

Ogni tanto odiavo avere ragione.

Gli strinsi la mano con finto piacere, stiracchiandomi a forza un sorriso sulle labbra, e vagamente chiedendomi se trovava strano che portassi dei guanti – probabilmente no, data la stagione in cui ci trovavamo.

“Sono stato ovviamente informato del tuo arrivo. Anzi, ho parlato personalmente con Marian, essendo un suo amico di vecchia data. Mi ha avvisato di tenerti d’occhio, eheh! Ti ha descritto sommariamente ed è per questo che ho potuto riconoscerti. D’altronde non è difficile, hai un aspetto molto… peculiare,” si fermò, come se fosse titubante, ma non gli badai. Avevo smesso di ascoltarlo quando aveva detto di conoscere Cross. Una valanga di domande mi inondò la mente: come e quando si erano conosciuti? Lee sapeva qualcosa del lavoro di Cross? Quanto gli aveva raccontato Cross su di me? (Era lui l’ipotetico informatore di Cross sulle mie eventuali assenze scolastiche? Se sì, beh, diamine).

“Ah, ma che sciocco!” esclamò il signor Lee, battendosi il palmo della mano sulla fronte, “Siamo in ritardo, dovremmo muoverci!” E detto ciò, si riavviò in direzione della scuola. Ma a quanto pare si aspettava che lo seguissi, perché, una volta sorpassatomi e notato che non avevo ancora mosso un muscolo, mi lanciò un’occhiata inquisitoria.

“La scuola è da quella parte,” mi disse, indicando con un cenno l’odiato edificio. Vidi il suo sguardo cadere sulla mia bici, notare la direzione verso cui era voltata, e collegare rapidamente i vari indizi.

Tirai un lungo sospiro e, ignorando il vago senso di colpa che provai guardando il professore, rimasi fermo, “Lo so.”

Non era probabilmente la cosa migliore da dire al professore che aveva appena sventato il mio tentativo di bigiare il primo giorno di scuola. Non sapevo cosa aspettarmi, ma non ero sicuro che mi importasse: mi avrebbe portato direttamente in presidenza, accusandomi davanti al preside di essere un ‘elemento dispari’? Mi avrebbe lasciato proseguire nella mia direzione, con totale indifferenza? Oppure—

Fu allora che vidi sul volto del signor Lee un sorriso che conoscevo bene, ma che non vedevo da molti anni: un sorriso più eloquente di mille parole, che era al contempo di dispiacere e di incoraggiamento, come se mi volesse dire ‘lo so che le cose non sono andate bene fino ad ora, ma migliorerà’. E faceva male soltanto a guardarlo – quanto gli aveva raccontato Cross?

‘Dove l’ho già visto? C’è era qualcuno che mi sorrideva sempre così… ma chi?’

Sgranai gli occhi, stupito dai miei stessi pensieri. C’era qualcosa che non riuscivo a ricordare?

“Sei arrivato fin qui, no?” mi chiese con voce calma il professore, riacquistando la mia attenzione, “Perché tirarsi indietro ora?”

Non sapevo se stesse aspettando una qualche risposta da me, ma comunque rimasi in silenzio, non trovandone una adatta. Fissando con sguardo vacuo l’asfalto, realizzai che era vero; ero arrivato fino a lì, a un passo dalle porte della scuola, a un passo dall’opportunità di una nuova vita, e ora mi tiravo indietro, solo perché una volta era andata male – ‘più di una volta, ma non è questo il punto’. Se me ne fossi andato, Cross avrebbe avuto ragione a darmi del codardo.

Improvvisamente, mi sentii cadere addosso il peso della mia stupidità, di quel giorno e dei giorni passati, e mi domandai perché, dopo quello che era successo nell’altra scuola, fosse diventato così difficile per me accettare la possibilità che questa volta le cose potessero andare diversamente, meglio. Un’ondata di vergogna per me stesso mi fece scorrere il sangue verso la faccia, e avvertii le mie guance avvampare violentemente.

E nello stesso momento sentii una fitta improvvisa al cervello, un dolore acuto, come se qualcuno lo stesse perforando con degli aghi—mi strinsi la testa tra le mani e chiusi gli occhi, tentando di sgombrare la mente. Avevo la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante, qualcosa di fondamentale che non avrei dovuto assolutamente dimenticare, e ora quel qualcosa stava cercando di farsi strada tra i ricordi per risalire in superficie, senza riuscirci, continuando a sprofondare… C’era qualcuno che urlava…

‘Non guardare!’

“Ti senti bene, Walker?”

E come il dolore era arrivato, in un attimo sparì. Aprendo gli occhi, alzai lo sguardo, un po’ disorientato, e vidi il professore scrutarmi con un’aria preoccupata. Scossi la testa.

“Sto bene. Non è niente.”

Questo bastò perché il professor Lee ritornasse a sorridermi. “Vieni. Ti accompagnerò in segreteria,” mi propose.

Annuii, questa volta con più sicurezza. Voltai la bici, e ci incamminammo insieme verso la scuola.

Scoprii di non avere il coraggio di guardare negli occhi il professore, ma sentivo il bisogno di dover rispondere alla sua domanda precedente. Non capivo come fosse possibile, ma un semplice sorriso e una frase erano riusciti a riaccendere dentro di me una piccola fiamma, che nei mesi precedenti si era affievolita fino a spegnersi.

“Ha ragione, professore,” mormorai a mezza voce, guardando dritto davanti a me. “Grazie mille.”

E nonostante non lo stessi guardando, avvertii lo stupore che radiava dal signor Lee. Pochi secondi dopo, lo udii ridacchiare sommessamente, una risata soddisfatta che mi scaldò, anche se non ne capivo il motivo. Trattenni a stento un sorriso – probabilmente il più sincero da mesi.

Lungo la strada che facemmo insieme, il signor Lee cominciò a parlare con vivacità del più e del meno – come se nulla fosse successo, e gliene fui grato. Mi parlò della scuola, della mia futura classe, degli altri professori che avrei avuto; lo ascoltai solo a metà. Una volta lasciata la bici nel parcheggio e varcata la soglia delle grandi porte a vetri, immerso nella mia bolla personale di ansia e rinata speranza, l’unica stupida cosa a cui riuscivo a pensare era che Timcanpy non mi avrebbe rivisto fino a tardo pomeriggio, e quello era un vero peccato.

oOoOoOoOoOo

“Lotto B, secondo piano, la terza porta a destra oltre l’aula di Lingue. Non puoi perderti.”

E invece potevo perdermi, come dimostrava la mia attuale – e appunto sconosciuta – ubicazione in territorio scolastico. 

Stupida segretaria scansafatiche.

Mi aveva indicato una direzione, che avevo diligentemente seguito, ma a quanto pare mi ero un po’ distratto ripensando all’incontro con il professor Lee, e ad un tratto mi ero ritrovato in un corridoio immerso nel silenzio in cui non vi era alcuna traccia di quella dannata ‘aula di Lingue’.

Quindi, riassumendo, ero in un corridoio di non sapevo quale piano di un altrettanto sconosciuto ‘Lotto’, in spudorato ritardo, con un foglietto firmato dal professor Lee con su scritti il nome della sezione e un’improvvisata giustifica per il ritardo.

Ormai non valeva la pena cercare la mia aula, sarebbe stato troppo imbarazzante entrare a metà ora. Forse il professore mi avrebbe chiesto con sarcasmo se mi ero perso, e rispondere di sì, nonostante fosse la pura verità, sarebbe stato esageratamente umiliante (non presi in considerazione l’idea che potesse essere comprensivo).

Mi guardai intorno un po’ esasperato, sbuffando e imprecando mentalmente contro la mia totale mancanza di orientamento.

La cosa più intelligente da fare sarebbe stata ritornare al piano terra e cercare di ricordare la strada verso la segreteria percorsa con Lee poco prima, e una volta là chiedere a quella stupida segretaria se poteva darmi indicazioni dettagliate di come raggiungere la biblioteca – in una scuola così grande doveva pur esserci una biblioteca da qualche parte – in modo da poterci passare il resto dell’ora senza dover rimanere a vagare per i corridoi come un’anima in pena. Come stavo facendo in quel momento.

Ma qualcosa mi disse che sarebbe stato inutile anche tentare di andare in biblioteca. Avrei potuto chiedere alla segretaria di accompagnarmi, ma ero convinto che avrebbe ignorato la mia richiesta nello stesso modo disinteressato con cui mi aveva fornito quelle totalmente scadenti istruzioni su come raggiungere la mia aula. Seriamente, perché questa scuola era così vuota? Non avevo incontrato neanche un bidello camminando per scale e corridoi, e a meno che non fossi andato a imbucarmi in una zona caduta in disuso – cosa che non era, perché sentivo voci provenire dietro alcune porte – ciò era parecchio strano.

Colto da un’ondata di stanchezza psicologica di fronte all’assenza di indicazioni stradali, mi sedetti per terra, in mezzo al corridoio vuoto, deciso ad occupare i minuti successivi a recuperare le forze – e perdere ulteriore tempo prima di dover andare a cercare inevitabilmente la mia classe. Con le gambe incrociate, chiusi gli occhi e inspirai profondamente.

“Non penso che rimanere seduti al centro di un corridoio per un’intera ora sia il modo più sagace per bigiare una lezione,” mi sussurrò divertita una voce maschile alle mie spalle.

Ancora non sapevo che proprio quella voce apparteneva alla persona che di lì a qualche mese avrebbe completamente stravolto la mia vita.

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Capitolo 2
*** Chapter2 - part i ***


Eeeee dopo nove secoli, ecco il secondo capitolo!

Do totalmente la colpa alla maturità. Completamente. Comunque, questo capitolo è segnato come capitolo2 parte I perché il capitolo intero che ho scritto era lungo… più di 18000 parole quindi, pensando che magari io sono l’unica persona al mondo che preferisce i capitoli lunghi, ho preferito spezzare il capitolo in due (un po’ anche perché non ho finito di correggere la seconda parte. Effettivamente al momento fa un po’ schifo MA COMUNQUE uscirà tra strapoco). In ogni caso, mi dispiace per l’attesa, coff. Temo tra l’altro che questi capitoli non suscitino molte emozioni in quanto di fatto non succede molto, essendo l’inizio. Lo so, tutta la parte “dobbiamo stringere amicizia prima di fare le cosacce e prima che succedano cose ubertraumatiche” è sempre una parte molto sofferta. Se scorgete errori vi preeego di dirmi quali, non ho dedicato molto tempo alla sua revisione, e le critiche sono apprezzate anche se non credo che sapendo cosa non va potrei fare di meglio .-. il modo in cui scrivo mi sembra insignificante a tratti (?). Ah, ho apportato qualche leggera modifica al cap precedente, cosa che succederà molto spesso *-* Per non dire spessissimo *-*

 

Disclaimer: Non mio. Però, ora che ricominciano a succedere cose interessanti, la cosa non mi dispiace troppo.

 

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. C h a p t e r 2 .

~~~

“A nessuno piace la solitudine. Ma non mi faccio in quattro per fare amicizia. Così evito un po' di delusioni.”

 ( H a r u k i  M u r a k a m i )

~~~

Seppur la voce avesse parlato pressoché in un sussurro, sobbalzai così violentemente da perdere quasi l’equilibrio da un lato – ed è piuttosto difficile che ciò accada quando si è seduti per terra con le gambe incrociate.

Tirandomi giù il cappuccio della felpa con uno strattone, mi voltai bruscamente da un lato, pronto ad inchiodare con uno sguardo omicida l’invasore della mia privacy mentale, ma quello che vidi mi fece morire le parole in bocca.

Dietro di me stava in piedi, con le mani infilate nelle tasche di stretti jeans neri, un ragazzo alto, probabilmente del terzo o del quarto anno, avvolto in una pesante felpa verde militare, con al collo una lunga sciarpa arancione che presentava la consunzione del tempo nei suoi orli sfilacciati e i piccoli buchi malamente rattoppati con delle cuciture sbilenche. Aveva una carnagione rosata e ribelli capelli ramati tenuti su da una spessa bandana nera con sottili ricami verdi, che causava ad alcuni ciuffi di ricadere all’ingiù in pieghe innaturali.

Ma la cosa che in assoluto colpiva di più era la benda nera che copriva l’occhio destro, mentre lasciava visibile quello sinistro, di un vibrante verde smeraldo. Non ricordavo di aver mai visto degli occhi di un verde così intenso.

Con qualche piccolo accessorio aggiuntivo e una felpa diversa, sarebbe potuto passare per un pirata – vagamente pensai che se mai avessi avuto bisogno di dargli un soprannome, ‘pirata’ sarebbe stato perfetto.

Trattenni una risata al pensiero, non volendo essere maleducato, ma quella morì subito spontaneamente quando, uscendo dalla mia bolla di immaginazione, notai lo sguardo strano che mi indirizzava, le sopracciglia aggrottate e l’occhio leggermente sgranato che cercava qualcosa sulla mia faccia, rapito.

Il ragazzo si inginocchiò fino a raggiungere la mia altezza e continuò a fissarmi con espressione innegabilmente incuriosita.

Inarcai un sopracciglio, fissandolo di rimando con perplessità. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel suo aspetto così asimmetrico. Non feci troppo caso a quei pochi, strani attimi di silenzio che vibrarono di curiosità tra di noi.

“Beh, dimmi se questo non è interessante…” commentò il rosso, con fare pensieroso, e in quel momento realizzai l’ovvio.

Mi portai in fretta una mano alla fronte, smuovendo un po’ la frangia di ciuffi bianchi in modo che almeno il pentacolo fosse coperto. E allora, con irritazione crescente, notai che il ragazzo guardava curioso anche le mie mani guantate. Mi chiesi, con un po’ troppo astio, com’è che non avesse un minimo di decenza nel nascondere la sua curiosità morbosa.

Con uno scatto, il ragazzo sembrò ridestarsi dalla trance in cui era piombato, e scosse rapidamente la testa.

Dunque… cosa stavi facendo?” chiese con una cadenza lievemente canzonatoria.

Aggrottai le sopracciglia, pronto a rispondergli in modo tagliente – era così strano sedersi in un corridoio? – perché c’era qualcosa in questo ragazzo che mi irritava nel profondo. Aprii la bocca, ma dopo qualche secondo la richiusi con uno schiocco. Effettivamente non sapevo come rispondergli – cosa stavo facendo?

Il ragazzo parve intuire la mia stessa confusione dalla mancanza di una risposta, e sulle sue labbra si distese un sorriso sghembo che chiaramente diceva ‘non penso che tu abbia la mente a posto, e una voglia improvvisa di levarglielo dalla faccia a suon di pugni mi colse.

A mia discolpa, posso dire che di solito non ero così violento. Anzi, non ero proprio violento in generale.

Stavo… riflettendo,” tirai fuori a forza, sulla difensiva. Non la migliore scusa che avessi mai inventato. Il sorriso di scherno non fece altro che allargarsi.

“Stavi riflettendo. Seduto nel corridoio,” riassunse brillantemente il ragazzo, senza smettere di fissarmi come se fossi stupido.

Si lasciò sfuggire una sorta di sbuffo, che era in realtà una palese risata di scherno. Gli lanciai un’occhiata cattiva.

“E cosa staresti facendo tu,” gli chiesi in tono di sfida, incrociando le braccia, “inginocchiato in mezzo a un corridoio?”

Oddio, grandioso’, pensai. Prima ora del primo giorno di scuola e mi mettevo a discutere con qualcuno che neanche conoscevo – ma che scusa avrebbe trovato lui che suonasse più intelligente della mia? Hah.

“Beh,” iniziò il ragazzo, che sembrava un po’ sorpreso, “stavo bigiando la prima ora e mi stavo dirigendo in biblioteca. Ma poi ho visto un tizio seduto in mezzo al corridoio e mi sono chiesto ‘perché c’è un ragazzo seduto nel corridoio?’ e ho pensato di chiederglielo. Questo mi ha condotto alla posizione attuale, in mezzo al corridoio. Sei il nuovo studente vero?”

wow. Ero quasi sicuro che avesse detto l’intera frase senza prendere il respiro.

Lo fissai per qualche secondo, stupidamente colpito dal fatto che la sua scusa era molto più logica. Poi realizzai che mi aveva posto una domanda.

“Sì,” lo guardai spiazzato, “Come fai a…

“Me l’ha detto Lenalee, alla quale l’ha detto Rou Fa, che l’ha saputo da Komui, che l’ha confermato a Lenalee e me, ma tu non conosci nessuno di loro quindi non so perché te lo stia dicendo. E anche perché, per quanto ti possa interessare saperlo, ho una buona memoria fotografica e, seppure non voglia dire di ricordare a memoria ogni singola faccia dell’istituto, sono sicuro che in due mesi di scuola avrei notato uno come te.”

…Questo ragazzo parlava a monologhi. Ma tale realizzazione non mi distrasse dalle sue ultime parole, e automaticamente portai di nuovo una mano alla frangia. E quello che trovai davvero fastidioso in quel momento era il modo in cui quell’occhio smeraldo sembrava assorbire con un anomalo interesse ogni mio minimo movimento. A forza, rimisi giù la mano.

“Non stavi… andando in biblioteca?” mi stupii della mia stessa sfacciataggine. Ma questo ragazzo…

Suddetto ragazzo sbuffò divertito; sembrava che gli insulti, impliciti o espliciti che fossero, gli scivolassero addosso come pioggia su un impermeabile. Mi ricordava qualcuno. Un qualcuno dai capelli altrettanto rossi e l’alito perennemente odorante di rhum o vodka.

“Sì, stavo andando. Ma seriamente,” mi squadrò velocemente, come se stesse cercando di arrivare alla soluzione di un enigma, “cosa ci fai qui? Stavi saltando la prima ora in modo creativo… o, non so, ti sei perso?” disse l’ultima parte come se la trovasse improbabile. Respirai lentamente.

“Potrei, e dico, potrei,” ammisi titubante, “aver perso l’orientamento.”

Il ragazzo mi diede un’occhiata significativa. “Cosa sei, una di quelle persone che non riesce a trovare la camera da letto nella propria casa?”

“No!” sbottai offeso, a voce abbastanza alta da farmi ricordare che eravamo circondati da classi nel pieno delle loro lezioni. “No,” ripresi a voce più bassa, “questa scuola è solo schifosamente enorme! Cos’è, una base militare?”

Ahah, mi dispiace,” lo sguardo del ragazzo si perse nel vuoto oltre le mie spalle, mentre giocherellava distrattamente con l’orecchino ad anello argentato che vidi solo allora, “non mi ricordo cosa si prova a non conoscere questa scuola centimetro per centimetro. È una sorta di relazione Weasley-Hogwarts, non so se mi spiego.”

Sorrisi spontaneamente al riferimento letterario, “Sì, ti spieghi.”

Quando l’occhio del ragazzo tornò su di me, quasi mi pentii di aver parlato. Ritornai ad aggrottare le sopracciglia – mi sentivo così un bambino ogni tanto.

“Dunque,” il ragazzo mi mostrò di nuovo il suo sorriso sghembo, “cos’hai in programma di fare: passare tutta l’ora qui o sfruttare l’occasione per fare un giro turistico della scuola?”

Mi sentivo un po’ combattuto. Da un lato, non avevo esattamente voglia di restare lì per sempre, dall’altro non ero sicuro che i miei nervi potessero sopportare la presenza di quel ragazzo ancora per molto. Era decisamente… strano. Non antipatico, o cattivo. Semplicemente irritante. E disorientante. E curioso.

Ma valutando i pro e i contro rapidamente, optai per l’accettare l’offerta. In fondo, da un certo punto di vista, sembrava abbastanza cortese.

Sospirai pesantemente – non volevo dare l’impressione di morire dalla voglia di muovermi e ritrovare la mia strada così tanto – e mi alzai senza fretta, stiracchiandomi gambe e braccia, e raccogliendo lentamente il mio zaino. Il ragazzo mi imitò.

Appena fummo in piedi l’uno di fianco all’altro, mi resi pienamente conto, con una stretta al cuore, della differenza in altezza che ci divideva. A malapena la mia testa arrivava alla sua spalla. Con dispiacere, vidi l’espressione stupita racchiusa nel suo unico occhio.

“Wow,” annunciò, con un che di gravoso e solenne, “sei basso.” E sottolineò con molta forza la parola ‘basso’.

Sentii distintamente il suono di un ringhio nell’aria, prima di accorgermi di averlo emesso io.

“La sai una cosa?” gli mostrai un sorriso orrendamente falso e mi voltai, cominciando a riabbassarmi verso terra e mollando lo zaino, “penso che starò ancora un po’ qui, seduto, a…

“Riflettere?” suggerì il rosso. Stavo davvero iniziando ad odiare quel suo modo di fare e il suo continuo essere divertito.

“Esatto, riflettere!” Mio dio, quel ragazzo sapeva essere così, così!

“Ma perché! Cos’è, ho colpito un tasto dolente?” Non sopportavo il modo in cui la sua voce era falsamente intrisa di dispiacere mentre il sorriso stampato sulla sua faccia diceva tutt’altro. “Ma ho solo constatato l’ovvio!”

Mi rialzai di scatto come una molla, e lo guardai torvo. “Io ho il diritto di essere basso!” esclamai infervorato – e ero vagamente consapevole di stare dicendo una cavolata, ma me ne fregai – “ho quindici anni! I ragazzi di quindici anni non sono così alti di solito! E tu cos’è hai, diciassette anni? Aspetta che io abbia diciassette anni! Sarò alto un chilometro più di te!”

Il ragazzo si avvicinò a me, e mi diede un colpetto incoraggiante sulla spalla. Mi trattenni dal prenderla a morsi.

“Su, ragazzo, non demoralizzarti troppo. C’è di peggio, sai, conosco persone più basse di te. Prendi mio cugino, sarà alto sì e no un metro e quaranta…. È anche vero che ha dieci anni, ma…

Inaspettatamente mi salì una risata, che tentai di soffocare in uno sbuffo, ma fu un tentativo piuttosto scialbo. Di scatto mi portai una mano alla bocca. Il rosso mi guardò sorpreso.

“Non dovevi ridere! Si supponeva che tu, boh, ti arrabbiassi!” mi accusò. Non capivo se stesse solo constatando un’indubbia verità o se fosse deluso.

“Non avevo assolutamente intenzione di ridere!” gli sibilai contro. “Non faceva neanche ridere! Giuro che stavo per insultarti!”

“Ma hai riso!” esclamò il ragazzo puntandomi un dito contro.

“Non volevo!”

“Allora perché hai riso? Mi stavo già preparando a schivare qualche attacco! Tutta quella tensione per nulla!”

“Questa conversazione non ha senso,” sbottai scocciato.

L’altro annuì, piuttosto tranquillo. “No, non molto.”

Sbuffai di nuovo.

Il rosso mi guardava a bocca aperta con la faccia scolpita in una smorfia di incomprensione. Lentamente, si passò una mano tra i capelli.

“Oddio, ma tu sei sempre così… bipolare? Per non dire mestruato?” mi chiese con espressione meravigliata, come se trovasse curiosa anche solo la parola ‘bipolare’. E il secondo successivo avrei tentato di soffocarlo o almeno rispondergli con un secco ‘no’ se, indietreggiando di qualche passo, il ragazzo non fosse inciampato nel mio zaino che si era misteriosamente materializzato dietro di lui, cadendo rovinosamente sul suo sedere.

Non riuscivo a smettere di ridere. Il rosso si rialzò da solo faticosamente da terra, lanciandomi qualche occhiata un po’ irritata.

“Non è molto cortese da parte tua – in fondo è colpa tua, lo zaino era tuo,” constatò con finto tono acido – difatti stava stranamente sorridendo.

Finalmente mi calmai, e respirai per riprendere fiato. “Io non penso. Sei tu che dovresti stare attento a dove metti i piedi. O forse era solo karma negativo. Lo sai,” ghignai sadicamente, “nessuna data di scadenza.”

“Per cosa, per averti dato della persona ‘bassa’?”

“Sì, probabilmente sì.” Gli sorrisi con finta dolcezza.

Il ragazzo ridacchiò, poi all’improvviso fece una smorfia strana. “Che stupido,” affermò con insolita decisione, “non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Lavi, Lavi Bookman. Diciassettenne americano di origini etniche sconosciute. Mi piace il cioccolato.”

Ridacchiai sorpreso, “Strano nome. Ma soprattutto, che tipo di cioccolato?”

Lavi – che rivaleggiava con ‘pirata’ per esotismo – sbuffò sonoramente, “Lo so. Significa ‘leone’ in ebraico. Non ho mai scoperto cosa si erano fumati i miei prima di sceglierlo. E, totalmente il fondente.”

“Io Allen. Allen Walker. Quattordicenne americano di indubbie origini inglesi. Mi piace qualsiasi cosa, basta che sia commestibile. Mi piace mangiare, in generale. Mangio molto.”

Lavi si portò una mano al mento e con fare pensieroso commentò: “Effettivamente suona molto inglese. Mi piace. Allen. Ma dubito che tu mangi quanto mangio io durante un solo pasto.”

Eeeh, rimarresti stupito…” risposi vagamente, grattandomi imbarazzato la guancia. Lanciai frettolosamente un’occhiata intorno, come se mi aspettassi di trovare un orologio esattamente su uno dei muri circostanti, “Allora… quel giro turistico gratuito?”

Di nuovo quel sorriso sghembo. “Non posso credere di aver davvero detto ‘gratuito’.”

oOoOoOoOoOo

Mi sembrava stessimo camminando da ore, invece probabilmente non era passata neanche mezz’ora. Forse era dovuto al fatto che Lavi aveva la capacità di parlare a una velocità al di fuori dal comune, ed era riuscito a raccontarmi nel giro di mezz’ora la storia dell’intera scuola, pettegolezzi, dicerie e vere e proprio leggende scolastiche, che mi narrava con la passione di un archeologo che ricorda le sue scoperte negli scavi. Avevamo fatto il giro della scuola, esplorato ogni suo angolo, dalla biblioteca – che per ironia della sorte avevo scoperto occupare tutto il piano superiore a quello in cui mi ero fermato io – all’aula di informatica, di lingue, di cucina.

Ma la cosa più strana in assoluto era che trovavo quel che diceva interessante. Aveva un modo di coinvolgere tutto suo, e anche mentre raccontava dei pettegolezzi più improbabili – tra cui l’ipotesi, a suo dire fondata, che il professore di Storia fosse in realtà un vampiro – non potevo fare a meno di ascoltarlo rapito, anche se cercavo di non darlo troppo a vedere. Trovavo invidiabile il modo in cui appariva così affezionato a quell’edificio, a quella scuola, in un modo in cui io non sarei mai potuto esserlo.

…E avresti dovuto vedere la sua faccia, quando ha visto l’incisione che aveva lasciato Yuu con la sua katana…. Quella volta Yuu ha rischiato grosso, ma io gli feci brillantemente notare che non aveva alcuna prova e non si poteva espellere uno studente solo basandosi su supposizioni… Ha aiutato molto il fatto che Lvellie sia sempre molto restio nell’allontanare dei campioni, dato che la sua aspirazione massima è quella di trasformare la scuola in una sorta di ricettacolo di future celebrità. Sì, quello è stato un giorno memorabile…

C’erano dei nomi che comparivano più spesso del solito. Lavi ne parlava come se li conoscessi da sempre anche io, e non gli feci notare che non avevo la minima idea di chi fossero. Anche se, dopo tutte quelle storie mi ero fatto un’idea.

Prima di tutto c’era Yuu, che sembrava essere il suo migliore amico. Da quel che avevo capito, era un tipo piuttosto violento – se era vero il numero di volte, dettomi da Lavi, in cui Yuu aveva cercato di menomarlo in un modo o nell’altro – e inoltre una sorta di campione nell’uso della katana, una tipica spada giapponese. E se non avevo capito male, doveva avere i capelli un po’ più lunghi della media.

Poi c’era Lenalee, che al contrario mi pareva la classica ragazza calma e gentile con tutti, e per di più molto carina – anche se non avevo capito bene i continui accenni a un fratello iperprotettivo…

E poi altri nomi, su altri nomi, che si perdevano nell’infinità di aneddoti raccontati.
…E, oddio, quasi non ricordavo questa maniglia. Vedi che è semi-eradicata? Beh, c’è una storia piuttosto buffa dietro, che vede coinvolti un’avvenente ragazza di nome Emilia e un giovincello scapestrato intrufolatosi abusivamente nella scuola… ehi, Allen, mi sta ascoltando?”

Mi voltai verso di lui, che indossava la sua tipica espressione incuriosita. Scossi la testa, “Sì, stavo solo pensando…

Lavi mi lanciò un’occhiata tra l’esasperato e il divertito – un’accoppiata peculiare. “Sei strano.”

“‘Disse il pirata’,” borbottai esasperato. 

Lavi rise di gusto. “Un pirata? Non è male. Poco originale, ma suona bene. Si dà il caso che in questa scuola io abbia anche il mio covo personale – al quale però non hai il permesso di accedere, per il momento—”

Mi voltai a guardarlo: Lavi aveva rallentato bruscamente il suo passo e aveva un’espressione di assoluto stupore dipinta sulla faccia. Quando non diede cenno di voler ricominciare a parlare, quasi mi preoccupai.

“Lavi? C’è qualcosa che non va?”

E l’attimo dopo il ragazzo scosse la testa, e mi sorrise. Sospirando, si passò una mano tra i capelli, spostando un po’ la bandana – avevo notato che lo faceva piuttosto spesso. “Ma comunque, è vero che sei strano.” Continuò, come se nulla fosse. “Per tutto il tempo hai continuato a distrarti e immergerti nel tuo piccolo mondo personale… a un certo punto ho dovuto afferrarti perché rischiavi di cadere dalle scale, e non te ne sei neanche accorto!”

Tentai di non mostrare la mia perplessità. “Ma stavo semplicemente…” mi fermai, nel tentativo di trovare le parole giuste, “immaginando le scene di cui mi parlavi. Ero or ora preso dalla comparsa immaginaria di quel giovincello scapestrato…” indicai con un dito un punto vago verso la porta della maniglia rotta. Lavi seguì il mio dito, e scosse la testa. 

“Va beene, ma ora esci dal tuo mondo dei sogni e stai attento, perché quello che stai per vedere,” inserì una pausa ad effetto, alzando le mani in segno di preghiera, “è l’ultima meraviglia della scuola.”

Le meraviglie della scuola, secondo Lavi la guida turistica, erano cinque.

La prima era la biblioteca, non solo per il semplice fatto che fosse una biblioteca, che secondo Lavi sarebbe stato sufficiente, ma anche perché casualmente si trattava anche di una delle biblioteche scolastiche più fornite dello Stato – avevo scoperto così che Lavi era un topo di biblioteca, o almeno così si era definito lui. La cosa mi aveva sorpreso non poco, anche se non capivo perché. Quando tentavo di etichettare Lavi secondo un qualche stereotipo da High School, scoprivo di non riuscirci.

La seconda era la gigantesca quercia che si trovava su un lato del cortile interno della scuola, che Lavi mi mostrò da una finestra. Nel complesso, tutto il cortile era chiaramente tenuto bene, nonostante ormai molte delle piante avessero cominciato a ingiallirsi e perdere foglie.

La terza e la quarta meraviglia erano la stanza del Club di Giornalismo e l’aula di Esposizione dei club artistici. Della terza Lavi sembrava adorare l’enorme quantità di informazioni sulla scuola e la città che la  piccola stanza conteneva racchiusa in scaffali, plichi e cataste di fogli. Entrato nell’aula lo sorpresi più volte a sorridere al vuoto, con un’aria così stupidamente amorevole che mi fece venire voglia di punzecchiarlo.

Della quarta Lavi non amava tutto. Nonostante la stanza fosse, a mio parere, piena di piccole opere d’arte, dalle piccole anfore in argilla perfettamente decorate con ornamenti floreali e arabeggianti ai dipinti di paesaggi verdeggianti pieni di colori vivaci, Lavi prestò attenzione a pochi di quei lavori. Mi fece vedere le tavole di una certa Emilia, su cui era disegnata, con un’abilità stupefacente, sempre la stessa bella ragazza che indossava ogni volta dei vestiti differenti, variopinti e originali, e un altro foglio su cui era ritratto realisticamente il volto di un ragazzo dalle fattezze asiatiche, dallo sguardo severo e i lisci capelli corvini. Mi mostrò un vaso dalla forma raffinata ricoperto di disegni di persone colte durante azioni quotidiane – tra quelle spiccava una figura dai capelli ramati e una sospetta benda sull’occhio che sembrava china su un grosso libro, e non mi sorprese più di tanto leggere il nome ‘Lenalee’ sul tavolino che reggeva il vaso. E infine Lavi mi indicò alcune delle sue foto preferite nella sezione apposita.

La fotografia è un’arte speciale,’ aveva detto Lavi, ‘riesce a cogliere e catturare su un pezzo di carta attimi, espressioni, sfaccettature della verità così fugaci che spesso anche all’occhio più allenato sfuggono. Rende possibile contemplare quelle microespressioni a cui non si riesce sempre a far caso ma che, se si potessero vedere con la stessa facilità di quanto si nota il divertimento in una risata, sarebbe così semplice comprendere… ah, Allen, non ascoltarmi.

Non avevo commentato, ma il perché tutte quelle fossero le ‘meraviglie’ della scuola non mi era difficile capirlo.

Ma ora mi ritrovavo davanti all’ultima meraviglia: la grigia, poco interessante porta di quello che doveva essere il bagno maschile del terzo piano del lotto C. O era il secondo piano? O il quarto… comunque.

Quello che non capivo, a prescindere dal piano su cui fossimo, era cosa ci potesse essere di tanto speciale in un bagno per maschi.

“Cosa c’è di tanto speciale in un bagno per maschi,” chiesi difatti in tono piatto.

Lavi sospirò teatralmente e si portò il dorso di una mano alla fronte in segno di tragicità, “Allen, Allen… non hai ancora capito che in questa scuola non ci si può fermare alle apparenze?” Si allungò in avanti e afferrò la maniglia scardinata, tirandola a sé. “Qui dentro, Allen, si nasconde il luogo più magnifico di tutti… l’oracolo di Delo.”

Ormai per metà all’interno del bagno, lo seguii rassegnato.

Era un semplice bagno, pavimentato di piastrelle blu e dalle pareti bianche a cui erano attaccati alcuni lavandini e una serie di orinatoi, sul lato opposto alla fila di cabine chiuse.

“Allora, la leggenda dice…

“Ma che ore sono? Tra poco non finisce l’ora?” lo interruppi, buttando il mio zaino in un angolo.

“Non m’importa, la leggenda dice che alcuni anni fa, uno studente disperato cercò rifugio in una delle cabine di questo bagno, che si sa, è poco frequentato dato che la maggior parte delle classi di questo piano sono dedicate ai club pomeridiani. Si dice che fosse in preda a una crisi esistenziale dovuta a pressioni familiari e scolastiche. Sta di fatto che si rinchiuse in questa cabina, proprio questa,” e indicò una l’ultima cabina della breve fila all’interno del bagno, “e ci rimase per il resto della giornata. E quando ne uscì… aveva trovato tutte le risposte di cui aveva bisogno.”

Lavi si fermò davanti alla porta della cabina, su cui era affisso con dello scotch un foglio bianco e sgualcito con su stampato in maiuscolo la parola ‘guasto’.

Avevo ormai capito dove la storia voleva andare a parare. “E questo non potrebbe essere perché è rimasto in bagno a pensare per tutto il giorno?”

“Non essere scettico, Allen! E la storia non è ancora finita! Sono stati riportati altri due episodi a conferma della storia.”

Lo vidi frugare nelle sue tasche, e qualche secondo dopo tirare fuori una moneta di cinque centesimi. Mentre la inseriva nella stretta fessura sotto la maniglia che segnava il colore rosso, ‘occupato’, riprese a parlare.

“La seconda fu una ragazza di prima, a cui piaceva un ragazzo di seconda che aveva conosciuto grazie ad un amico. Ma questo ragazzo era parecchio freddo e distaccato. Nonostante alcune ragazze gli si fossero dichiarate, lui aveva sempre rifiutato tutte loro, non degnandole neanche di una parola. E a questa ragazzina lui piaceva, davvero, ma ella non aveva il coraggio di dichiararsi, sicura che lui l’avrebbe rifiutata senza neanche prenderla in considerazione. Scoraggiata, venne qua per stare un po’ da sola dopo una giornata particolarmente difficile e, indovina? A un certo punto trova il coraggio di confessarsi. Corre fuori dal bagno a una velocità sorprendente e trova subito l’oggetto dei suoi desideri che cammina per il corridoio del secondo piano. Gli si para davanti e gli confessa il suo amore, così, su due piedi.”

“Non c’è neanche da dire che il ragazzo era sconvolto. Sia perché era un tipo chiuso e non sapeva come gestire una dichiarazione in pubblico, sia perché come si scoprì dopo, lui stesso era stato innamorato della ragazza a lungo, solo che era sempre stato certo che lei non ricambiasse. Così si misero insieme e vissero sempre felici e contenti. O così narra la storia.”

La serratura del bagno scattò su ‘aperto’ con un sonoro clack. Lavi rimise via la moneta ma non aprì la porta.

Era di sicuro una storia romantica, un po’ cliché, ma romantica. “Okay,” ridacchiai, “di cosa parla il terzo episodio?”

 Lavi mi sorrise raggiante, compiaciuto di aver suscitato il mio interesse.

“Il terzo e ultimo episodio ha come protagonista di nuovo un ragazzo, uno piuttosto silenzioso e che stava vivendo una situazione familiare un po’critica. Aveva infatti appena scoperto che suo padre tradiva sua madre con un’altra donna, che tra l’altro lui odiava già prima della scoperta. Era un tipo piuttosto orgoglioso, che non amava parlare dei suoi problemi con gli amici, perché non voleva sembrare debole per alcun motivo. In questo caso, in più, si vergognava profondamente del padre, e quindi per alcuni giorni si tenne tutto dentro, indeciso tra il tenere il segreto per sempre con sé o dirlo alla madre. I suoi amici capendo che aveva qualcosa che non andava, ma incapaci di capire cosa esattamente, gli raccontarono, nella speranza di tirargli su il morale, delle voci che giravano su questo bagno e gli consigliarono, in parte scherzando, di provare a scoprire se davvero il bagno aveva quel potere. Ovviamente il ragazzo li ignorò, non credendo a una parola di quello che aveva sentito – a ragione, oserei dire. Ma qualche giorno dopo, nonostante avesse minacciato il padre di non tradire più, lo ritrovò ancora con l’amante.”

Lavi si interruppe. Stava guardando con occhi vacui un punto della porta, immerso nei suoi pensieri, “C’è da dire che il padre non era molto intelligente,” disse in un sospiro. “Ma comunque,” e nei suoi occhi si riaccese la fiamma della passione del cantastorie, “quel giorno il ragazzo venne a scuola, straincazzato e con una gran voglia di distruggere qualcosa o qualcuno.”

“Oddio, ha picchiato qualcuno a sangue?” intervenni, scioccato all’idea.

Nah,” Lavi scrollò le spalle con indifferenza, “fortunatamente andò a prendere una mazza da baseball in palestra e venne proprio qui. Entrò in questa cabina e prese a mazzate il tubo del condotto.” Alzò una mano all’altezza della faccia e appiattendo le dita, la mosse in orizzontale come se stesse lisciando qualcosa, “Si dice che il suo ringhio a ritmo di ‘non crederò mai a qualcosa di così stupido’ risuonò per dieci giorni nei corridoi della scuola.”

Ridacchiai e incrociai le braccia. “Sì, va bene, e quindi? Ha sfondato il bagno e se n’è andato?” chiesi con un sorriso sardonico.

Lavi mi lanciò un’occhiata di finta sufficienza e alzò un dito con fare lezioso. “No, il meglio deve ancora arrivare. Dopo aver distrutto le tubature, il ragazzo rimase nel bagno, seduto a pensare. Un’ora dopo, uscì dal bagno con una sicurezza che mai aveva posseduto. Quella sera disse a sua madre della tresca amorosa del marito, e con suo immenso piacere sua madre gli rivolse queste parole ‘era da un sacco che cercavo una scusa per buttarlo fuori!’ Tutto si risolse quindi per il meglio. Il padre venne buttato fuori, la madre ottenne il divorzio e lei e il figlio vissero sempre felici e contenti, con gran parte del conto bancario intatto. Circa,” Lavi si grattò la testa, imbarazzato, “la leggenda non tramanda cosa successe dopo.”

“Beh, sono felice per lui,” commentai. Solo uno come Lavi poteva mostrare così tanto interesse per una leggenda così campata per aria. Dubitavo che le varie storie fossero vere, e se Lavi se le stava inventando sul momento, beh. Aveva un talento innato per la recitazione e l’immaginazione. “Apriamo la porta adesso?”

Annuì, sorridendomi con quel ghigno sghembo. Spinse la maniglia verso il basso e, lentamente, aprì la porta.

Di certo quello che vidi non era esattamente ciò che mi ero aspettato. La cabina era un piccolo cubicolo a pianta rettangolare, più lungo che largo, fatto di muri di piastrelle bianche. Attaccato al muro opposto alla porta vi era un water bianco collegato a una serie di tubi che salivano lungo il muro, tutti prevedibilmente ammaccati, proprio come se qualcuno li avesse presi a bastonate. La cassa dello sciacquone aveva il coperchio disintegrato, come lo era anche la tavoletta. Ma su tutta la superficie delle ridotte pareti, vi era un immenso numero di scritte elaborate, tutte con calligrafie diverse, con colori diversi, ogni tanto affiancate da minuti disegni abbozzati o faccine stilizzate. Entrando nel cubicolo, feci un giro su me stesso, cogliendo l’occasione per leggerne qualcuna. Erano frasi completamente diverse tra loro, alcune incoraggianti, alcune imperiose, altre che esprimevano semplici consigli.

“Si racconta ch i primi che fecero la scoperta del bagno lasciarono una scritta in omaggio sulle pareti, in ricordo,” arrivò da dietro di me la voce di Lavi, “e che questa usanza sia stata rispettata da tutti gli studenti che li seguirono e trovarono lì delle risposte. Ogni frase lasciata può essere un consiglio per il prossimo.” Lo sentii ridere, “Ora che di scritte ce ne sono così tante però, ho sentito dire che alcuni si limitano a girare su se stessi ad occhi chiusi e puntare il dito verso una risposta. Mi verrebbe da dire che così ha perso un po’ il suo scopo…

Mentre lo ascoltavo, avevo notato una scritta strana, piccola e nera, fatta con dei caratteri a me sconosciuti, sotto una che leggeva ‘fottitene’. Mi chinai per vederla meglio e la indicai a Lavi. “Lavi, cosa vuol dire questa scritta?”

Lavi si avvicinò e improvvisamente sorrise. “Quello è giapponese, ed è la prova che le persone stupide esistono. C’è scritto ‘Apriti’.”

Continuai a guardarla, senza capire. “Cosa intendi dire?”

“Mi dispiace, Allen, ma questa è una storiella che non è il caso di raccontare. Anche se ormai credo di averti comunque raccontato troppo.”

Quando mi girai di nuovo verso di lui, vidi che il suo occhio stava scrutandomi, attentamente, probabilmente in cerca di un qualche segno di reazione.

“Beh, cosa ne pensi?” mi chiese infatti con voce emozionata.

“Penso che tutto questo sia…

“Affascinante?” suggerì l’altro senza aspettare, “Commovente? Interessante? Fantastico? Misterioso?”

“Abbastanza stupido,” risposi senza emozione, e mi sorpresi a godere sadicamente dell’espressione delusa di Lavi, “preferivo la penultima meraviglia.” Gli sorrisi dolcemente.

“Dai, Allen!” si lamentò alzando la voce. Quasi mi aspettavo che cominciasse a battere i piedi per terra, “È una creazione umana dalla storia commovente e dalla chiara morale umanitaria, come puoi non apprezzare questo spicchio di vita scolastica quotidiana?”

Continuando a gesticolare, entrò anche lui nel cubicolo – ora decisamente più stretto – e indicò in generale le pareti. “C’è lo sforzo della vita di ogni giorno di un centinaio di studenti inciso su questi muri.”

Gli lanciai un’occhiata scettica, “Come puoi emozionarti tutto per una storia del genere?” Lo superai e uscii dalla cabina. Sentii i suoi passi che mi seguivano.

“Voglio dire, probabilmente è solo una storia che sì è inventato qualcuno per divertimento. Si sarà alzato una mattina con la voglia di sfidare se stesso e la popolazione scolastica e vedere se era in grado di creare una leggenda,” ipotizzai. “Come può un intero water essere visto come un oracolo? Da un’intera scuola per di più!”

“Mai sentito parlare della Fontana di Duchamp?”

Ridacchiai sotto i baffi. “Sei pazzo,” gli confessai con assoluta sincerità.

Lavi sorrise divertito, “E tu sei strano.”

Sospirai in rassegnazione. “Non ho mai visto nessuno interessarsi così tanto a un bagno.”

“Magari non è al bagno che sono interessato,” rispose enigmaticamente Lavi.

Perplesso, lo guardai uscire dal bagno e richiudere la porta dietro di sé. Proprio mentre stavo aprendo la bocca per chiedergli cosa intendesse, la campanella della scuola suonò.

“Che scocciatura immensa,” commentò Lavi stizzito, mentre ritirava fuori dalla tasca dei pantaloni la sua moneta e ripeteva il procedimento di prima. “Che cos’hai ora?”

Cos’avevo cosa. “Eh?”

Lavi si girò e una volta finito si allontanò dalla porta. “Che lezione?” Inarcò un sopracciglio davanti alla mia incomprensione.

“Ah!” esclamai capendo. Seguendo Lavi fuori dal bagno, raccattai da terra il mio zaino. Lavi mi guardò frugare al suo interno alla ricerca del foglio che mi avevano dato in segreteria un’ora prima, e quando lo trovai – quasi subito, dato che lo zaino era praticamente vuoto – con imbarazzo cercai di nascondere il suo stato di spiegazzamento. Non ero un granché bravo nel tenere ordinate le cose che non mi interessavano.

Lo spiegai e cercai la casella corrispondente a quell’ora.

“Chimica 102,” lessi ad alta voce.

Lavi rimase stupito. “Sei del secondo anno o sei solo molto portato in chimica?”

“Chimica non è esattamente la mia materia preferita. Comunque sono del secondo anno.”

Lavi ghignò. “Non l’avrei mai detto. Sei troppo basso per sembrare uno di seconda.”

“E io penso che tu dia troppa aria alla tua bocca, Lavi. Sembri così intelligente prima di iniziare a parlare.”

Il rosso si portò una mano al cuore, con fare sofferente. “Mi stai ferendo, Allen. Il mio cuore di pirata è fragile davanti alle tue parole taglienti.”

“Oh, stai zitto.”

Lavi sbuffò. “Ma davvero, a parte l’altezza, credevo fossi in prima. Non hai detto di avere quattordici anni?”

“Il mio compleanno è il 25 dicembre.” Compiere gli anni gli ultimi giorni dell’anno era un po’ seccante: la gente calcolava sempre il mio anno di nascita partendo dal presupposto che avessi già compiuto gli anni, e ogni volta mi credevano di un anno più giovane. Non era esattamente l’elemento più tragico della mia vita, ma con il passare del tempo avevo imparato a trovarlo… seccante, appunto.

“Ah, capisco. È sempre un problema compiere gli anni dopo l’estate, vero? La gente crede sempre che tu sia di un anno più giovane.”

Beh, non si era aspettato questo livello di empatia. Un sospetto affiorò nella mia mente. “E il tuo compleanno?”

“Il 10 agosto. Data non esageratamente tarda come la tua, ma a sufficienza per creare sporadiche incomprensioni.” Lavi mi indirizzò un sorriso comprensivo. “Comunque, dovresti avere Reever.”

Ripiegai il foglio degli orari fingendo una cura che non gli avevo dato prima e lo ricacciai nello zaino. Ricordavo un ‘Reever’ nei racconti di Lavi, che se non sbagliavo era sempre associato a un altro nome, ‘Komui’, che dopo quello che avevo sentito avevo istintivamente cominciato a temere. “Ed è una buona cosa?”

Lavi scrollò le spalle, e si avviò verso le scale in fondo al corridoio. Buttandomi lo zaino in spalla, lo seguii silenziosamente.

“Direi di sì,” mi rispose dopo un po’, guardando davanti a sé. “È un bravo professore, gentile e sempre disposto a dare una seconda possibilità agli studenti.”

Annuii, un po’ rigido. Ora che il momento di entrare in classe si avvicinava, quell’ansia che mi aveva perseguitato dall’inizio della mattinata stava riassalendomi. Non sapevo come, ma Lavi era quasi riuscito in quaranta minuti a farmi dimenticare che ero lì per fare lo studente.

“Ti accompagno alla tua aula – e cerca di memorizzare la strada.” Ignorai la sua risatina strafottente per osservare la marea di gente che, dalla scale, vedevo riversarsi nei corridoi per dirigersi alle loro lezioni successive.

Il viaggio verso l’aula comportò l’attraversamento dell’intera scuola, in pratica, e per di più sembrò durare secoli. Anche se non era possibile: ancora c’erano ragazzi ambulanti nei corridoi che chiacchieravano e mettevano via i libri nei loro armadietti. Forse perché percorrendo i vari corridoi, incrociai gli sguardi di molti studenti che mi fissavano stupiti, probabilmente chiedendosi da dove fossi spuntato fuori, con i miei capelli bianchi e la mia cicatrice appariscente. Fui tentato dal rimettermi su il cappuccio, ma non volevo attirare l’attenzione di Lavi, che però dal bagno di Delo era piombato in un silenzio sospetto. Mentre camminavamo, continuai a guardarlo con la coda dell’occhio, aspettandomi che ricominciasse a parlare da un momento all’altro, raccontandomi di un qualche bidello coi super poteri o un banco diventato un altare sacrificale in tempi remoti – non sapevo più cos’aspettarmi da lui.

Ma Lavi non parlò, e mantenne per tutto il tempo uno sguardo assente diretto avanti a sé. Mi chiedevo come facesse ad orientarsi con quel livello di concentrazione sui suoi dintorni – l’avessi fatto io, sarei potuto finire in un altro Stato.

“Eccoci arrivati,” disse Lavi all’improvviso di fianco a me.

Alzai la testa e notai che eravamo all’estremità di un corridoio pieno di gente e armadietti, identico a tutti quelli che avevo visto finora. Con mio rammarico, mi resi conto che ancora una volta non avevo idea di dove fossimo, impegnato come ero stato per l’intero viaggio a evitare le occhiate della gente e a chiedermi perché Lavi non parlasse. Stupido Lavi. Anche quando stava zitto causava problemi.

“Siamo al secondo piano del lotto B,” continuò dandomi un sorriso d’intesa. Fissai un attimo la porta blu davanti a noi, dalla cui finestrella potevo vedere un uomo di mezza età, dai folti capelli biondi che sembravano quasi stare ritti verso l’alto, e una barbetta incolta sul mento. Indossava un camice da laboratorio ed era seduto sulla sua sedia dietro la cattedra piena di fialette, becker e fornellini, intento a sfogliare un giornale.

Sentii distintamente un’ondata di panico invadermi il corpo. ‘Ma che diavolo, Allen, non sei mai stato così codardo in passato’, mi insultai liberamente a mente. Cercai di convincere il mio corpo ad alzare un mano per afferrare la maniglia, ma qualcosa mi bloccava.

All’improvviso, una mano calò sulle mie spalle. Voltai di scatto la testa e vidi Lavi che mi osservava con un’espressione che temevo essere compassione. Odiavo la compassione.

“Lo sai che non ti morde, vero?” mi prese in giro, ridendo sommessamente.

Alzai gli occhi al cielo, e mi scrollai di dosso la sua mano.

“Grazie, Lavi, mi hai chiarito un dubbio esistenziale,” lo informai pieno di sarcasmo.

Lavi sfoderò un ampio sorriso che ormai avevo imparato a temere, “Di niente, tappo.” E mi diede un colpetto sulla testa.

Lo guardai più torvo che potei, cercando di trasmettergli visivamente tutto il mio disprezzo e sottraendomi in un attimo alla sua mano, e con uno scatto aprii infuriato la porta della classe e mi ci fiondai oltre, chiudendomela alle spalle con un colpo secco e appoggiandoci contro la schiena.

Una volta dentro – dopo i primi secondi di magra soddisfazione per essermi allontanato da Lavi senza salutarlo – mi resi conto che avrei potuto evitare un’entrata del genere: il professore e gli altri studenti già presenti mi stavano fissando, alcuni con gli occhi sgranati e altri curiosi.

Odiavo Lavi – c’erano parecchie cose che odiavo quel giorno.

Sentii le mie guance diventare più calde, e in cuor mio sperai di non essere diventato paonazzo. Mi staccai dalla porta e mi avvicinai al professore, che aveva completamente perso interesse nel suo giornale.

“E tu chi saresti?” mi chiese educato.

“Allen Walker,” risposi, ignorando un paio di occhi sgranati in prima fila dietro due spesse lenti rotonde che mi osservavano senza pudore, “Sono, ehm, il nuovo studente…?”

Il professore aprì la bocca in una ‘o’ perfetta e si batté una mano sulla fronte, “Oh! Già, mi avevano avvisato del tuo arrivo, me n’ero dimenticato. Io sono Reever Wenham, il tuo professore di Chimica.”

Mi sorrise gentilmente, e indicò con una mano il gruppo di banchi davanti a lui. “Puoi sederti dove vuoi… Walker, giusto? Hai già i tuoi libri di scuola?”

Annuii, incerto. “Sì, ma oggi ne sono sprovvisto,” precisai imbarazzato.

Il professore scrollò le spalle, “Non importa, vai pure a sederti. Puoi guardare da quello di un tuo compagno nel caso. Ehi, voi, muovetevi ad entrare, la lezione comincia!”

Effettivamente dietro di me altri studenti erano entrati in classe e stavano avvicinandosi ai loro tavoli. Ignorandoli, mi diressi frettolosamente verso uno dei tavoli da tre vuoti a fondo classe e mi accasciai sul primo sgabello che incontrai. Mollai lo zaino a terra non prima di aver tirato fuori quel poco che c’era dentro, un quaderno nuovo e un lungo astuccio blu.

Proprio mentre prendevo in mano la penna, il professore si voltò verso la lavagna dopo il breve appello e cominciò a scrivere con il gessetto alcune formule chimiche, di cui spiegò il significato. Ma quando alzai la testa dal foglio pronto a copiare, notai una presenza accanto a me che mi fissava da dietro un paio di lenti rotonde, gli stessi grandi occhi nocciola che ero quasi sicuro di aver visto in primo banco poco prima.

Ehm… posso aiutarti?” chiesi a bassa voce, impacciato, alla ragazza davanti a me. Era abbastanza carina: era minuta, più bassa di me – grazie al cielo – e aveva, incorniciato da una chioma di crespi capelli castano scuro raccolti in due lunghe trecce voluminose che cadevano sul petto, un viso tondo che sembrava sempre un po’ sorpreso date le sopracciglia alte e inarcate e gli occhi che di natura sembravano costantemente un po’ sgranati, dietro la sottile montatura dei suoi occhiali rotondi.

La ragazza, inspiegabilmente, arrossì. “Ah, io… no,” si prese tra le dita la fine di una treccia e prese a tormentarla, “Volevo sapere se ti serviva aiuto con il programma di chimica e scienze.” Il suo volto si illuminò, prendendo più fiducia. “Sono brava sai. Ho preso quasi il massimo dei voti nell’ultimo test. Quindi se ti serve una mano…” la sua voce si affievolì e distolse lo sguardo, “posso aiutarti.”

Le sorrisi, pensando che fosse molto gentile. Effettivamente avevo perso alcune settimane di scuola a causa del trasferimento, quindi non ero esattamente al passo con il programma – per questo, ero entrato in classe con la ferma intenzione di prendere appunti senza tentare di capire. D’altra parte, quel giorno non mi sentivo molto in vena di stringere amicizie – non che amassi la solitudine, ma spesso trovavo faticoso e rischioso trovarsi nuovi amici.

La mia mente vagò inaspettatamente verso Lavi. “Grazie mille, è molto carino da parte tua. Ma non credo sia il caso di disturbarti tanto per me…” tentai di rifiutare il più gentilmente possibile.

La ragazza si morse il labbro con tanta forza che temevo l’avrebbe rotto.

N-no! Non è assolutamente un problema! Voglio dire, potremmo f-fermarci anche solo un pomeriggio in biblioteca, così ti spiego quello che non capisci…

Grazie… ma davvero, penso di potercela fare da solo. Non credo di essere rimasto molto indietro, infatti.” Contando che nell’altra scuola non avevo studiato quasi nulla, due mesi di programma non sembravano così impossibili da recuperare. Anche se si trattava di due mesi di tutte le materie. O magari sì.

La ragazza, d’altronde, sembrò demoralizzarsi. “S-scusa, non volevo insinuare che tu fossi stupido o qualcosa del genere… volevo solo…

Cercai di non ridere davanti al suo imbarazzo, che era una cosa parecchio dolce, e cercai di rimediare in qualche modo. “Non preoccuparti. Anzi, se tu ad esempio… ehm… potessi prestarmi degli appunti da copiare, te ne sarei grato.”

La ragazza divenne praticamente paonazza, e quando stavo per chiederle se si sentiva bene, mi sorrise con una tale intensità che ebbi paura le si dislocasse la mandibola.

“Assolutamente sì! Ho appunti di quasi tutte le materie, adoro prendere appunti, e credo siano anche fatti abbastanza bene, sono sicura che ti saranno utili quando dovrai studiare!”

Le sorrisi gentilmente. “Grazie mille… eh, il tuo nome?” Non riuscivo a ricordarlo dall’appello, anche se mi sembrava di ricordare fosse un nome particolare.

Rou Fa,” sussurrò con aria esageratamente felice la ragazza. Il nome mi suonava vagamente familiare, ma non capivo il perché. La guardai, un po’ stupito, “Rou Fa? Non è un nome cinese? Eppure non lo sembri fisicamente.”

Rou Fa rise, una risata sommessa e un po’ pastosa, ma piacevole. La vidi lanciare uno sguardo al professore, ancora intento a indicare alcuni dati alla lavagna.

“Sì, il mio bisnonno era cinese, ma l’eredità genetica è andata un po’ perdendosi… quello che di sicuro è rimasto in famiglia temo sia l’altezza.” Si inclinò verso di me, portando una mano alla bocca e abbassando ulteriormente la voce, “Tutti nani. Anche mio padre. Soprattutto mio padre.”

Ridacchiai con lei, cercando di non farci beccare dal professore. Notando che Rou Fa stava osservando la lavagna con la testa appoggiata sul palmo di una mano e l’espressione pensierosa, ne approfittai per riprendere la copiatura – andando un po’ a caso, per la verità.

“Senti, Allen…” mi sentii chiamare, e mi girai verso la ragazza, che si stava mordendo il labbro inferiore con espressione un po’ preoccupata e incerta. Di nuovo si stava tormentando l’estremità di una treccia con le dita, mentre le guance si erano ritinte di un lieve rossore.

Annuii, continuando a copiare, per farle capire che ero in ascolto e di continuare. Lei lanciò un’occhiata agli altri.

Intorno a noi, infatti, quasi si dessero in turni, continuavano a voltarsi verso di noi alcuni studenti, con facce curiose e sospettose – in particolare il ragazzo che stava accanto al posto precedentemente occupato da Rou Fa, si voltava più spesso del dovuto e continuava a indirizzare alla ragazza sguardi inquisitori e duri che venivano puntualmente ignorati. Pareva un po’ frustrato, in effetti.

Posso… posso chiederti come ti sei fatto quella cicatrice?”

Beh, non c’era da stupirsi. Prima o poi questa domanda, educata o meno, arrivava sempre. Anzi, ero stupito che Lavi non me l’avesse chiesto per primo, dato che sembrava alimentato da una curiosità quasi ossessiva. Quasi mi distrassi dalla conversazione, facendo improvvisamente caso al fatto che Lavi mi aveva fissato con tanto interesse ma alla fine non aveva chiesto nulla della mia vita o del mio aspetto, se non l’anno scolastico che frequentavo.

Misi su il mio sorriso migliore. “Ah, non è niente, solo un brutto incidente alcuni anni fa… e, se la tua prossima domanda è se i miei capelli sono tinti, no, sono naturali. Nessuna grande storia dietro, mi dispiace. E per i guanti, semplicemente mi danno conforto. Non esco mai senza, neanche d’estate.”

Rou Fa mi stava guardando come se fosse lì per bere ogni mia parola come fosse nettare. Mi sconcertava un po’.

O-okay, scusa se te l’ho chiesto,” balbettò imbarazzata, abbassando lo sguardo.

“Non fa niente, davvero. La gente me lo chiede spesso, ci sono abituato.”

Quando rialzò la testa, Rou Fa aveva un’espressione decisa che non mi aspettavo di vedere. “No, non è stato educato chiedertelo. E comunque,” e di nuovo si riportò la mano a coprire la bocca da sguardi indiscreti, “riferirò agli altri quello che hai detto così nessuno te lo chiederà di nuovo.”

Quasi risi davanti a tanta premure che non capivo perché mi fosse riservata. Questa ragazza era troppo dolce.

“Grazie mille, Rou Fa.”

 

 

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