Notturni

di Kokky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arancino ***
Capitolo 2: *** Il vecchio vigneto ***
Capitolo 3: *** Luccicante ***
Capitolo 4: *** A passo di danza ***
Capitolo 5: *** Fragili ***
Capitolo 6: *** Libertà ***
Capitolo 7: *** Le sourire du soleil ***
Capitolo 8: *** Cade la pioggia ***
Capitolo 9: *** (3) Esercizi di Stile ***
Capitolo 10: *** Rivederti ***
Capitolo 11: *** Una settimana, un mese, un anno ***
Capitolo 12: *** Carnival Mask ***
Capitolo 13: *** Verso quella direzione ***
Capitolo 14: *** Boccadirosa ***
Capitolo 15: *** Euterpe mi ha indicato la via ***
Capitolo 16: *** Didone Regina ***
Capitolo 17: *** Elettra sognava ***
Capitolo 18: *** Julia - traccia nove ***
Capitolo 19: *** Preparativi ***
Capitolo 20: *** Favola del sogno americano ***
Capitolo 21: *** Grow up and blow away ***
Capitolo 22: *** I dream you’ll be me ***
Capitolo 23: *** Solemn talk of distant rain ***
Capitolo 24: *** Storia di un sessantesimo di minuto ***
Capitolo 25: *** A stomaco vuoto ***
Capitolo 26: *** Be hungry, be foolish ***
Capitolo 27: *** Train de vie ***
Capitolo 28: *** Dramma teatrale ***



Capitolo 1
*** Arancino ***


Notturni

 

Le storie di questa raccolta sono racconti scritti di notte, quando avevo poco sonno o poca voglia di dormire. Tutti quanti originali, scritti con sonnolenza. Perciò non aspettatevi troppo xD

Buona lettura, Kokò

 

 

 

 

 

 

Arancino

 

A mio nonno

 

La maledizione ti uccide, ti corrode e ti lascia senza fiato – a crepare.

I denti si sono ingialliti col tempo, le rughe si sono diffuse sulla pelle, a rigare rovinare solcare il volto, le mani, il collo...

La maledizione ti tiene fermo, a guardar sciupare lì davanti tua figlia. Sempre triste, cerca solo di sorridere davanti a te. Non è più tua figlia, ma solo una martire che ti fa visita i giorni dispari.

Con la parvenza dell’allegria e il profumo del pianto.

 

Non è brutto vivere lì, pensi.

Hai un po’ tutto: un letto, dei vestiti, il cibo, i compagni di viaggio, dei giochi e delle persone che ti accudiscono.

Ma... ma dov’è tua moglie?

A volte racconti di lei, del suo viso, di quando andavi in banca, del pranzo insieme.

La maledizione però ti fa dimenticare tutto.

Hai una figlia?

Non ricordi più.

Annusi la tua posata d’acciaio, il tuo labbro stanco tremula mentre gli occhi ti si offuscano. Potresti morire proprio in quell’istante, sarebbe perfetto.

Ma ti giunge inaspettata la visita di tua figlia, passata a salutarti come tutti i giorni dispari. Non ricordi chi è. Però ti sembra familiare, così le chiedi una cosa – una sola.

« Un arancino. »

Vorresti un arancino.

Tua figlia sorride e sembra farlo per davvero, questa volta.

« Un arancino, papà? » ti chiede.

Tu annuisci. Non importa se ti ha chiamato “papà” e tu non ricordi chi è; ciò non conta.

 

Te li preparava tua madre, gli arancini.

Con il riso morbido schiacciato e un cuore caldo di ragù con i piselli, il formaggio fuso e pezzetti di carne.

Te lo gusti, l’arancino.

La donna, che poi è anche tua figlia, ha chiesto il permesso e sei uscito. Al bar, dove c’è luce, vita, chiacchiere e arancini, arancini caldi. Come quelli della mamma.

« Ti piace, papà? » ti chiede.

Tu annuisci e mordi, mangi, mastichi quel riso morbido e compatto; potresti morire proprio in quell’istante, sarebbe perfetto.

Il muco ti cola con le lacrime sul viso, sembrano catartici, e tua figlia ti pulisce per bene la pelle sporca.

« Ne vuoi un altro, papà? » ti domanda.

No, sei pieno.

Tornate a casa, alla grande casa. In macchina tua figlia ti racconta del suo cane.

Ascolti e intanto piangi senza motivo.

Nella tua camera la saluti.

Poco dopo passa Gennaro, che cammina piano e senza meta.

Ti corichi sul letto, in bocca senti ancora quel ragù misto alla carne e al riso e agli altri ingredienti: una pappa morbida appiccicosa tra i tuoi denti.

Con gli occhi annebbiati guardi il soffitto, sempre uguale.

Piangi ancora.

Le lacrime seguono i solchi delle rughe, innaffiano la tua pelle arida e assetata, sembrano pioggia. Potresti morire proprio in quell’istante, sarebbe perfetto.

 

 

La maledizione lo ha portato via a maggio.

I fiori gli circondano il corpo, freschi, ebbri di colori e di morte. La figlia si tiene un fazzoletto sulle guance, ad asciugare lacrime.

È morto felice, sorride pure. Poco prima aveva mangiato un arancino.

Nell’aria c’è solo la parvenza del pianto e il profumo della morte.

 

 

Fine

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Capitolo 2
*** Il vecchio vigneto ***


Il vecchio vigneto

 

A mia nonna e a mia zia

 

« Hai le guance rosse rosse, tesoro mio. » mi sussurrava all’orecchio, prendendomi in braccio.

Io l’abbracciavo stretto stretto e mi mettevo su di lui. Incominciavamo a girare per tutto il vigneto.

 

« Guarda qui che bell’uva, passerotto mio! »  « Tieni, assaggia un po’, tesoro. »  « Prendi questo fico, è dolcissimo. »

Il nonno mi riempiva di attenzioni. Io stavo sulle sue spalle e guardavo i filari verdi di foglie di vite e rossi e bianchi d’uva, i pochi alberi vicino ai muretti – fichi, peri, meli –, i ficodindia che crescevano spinosi. Il cielo, da lì, era azzurro intenso, luminoso, disteso.

Il nonno, dopo la passeggiata per il vigneto, si sedeva sul suo sgabello di ferula intrecciata e accendeva il grosso camino a legna, buttandoci legnetti, pezzi di legno più grandi e carta. Il fuoco scoppiettante, di un colore rosso/arancio che catturava, riscaldava le ossa e il cuore.

Il nonno cantava sempre vecchie canzoni, con voce rauca e le mani che si muovevano a tempo, e io stavo lì, ad ascoltarlo per ore e ore.

 

 

Il nonno è morto il 20 gennaio del 2001. Aveva 80 anni, ormai era invecchiato e si muoveva poco e niente. Col tempo era diventato rugoso, curvo e sempre più debole.

La vendemmia non la facciamo più, adesso il vigneto è pieno di erbacce. I rovi si arrampicano ovunque, espandono il loro dominio fra le viti. La casa è in disuso.

Che desolazione.

Ricordo ancora quando avevamo fatto i fichi secchi e ce li eravamo mangiati tutti in un giorno, sfidandoci. Quando avevo pestato l’uva per la prima volta, nel palmento vicino al vigneto, scuro e sempre fresco.

Il grande pranzo con tutti i parenti e gli amici che aiutavano per la vendemmia, seduti a tavola con davanti un piatto pieno e caldo e tante risa, voci, schiamazzi, battute. Il salotto delle vecchie signore, che si mettevano fuori e chiacchieravano di tutto.

Quei sorrisi, quei volti incancellabili che ancora rivedo lì, in quella campagna ormai selvaggia; quelle persone piegarsi per raccogliere un grappolo, offrirti un po’ d’uva da tavola, parlare e parlare... mentre ora sono solo ricordi che rimbombano nella mia mente, nei miei occhi, riguardando il vigneto.

Che desolazione.

 

 

Fine














Voglio ringraziare Livia per la recensione: Bellissima, dici? E triste... quello sì, di sicuro xD .. Grazie.

A presto.

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Capitolo 3
*** Luccicante ***


Luccicante

 

 

A mia nipote

 

Lei è felice.

No, lei non è felice.

E lei è dolce.

Non lo è, non lo è. L’hanno deciso loro.

 

Quando piange trema, quando ride socchiude gli occhi, quando muore non parla ma fa una smorfia, quando vive sembra voce di fata e ha ali di polvere dorata, quando ama è lei stessa l’orgasmo.

Intreccia fili e racconta storie, intreccia vite e inventa favole che sono tutte il suo bel futuro passato.

Sembra l’ombra di un fiore. Sembra l’ombra di un fiore.

 

Splendida, splendida.

Lucente, la mia lucciola.

« Sai cos’è l’amore, Hotaru? »

« Sì. »

« E cos’è? »

« È il mio cuore sulle tue

labbra, fra le tue mani. »

« È il mio cuore sulle tue

ciglia, fra i tuoi denti. »

Aveva risposto lui.

Splendida, splendida,

la mia Hotaru.

L u c c i o l a

 

Lei è triste, lei è amara, lei ama.

Sembra essere durata per sempre.

H o t a r u

Che la sua luce sia storia, Madre, che la sua voce sia vento e ti accompagni, Amore, che i suoi occhi siano tramonto e poi alba, Sole.

Che possa splendere un po’ di più, fragile scintilla.

 

« Hanno deciso loro che sono così,

proprio così, esattamente così. »

Si era toccata il volto e i capelli, e le labbra.

« Ma sono io così? Questo è il mio volto, lo è?

Perché è mio e non tuo? Perché gli altri dicono come

sei e non sanno mai niente? »

Le sue sopracciglia si erano mosse incerte.

Era stata il mio orgasmo.

 

Era stata il mio cuore.

 















---

Hotaru significa Lucciola in giapponese. E' una non sense mucho non sense xD Voglio ringraziare Eddy per la recensione: grazie davvero, Ed, ho percepito che ti è piaciuta. Wow, sono felice *^*

Vado. Alla prossima.

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Capitolo 4
*** A passo di danza ***


A passo di danza

 

 

Scritta ispirandomi alla scena finale del musicista in Lezione Ventuno di Baricco.

 

Era una danza di neve, di ghiaccio, di amore e silenzio, di vita e respiro; e sembrava davvero vivere in quell’attimo di nulla, e si sentiva la musica, i violini che salivano e scendevano immensi, mentre tu stavi lì a danzare – a danzare proprio lì – su quella lastra sottile. Vivevi ed eri candela, i fiori appassivano crepitando e il fuoco era una S sinuosa, suadente, scivolosa che lambiva la tua vita; tu eri candela o chissà cosa, e ti scioglievi come cera.

C’era la danza.

Eri musica.

 

 

Il Tutto è Nulla.

Io l’ho vissuto.

Ero passo di danza. Candela. Musica.

            Fiore avvizzito, cera colante.

Fiamma.

 

Mi sembra ancora di sentire quella luce bianca che poi circondava tutto, mi sembra di sentirla.

            Mi sembra.

 

 

 

Fine
















Grazie a Lisa, come sempre gentilissima *_*
A presto xD

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Capitolo 5
*** Fragili ***


Fragili

 

Ai due ragazzi di Grey’s Anatomy per le lacrime di lunedì

 

E si perde, e si ritrova.

Le chiavi sono sul tavolo, lì sopra c’è un vaso pieno di fiori freschi immersi nell’acqua. Il sole sembra affogare in quel liquido, i suoi raggi polverosi si dividono a sprazzi, e si specchiano vanesi e un po’ antichi.

E si trova, e si riperde.

Quasi come se lui – Jack – glielo mangiasse, il respiro, e gli succhiasse via ogni cosa, lasciando un manichino che sente solamente la propria pelle formicolare. Bruciano le labbra, ardono. Le guance sono colline che si bagnano di pioggia – di baci –, gonfie d’amore, lucide. Il piacere è un punto bianco che si espande, e si espande, e cresce giallognolo dal ventre.

E c’è, in quel bacio James esiste.

« Ti amo. » sussurra sulle sue labbra.

Le mani incappano nelle chiavi, che cadono tintinnando sul pavimento, e il vaso scivola via mentre due corpi si amano in una pozza d’acqua e fiori freschi sotto il sole stanco.

Il tavolo cigola.

 

 

Fine






-

Grazie Alex.

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Capitolo 6
*** Libertà ***


Libertà

 

 

A chi ha paura di essere libero. Ciò è sciocco

 

Tu... sei pronto a librarti in aria?

 

« Come invidio gli angeli. Possono volare, volare, volare per il cielo blu verso l’Isolachenonc’è e oltre, verso paradisi sconosciuti, senza catene. Sono liberi, loro. »

« Sì. » sussurro piano guardando il cielo sopra di noi, macchiato solamente da qualche nuvoletta qua e là. « Ma... non avresti paura? Andare per sempre, senza limiti, e non avere nessun legame terreno. »

« No. » mi rispondi. « Volare mi basta. Sentire che posso fare ciò che voglio, essere davvero libero. Vivere con delle stupidi costrizioni è uno spreco. »

« Capisco. »

 

Volare, librarsi in aria per poi non tornare più a terra... la libertà. Non voglio tutto questo. Ho paura di rimanere sola. Voglio dei legami stretti, saldi, sicuri e confortevoli. La famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro. Non posso... in fondo ciò mi basta.

Non voglio che voli via, come un angelo. Ti chiuderò in una gabbia, dove non potrai più uscire; ti tarperò le ali facendoti innamorare di me a tal punto da non avere più quel desiderio incessante di essere libero; al punto che ti dimenticherai il gusto e la dolcezza del volo.

Non sono pronta per volare.

 

Fine

 

 

 

 

 

 






---

La libertà e il volo sono una metafora strausata, ma io amo Peter Pan e l'idea della ragazza non mi dispiaceva. E' una storia vecchia che ho modificato di qualche parola, aggiustandola xD

Ho cambiato il nome della raccolta togliendo Racconti perché Notturni, da solo, ci sta bene. E' anche un tipo di musica classica, mi piace l'idea. Notturni.

Voglio poi ringraziare chi ha recensito.

Kikka91: Crì, Crì carissima! Che recensione dolciosa e tenerosa, come sei tu in fondo! Sono felice che ti sia piaciuta molto, lo so... lo yaoi regna. Grazie Iddio xD

Alexluna: Tu sei una donna matta, sappilo. Io come cavolo devo rispondere alle tue magnifiche recensioni? Sono meglio dei racconti xD
Mi hai commossa tu, con Arancino e le tue frasi. E prego a te, figuriamoci (L). Davero >w<
Che dire poi per la seconda recensione? Ci hai azzeccato, e poi che critica stupenda, Alexxx! Sono felicissima che ti sia piaciuta ancora di più.
E Luccicante? xD Non sono un mostro, lo sai, sono solo io xD Hai analizzato tutto, hai preso tutto. E poi, quell'eccezionale. Ohh, (L).
Bellissima poi, la tua interpentrazione della quarta storia. Che dire, ci hai preso: era più un dipinto, un passaggio. Non c'era poi un perché.
L'ultima recensione mi ha sciolto. Per tutte quelle considerazioni, quei complimenti! Per tutta la mole, la massa di recensioni... era la goccia che fa traboccare il vaso.
Ti adoro!


Tornerò. Questo, comunque, non è il mio lavoro migliore, mi sa. Recensite, però!!
A presto.

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Capitolo 7
*** Le sourire du soleil ***


Le sourire du soleil

 

A Parigi, per un po’ tutta quell’Arte.

 

Era il Re del Boulevard, il Signore di tutto quanto il quartiere di Montmartre che, con il suo viso di porcellana e la sua camminata lenta ma regolare, incedeva. Aveva un non so ché nella piega delle labbra, una smorfia scherzosa rossa e sanguigna, e in quel taglio d’occhi quasi ferino.

Ecco, era un leggero gatto che balzava sui tetti coperti da tegole chiare, su e giù da un luogo all’altro. Le chat noir. 

Noi lo fissavamo dall’altro lato della strada, tutte impettite, tutte sorridenti e imbarazzate nelle nostre guance rosse rosse, con gli occhi spalancanti e la tachicardia per quella sua camminata così fluida e baldanzosa. E così lento che potevamo vederlo per mezzo minuto, lì dall’altra parte della strada.

Aveva i capelli scuri, ciocche nere morbide; i pantaloni marroni di velluto, la camicia candida e la giacca color castagna. Quanto l’avremmo volute toccare, quella giacca, quelle spalle, quelle labbra sanguigne.

Dio, era un Re e noi semplici cortigiane troppo povere.

Se solo fossimo state quelle donne ammiccanti del Moulin Rouge, almeno! Ma non c’era nulla da fare, era troppo indecente – e lui era il Signore di Montmartre, così giovane, così bello.

Quando c’era un leggero venticello che attraversava il Boulevard, e i pittori si mettevano con le loro tele sul ciglio del marciapiede a dipingere Parigi, la Regina Parigi, potevamo sentirne il profumo. Il suo intenso aroma miscelato a un tocco caldo e afrodisiaco. Noi, dall’altro lato della strada, avvampavamo e speravamo ardentemente che si voltasse. Ma non lo faceva mai.

Era un Re, no? Che speranza potevamo avere?

Eppure, anche se noi sognavamo ad occhi aperti sapendo amaramente che non avremmo avuto nulla, nemmeno un dolce sorriso, vivevamo in quell’effluvio di profumo.

Era stato il nostro Sole nei giorni d’inverno.

 

 

 

Fine













---

Non ha molto senso, ma suvvia, Parigi è Parigi (anche se è appena accennata) e comunque avevo voglia... non so di cosa, è un uomo e una via, e delle ragazze che lo guardano, però... perà sì, ecco. xD E' ambientata nel XIX sec. a Montmartre, il quartiere che sta su un colle, dove in quel periodo c'erano famosi cabaret come il Moulin Rouge (citato) e Le Chat Noir (che divenne il simbolo non ufficiale del quartiere), che ho inserito parlando di lui. Il titolo vuol dire Il sorriso del Sole.

Voglio ovviamente ringraziare chi ha recensito.

lisettaH -> Grazie, ma conosco le mie capacità XD Dici che la 5 è amara? Non saperei, sarà per il titolo... boh xD Per la 6, già, fa paura, davvero. Un mostro di bravura, dici? :) Ti amo, lo sai vero?

alexluna -> Lo saprai pure che ti amo amo amo, ne? Insomma, grazieee! In qualunque cosa, in ogni dove, riesci sempre a trovare dei punti a favore, fai una critica molto centrata, bellissima nelle sue parole, esatta. E dolciosamente dolce >w< Grazie, my 'Xia!

Tornerò. Sì, di notte preferisco scrivere che dormire xD

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Capitolo 8
*** Cade la pioggia ***


Cade la pioggia

 

 

Lavinia è bella da ogni angolatura.

In ogni posizione.

Vestita da bambina innocente con le codine scure e le gonne a fiori o da gran signora dal completo grigio, con stringhe lacci stivali alti e borchie o con dei semplici jeans con maglietta. Lei è bella, spande una luce diversa dagli altri, illumina tutto. Semplicemente lo fa, consapevole fino a un certo punto del suo potere sugli altri. Cammina fuma corre legge.

Lei è sé stessa in ogni momento, risplendendo.

Lo era anche quella sera, bella e luminosa, anche in quei gesti sotto la pioggia.

 

 

Pioveva, ticchettando fastidiosamente sul grigio marciapiede, e io camminavo con accanto Bob sotto un ombrello a quadri rossi e verdi; così, un po’ per noia. Avanzavamo senza convinzione, senza una meta, solo per il piacere di stare insieme a chiacchierare di cose futili e stupide.

Pensavo che la felicità fosse una giornata tranquilla. Una di quelle dove ti svegli con un sorriso, fai colazione con chi ti piace e passi il giorno a leggere, coccolando un po’ il tuo ragazzo. Cose normali, insomma. Mi bastava anche solo questo.

Cercavo forse una felicità semplice, senza complicazioni, in verità così ipocrita e falsa da far nausea.

La sera ci saremmo incontrati con un’altra coppia tipo, sorridendo e cantando insieme. Cose da film anni ’50, e neanche all’epoca tutto andava bene, si continuava per inerzia, per i bimbi, per le facce curiose dei vicini.

Una vera noia, mi accorgo ora.

Comunque eravamo insieme, camminavamo e chiacchieravamo con smorta allegria, facendo battute stupide. La pioggia continuava a scendere giù, scorreva per purificare il mondo, ingenua.

Svoltammo e lì la vidi.

Lavinia.

Era appoggiata a un muro e si stava godendo le mille goccioline sulla pelle che scivolavano sotto i suoi vestiti succinti. Io e Bob ci guardammo un istante. Forse con lo stesso pensiero in mente.

Era bellissima.

I capelli neri si erano bagnati e ora le circondavano umidicci il volto chiaro, dagli occhi azzurri socchiusi e decorati da ciglia lunghe. Ci guardava con un ghigno.

Bob rabbrividì accanto a me, io sorrisi estasiata. C’era qualcosa in lei che mi faceva elettrizzare.

Si avvicinò con la sua falcata lunga ed elegante, ancheggiando un po’ per noi, il suo unico pubblico, poi ci si fermò davanti, distante solo un passo.

Frugò nella sua giacca aperta, di pelle nera, ed estrasse un pacchetto di sigarette Camel. «Che... avete da accendere?» chiese chiudendo due volte gli occhi dalle ciglia lunghe e guardandoci con falsa innocenza, tanto finta da capire a colpo che lei era una bambolina intelligente e furba.

Io non fumavo. Non fumo tuttora, in effetti.

Bob prese il suo accendino dalla tasca dei jeans e lei gli porse la sigaretta; la fiamma si spense subito e lottò, per poi riuscì ad accenderla. La parte bianca prese fuoco, colorandosi d’arancio e grigio cenere, come la città che ci circondava.

«Grazie.» disse, proteggendo il suo tesoro con una mano e mettendosi sotto un balcone, dove era ancora asciutto e la pioggia non batteva.

Io e Bob rimanemmo sotto l’ombrello, immobili, a vederla fumare l’intera sigaretta e a buttare poi la cicca per strada, dove si spense subito con le gocce fredde d’acqua, annegando in quel pantano.

Lei piegò il volto verso di noi. «Una bella siga ci voleva proprio.

Non battemmo ciglio, eravamo un po’ in imbarazzo, forse; almeno... io lo ero. Bob stava in silenzio, chiedendosi sicuramente perché non aveva una ragazza tanto bella al suo fianco; lei ci fissava con i suoi occhioni azzurri. Poi si riavvicinò e, con noncuranza, ci chiese:

«Volete venire con me in disco?»

Mi stupì, in quell’istante, ancora di più che per la sua bellezza inusuale e la luce che emanava anche in posto tetro come quello, in mezzo alla città, sotto la pioggia, bagnata fradicia.

Bob e io ci guardammo qualche secondo, poi io annuì, lasciando il mio ragazzo allibito. Beh, non sembrava una pazza criminale, in più avevo lui con me, no? Cosa poteva esserci di male in una serata in discoteca, a parte che erano solo le dieci e mezza e che ancora le sale dove ballare erano tutte chiuse?

Così la seguimmo, io divertita e Bob con mille lamentele in mente da riferirmi dopo, alla fine di quella serata. Stava fremendo, in effetti. Lo vedevo rosso in viso.

Lei ci condusse a una palazzina di cinque piani, gialla e semplice nella sua modesta eleganza. Prendemmo l’ascensore circospetti, in fondo non la conoscevamo e per quanta simpatia potesse farmi non era prudente tutto quello.

Ci ritrovammo nell’attico, dove due sue coinquiline in pigiama stavano ridendo di brutto e bevendo della birra, giocando a carte. Invitarono subito Bob a fare con loro una bella partitina di strip poker, io lo fulminai con lo sguardo e poi mi feci trascinare da Lavinia nella sua stanza.

Sorrideva, bellissima.

Si catapultò sul suo armadio e cercò dei vestiti per me e per lei, combinando un casino e mescolando gli abiti e i vari pezzi: top verde con pantaloncini neri, canottiera arancione con gonnellina più scura, vestito attillato e rosso... di tutto.

Poi mi fece provare altra di roba, ridendo e fumando le sue Camel, porgendomi un po’ di birra e costringendomi a ripeterle che ero astemia. Il suo cassetto era pieno di bracciali, anelli, orecchini strani e collane vistose; voleva farmi indossare ogni cosa.

Mi disse di fare la brava e si diresse a fare una doccia, io tornai nella prima stanza, dove avevo lasciato Bob con le due coinquiline Lorena e Lucrezia. Li trovai seminudi, ridenti e più che ubriachi, in un miscuglio di corpi, baciandosi e leccandosi.

Lo mandai a cagare senza troppi problemi, Bob poteva andarsi a fare fottere da quelle due. Se finiva così solo per uno strip poker... non era uno su cui fare affidamento.

Le carte bianche e plasticate era ancora sul tavolo, rovesciate e mescolate fra loro. Sbuffai.

Poi andai in bagno, dove Lavinia si stava facendo la doccia sotto l’acqua calda. Solo allora pensai a Bob seriamente e mi misi a piangere davanti a lei, una sconosciuta. Lavinia mi guardò attraverso la plastica del box doccia e uscì subito ad abbracciarmi; eppure ci eravamo appena incontrate.

Forse eravamo unite, in una vita precedente.

Mi fece togliere i vestiti ed entrammo insieme nella doccia, sotto il caldo fiotto regolare di acqua. Era confortante, stare abbracciata a Lavinia con mille goccioline che ci scivolavano pulendo la pelle. In qualche modo piangevano con me, stringendomi dolcemente.

«L’ho capito subito che non eravate una buona coppia.» mi disse sottovoce, senza alcuna cattiveria. Gli chiesi perché lo pensava, da cosa l’aveva notato.

«Beh, Bob è uno di quei tipi che si sposano con una che sta tranquilla e buona e si fanno quattro amanti nello stesso momento, godendo come un porco –  quali sono. E tu invece hai qualcosa in più e non meriti questa fine, no?»

Come faceva?

Ci eravamo appena incontrate, da poco più di un’ora, eppure mi conosceva e comprendeva tutto. Lavinia era così, semplicemente lei sapeva.

Io annuii cercando di sorridere e lei mi strinse forte, seno contro seno, braccia strette sulla sua schiena morbida e femminile, sotto le gocce dolci – amare – della doccia.

Aveva qualcosa di speciale, lo avevo capito subito, e questo mi aveva fatto sorridere entusiasta (Bob da stupido era rabbrividito), vedendo quella bellissima scossa elettrica di vita.

 

 

Quella sera ci scatenammo. Lasciai Bob nella prima stanza con Lorena e Lucrezia sul tavolo, a divertirsi, e io indossai un top di Lavinia blu e dei mini pantaloncini jeans che mi arrivavano a metà coscia, più le sue scarpe col tacco che mi stavano un po’ larghe.

Ricordo che avevo paura di inciampare o cadere a terra come una pera matura, ma Lavi mi spinse a ballare, trascinandomi sulla pista. Non dovevo pensare, mi ripeteva; non dovevo mai farlo o la magia si sarebbe frantumata. Bob non era esistito, io non conoscevo nessuno con quel nome; non dovevo pensarci.

Così mi condusse al centro della sala ancora un po’ vuota, essendo solo mezzanotte e mezza, e io rimasi incantata dalle mille luci che puntavano su di me, a intermittenza, sballandomi e facendomi perdere ogni cognizione.

Esistevo solo io e Lavinia davanti a me. E ballavamo vicine, sorridendo, come vecchie amiche, anticipando le mosse dell’altra. Così, un po’ maliziose e senza dover per forza pensare al dopo, a quando Lavi avrebbe dovuto riaccendere la macchina e guidare fino a casa, al tempo successivo, al futuro.

C’eravamo solo noi, le luci, la pista. E poi ci vennero a fare visita due ragazzi carini, molto carini, dai capelli scuri e l’aria intrigante.

Io non dovevo pensare.

Non c’era nessun Bob. Assolutamente. Solo Lavinia, Lavinia, Lavinia! E quei due ragazzi che erano davvero carini. Sì.

Ballai tutta la notte abbracciata prima con uno e poi con un altro, bevendo quello che mi capitava sotto tiro, scoprendo nuovi gusti e sensazioni. Non pensavo che la vodka fosse così buona.

Lavinia volteggiava accanto a me, a volte era lei il mio cavaliere, rideva e rideva e io la vedevo splendere più di tutte le luci che mi bombardavano gli occhi.

Bevve poco, in effetti, e stette dieci minuti buoni a smaltire la ubriacatura da luci forti e intermittenti, seduta al posto da guidatore nella sua macchina. Io le ero vicina, respirando l’aria fresca dallo sportello aperto.

Alla fine quei ragazzi erano andati con altre, e io non ero riuscita a non pensare almeno per un istante a Bob e a quella fitta che sentivo al cuore. Ballare era uno sfogo, ma il dolore rimaneva ancora, la verità non è sempre bella. Lo diceva spesso mio padre.

Infine partimmo con precauzione, andando lente e stando più attente possibili, anche se io sentivo una certa gioia finta salirmi sulla gola per farmi ridere come una scema, liberandomi di tutto. Risi e piansi.

Forte.

Tenendomi fra le mani mentre Lavinia cercava di guidare dritta e io mi lamentavo e ridevo e piangevo. Le lacrime scivolavano di nuovo. Così, come pioggia. Eppure poco prima io e Bob stavamo sotto un ombrello e sorridevamo. Lavi insultava le sue compagne chiamandole puttane, facendomi sussultare e ridere di nuovo, istericamente.

Oh, io e Bob avremmo avuto due bei bambini e una casa comoda, io avrei guidato con la mia panda rossa e i bimbi sarebbero cresciuti tranquilli, lui avrebbe avuto i suoi viaggi di lavoro e magari qualcosa con la segretaria, ma poi sarebbe tornato da me.

Che felicità insulsa.

Quella sera avevo capito che era ora di smetterla con sogni da idioti ed era arrivato il tempo di concentrarsi su cose più importanti. E Lavinia, appena incontrata, si era dimostrata molto più amica di compagne di scuola che conoscevo da qualche anno e con cui chiacchieravo e spettegolavo. Quasi come se ci legasse qualcosa di rosso, un filo del destino; non erano i giapponesi a dirlo?

Solo con uno sguardo. Occhi azzurri e verdi. E un sorriso, una sigaretta e una fiamma con cui accenderla. E non solo quella cicca Camel, ma anche un nuovo legame, che ora ardeva forte, vivido, stretto. Così, semplicemente, senza troppe parole e affanni e incontri.

Era nato sotto la pioggia, senza vagiti né lamenti, con solo un ghigno sul volto, a splendere sul mondo.

 

 

Arrivammo a casa di Lavi dopo mezzora. Avanzai cauta sui miei tacchi a spillo, rischiando più volte di cadere, mentre lei mi sorreggeva e intanto cercava nella borsetta le chiavi di casa.

Ci mise un minuto ad aprire il portone; io ridevo sottovoce, senza alcun motivo, dopo che le lacrime si erano spente, e stavolta per sempre. Era finito il tempo del compiangersi...

«È arrivato il momento della vendetta.» disse Lavinia, anticipando i miei pensieri e pigiando il bottone per chiamare l’ascensore. Annuii ed entrai nell’abitacolo illuminato di giallo, seguita da Lavi.

Mi guardai allo specchio, notando gli occhi verdi lucidi e un po’ rossi, i capelli castano chiaro e mossi come sempre; Lavinia mi sorrideva, dietro di me.

L’ascensore arrivò all’ultimo piano e noi scendemmo, entrando subito nell’appartamento. Tremai nella penombra, ma poi mi convinsi a guardare e vidi Bob e le altre due coricati sul divano della prima stanza.

A Lavinia un ghigno deformò il volto: aveva un’idea buona, forse ottima.

 

 

Con Lavinia non esiste il pudore. Fra me e lei non c’è, semplicemente. Posso uscire nuda e farmi il giro dell’appartamento, non mi sentirò mai in imbarazzo. È stato così fin da subito, dalla prima sera dove ci siamo incontrate; mi feci la doccia insieme a lei non sentendomi a disagio.

Viene naturale.

Molti stanno alla larga da Lavi, come Bob in effetti, tremano loro. Io invece credo sia solo bellissima, sotto ogni punto di vista, e quindi non posso non sorridere incontrando il suo sguardo azzurro.

 

 

«Bob ha il sonno leggero?» mi chiese senza abbandonare il suo ghigno sadico sul volto.

«Decisamente no, non si sveglia nemmeno se gli squilla il cellulare.» la informai subito, non capendo cosa volesse fare.

La sentii sussurrare un Perfetto, poi si avvicinò ai tre e svegliò con poca delicatezza le sue coinquiline.

«È l’ora di andare nei proprio letti.» disse, e loro fuggirono subito nelle loro camere; io sorrisi.

Lavinia si girò verso di me.  Loro saranno colpevoli, ma qui il peggiore è Bob, non trovi?»

Io annuii, guardando con disprezzo quello schifoso; nessuna lacrima sarebbe più scesa dai miei occhi, soprattutto davanti a lui (anche se stava dormendo bellamente).

Lavi mi disse di prendere un pennarello indelebile nella sua stanza, sulla scrivania, e io corsi in fretta e furia, trovandolo subito, poi tornai nella prima stanza, dove lei armeggiava con una macchina digitale.

La guardai incuriosita e le diedi il pennarello. Lei mi ripose con un ghigno, scuotendo il colore nero e indelebile. Poi lo stappò e si avvicinò a Bob, ancora nudo sul divano.

Capii in quell’istante, e non feci nulla per fermarla.

Scrisse poche lettere sul suo addome:

SONO IMPOTENTE

Poi prese la macchina fotografica, ma io gliela strappai di mano. «Questo lo faccio io.» dissi, e lei capì.

Feci tre o quattro foto, con un sorrisetto sulle labbra. Mi stavo comportando da stronza, ma lui era un porco e poi... mi faceva sentire bene.

Lavinia prese la macchina e mi sussurrò in un orecchio: «Queste fanno il giro del mondo, Lucy.»

Io guardai i capelli biondastri e il volto da bambino di Bob, poi lei e i suoi capelli neri come la notte e annuii. Oh sì, avrebbero fatto da tappezzeria alla città.

 

 

Io e Lavinia correvamo per le strade, con la colla in una mano e tanti manifesti nell’altra. Li attaccammo da ogni parte, distribuendoli per bene: tutti dovevano vederli.

Il corpo nudo di Bob fece il giro della città; il suo volto era ben visibile nella foto, la scritta risaltava nel suo nero sul rosa carne.

Io e Lavi ci sorridevamo, complici della stessa vendetta, amiche da poche ore.

Era il Destino ad unirci così? O erano i fatti che convergevano verso una stessa direzione?

Io sentivo che Lavinia era la mia amica, lo era sempre stata; accanto a me in qualche modo, mancandomi. E ora l’avevo trovata, finalmente, e lo sentivamo che c’era qualcosa a collegarci.

Anche quelle foto, i manifesti appesi per la città... erano la vendetta, un simbolo del giorno in cui c’eravamo ritrovate.

Andammo a bere qualcosa, io ordinai un succo di frutta alla pesca, quell’alcol della discoteca mi aveva scombussolato e io ero pur sempre astemia. Lavinia optò per un succo all’amarena, anche lei voleva stare leggera.

Beh, poi le giornate passarono senza troppi intoppi.

Io mi trasferii da Lavinia, buttando fuori Lorena e Lucrezia; presero in giro Bob per molto tempo... lui non mi cercò e non provò a vendicarsi; non mi aveva nemmeno pensata quando stava facendo strip poker?

Non lo saprò mai, credo.

Comunque ora io e Lavi abitiamo insieme e continuo ad andare all’Università, vivendo con i soldi che mi mandano i miei; lei lavora part-time in un pub.

La vado a trovare lì, di sera.

I maschi con me hanno chiuso, almeno per un po’... si vedrà successivamente.

 

 

Mi sveglio frastornata nel mio letto azzurro, rotolo su un fianco e scendo poggiando i piedi sul pavimento fresco e ristoratore in quel momento di caldo afoso. Siamo a settembre, ma c’è ancora il clima estivo.

Avanzo piano nella stanza, andando in cucina. Lì c’è già Lavinia, che si sta imburrando due fette biscottate, coprendole poi di marmellata all’arancia. Il mio stomaco gorgoglia.

«Lavi le faresti anche a me due fette?» gli chiedo con voce impastata, sedendomi al tavolo chiaro che sta in centro alla stanza.

«Subito, Lucilla.» mi dice sorridendo.

Mi corico letteralmente sul tavolo, ho ancora sonno, e lei mi passa le mie due fette, che addento e mastico con poca energia. Adoro la marmellata all’arancia.

Io e Lavinia rimaniamo in silenzio, mangiando lentamente e godendo del gusto dolce, poi mi sollevo a fatica e prendo dal frigo il succo di frutta ACE, versandolo in due bicchieri.

La colazione insieme è piacevole, non ci perdiamo in chiacchiere inutili, ancora troppo piene di sonno, e mangiamo e beviamo. Iniziamo la giornata unite... ed è una cosa bella.

Lavi posa i bicchieri nel lavabo e mi stringe forte da dietro, accoccolando la testa sulla mia spalla. Io arrossisco e fremo, è da un po’ che mi capita e sto iniziando a preoccuparmi. A me Lavinia...

No, è impossibile.

Rimango ferma, mentre lei canticchia qualcosa al mio orecchio, le braccia strette vicino al mio collo, io seduta e lei piegata su di me. Sollevo la testa, toccando la sua involontariamente. «Lavi, è successo qualcosa?»

Lei mi guarda con i suoi occhi azzurri e sorride. «Nulla di che, avevo voglia di stringerti.»

La capisco.

Io vorrei sempre avere Lavinia con me, stringerla, averla accanto... ma forse il mio non è un sentimento normale, credo. Semplicemente non lo è, eppure cerco ancora di negarlo.

Forse perché ho paura.

Lei potrebbe rifiutarmi; lo farà, lo so. Lo sento che non va bene tutto questo.

Ma cosa posso fare? Continuare a negare?

A me Lavinia...

Si alza, sciogliendo l’abbraccio, e prende i guanti e il detersivo per lavare i piatti; io la guardo da dietro, incerta. La vedo lì, di spalle, che canticchia una canzone dei Negramaro:

«Cade la pioggia e tutto lava
cancella le mie stesse ossa
cade la pioggia e tutto casca
e scivolo sull’acqua sporca...
»

Mi piace questa canzone, la canto anch’io, sollevandomi dalla sedia e tornando dalla mia stanza.

Mi allontano da lei perché non so come potrebbe finire, se continua così, se io rimango lì a guardarla.

 

 

Cade la pioggia, fuori, ma Lavi vuole uscire lo stesso. Vuole ballare, mi dice, quindi fruga nel suo armadio cercando il suo e il mio vestito.

Per me va bene qualunque cosa, cerco di ripeterle, ma lei scuote la testa e combina un casino con gli abiti.

Alla fine mi ritrovo addosso un top brillante e una minigonna bianca, che risaltano con la mia abbronzatura, dice. Mi da anche delle scarpe col tacco a spillo... mi arrendo alle sue attenzioni e le indosso.

Lei è ancora più bella, questa sera. Ha un abitino nero che le arriva a metà coscia e dei tacchi da far paura, pur essendo giù alta. I capelli neri sono sciolti e scivolano sulla sua schiena morbidi, gli occhi truccati risaltano nel loro azzurro accecante, che fa da contrasto al grigio cielo di fuori.

Annuisco convinta, è perfetta.

Prende le chiavi della macchina e la sua borsetta con dentro le Camel; io afferro l’ombrello color arcobaleno, sperando di non bagnarmi.

Camminiamo lentamente, al riparo dalle gocce, fino alla sua macchina. Mi fa salire e fa il giro, entra velocemente nell’abitacolo e richiude l’ombrello che ci bagna leggermente con le piccole gocce rimaste sul tessuto. Lo ripone sul sedile posteriore e partiamo, dirette verso la disco.

 

 

È stata la pioggia a farci incontrare? O il mio desiderio di passeggiare con Bob, quella sera, dopo la cena alla pizzeria?

Comunque queste gocce ci perseguitano, lavandoci ogni volta, in qualche modo sporcandoci e purificandoci nello stesso istante; sciogliendoci. Scivolano, le gocce, sul nostro corpo.

Mi accompagnano.

Anche stasera piove. Forse accadrà qualcosa di speciale, come quel giorno in cui ho incontrato Lavinia?

 

 

In discoteca c’è rumore. È una cosa banale da dire, ma è la verità.

Si entra ed è come essere in un altro mondo. Corpi che ballano sudando e si sfregano fra loro, sensuali nella loro danza frenetica, l’odore degli altri che si mescola, e prima di tutto la musica che romba e tuona forte, su tutto. Ti stordisce appena entrato.

E le luci ad intermittenza fanno il resto, aggiungici un po’ di sano alcol... e sei fottuto. È sempre così.

Lavinia sorride e si avvicina alla pista, trascinandomi con una mano. Vuole ballare, lei. E io la voglio, quindi la seguo.

Mi muovo incerta, ripetendo i passi, facendomi guidare da Lavi nella sua danza personale, al centro della pista (e del mondo).

Mi metto a ballare seguendo la musica, che si ripete ossessiva e sempre uguale per tutta la grande sala.

Lavinia mi ruota attorno, prendendomi a volte per le mani e danzando insieme a me, poi lasciandomi per qualche minuto e tornando dopo nuovamente da me. Sorrido.

Passiamo la notte così, senza la ricerca frenetica di partner, unendoci e dividendoci costantemente, ridendo fra noi, nella nostra danza intima. Pur essendo circondate da una moltitudine di persone, riesco a concentrarmi solo su di lei.

Siamo di nuovo io e Lavinia.

Alla fine usciamo dalla discoteca, il cielo è sereno e l’acqua scivola a terra dissetandola; nell’aria c’è l’umidità e l’odore tipico del lasso di tempo tra il temporale e il caldo sole.

Ci dirigiamo verso la macchina, posteggiata lì vicino, e Lavinia si fuma una sigaretta prima di entrare nell’abitacolo, mentre io mi ci catapulto e mi riposo, stanca di tutto quel ballare.

Mi tolgo le scarpe e osservo i miei piedi doloranti. I cerotti trasparenti non sono bastati.

Lavi mi raggiunge e si riposa per qualche istante, chiudendo gli occhi e rilassandosi sul sedile.«Lucy...» mi chiama.

Io mormoro un Sì?.

Si volta verso di me e mi invita ad avvicinarmi; ora siamo distanti pochi centimetri, volto contro volto, azzurro contro verde.

Sento il cuore accelerare e pulsare sempre più forte, le guance riscaldarsi sotto il suo sguardo attento. Sollevo un sopracciglio, non capendo cosa vuole.

È tutto veloce, fulmineo. Le nostre labbra si incontrano, toccandosi superficialmente.

Non so chi sia stata ad annullare le distanze, so solo che ora ci stiamo baciando.

Non immaginavo che... fosse così.

... è come qualcosa di inspiegabile, fuori da ogni limite e schema, senza previsioni.

Sento il gusto delle Camel nella sua bocca, le sue labbra morbide e perfette sotto le mie, il mio cuore che sembra scoppiare.

A me Lavinia piace.

Decisamente, è impossibile negarlo. Le passo una mano fra i capelli, avvicinando il suo volto al mio, e dopo un poco ci stacchiamo, ansimando per la mancanza d’aria.

«Lavi...»

Lei sorride piano e mi sussurra all’orecchio: «Era questo ciò che desideravi, vero?» mi chiede.

Io la guardo incerta, dove vuole andare a parare? Annuisco, ma poi le domando: «Perché dici così, Lavi?

Lei svia lo sguardo, poi mi abbraccia debolmente e risponde piano, sottovoce, facendomi stare attenta per poter percepire tutte le sue parole. «Perché lo volevo anch’io, ma non immaginavo che tu...»

A me basta, e la stringo forte, annusando il suo buon profumo che permea il suo vestitino e i capelli neri.

«Lucilla...» dice, chiamandomi per nome.

«Sì?»

«Torniamo a casa?» mormora con voce dolce.

Io annuisco contenta.

 

 

A volte potrà capitare di chiedermi perché ho deciso così, perché lei, se mi va bene questa mia condizione... essere una ragazza a cui piacciono le ragazze, una le –

Beh, non è una cosa facile, credo. Non in questa società, anche se è molto meglio di prima. Però basterà voltarmi verso Lavinia, guardare il suo bel profilo, la sua luce eterea e gli occhi azzurri e allora sarò certa di non aver sbagliato.

Perché c’era qualcosa che ci ha unito, quella sera, e c’è ancora; e arde, quel filo che ci lega, stretto forte alle nostre vite, indistruttibile.

 

... Tu non ricordi ma eravamo noi
noi due abbracciati fermi nella pioggia
mentre tutti correvano al riparo
e il nostro amore è polvere da sparo
è solo un battito di cuore
e il lampo illumina senza rumore
e la mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
ma scrivi tu la fine
io sono pronto

 

 

 

Fine
















---

Questa shot è di giugno 08. L'avevo postata all'epoca, ma l'ho cancellata e -dopo aver cambiato solopoche frasi- la riposto qui. I pg sono molto forti ^-^

Grazie a:

Kaho_chan: AdorabiLè! Seiunanee-san dolcissima, grazie per la recensione inaspettata. Anche tu sei poetica! *-*

alexluna: Ohh! Se la continuassi, la rovinerei, ne sono certa xD Invece: questa qui di oggi è su un altro livello, non è un quadro, ma un frammento. Spero di non deluderti con qualcosa di vecchio! Grazie per la lode, maestra ;)

Tornerò con qualcosa di nuovo! Solo che di notte ho sonno e scrivo poco... xD Koks saltellante!

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Capitolo 9
*** (3) Esercizi di Stile ***


(3) Esercizi di Stile
 
 
I
Novembre è il grigio sbiadito della città, macchiato del giallo e del bianco delle facciate, e del marrone in ogni dove.
C’è il freddo che inizia ad entrarti nelle ossa, gelido abbraccio autunnale, e nemmeno il Sole – vicinissimo – ti scalda più. Potresti morire assiderato sotto la pensilina, ad aspettare il 237 in un viale plumbeo.
Novembre di piombo, città piena e carica e strapiena e stracarica, eppure neanche la Luna ti riesce a scaldare, non la guardi nemmeno più; chissà dove. E la gente sembra essere impazzita: il Natale, sta arrivando il Natale!
Ma che freddo che fa.
Ti ripeti i Negramaro fra i denti, che ti fanno sentire l’estate anche se vanno via… non importa, suvvia. Novembre novembrino, compriamo il regalino.
E tu continui ad aspettare il 237, tremando un po’ di grigio. Piombo, mastichiamolo.
Solo una locandina di un film, sparsa in città, sembra farti sentire un po’ più a casa.
Per il resto gelo plumbeo.
Sorridi, con grigiore.
 
 
~
 
II
Io so che il mondo è mio.
Per me, per me, solo per me, moriresti sempre per me, tutto per me, ascoltami angelo ascoltami.
Per me non con me.
Devi avere le labbra più belle del Paradiso, sembrano due fragole. Per me, hai capito?
Immolati.
Per me, per me, solo per me.
In quel mare di cristalli liquidi, affoga nel fulcro della vita, muori per me, per me sulle labbra, sopra le righe. Per me nei cerchi colorati che disegna Gaia, nei mucchi d’argento di Greta, nelle frecce scure di Silvia. Per me.
Soffri per me, riscaldami e amami, tutto per me.
Mai, mai contro di me, mai con me.
– Solamente, stai qui un altro po’ –
Angelo Custode, questo è il tuo compito.
 
 
~
 
III
Il fumo volava da quella sigaretta.
Volava.
Formava dei piccoli rivoli grigi nell’aria, melensi, dolciastri nella bocca del fumatore.
La cenere si accumulava su quella stecca bianca lunga e sottile, leggera. Sembrava mucchi di anime messe in fila, che aspettavano fino a volare in fumo.
Il rosso del fuoco fatuo era lì, proprio lì, caldo, senza rumore né fretta, aspirato. D’arancio vitale.
Ogni tanto, così, lui dava un tocchetto e la cenere cadeva in quel limbo di terra e sporcizia. Ogni tanto faceva volare via quelle anime dalla sua bocca, sensualmente.
Il piercing brillava in quel momento, splendeva d’orgoglio.
 
Maestro, aveva ragione. Immensamente. Da far torcere le budella.
Sì, si può vivere in un attimo.

 













---

Spiegazioni. Allur... sono 3 non sense, la prima autobiografica (io che aspetto il 237 xD). Il Sole è vicinissimo perché, assurdo, in inverno è più vicino alla terra che in estate. La locandina è quella di Twilight xD

La seconda è NONSISACOSA. Gaia sono io, Greta mia nipote e Silvia mia sorella, e siamo solite fare io cerchi Grè cacchine di colore a tempera (XD) e Silvia frecce.

La terza... il mio fascino per la sigaretta, una sfilza di anime che bruciano in fumo e di cui rimane cenere.

Ringrazio a Killer Queen 7 per la sua recensione molto sentita e adorabile (L). Vivida e viva come il nonno. Grazie.

Questi cosi di stile erano 3 flash rimaste solitarie e senza titolo, ma trattatele bene recensite.

A presto, Kò

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Capitolo 10
*** Rivederti ***


Una piccola roba autobiografica, con tanto sentimento.

 

 

 

Rivederti

A Costanza

 

Fa male e fa bene. Un po’ niente in effetti, perché l’abitudine scivola come acqua sulla pelle, inafferrabile e indolore.

Così diceva lei, forse ricordi.

E non penso a te, quando guardo il cielo azzurro finto – di plastica, di vetro, di nulla – con quel bianco grigio sparso ovunque, a macchiare. Non penso a te, osservando il mondo crescere spandere e sparire. Non penso a te, ascoltando la musica che una volta era nostra e solo nostra, e adesso è semplicemente mia.

Come una nuova macchina, con l’olio, l’acqua, la benzina, il motore. Tutto giusto e funzionante.

Non c’è nulla che manca, eppure esiste.

Come... come fosse una sensazione, a volte, o un piccolo brivido sulla schiena che si dimentica in fretta, ma fa accapponare la pelle.

Sfuggevole e sorridente, con il sale delle lacrime sugli occhi. Fugace nel suo pallore d’apparizione, ma intensa in questo vecchio cuore.

Esiste da qualche parte, io e te insieme.

 

Ma ci vedremo sai, (come) due estranee.

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Capitolo 11
*** Una settimana, un mese, un anno ***


E' una cavolata, per Val comunque. Ma una cavolata enorme enorme enorme.

Lei dice che non le importa, che le basta il pensiero, perciò silence.

Per il suo compleanno.

 

 

Una settimana, un mese, un anno

 

A Val.

 

 

« E’ passato un anno, ormai. »

« Già. »

Lei sorride, lui sorride.

« Mi ricordo perfettamente tutto. »

« Non è possibile. Un anno, per ogni essere umano sulla terra, si riduce a qualche istante. Solo quelli più importanti e via gli altri, nel cestino, fra le onde della dimenticanza. »

« Sì, è vero, alla fine. »

« Io ricordo il tuo profumo e il tuo sorriso quando facevamo l’amore, quel buio totale del primo mese e poi l’azzurro del cielo, là sull’Etna. Solo questo, di un anno. »

« E io ricordo il tuo viso concentrato quando facevamo l’amore, la luce del primo mese – così accecante –, e l’odore dei libri, il loro aroma particolare mescolato a quello del mio caffè amaro. »

« Solo quelli in cui hai vissuto davvero, sì, solo quelli. »

Lei sorride, lui sorride. L’ascoltatore rimane interdetto e con rammarico dice: « Io non ricordo nulla, davvero, nulla di nulla. Il vuoto devastante e desolante, e nulla. »

Poi, muore.

 

 

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Capitolo 12
*** Carnival Mask ***


Buon Carnevale Liv (e lettori XD)!

(Ryan/Adam e MW appartengono a darkrin e a nessun'altro <3)

 

 

Carnival Mask

{Macabre Wonderland}

 

 

Ci sono delle luci in lontananza – rosse, gialle, verdi, blu, bianche – che si mescolano fra loro, con un apparente ordine, e brillano un po’ sfocate; sembrano girandole di carta policrome o un fiume di tempera sparsa da un bambino nell’acqua, così. Oppure un Wonderland cittadino, dalle giostre veloci e sorprese ad ogni angolo.

Lui invece sta seduto lì, con il viso scuro e gli occhi spenti. In mano tiene una bottiglia di vodka liscia e brinda alla città – a Wonderland.

 

«A volte non sei stanco di recitare?», domanda lei e intanto mordicchia un’unghia.

«No», risponde e la sua voce è decisa ma placida, con un po’ di antico e immortale.

«Ma... nemmeno una volta?», si impunta lei.

«Beh, è una cosa naturale: come ridere o piangere. Io recito, recito la mia parte, mi vesto e parlo in un determinato modo, faccio il mio gioco; scivola via come l’acqua, sai, o come la vodka di sera, giù per la gola. E’ semplice.» – recito la mia vita, dovrebbe aggiungere, ma non lo fa.

 

«Anche con lei era facile? Con Jenny... lei era facile, no? Sorrideva... sorrideva e nei suoi occhi brillava l’amore per l’amore.», cambia argomento, smuovendo il piede destro.

«Sì, lei... con lei era tutto semplice, decideva cosa fare e tu seguivi i suoi piani. Così.», dice lui. E’ in vena di parlare, forse perché ha quasi finito la sua bottiglia di vodka, ora alzata al cielo verso quelle luci di sfondo.

«Non era abbastanza, però.», sussurra lei.

«Era solo una ragazza.», conclude lui.

 

«Non come lei, vero? Non come Alice.», dice allora lei, con un sorriso sulle labbra screpolate.

«Non centra nulla.», biascica lui restio, sentendo l’alcol iniziare a fare effetto: nel suo corpo c’è un nuovo calore che si espande, insieme a un’allegria fittizia ma piacevole.

«Anche lei è una ragazza.», ribatte curiosa.

«Non... lei è vera, non so se capisci. Così... sai, vede davvero le cose, le ascolta meglio degli altri, e magari dentro di sé soffre o muore; ma le vive, nonostante quel velo di apatia. L’hai osservata, no? Ha un ché di infantile e di curioso, di bambinesco... come se non fosse cresciuta abbastanza.», sbotta lui, ridendo un po’ delle proprie parole.

«E’ molto più vivida di quelle luci là, di Wonderland.», mormora lei a bassa voce, senza fargli sentire.

 

Rimangono in silenzio per un po’: lei continuando a smuovere il piede destro e ogni tanto mordicchiandosi le unghie; lui seduto a fissare Wonderland sfocato, finendo completamente la vodka.

Poi lei dice: «Sai veramente recitare la tua parte, Ryan. Non vedo l’ora di vedere la faccia di Alice quando scoprirà tutto quanto.»

Lui annuisce flebilmente e con voce impastata chiede: «Sono un bravo bimbo, eh?»

«Sì, bravissimo. Un ottimo giocatore sul campo. Ma Adam, a volte mi domando...» risponde lei, iniziando a scolorire via, nel buio della notte.

 

Poco prima di svanire del tutto, conclude la sua frase: «Adam, mi domando... ma tu, tu chi sei?»

Eppure a quella domanda lui non sa davvero cosa rispondere.




















---

Grazie a chi ha recensito: Leti, Liv, Alex. Grazie davvero, >w<. Mi avete resa felice.

Questa fic è una sfida con Livietta e dovevo postarla (credo) quando avrebbe finito lei... o non so, non c'erano limiti. Comunque sia, visto che è Carnevale, la metto e basta, Liv e la sua flash pronta sono lì *_* quando la posta, leggetela! (nick: darkrin)

A presto, Kò ♥ 



PS xD: Allooooora, mi sono dimentica di spiegare chi sono loro, i personaggi dela storia! Appartengono tutti a un grande racconto (romanzo? yaaa XD) di darkrin, la Liv.
L'interlocutrice è indefinita, anche se io la immagino come Emily, una bambina di poteri e carattere sfuggenti, adorabilmente capricciosa. Lui è Adam, che è conosciuto dalla protagonista della storia Alice come Ryan (per questo l'interlocutrice dice prima Ryan e poi rivolgendoi al suo vero "io" dice Adam). Il suo carattere è ancora incerto, io non sono riuscita a caprirlo del tutto... comunque sia, recita.
Jenny è la fidanzata di Adam e la migliore amica di Alice.
E poi boh... fate voi ;)

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Capitolo 13
*** Verso quella direzione ***


Verso quella direzione

 

A quella vecchia giacca.

 

 

Dov’è che si può trovare una persona?

 

Nelle sue cose, forse, nel suo cassetto disordinato dove i colori si mescolano ai pennelli e la carta frusciante ricopre parti di legno e l’ordine c’è, perché lui l’ha dato.

Nel suo armadio, probabilmente, dove si sussegue l’arcobaleno in scala ridotta; nelle sue sigarette troppo forti, dal sapore vecchio e marcio; nelle foto in bianco e nero che riguardi, lentamente.

Ma dove, dove?

Nel mattino presto, con l’odore di caffè che copre la vita intera; nella pizza che mangiavate insieme o nel supermercato in cui facevate la spesa il pomeriggio?

No, in nessuna di queste cose puoi trovare una persona.

Puoi scorgere lo scrittore in un suo libro, o puoi afferrare il poeta nei suoi versi, eppure ciò sarà una maschera; puoi scattare delle foto, eppure esse saranno un foglio e basta, al vento; puoi vedere un film senza guardare l'autore.

 

Io credo che quel profumo di buono possa essere il dove.

Quando fissi la lapide, non vedi niente e nessuno, ma immergendoti nella sensazione che lui ti dava potrai trovarlo.

Io rintraccio mio nonno, indossando una vecchia giacca di velluto a coste marrone, che è stata di mia sorella è stata di mia madre è stata di mio nonno.

C’è la famiglia, mentre la porto, e un dove verso cui dirigermi.













Questa fic partecipa al 100prompts indetto dal COS.

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Capitolo 14
*** Boccadirosa ***


boccadirosa

 

 

Il profumo dei fiori pervadeva ogni particella d’aria, note di gelsomino delicato e accordi di gerani che suonavano per le sue orecchie, con il sottofondo algido delle rose bianche e il piccolo tocco dei girasoli. Era un’armonia in cui il corpo diveniva acqua, sciogliendosi, e si aggiungeva alla musica profumata della sera.

E lei, lei che aveva seta e non capelli, turchesi e non iridi bagnate, e lei, che sorrideva nervosa a lui, muoveva i propri piedi in una movenza infantile, suonava l’aria con le dita sottili. Il porpore delle guance le colorava il viso di amore, mentre profumava nell’armonia floreale come una rosa blu.

E lui, lui che adesso si chiedeva cosa si provasse a toccare quella seta – uno scrosciare d’acqua, una cascata sulla pelle? –, e lui, che cercava di nascondersi a quei turchesi, la fissava con gli occhi tesi in uno sguardo sfuggevole, la rimirava e intanto sfregava la propria pelle diafana con le unghie.

«Io ti amo. Io ti amo. Come il sole che illumina il giardino proibito di Dio, l’Eden, tu dai vita a questo posto, a questo negozio antico, ci chiami per nome, carezzi le corolle e le foglie, carezzi la vita ed il profumo con i tuoi raggi. Io ti amo, non va bene così? Io ti amo».

E poi, poi lui avrebbe voluto risponderle con trasporto, con l’amore che gli pulsava nelle vene blu e che batteva nel cuore rosso, e poi lui avrebbe desiderato abbracciarla con tenerezza e con forza, con la veemenza mascolina del proprio sentimento, ma non riusciva a donarsi. «Tu non esisti, mia rosa blu».

 

Ogni giorno, le recideva le radici; ogni giorno, le recideva l’amore.

Il cuore che era un tesoro piccolo piccolo piccolo. Che stava nel palmo di una mano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

Una cosa piccola piccola piccola. Che sta nel palmo di una mano.

Questa non sense è nata pensando a Itazura na Kiss (che c'azzeccherà mai?! XD) mentre camminavo per CT. La frase di lui, le rose blu non esistono, è perché le suddette sono prodotte artificialmente, non sono "vere". Che lei sia una rosa blu? Boh.

Ringrazio Bea per aver letto in anticipo e aver citato i cantautori italiani xD. Ringrazio il Faber «La chiamavano Boccadirosa, metteva l'amore metteva l'amore, la chiamavano Boccadirosa, metteva l'amore sopra ogni cosa».

Ringrazio chi ha recensito: lauretta86 (grazie mille Lau, sono contenta che abbia un suo perché XD) e Kaho_chan (ohh Leti cara, mi fai tanto felice con i tuoi commenti. Poetesse, siam poetesse u_ù).

 

A presto, Kò.

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Capitolo 15
*** Euterpe mi ha indicato la via ***


Euterpe mi ha indicato la via

 

Non è niente
non è per sempre
è troppo ormai
che stai così male

Non è per sempre – Afterhours  

 

La stanza della casa che comunemente veniva attribuita a Marianna era al secondo piano, in fondo al corridoio.

In verità, lei aveva una camera da letto tutta sua, con le pareti celesti ricoperte da poster scuri di gruppi rock famosi, e le tendine blu mare alla finestra sul cortile, e i pupazzi ammassati sul letto, dagli occhi d’infinità oscurità – dove potevi affondare, soffocando.

Però se cercavi Marianna dovevi andare in quella stanza, in fondo al corridoio.

Allora la trovavi lì, accovacciata vicino alla finestra, da cui filtrava luce smorta di rami frondosi. Nella sua pace esteriore, nel suo caos interiore, Marianna ti squadrava dal suo posto.

La stanza era bianca.

 

Euterpe piegò le gambe, appollaiata sul davanzale di quella stanza bianca, abbacinata dal candore del cielo primaverile – quasi neve e non acqua. I suoi occhi erano incolori, ma dalla fine afferrabile con una mano.

Marianna la fissava, silenziosa. I suoi capelli erano un batuffolo castano, aggrovigliato in nodi intricati. Marianna odiava pettinarsi.

“Sei stupida – stupida stupida”, urlava qualcuno di sotto, ma loro non ascoltavano.

Euterpe era intenta a perdersi in quel bianco, sciogliendosi al sole di aprile; Marianna a guardarla, e in quel guardare trovarsi – trovare un senso, o un colore almeno.

C’era anche una radio a tutto volume che sparava note ripetitive ed effimere, e Marianna dai gusti strani avrebbe odiato quel rumore, se fosse stata fuori – ma era dentro la sua stanza bianca, in fondo al corridoio, e lì non era davvero qualcuno, bensì un rigonfiamento del muro.

La stanza era bianca e lì dentro il suo cervello si spegneva.

 

Non esisteva il dolore né la felicità, non esisteva nulla.

Marianna poteva avere pace, in quell’annullamento dei sensi, anche se continuava ad avere il caos dentro – che era una bestia dagli artigli affilati, e sfregiandoti ti trascinava nell’oscurità di pupille vuote –.

Nella stanza c’era lei e non c’erano la scuola, i professori, l’indifferenza che si conficcava come spine nella carne – un cilicio troppo, troppo stretto –, non c’era sua madre che le urlava parole che non avrebbe mai voluto sentire. L’odio che le riversava era veleno e veleno sulla pelle, corrosivo; pur sapendo di non avere tutte quelle colpe che le affibbiava, Marianna sentiva la croce sulla spalle appesantirsi, una pena greve sui suoi anni.

Questo nella sua stanza non c’era.

Regnava il silenzio, lì – o il cantare degli uccelli poggiati fra le fronde.

Euterpe le faceva compagnia, con la sua presenza incolore.

 

Marianna si alzò e raggiunse Euterpe seduta sul davanzale, le mise una mano pallida sulla guancia, sentendo il calore di lei sulle dita ghiacciate, annusò la sua pelle fragile e sottile, perdendosi nel profumo di mare che circondava la sua presenza – e c’era qualcosa di unico ed ebbro, in quell’aroma: la vita che scorreva empia di emozioni.

Euterpe non fiatò, spostò solamente lo sguardo incolore su di lei. “Sembri sul punto di piangere”, tintinnò.

“M-h”, sussurrò Marianna. Era il suo intercalare tipico, un m-h piacevole che le dava tempo.

“Sei triste”, squillò Euterpe, carezzandola con lo scampanellio della voce.

“M-h”, che poteva significare sia sì che no.

Poi Marianna la baciò, baciò Euterpe, facendosi a pezzetti nella sua trasparenza musicale. Sospirò sulle sue labbra morbide, sugli occhi incolore; l’abbracciò con tutta la forza e la debolezza che aveva.

“Su, ce la puoi fare”, cantò la Musa, fissando il cielo, tesa sul davanzale levigato.

 

“Lo sai che non esiste?”, le chiedeva sua sorella, quando Marianna andava a cena.

Lei, smuovendo il suo batuffolo di capelli, ribatteva: “M-h. Neanche io”. E poi correva là sopra, con il viso strizzato in una smorfia di decisione, gli occhi già pieni della stanza bianca dove si perdeva – e si ritrovava.

 

 

E lei, Marianna, sapeva che lì non c’era nulla, nemmeno il proprio corpo; e ciò le piaceva. Dimenticando qualunque cosa che le fosse stata detta, sentiva la sua Musica nel silenzio tombale del bianco, viveva o moriva senza conoscere sua madre, il suo passato, i suoi legami; e amava Euterpe, che era solamente il soffio del vento.

 

 

 

 

 

 

 

 

***

Queste sono le cose senza senso che solo io posso scrivere XD Ma seriamente! È una fic che ho iniziato a scrivere mesi fa… e ho completato ieri, *_*. La posto e basta, perché va bene così.

Mi mancano le recensioni di Alex ç_ç Torna presto donna – maledetta scuola. Grazie a Killer Queen 7 (Bea *w*) per la recensione pucciosa: grazie davvero per il tuo amore, Bea-chan, sono felice che ti ha colpito così tanto!

A presto (?) Kò

P.S: Ahhh sì, Euterpe è la Musa greca della Musica <3

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Capitolo 16
*** Didone Regina ***


Questa non ha davvero senso, anche perché

già sappiamo che Didone non è morta in questo

modo.  Ma va bene lo stesso, no?

Rimaneggiamo i personaggi dell’epica! xD

 

 

Didone Regina

At regina iamdudum saucia gravi cura, alit venis volnus et carpitur caeco igni.[1]

 

 

I suoi occhi dall’iride scura, antracite, si muovevano febbrili. Ricordavano due pozzi infiniti, in cui cadere, in cui poter perdersi – ed erano vuoti, estremamente.

Le sue mani eleganti, candide poiché nella vita non aveva dovuto lavorare i campi, si contorcevano sotto il dolore appena espresso, si piegavano nella danza delle dita, arrossandosi.

I capelli, acconciati accuratamente, venivano mossi dalla brezza marina, scivolando ciocca dopo ciocca dal fermaglio che li teneva sulla nuca. Le solleticavano il collo lungo e magro, alle volte.

Il mare si stava ingrossando e la sua nave non si vedeva più – era scomparsa, inghiottita dall’orizzonte curvilineo; era caduta nel blu del non-rimorso.

Lei, donna, avrebbe voluto saper camminare sull’acqua. Con i piedi fini dalle unghie ovali, uno, due, tre passi sulle onde marine. Non si sarebbe lasciata cullare dalla nenia del mare; avrebbe continuato a rincorrerlo.

Ma il Fato aveva pronunciato questo, e lui era lontano, mentre lei rimaneva sulla spiaggia africana.

Didone Regina, piegata nel suo dolore passionale, stava lì.

 

Il tempo passava.

Le conchiglie vuote, forate dal cacciatore [2], ornavano la spiaggia con i loro colori smorti. Didone si muoveva come il pesce fuor d’acqua, smaniando nel suo corpo mortale – saliva, scendeva, si piegava, si contorceva.

Le sue labbra si strinsero in una smorfia bambinesca.

«Sono stanca. La donna deve aspettare, aspettare che il suo caro ritorni dalla guerra; ma lui, mio Enea, non verrà più a prendermi, e io rimarrò sola su questa terra – come potrò vivere ancora, senza il mio amore? Come potrò continuare, se la passione che mi rode si seccherà nelle vene, e dimenticherò il suo bel volto e la sua voce melodiosa? Come potrò camminare, senza il sostegno della sua presenza accanto alla mia?

io, donna e non Regina ai suoi piedi.

La mia pelle diverrà rugosa, si riempirà di vecchio acidume. I miei occhi scuri smetteranno di brillare, senza il loro sole. Io stessa muterò in ombra e, distrattamente, mi farò sfuggire l’anima con lo sbadiglio», piangeva Didone, tenendosi la veste con le mani serrate.

Si alzò dal suo giaciglio sabbioso e barcollò sulla spiaggia, a piedi nudi, mentre i gioielli – che la rendevano ancora più bella, bella ma ormai cadente – tintinnavano ad ogni passo.

«Morrò, accartocciata su questa costa maledetta! Il mare porterà via il mio corpo, non più fresco ma rinsecchito.

Sarò avvizzita anche se qui l’acqua corre, e le onde danzano veloci; non avrò la mia stilla vitale, il suo corpo sul mio e le sue labbra sulle mie.

Oh, non posso vivere con questo futuro. Afrodite [3] , accogli nelle tue braccia la tua sorella Didone, che morirà nella spuma del mare, dove tu sei sorta splendente», piagnucolò la donna, mentre lasciava dietro di sé i vestiti da Regina.

Corse nuda alla ricerca di una pietra affilata, per poter far scorrere il suo sangue regale.

Imbrattata della sua stessa linfa d’amore, con gli occhi antracite finalmente calmi – mare quieto, dopo la tempesta – e le mani placidamente poste sui fianchi, si immerse nel mare, fra le onde spumeggianti che si rincorrevano piangenti.

Dolente, si lasciò cullare da quell’acqua vitale, morendo.

Didone che un giorno era stata Regina.









[1] Ma la regina oramai ferita da un profondo affanno, nutre dentro di sé una ferita ed è divorata da un fuoco cieco. © Virgilio

[2] Il polpo, per nutrirsi dell’invertebrato dentro la conchiglia, la fora e ne succhia la polpa.

[3] Dea dell’amore. Afrodite nacque dalla spuma del mare davanti alla spiaggia di Paphos (Cipro), dopo che Crono aveva tagliato i testicoli di Urano e li aveva gettati in mare. La Teogonia di Esiodo descrive che i genitali “vennero trascinati dal mare per un lungo periodo, e spuma bianca sorse dalla carne immortale; dentro ad essa crebbe una ragazza” che divenne Afrodite. © Wikipedia

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Capitolo 17
*** Elettra sognava ***


Elettra sognava

E l’Est la reclamava

 

 

Guardava fuori dalla finestra. I suoi occhi castani si perdevano fra le nuvole e il cielo pallido della città, fra i fili della corrente e i pali della luce, fra i grattacieli che spezzavano l’aria e i pochi piccioni che volavano liberi.

E intanto respirava, cercando qualcosa di migliore del poco ossigeno cittadino – sognava prati verdi di montagna dove correre; sognava il mare di Aci Castello, con le sue insenature rocciose e le alghe colorate sul fondo e gli scogli di lava; sognava di essere in cima all’Etna, dove il vento spirava forte e il cielo era veramente azzurro scuro. Ma era ancorata alla sua camera, con i libri sistemati ordinatamente sulla libreria e i vestiti piegati nell’armadio.

Est.

Elettra guardava fuori dalla finestra, e non bastavano i richiami di sua madre – «Studia, sciagurata, fatti il latino!» – a farla staccare da quel cielo consunto, telo chiaro su cui si erano aggrappati molti sognatori prima di lei.

E di notte, quando non poteva dormire perché pensava all’Est, lei apriva la porta della sua stanza che dava sulla terrazza ed usciva all’aria frizzante, alla ricerca di qualunque cosa. La luna la osservava dalla sua postazione, sorridente e tondeggiante, ed Elettra sognava di poterla toccare almeno con un dito, di lavarsi la faccia in quel bianco.

Finalmente trovava il giusto sogno per andare a dormire, con la luna, e correva verso il letto in cui tuffarsi. O, se rimaneva con le mani pallide e vuote, continuava a vagare sulla terrazza, adocchiando ogni tanto il gatto che riposava beato – così sembrava – e sua madre la luna.

Est.

Si sedeva su una sedia a sdraio – la terrazza era attrezzata per prendere il sole, anche se non ti abbronzavi più di tanto –, si muoveva un po’ sul sedile, pensava, canticchiava ed aspettava l’alba. Il sorgere dell’astro lucente attraverso l’aria non tersa della città, su Catania dormiente; attraverso la rete di palazzi scoloriti, che minacciava di catturarne la luce.

Ma il sole svettava – ed era Est, Est!, la sua provenienza.

Elettra, dalla sua terrazza esposta a levante, ammirava quello spettacolo rosato e aranciato, sorridendo felice.

Eppure ripetutamente, come se l’inquietudine le si attorcigliasse al collo sottile, lei si affacciava alla finestra della sua stanza e guardava.

 

Se le chiedevi con gentilezza, abbracciandola da dietro e posando la testa sulla sua spalla, quale fosse il suo sogno più grande – «Elettra, cosa vorresti fare veramente nella vita? Elettra, qual è il tuo desiderio? Elettra, perché guardi là fuori, invece di vedere qui dentro?» – lei ti rispondeva con semplicità disarmante.

«Voglio andare a levante, in Cina ad ammirare la Città Proibita, a vedere la sporcizia dei bambini abbandonati a se stessi, a rimirare i templi più antichi e le ceramiche più belle; andare in Mongolia e respirarne l’aria tersa, pulita, e a rotolarmi nel deserto del Gobi, e a fissare intensamente il blu – quello è un blu vero, non è preconfezionato né sporcato da smog vario – del loro cielo ed allora invidiarlo; voglio andare in Corea del Nord e del Sud e poi in Giappone, Jipangu, il Sol Levante, e sentirmi minuscola nella capitale brulicante, Tokyooo, soffocando quasi fra ramen e sushi, onigiri, tempura e tutto quello che vuoi, e poi volare a vedere il monte Fuji con la sua perfetta linearità – differente dalla nostra Etna –, poi piegarmi a pregare nei templi, comprare quei portafortuna sacri, scrivere una tavoletta con un gran desiderio... voglio immergermi nell’Est.

Nella sua poesia, nei giardini ben curati, nelle geishe eleganti, nei... nell’essenza dell’Est

E il suo ragionamento non faceva una piega, filava veloce dritto verso l’oriente. I suoi occhi castani adesso risplendevano di una luce nuova, mentre adocchiava la finestra e ti narrava cosa avrebbe fatto come gaijin in un Giappone scoppiettante.

 

Era il richiamo dell’Est a spingerla e, mentre guardava la luna e il sole, Elettra in realtà vedeva proprio esso, splendente.

Per lei sognare equivaleva a viaggiare.

Un giorno non troppo lontano, indossando una vecchia giacca e portando con sé uno zaino scolorito, sarebbe volata via anch’essa, fra le braccia dell’Est straniero e familiare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N/A un po’ doverose:

Aci Castello è un comune vicino a Catania, il mare lì è molto bello e pulito (in confronto alla città sicuramente XD) e non c’è sabbia o ciottoli ma scogli di lava. Ci siamo intesi? Lava dell’Etna, eh!

Elettra sogna altre cose oltre l’Est (la montagna, l’Etna, ecc) anche se è proprio l’Est il suo sogno più grande, come dice parlando. E’ ambientata a Catania, la fic, tanto per comodità XD E nella mia stanza, se devo dire la verità: infatti ho una finestra da dove vedi il cielo e i palazzi e accanto ho la terrazza, alle volte guardo l’alba sorgere (peraltro, il sole e la luna sorgono ad Est xD). E’ una fic semi-autobiografica; il mio desiderio più grande non è questo, ma ho preso molti spunti da me stessa.

Jipangu e Sol Levante sono dei nomi del Giappone, il vulcano Fuji viene definito lineare perché ha un profilo diritto, mentre l’Etna ha vari monticelli, sale-scende-sale, ha un profilo frastagliato insomma u_ù. Ramen, sushi, onigiri e tempura sono cibi giapp, per chi non lo sapesse. Gaijin vuol dire "persona estranea, straniero".

 

Ringrazio Chiara per la recensione che mi ha fatto traboccare il cuoricino. Non sai com’è bello sentirsi dire che le proprie parole si infilano negli occhi e sotto le vene <3. Ti adoro.

Ultima cosa: questa fic partecipa al contest 100 Prompts indetto dal Fanfiction Contest ~ Collection of Starlight.

Arrivederci, !

 

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Capitolo 18
*** Julia - traccia nove ***


Julia

traccia nove

 

«Credo di essere incinta», mormora nel corridoio giallognolo di carta da parati, con la giacca verde ancora sbottonata e una borsa aperta sulla spalla da cui straborda di tutto.

Credo di essere incinta.

Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se stesse parlando del tempo. Eppure sua sorella vede l’irrequietudine correrle negli occhi, fuggire fra gli sguardi veloci che lei lancia a quel corridoio giallognolo.

«Ah, bene», borbotta la sorella, scappando in bagno, via da quelle parole.

Lei, Annalisa, ventisei anni e tre mesi, fisico longilineo, lineamenti semplicemente belli, occhi grandi; lei, chiudendo la borsa e abbottonando la giacca, sfugge alla propria frase con un sorriso di cordoglio, nella città dove non può sentire il battito nuovo di quella vita nella pancia, ma solo il rumore.

 

Annalisa guarda le vetrine, piegando il suo corpo verso il vetro opaco. Le scarpette sono allineate, lucide, eleganti.

Minuscole, per il suo corpo adulto.

Ce n’è un paio di vernice rossa, con un laccio che si chiude sopra l’immaginario piedino, raffinate. Le scarpe che vorrebbe possedere per la sua... creatura.

Per quel soffio di vita nella pancia, piacevole delizia mentre la città è ordinata nel caos, il rumore scherza con il silenzio e i bambini giocano fra le foglie.

 

 

Imagine suona nell’aria, lineare.

Annalisa osserva sua sorella disegnare un volto, una bimba dai capelli scuri e un sorriso allegro. John canta, come sempre uguale, con dolcezza di una ragazza dagli occhi marini.

«Julia è un bel nome, non è vero?», dice e si carezza la pancia, cercando di ascoltare il battito regolare del suo bambino. Il suo.

L’emozione le sgorga dagli occhi grandi, rotola via in perle acquatiche.

«Hai gli occhi marini», sussurra solamente sua sorella, fermando John Lennon a metà canzone: Her hair of floating sky is shimmering, glimmering / In the sun. «Come perle di ostrica».

«Sì, Julia è un bel nome», ripete Annalisa fra le lacrime di gioia, non ascoltando.

E' l’emozione che sente sul proprio corpo, sulla pelle e la bocca, nello sguardo vivace; è l’emozione che la fa vivere e la riempie, e adesso essa si riversa sulla sua pancia. La carezza di nuovo, sentendo un calcio leggero risponderle, e le sussurra la loro vita futura, dolcemente.

«Troverò un lavoro, un bellissimo lavoro che ci renderà felici; ti cercherò un papà, un bell’uomo dalle spalle larghe e la voce tenera, con la risata facile. Abiteremo alla luce del sole, con il mare nel cuore e il cielo negli occhi. Vivremo una vita meravigliosa, noi due».

Sua sorella sorride, disegnando il loro futuro delicato.

Vorrebbe abbracciare Annalisa e ballare con lei, fra la gioia che quel bambino porta. Fra i colori che mostra, novelli, sconosciuti agli occhi ingrigiti dal mondo.

 

Annalisa fa partire di nuovo Imagine e John, con la traccia nove impressa nell’aria.

«Julia, Julia...», canta la madre, cullando la propria pancia e se stessa.

Negli occhi, la certezza inamovibile che un bimbo porta con sé: il sacrificio per quella vita nuova, preziosa, ancora innocente. Nel cuore, l’insicurezza bambina che corre fra i rovi del mondo, in cerca di un proprio spazio in cui fiorire.

 

 

 

Fine... o, forse, Inizio




 

 

 

 

 

 

N/A:

Imagine è un CD di John Lennon e di esso parlo all'inizio del terzo pezzo, la traccia nove è Julia - una canzone dei Beatles - e Annalisa e la sorella stanno ascoltando proprio quella canzone.

Annalisa è mia sorella, la sorella della storia sono io. Il primo pezzettino è autobiografico.

L'ultima cosa che mi rimane da dire è che ho scritto questa storia con l'animo pieno di emozione, di poesia. Ho pensato a mia nipote, a quando ancora era nella pancia. Non credo minimamente che arriverò sul podio, perché non ho nemmeno pensato di farlo.

E' solo un regalo, un regalo a chi un giorno avrà un figlio.

 

 

N/A del 25 maggio:

Ho vinto! Ho vinto il contest Mamma mia del COS! Oh porcapalettadeltirolo! Grazie giudichesse mitiche, Leti e Kary <3. Grazie Val per il bellissimo banner *ò*. I giudizi li trovate qui.

 

Ed è un Notturno, perché l'ho scritto di notte con un'emozione che trapanava il cuore.

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Capitolo 19
*** Preparativi ***


Preparativi

A mia madre e a Maria

 

Cornelia guardava le spighe d’oro piegarsi al soffio del vento. Il sole era ancora alto nel cielo, splendente e carico di raggi.

Sua madre la osservava, con i capelli che le coprivano gli occhi chiari e il vestito largo – bianco – che scivolava sulla pelle.

«Cornelia, è ora di andare», la chiamò la madre, portandosi con un gesto rapido una ciocca scura dietro l’orecchio.

La bimba corse fino al sentiero dove l’aspettava la donna, spezzando e piegando leggermente le spighe al suo passaggio, e si fiondò su di lei, abbracciandola all’altezza della pancia. Poggiò la testolina color fiamma sul suo seno.

I capelli ricci di Cornelia si muovevano seguendo i gesti del suo volto e sembravano sempre smossi da una scossa elettrica, da una vampa ardente di fuoco – e la voce di sua madre sembrava le foglie che s’accartocciavano con le fiamme nel camino, crepitante.

Nonostante i loro occhi chiari, che ricordavano il ghiaccio venato da piccole gocce d’acqua, entrambe erano ciò che più assomigliava al fuoco primordiale, allo splendore della lava incandescente.

«Fra poco il pranzo sarà servito, su, andiamo», sussurrò sua madre, porgendole una mano lattea.

Cornelia non se lo fece ripetere due volte, si mise a correre più veloce possibile, ignorando l’offerta gentile della sua procreatrice, per arrivare a casa prima che suo padre ne notasse l’assenza.

La madre la seguì lentamente, con un sorriso sul volto giovane.

 

Alle volte si coricavano sul prato verde-giallo davanti casa, l’una accanto all’altra.

Cornelia osservava con gli occhi ghiacciati la pancia della mamma crescere, a poco a poco, e la curva morbida che quella formava con il tessuto del vestito.

Ogni tanto con la manina rosea, ornata di piccole efelidi, le carezzava il ventre, poggiandosi poi con l’orecchio per sentire chi c’era là dentro, e accoccolando successivamente la testa sul seno della madre.

«Mamma, il tuo petto sta diventando più grande», disse una volta, strusciando le proprie fiamme – i capelli – sul cotone azzurro del suo abito.

«Il mio seno, Cornelia, si prepara per il nuovo bimbo», rise sua madre con voce crepitante, socchiudendo gli occhi gelidi – eppure anche caldi – per guardare il sole alto in cielo.

La bambina si mise sull’attenti: poggiò i gomiti sul largo ventre della madre, con delicatezza, e alzò un po’ la testa per vedere il suo volto. «Anche con me... era così morbido e grande?», domandò, spalancando la bocca e mostrando delle finestrelle al posti dei denti da latte.

«Certamente, gioia. Ogni volta che una donna ha un bambino, il suo corpo si modifica: la pancia si ingrossa, il seno aumenta e diventa florido... l’intera mamma si prepara. Anche con te è stato così, e sarà così per tutte le altre donne», sussurrò morbidamente, attutendo lo scoppiettio della sua voce.

Cornelia osservò la spensieratezza che trapassava sua madre, così tangibile e contagiosa.

«Allora», incominciò la bimba, avvicinandosi al suo viso, «Io un giorno avrò il seno? E porterò il gigipetto?* Ma non sarà, come dire... tutto troppo stretto, mamma?», domandò Cornelia, e i suoi occhi ghiacciati avevano il colore del cielo stupito dalla tempesta.

«Oh, sì!», rise sua madre gentilmente, carezzandole le piccole scintille dei capelli, «Avrai il reggipetto, perché ti sosterrà, tesoro mio, e darà la giusta forma al tuo seno. E forse potrà sembrarti stretto, fiammella, ma non sarà difficile da sopportare: il mondo ti apparirà molto più compresso del tuo reggiseno».

Cornelia non riusciva a capire tutto quello che la madre le stava dicendo, però annuì convinta. «E anche io avrò il mio bel bambino», disse sognante, pur non comprendo per nulla quello che comportava una nascita.

Era ancora nell’età dei sogni e dei balocchi di fuoco.

«Ovviamente, Cornelia. Un giorno la tua vita sarà prospera», crepitò la madre, sollevandosi poi dal prato e sorreggendo la pancia con la mano lattea.

 

Cornelia guardava le spighe d’oro piegarsi al soffio del vento. I suoi ricci di fiamma volavano allegri, spostandosi con l’aria insieme al grano.

«Andiamo?», la chiamò suo fratello.

Lei si voltò e sorrise con gli occhi ghiacciati, poi lo raggiunse.

Con una mano, ancora rosea e ancora piena d’efelidi, carezzava il proprio ventre abbondante, mentre un ciondolo, a forma di corno, spostandosi picchiettava il suo petto.

Adesso aveva compreso l’importanza dell’essere donna, e quella di un buon seno e di una buona forma: stare bene con se stessi, sia fuori che dentro, rendeva più felice ogni piccolo movimento.

Tutto quello, tutta la sofferenza e il non accettarsi dell’adolescenza, tutte le gocce di sangue sulle mutande chiare e il seno che cresceva, rendendola diversa da se stessa – eppure sempre uguale –; tutto quanto era un preparativo per qualcosa di più grande:

 

La vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N/A:

Mi è piaciuto un casino parlare di donne fuoco! <3 Mi piace troppo il fuoco, va *_*

* Il gigipetto al posto del reggipetto, XD. Mi ricordo che nell’infanzia un’amica della mamma lo chiamava così, credo perché io lo chiamavo in quel modo da bimba ò_ò... insomma, è un tributo all’infanzia, dove ancora non si sanno tutti i nomi di tutte le cose, ed è bello così.

Il significato del nome Cornelia: riprende il nome latino della gens Cornelia, da cornu, corno, come simbolo di abbondanza e prosperità.

 

Che dire poi? E' stata scritta per i 100 prompts indetto dal COS, con il prompt Seno (mi sono scervellata, poteva uscire qualcosa di molto pervertito, eh XD). Alla fine sono ricaduta nella donna incinta ._. (e siamo a 3, con la SuiKa!). Direi che su questo argomento mi sono espressa abbastanza XD

Ringrazio tanto chi ha recensito: Leti (Grazie nee-san!) e Lalla (Sei troppo gentile *__* W le virgole, va xD Sono felice che ti è piaciuta, ho voluto contrapporre proprio il mondo alla piccola vita. Thank you *^*).

 

Adesso volo via, bye. Non aspettatevi mai più aggiornamenti così ravvicinati, è stato davvero un caso XD!

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Capitolo 20
*** Favola del sogno americano ***


Autrice: kokò
Rating: Verde
Pairing: Marito/Moglie (Michael/Jane)
Genere: Flash fic
Questa fic è arrivata seconda al contest DILLO CON UN POST-IT! indetto dal Fanfiction Contest:






Favola del sogno americano


Jane e Michael erano una tipica coppia americana degli anni ’50. Entrambi erano felici di quell’unione: Jane si occupava della casa, rassettando, pulendo e cucinando; Michael andava a lavoro ogni giorno, si fermava un po’ al bar con i colleghi e poi tornava a casa, dove lei lo aspettava con la cena pronta.
Ebbero un figlio, John, dagli occhi color del cielo e i capelli come grano.
E poi, il vento cambiò direzione.

Iniziò tutto una mattina di novembre.
Michael si annoiava e Lucy, la sua segretaria, era dello stesso umore. “Facciamo un gioco, signore”, gli disse.

Jane, ogni volta prima di lavare gli abiti del marito, sentiva un profumo di donna e rabbrividiva. Michael rincasava più tardi, la sera, e sorrideva felice alla moglie e a John come non aveva mai fatto.
Le mani screpolate di detersivo di Jane percorrevano i vestiti di Michael alla ricerca di lunghi capelli serici. Alle volte ne trovava e li bruciava sul fuoco del fornello, guardandoli arricciare sulla fiamma.
Michael ascoltava ogni discorso frivolo di Jane – come sistemare meglio la casa, cosa comprare al negozio d’alimentari o quali azioni sconsiderate aveva fatto quella settimana Daisy Lytton, una loro vicina -, ma non sentiva mai i gemiti del cuore della moglie. Non vedeva le sue dita torturarsi né gli occhi inquieti che vagavano per la stanza.
Jane soffriva d’incomunicabilità così come d’amore.

Un giorno, Jane prese un post-it e scrisse: “Caro Michael, mi dispiace, ma non ce la faccio più”.
Chiaro e semplice.
Lo attaccò sul piatto del marito e aspettò, facendo tutte le mansioni casalinghe, che lui arrivasse.
Michael lesse il messaggio e la guardò sconcertato. La verità gli crollò addosso.
“Noi non siamo una famiglia felice”, disse Jane.
John era in camera sua e ascoltava.
Il post-it catturava l’attenzione di Michael, rimasto imbambolato.
“Oh, caro!”, lo chiamò la moglie.
“Andrà tutto bene, cara”, esclamò lui, guardandola negli occhi. “Non ti sarà difficile fingere ancora, l’hai già fatto per tutto questo tempo. Basterà pensare che nulla sia mai accaduto, sorvolare”.
“Ma...”, balbettò.
“Noi siamo felici, mia Jane. Facciamo parte del grande sogno americano, no?”, disse Michael.
“O-okay...”, sussurrò Jane, ridendo istericamente.

Su un altro post-it, appallottolato e buttato nel cestino, spiccava: “Ti odio. Mi hai distrutta. Ti odio”.

~ Fine ~

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Capitolo 21
*** Grow up and blow away ***


Nota iniziale importante: Mary è un’amica della mia AmantaH, non la conosco, ma è reale. Questa fic è un suo possibile futuro. È incinta di un uomo che, diciamolo, non è uno stinco di santo. Lei, triste di non essere fidanzata, ha deciso di starci con il primo che capitava, solo per avere quell’amore che desiderano tutti. E quindi adesso è innamorata e incinta. E lui non è gentile.

Spero andrà bene, magari sarà come descrivo io.

 

 

grow up and blow away

 

Indaco aveva le mani fatte di tempera rosa. Andrea gli porse un piccolo fazzoletto di morbido tessuto, sorridendo al suo amico immaginario formato pennello.

Indaco fece una smorfia buffa, divertente, e Andrea ridacchiò felice.

 

Sua madre lo guardava e in quei tratti vedeva il padre di Andrea – via, lontano, diecimila miglia sotto la faccia della terra; magari con qualcun’altra –, però riconosceva l’indole gentile del proprio animo, un po’ fragile e un po’ incosciente, che percorreva il profilo del bimbo. Indaco le sorrideva, ma lei non poteva scorgerlo.

Era passato il tempo di quando era una ragazzina che non vedeva oltre il suo naso, quando ancora credeva che il principe azzurro fosse lì fuori da qualche parte, con un sorriso gentile e le mani morbide, da stringere forte forte, per non avere più paura. Era passato il tempo in cui, infantilmente, aveva deciso che stare da sola era la peggior cosa del mondo, che la sua vita aveva bisogno di un colore nuovo, acceso; era lontano ancora più del padre di Andrea, il momento in cui aveva scelto di vivere l’amore. Scoprendo poi che l’amore non era quello, che ciò che aveva visto era solo l’illusione marcia e scadente, di un grigio fasullo – perché non aveva osservato gli occhi sognanti dei giovani che si tengono per mano, ma solo l’idea dell’amore ideale.

Ecco, si era buttata a capofitto senza pensare e senza conoscere. Incosciente.

Adesso era passato il tempo.

 

Suo figlio si alzò e corse verso di lei, con veloci passetti d’infante, e tese le sua mani paffute verso la madre.

Si chinò, Mary, e lo strinse a sé, per poi risollevarsi con Andrea in braccio.

«Mamma, mamma, Indaco vuole un’altra tela su cui dipingere!», chiocciò al suo orecchio. Gli occhi castani ridevano, splendevano dell’amore sincero che lei aveva ignorato, in passato, quando si era lanciata in quel gioco e giogo d’inferno.

(ricordava le sue mani sul proprio corpo e aveva paura,

ma non voleva dire di no; e aveva paura, solo paura, eterna paura

e lui non era gentile.

Era passato il tempo...?)

 

«Ora gliene prendo un’altra, tesoro. E... e, dimmi, Andrea, preferisci Indaco alla mamma?», domandò dolcemente.

Il bimbo parve pensarci su qualche istante. «Oh, no, mamma. Tu sei il mio mondo!», chiocciò al suo orecchio.

Mary sapeva che, prima o poi, Andrea sarebbe volato via come aveva fatto lei. Sperava solo che suo figlio, quel giorno, avesse più coscienza di lui, un futuro tracciato, un’idea in testa e un obbiettivo; che avesse una buona ragione per lasciare il nido.

E d’inverno sarebbe tornato nel suo giaciglio caldo?

«Grazie», rispose la madre, carezzandogli i capelli soffici. Lo posò a terra. «Vado a prenderne un’altra, non scappare via», mormorò.

Ma sapeva che quel giorno era ancora lontano, proprio come il padre di Andrea. E lei sarebbe stata il faro che aspetta placido una barca color indaco.

 

 

 

 

 

Fine

 

 

 

 

 

 

 

Grazie a:

elyxyz: Ohh, grazie ely per la dettagliata recensione, mi hai reso molto felice e orgogliosa <3

caith_rikku: Grazie per gli ottimi giudizi, davvero. Mi hai fatto capire meglio tutti i miei errori, senza per altro accendere il mio stupido orgoglio xD, e non è da tutti.

princess of vegeta: Lalla cara, grazie per le recensioni che sono la felicità assoluta – soprattutto a questa raccolta che mi sta molto a cuore *_*! Prima o poi devo ricambiare ._.”

 

Recensite, mi raccomando; almeno una persona, per favore, lo faccia. Tengo davvero troppo a questa fic.

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Capitolo 22
*** I dream you’ll be me ***


I dream you’ll be me

Agli occhi di M., che sono blu puro. A lui.

Fanculo al mio cuore.

 

I suoi occhi marroni – color cioccolato fuso, quello caldo nelle tazze di ceramica smaltata, dal vapore ovattato in cui immergerti – la fissavano fuggevolmente. Erano un tocco fugace, ma penetrante come bombe nel terreno asfaltato, missili caduti a sfracellare la sua anima.

E lei, china sui suoi libri pieni di parole trascritte, non sapeva cosa sentire nel suo cuore. Si piegava come carta sotto dita esperte.

Avrebbe voluto averlo, anche solo per un giorno, per poter dire di aver conosciuto quegli occhi.

 

Ne ascoltava le parole – le beveva tutte d’un sorso, senza respirare. Ne assaporava appena il sapore sulla lingua, desiderando ancora un po’ di quella leccornia.

Lui non parlava spesso: solitamente rimaneva immerso nel suo mondo, a immaginare sfondi colorati. Lei, invece, riempiva l’aria di parole, con tutta se stessa; forse per non farsi dimenticare, perché se avesse lasciato qualcosa, in quello spazio circostante, allora avrebbe dovuto per forza essere esistita.

Magari chiacchierava sul tempo, o sul film con Brad Pitt appena uscito al cinema, o sul colore delle sue Converse – e guardava lui, aspettando i suoi occhi marroni, il suo cioccolato fuso; e guardava lui.

 

Un giorno, non troppo lontano né troppo vicino, lei dimenticò il suo ombrello a casa. Pioveva forte.

«Vuoi un passaggio sotto il mio ombrello?», domandò allora lui.

Ecco, quella frase logicamente scorretta – volere un passaggio quando si va a piedi? Che senso ha? – le faceva solitamente storcere il naso, ma disse solo: «Sì».

Lui la riparò dalla pioggia e lei, di sottecchi, poté osservare i suoi occhi molto, molto a lungo, fino a conoscerne l’anima.

 

L’aveva avuto? Cosa voleva dire possedere qualcuno?

Si poteva intrappolare fra le proprie mani il corpo di una persona, ma la sua mente, la sua anima? Quelle non erano al di là di ogni immaginabile catena? Poteva davvero dire di averlo conosciuto?

Bastava così poco.

Bastava solo un tocco. Una leggera pressione con le proprie dita ghiacciate, mentre il cuore martellava incessante nel petto.

Lo fece. Gli carezzò la guancia, prima di baciarlo. Sotto la pioggia. L’ombrello cadde via, rotolando fra le pozzanghere.

 

Uscivano sotto il sole d’inverno, la sciarpa al collo, i guanti a proteggere le mani, il giaccone, loro legati da una piccola stretta. Ridevano felici, con le guance calde.

Uscivano sotto il sole di primavera, con i fiori appena sbocciati e i cinguettii degli uccelli sparsi nell’aria – al posto delle sue parole, forse, che adesso risiedevano nel cuore di lui.

Uscivano sotto il sole d’estate, il mare impetuoso li richiamava, figli dell’acqua, li reclamava per il gioco della vita. Uniti dagli occhi negli occhi.

 

Si chinò di nuovo sul libro d’italiano, leggendo svogliatamente un pezzo del Principe di Machiavelli.

Quella storia non era mai esistita, se non in lei.

 

 

 

 

 







 

N/A:

Questa volevo scriverla da un po’ <3 Da due settimane. Sui flash mentali che uno si fa guardando un ragazzo. T’immagini già una vita, un modo in cui conoscerlo, degli appuntamenti, tutto. Ma è solo fantasia, no?

Comunque, in parte sono io. Ecco. Ah che bello.

Ringrazio chi ha recensito: Alexandraleon [Grazie mille tesoro. Sì infatti quella domanda Mary l’ha posta perché si sente insicura J] e CloudRibbon [AmantaH cara, non sai che gioia la tua recensione, anche perché la fic è legata a te <3. Grazie come sempre per i tuoi complimenti sullo stile *__* e per il matura – ma lo sono? Bah xD... daisuki].

 

Ora vado. Vivete a più non posso! La notte vi reclama.

Al prossimo notturno ;)

 

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Capitolo 23
*** Solemn talk of distant rain ***


Solemn talk of distant rain.
(così vuote, quelle gocce)



La bambina andava avanti e indietro, affondando i piedini nella sabbia indurita dall’umidità della notte. Si stringeva nel maglione di lana bianca, tirandosi i capelli dietro le orecchie.
E c’era freddo, là, a discorrere di pioggia – la brina imperlava le poche piante cresciute al limitare della spiaggia, il rumore del mare era lontano e leggero, quasi impercettibile.
Il padre, seduto a terra, cantava delle stelle e della luna, nascoste dal chiarore ormai diurno del cielo; e raccontava che, in fondo alla morbidezza delle nuvole plumbee, si trovava una città incantata ornata d’arcobaleno.
Aspettavano l’alba. Il disco rosso e arancio che avrebbe portato calore alla vita, perfino alla bambina.

Poi arrivò. Si spanse, il colore, fino a raggiungere gli apici del cielo e ad illuminare le nuvole.
Il padre rise felice, alzandosi da terra e smuovendo la sabbia giallognola.
E la bambina vide – no, non poteva essere vero!, quella era una sciocchezza che il genitore, come al solito, gli propinava con incoscienza; no, non era reale, lui era un sognatore e lei una bimba pragmatica come la mamma e... – e la bambina vide una città incantata dalle cupole rosse e azzurre, i palazzi gialli e – ed altro, nei cirri.
Infine la pioggia distante arrivò, solenne, spazzando via tutto, ma il sole, ancora troppo basso lì sul mare, splendeva possente.
La bambina abbracciò il padre, ridendo.








______________
Scritta ascoltando Impressioni di Settembre, cover cantata dai MK... il loro video è stato molto ispirante: here.
Bella ;)

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Capitolo 24
*** Storia di un sessantesimo di minuto ***


Storia di un sessantesimo di minuto

 

«L’ho amato dal primo istante».

Non era vero, ma quella frase le dava una forza così potente che non poteva far altro se non ripetere quelle parole.

Che poi, in fondo, per lei esse avevano una loro disarmante sincerità. Era davvero stato così, ne era  convinta, e se lo era allora doveva essere vero e basta, vero come il mare in tempesta o il clangore dei clacson all’ora di punta, in una qualunque città del mondo.

«L’ho amato dal primo istante».

Dal primo momento in cui l’aveva scorto realmente – in passato non lo aveva guardato, era solo un’ombra, una macchia della tappezzeria che poco le interessava; non c’era stato, fino a che lei non l’aveva scorto. Ed era arrivato l’amore. O l’infatuazione. O quel che fosse.

Forse tutt’e tre insieme.

Il primo istante era stato uno sguardo – uno sincero, uno qualunque, così, come quelli che capitano quando osservi per sbaglio qualcuno, gli sorridi leggermente senza fartene una ragione e poi sorvoli, scostando gli occhi – era stato uno sguardo durato pochissimo, ma che aveva segnato una netta distinzione tra prima e dopo.

In realtà, era stato come con i periodi storici: dal Medioevo all’Umanesimo, pensava, non c’è un taglio deciso, bensì essi si fondono a poco a poco, diventando un qualcos’altro. E anche per quell’amore – il battito – era stato così, eppure lei amava definire proprio quell’istante; quello sguardo come inizio.

Perché, diceva, magari ci si innamora lentamente, ma ci si accorge di essere innamorati in un solo minuscolo secondo.

Il primo.

 

«L’ho amato dal primo istante».

Ed era vero, almeno per lei.

 

 

 

 

 

 

 

E’ Natale. Più o meno. Auguri, gente, e viva l’amore o quello che è. Perché ti scalda il cuore più di una stufetta! :3

 

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Capitolo 25
*** A stomaco vuoto ***


A stomaco vuoto


«È come se avessi fame, sempre fame».
«Fame abissale in cui cadere».
Sorrise leggermente.
«Non so, mi viene d’ingozzarmi, di riempirmi e di imbottirmi – vedo lui, vedo lei, vedo loro e mi viene questo impulso a cui non posso resistere; corro via, in cerca del panificio più vicino, e prendo una, due pizzette, dei dolci, fette di torta, biscotti, panini imbottiti... devo mangiare, devo mangiare, se no non sarò più felice».
«C’è solo la mia vocina interiore che mi dice: fallo. So che esiste e so che ha ragione, per questo l’ascolto sempre. La fame diventa la mia vita – il peso la mia condanna – il grasso il mio vestito. Siamo tutti uguali, sai, sotto la scorza di cellulite, sotto la pelle flaccida; siamo umani fatti di voglia, di fame per qualcosa, che sia sesso, attenzioni affettive, denaro o il più semplice cibo».
Scosse il viso e si lisciò i capelli con una mano.
«E allora mi lascio andare. Non mi importa più del corpo, ma di riempire il vuoto che mi preme sulla pancia – io sono un buco nero che inghiotte, e la fame in cui cadere sono io stessa».
«E non ti è mai venuta voglia di... farla finita?», domandai.
Lei sbuffò divertita. «Quando guardo loro e quei loro gracili corpi, dalle ossa in evidenza, la pelle tirata, la vita sottile, penso che forse dovrei smettere, però poi rido beffarda. Non sono felici, con tutta quella fame dentro; non si esprimono, represse dalla voglia di apparire; non sono felici e io sì».
«Mi basta il cibo per essere al sicuro, quieta e pacificata, trattengo il respiro per sentire la sensazione, sono così, sono questa qui».
«Mi basta questo».
Sospirai.
~










Questa non sono io. Ma potrebbe essere una potenziale "me" o "voi", c'è qualcuno nel mondo che è così, che ha fame. Mh.
Notturni è sulla via della fine... devo solo trovare un adeguato finale che chiuda in bellezza, e lo troverò, sicuramente. Cpairò che è quello scrivendolo. *__*
Ringrazio chi segue, legge, preferisce.

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Capitolo 26
*** Be hungry, be foolish ***


be hungry be foolish

a chi d’amore non sa nulla, perché è alla ricerca del puro piacere


Le sue dita carezzavano il collo della donna. Lei rideva e la sua risata ricordava l’ululato del vento fra le fronde, sottile, ironica e spezzettata; lui la possedeva senza amore.
C’era della tristezza in quei movimenti pieni solo di libidine, con lo spessore emotivo di una foglia di noce. I due amanti sembravano involucri vuoti che cercavano una scintilla – che cercavano una vita da divorare, sentendosi sempre più soli.
E quindi lei rideva ancora e ancora, ferina, mentre lui raggiungeva l’amplesso.
I corpi nodosi si chinavano ai voleri del vento affamato. Continuavano a mangiarsi il volto, piegando le labbra in un ghigno secco.
I loro occhi, vuoti, divennero ancora più spenti quando tutto finì. Lui uscì dal suo corpo, percependo solo un po’ più di freddo nel proprio.

Poi seccarono come fiori al sole, perdendo i petali un tempo colorati.

***




(questa ha poco senso. Poco. È piena di tristezza – senza amore... e io che volevo scrivere qualcosa piena di sentimento. Boh. È un’immagine, e va bene così com’è, credo)

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Capitolo 27
*** Train de vie ***


Train de vie


Era da un po’ che il treno andava.
Guardavo fuori dal finestrino con passività, mentre la musica sparata dagli auricolari mi riempiva le orecchie.
Avevo osservato bene gli altri passeggeri: erano tutti giovani, al massimo ventenni, ma emanavano un sentore di maturità inaspettato. Mi sentivo piccina in confronto a loro – come se fossi lì per caso, per errore, al contrario di tutti gli altri, che sembravano appartenere al treno. Che strani pensieri mi percorrevano la mente!
Aumentai il volume dell’mp3. Bring on the wonder di Susan Enan risuonava in me e sussurrai due versi con sentimento: «I fell through the cracks at the end of our street, Let’s go to the beach, get the sand through our feet».
Quella canzone mi tranquillizzava e mi portava via da me stessa, come se riuscisse a farmi volare altrove.
Guardai nuovamente fuori dal finestrino... stava cadendo la neve. Tanti piccoli fiocchi bianchi scendevano danzando, ruotando, nuotando nell’aria, soggetti al volere impetuoso del vento – prima avanti, poi indietro, a destra, a sinistra; e il treno avanzava.
Ne fui affascinata e mi sporsi verso quello spettacolo niveo.
La nebbia stava salendo: divenne tutto uguale, il mondo, di un grigio candido che univa la terra e il cielo. Se non fosse stato per gli alberi vicini al treno, avrei visto soltanto una vasta lastra di vetro chiaro, opaco; un nulla.
Quello che vedevo rappresentava, per me, il vuoto, il niente assoluto... e metteva i brividi pensare di viaggiare in esso, lì, in una frattura del nulla. Come se attorno al treno non ci fosse nient’altro – c’era, c’era, solo non si vedeva – e che quindi noi passeggeri fossimo gli unici al mondo. I superstiti.
Ascoltai con un fremito di eccitazione I don’t feel it anymore di William Fitzsimmons, spostando lo sguardo su quella nebbia e quella neve in caduta libera; la musica mi scivolava nelle orecchie, sul corpo, quasi ricordandomi una melodia divina.
L’ultraterreno aveva preso posto alla normalità del viaggio.

I fiocchi continuavano a cadere, la nebbia era fitta e impenetrabile allo sguardo; il nulla circondava il treno, che andava e andava verso la sua meta. Osservai gli altri passeggeri – anche loro guardavano fuori dal finestrino con la mia stessa sensazione? – e vidi che erano meno di prima.
Non avevo notato che qualcuno di essi si era alzato ed era andato via, in giro per gli scompartimenti; erano svaniti, quei viaggiatori silenziosi e maturi... o forse li aveva inghiottiti il treno?
Di loro erano rimaste solo delle gocce sul tessuto dei sedili e sul pavimento nero.
Fissai il passeggero di fronte a me: era un bel ragazzo dagli occhi scuri e profondi. Lui contraccambiò il mio sguardo.
«Dove stai andando?», mi chiese con gentilezza.
Sorrisi. «Vado a fare visita ai miei genitori. Mi aspettano per pranzo», risposi. «E tu?», gli domandai.
Lui sorrise con gli occhi, accesi da una scintilla di allegria, e disse: «Io sono alla ricerca dell’amore, il mio».
Spensi l’mp3 e, grattandomi il capo per perdere tempo, sussurrai: «E lo troverai? Voglio dire... è strano partire per scovare la persona destinata ad amarti, l’amore stesso. Non credi che dovremmo aspettarlo? Arriverà da sé, se il nostro destino è questo».
«Se mi fosse rimasto molto... credo di sì. Ma alle volte bisogna forzare lo scorrere del tempo, prima che esso ti si ritorca contro e ti inghiotti in un sol boccone», ribatté.
Annuii e sbirciai dal finestrino: la neve era sempre più grossa, cadeva a fiocchi grandi, e un manto ricopriva l’aria stessa. «Io sono Chiara, piacere».
«Tommaso», disse con un sorriso.
«E dici che non ti basterà il tempo?», chiesi.
«Non mi basterà la vita».

Il treno avanzava, mentre noi chiacchieravamo del più e del meno.
Fu dopo un po’ che iniziai a sentir freddo – la neve di là fuori, che non riuscivamo a toccare, intangibile, poteva trasmetterci il suo candido gelo?
Non guardai più il nulla visibile dal finestrino, concentrata su ciò che Tommaso mi diceva. Riempiva lo spazio e il tempo del treno, riversava la sua vita su di me, nel suo dialogo interminabile.
Mi venne voglia di piangere, senza un motivo ben preciso. Il freddo mi cristallizzò il cuore e non riuscii più a seguire i racconti del passeggero di fronte a me, quegli sprazzi di vita che cercavano di tenermi sveglia, inutilmente.
Ero spossata e le mie palpebre divennero pesanti.
Vedevo il nulla dentro i miei sogni e ne avevo paura.
Tommaso, a un certo punto, s’arrese e rimase in silenzio – non lo sentii più e basta, forse ero io che non percepivo più i suoni, immersa in una bufera di neve, dove nemmeno il vento ululava. Si stava in attesa, circondati dai fiocchi bianchi, e si moriva assiderati senza riuscire ad ascoltare la vita un’ultima volta.

Di me rimasero delle gocce sul sedile e sul pavimento; null’altro.


«Correte! Un barbone, trovato in ipotermia, sta morendo... riscaldatelo, riscaldatelo», qualcuno gridò.
L’ospedale era un brulicare di vita e di morte, un mondo a parte che non conosceva la quiete, se non quella apparente. Qualche medico s’affrettava, i pazienti cercavano di migliorare, i visitatori andavano e venivano.
Il barbone morente, trovato da un poliziotto poche ore prima, aveva gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un urlo silenzioso. Voleva parlare, prima di essere dimenticato da tutti; aveva avuto una vita da invisibile, era stato un emarginato dalla società alla ricerca di un qualcosa di speciale... un amore indistruttibile, incancellabile.
Un infermiere lo scrutò con pietà e gli stette accanto finché non fu fuori pericolo.
A quel punto, Tommaso il barbone pianse. Sapeva che, da qualche parte lì nel mondo, la sua metà era morta – e non lui, non lui, che era ancora vivo e vegeto, alla ricerca del pezzo mancante che lo completasse.

«La bambina era già malata... questa febbre le è stata fatale», concluse il proprio discorso il dottore.
Loro s’accasciarono l’uno sull’altro, cercando di respirare, dopo quel colpo in pancia tanto forte da mozzare il fiato.
«La mia Chiara!», gridò la madre, perdendosi in un pianto infinito. Il marito, il padre, non sapeva far altro che sorreggerla; sentiva troppo dolore per poter lacrimare.
«La mia Chiara...», sussurrò ancora la donna.


Non mi ero mai chiesta perché mi sentissi inadatta lì, sul treno che andava, fra tutti quegli altri giovani dall’aspetto maturo.
Ognuno di loro aveva una vita alle spalle – non io; io possedevo soltanto pochi ricordi, un soffio di memoria, e avevo pochi anni d’età. Ero diversa, impreparata a quel viaggio.
E così lui, Tommaso, che era pieno di vitalità; anche lui era inadatto a svanire, perché c’era qualcosa che lo teneva attaccato ai suoi preziosi racconti, al suo corpo e al mondo.
Ma poi, quando mi aveva finalmente trovato, eravamo stati divisi.
Non gli bastava davvero la vita per cogliere il suo amore; non gli sarebbe bastata mai.








*

Ispirata a Afterschool nightmare e a ciò che ho visto oggi dal finestrino del treno. Quei due, Tommaso e Chiara, erano in fin di vita... i passeggeri svaniti dal treno sono morti del tutto e con essi Chiara.
Grazie a Cloddy per la recensione al capitolo scorso, ti amo *_*.

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Capitolo 28
*** Dramma teatrale ***


Dramma teatrale
 
LEI: Ero piccola e siamo andati al mare. Era così luminoso il cielo! E terso, disteso a formare una lastra di vetro monocolore. La superficie blu e acquosa era smossa da un leggero vento, faceva avanti e indietro; le onde si susseguivano rapide e spumose... ero così felice. La luce del sole m’illuminava in pieno, calda e lucente. Affondavo i piedi nella sabbia morbida e umida, per la felicità presi un secchiello e mi misi a lavorare – feci un castello, o almeno per me lo era, anche se in realtà avevo fatto solo due torrette, due piccoli cumuli color ocra... con le mani e la sabbia bagnata lo decorai, facendo gocciolare gli ornamenti sopra il castello. Era bellissimo.
Poi il cielo si rabbuiò, arrivarono le nuvole plumbee a coprire il sole, la tempesta. Il vento s’alzò forte e il mare fu scosso dalla sua violenza disarmante. Avevo paura, ma mio padre mi prese la mano e tutto fu calmo dentro di me. Salimmo in macchina e io sbirciai il cielo buio. Ero felice lo stesso, perché papà m’aveva stretto tra le sue braccia e avevo sentito di nuovo il caldo.
Adesso non sono felice. Adesso mio padre non c’è più.
(vaga un po’ sul palco, con espressione vacua)
LEI: Ricordo la prima volta che ho nuotato – avevo imparato a farlo in piscina, ficcando la testa sott’acqua e scalciando coi piedi –, era estate e la giornata sapeva di allegria: i bambini gridavano gai e correvano tutti in tondo, sui ciottoli della spiaggia di Fondachello; l’acqua era piena di quel vociare all’unisono... io non li conoscevo, ma vederli mi faceva sorridere. Andai a nuotare lì nel mare freddo, a smuovere i piedi e le mani, lì sotto, lì con mia madre vicino che avanzava a rana.
Ricordo che tenevo gli occhi aperti sott’acqua, e quindi vedevo sfocato il fondale colorato, ma non mi dispiaceva, non mi doleva lo sguardo per il sale, anzi... ero immersa e mi piaceva, ero leggera, leggerissima, una bollicina d’acqua in quel mare immenso. Guardare a largo, là sotto in quel silenzio ovattato, però mi dava paura: sembrava che ci fosse un canto marino, appena sussurrato e magico, che mi attirava in quel blu infinito; e se non fossi mai ritornata indietro? Per questo non fissavo lo sguardo troppo a lungo verso la distesa aperta e mi osservavo i piedi nivei e tremolanti, dai contorni confusi a causa dell’acqua.
Era tutto bellissimo. Mi appariva unico, splendido.
Adesso, invece, non vado più al mare. Mi vergogno. Ho paura che il mio corpo sia troppo brutto per essere visto, una massa informe, una linea storta... non voglio che mi vedano senza vestiti, così, nuda sia fuori che dentro: col seno grosso e le cosce enormi, con i peli di troppo, la schiena storta, la pelle chiara. Mi vergogno di me stessa, della mia insicurezza e bruttezza.
(guarda il proprio corpo e poi si siede a terra, al centro del palco vuoto)
LEI: Da bambina mi sentivo bene, ero felice. Avevo così poche paure! Al buio, nelle stanze di casa, l’unico terrore che mi prendeva era quello di avere qualcuno alle spalle, qualcuno che mi sussurrava nenie incantate e parole fatate, ma c’era sempre e solo il silenzio e io, con rapidità impaurita, accendevo la luce bianchiccia. La notte, quando riposavo nel letto a castello, l’incertezza mi prendeva l’animo: cos’era quello che vedevo? Erano assi di legno o, invece, volti di vampiri che aspettavano il mio sonno, prima di mordermi? Forse guardavo troppa televisione, Streghe m’induceva a credere ai mostri delle fiabe...
Che paura potevo avere, se non avevo la percezione di me stessa? Correvo per i prati in fiore, inseguita dal mio cane festante, e sentivo solo l’aria che mi sferzava dolcemente il viso. Non c’erano i cattivi pensieri a braccarmi, non avevo in mente niente al di fuori della felicità genuina.
La possessività e l’invidia mi premevano il cuore, miei difetti da sempre, però solo per un poco, non abbastanza per pensarci.
(sbuffa)
LEI: Adesso le paure sono troppe, hanno le braccia lunghe e forti, mi stringono sino a farmi soffocare. Sono dure a morire – soccombo prima io, sotto il loro peso; non riesco a sconfiggerle, mai mai mai, sono un corpo inerme, una bambola di plastica che viene distrutta, divelta dai loro colpi duri e precisi. Ecco. Che mi rimane? L’aria.
Sono una persona fondamentalmente stupida. Insicura fino allo stremo, non faccio nulla per migliorare la mia situazione, anzi, annego nell’accidia. Sono una noia mortale – ahaha, potrei ucciderti con i miei discorsi vuoti sul cielo; con le mie lamentele perenni – e basta. Mi sto biasimando, lo so, però son capace di fare solamente questo. Naufragando nella pigrizia, le crisi esistenziali mi feriscono profondamente, mi tagliano fino all’osso; rimango sul letto a fissare il soffitto e a non pensare, e mi va bene, mi dico cosa dovrei fare e permango in quello stato d’inerzia, di quiete apparente, quando vorrei gridare al mondo che sono un’idiota patentata, una macchia, un inutile puntino nella terra enorme... eppure questa sfera è così minuscola, nell’universo, che la mia banalità la possiede pure il mondo, perché esso in rapporto alle galassie e alle nebulose è solo un minuscolo dettaglio, una parte dimenticata e nascosta. 
Che noia. Mi sto addormentando io stessa che parlo. Ma cosa dovrei fare, se non discutere di me stessa? Già conoscermi è difficile, figurarsi ciò che mi circonda! È un luogo sconosciuto, all’apparenza una casa piacevole, uno spazio delimitato da case, alberi, strade, il cielo... la città, brulicante di vita morta, è una scatola di plastica dove ci crediamo sicuri – e invece, invece è una trappola per topi che, prima o poi, ci si chiuderà addosso, fino a soffocarci.
(si alza in piedi e passeggia)
LEI: Da bambina sapevo dire l’alfabeto tutto d’un colpo: ABCDEEEEFGHILMNOPQRSTUVZETA. Com’ero veloce, battevo tutti gli altri bimbi. Ero felice, felicissima, di correre e giocare, mi nascondevo dietro un cespuglio e aspettavo che mi trovassero, accarezzavo un cane e la gioia mi si dipingeva sulle guance, poi mordevo un bel pasticcino e la mia lingua assaporava quel dolce gusto, sentendomi unicamente e irrepetibilmente allegra; il mare era una culla in cui dormire beati, il cielo un luogo magico da raggiungere, per volare nell’Isolachenonc’è e a undici anni, finalmente, iscriversi ad Hogwarts... il mondo era una piattaforma spaziale da cui, in futuro, partire verso infinite avventure.
Adesso, sì adesso, la morte mi si è dipinta sul volto. Sono un’adolescente senza capo né coda, una persona a metà, né donna né bambina – una persona uccello, come Peter Pan, forse!, ma è una stupida speranza – e con tono lamentoso sparlo su di me. Affondo in queste parole grigie e cupe.
Che cazzo, dovrei reagire, ma ho paura. Mi sento sola, inadatta al mondo, una ragazza storta che non va bene alla gente – ai suoi simili? Io sono un alieno o un vampiro, ma non di certo un essere umano – e che non va bene al mondo. Sembro un emo. Forse lo sono? Chissà... semplicemente, mi sento imperfetta, inutile, stupida.
Forse lo sono.
(inizia a ballare, ma non c’è musica in sala. Balla per un po’ e poi inizia “I don’t feel it anymore” di Fitzwilliam)
LEI: Insomma, ma quanto ancora devo andare avanti? Perché parlare, se le parole sono veicoli di emozioni, e non sentimenti veri? Sono catene nere che ci stringono la carne... sanguineremo? Sanguineranno?
Io voglio vivere, non pronunciare la mia morte!
Io voglio vivere... mi devo rialzare per questo. Mi devo impegnare per essere migliore, studiare per avere un posto nella scuola, nella società... anche se ne vorrei essere al di sopra, senza di questo non andrò avanti, ma morrò sotto i ponti, al freddo, da sola. E le paure diverranno miei punti di forza.
Io voglio vivere!
E se non mi piaccio, andrò avanti lo stesso, perché questo mio corpo – storto e grasso, brutto – è l’unico che possiedo. L’unica mia certezza, in un mondo grande ma piccolo.
Trionferò.
(si sentono delle campane suonare, tintinnanti, allegre, da festa)
LEI: Mi chiamano, gli angeli sono arrivati. (lancia un’occhiata alla platea e fa segno di fare silenzio, si mette un dito sulla bocca) Che feste c’attendono, signori, quando perderò questo involucro di timore e diventerò intera! Ma sappiate che anche l’essere a metà, in fondo, ha una sua magia: ho la parvenza dell’infinito nelle mie affermazioni assolute.
Addio, addio.
(scompare)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
Così si chiude Notturni. Ho cercato per più di un anno un finale adatto, sapete?, senza trovare una storia che si adattasse a una fine, senza riuscire a inventare una trama, un qualcosa di speciale che potesse concludere questa raccolta a me tanto cara. Poi ho cercato nel computer e ho trovato questa fic. È di più di un anno fa, quindi non è un finale recente, ma è quello perfetto per Notturni.
La notte è il buio dell’anima, in questo dramma teatrale. È una delle cose più autobiografiche che io abbia mai scritto – e quando la scrissi avevo già superato il periodo di tristezza cosmica, figuratevi, ora questo mi appare ancora più distante.
Questo monologo è una delle cose più sincere, più disarmanti, distruttive, brutte e belle che io abbia mai scritto – a mio modesto parere, ovviamente, voi magari la penserete diversamente. Spero che vi piaccia, spero che vi emozioni, spero che anche voi possiate decidere di “vivere” senza porvi troppi problemi.
Nel mio piccolo, spero che questa raccolta vi abbia lasciato qualcosa, sia in positivo che in negativo, un sentimento, un’idea, qualcosa. Scusate la nota d’autore formato papiro.
Kokky

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