When you were born

di sistolina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stormborn ***
Capitolo 2: *** Summerborn ***
Capitolo 3: *** Deathborn ***



Capitolo 1
*** Stormborn ***


NB: questa raccolta non ha la pretesa di raccogliere l'eredità di Martin o di costituire un prequel delle vicende. Come tutti sappiamo la saga è un maestoso progetto al quale Martin stesso dedica da anni tutte le sue energie, e io, povera scribacchina di fanfiction, non ho l'aspirazione di essere all'altezza della sua penna maestosaXD
Tento solo di mettere nero su bianco le sensazioni che la saga prima e il telefilm poi mi hanno trasmesso, cercando di mettere in luce quello che secondo me è parte di un percorso dei personaggi che, lungi dall'avere la pretesa di essere realistico, a mio avviso è possibile.
Chiedo anticipatamente scusa per le imprecisioni, gli errori o le sbavature che chi, più esperto di me, potrebbe trovare fra le righe, ma ho fatto del mio meglio, comunque vada^^
Grazie a tutti e buona letturaXD
 
Stormborn
 
 
You don't want to wake the Dragon, do you?
 
“Ser Willelm è morto” Viserys non avrebbe mai potuto dimenticare il suono di quelle parole, che rimbombavano nel silenzio luttuoso della loro casa a Braavos. Allora era rimasto sorpreso di non provare nulla. In quel momento, nel chiassoso mercato della città libera di Pentos, con la corona di sua madre stretta forsennatamente tra le dita avvolta in uno straccio logoro, si accorse che il dolore, lui, non lo aveva mai conosciuto davvero. Eppure, la morte lo accompagnava da sempre.
La piazza era gremita di persone urlanti, mercanti che si sbracciavano per attirare qualche stolto cliente, prostitute dalla pelle color del bronzo, dai capelli rossi, gli occhi allungati, il sorriso lascivo, marinai, esiliati, signori decaduti e le loro amanti...e un principe. Un Principe Mendicante, al quale la vita aveva strappato la corona. Un principe che avrebbe rubato, ucciso, mentito e frodato, pur di riottenerla.
Daenerys si muoveva silenziosamente accanto a lui, senza lasciare la sua mano, avvolta in un mantello con il cappuccio di stoffa leggera, volta a celare i visi di entrambi da sguardi indiscreti. La strattonò, quando si accorse che stavano rallentando, e il suo viso attirava troppe occhiate da parte dei vecchi ubriachi sdraiati davanti alle locande ancora chiuse.
Percorsero stretti cunicoli nella calura di Pentos, il sole incandescente che filtrava obliquo negli anfratti dei vicoli, fendendo l'oscurità impolverata, attraversando i loro corpi accaldati, ansimanti per essersi lasciati dietro di corsa il chiasso del mercato.
Raggiunsero una casa fatiscente, le pareti graffiate e crepate, il vicolo pieni di escrementi e di avanzi di cibo in putrefazione, animali rabbiosi che si scannavano per un tozzo di pane raffermo, l'odore degli incensi delle case dei ricchi mercanti lontano centinaia di leghe, in quella povertà senza nome dall'odore di merda e marciume.
L'uomo li attendeva sulla soglia, elegantemente abbigliato nello stile di Pentos, un sorriso soddisfatto sul volto rotondo della ricchezza, il ventre ricoperto di sete pregiate, le tozze mani colme di anelli e lo sguardo viscido illuminato di divertimento. I suoi occhi scuri e allungati indugiarono su Daenerys per molto più di un istante, e avvertì la piccola mano di lei serrarsi selvaggiamente nella propria.
Estrasse da sotto il mantello il fagotto che stringeva febbrilmente fra le dita
Non qui ragazzo – lo ammonì l'uomo, con un pesante accento di Pentos, nella lingua comune che parlava fluentemente – non è sicuro – li condusse con passo rapido, anche troppo, per un uomo della sua stazza, all'interno della casa finemente arredata, ricoperta di tessuti preziosi, mobili di pregiata fattura e marmi rosa chiaro. Fu quasi irreale per Viserys aprire gli occhi di fronte ad una tale meraviglia nelle pieghe putrescenti di Pentos. Si sedette mollemente su una montagna di cuscini damascati, e indicò loro un gustoso banchetto – Servitevi – avvertì nuovamente la stretta di sua sorella fra le dita, ma lui strinse più forte, quasi stritolandole la mano nella propria. Stava per vendere la corona di sua madre, l'ultimo gioiello della sua famiglia, per sopravvivere: non avrebbero mendicato anche il loro maledetto cibo.
Si morse il labbro a sangue, avvertendo i morsi della fame contrargli il ventre disperatamente vuoto, ma non cedette, schiantando i suoi occhi viola pallido in quelli scuri e baluginanti dell'uomo
Facciamo in fretta –
 
Flashback************************************************
 
Into the night,
desperate and broken.
The sound of a fight,
father has spoken.
 
Si abbracciò le ginocchia dondolando avanti e indietro, ritmicamente, violentemente, tremando in sincrono con i tuoni che esplodevano nella tempesta. Lui non amava la pioggia. Lui era il sangue del drago, lui era fiamma viva e ardente, lui era il fuoco che avrebbe spazzato via l'Usurpatore. L'acqua non piaceva ai draghi.
E nemmeno a Viserys Targaryen.
Un tuono squarciò il ritmico e continuo scrosciare della pioggia, scuotendo il suo corpo dalla radice dei capelli venati d'argento fino alla punta delle scarpe ricamate con raffinati merletti di Myr. Stoffa leggera rivestiva il principe dei Draghi, mentre il mondo attorno a lui tremava squassato dalla tempesta.
Le fiamme delle maestose candele disseminate per la stanza tremolavano nel buio, lanciando riflessi baluginanti nella semioscurità e sulla sia figura di bambino raggomitolata contro il muro. Non avrebbe pianto; suo fratello Rhaegar non avrebbe avuto paura. Suo fratello Rhaegar era coraggioso, e forte, temuto e rispettato da tutti, amato, perfino. Ma suo fratello era morto, ucciso dall'ascia di Robert Baratheon l'Usurpatore. E sua moglie, Elia di Dorne, e i suoi figli, Rhaenys e Aegon, erano morti anche loro.
Anche lui voleva essere amato, indossare una corona e sedere sul Trono dei Sette Regni.
Ma lui era solo un principe nato maschio quando il regno di suo padre aveva bisogno di una bambina. Così aveva detto Aerys quando era venuto al mondo, per questo non lo degnava mai di uno sguardo, per questo l'unica persona al mondo che lo amasse era sua madre. La sua mamma, Rhaella, la donna più bella dei Sette Regni. Era così, per lui, era questo che pensava quando gli occhi violetti di sua madre lo guardavano sorridendo, quando gli accarezzava la testa sconsolata, perdendo lo sguardo oltre la finestra aperta sul Mare Stretto. Sfiorava lui con una mano, e serrava le dita dell'altra sul ventre prominente che pareva sul punto di scoppiare sotto le sete fruscianti del colore dei lapislazzuli. Ma sua madre non poteva vederlo, perché i suoi meravigliosi occhi viola erano ciechi da tempo, e non poteva vedere nemmeno il mare che si estendeva per miglia e miglia contro l'orizzonte.
Le urla di lei, che squarciavano perfino il fragore della tempesta, facevano tremare il suo corpo più della paura.
 
We were the kings and queens of promise.
We were the victims of our selves.
Maybe the children of a lesser god,
between Heaven and Hell.
Heaven and Hell.
 
La sua mamma urlava, e urlava, e urlava così forte e a lungo, che Viserys temette che il maestro e la levatrice la stessero scuoiando invece di salvarle la vita. Ma forse lei sarebbe nata, la lei che tutti aspettavano da tempo, la Regina dei Draghi. Forse una bambina avrebbe fatto cessare quella tempesta, e suo padre avrebbe smesso di lasciarli confinati in quell'orribile posto le cui fondamenta tremolavano ad ogni sbuffo di vento. Roccia del Drago era cupa, triste, il silenzio rotto solo dal gracchiare dei corvi messaggeri che si vestivano a lutto, portando notizie nere di morte dalla capitale. Rhaegar, Elia, Rhaenys e Aegon, e anche suo padre, Viserys, assassinato dalla spada di uno dei suoi uomini più fidati.
Se nemmeno il grande Aerys Targaryen, secondo nel suo nome, era riuscito a tenere stretto il trono fra le sue forti e possenti mani, e il Cavaliere del Drago, suo fratello Rhaegar, non era sopravvissuto all'attacco dell'Usurpatore, come avrebbe potuto lui, il Meno Amato, il bambino nato maschio portatore di morte, colui che non era mai stato destinato al trono, regnare sui Sette Regni?
Forse, se Viserys fosse stato una femmina e avesse sposato suo fratello, sua madre non avrebbe pianto in continuazione, e Rhaegar non sarebbe andato in guerra, e la sua famiglia avrebbe regnato in pace per altri trecento anni.
Ma lui era un maschio, e la tempesta infuriava fuori dalla finestra che dava sul mare nero e gonfio di pioggia rabbiosa.
Un altro urlo, infinitamente lungo e disperato, accompagnò il tuono che seguì con sconcertante precisione.
Si premette le mani sulle orecchie così forte che la testa parve scoppiargli, ma le urla non cessarono, non cessarono per tutta la notte.
Le candele di sego sembrarono non consumarsi mai, tremolando con le urla e i tuoni, in una danza dolorosamente affascinante, finché qualcuno, finalmente, si curò di lui.
Una magra e vecchia septa, scossa da un tremito continuo alle mani e alla testa, spalancò la massiccia porta di legno della sua camera da letto, così lorda di sangue che Viserys temette per un attimo che qualcuno avesse attaccato Roccia del Drago per ucciderli tutti. Ma quel sangue non apparteneva alla donna grinzosa che lo scortò in silenzio fino alle stanze di sua madre. E non apparteneva nemmeno al nemico che un valoroso cavaliera aveva ucciso per proteggerli. Quel sangue apparteneva a Rhaella, alla Regina dei Sette Regni, alla sua mamma.
 
Into your lies,
hopeless and taken.
We stole our new lives,
through blood and pain,
in defense of our dreams.
In defense of our dreams.
 
Serrò le palpebre violentemente, per non vedere le lenzuola imbrattate, il viso terreo e scavato di lei, i suoi occhi chiusi, spaventosamente chiusi.
Si avvicinò lentamente, soffocato dalla paura e dall'orrore, e le scostò i capelli intrisi di sudore dalla fronte.
Molte persone lo osservavano nell'ombra della stanza, poteva avvertire i loro respiri pesanti attorno a sé, che lo studiavano, lo pesavano, lo misuravano, e lo trovavano mancante. Il regno era alla deriva, la regale stirpe dei suoi padri stava per essere sterminata, e un bambino aveva in mano il loro futuro.
Solo un bambino.
Ma lui non era solo un bambino, disse a se stesso serrando i denti a forza, spostando lo sguardo viola pallido sui visi in ombra che lo circondavano. Lui era il Sangue del Drago, lui sarebbe stato re.
Rizzò la schiena, abbassando lo sguardo sul viso immobile di sua madre. Anche lei era morta. Ma lui era vivo, era coraggioso, e si sarebbe seduto sul trono che gli apparteneva di diritto. Lui, il Meno Amato, colui che sarebbe per sempre rimasto nell'ombra di un fratello invincibile, sovrano dei Sette Regni.
Poi accadde: un flebile pianto riempì la stanza come una melodia sconnessa, risvegliando i presenti dal loro luttuoso letargo, in un cupo respiro di dolore. Willelm Darry si avvicinò, impeccabile nella sua armatura lucente che emanava riflessi scarlatti tutt'intorno, e gli porse un fagotto di lenzuola ripiegate accuratamente su se stesse. E Viserys la vide, per la prima volta, la lei che tutti avevano atteso. Emetteva flebili suoni infantili, ormai lontani dal pianto, e agitava le piccole mani davanti al viso, cercando di afferrare la treccia di Viserys che le penzolava davanti agli intensi occhi viola dei Targaryen.
Daenerys – mormorò Willelm Darry guardandolo intensamente negli occhi – Daenerys Targaryen, Nata dalla Tempesta – un fulmine squarciò il cielo, suggellando quella promessa, poco prima che un tuono sconquassasse il tetto sulle loro teste. Gli altri sobbalzarono, chi reggendosi il petto, chi imprecando a bassa voce, chi mugolando preghiere ai Sette Dei.
Ma Viserys Targaryen non si accorse neppure della pioggia, del vento, dell'infrangersi tonante delle onde contro la costa pietrosa. E nemmeno Daenerys, persa com'era nel tentare vanamente di afferrare il suo fermaglio di drago. Per un attimo i loro occhi viola si persero l'uno nell'altro, poi qualcuno tossicchiò, e la septa sdentata si avvicinò a loro, sfiorandogli la spalla
L'Usurpatore sta arrivando – disse in un sussurrò di gengive molli e labbra tremolanti.
Visery la freddò con uno sguardo ostile, strappando la bambina dalle braccia di ser Willelm Darry
E noi lo fermeremo – ribatté con decisione, circondato da un cupo e amaro silenzio. Il cavaliere scosse la testa, gli occhi offuscati dal dolore
Dobbiamo portarvi in salvo, Maestà – Viserys indietreggiò rabbiosamente
NO! - urlò, serrando la presa attorno al fagotto di lenzuola – Io sono il Sangue di Drago, io non fuggirò. Combatteremo, e salveremo il mio trono dall'esercito dell'Usurpatore! – sentì la rabbia montare violentemente come le maree dell'autunno, frantumando ogni cosa al proprio passaggio. Daenerys emise un verso tremolante, sfiorandogli la tunica ricamata con un drago dorato. La septa lo fissò con sguardo paziente, e ser Willelm Darry scosse la testa nuovamente, piano, controllato
Maestà – Viserys si allontanò, sbattendo addosso ad un uomo corpulento appoggiato alla parete.
Indietreggiò, la bambina che si agitava fra le braccia, e si lasciò cadere contro il corpo freddo di sua madre. La sua corona finemente lavorata, sulla quale splendevano pietre grosse come noci dell'estate, rilucenti, che riflettevano le fiamme liquide delle candele, a danzare nei suoi occhi viola. L'accarezzò, sentendo il caldo sentore delle lacrime a gonfiargli la gola, ma non cedette, non lasciò che vedessero. Serrò le dita attorno alla corona e la strinse al petto. Erano finiti, tutto era finito.
Ma lui sarebbe stato ancora in re, in qualunque posto quell'uomo avesse deciso di portarlo. Finché avesse avuto la sua corona, i gioielli della sua famiglia, e il sangue di drago nelle vene, nessun uomo sarebbe mai stato davvero il re.
Una servetta di sua madre, dal fisico minuti e lunghi capelli neri e lavati da poco, si avvicinò a Willelm Darry, salendo sulle punte dei piedi per sussurrargli qualcosa all'orecchio. L'uomo annuì seriamente, sospirando. Poi si voltò, e non ci fu più traccia di rispetto reverenziale né pacatezza nel suo sguardo ombreggiato da folte ciglia grige.
In quel momento, Viserys seppe che quell'uomo li avrebbe condotti in salvo, con o senza la sua approvazione.
Daenerys gli afferrò finalmente la treccia, avvicinandola a sé e affondandovi il viso. Un istante, un mugolare lento e regolare, cadenzato, li cullò nel silenzio tetro delle decisioni.
Poi un altro tuono scosse il cuore stesso della terra.
 
The age of man is over.
A darkness comes and all
These lessons that we've learned here
have only just begun!
 
Fine flashback*****************************************************************
Viserys estrasse la corona dal pastrano logoro in cui era avvolta, e le pietre scintillarono nella luce come occhi di drago, rimbalzando sui marmi in un pirotecnico gioco di luci. L'aveva lucidata così a lungo da farsi venire le vesciche alle mani, ma l'effetto fu spettacolare: gli occhi dell'altro si gonfiarono di brama, e le sue mani grassocce tremolarono di cupidigia.
Sentì solo vagamente Daenerys sospirare profondamente, perso com'era nell'ammirare la collana di sua madre risplendere nella luce calda del tramonto. Aveva promesso a se stesso che non avrebbe esitato, non si sarebbe mostrato debole agli occhi di quel grasso mercante dalla lingua sciolta, eppure, mentre le sue dita formicolanti e perennemente in movimento sollevavano l'ultimo pegno regale che la sua famiglia distrutta gli aveva lasciato prima di essere sterminata dall'Usurpatore, un lampo di ripensamento gli colorò gli occhi viola pallido. Era il Sangue Del Drago, era il legittimo erede al trono dei Sette Regni, e stava vendendo la sua stirpe per un letto dove dormire.
Serrò la mandibola, e lo sguardo, diretto all'uomo panciuto a pochi passi da lui, che non aveva ancora smesso di fissare Daenerys con una punta di desiderio negli occhi neri e allungati
E' magnifica – sussurrò grattandosi il mento sporcato da un unto pizzetto arricciato – sembra forgiata dai draghi stessi della Valyria -
“Lei no” disse a se stesso Viserys mentre deglutiva il vuoto “ma io sì, e verrò a cercarti per tagliarti la gola e riprendermi la mia corona, quando diventerò re”, ma rispose semplicemente
Vale ogni libbra d'oro – non la lasciò nelle mani del mercante. La tenne stretta fra le dita fino all'ultimo istante, finché riuscì ad artigliarla, a sfiorarla, a sentire la consistenza dell'acciaio di Valyria contro i polpastrelli, finché l'antica stirpe dei Targaryen racchiusa in quelle pietre lucenti e in quegli intarsi lavorati a mano fu a contatto con la sua pelle.
La lasciò andare con un ultimo, disperato, gesto, e abbassò lo sguardo sulle sue calzature logore e i piedi ricoperti di polvere chiara. Non lo guardò mentre accarezzava la corona di sua madre, faceva correre le dita tozze su ogni anfratto della lavorazione, sull'incastro delle gemme, all'interno delle complicate ed eleganti pieghe dell'acciaio. Tenne lo sguardo piantato sul marmo rosa, e strinse la mano di Daenerys finché non la sentì gemere di dolore, e anche dopo. Che soffrisse, che piangesse, che desiderasse la morte; che patisse lo stesso tormento che dare via quella corona stava infliggendo a lui.
Daenerys era l'ultimo nodo che lo teneva legato ai Sette Regni, l'ultimo afflato di una speranza consumata da anni di fughe e di accattonaggio, umiliazioni e implorazioni inutili. Daenerys, nelle cui vene scorreva il suo sangue, il sangue dei draghi, era l'ultima Targaryen che gli rimaneva. Lei, che così impietosamente, venendo al mondo, ne aveva sterminata un'altra. Lei, per cui Rhaegar aveva sposato Elia di Dorne, per cui Aerys li aveva confinati a Roccia del Drago, per cui sua madre era morta.
Per lei, una ragazzina spaventata e inerme che valeva quanto la merda dei draghi. Valeva solo perché donna, solo perché graziosa, solo finché la sua verginità di discendente dell'antica Valyria aveva ancora significato per qualcuno.
 
We were the kings and queens of promise.
We were the victims of our selves.
Maybe the children of a lesser god,
between Heaven and Hell.
 
Un sacco straripante d'oro si schiantò ai suoi piedi, facendolo sobbalzare. Alzò lo sguardo sul mercante, che aveva già riposto la corona al sicuro, dove nemmeno il suo ripensamento avrebbe più potuto recuperarla. Daenerys trattenne il respiro, e si portò una mano alle labbra.
Lui serrò così violentemente la mandibola da sentire scricchiolare i denti.
Il Re Mendicante, lo chiamavano nelle città libere, deridendolo, insultandolo, sputando sul suo sangue e sulle sue origini. Quel giorno, Viserys Targaryen divenne davvero un mendicante.
Aveva promesso a se stesso che fino a che avesse avuto il suo sangue e la sua corona, nessun uomo avrebbe potuto rubargli il trono.
Allora, in quella stanza dai marmi pregiati e i morbidi tappeti, con la mano di Daenerys spasmodicamente stretta nella propria, gli rimase solo il Sangue di Drago.
 
I am blood of the dragon.
I am Daenerys Stormborn, Princess of Dragonstone,
of the blood and seed of Aegon the Conqueror.
 
__________________________________________________________________________________________________
 
Angolo della delirante autrice: buonasera a tutti!!!
Innanzitutto vi ringrazio per avermi concello l'onore di leggere questo mio lavoro senza pretese...è nato da un impulso improvviso, ma ho ponderato a lungo se scriverlo o meno, e alla fine ho ceduto alla tentazione^^
Spero che ne sia valsa la pena, almeno lontanamente...
Non so quando scriverò la prossima, spero a breve, ma ci tenevo a postare questa per l'immagine che io ho sempre avuto di Viserys, condivisibile o meno che sia, e del modo in cui la sua vita ha cambiato quello che era e il suo rapporto con Dany...ditemi voi che impressioni avete avutoXD
La canzone che ho inserito è King & Queens dei 30 Second To Mars, che potete vedere qui 
mi è sembrata calzante^^
Alla prossimaXD

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Capitolo 2
*** Summerborn ***


Summerborn

 
“What’s your story, bastard?”
“Ask me nicely and maybe I’ll tell you, dwarf.”
 
Jon strinse fra le dita il messaggio, frantumandolo nel palmo della mano, come se avesse potuto cancellare così anche la verità di quelle parole. “Ali oscure, oscure parole”, disse a se stesso mentre, con fatica, spalancava rigidamente le dita ustionate della mano destra, la mano della spada, abbassando gli occhi sulla pergamena accartocciata che, silenziosamente, tentava di riaprirsi di nuovo davanti ai suoi occhi.
Suo padre era stato catturato e accusato di tradimento, e Robb aveva richiamato gli stendardi per scendere ad Approdo del Re e riportarlo indietro.
 
Veramente vivo in tempi bui
e non è per rovinarti il pranzo
che ti dico arriva la marea
e la tu la scambi per entusiasmo
 
E lui era lì, inchiodato al Castello Nero, a cuocere le dannate salsicce nere per il Vecchio Orso, e rammendare le sue tuniche, e portargli il maledetto vino speziato, e guardare il mondo da sopra la dannata Barriera di Ghiaccio, gli occhi inchiodati sulla sconfinata foresta, i suoi pini soldato, le sue distese di neve immacolata, i suoi Estranei, e i suoi bruti in marcia verso i Sette Regni.
E suo fratello aveva dichiarato guerra ai Lannister.
Smise di lasciare che quelle poche parole, vergate con calligrafia sottile e decisa, lo schernissero impunemente dal palmo della sua mano ustionata.
Gettò la pergamena contro il muro, serrando quella stessa mano a pugno, avvertendo il solito fastidio alle dita rigide e coperte di cicatrici sotto i guanti pesanti. La mano della spada si contrasse su se stessa fino a che, ne era certo, le nocche non furono bianche a contatto con la pelle del guanto.
Imprecò, con quella strana e ruvida noncuranza dei suoi confratelli, avvertendo il bisogno di avere su di sé lo sguardo severo ma giusto di suo padre.
Aveva bisogno di molte cose, Jon Snow, il bastardo di Grande Inverno, e non avrebbe avuta nessuna.
Se non un giaciglio di paglia, vento gelido, notti insonni, e l'onore di un Confratello della Notte che lo incatenava al suo posto su quella maledetta Barriera di ghiaccio, l'unica cosa al mondo a separarli dal caos.
 
veramente vivo in tempi bui
e non ho nulla di cui preoccuparmi
perchè son diventato buio anch’io
ma di notte sono uguale agli altri
 
 
Flashback*******************************************
 
Le spade di legno si scontrarono nell'uggioso tramonto di Grande Inverno: la neve dell'estate si scioglieva sui tetti, gocciolando ritmicamente sulle ringhiere di legno, con quel suono musicale che a lui era familiare come l'odore freddo dell'aria; la nebbia umida gli si appiccicava ai capelli scuri circondando il cortile come una magia, isolando lui e suo fratello nel gelo irreale del Nord. Il sole, un disco luminescente ormai frastagliato dietro le pesanti nubi che incoronavano le colline, moriva silenziosamente, lanciando rossi raggi obliqui sul terreno umido e odoroso di terra bagnata del cortile del castello.
Robb, nella sua calda e spessa divisa da addestramento di cuoio trattato e pelliccia, reggeva la sua spada a due mani, come il Lord loro padre, e mulinava fendenti a destra e manca con espressione grave. Era sempre terribilmente serio quando si allenavano nel cortile di Grande Inverno, come se gli occhi di lord Eddard Stark fossero sempre inchiodati su di loro, anche quando lui non era lì.
Entrambi sentivano su di sé l'occhio severo ma giusto del padre, anche se per motivi diversi: per Jon era il bisogno di dimostrare che, a discapito di quel nome infame che portava, era degno di essere uno Stark. Per Robb era diverso, suo fratello doveva essere all'altezza del nome che portava, come Jon, forse più di Jon, perché lui era, e sarebbe sempre stato, sotto processo.
Jon serrò la presa attorno all'elsa scivolosa della spada, le palme sudate che per poco non la lasciarono cadere sotto gli attacchi non più troppo giocosi di suo fratello.
Amava Robb, anche se la loro madre non era la stessa. Anche se lui, Jon, non avrebbe mai ereditato nemmeno una zolla d'erba delle terre di suo padre. E Robb lo amava anche se era un bastardo, e lady Stark cercava di riempirgli la testa di sciocchezze sul diritto di successione e sul suo dover essere Lord e Protettore del Nord quando suo padre non avrebbe più potuto farlo.
Jon Snow, al massimo, avrebbe potuto restare a guardare mentre si sposava e diventava il Lord di Grande Inverno, un vassallo fedele e un signore giusto, valoroso, amato e rispettato.
Ma lui voleva bene comunque a suo fratello, anche quando caricava come un toro e per poco non lo mandava a schiantarsi contro il muro delle stalle.
 
e mi cambierò nome
ora che i nomi non valgono niente
non funzionano più
da quando non funziona più la gente
 
 
Deviò all'ultimo secondo un affondo e roteò su se stesso, colpendo il polso di Robb con un fendente obliquo più forte di quanto avrebbe voluto. Suo fratello lasciò andare la spada, d'istinto, lanciandogli uno sguardo torvo. Il rumore del legno che cadeva a terra sembrò echeggiare intere ore nel silenzio del cortile, rotto solo dal gracchiare dei corvi lo starnazzare delle oche che si rincorrevano accanto al recinto.
Poi Jon sollevò l'angolo destro della bocca
E Lord Jon di Grande Inverno vince il combattimento! - gli occhi azzurri di suo fratello, così simili a quelli di lady Catelyn, lo squadrarono ombrosi. Robb raccolse la spada e si avviò lentamente verso il grande baule in legno che conteneva le armi smussate per gli addestramenti. Lasciò cadere rabbiosamente la sua fra le altre, ammaccate, vecchie, scheggiate, e afferrò un arco lungo appoggiato all'umido muricciolo di pietre che costeggiava il cortile. Era troppo basso, ancora, e le sue braccia troppo deboli, per tenderlo a sufficienza, eppure Robb Stark sembrò sfidare la legge stessa della natura, e tentò d'incoccare una freccia, inutilmente; il dardo cadde mollemente a terra, sfiorando a malapena il terreno fangoso con la punta, prima di accasciarsi in una pozzanghera maleodorante ai suoi piedi.
Jon si lasciò sfuggire una risata strozzata, ma lo sguardo torvo dell'altro si accese di rabbia
Tu NON SEI il lord di Grande Inverno – sussurrò a denti stretti sotto la cascata dei suoi ricci rosso scuro. Le spalle erano rigide di furore, e tremava come se avesse freddo; ma Jon aveva visto quello sguardo centinaia di volte incastonato nel viso della lady sua madre, e sapeva riconoscere la rabbia quando la vedeva. Era solo un bambino, anche Robb lo era, ma sarebbero stati uomini presto, e presto entrambi avrebbero dovuto rassegnarsi al destino che gli dei del nord avevano riservato loro.
Suo fratello non voleva ferirlo, non più di quanto Jon avesse voluto fare del male a lui con le sue parole, ma entrambi erano consci della verità , come del vento che spirava dalla Foresta del Lupo, la notte, muovendosi fra gli alberi come uno spirito, in un coro di ululati che non apparteneva interamente agli animali. Jon era un bastardo, non una sola pietra scheggiata di Grande Inverno gli sarebbe mai appartenuta veramente, e Robb era il primogenito, l'orgoglio del lord loro padre e della lady sua madre, ma era ancora l'unico figlio maschio della Casa Stark, e questo terrorizzava tutti, perfino mastro Hullen, il loro stalliere. Lì, nel clima rigido dell'estate del Nord, un solo erede maschio avrebbe potuto costare agli Stark Grande Inverno e il Nord.
Un grido terribile ingoiò il teso silenzio che aleggiava fra loro; gli occhi di Robb avevano vagato a lungo verso le stanze di sua madre, durante tutto il giorno, fino a quella sera più calda delle altre, in cui il fiato si condensava a malapena davanti alle loro bocche. Lady Catelyn era rinchiusa là da ore, assieme alle servette, vecchia Nan e maestro Luwyn, e, anche se le sue grida raggiungevano a malapena il cortile, soffocate com'erano dagli spessi muri di pietra di Grande Inverno, Jon aveva parlato più forte, e Robb aveva voluto allenarsi più a lungo, pur di non sentire la madre soffrire dando alla luce un altro dei suoi figli.
Sansa e Arya erano venute al mondo quasi silenziosamente, osservò Jon mentre sollevava gli occhi grigi, malgrado tutto, degli Stark, verso la torre. Ma questo figlio...sembrava che lady Catelyn urlasse da giorni interi, tanto era incrinata la sua voce, tanto erano disperate le sue urla. Jon non l'amava, lei lo tollerava a malapena, e aveva uno sguardo diffidente e ostile ogni volta che lo incontrava, ma non avrebbe mai augurato a nessuno di provare un simile dolore, nemmeno se la donna lo avesse fatto fustigare ogni giorno fino alla fine della sua vita.
E Robb sentiva quelle grida ancora più forte di lui, come se gli penetrassero nella mente, gli artigliassero il petto e tentassero di strapparglielo via.
Si lasciò sedere contro il muro, disegnando con la punta della freccia, a labbra serrate, strani ghirigori nella terra fangosa; il primo sembrò un lupo, il secondo un corvo, il terzo una lama insanguinata, poi tutto si mescolò nella poltiglia che era il terreno, cancellando il senso a quelle linee curve, e trasformando quegli schizzi in spaventose immagini di dolore e morte. Jon chiuse gli occhi, serrando le palpebre con tanta violenza da veder lampeggiare luci bianchi nell'oscurità.
Tenne gli occhi chiusi finché non sentì la freccia spezzarsi fra le dita chiuse a pugno di suo fratello
Perché deve fare tanto male? - sussurrò con gli occhi blu dei Tully piantati nel terreno fangoso.
Jon sollevò lo sguardo verso il cielo all'imbrunire, la nebbia quasi confortante del Nord, le nubi che si rincorrevano pigramente nella brezza della sera che si avvicinava, fredda e rincuorante, famigliare come la voce degli uomini di suo padre che si allenavano in cortile, scambiandosi parole di scherno e risate.
Scosse la testa
Chissà se a mia madre ha fatto male... - si lasciò sfuggire quelle parole mentre un altro straziante urlo di dolore squarciava il silenzio ovattato del castello. Robb non le udì, o forse non volle udirle. Non aveva senso parlare di una donna che forse nemmeno esisteva più, quando sua madre soffriva a pochi metri da lui.
Jon si limitò a sospirare, tirando un sasso al centro del cortile, che rimbalzò un paio di volte prima di rotolare sotto lo stivale di Mikken, il possente fabbro dalla voce tonante
E' nato – disse semplicemente, con un brusco sorriso, sputacchiando a terra.
Robb scattò in piedi, facendo correre lo sguardo dalla torre a Jon, a Mikken, finché non sembrò perdere l'equilibrio. Poi si precipitò nel castello, sciaguattando nelle pozzanghere del cortile.
Jon rimase fermo, incerto se muovere il primo passo. Le altre volte era stato lord Stark a mandarlo a chiamare per visitare le sue sorelle appena nate. Le altre volte la voce di Eddard aveva soffocato i lamenti di sua moglie, e a Jon era stato concesso di vedere le sue sorelle. Non ricordava nemmeno di Sansa, ma aveva un cristallino ricordo della testa glabra di Arya e dei suoi grandi occhi spalancati. E del frastuono dei suoi pianti notturni, quando l'intero castello dormiva e le sue grida potevano sciogliere il ghiaccio della Barriera.
Ma quella volta, quella volta presentarsi nelle stanze del lord sua padre e di sua moglie avrebbe significato entrare a forza in quella famiglia, sfondare una porta impossibile da chiudere.
Se fosse entrato in quella stanza di sua volontà, avrebbe imposto agli Stark la sua esistenza, senza che nessuno di loro, potesse più fingere che Jon Snow non fosse figlio del lord di Grande Inverno tanto quanto gli altri.
 
mi cambierò nome
ora che i nomi non cambiano niente
non funzionano più
da quando non funziona più la gente…
 
 
 
Robb si voltò, allargando le braccia con impazienza
Devo venire lì a prenderti fratello? - i suoi grandi occhi Tully lo squadrarono con determinazione e divertimento insieme. Sapeva essere testardo come un mulo, Robb Stark, ma anche farlo sentire interamente suo, come se a separarli non ci sarebbe sempre stata una madre sconosciuta. Jon si strinse nelle spalle, impiastricciandosi di fango le punte degli stivali di cuoio trattato. Poi sollevò i suoi occhi grigi sull'altro, e annuì, seriamente.
La camera da letto di suo padre sembrava un campo di battaglia: ovunque si aggiravano persone, intente nelle più disparate attività, con catini d'acqua insanguinata in mano, pezzuole di lana grezza, lenzuola macchiate di un inequivocabile colore rosso. Maestro Luwyn era ancora accanto a lady Stark, assicurandosi con sguardo saggio che nessuno la affaticasse troppo.
Sansa e Arya erano rispettivamente alla testa e ai piedi del grande letto coperto di pellicce, e osservavano la loro madre con due sguardi completamente differenti: la prima era terrorizzata, la seconda, piccola e dai capelli annodati e fuori posto, osservava la donna come se avesse avuto tra le braccia un rospo anziché un bambino. Si voltò verso una delle servette, tirandole la gonna con insistenza e dicendole qualcosa che Jon non comprese, la voce coperta dal frastuono dell'attività e il chiacchiericcio che si diffondeva rapidamente da una persona all'altra, come se un periodo di lutto fosse finito, e a tutti fosse concesso, finalmente, il diritto di danzare.
Lady Catelyn appariva prosciugata di ogni goccia di vita, ma sembrava stare bene: sorrideva, sotto la cascata di capelli fiammeggianti come ciliegie mature, di quel rosso scuro e sanguigno che nessuno dei suoi figli aveva ereditato così com'era, ma diluito dalle più diverse sfumature. I suoi grandi occhi blu scrutavano quel piccolo fagotto con amore intenso e protezione, addolcendosi in quel modo che Jon sapeva non avrebbe mai riservato a lui. Come potevano, quegli stessi occhi, scrutarlo come se sperassero di vederlo sparire per sempre nel folto della foresta? 
 
e mi cambierò nome
per passar le dogane e gli inverni
andrò sempre più giù
dove non serve tenere gli occhi aperti
 
 
Pensò a sua madre, cercò di ricordare i suoi lineamenti, ma i visi delle servette, e quello di Catelyn Tully si sovrapponevano in un perverso gioco di ombre, senza portare a nulla; e pensò a Theon Greyjoy, che lo insultava chiamando sua madre “puttana”, e lo derideva, chiamando lui “bastardo”. Pensò che odiava quel suo ghigno soddisfatto ogni volta che Robb lo sconfiggeva a duello, lo metteva a sedere nel fango, o era più bravo di lui a cavalcare fino ai margini della foresta.
Disprezzava intensamente Theon: figlio del signore ribelle delle Isole di Ferro, preso in ostaggio da suo padre poco dopo aver sedato la rivolta, l'erede di Balon aveva la cattiva abitudine di farsi detestare da tutti, e di amare le ragazze più di quanto non fosse fedele a lord Eddard.
Ma perfino il sangue stesso di un ribelle, era meglio accetto di lui. Theon Greyjoy non scatenava in Lady Stark lo stesso disprezzo di Jon.
Quando la donna sollevò gli occhi su di lui, parve rabbuiarsi.
Jon abbassò lo sguardo, addossandosi silenziosamente alla parete, sentendo chiaramente quella stanza richiudersi davanti a lui, in una felicità e in un orgoglio di cui non avrebbe mai fatto parte. Poco importava che fosse lì, che potesse scrutare nella semioscurità il corpo appena nato del bambino che si agitava fra le braccia di lei, Jon Snow non sarebbe mai stato uno Stark, e avrebbe continuato a guardare quella famiglia da dietro l'eterna foschia di Grande Inverno, gli occhi offuscati e la voce ovattata che si perdeva nella notte.
Indietreggiò di un passo, e sbatté contro una gamba forte fasciata da stivali neri sopra il ginocchio. Suo zio Benjen, il viso affilato e gli stessi occhi grigi di Jon, gli sorrise da dietro la barba fitta
Te la dai a gambe figliolo? - Jon arrossì, colto in flagrante
Io non... - esitò; Benjen, ranger dei Guardiani della Notte, era il suo parente preferito, ma era pur sempre il fratello di suo padre, e lui non avrebbe parlato con lui di quello che provava. Non ne avrebbe parlato con nessuno, seppellendo la propria solitudine sulla punta di una spada di legno.
L'uomo gli poggiò una mano sulla spalla, stringendo delicatamente; era incredibilmente elegante e aggraziato per essere alto e coperto di pelliccia e cuoio trattato. I guanti neri scricchiolarono lievemente, emanando un odore confortante nelle narici di Jon. C'era, da qualche parte, qualcosa di famigliare a Grande Inverno.
Coraggio – disse Benjen sospingendolo verso il grande letto – non potrà essere più difficile per te che per lady Stark no? - Jon avvertì le gambe muoversi, le persone davanti a lui farsi da parte, il baldacchino avvicinarsi, il fuoco scoppiettare da qualche parte, maestro Luwyn borbottare qualcosa a vecchia Nan, ma in quel momento, la sola cosa che riusciva a vedere e sentire su di sé, era lo sguardo d'acciaio di suo padre, in piedi accanto a lady Catelyn, con una mano stretta alla testiera intarsiata del letto, e l'altra sulla spalla di lei, le dita che roteavano sulla pelle di sua moglie disegnando complessi ghirigori simili a rune sulla pelle pallida.
Una scintilla attraversò i suoi occhi grigi, identici a quelli di Jon, ed entrambe le mani si mossero, prendendo tra le braccia il fagotto di pellicce dalla presa delicata di Catelyn.
Jon fece un passo indietro, senza pensare, ma incontrò solo il solido corpo, che gli bloccava ogni via di fuga.
Arya succhiava un lembo del suo pesante abito, gli occhi sbarrati e ridenti, mentre Sansa era troppo concentrata a pettinare con le dita i capelli di lady Stark. Robb gli si avvicinò, gli occhi rivolti al fagotto di coperte che si avvicinava inesorabilmente
Brandon Stark – disse Eddard con la sua voce profonda. Non sorrideva, era rarissimo vederlo sorridere, ma nei suoi occhi brillava una luce inestinguibile di gioia e orgoglio – tuo fratello – lo disse morbidamente, come se desiderasse dirlo da tanto tempo, ma come se questo lo turbasse profondamente.
Un paio di occhi grandi e vigili lo scrutarono in un corpo minuscolo. Il bambino lo guardava serio, concentrato. Allungò una mano bianca, dalle striminzite dita che si agitavano, e gli sfiorò la tunica sporca di fango, emettendo strani mugolii.
Dall'alto dei suoi sette anni, Jon Snow lo guardò con la fronte aggrottata, sollevando una mano.
Subito, le piccole dita dell'altro si serrarono attorno al suo pollice, in una stretta che lo fece quasi sobbalzare. Bran emise una suono gorgogliante, schioccando la lingua, un suono che sembrò colmare l'aria per intero, diventando quasi palpabile, udibile e visibile.
Poi gli occhi di Jon furono in quelli dell'altro, innaturalmente saggi e profondi per appartenere ad un bambino così piccolo, e una muta intesa nacque fra loro, un filo sottile che avrebbe travalicato anni e miglia. Anche il destino, forse.
 
veramente vivo in tempi bui
e ora son diventato buio anch'io
che cos’hai tu da brillare tanto
 
 
Robb rise piano, accarezzando il viso di suo fratello con un dito dalle unghie mangiucchiate. Arya smise di succhiare il lembo consunto del suo abito e lo guardò, con la bava che le scivolava sul mento, intensamente. Il corpo solido di suo zio Benjen era sempre alle sue spalle, e lo sguardo di suo padre, sospeso su di loro con un misto di austera tenerezza ed emozione, scaldava loro le spalle.
Jon si sentì a casa, forse per la prima volta a Grande Inverno, attorniato da persone che lo amavano, anche se per molte di loro non sarebbe mai stato così.
Qualunque piano gli antichi dèi del Nord avessero serbato per loro, quella sera avrebbe atteso.
 
Fine flashback**************************************************************
 
Brandon Stark si svegliò fradicio di sudore nella notte gelida: aveva di nuovo sognato il corvo con tre occhi.
Estate sollevò l'enorme muso peloso dalle pellicce ai piedi del suo grande letto, e i suoi occhi gialli incontrarono quelli di Bran nell'oscurità.
Il cielo era così coperto di nubi che nemmeno la luce della luna gli permetteva di distinguere le sagome nel cortile di Grande Inverno, l'agitarsi delle fronde dell'albero-cuore nel parco degli dèi, i soldati di suo padre di vedetta sulle mura.
Qualcosa non andava. Tentò di aggrapparsi alle ultime immagini del suo sogno, ma ricordava solo vagamente sagome sfuocate, il sole che splendeva sul una spada di ghiaccio che gocciolava, e la sabbia, sabbia ovunque, negli occhi, in bocca, nelle orecchie. E ricordava Baelor il Benedetto, il suo sguardo amorevole su di lui, che lacrimava sangue.
Suo padre era morto.
Era impossibile accettarlo per Bran, crederlo, sopportarlo. Il dolore di perdere le gambe, perfino il dolore di cadere dalla torre, anche se non lo ricordava, era stato meno terribile di quello.
Eppure maestro Luwyn era stato chiaro quella mattina, quando Bran e Ocha, la donna dei bruti, erano sbucati dalla cripta degli Stark.
Bran e Rickon, entrambi, avevano sognato d'incontrare lord Eddard giù nella cripta, alla luce soffocata delle torce, solo la nuda pietra a stringerli nel suo freddo abbraccio, e lui era morto. Esattamente, inesorabilmente, come Bran aveva previsto.
Ed era terrificante.
Il meta-lupo strisciò sul letto, sistemando il muso nell'incavo della sua spalla, uggiolando
Lo so – sussurrò Bran sforzandosi di combattere contro le lacrime – mancano anche a me... - Estate non era più lo stesso senza i suoi fratelli, e nemmeno Bran. Da quando Spettro, Lady, Nymeria e Vento Grigio avevano lasciato Grande Inverno, la neve dell'estate sembrava più fredda, e le notti più lunghe. Estate e Cagnaccio ululavano senza sosta, risvegliando rabbiosamente gli abitanti del castello che rovesciavano in uno scroscio fradicio il contenuto del loro pitale, imprecando.
E Bran era ancora Lo Spezzato, immobile nel suo letto di pellicce, e doveva ancora chiamare Hodor ogni volta che voleva uscire, o semplicemente orinare. E nessuno dei suoi fratelli era lì.
Gli mancavano i battibecchi di Sansa e Arya, le ballate cavalleresche che sua sorella amava intonare passeggiando; gli mancavano perfino i litigi con Arya per chi dei due era un arciere migliore, in cui sua sorella, come sempre, aveva la meglio. Gli mancavano gli allenamenti nel cortile, con Robb e Jon che si prendevano gioco di lui, con gli sguardi attenti e inteneriti dei loro genitori che li osservavano dall'alto.
E gli mancava la lady sua madre, quel suo modo tutto speciale di chiamarlo “Brandon” quando lo coglieva con le mani nel sacco appena sceso dalle mura.
Gli mancava suo padre, la sua spada lunga a due mani con la quale lo aveva visto decapitare un uomo, con la tristezza negli occhi e la mano ferma. “Un pazzo vede ciò che crede di vedere”, gli aveva detto. E forse anche Bran era un pazzo, un folle che sognava il futuro.
Ma soprattutto, sopra ogni altra cosa, anche sopra il desiderio di scalare nuovamente le alte mura gibbose di Grande Inverno, gli mancava la sua famiglia, nella sua imperfezione, nei suoi battibecchi, negli sguardi severi, nei suoi tetri pomeriggi in cui il vento del Nord soffiava così forte da scoperchiare i tetti. Gli mancavano perfino le occhiate astiose di sua madre a Jon, e gli occhi di lui che cambiavano direzione.
Per gli dèi, gli mancava perfino Theon Greyjoy!
Estate strofinò il naso umido contro la sua guancia, e Bran sospirò
Hodor! - sussurrò, certo che il gigante dalla mente semplice non lo avrebbe sentito. Il meta-lupo lo sfiorò nuovamente, mugolando piano. Gli tirò delicatamente una manica della tunica di lana, prima piano, quasi per gioco, poi con insistenza – Estate, non posso venire fuori con te – gl'indicò le gambe immobili sotto le pellicce – sono “Spezzato”, non te lo ricordi? - il meta-lupo lo osservò con i suoi occhi dorati che sembravano capire, e tirò di nuovo.
Bran si aggrappò alle sbarre che mastro Mikken gli aveva costruito sopra il letto, e si tirò a sedere, lasciando che lo sguardo vagasse fuori dalla finestra che dava sulle colline nebbiose. L'oscurità gli restituì lo sguardo, impietosa.
Estate agguantò un lembo di stoffa più grande, e tirò finché la lana non sembrò strapparsi. E Bran cedette, allacciando le braccia attorno al collo dell'animale, mentre si lasciava cadere sulla sua schiena possente, come a cavallo. Non fu una salita facile, né lo sarebbe stata la discesa lungo la torre, ma il suo meta-lupo sentiva quello di cui aveva bisogno, e sembrava deciso a condurlo dove nemmeno Bran pareva conscio di voler andare.
Il parco degli dèi era buio e silenzioso come tutto il resto di Grande Inverno, ma nelle sue mute note l'albero cuore pareva cantare.
Bran rimase in silenzio, cullato dallo sciabordio dell'acqua sospinta dal vento e il ritmico pulsare del cuore di Estate sotto le sue mani, in attesa, ad occhi chiusi. Il tronco non parlò, non rispose alle sue silenziose preghiere, come non aveva risposto a quelle di sua madre, o di suo padre, o dei suoi fratelli disseminati nei Sette Regni, ma fu confortante sapere che in qualche modo gli antichi dèi potevano vedere ognuno di loro. Sansa e Arya ad Approdo del Re, Jon alla Barriera, sua madre e Robb sul Tridente.
L'albero-cuore sembrava cieco, ma Bran sapeva che il suo sguardo era ovunque. Suo padre glielo diceva sempre. Gli antichi dèi erano gli dèi di suo padre, e Bran li sentiva vicini più dei Sette Dèi del Sud, dei Tully, della capitale. Gli antichi dèi erano gli dèi degli Stark, della sua famiglia, dei suoi fratelli. Erano l'unica cosa che li teneva ancora insieme.
E allora Brandon Stark respirò la nebbia gelida del parco degli dèi, sotto gli occhi sempre chiusi dell'albero-cuore, fingendo di scorgere dall'alto delle mura Robb e Jon combattere con le spade dalla punta smussata, Arya e Sansa intente nel ricamo, e suo padre e sua madre, gli sguardi così differenti accesi di amore e orgoglio, che guardavano tutti loro dall'alto, l'uno accanto all'altra. Immaginò di poterli vedere, mentre Rickon e Cagnaccio si rincorrevano fra le gambe di mastro Mikken, facendo quasi incespicare maestro Luwin, e finendo a rotolare nel fienile, scatenando le ire del mastro dei cavalli.
Sorrise, permettendo a se stesso di annegare in quei ricordi, finché erano vividi e profumavano di realtà, prima che diventassero un altro sogno confuso che sarebbe svanito all'alba.
 
 
"Can a man still be brave if he's afraid?"
"That is the only time a man can be brave" 
 
 
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Angolo della delirante autrice: buonasera...eccomi qui con il mio per nulla pretenzioso o credibile nuovo lavoro^^
Questa volta incentrato sulla nascita di Bran e cosa questo ha portato nelle vite dei suoi fratelli...ovviamente non è esattamente il fulcro della vicenda, come avrete notato, ma mi sembrava comunque carino parlarne, non so perchè^^
Nuovamente mi scuso con chi troverà la storia OOC o poco curata, degna o in linea con la saga...io ci metto tutto il mio impegno, lo giuroXDXD
La canzone che ho inserito questa volta è Tempi Bui dei Ministri, che potete ascoltare qui
Mi sembrava adatta a descrivere lo stato d'animo di Jon, l'ho trovata sempre una soundtrack azzeccata per Jon, ma anche per Bran, la cui caduta e perdita delle gambe, nonchè la guerra in sè, ha portato a non riconoscere più se stesso come prima^^
Che dire...grazie per averla letta, ricordata, preferita o seguita, e soprattutto recensita finora, mi auguro che anche questo capitolo sia di vostro gradimento...a me ha gasato un sacco scriverlo^^

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Capitolo 3
*** Deathborn ***


Deathborn


 

“They can write a ballad about us.
A war for Cersei's cunt. ”
 
 
I festeggiamenti sembrarono non finire mai, e con essi le urla, i canti, le dispute per il vino e le puttane, le pisciate a pochi metri dai suoi piedi. E aveva già visto troppi cazzi penzolanti sui campi di battaglia, per sentire anche solo il lontano desiderio di vederne altri. La testa gli doleva selvaggiamente, il sangue secco fra i capelli e sul viso gli rendeva difficoltosi i movimenti, e la pietra che lady Stark aveva usato per colpirlo, gli aveva fatto crescere un bozzo sopra l'orecchio grande come una mela matura.
 
Nothin’ goes as planned.
Everything will break.
People say goodbye.
In their own special way.
 
Un soldato barcollante, dal naso adunco cosparso di foruncoli, si trascinò incespicando fino al limitare della foresta. Cucita sul petto la trota dei Tully sembrava saltare davvero, illuminata discontinuamente dalle luci delle torce infuocate. L'occhio ancora aperto di Jaime lo scrutò con una smorfia
“Ti cascasse il cazzo” lo freddò distogliendo lo sguardo dalle mani che armeggiavano tremolanti con i calzoni. Non è che fosse semplicemente una donnicciola schizzinosa. Era che avrebbe preferito una fica. La sua fica. La fica di sua sorella. Non era nemmeno bello da pensare, o cavalleresco, o romantico, ma aveva in mente solo Cersei da quando era partito da Approdo del Re per tagliare la coda al giovane lupo. E di rado, con Cersei, qualcosa era cavalleresco, o romantico. Di solito era qualcosa di veloce, strappato a qualsiasi momento stessero vivendo, pericoloso, sterile e dolorosamente eccitante. Doloroso fino allo spasimo, quasi come se i loro artigli di leone strappassero la carne dalle ossa, i muscoli dal cuore lacerando la pelle fino a vedere il sangue, e sentirlo scorrere fra le dita. Non gli venivano in mente immagini di tramonti infuocati o albe dorate, quando pensava a lei. Solo all'oscurità nella quale dovevano celarsi, all'odore del sesso e della colpa, mischiato al suo seme sulla pelle bianca di lei.
E gli sarebbe andato bene anche così, specialmente in quel momento, specialmente legato ad un tronco nel mezzo del nulla, con il respiro che si condensava in spesse nuvole bianca davanti alle sue labbra sanguinanti, con il cazzo di un maledetto Tully a sventolargli davanti al viso.
“Fottiti Sterminatore di Re” lo rimbeccò l'altro farfugliando. Ma Jaime Lannister non era tipo da scomporsi per una cosa del genere. Il cucciolo di lupo lo aveva sconfitto, umiliato, e preso prigioniero, il sangue rappreso gli faceva bruciare gli occhi, e probabilmente gli si stava allargando un buco in testa che lo avrebbe ucciso lentamente e dolorosamente, ma perché abbattersi? La notte era limpida e stellata, anche se gelida, e lui era ancora giovane e bello, per quanto non lo credesse possibile con tutte le ferite che aveva subito nel Bosco dei Sussurri. E Tywin Lannister lo avrebbe riscattato, a qualunque costo, perché lui era l'erede di Castel Granito, malgrado Jaime stesso avesse fatto tutto il possibile per trasformare qualcosa di immensamente naturale, come ereditare un titolo, in una battaglia all'ultimo sangue, uno scontro di volontà, un duello di resistenza e cocciutaggine fra un padre dispotico e un figlio testardo. In quel momento, legato come un maiale ad un tronco ruvido le cui schegge gli graffiavano il collo e la nuca, ereditare Castel Granito e i possedimenti dei Lannister non sembrò una così grave sconfitta a Jaime Lannister.
 
All that you rely on
And all that you can fake
Will leave you in the morning
But find you in the day
 
E Cersei, oh, Cersei avrebbe scatenato sui lupi e le trote tutto il suo esercito. Avrebbe lasciato un solo cavaliere per proteggere lei, Joffrey, Tommen e Myrcella, e avrebbe mandato il resto della guarnigione in quella bassa valle merdosa a sterminare chiunque fosse così folle da mettersi fra loro. Era sempre stato così, da che Jaime aveva memoria.
Si mosse piano, attento che la corda che gli scarnificava i polsi non si tendesse troppo, e cambiò posizione per sedare i crampi feroci alle cosce e ai polpacci.
Si chiese se il corvo con la notizia della sua cattura fosse già arrivato ad Approdo del Re, se Tyrion e Cersei avessero già fra le mani la prova tangibile della sua inettitudine. Suo fratello si sarebbe scolato una brocca di vino di Arbor, scagliandosi contro gli Stark, i Tully, la politica e la guerra, scopando qualche puttana tanto per rimarcare la sua obiezione. E la sua dolce sorella avrebbe affilato gli artigli di Lannister di cui era ampiamente dotata, e non solo in senso lato.
 
Flashback*******************************************
 
La musica aveva suonato, i guitti avevano messo in scena le loro farse da guitti, e gli invitati avevano riso e atteso che lord Tywin Lannister facesse lo stesso. Ma suo padre non aveva riso, limitandosi a torcersi le mani nell'attesa.
Ora il vino scorreva a fiumi, e la confusione riempiva ogni angolo del grande salone, mentre gli uomini, giovani, vecchi, barbuti o glabri che fossero, ridevano chiassosamente, sbattendo i grossi corni di birra sui tavoli, imprecando e colpendosi il ventre con grosse mani pelose, il viso paonazzo, e qualche servetta con il corpetto slacciato e le gonne sollevate seduta in grembo.
Jaime osservò gli stessi uomini fedeli a lord Tywin, compunti e fieri nelle loro armature scintillanti il giorno, trasformarsi in orsi sguaiati e paonazzi mentre facevano scivolare le dita nei corpetti delle donne dai capelli scompigliati.
Cersei ammiccò nella sua direzione, gli occhi di smeraldo accesi di malizioso divertimento: lei amava quelle immagini oscene, come amava le risatine delle fanciulle che si scioglievano dagli abbracci degli anziani per lasciarsi scivolare nelle tende dei più giovani, la notte, quando l'intero castello sembrava silenzioso. Era allora che accadeva: sua sorella sgattaiolava fuori dalla sua stanza, veloce e silenziosa come una leonessa, infilandosi in quella di Jaime, sotto le coperte di sfarzosa porpora che rivestivano il suo baldacchino. Si stringeva a lui e si avvolgeva attorno alle dita i capelli biondi identici ai propri, intrecciandoli indissolubilmente, finché l'alba non faceva la sua comparsa dietro le pesanti tende e filtrava debolmente, traslucida e tagliente, fra le pieghe del sonno. Allora Cersei svaniva, con quello stesso sorriso, fra le nebbie del sogno.
 
Oh you’re in my veins
And I cannot get you out
Oh you’re all I taste
At night inside of my mouth
 
Si voltò in una risatina, sgusciando fra gli invitati nelle sue ampie gonne verde smeraldo impreziosite da raffinati merletti di Myr. La loro balia diceva sempre che se sua sorella avesse indossato un farsetto e un paio di brache, e Jaime un vestito, nessuno, nemmeno il lord loro padre, li avrebbe distinti.
Allora sorriso di lei si era acceso di furbizia e divertimento. Il giorno dopo, le servette avevano trasportato un grosso baule di quercia nella sua stanza, e Jaime non aveva avuto dubbi sul suo contenuto.
La seguì, senza esitare nemmeno un istante, scivolando con altrettanta facilità fra le ombre oblunghe delle torce di Castel Granito, la fortezza che suo padre, orgogliosamente, gli aveva giurato sarebbe stata sua.
Ma a Jaime non importò nulla di Castel Granito, né del trono, se mai avesse potuto essere suo, ma solo dell'orlo del vestito di Cersei che si muoveva sinuosamente nel corridoio, a pochi metri da lui, allontanandosi e avvicinandosi nuovamente alla sua vista, vicino eppure inafferrabile.
 
Oh you run away
Cause I am not what you found
Oh you’re in my veins
And I cannot get you out
 
Incespicò in un gradino, e quasi cadde, artigliando la parete con le mani affusolate, sbattendo in un sostegno per le torce, quasi incendiandosi i lunghi boccoli biondi scompigliati per la corsa.
E la risata di Cersei che si perdeva nell'eco del silenzio, nel buio della notte, nel chiarore delle fiammele che rischiaravano i corridoi altrimenti scuri come la pece sui tetti delle case del popolino. Solo la sua voce lo guidava in quell'intricata sequela di corridoi senza nome, nel ventre stesso del castello.
Cersei si fermò improvvisamente, costringendolo ad arrestarsi di colpo per non sbatterle addosso, e lo afferrò per la manica del farsetto per trascinarlo dietro un angolo buio del corridoio. Si portò il dito davanti alle labbra, con lo stesso sorriso cospiratore che metteva su quando tramava qualche scherzo per la loro balia.
La fissò con aria interrogativa, mentre sua sorella gl'indicava con un cenno qualcosa che si muoveva nell'oscurità appena dietro l'angolo.
Jaime si sporse oltre il muro e li vide: due figure, un uomo e una donna, a giudicare dalle spalle larghe dell'uno e la linea esile dei fianchi dell'altra, erano addossate alla parete, e si muovevano ritmicamente, emettendo versi incomprensibili e ansiti smodati, afferrandosi l'un l'altra come se non conoscessero altro appiglio per restare vivi. Lei gemeva, invocando la Madre, il Guerriero, perfino lo Sconosciuto, e lui imprecava rudemente, con voce roca, grugnendo come un maiale. Fu uno spettacolo bieco e volgare, qualcosa che Jaime non avrebbe voluto vedere.
Ma Cersei sorrise, avvicinandosi a lui con l'indice sollevato, accarezzandogli gli zigomi pronunciati, l'unico dettaglio del loro aspetto che permetteva ad un occhio attento di distinguerli
“Sai cosa stanno facendo?” gli sussurrò all'orecchio soffiandovi dentro fiato caldo. Jaime lo sapeva; aveva sentito spesso le servette parlare di quando questo o l'altro soldato di suo padre entrava in loro facendole gemere e implorare. Il più delle volte ridevano, facendo strani gesti con le mani, avvicinando i pollice e l'indice con ridolini sconnessi, ma altre volte si perdevano con lo sguardo oltre il presente, come se la Fanciulla fosse scesa su di loro per concedere la sua benedizione.
Ma non aveva mai capito, fino a quel momento, cosa davvero volesse dire.
 
Everything will change.
Nothin’ stays the same.
 
Deglutì, annuendo, mentre sua sorella ridacchiava in quello stesso modo malizioso delle servette di Castel Granito. Gli avvicinò le labbra all'orecchio e sussurrò “Lo faremo anche noi, un giorno. Io sposerò un principe, e tu una lady di qualche terra lontana, e anche noi faremo l'amore” ma la rabbia montò cieca in lui a quell'immagine, il corpo di sua sorella nelle grinfie di un indegno maiale che le avrebbe sbuffato addosso mentre la faceva sua. Jaime Lannister non lo avrebbe permesso. Sarebbero rimasti insieme per sempre, come era destino, come la Madre aveva deciso, portandoli insieme nel grembo di lady Joanna.
Serrò la mandibola in un gesto automatico, così rabbioso da intaccare perfino la luce negli occhi di lei
“Mai” sibilò serrando le mani a pugno lungo i fianchi.
 
And nobody here’s perfect.
Oh but everyones to blame.
 
Fine flashback**********************************************************
 
 
Everyone who isn't us is an enemy
 
 
Lancel rotolò su un fianco, occupando l'intera lunghezza del letto a baldacchino con il suo esile corpo di adolescente. I capelli biondi gli ricadevano quasi ordinatamente sul viso arrossato, e la mano ossuta dalle unghie curate reggeva distrattamente il capo. I suoi occhi la stavano divorando, colmi di quella malizia ingenua che Cersei detestava. Non voleva che la guardasse in quel modo, sognante e innamorato. Non voleva che fosse giovane e inesperto. Non voleva che si invaghisse di lei, quando tutto quello che Cersei voleva era qualcuno dentro di sé, qualcuno che non le ricordasse gli orrori della vita matrimoniale con quel cinghiale borioso di Robert, che la facesse sentire una vera regina, qualcuno che fosse come Jaime. Ma Lancel, con i suoi baffi appena accennati sul labbro superiore e gli occhi grandi e perennemente spalancati di sorpresa, non aveva niente di lui. Nemmeno il cazzo.
 
All that you rely on
And all that you can save
Will leave you in the morning
And find you in the day
 
Si passò una mano fra i capelli biondi un po' aggrovigliati, lisciandoli con stizza. Il lembo bruciacchiato di pergamena giaceva ancora accartocciato a terra, raggrinzito e incartapecorito. Aveva provato una perversa soddisfazione quando la fiamma della candela aveva cominciato a divorarlo, a sciogliere l'inchiostro nero che gocciolava in rivoli opachi sulla carta che si consumava. Si era sentita libera e potente, come se fosse stata capace di bruciare così anche la verità che i corvi le avevano portato con sé dal Tridente. Ma quelle stesse parole la fissavano ora da quella pergamena annerita, ugualmente lapidarie, ugualmente vere, ugualmente inequivocabili.

“E' stata una disfatta. Robb Stark ci ha teso una trappola.
Ser Jaime è stato catturato”
 
Vergate con calligrafia incerta su quel maledetto foglio di pergamena, strappato e stropicciato innumerevoli volte, macchiato di sangue rappreso di un qualche soldato fortunato che non era Jaime, la canzonavano rilucendo debolmente alla luce delle candele che colorava la sua camera da letto di un caldo rosso rubino.
E Lancel continuava a fissarla, gli occhi verdi sfumati di venerazione e ammirazione, così diversi da quelli di suo fratello, che in quel momento l'avrebbero guardata appena dischiusi, costringendola con il silenzio a raggiungerlo per finire quello che avevano iniziato.
Si avvicinò al letto, lentamente, sinuosamente, conscia del potere e del controllo totale che esercitava sul ragazzo. Una sensazione così appagante, disse a se stessa mentre s'inginocchiava mollemente sul materasso, scostando una ciocca di capelli dalla fronte di Lancel. Questo lei amava, il potere, il controllo, la supremazia su qualcuno che si concedesse a lei completamente, disarmato come quando era venuto al mondo, affidando se stesso alle sue mani come creta da modellare.
Non era stato così con Jaime, che era così forte, e determinato, e testardo, anche quando Cersei s'illudeva di averlo in pugno. E Jaime era il figlio che Tywin voleva, l'unico che meritasse la sua considerazione, quando gli altri erano una storpiatura del mondo e una donna, che agli occhi del lord di Castel Granito non era un'onta meno grave dell'essere un nano.
Lasciò scivolare la veste a terra, beandosi per un attimo dello sguardo ammaliato di Lancel, e lottò contro quella fitta di tristezza al ventre che le rammentava Jaime, prigioniero, lontano mille leghe, ferito, sofferente, magari rinchiuso in una fredda cella da campo in balia degli elementi e del gelo del Nord.
Chiuse gli occhi, e quando li riaprì, suo fratello ricambiò il suo sguardo, follemente bello e sornione, nel suo sorriso gemello.
 
Flashback***********************************************************
 
L'avevano fatto ancora. Scambiarsi le vesti era uno dei suoi giochi preferiti. Jaime rideva, guardandola spogliarsi e infilare le sue membra longilinee nei calzoni da caccia che le piaceva indossare, ma non amava quel gioco quanto Cersei. Ovvio, perché essere lei non era divertente come essere se stesso. Non agli occhi di lord Tywin Lannister.
Suo fratello aggrottò le sopracciglia quando gli mostrò l'abito che avrebbe dovuto indossare quel giorno; non era un amante dei pizzi di Myr, o dei merletti. E Cersei lo sapeva. Osservare il corpo di lui strizzato dentro i suoi abiti le dava un perverso brivido di piacere, una sensazione che, come le altre, si perdeva rapidamente nell'entusiasmo della sua giovane età.
Ma non quella sera, quella sera lady Joanna stava dando alla luce un bambino, e il castello era in acceso fermento, un turbinare di servette al lavoro, septon che ciondolavano a benedire ogni cosa con i loro più disparati accenti, maestri della Cittadella che si trascinavano con le loro catene di metalli al collo con assoluta e pacata lentezza, quasi lottando contro il respiro febbrile di quella notte a Castel Granito.
Solo suo padre, l'uomo che non aveva mai riso, restava immobile dinnanzi alla camera della moglie, le mani strette a pugno sulle ginocchia, immobile. Solo un uomo come lui avrebbe potuto trasformare l'ansia e l'emozione di diventare nuovamente padre in una sferzante e minacciosa immobilità.
Jaime sbuffò
“Questi merletti mi fanno grattare sorella” borbottò lamentoso “dovevi scegliere proprio questo vestito 'stasera?”
Camminavano l'uno affianco all'altra, i passi che echeggiavano nella vivace attesa, scivolando fra i servi e gli stallieri, i fabbri, le cuoche e i mendicanti che si affannavano davanti alle porte nell'attesa che la buona novella riempisse i cuori di gioia e le loro tasche di conio.
Non conoscevano a sufficienza lord Tywin per sapere che nemmeno la gioia più grande della sua vita, la nascita di Jaime, aveva aperto le sue tasche dorate a straccioni e accattoni. Probabilmente, nemmeno diventare re dei Sette Regni lo avrebbe permesso.
Colpì la mano di lui ancora intenta a stropicciare i suoi preziosi merletti, e lo condusse lungo un corridoio scuro, stretto e impolverato, uno di quei passaggi che non usava più nessuno se non qualche servetta in amore con lo spasimante del giorno. Qui e là, nella semioscurità del pavimento trasandato, qualche straccio o una scopa di saggina interrompevano per un attimo la loro corsa, facendoli trasalire.
Cersei risalì una scala di pietra dai gradini ricoperti di polvere e lerciume, soddisfatta dei suoi stivali di cuoio che si muovevano agilmente negli anfratti di quello strano passaggio segreto.
Jaime si teneva a poca distanza, ma sembrava molto meno a suo agio, goffo com'era nelle ampie gonne color porpora dei Lannister. Sbuffava e imprecava quando gli orli si sfilacciavano urtando contro gli spigoli celati dall'oscurità, o la delicata pelle delle braccia si graffiava contro le protuberanze del legno dei camminatoi.
Alla fine, quando anche Cersei cominciava a sentire il peso di quella corsa notturna, la luce soffusa dell'anticamera della stanza che lord Tywin e lady Joanna condividevano da anni, illuminò debolmente il cammino davanti a loro, attraverso una crepa nel legno della paratia di quercia lucidata che fungeva da parete.
Suo padre era ancora immobile, seduto su uno sgabello dalle gambe che terminavano in zampe di leone, e stringeva i pugni chiusi sulle ginocchia con sempre crescente decisione. L'unica traccia del suo stato d'animo era la gamba destra che dondolava debolmente, di quando in quando, se la tensione raggiungeva il massimo del sopportabile. Le urla della lady sua madre, però, spezzavano perfino il rigido silenzio di lord Tywin.
Jaime le si accostò, cingendola delicatamente per la vita, sporgendosi oltre la sua spalla per osservare il padre
“Sembra una statua” osservò con un fil di voce che la stessa Cersei faticò a cogliere. Il viso del padre era terreo e quasi intagliato nel marmo, con le palpebre semichiuse che non sbattevano mai, e le labbra serrate in un tagliola mortalmente sigillata.
L'ennesimo urlo, coronato da qualcosa che si frantumava a terra cadendo in un tintinnare di cocci mortali, sembrò scavare nel viso di lord Tywin un'ultima ruga profonda, che gli solcava le sopracciglia bionde in mezzo agli occhi, fino al naso diritto, quasi sfiorando le labbra sottili.
Il maestro uscì dalla camera claudicando vistosamente, e il lord suo padre gli lanciò un'occhiata obliqua; non era un uomo che tollerava la debolezza, e anche nella vecchiaia sarebbe stato eretto e poderoso come un cavaliere. Sempre, qualunque cosa fosse accaduto. Questo aveva sempre pensato Cersei di lord Tywin Lannister. Ma l'uomo che aveva di fronte in quel momento, sembrò frantumarsi sotto i suoi occhi come una scultura di ghiaccio colpita da una mazza ferrata.
Il maestro sussurrò qualcosa, debolmente, come se non avesse la forza di parlare, poi s'interruppe per un lungo momento, mentre il pallido viso dell'altro sbancava pericolosamente
“Ma il...bambino è sopravvissuto” un maschio, pensò brevemente Cersei, un altro maschio a cui somministrare onori e glorie, un altro maschio al quale donare terre e possedimenti, al quale dare in sposa una fanciulla vergine di poco più che dodici anni da ingravidare fino allo sfinimento a malapena guardandola negli occhi.
 
Everything is dark.
It’s more than you can take.
 
Cersei avrebbe pianto, se suo padre non fosse stato così sconvolto. Avrebbe pianto se avesse pensato alle parole del maestro, a quel “ma” che solo dopo avrebbe compreso con tutta la sua devastante disperazione.
Lord Tywin si riscosse per un attimo dal suo addolorato torpore
“Un maschio? Gli dèi sanno essere crudeli” sussurrò debolmente.
Il maestro scosse la testa calva ricoperta di macchie scure
“Lo sono mio lord” bisbigliò con voce querula “e spesso ci mettono alla prova con le loro scelte. Ma questo non vuol dire che non abbiano un percorso per ognuno di noi, nella loro immensa onnipotenza” quelle parole odoravano di preamboli ad un discorso che, di certo, non sarebbe piaciuto a suo padre.
Jaime si agitava alle sue spalle, spostando il peso da una gamba all'altra, in attesa.
Cersei osservò lord Tywin ricacciare indietro ogni emozione, ogni fragilità e ogni incertezza, ergendosi in tutta la sua gloriosa figura
“E sia allora...mostratemi mio figlio” il maestro della Cittadella si mosse piano verso la stanza, come se non desiderasse altro che poter disobbedire a quella richiesta. I suoi occhi acquosi di un colore indefinibile fra il grigio e l'azzurro sembravano persi in un orizzonte di disperazione e morte. Cersei rabbrividì, e sentì Jaime fare lo stesso
“Perché nostro padre è così provato?” domandò Jaime facendo scorrere la mano sulle spalle di lei.
“E' successo qualcosa. E quello stupido maestro inetto non è stato nemmeno capace di dire cosa...” ribatté lei con la rabbia che le increspava i boccoli biondi.
Pochi attimi dopo, ogni risposta alle domande che non avrebbero mai voluto pronunciare arrivò, fra le braccia tremolanti e incerte del fragile maestro.
Lord Tywin si avvicinò al fagotto che l'altro stringeva fra le braccia, scostando la coperta. I suoi verdi occhi di leone si fecero bianchi, giganteschi e opachi, prima di chiudersi lentamente, sofferenti
“Dunque, mi rimane solo Jaime” sussurrò “mio figlio, la mia ultima speranza” Cersei serrò i pugni lungo i calzoni da caccia di stoffa morbida.
“Lady Joanna...lei...non so quanto resterà sveglia...mio lord...desidera vedervi” Tywin Lannister non posò una sola volta di troppo lo sguardo sul piccolo che vagiva piano. Non lo guardò, né lo tocco, né diede segno di averlo mai visto, se non per quello sguardo vitreo che sembrava averlo inghiottito.
Oltrepassò il querulo maestro e scomparve dietro la pesante porta laccata della sua camera da letto. Tutta l'allegra confusione, l'attesa, il giubilo e la gioviale atmosfera di quella notte sembravano essere state risucchiate in un vortice di cupa disperazione.
Quando l'uomo si voltò per seguirlo, il bagliore di una torcia illuminò il viso dell'ultimo nato di casa Lannister. Per poco Cersei non si fece scoprire, soffocando un grido sulla spalla di Jaime.
 
Fine flashback*********************************************
 
Poche ore dopo sua madre era morta, spegnendosi lentamente in un sonno indolore al sapore di papavero, e Cersei aveva visto suo padre morire con lei in un lento declino di pene e solitudine. Lord Tywin non aveva mai dato cenno di cedimento, ma qualcosa nei suoi occhi verdi era rimasto opaco, spento, come il sole schermato da una lastra di vetro ondulato.
E Tyrion, orribile e deforme nel suo corpo di neonato, aveva trascorso le sue prime ore di vita nella camera da letto di sua madre che si spegneva a poco a poco, attraversato dagli sguardi di un padre che lo disprezzava e di una corte che rideva di lui.
Ma mai, mai, nessuno, avrebbe potuto disprezzarlo quanto lei. Cersei, che pur nella sua eterea bellezza e forza di carattere, era quasi considerata meno di uno zotico nano ubriacone con la passione per le puttane da soldati.
Tywin si vergognava di quel suo figlio deforme dalla lingua lunga e il cazzo sempre duro, ma almeno non era una figlia.
E ora Jaime, era prigioniero degli Stark e dei Tully, e rischiava la morte. E a suo padre restavano il figlio nano e la figlia donna.
Un ghigno di perversa soddisfazione si disegnò sulle sue labbra.
Lancel si mosse nel sonno, sfiorandole un seno. Cersei chiuse gli occhi e pensò a Jaime, scivolando in un oblio agitato e informe, divorata da nani deformi e lupi affamati, dimenticata e inerme, sotto gli occhi vacui e delusi di suo padre scuoteva la testa e sussurrava un debole “Mi rimane solo Jaime”.
 
Oh you’re in my veins
And I cannot get you out
(In My Veins, Andrew Belle)
 
***
 
“Hanno mio figlio!” lord Tywin Lannister aveva raffreddato ogni fiamma di temerarietà negli occhi dei suoi uomini. La sua voce tonante era scoppiata rabbiosamente fra le chiacchiere da gradassi dei vassalli di Castel Granito, affossando la presunzione tanto quanto la preoccupazione come un inesorabile fulmine. I Baratheon, gli Stark, Joffrey, la guerra, perfino la possibilità di essere schiacciati dall'attacco incrociato di Renly e Stannis erano diventati ombre di fronte alla notizia che Jaime era stato preso prigioniero al Bosco dei Sussurrri.
Tyrion era terrorizzato all'idea di non rivedere mai più suo fratello, l'unico Lannister a non vedere in lui solo la storpiatura di un uomo, ed era furioso, con Jaime, per essersi lasciato sorprendere come uno scudiero alle prime armi dal cucciolo di lupo, e con quella marmaglia di vecchi ufficiali, perchè non riuscivano a vedere altro che la possibilità di compiacere il loro lord blaterando senza sosta su quello che loro già sapevano. La merda li stava ricoprendo. E lui era decisamente quello che sarebbe stato sommerso per primo, quindi che la smettessero di ciarlare sulle strategie e le trattative, e cominciassero a prendere in mano i loro cazzi mosci per fare di quell'incontro un piano d'azione.
Ma il silenzio che seguì fu più pregno di significato di ogni possibile parola uscita dalle bocche sporche della merda d'oro di lord Tywin.
E fu chiaro per tutti che “suo figlio”, l'unico che riconoscesse di avere almeno, era la priorità. Li squadrò con un gelido sguardo di perentoria disapprovazione, e la sua voce si spandette nell'aria come un affondo di lama di acciaio di Valyria: fulminea e letale.
“Fuori, tutti quanti” come sempre, quando lord Tywin Lannister dava un ordine, gli altri obbedivano. Non importava che si trattasse dei suoi vassalli, dei suoi figli, o dei suoi servi. Non importava nemmeno che fosse il re stesso a doversi sottomettere alla sua saggezza ed esperienza; non era chi sedeva sul Trono di Spade ad avere in pungo i Sette Regni, ma chi possedeva l'oro. E suo padre cagava oro, secondo le voci del popolino.
Ma non era solo questa l'arma del signore di Castel Granito. Perfino nella sua follia, Areys Targaryen aveva avuto ragione su una cosa: temerlo. Suo padre sapeva essere spietato e pericoloso, ma non aveva mai preso una decisione dettata da un organo al di sotto del collo. Razionalità, perspicacia, istinto, niente a che vedere con le passioni, e meno che mai con i sentimenti. A chi dare in sposa Cersei, a chi destinare il proprio titolo, chi tollerare nella propria vita malgrado ignobili deformità e ancor più deprecabili vizi. Non erano amore, affetto, o pulsioni, argomenti che a Tyrion erano più familiari del sorriso di suo padre. No, lord Tywin Lannister governava ogni cosa, compreso se stesso, con il severo pugno di ferro della raggelante razionalità.
Abbassò lo sguardo, mentre i generali sciamavano velocemente fuori dalla tenda, lasciando il loro signore a riflettere da solo, nel silenzio, sul destino dell'unico dei suoi figli degno di essere chiamato tale.
E Tyrion si lasciò cadere giù dallo sgabello di legno sul quale era salito faticosamente, e si preparò a seguire gli altri, ignorato e allontanato, indegno di condividere il dolore di suo padre e, meno che mai i suoi piani.
Ma quel giorno Tywin Lannister non sembrava lo stesso uomo che lui aveva sempre conosciuto. Quel giorno suo padre aveva appena perso suo figlio, e sembrava anche disposto a riconoscere di averne un altro pur di riportarlo a casa.
“Non tu” dichiarò, mentre Tyrion si voltava verso quel padre che non lo conosceva, né aveva mai desiderato conoscerlo, il padre che aveva punito la presenza di amore in lui facendo fottere la donna che amava da tutto il suo esercito, giusto per rammentargli che un essere come Tyrion, obbrobrioso e deforme, non poteva sperare in altro che in una baldracca che fingesse di amarlo.
E gli sembrò di trovarsi nuovamente al suo cospetto come quando era bambino, con lo sguardo di vetro dell'altro che si soffermava con un impeto di odio sulle sue gambette troppo corte o sulla sua testa troppo grande. Suo padre lo avrebbe tollerato, si sarebbe sforzato di farlo perché era giusto, ma mai e poi mai lo avrebbe amato.
 
Flashback*******************************************************
 
“Sei stato bravo ser Tyrion” il maestro gli sorrise con fare soddisfatto “il lord tuo padre sarà molto fiero di te” sapeva che i suoi occhi si stavano illuminando, lo facevano sempre quando riusciva a risolvere un complesso enigma, o quando ricordava improvvisamente il nome del capostipite di quella o l'altra casata dei Sette Regni. Ma l'idea che suo padre sarebbe stato fiero di lui era decisamente lontana dalla realtà. Lord Tywin lo avrebbe a malapena degnato di uno sguardo, magari avrebbe emesso qualche verso stizzito per fargli capire che aveva di meglio da fare che ascoltare le sue insulse citazioni di alberi genealogici o i racconti delle centinaia di cose che ricordava di aver letto, e che tanto lo appassionavano.
Fosse stato per lui, Tyrion avrebbe potuto rimanere rinchiuso per tutta la vita in una torre, e non sarebbe cambiato niente. Anzi, magari ne sarebbe stato anche lieto.
Ma tentò comunque di ottenere una volta per tutte quella scintilla, un vago cenno di approvazione da parte del suo marmoreo genitore.
Corse fino al suo solarium, certo che lo avrebbe trovato lì, intento a conversare di guerra, di conio e di re con suo zio Kevan.
Quando giunse in prossimità della porta riccamente intarsiata, la tonante voce di Tywin sovrastò per un attimo i suoi stessi pensieri
“Le dannate Cappe Bianche!” urlò lord Tywin.
Tyrion si sporse nello spiraglio di luce della porta semiaperta.
Suo padre aveva rovesciato con un pugno il calice di vino che stava sorseggiando
“Fratello” tentava di calmarlo Kevan, le palme delle mani aperte in un vago tentativo di pacificazione
“Mio figlio, il mio erede, nella Guardia Reale! Aerys è davvero andato oltre questa volta...Jaime” i suoi occhi verdi lanciarono fiamme di smeraldo, mentre la luce del sole d'estate disegnava giochi pirotecnici con la polvere che si sollevava dal sontuoso mobilio
“Tyrion è...” Tywin sollevò lo sguardo sul fratello, corrugando le sopracciglia
“Tyrion? Il mio erede? Il vino ti ha dato alla testa fratello? Un nano dalla testa grossa l'erede di Castel Granito? Potrei nominare lord il guitto di corte, tanto per essere sicuro di fare una figura meschina” suo padre si prese la testa fra le mani, rabbiosamente “Ho un solo figlio, e quel figlio ha deciso di disonorarmi sputando sul suo titolo e sul suo nome, diventando il galoppino di un re pazzo e dei suoi piromanti!”
Il cuore di Tyrion perse un battito al suono di quelle parole. Lui era lì, pronto a dimostrare un'altra volta al lord di Castel Granito di essere degno del suo rispetto e del suo affetto, e suo padre rimaneva lontano, a denigrarlo di fronte al suo stesso fratello, come un essere senza importanza, frutto di un incontro sbagliato fra il suo seme e la fica di sua madre. Si pentì per quel pensiero.
Non aveva il diritto di pensare a sua madre, di parlare di lei, di ricordarla. Tyrion non poteva ricordarla: lei era morta quando era appena nato. Era morta perché lui l'aveva uccisa, squarciandole il ventre con la sua enorme testa deforme. Questo gli diceva sempre Cersei, quando osava nominare lady Joanna nei loro battibecchi, quando le rinfacciava che sua madre lo avrebbe amato, e protetto dalle sue angherie. Sua sorella rideva, e il suo petto florido che già causava duelli ad Approdo del Re, si alzava e si abbassava crudelmente, e Cersei gli ricordava chi, o meglio, cosa lui fosse, con quello sguardo di detestabile orrore sul viso angelico e perfetto.
Kevan Lannister scosse la testa
“No, Tyrion è...qui fuori che ci ascolta” disse semplicemente, cupamente, per nulla desideroso di assistere a quello che sarebbe accaduto pochi attimi dopo.
Tywin sollevò il capo dalle mani chiuse a coppa, e si voltò verso di lui, lo sguardo intaccato da qualcosa che somigliava vagamente al senso di colpa. Durò solo un attimo, perché la sua marmorea espressione di distratta noia gli paralizzò nuovamente il viso
“Figlio” il volto di Tyrion s'indurì e i suoi occhi nella testa troppo grande si serrarono
“Padre” lo disse senza provare niente, come se tutto il dolore che credeva lo avrebbe sommerso si fosse ritirato dentro di lui, da qualche parte nel suo piccolo corpo, e non desiderasse più esplodere come altofuoco. Abbassò il capo brevemente, in segno di rispetto “zio” ser Kevan lo guardò senza vederlo, deglutendo “ero qui per dirvi che il maestro è molto fiero dei miei progressi, e pensa che potrei imparare di più se” ma lord Tywin lo congedò con un frettoloso gesto della mano
“Fa' quello che devi, ho altro a cui pensare”
“Certo, vostro figlio ha deciso di mettere molte leghe fra voi” un lampo di perversa soddisfazione illuminò i suoi occhi, malgrado tutto, di Lannister “solo i Sette Dèi sanno perchè” si voltò e se ne andò, le sue gambe troppo corte, la sua testa troppo grande, il suo cuore troppo pesante.
 
Fine flashback*******************************************************
 
“Perchè io?” non capiva, non riusciva davvero a capire perché suo padre avesse deciso di rispedirlo ad Approdo del Re in sua vece.
Non gli avrebbe affidato nemmeno la cura dell'orto, brutto e vizioso com'era, figurarsi di un intero regno.
Ma lord Tywin non era famoso per dar spiegazioni, o fingere di volerne dare. Era un ordine, di quelli che gli era probabilmente costato caro impartire, e Tyrion poteva solo sforzarsi di domandare, nella speranza di ricevere.
“Sei mio figlio” ribatté suo padre semplicemente, senza battere le ciglia, senza dare segno di attribuire un qualsiasi significato a quelle parole. Era suo figlio, frutto del suo seme, un semplice dato di fatto, niente a che vedere con l'amore, l'affetto, o l'orgoglio.
Tyrion era l'unico che potesse recarsi ad Approdo del Re a svolgere le funzioni di suo padre, mentre lord Tywin impiegava ogni sua energia per salvare suo figlio.
Il Folletto annuì, certo che, se ci fosse stato lui fra le mani degli Stark, lord Tywin non si sarebbe sprecato nemmeno a svuotare il pitale pieno della sua merda d'oro parlando di come lo avrebbe riportato a casa. Se, che gli dèi non volessero, ne avesse parlato.
 
“Anyway, don't despair, I'm a constant disappointment to
my own father, and I've learned to live with it”

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Angolo della delirante autrice: non è stato facile scrivere questa OS...ammetto che non amo Cersei, e trovo Tyrion troppo meravigliosamente scritto e interpretato per essere all'altezza di poterlo riprodurre fedelmente...spero di non aver esagerato con nessuno di loro, e spero di aver fatto un lavoro mediamente degno nel caratterizzarli^^
La canzone, se vi incuriosisce, potete trovarla qui.
Fatemi sapere che ne pensate, è una cosa a cui tengo molto, e avere almeno una vaga idea dell'effetto che ha sugli altri non sarebbe male^^
Grazie a chi ha deciso di seguire, leggere, preferire, ricordare e recensire questa Serie di OS...siete fantastici, tutti quanti!

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